il manifesto, 21 gennaio 2017 (c.m.c.)
Rottamazione dello Stato, eliminazione delle ferrovie secondarie, mancanza di regole: ecco i complici dei disastri nell'Italia più fragile. L'intervista di Davide Vecchi a Valdo Spini e gli articoli di Antonello Caporale e Andrea Gianbartolomei. Il Fatto quotidiano, 21 gennaio 2017
VALDO SPINI:
«DAI FORESTALI ALLE PROVINCE: TROPPISBAGLI»
intervista di Davide Vecchi"
Ferrovie I locomotori viaggiavano comunque ma l’Italia ha eliminato le linee secondarie
Come ha potuto accadere che gli uomini, e non la natura o l'ira divina, abbiano distrutto un complesso edilizio e travolto una trentina di persone, uccidendone alcune. Articoli di Peppe Caridi e Federico de Wolanski, Meteoweb online e la Nuova Venezia, 19 e 21 gennaio 2017, con postilla
Meteoweb online, 19 gennaio 2017
LA SCONVOLGENTE VERITÀ:
“STRUTTURA ABUSIVA,
LÌ NON SI DOVEVA COSTRUIRE”
a cura di Peppe Caridi
Iniziamo subito chiarendo le cose: la catastrofe dell’Hotel “Rigopiano”, dove sono già stati recuperati tre cadaveri e risultano ancora disperse circa 30 persone, non è stata provocata dal terremoto. Le scosse che ieri hanno colpito la zona di Campotosto, Montereale e Capitigliano si sono verificate molte ore prima rispetto alla valanga, e in una zona molto distante dall’Hotel Rigopiano, al confine tra l’Abruzzo e il Lazio, in provincia di L’Aquila, mentre l’Hotel Rigopiano sorge a monte di Penne, in provincia di Pescara, sul versante Adriatico dell’Abruzzo. Non conosciamo ancora con precisione l’orario della valanga, ma sappiamo che il primo SMS con la richiesta di soccorso risale alle 17:40 di Mercoledì pomeriggio. Verosimilmente la valanga si era appena verificata, comunque dopo le 17:15/17:20. Le scosse di terremoto, invece, si erano verificate al mattino, la più forte di magnitudo 5.5 alle 11:14, poi quella di magnitudo 5.4 alle 11:25, infine l’ultima di elevata intensità (magnitudo 5.1) alle 14:33, circa tre ore prima della valanga-killer. E’ già difficile immaginare che un terremoto di questa magnitudo (forte, ma non fortissimo) possa innescare una valanga, ancor più improbabile che possa farlo a così tanti chilometri di distanza dall’epicentro. Scientificamente impossibile che ciò accada con svariate ore di ritardo. Invece valanghe di questo tipo rientrano nella relativa “normalità” di grandi nevicate come quelle delle ultime ore sull’Appennino.
A spiegare bene quanto accaduto è stato il geologo Gian Gabriele Ori, dell’università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti: l’hotel Rigopiano è stato investito da “un’enorme colata di detriti, un un fenomeno raro, che ha acquisito forza e velocità notevoli sotto la pressione della neve abbondante, dalla debolezza del terreno. Il terremoto lo ha innescato, come una miccia“. La forza della colata di detriti e’ stata tale da travolgere anche il bosco che si trovava dietro l’hotel. “Di solito – ha osservato l’esperto – i boschi resistono a slavine e valanghe“, ma quello che ha travolto l’hotel è stato qualcosa di molto più violento. Sotto la pressione di almeno tre metri di neve, accumulata nei giorni scorsi anche a causa del vento, il terreno indebolito dalle piogge ha ceduto e ha cominciato a scivolare portando con se’ rocce e detriti. “Il terremoto – ha osservato Ori – potrebbe essere stata solo la miccia che ha innescato il fenomeno“, anche se al momento non ci sono elementi per stabilire se una delle scosse avvenute al mattino possa avere un minimo collegamento con il disastro. “Probabilmente tutto è iniziato come una slavina“, ossia con il distacco di una massa di neve, che cadendo ha raccolto rocce e alberi, cominciando a scorrere su una superficie debole. Ad aumentare progressivamente la velocità ha contribuito la neve, che ha agito come un lubrificante. “In questo modo – ha spiegato ancora Ori – la slavina si e’ caricata di roccia, trasformandosi in un enorme flusso di detriti che, a grande velocità, ha travolto il bosco e poi l’albergo con una potenza distruttiva“.
I soccorritori che sono arrivati all’hotel Ricopiano hanno spiegato che “la situazione è drammatica, l’albergo è stato spazzato via, è rimasto in piedi solo un pezzetto. Ci sono tonnellate di neve, alberi sradicati e detriti che hanno sommerso l’area dove si trovava l’albergo. Ci sono materassi trascinati a centinaia di metri da quella che era la struttura“, ha riferito Luca Cari, responsabile della comunicazione in emergenza dei vigili del fuoco.
La valanga sull’Hotel “Rigopiano”, come tante altre valanghe che nelle ultime 48 ore stanno interessando l’Appennino centrale tra Marche, Abruzzo e Molise, è provocata dalle eccezionali nevicate che da giorni stanno colpendo l’Italia centro/meridionale, con accumuli di svariati metri (in alcune zone di montagna sono stati superati i 4 metri di neve). Ma in altre zone le valanghe non hanno colpito direttamente una struttura con persone dentro. Non è una novità delle grandi nevicate Appenniniche: in queste zone le grosse valanghe sono provocate proprio dall’emergenza neve, nella stessa zona dell’Hotel “Rigopiano”, storicamente denominata “Bocca di Lupo“, nel 1936 c’era stata un’analoga rovinosa valanga. Osservando le immagini orografiche della zona, possiamo notare come l’albergo sia stato costruito proprio a valle di un grande canalone di montagna, che si restringe pericolosamente proprio in prossimità della struttura. In questa situazione, un’eventuale valanga nel canalone diventa devastante perchè aumenta di energia e velocità proprio a ridosso della struttura. Esperti e geologi stanno già descrivendo questa situazione di estremo pericolo, parlando di “abuso edilizio” e sostenendo senza mezzi termini che “in quella zona non si doveva costruire“.
In effetti la storia dell’Hotel “Rigopiano” è caratterizzata da un processo per corruzione, che però si è concluso con l’assoluzione di tutti gli imputati “perchè il fatto non sussiste“. Era stato il pm di Pescara Gennaro Varone nel 2008 ad aprire un’inchiesta sulla base delle intercettazioni telefoniche dell’indagine “Vestina“, ipotizzando il reato di corruzione per 7 persone. L’ipotesi accusatoria era di mazzette e posti di lavoro in cambio di un voto favorevole per sanare l’occupazione abusiva di suolo pubblico, relativamente all’ampliamento della struttura (che in origine era un vecchio casolare di montagna), per la realizzazione di un hotel a quattro stelle. L’Hotel Rigopiano aprì i battenti nel 1972 ma proprio nel 2007 assunse una veste completamente nuova, ristrutturato e dotato di tutti i confort, tra cui centro benessere e piscina.
In base a quanto riportano numerosi articoli dei giornali locali, secondo l’accusa, l’amministrazione comunale aveva votato a favore della delibera finalizzata a “sanare l’occupazione abusiva di suolo pubblico da parte della società Del Rosso“, in una zona fino ad allora adibita a pascolo del bestiame e compresa in un’area naturalistica protetta. Secondo le carte della Procura, “l’autorizzazione a sanatoria si basava sul presupposto che detta occupazione non costituisse abuso edilizio per mancata, definitiva trasformazione del suolo“. Ma secondo l’accusa, gli amministratori locali in cambio della delibera avrebbero incassato la “promessa di un versamento di denaro destinato al finanziamento del partito” di appartenenza (il Pd) e, in particolare, il secondo avrebbe ottenuto “il pagamento di 26.250 euro” che, dice ancora l’accusa, andava ad “adempimento parziale di un debito pregresso ma inquadrabile nel rapporto corruttivo“.
Il pm sosteneva anche che come merce di scambio per quella delibera favorevole, i consiglieri e gli assessori del tempo avessero ottenuto dai titolare della società anche “assunzioni preferenziali per i propri protetti“. L’ex sindaco di Farindola nel corso del processo ha sempre respinto l’accusa di corruzione, ottenendo ragione dal giudice che lo scorso novembre ha emesso la sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste“. Il processo, iniziato nel 2013, si è concluso nel 2016 e il reato era comunque prescritto già dallo scorso mese di aprile, quindi questa sentenza non potrà essere appellata. Le motivazioni della sentenza non sono state ancora depositate. Ma adesso è probabile che nuove inchieste possano essere aperte per fare luce sull’accaduto.
A prescindere dalla vicenda giudiziaria, se davvero vogliamo fare prevenzione dobbiamo conoscere bene il nostro territorio e i suoi rischi. Come per i terremoti, dove a uccidere sono le costruzioni che non vengono realizzate rispettando i criteri antisismici, anche per frane, alluvioni e valanghe non è mai corretto parlare di “natura assassina” o fandonie simili. A uccidere è l’incoscienza umana. E quell’albergo, a valle di un canalone così pericoloso in una zona esposta a grandi nevicate e da sempre soggetta a pericolose valanghe, non doveva essere costruito. Non lì. Oggi paghiamo semplicemente le conseguenze delle nostre assurdità.
La Nuova Venezia, 21 gennaio 2017
IL RESORT DELLA TRAGEDIA
DI UNA SOCIETÀ TREVIGIANA
di Federico de Wolanski
Treviso. Prima di diventare un resort di lusso tra le montagne, l’hotel Rigopiano era un bellissimo casale di montagna, ma molto meno redditizio. La trasformazione finì sotto la lente d’ingradimento della procura che aprì un’indagine su un presunto abuso edilizio sanato grazie a favori economici, ma divenne anche l’occasione per un grande affare: sia in termini turistici che finanziari. A cogliere l’opportunità al volo è stata la società trevigiana A-Leasing, intermediario finanziario con capitale sociale nell’ordine delle decine di milioni di euro e oggi proprietario dell’immobile con una sua controllata, la A-Realestate. La società aveva sede lungo il Terraglio, proprio all’ingresso di Treviso, ora si è spostata nella Cittadella delle Istituzioni. Nel giardino della villetta riorganizzata a centro direzionale faceva bella mostra lo stemma giallo e nero della banca Raiffeissen, il gruppo svizzero diffusissimo in Austria che fa da scudo economico all’attività di A-leasing: offrire e gestire locazioni finanziarie in tutta Italia.
Una di queste era l’hotel Rigopiano di Farindola, una delle 70 proprietà di A-Leasing nella provincia di Pescara. “Era” perché il resort è stato sventrato dalla valanga, ma anche perché negli ultimi anni l’edificio era stato passato nei registri della società controllata – sede in via della Mostra a Bolzano – che si occupa di vendere gli immobili non più in leasing. L’alienazione pare fosse stata già avviata, l’avevano benedetta i tanti membri del consiglio di amministrazione che conta commercialisti e imprenditori austriaci, trevigiani come Sandro Casellato (già in Fortis), Francesco De Momi e Ivan Montagner, i coneglianesi Nicola De Zottis e Ivan Boscariol, ma anche un padovano (Matteo Marcon) e un professionista di Mantova, Matteo Artioli. «Al momento siamo a conoscenza dei soli fatti riportati dalle cronache» hanno commentato ieri i responsabili della A-Realestate, «non disponiamo di ulteriori informazioni.
postilla
Abbiamo scelto due soli articoli tra i numerosissimi che hanno raccontato la tragedia del resort Rigopiano a Farindola. Il primo descrive minuziosamente le ragioni per cui la responsabilità non va attribuita agli eventi, ma agli uomini, che mai avrebbero dovuto scegliere quel sito per trasformare prima un casolare in un albergo, poi l'albergo in un gigantesco complesso. Il secondo, articolo, oltre a fornire qualche informazione aggiuntiva sui responsabili, si fa portatore di un errore grave che ha coinvolto quasi tutti che hanno scritto sull'aspetto abusivo della costruzione del grande complesso. Si informa che la magistratura aveva avviato un procedimento relativo al rilascio della concessione a trasformare un'area libera che avrebbe dovuto restare tale, ma che il procedimento si è concluso con l'assoluzione degli imputati. Si nasconde il fatto che il proscioglimento riguarda l'accusa di corruzione, non l'abuso territoriale. Un abuso, per la verità, sempre diffuso in Italia: temperato negli ultimi decenni del secolo scorso, con le leggi sulla difesa del suolo e quelle per la tutela dell'ambiente e del paesaggio, ma fortemente accentuati negli anni più recenti dai rottamatori non della vecchia politica, ma tel territorio, dei suoi valori e delle sue fragilità.
«Paesaggi berlinesi. Intervista con il sociologo tedesco Andrej Holm sul diritto all’abitare». il manifesto, 21 gennaio 2017 (c.m.c.)
Si potrebbe parlare di «nuovo maccartismo», questa volta al servizio della speculazione immobiliare. Dopo le dimissioni dall’incarico di Segretario di stato per la casa nel Senato della capitale tedesca, il sociologo Andrej Holm ha appena presentato ricorso contro la decisione della Humboldt Universität di cancellare il suo contratto di ricercatore (ne ha dato notizia Jacopo Rosatelli su queste pagine). Abbiamo conversato con Holm che ha accettato di raccontarci la sua storia.
«Sono nato nel 1970 nella Germania Est e cresciuto in una famiglia di solida tradizione comunista – ha spiegato -. Da ragazzo nella Ddr il mio atteggiamento verso il socialismo era molto idealista. E perciò mi sono arruolato per la leva in un reparto della StaSi. Con la svolta del 1989 ho cambiato molte convinzioni rispetto al sistema socialista e sono diventato parte del movimento libertario e autonomo qui a Berlino. Poi ho iniziato a impegnarmi con il movimento degli inquilini nei quartieri orientali. Il dibattito sulla gentrification inizia ufficialmente tra il 2008 e il 2009, ma a Berlino Est abbiamo avuto lotte contro la gentrificazione molto prima che il concetto diventasse «di moda» in ambito accademico. Ho iniziato a studiare sociologia urbana alla Humboldt Universität, trovando una diretta corrispondenza tra questi concetti scientifici e la mia esperienza di lotta. Così ho sempre lavorato sull’interrelazione tra ricerca accademica, movimenti e politica cittadina».
Poi ci sono state le elezioni di settembre a Berlino ed è cominciata la discussione sul programma della coalizione di governo rosso-rosso-verde. Che ruolo hanno avuto i movimenti?
Per la prima volta si discuteva nel merito dei contenuti, in dettaglio, e con grande trasparenza oggi chiunque può leggere quali sono gli impegni assunti dal nuovo governo della città. In materia di politiche abitative ma non solo, siamo di fronte a un programma marcatamente anti-liberista. Si dice che il «decennio dell’austerity» è finito e si apre invece una fase di rinnovati investimenti pubblici, per la creazione di infrastrutture sociali. Sulla base di questo ho accettato la proposta della Linke di entrare nella squadra di governo in prima persona. Sono state direttamente assunte nel programma molte delle rivendicazioni elaborate dal movimento. E le lotte per il diritto alla casa avevano fatto di questo tema uno degli aspetti decisivi della sconfitta Cdu.
Poche ore dopo la sua nomina è scoppiato il caso-Holm. Come possiamo interpretarlo?
Ci sono certo intrecci tra la campagna contro di me, la cultura profondamente anti-comunista di settori dell’establishment tedesco e gli interessi materiali del capitale speculativo. È certo un dibattito dalle molte sfaccettature, come del resto è la mia biografia politica e personale insieme. Ho deciso di dimettermi per evitare che si arrivasse alla rottura nella coalizione rosso-rosso-verde e che le nuove politiche sociali, antiliberiste e anti-austerity contenute nei suoi impegni programmatici, venissero messe in discussione.
Ha scritto nella sua lettera di dimissioni «il mio ritiro non significa affatto la rinuncia a una politica alternativa per la casa». Che cosa intendeva?
La possibilità di un’interazione positiva tra il nuovo governo di Berlino e i movimenti è tutta aperta. Abbiamo imparato una volta di più che invertire le tendenze dominanti nel campo della politica residenziale è questione di rapporti di forza sociali. E noi dobbiamo interrogarci su come sia possibile costruire un contro-potere più forte di prima. Se vogliamo una nuova politica della casa, dobbiamo lottare: un buon social housing non sarà mai un «regalo» del governo, bisogna conquistarlo. Ed è chiaro che molte iniziative degli inquilini escono rafforzate da questa esperienza.
Può riassumere quali sono i principali problemi per quanto riguarda il diritto alla casa a Berlino e, viceversa, quali siano i punti di forza del programma che ha contribuito a scrivere?
È una materia complessa. Mettiamola così: soddisfare il diritto all’abitare è troppo costoso per chi ha un basso reddito, ma questo è il risultato dell’intreccio tra condizioni economiche generali, meccanismi finanziari e politiche pubbliche. Bisogna perciò avere un approccio sistemico. E il punto è ancora quello posto 150 anni fa da Friedrich Engels, cioè la logica capitalista che ritiene la casa una merce, da valorizzare il più possibile. Perciò vogliamo ricombinare un ampio ventaglio di strumenti: dal superamento della logica privatistica di gestione dello stesso patrimonio pubblico, a nuove regole per il «social housing», dalla protezione effettiva dei diritti degli inquilini alla fine di dismissioni e privatizzazioni; serve anzi un massiccio piano di nuove acquisizioni comunali. Infine, abbiamo affermato un diverso modo di prendere le decisioni politiche: non più consultazioni con le lobby immobiliari, ma un ampio e partecipato dibattito, che analizzi l’impatto sociale di ogni scelta istituzionale.
Quali sono le similitudini e le differenze tra la situazione della casa a Berlino e nelle altre città europee?
Ci sono molte cose in comune, perché tutti, anche se in misura e con modalità diverse, abbiamo subito gli effetti delle politiche neoliberiste negli ultimi vent’anni. E dall’altra parte, ogni città ha la sua specifica storia, sia nello sviluppo urbano che nella crescita dei movimenti. Berlino, per effetto della sua storia di città divisa, continua ad avere una certa «mixité» sociale anche nei quartieri più centrali. Nel cuore della metropoli continuano a vivere persone a basso reddito, famiglie che beneficiano del sistema di welfare. Questa è la grande differenza con Parigi, Londra o Barcellona, dove la trasformazione neoliberista del centro è un processo compiuto. E la nostra sfida è mostrare che è possibile una diversa qualità sociale della vita urbana nel suo insieme. Che è una componente essenziale del discorso sull’eguaglianza sociale nelle nostre città, che può nascere ed essere portato avanti dai movimenti.
Pensa possa esserci lo spazio per costruire alleanze tra città per affermare una diversa politica della casa in Europa?
Dobbiamo portare avanti questo lavoro su entrambi i versanti. Da alcuni anni c’è un buon livello di relazioni tra movimenti per la casa: le nostre iniziative anti-sfratto qui a Berlino hanno adottato molte delle forme sperimentate dalla Pah, ad esempio, traducendole nelle nostre condizioni. Imparare dalle altre città e organizzarsi su scala transnazionale è fondamentale. Poi c’è un secondo livello, quello dell’elaborazione dei dispositivi necessari ad attuare una nuova politica dell’abitare: abbiamo differenti legislazioni nazionali, in Olanda o in Italia, ma ci sono delle idee che possiamo adattare e applicare.
Perciò dobbiamo fare rete, sia tra ricercatori critici, sia tra attivisti, sia tra governi di sinistra e alternativi. E combinare questi differenti livelli, non solo tra istituzioni. Ada Colau sa bene, come del resto la coalizione rosso-rosso-verde di Berlino, di aver bisogno di una forte spinta dal basso, di una permanente pressione sociale. E questo è parte della nostra capacità di mutuo apprendimento a livello internazionale.
Sin dai primi mesi del suo mandato Franceschini non ha fatto mistero dell’intenzione di modificare radicalmente l’assetto organizzativo dei beni culturali e paesaggistici. Intenzione che si è concretizzata in una delle «riforme» renziane più controverse, quella che ha portato all’accorpamento delle soprintendenze e alla separazione della funzione di tutela da quella di valorizzazione dei beni culturali. È stato così creato un doppio sistema: da una parte un circuito di venti musei di eccellenza e di diciassette poli museali regionali e inter regionali al quale è stato affidato il compito di valorizzare, in termini economici, il patrimonio archeologico, museale, artistico e paesaggistico, e dall’altra le soprintendenze, alle quali è stata lasciata la tutela.
Il regolamento approvato ieri si inserisce in questo quadro. Che si aggrava se si considerano le norme della legge Madia di «riforma» della pubblica amministrazione. Norme che, soprattutto per il paesaggio, aprono varchi rischiosi. Prevedono infatti non solo la possibilità di richiedere il riesame di tutti gli atti di tutela adottati dalle soprintendenze, ma anche l’estensione del silenzio-assenso alle decisioni delle stesse in materia di vincoli paesaggistici.
Come si sa, il paesaggio è terreno di scontro tra speculatori di varia natura e un fronte di tutela attestato sul rispetto delle norme costituzionali. Tra i gruppi ambientalisti e nelle soprintendenze c’è preoccupazione. La decisione presa ieri dal consiglio dei ministri, giustificata anche dalla necessità di accelerare le procedure di ricostruzione nelle zone colpite dal terremoto, potrebbe aprire varchi ulteriori alla devastazione del paesaggio.
Per giudicare bisognerà vedere, nel dettaglio del regolamento, quali opere sono considerate «interventi di lievi entità» e quali no. Ma che il provvedimento sia stato approvato nel momento in cui in un enorme territorio ci si accinge a programmare interventi miliardari di riedificazione, fa suonare più di un campanello di allarme.
Un dialogo tra un economista e un urbanista di Giacomo Becattini e Alberto Magnaghi, "La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale". casadellacultura, città bene comune, 20 gennaio 2017 (c.m.c.)
I tempi delle idee
A lungo lontano, solo recentemente ho letto La coscienza dei luoghi* (e, su invito, mi accingo a scriverne). Fortunatamente questo non è un libro con un orizzonte temporale limitato e specifico. Anzi, riprende con forza e perseveranza idee di lungo periodo: che risalgono ai primi anni '2000 per Giacomo Becattini (l'evoluzione del tema dei distretti economici territoriali nel quadro emergente delle politiche di sviluppo locale: Becattini 2000, 2007 e 2009); al decennio precedente per Alberto Magnaghi (le questioni del "ritorno al territorio" e della "coscienza dei luoghi": Magnaghi, 1990, 1998, 2000 e 2010). Si tratta dunque di idee che hanno attraversato una varietà di congiunture.
Vi è ragione di chiedersi: con quali relazioni con il corso dei processi reali, quale attualità e quali prospettive. Mi pare questo un tema cruciale (anche se sembra rimanere al margine della già ampia discussione sul libro) che solleva più di un problema. Perché si può notare un certo décalage fra il corso dei fatti e la vita delle idee, che mette in gioco proprio le ipotesi fondamentali dei due autori.
Differenze di fase
Becattini volge l'attenzione ai temi dello sviluppo locale quando un ambizioso progetto per l'Italia - fondato appunto su un'idea forte di localismo e di territorializzazione dello sviluppo (Trigilia 2005, Consiglio italiano delle Scienze Sociali, 2005) - mostra segni evidenti di difficoltà o crisi. Non possiamo ignorare le criticità dell'esperimento più solido e vasto intrapreso dal governo italiano, nel primo decennio del secolo, grazie all'impulso di Aurelio Ciampi e alla guida operativa di Fabrizio Barca (processi che ho avuto modo di studiare da vicino: Palermo, 2004 e 2009).
Dobbiamo riconoscere che lo stesso Barca, in seguito, ha saputo apprendere dall'esperienza, cercando di rinnovare idee e pratiche dello sviluppo locale in forme più sostenibili (Barca, 2009, 2011 e 2016). Resta un fatto: sembra impossibile oggi sostenere che i principali problemi siano stati superati. D'altra parte lo stesso Becattini (2007) e altri importanti analisti (Bagnasco, 1999 e 2003) hanno messo in evidenza la crisi tendenziale di coesione - potremmo anche dire: di "coralità" - degli stessi sistemi distrettuali. Rispetto al nodo cruciale - come fare sviluppo locale nei territori della crisi, dove più debole è il capitale territoriale e sociale - mancano ancora risposte rassicuranti.
Becattini e Magnaghi condividono la necessità di un "ritorno al territorio". Certo, localities matter (Harloe et al., 1990): culture e professioni diverse convergono facilmente su questo punto. Questo non significa che la tendenza esprima un senso univoco e una chiara e comune volontà di futuro. Il richiamo al territorio di Magnaghi (che risuona da molti decenni) non si confonde con gli orientamenti della geografia critica nord-europea (Harloe, qui citato come esempio, e altri); tanto meno con le visioni della burocrazia della UE, nonostante le più recenti aperture verso un place-based approach (che peraltro rappresenta una linea ancora distinta dalle precedenti: Barca 2009 e 2011). Perciò il consenso sulla parola d'ordine può sembrare unanime, ma rinvia a una varietà di posizioni e orientamenti non equivalenti.
Questo libro mostra la sostanziale convergenza del pensiero di Becattini con la visione territorialista di Magnaghi; ne illustra magistralmente il valore utopico e soprattutto il concreto bisogno - dopo gli effetti distruttivi di altre logiche economiche e politiche, a lungo prevalenti; ma non affronta una questione a mio avviso cruciale: di quale coscienza dei luoghi si tratta nel tempo (e nei territori) della crisi? Possiamo supporre che un medesimo principio possa valere, uguale a se stesso, nell'arco di 20-30 anni e in una varietà di contesti? La domanda chiaramente si intreccia con gli interrogativi già formulati sullo sviluppo locale.
A me pare difficile negare il rischio di un décalage fra gli orientamenti suggeriti e le dinamiche sociali ed economiche in atto. In altre fasi impulsi simili sono parsi più plausibili. Si può sostenere la continuità di alcuni principi, considerati virtuosi, anche nelle congiunture meno propizie, ma non eludere le difficoltà conseguenti. Le prove dell'esperienza non hanno dato esiti sempre confortanti (anzi). Ora molti processi reali sembrano creare difficoltà ancora più gravi alle buone intenzioni dell'utopia o della politica. Perché e come potremmo sperare in esiti migliori, nel futuro che incombe? Mi sorprende che il tema sia marginale nella riflessione degli autori, e non sia stato sollevato, in sostanza, neppure dalla maggior parte dei commenti.
Paradossi del localismo
D'accordo: "lo sviluppo non può che essere locale" (De Rita e Bonomi, 1998). Perché mai non dovremmo avere cura del radicamento o quanto meno della coerenza di una politica con il suo territorio? Come mobilitare e valorizzare le conoscenze locali se le politiche non adottano un approccio place-based (Barca, 2009)? Ma questi sono solo prerequisiti necessari. Sarebbe poco saggio sottovalutare le difficoltà che, in diverse fasi e oggi ancor più, si sono chiaramente manifestate. Perché la volontà locale si può rivelare conservativa, protezionistica, miope, o può essere tradita e manipolata dalla sua classe dirigente.
A volte diventa poco sostenibile: tesa a catturare benefici di breve periodo per il contesto, anche a scapito di valori più lungimiranti (come la stessa sostenibilità dello sviluppo), o cercando di scaricare altrove effetti collaterali negativi. Fino al paradosso più radicale: lo sviluppo locale risulta tanto più arduo, talora impossibile, proprio nei territori dove più che mai sarebbe necessario. E dove la coralità della società locale può essere un auspicio, ma non è un fatto.
Dopo le prove dell'esperienza (ormai consistenti) non è più tempo di esortazioni e retoriche. Qualcosa abbiamo imparato (Palermo, 2004 e 2009):
- meno programmazione (se diventa primato del metodo, della ragione burocratica, in sostanza della tecnocrazia); le direttive europee, purtroppo, hanno esasperato questa impostazione; la migliore versione italiana (quella gestita da Fabrizio Barca) ha cercato di conciliare una guida centrale autorevole ed esigente con la liberazione e valorizzazione di energie locali (Barca, 2006), con esiti però controversi (avevano un fondamento le critiche severe di Nicola Rossi, 2005);
- più progetto, ma "vero" (come raccomandava sempre De Carlo), invece di dare vita a tante iniziative effimere o sostanzialmente arbitrarie (estranee al contesto, meramente imitative, improbabili), oppure opportunistiche e strumentali (cogliere le opportunità di bando è diventato un mestiere puramente funzionale); mentre, ovviamente, avremmo bisogno di azioni radicate e ben giustificate, realizzabili e sostenibili nel tempo; la sfida è costruire progetti partecipati e condivisi nel territorio, nel quadro di una visione e di finalità dichiarate, da assumere come misura della qualità dell'azione;
- visione e progetti locali da ancorare a robuste politiche pubbliche a grande scala (alcune tendenze neo-centraliste sembrano giustificate per dare coerenza e continuità alle azioni, altrimenti a rischio per alcune debolezze costitutive del regionalismo e dei localismi); il problema è che l'incertezza investe anche le grandi politiche per questioni rilevanti di contenuto e di metodo. Sul secondo punto possiamo apprezzare qualche saggio ripensamento (Barca, 2011 e 2016), ma sul primo pesano criticità sostanziali: di indirizzo e di risorse.
Credo che le difficoltà (se non vogliamo dire i fallimenti) del primo decennio del secolo abbiano lasciato utili insegnamenti. Non ho molta fiducia in una eventuale conversione culturale e tecnica dell'UE. Il cosiddetto place-based approach proposto da Barca (2009) non è privo di ambiguità (Palermo e Ponzini, 2015) e probabilmente non è stato recepito dalla burocrazia comunitaria come una reale discontinuità. Interessante in Italia è l'approccio più recente a problemi chiave come lo sviluppo (o il freno al declino) delle aree interne (Barca, 2016). Ma resta critico il rapporto di queste iniziative "speciali" con la classe dirigente e l'amministrazione locale - che intendono pesare e ne hanno la legittimità. Un bilancio concreto degli esperimenti più innovativi non è ancora disponibile, ma siamo ormai consapevoli che gli ostacoli sono ardui.
In conclusione: il tema dello sviluppo locale è giustamente sempre attuale, ma l'enfasi dei primi '2000 (come "nuovo progetto per l'Italia") è probabilmente superata, senza rimpianti. Certo, lo sviluppo deve essere radicato e sostenibile nel contesto. Eventi recenti come le elezioni americane (novembre 2016) dimostrano che a chi governa non basta conseguire una crescita aggregata (comunque necessaria), se non è in grado di escludere la formazione o degenerazione di importanti crisi locali. Di qui un monito che riguarda politiche a scale diverse e la loro necessaria, ma complicata integrazione. Su questi temi in Italia forse siamo solo ai primi passi, ma almeno è stata superata la fase, spesso enfatica e semplicistica, del puro inizio. Nel libro di Becattini e Magnaghi non trovo però un'attenzione rilevante per questi problemi.
Problemi di coscienza
Il riferimento alla "coscienza dei luoghi" è l'altro tema forte del libro. Non inedito, ma neppure ovvio, e spesso evocato più che discusso. Mi pare che due siano le (principali) interpretazioni possibili: come lascito pre-moderno, oppure come stato nascente (minuscolo!). La prima visione è classica. Allude a una situazione irenica, una delle forme ricorrenti di "paradiso in terra" (Mattelart, 2000; Lash, 2016). In un territorio naturalmente o storicamente bene ordinato non vi sarebbe posto per divisioni, incertezze e tensioni radicali.
Questa armonia si esprimerebbe in un senso del luogo corale, ben costituito e condiviso, in grado di ispirare e accompagnare decisioni e comportamenti virtuosi. Si tratterebbe solo di seguire la buona via, nonostante gli ostacoli che la modernizzazione (nella varietà delle sue forme successive) continua a sollevare. Un quadro inverosimile? Probabilmente, ma il modo in cui si discorre di "coscienza del luogo" è spesso congruo con queste premesse (forse ne ha bisogno per trovare una giustificazione argomentativa). La seconda visione è più fluida. Forse un ordine felice e compiuto ancora non è dato, ma - pur tra grandi difficoltà - non mancano tracce significative di orientamenti e comportamenti edificanti.
Una "coscienza del luogo" sarebbe dunque (solo) in formazione, ma il movimento indica una direzione: chiara, sostenibile e virtuosa. Questa è la prospettiva che emerge da culture di matrice diversa (come Revelli, 2001, o Magatti, 2012). Comune è l'appello a un profilo di soggetto autonomo, sobrio e responsabile, tollerante e solidale. Non mancano manifestazioni locali in questo senso; si deve auspicare che possano consolidarsi, diffondersi e fare rete (come in un quadro lillipuziano). Forse è questa la sola speranza possibile nel nostro tempo, ma (per ora) poco più che una speranza: Revelli delineava questa prospettiva alle soglie del secolo; siamo oggi in grado di documentare sviluppi significativi di quella visione? Immaginare che questo nucleo precario di soggettività, reti e pratiche locali possa esercitare un'influenza decisiva su processi chiave della politica e dell'economia sarebbe forse imprudente, al momento, ma è difficile proporre alternative.
La seconda interpretazione sembra essere la più pertinente per questo libro. La concezione del territorio come bene comune evidentemente rinvia a fasi ed esperienze premoderne, ma gli autori riconoscono che "un percorso di trasformazione culturale" è indispensabile affinché gli abitanti/produttori ne riconoscano il "valore essenziale per la riproduzione della vita individuale e collettiva". Di una presa di coscienza si dovrebbe trattare, dunque, come processo necessario per garantire "la ricostruzione di elementi di comunità in forme aperte, relazionali, solidali" (p.165). Un processo in atto - pertanto ancora incompiuto e non immune da rischi - le cui difficoltà restano latenti nel testo, anche se potrebbero essere non marginali in tempi di crisi. Forse dovremmo concludere che la coscienza chiamata in causa da Becattini e Magnaghi non è la soluzione, ma una parte cruciale del problema (l'osservazione vale anche per altri orientamenti al bene comune: come alcune posizioni semplicistiche, fortemente ideologiche, a sostegno del cosiddetto beni-comunismo: Mattei, 2015).
La politica perduta
Perciò penso che il libro richiami immagini edificanti ed esperienze emblematiche di un mondo che non è più o non è ancora, senza dare risposte, però, a un insieme di criticità che da tempo ci affliggono e continueranno a ostacolare il rinnovamento auspicato. Criticità rispetto alle quali la politica ora sembra disarmata. Restano pochi dubbi sulla caduta dei principali modelli concepiti ed esperiti nel Novecento (Revelli, 2003). Non alludo soltanto ad alcune conseguenze estreme della modernizzazione: quando e dove la politica si è configurata come volontà di potenza fondata sulla tecnica, disposta a qualunque compromesso sui valori pur di raggiungere alcuni risultati. Con effetti che a posteriori si sono sempre rivelati disastrosi (Revelli, 2001 e 2003). Credo che difficoltà notevoli riguardino anche le principali pratiche correnti, anche se hanno perso, ormai, ogni aspirazione prometeica. Non hanno credito, ai miei occhi, le politiche di destra, che promettono meno tasse e più libertà, ma non sarebbero in grado di assicurare i servizi fondamentali di welfare in tempi di grave e diffuso disagio sociale.
Non trovo credibili le politiche di sinistra che mirano a estendere ancora il controllo pubblico e a rilanciare misure redistributive, quando non esiste crescita da distribuire e manca il coraggio di riformare un settore pubblico (l'amministrazione, la scuola) in parte pletorico e inefficiente. Né una visione, né l'altra sembrano avere la forza per affrontare le difficoltà attuali, che hanno radici di lungo periodo, ma stanno assumendo forme sempre più eclatanti (non solo in Italia). Non si tratta solo di problemi crescenti di povertà (indiscutibili, se pur difficili da misurare in contesti nei quali l'economia del sommerso assume un peso tanto rilevante). A me pare che due tendenze in atto siano altrettanto o forse più preoccupanti. Crescono le popolazioni e i territori al margine - se non come soggetti potenziali di consumo - dei processi più intensi di globalizzazione.
Non si tratta necessariamente di "vite di scarto" (nel senso di Bauman, 2005), ma di pezzi cospicui di società a cui sembrano negate possibilità e persino speranze di partecipare, come cittadinanza attiva, ai processi decisivi del nostro tempo. Questo stato di esclusione non può che accrescere timori e chiusure, e può spiegare reazioni sommarie contro le innovazioni che pur sarebbero necessarie: come se inerzia o ritorno al passato potessero risolvere la crisi incombente (quando sarà chiara questa impossibilità, la situazione sarà probabilmente aggravata). In termini più specifici, credo che il disagio possa essere inteso come una conseguenza diffusa di alcuni processi di individualizzazione in atto da tempo (che Ulrich Beck ha bene anticipato nel caso delle società dell'Europa orientale dopo il crollo del muro di Berlino: Beck, 2000a e 2000b). La progressiva liberazione dell'individuo è una delle conquiste della modernità, ma il venire meno della tutela dello Stato per molte funzioni cruciali suscita grande incertezza e sgomento in molti segmenti della popolazione (per primi quelli più marginali).
Sulla scena si muovono oggi soggetti più autonomi che però fanno fatica a reggere il peso delle nuove responsabilità. Dubito che questi soggetti siano pronti a ricreare comunità di luogo coese e felici, come auspicano Becattini e Magnaghi. Tra le loro file riemerge più facilmente la nostalgia per la protezione e forse (di nuovo) un esteso primato dello Stato, anche se questa soluzione appare sempre meno sostenibile, oggi e in prospettiva. Dovrebbe essere chiaro che il Novecento è finito e che certe vie ormai sono precluse (Revelli, 2001).
In questo quadro, avremmo bisogno di politiche ibride rispetto ai modelli canonici, alla ricerca di un mix giusto, sostenibile ed efficace di misure di riforma, competitività e redistribuzione, che incontra ovviamente ostacoli gravosi, richiede costruzione del consenso e relazioni di fiducia (sempre più a rischio), capacità di apprendere dall'esperienza e la possibilità di correggere gli errori (mentre il consumo delle leadership politiche sembra sempre più accelerato). Credo che il nostro paese, negli ultimi anni, abbia provato a fare qualche passo in questa direzione, con esiti al momento non confortanti (ma non si esce facilmente da errori e inerzie di lungo periodo).
I temi dello sviluppo locale e della coscienza dei luoghi (quantomeno se intesa come "stato nascente") sono certamente parte rilevante di questo scenario. Il problema è indagare e praticare questi temi nei processi reali, a partire dalle criticità più evidenti. Perché non basta l'etica delle intenzioni: i riformisti sono quello che fanno (Revelli, 2014). Il libro di Becattini e Magnaghi è un degno manifesto di valori rispetto ai quali misurare la coerenza e la forza delle nostre pratiche. Mi sembra più difficile intenderlo come un programma d'azione.
Riferimenti
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«Dal bene pubblico al bene comune condiviso: è questo l’obiettivo del nuovo Regolamento comunale per la gestione civica condivisa di beni comuni, che è approdato sui banchi del Consiglio comunale per l’approvazione». controradio online, 20 gennaio 2017 (c.m.c.)
In pratica, grazie a questa nuova procedura, associazioni, comitati, gruppi informali di cittadini o anche singoli potranno presentare il proprio progetto di gestione di un bene pubblico come un giardino o un edificio senza finalità commerciali o di lucro. La modifica, illustrata dall’assessore alla Partecipazione Simone Mangani, è stata proposta dal Consiglio Comunale con una mozione congiunta approvata nel gennaio dell’anno scorso che dava indirizzo alla Giunta in questo senso, sulla scorta di quanto già sperimentato con successo in altri enti locali a partire dal Comune di Bologna, dotatosi di questo strumento dal 2014, e in osservanza dell’art. 118 della Costituzione sul principio di sussidiarietà tra istituzioni e cittadini.
I 35 articoli che compongono il Regolamento sono frutto del lungo lavoro compiuto dall’assessorato con le Commissioni consiliari 1 (Affari istituzionali) e 5 (Servizi sociali, sanità, partecipazione) e con i rappresentanti di comitati, associazioni e consulte del mondo civico pratese.
Lo stesso assessorato ha avviato un processo partecipativo ad iniziativa pubblica, come previsto dal Regolamento della Partecipazione del Comune, volto alla condivisione della costruzione e della scrittura del Regolamento per la gestione condivisa dei beni comuni : «Si tratta di un patto tra cittadini ed istituzioni per la cura, la gestione condivisa sulla base di un progetto e la rigenerazione dei luoghi e della qualità della vita della città – spiega l’assessore alla Partecipazione Mangani – Il nuovo strumento di cui ci dotiamo, ampliando la partecipazione dei cittadini alla vita delle istituzioni, e formando dei cittadini attivi e responsabili, è in accordo con il programma di mandato e con lo stesso programma elettorale di questa Amministrazione». –
La collaborazione tra Comune e cittadini attivi può prevedere differenti livelli di intensità e complessità, in particolare la cura occasionale, la cura costante e continuativa, la gestione condivisa occasionale, la gestione condivisa costante e continuativa e la rigenerazione temporanea o permanente. Può riguardare spazi pubblici o anche spazi privati ad uso pubblico, beni materiali, immateriali o digitali ed edifici. Può prevedere l’attività di progettazione, organizzazione, animazione, assistenza, produzione culturale, realizzazione di eventi, comunicazione, manutenzione, restauro e riqualificazione dei beni mobili ed immobili in stato di parziale o totale disuso o deperimento.
L‘elenco dei beni comuni urbani che potranno essere oggetto di gestione condivisa sarà pubblicato sul sito web del Comune di Prato (www.comune.prato.it) e la stessa Rete Civica del Comune avrà il compito di raccogliere le proposte e i progetti di collaborazione avanzati dai cittadini, che dovranno essere valutati dagli uffici e ricevere l’assenso del Comune. Gli esempi da cui partire ci sono già: il giardino della Passerella, quello intorno all’assessorato ai Servizi sociali di via Roma e l’immobile della Gualchiera di Coiano.
Nel caso in cui vi siano più proposte di collaborazione riguardanti un medesimo bene, il Comune ne promuoverà il coordinamento e l’integrazione. Se questo non fosse possibile, la scelta della proposta da sottoscrivere viene effettuata mediante procedure di tipo partecipativo.
Dal buco nero in cui è sprofondata l'Italia "civile" la voce di un grande. In un diario i quattro momenti di un'invettiva; e per concludere, un Canto per l'Appennino. Doppiozero, blog di Franco Arminio, 20 gennaio 2017
2. Preghiera per l'Appennino
Quando ieri sera ho scritto il post intitolato “Il cuore degli altri poi ho provato a dormire, non ce la facevo più a stare in rete, non sapevo più come smuovere, come far sentire la mia e la vostra impotenza. Non sapevo della valanga e ora non è neppure il caso di dire che lo Stato non c'è. Sono stato tre volte ad Amatrice e lì di Stato ne ho visto anche troppo. Non so bene cosa stanno facendo, ma ci sono.
E sulla neve credo che sull'Appennino non siamo mai stati tanto attrezzati: magari si poteva presidiare meglio quella zona, ma non è il punto cruciale. Quello che manca è proprio una sorta di rispetto antropologico per chi è rimasto sull'Appennino. I servizi di cittadinanza sono stati tagliati senza grandi opposizioni, né al centro, né in periferia. Hanno chiuso l'ospedale del mio paese e poi scopri che a Nola stendono i malati per terra. Sono anni che cerco di costruire un movimento per l'Appennino, abbiamo aperto la casa della paesologia, ma per avere 24 euro per l'iscrizione sembra che devi chiedere l'elemosina.
Passerà la neve, passeranno le scosse e tutto tornerà come prima. Il governo deve cambiare completamente passo. E ci vogliono segnali clamorosi, anche di tipo mediatico. Quest'anno il festival di Sanremo si potrebbe fare a L'Aquila. Per i cantanti non cambierebbe niente, ma sarebbe un segnale di un'Italia che cambia sguardo. E il governo potrebbe fare la prossima riunione del consiglio dei ministri in un paese della Calabria, a San Luca, per esempio.
Si sono raccolti tanti soldi, ma poi si dimentica che il governo e le regioni hanno un progetto che si chiama Strategia Nazionale delle Aree Interne: bisogna dare un impulso immediato a questa strategia di cui non sa niente nessuno. Bisogna coinvolgere le popolazioni dell'Appennino su cosa fare per restare in quei luoghi. Non ci vuole chi gli va a montare le catene, possono farlo benissimo da soli. Ci vuole che l'Italia si ricordi che è un paese di paesi e di montagne. Dove d'inverno può arrivare tanta neve e dove la terra può tremare ogni giorno. In ultimo bisogna ricordare che le valanghe sono molto più veloci delle nostre manfrine burocratiche, fanno in una notte quello che non riusciamo a fare in tanti anni.
Ci vuole un cantiere per l'Appennino, bisogna dire a tutti i giovani che ci sono che avranno lì lavoro per almeno dieci anni, perché l'Italia e il mondo devono salvare l'Appennino, perché è una terra sacra, è una terra che ha un patrimonio naturalistico e culturale unico al mondo.
3. Sentite bene
Il governo è caduto il 4 dicembre…
è stato nominato un ministro per la coesione territoriale
ma non sono state ancora assegnate le deleghe…
praticamente non ci sono soldi da spendere
perché non si capisce chi deve tenere il portafoglio in mano.
Faccio appello direttamente al segretario del partito che governa il paese: se davvero ci si vuole liberare dagli indugi
è ora di agire…
è iniziato il quarto anno della programmazione europea
e abbiamo speso il tre per cento dei soldi disponibili.
Vi pare possibile?
L'Appennino trema e frana
i giovani potrebbero essere messi al lavoro subito
in un grande cantiere Appennino....
E se non abbiamo i soldi
ricordiamoci che c'è un mondo intero che potrebbe essere interessato all'Appennino...
Fra tre mesi c'è il G7, su quei tavoli va posta la questione Appennino.
4. Prima del paradiso
Ho provato in tutti i modi stamattina a smuovere le acque sul problema dell’Appennino. Ora sono solo addolorato. Ho avuto poche risposte. Ma me le tengo care. E mi tengo cari già da adesso tutti i giorni in cui non sarò in questo mondo, tutti i giorni consegnati senza lingua e senza mani al grande mistero che chiamiamo nulla. Noi intanto ne abbiamo costruito uno più piccolo nella piccola comunità degli umani. E la mia impazienza feroce di demolirlo, senza sapere da che parte colpire, perché questo nulla è lontanissimo e vicinissimo, è nel tuo cuore e in quello dei tuoi amici e in quello dei tuoi nemici. Il nulla di cui parlo è l’addio a una storia condivisa, la regola che ognuno scambia il proprio sguardo come l’unico possibile. Non c’è una cantina degli sguardi dove portare i propri occhi.
Il novecento aveva tentato attraverso le grandi narrazioni di infilare gli uomini in un progetto planerario. È finita in tragedia. E ora la tragedia prosegue e pare che in ogni forma della nostra vita riusciamo solo ad alimentarla ulteriormente, anche se in forma diluita, sonnolenta. Non devi parlare quando hai torto, ma ora non devi parlare neppure quando hai ragione, non devi aspettarti che se trovi una verità questa venga condivisa. Anzi, la verità che porti è un’offesa a tutte le menzogne in circolazione. Il potere è riuscito a calarsi tra i giovani, tra gli inermi, tra gli sconfitti e ha fornito a queste persone gli occhiali per leggere il mondo come vuole il potere. La voce di un poeta non potrà mai diventare la voce di tanti. Chi compie azioni indegne è assai più noto di chi fa onestamente il suo lavoro. Io oggi ci ho provato un’altra volta ed ho fallito. Ho fallito come fallisce una madre, un operaio, un disoccupato, un anziano. Io oggi volevo uscire e stare nel mondo assieme a qualcuno, volevo lottare oggi e invece pare solo che parli troppo, il tuo fiato ruba il fiato agli altri. Dovrei farmi furbo, parlare ogni tanto, e passare all’incasso. Ma io so che il mio solo guadagno è quando avrò gli occhi chiusi sotto la terra. Lì ogni attimo sarà premio, sarà il paradiso che mi sto conquistando attimo per attimo, il paradiso che non c’è.
CANTO PER L'APPENNINO
Ho una spina di dolore
lunga quanto l'Appennino.
Il cielo vomita neve
e gli uomini bugie.
Penso a chi è morto con la neve in bocca
e a questo mio cuore
con la punta storta,
questo mio cuore che oggi
ha urlato tutto il giorno
per l'Appennino.
Fate presto
dissero una volta
sul giornale,
io adesso dico:
mettete per una volta la testa nelle stalle,
restate vicino al fuoco con una vecchia
a capo chino,
camminate nelle vie più alte
dove le case sono chiuse.
Passerà la neve
e passerà il terremoto,
ma noi resteremo al nostro posto,
alberi, fontane, strade abbandonate,
cielo di stelle e di poiane.
Se vogliamo che le nuove generazioni (e noi stessi) si sopravviva dobbiamo reimparare che cos'è la natura nel pianeta in cui viviamo: occorre «la coltivazione di una coscienza di stagione e di luogo». il manifesto, 20 gennaio 2017
Della stagione noi non ci rendiamo conto, se non in occasione di catastrofi, quando ci ammaliamo, quando invecchiamo, quando la pioggia travolge gli argini dei torrenti, quando la neve abbatte effimere anche se sontuose costruzioni.
Ciò comporta, oltre tutto, un enorme problema pedagogico: negli spazi artificiali in cui li parcheggiamo, in quelli metropolitani, i bambini non sanno più riconoscere, ma soprattutto vivere, il ciclo vitale e temporale di un organismo, il ciclo di nascita, crescita, maturazione, declino, morte, e poi la nuova crescita della generazione successiva legato all’alternarsi del caldo e del freddo, dell’estate e dell’inverno.
Non hanno insomma più la struttura mentale della stagione, una struttura del ciclo e anche del limite. I sistemi metropolitani, modulati su quelli industriali, innaturali e contro Natura, hanno invece fatto acquisire, in base al pregiudizio che tutte le cose debbano crescere ed espandersi all’infinito, una struttura senza scansioni temporali, senza adattamenti temporali, senza incertezze e dissipazioni e perciò senza vere precauzioni .
È una struttura che ha influito sul senso del tempo ma anche dello spazio che non è più un luogo, ovvero uno spazio che è funzionale ma anche simbolico, e in cui l’uomo per abitare deve conseguire anche un senso di identità e di appartenenza, accumulare memoria e bellezza e armonia e relazioni di comunità e perfino un senso del sacro.
Il sacro è stato abolito nella struttura mentale moderna e certo nelle tante Facoltà per archistar si irridono (con ovvie eccezioni) quei riti magici fatti da antiche religioni e comunità non solo per propiziarsi lo spazio, ma per trasformarlo da spazio selvaggio a luogo civilizzato secondo una razionalità.
In quei riti c’era anche infatti una profonda essenza di scienza naturale finalizzata alla prevenzione e quindi rivolti ad indagare se erano adatti a quella specifica costruzione o città, quello specifico clima, quel movimento del sole, quelle specifiche condizioni del suolo, oltre alla vicinanza all’acqua e alla presenza di vegetazione.
Riti che davano un limite ed un principio di responsabilità all’abitare dell’uomo, al suo costruire, dicendogli continuamente, ossessivamente, che non era padrone, che ogni presa di possesso dello spazio non poteva essere avulsa del conoscere, curare, armonizzare.
Forte della coscienza di stagione e di luogo, la coscienza tragica dell’ecologia, invita perciò, sempre come Cassandra inascoltata, a verificare da dove venga la distruzione, a verificare se non è stato il caso ma proprio il desiderio di Paride a causare la sciagura.
A verificare cioè se le catastrofi naturali siano proprio naturali, o siano il frutto di un atto umano scellerato, la conseguenza del senso mancato della stagione e del luogo. Invitano a vedere (come del resto farà la magistratura) se in quell’albergo dove si promettevano tutte le stelle del benessere artificiale, non sia venuto meno proprio al primo patto, alla prima condizione vera del benessere che è la filiazione, il rispetto, la coscienza dei limiti che l’uomo figlio deve avere nei confronti della Natura.
Si continuano a salvare muri e pietre di Venezia che probabilmente mai è stata così lustra, mentre si continua ad erodere il patrimonio pubblico che è l'unico metro per misurare salute e vitalità di una comunità. La Nuova Venezia, 19 gennaio 2017 (m.p.r.)
«Siamo orgogliosi di avere aperto a fine dicembre il nuovo supermercato Despar all’interno del restaurato ex cinema e Teatro Italia, dopo aver già aperto poco prima quello di Rialto a Palazzo Bembo. Se ci sarà l’occasione di aprire un terzo supermercato a Venezia, magari recuperando un altro “contenitore” storico, noi siamo pronti». Paul Klotz, amministratore delegato di Aspiag Service srl, la società che gestisce il marchio Despar ha «battezzato» così quella che di fatto è stata l’inaugurazione ufficiale del nuovo supermercato Despar, ricavato all’interno dell’ex cinema Teatro Italia, chiuso dalla fine degli anni Novanta, recuperando anche l’apparato decorativo liberty originale dell’edificio reso invisibile dalle pannellature che lo ricoprivano quando era usato anche come aula didattica dall’università di Ca’ Foscari.
È una sentenza che segna un punto e un importantissimo precedente a favore delle onlus ambientaliste quella con cui la Commissione Tributaria regionale della Liguria ha accolto il ricorso dell’associazione Vas (Verdi, Ambiente Società) annullando una disposizione della segreteria del Tar che obbligava il Vas a pagare il cosiddetto contributo unificato relativo all’instaurazione di una causa davanti allo stesso Tribunale amministrativo regionale …
I giudici tributari regionali hanno accolto il ricorso del Vas presentato dall’avvocato Daniele Granara ribaltando così la sentenza di primo grado della Commissione Tributaria Provinciale che era invece favorevole all’obbligo di pagamento.
La sentenza si basa sul rispetto della Convenzione di Aarhus (firmata nella cittadina di Aarhus, in Danimarca, nel 1998) “ratificata – spiegano i giudici – dalla Repubblica Italiana con la legge 108 del 2001, impegna gli stati membri a prevedere l’adeguato riconoscimento e sostegno delle organizzazioni che promuovono la tutela dell’ambiente e a provvedere affinché l’ordinamento si conformi a tale obbligo, specie in materia di accesso alla giustizia, negare l’esenzione dal pagamento del contributo unificato per atti quali i ricorsi giurisdizionali finalizzati alla difesa di interessi collettivi diffusi in materia ambientale, porterebbe ad un evidente contrasto tra il diritto interno e le norme europee di pari rango, in quanto recepite nella legislazione nazionale, le quali mettono chiaramente in evidenza che il costo dei procedimenti giurisdizionali sopra indicati debba essere gratuito o non eccessivamente oneroso”.
Negli ultimi anni proprio questi costi sono aumentati e in passato l’ex presidente del Tar Liguria Santo Balba aveva spiegato come tale scelta scoraggiasse di fatto molti cittadini impossibilitati a versare alcune migliaia di euro solo per avviare la causa.
Nel caso in questione i Vas avevano impugnato davanti al Tar una deliberazione della Regione del 2014 che riguardava il “Progetto di coltivazione congiunta e recupero ambientale delle cave Gneo, Giunchetto e Vecchie Fornaci”.
Poiché il contributo unificato muta a seconda del valore della causa, per il business in ballo i questa vicenda i Vas avrebbero dovuto sborsare seimila euro in partenza.
È evidente che proprio tali costi siano un fortissimo deterrente per molte associazioni che si battono sul territorio per la difesa dell’ambiente e del paesaggio. La sentenza della Commissione Tributaria fissa un precedente importante che faciliterà l’azione delle associazioni di difesa del territorio.
Applicare la costituzione anziché storpiarla. Per esempio, quando la proprietà privata non assicura più alcuna funzione sociale, i comuni possono intervenire. Succede a Napoli, Ciampino e San Giorgio di Pesaro. salviamoilpaesaggio.it, 18 gennaio 2017 (m.b.)
C’era chi voleva modificare 47 articoli (su un totale di 139), vale a dire un terzo della Costituzione in vigore, ma i cittadini italiani non lo hanno permesso. E c’è, invece, chi vorrebbe che almeno un articolo della vigente Costituzione (l’articolo 42) venisse applicato in maniera corretta, secondo le interpretazioni suggerite da Paolo Maddalena, Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale. E negli ultimi mesi questo invito inizia ad assumere i contorni di una prassi corrente, che è utile conoscere e sostenere.
Sono almeno tre i casi concreti su cui possiamo poggiare le nostre tesi e sospingere una «new age» che potrebbe sconvolgere – in positivo – l’abitudine di dichiarare la priorità della tutela del Bene Comune sotto il profilo della pura teoria, salvo relegarla a un ruolo inattivo. Gli stimoli che giungono, ora – da Napoli, da Ciampino e da San Giorgio di Pesaro – sono segnali importanti di una «marea» che si sta alzando e che possiamo contribuire a trasformare in un’onda lunga.
Napoli
Nel 2014 la giunta del Comune di Napoli aveva varato due delibere, dedicate al riutilizzo a fini sociali dei beni abbandonati, individuando i beni del patrimonio immobiliare «inutilizzati o parzialmente utilizzati», ma «percepiti dalla comunità come “beni comuni“ e suscettibili di fruizione collettiva», attraverso una specifica mappatura analitica.
Siamo nel cuore del problema: il tema tocca infatti il “nervo” del rapporto tra proprietà collettiva e proprietà privata, indicando un principio già felicemente applicato in alcuni paesi scandinavi.
Nel maggio 2016 una nuova delibera fa un passo avanti: Villa Medusa e l’ex Lido Pola a Bagnoli, l’ex Opg (ex Monastero S. Eframo nuovo) e il Giardino Liberato (ex Convento delle Teresiane) a Materdei, l’ex Conservatorio di Santa Fede (Liberata) e lo Scugnizzo Liberato (ex carcere Filangieri, ex Convento delle Cappuccinelle) nel centro storico, insieme alla ex Schipa di via Salvator Rosa, vengono riconosciuti come «spazi che per loro stessa vocazione (collocazione territoriale, storia, caratteristiche fisiche) sono divenuti di uso civico e collettivo, per il loro valore di beni comuni» e quindi restituiti alla vita quotidiana e alla città intera per tutelarli, scongiurare che possano essere alienati e consentire che vengano amministrati in forma diretta da collettività/comunità di riferimento, senza lucro privatistico e al fine esclusivo di indirizzarli al soddisfacimento dei diritti dei cittadini.
Esemplare l’esempio dell’ex Asilo Filangieri – edificio storico patrimonio Unesco nel cuore di Napoli e anche demanio comunale, abbandonato dopo il terremoto del 1980 – che dal 2 marzo 2012 si è trasformato in uno spazio aperto dove si va consolidando una pratica di gestione condivisa e partecipata di uno spazio pubblico dedicato alla cultura, in analogia con gli usi civici: una diversa fruizione di un bene pubblico, non più basata sull’assegnazione a un determinato soggetto privato, ma aperto a tutti quei soggetti che lavorano nel campo dell’arte, della cultura e dello spettacolo e, in maniera partecipata e trasparente, attraverso un’assemblea pubblica, condividono i progetti e coabitano gli spazi. Grazie al provvedimento della giunta comunale, attraverso il regolamento per la gestione dei beni comuni pubblici, l’Asilo da luogo occupato è ora luogo di cultura aperto a tutti, di sperimentazione comunitaria e un’importante esperienza pilota, riconosciuta dalla delibera comunale per «l’alto valore sociale e economico generato dalla partecipazione diretta dei cittadini alla rifunzionalizzazione degli immobili».
Ciampino
A Ciampino (Comune di oltre 38 mila residenti), invece, un folto gruppo di associazioni, comitati e semplici cittadini – su proposta di “Ciampino Bene Comune”, una delle oltre mille organizzazioni aderenti al Forum nazionale Salviamo il Paesaggio – si è fatto portavoce di un’iniziativa per la tutela dell’area della «Tenuta del Muro dei Francesi», in stato di abbandono e soggetta a continui crolli.
Nell’ottobre 2016 è stato notificato al Sindaco l’invito perentorio a iscrivere formalmente l’area al patrimonio comunale, in quanto bene abbandonato, ricordando al Primo cittadino il suo dovere di intimare ai proprietari la richiesta di indicare la propria disponibilità a riattivare, entro 150 giorni, la funzione sociale dei beni abbandonati ed in parte crollati; in caso di mancata risposta o di rifiuto, il Sindaco potrà quindi procedere all’iscrizione di quei beni al patrimonio comunale.
L’intimazione fa riferimento al comma 2 dell’articolo 42 della Costituzione secondo il quale “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”, e alla funzione sociale non assicurata dai proprietari che, «contravvenendo al loro dovere, li hanno abbandonati facendo venir meno la “tutela giuridica” dei loro preesistenti diritti proprietari sicchè questi beni medesimi non hanno più un titolare e, ai sensi dell’articolo 827 del codice civile, in combinato disposto con il citato articolo 42 della Costituzione, sono tornati nella “proprietà collettiva del Popolo di Ciampino». Al momento non si registrano reazioni da parte del Sindaco, ma i cittadini sono all’erta e pronti a ricorrere al TAR del Lazio in caso di sua inottemperanza.
San Giorgio di Pesaro
A San Giorgio di Pesaro (piccolo Comune di poco meno di 1.400 abitanti), nel febbraio 2016 il consiglio comunale ha approvato una delibera per fronteggiare il preoccupante fenomeno degli edifici abbandonati nel territorio, cioè quegli immobili che si trovano in grave stato di degrado urbano, di incuria volta a determinare pericolo per la sicurezza, la salubrità e l’incolumità pubblica e che non siano mantenuti e utilizzati da più di 10 anni.
Si tratta di un regolamento mirato all’acquisizione al patrimonio comunale, alla riqualificazione e al riuso, anche attraverso la cessione a terzi, di beni in stato di abbandono e, anche in questo caso, si rapporta alle norme del codice civile sulla proprietà «subordinate alle norme di ordine pubblico economico immediatamente percettive degli articoli 41, 42 e 43 della Costituzione che sanciscono la prevalenza dell’utilità sociale e della “funzione sociale della proprietà” sull’interesse privato».
Con l’espressione “beni comuni” la delibera considera «quei beni a consumo non rivale, ad uso non esclusivo ma esauribile, che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali e al libero sviluppo dei cittadini che possono formare oggetto di fruizione collettiva».
Poche settimane fa il sindaco di San Giorgio di Pesaro, Antonio Sebastianelli, ha emesso tre ordinanze: se non otterranno risposta, dopo 120 giorni scatterà l’acquisizione per fini pubblici e il Comune «provvederà d’ufficio ad eseguire gli interventi necessari con spese a carico dei proprietari o aventi diritto. In caso di mancanza delle risorse finanziarie necessarie a coprire i costi di intervento coattivo, attestato dal responsabile del settore contabile, il Comune avrà la facoltà di imprimere all’immobile una destinazione d’uso pubblica ai fini della conseguente acquisizione al patrimonio dell’Ente».
Tre casi indubbiamente differenti ma con una matrice profondamente solida e unificante, che danno la misura di una possibilità applicabile ovunque: nelle grandi città metropolitane, in Comuni di media dimensione, in ognuno dei circa 6 mila municipi del nostro Paese al di sotto dei 5 mila abitanti (che rappresentano il 72 % dei Comuni italiani). Senza dimenticarci una proposta di legge presentata dalle Onorevoli Chiara Di Benedetto e Claudia Mannino del Movimento 5 Stelle: “Disciplina della funzione sociale della proprietà, in attuazione dell’articolo 42 della Costituzione” (n° 2805, presentata l’8 gennaio 2015). Possiamo ora attendere gli sviluppi che, nelle prossime settimane, si registreranno a Napoli, Ciampino e San Giorgio di Pesaro. Oppure possiamo immaginare un diverso futuro per tutti quegli immobili – pubblici e privati – che popolano la città o il Comune in cui siamo residenti e dare il via a una nuova azione (proprio a casa nostra …), che funga da effetto moltiplicatore e trasformi in un potente strumento civico un fondamentale articolo della Costituzione, mai, purtroppo , correttamente applicato.
Su eddyburg, rinviamo a un approfondimento del caso di Napoli, sempre tratto da salviamoilpaesaggio.it, con molti documenti e riferimenti in allegato.
Una vicenda, quella del riuso delle aree Expo 2015, come al solito opaca e gestita secondo le contingenti convenienze individuali, disancorata da una visione di ambito metropolitano e incompatibile con l'opzione, espressa dai cittadini nel referendum consultivo del giugno 2011, a favore della conservazione integrale del parco agroalimentare. Arcipelagomilano online, 18 gennaio 2017 (m.c.g.)
Non credo di essere un buon esegeta del renzismo perché è un percorso politico che a mio avviso non ha portato e non porterà dove si vorrebbe ma una cosa mi è chiara: di là dalle strategie banalmente di potere l’obiettivo era lo svecchiamento del Paese avviluppato in una rete di istituzioni inadeguate alla sua crescita, paralizzato da una burocrazia pletorica, inefficiente, castale e autoreferenziale e spesso funzionalmente incompetente, governato da una classe politica in parte intellettualmente vecchia, in parte incapace di declinare la propria ideologia per adattarla alla nuova società in balia di un travolgente cambiamento.
L’esito del referendum costituzionale, pur rappresentando solo un aspetto di quella politica, l’ha travolta tutta: una delle ragioni probabilmente è che il cambiamento in un Paese articolato come il nostro in tanti poteri diversi e spesso tra di loro conflittuali, con tante caste e burocrazie capillarmente insediate a presiedere la vita dei cittadini, con tante cattive abitudini e pigrizie ormai incistate, avrebbe richiesto una operazione di rinnovo molto difficile, capillare, una operazione alla quale le truppe di complemento del renzismo – i nuovi amministratori locali, il nuovo apparatchiks – non ha saputo far fronte. Nemmeno a Milano, l’isola renziana.
Le truppe di complemento sono il rincalzo a un esercito piccolo per la bisogna e che non riesce a formare nuovi soldati ma quelli di complemento hanno un difetto: sono l’espressione di un vecchio addestramento. Così è stato e così è.
La vicenda della aree Expo ha colto il renzismo in mezzo al guado e con truppe di complemento.
Arexpo è l’eredità pesante di una operazione da seconda repubblica con le sue compromissioni tra affari e politica: alla scelta di una localizzazione sbagliata si è aggiunta una gestione economica opaca e confusa nel groviglio del dare e dell’avere tra Expo 2015 Spa in liquidazione e Arexpo Spa, una società che solo con l’ultima assemblea del 30 novembre si è data un nuovo Statuto e ha definito la composizione del suo Consiglio di amministrazione e la sua mission: “Valorizzare, Trasformare, Innovare”. Una società pubblica di promozione immobiliare.
Al vertice di questa società c’è un consiglio di amministrazione di cinque persone: Giovanni Azzone, già Rettore del Politecnico, ordinario di Sistemi di controllo di gestione; Giuseppe Bonomi, una vita tra aeroporti e direttore generale della Presidenza di Regione Lombardia, Ada Lucia de Cesaris, avvocato amministrativista già Vicesindaco a Milano e Assessora al territorio; Chiara Della Penna, avvocata specializzata in diritto commerciale e in diritto anti trust; Marco Simoni, economista, della segreteria del Vice Ministro dello Sviluppo Carlo Calenda. In fine un direttore generale, Marco Carabelli, laureato in Economia e commercio, già direttore al Bilancio e programmazione, poi vicesegretario generale di Regione Lombardia.
Qualcuno può vantare una esperienza in promozione immobiliare? Chi li ha messi lì? Lo stato maggiore delle truppe di Complemento? Cerchiamo la competenza? Troviamo il manuale Cencelli, quello mai morto nemmeno nell’era renziana.
La verità è che Arexpo non è una società di promozione immobiliare: è tutt’altro, è un affare da seconda repubblica, uno snodo di interessi. La dimostrazione? Due fatti strettamente collegati: la redazione del documento di indirizzo e il recente bando del quale si parla in seguito.
Il Documento di indirizzo, dal titolo “Linee Guida del Piano Strategico di Sviluppo e Valorizzazione di Arexpo”, curiosamente ancora prima che il Governo entrasse come socio di maggioranza relativa (39,28%) Arexpo lo commissiona e lo ottiene da Pricewaterhouse Coopers e a Roland Berger – due società di consulenza – per farsi dire cosa fare di quelle aree. Quando mai una società di sviluppo immobiliare non sa cosa dovrebbe fare? Non ha le risorse interne per saperlo? Curioso.
Il documento prodotto nel settembre 2016, corposo, già dalle prime pagine dice che l’area Expo è il luogo ideale per un Parco della Scienza, del Sapere e dell’Innovazione. Solo per quello? Altre alternative no? Molte delle affermazioni per avallare questa ipotesi sono mere opinioni senza visibile supporto di ricerca: sembra più che altro un documento a sostegno di una candidatura.
Comunque. Parco della Scienza sia! Ma anche nuova localizzazione dell’Istituti Italiano di Tecnologia – assai discusso – e alcune università.
Lo Stato in novembre 2016 interviene con il Ministero dell’economia e delle finanze e nomina i suoi rappresentanti nella società. Il ministero dell’Università e della Ricerca incredibilmente non compare, forse nessuno lo interpella, forse questa operazione potrebbe essere collocata nel Programma Nazionale della Ricerca, che però è fermo al 2012 e che se fosse varato dovrebbe andare al CIPE per l’autorizzazione definitiva. Campa cavallo.
Arexpo comunque non si ferma e, sempre non sapendo bene di suo cosa fare, a dicembre fa un bando per la scelta di un unico contraente in grado di ideare e gestire lo sviluppo e la “Rigenerazione Urbana” dell’area ex Expo, cosa che invece il soggetto prescelto dovrebbe saper fare, ossia la gestione del masterplan secondo il documento di indirizzo e poi realizzare il tutto sulle aree, forte di una concessione di 90 anni. Un soggetto difficile da trovare viste le dimensioni dell’operazione, la sua complessità e la diversità dei ruoli.
Comunque Arexpo non ha dubbi e ha solo un problema: come si sceglie il soggetto operatore? Niente paura, la formula è quella prevista dal Codice degli Appalti: l’offerta economicamente più conveniente, quella usata per l’appalto della Piastra Expo e che ha riempito di sé le cronache giudiziarie, formula che i tribunali si ritrovano sempre quando si parli di malaffare, opacità e abusi. Usare però questo procedimento di scelta del contraente è fuori luogo: è un meccanismo per appaltare opere edili, non certo scegliere un piano che preveda un intervento urbanistico.
Ma ammettiamo pure che in questo caso tutto, nella più assoluta legalità, sia logico e coerente. Sapete chi deciderà i destini della più grande trasformazione territoriale del milanese? Una commissione, quella prevista Codice degli appalti, che valuterà, secondo certi parametri predefiniti, l’offerta economicamente più vantaggiosa: vantaggiosa per chi? Per pagare i debiti di Arexpo? Chi ci sarà in quella commissione? In rappresentanza di chi? Della ricerca? Dello sviluppo economico del Paese? Di Milano? Della città metropolitana? Chi valuterà onori e oneri per Milano? Oneri per manutenzioni delle aree, delle opere di urbanizzazione, per nuovi trasporti pubblici indispensabili? Per 90 anni? In un mondo che cambia e dove, se tutto va bene, siamo a stento capaci di fare programmi a 5 anni, la durata di un governo o una consigliatura comunale?
Un dettaglio: prima di partire con l’attuazione bisognerà probabilmente arrivare a un nuovo Accordo di Programma, perché le necessarie autorizzazioni competono al Comune di Milano. E se l’accordo fa la fine di quello per gli scali ferroviari?Un bando così forse andrà deserto, comunque non è per il mercato italiano e per finire è l’abdicazione a un ruolo di governo del territorio: il governo non si appalta.
Fermiamo il bando fin che siamo in tempo e ridefiniamo i ruoli. Quel che c’è oggi è frutto del lavoro di truppe di complemento, da rottamare: un renzismo che tradisce Milano.
Le contraddizioni italiane sul dramma dei profughi: le mostre in centro, i profughi in periferia. comuneinfo newsletter, 17 gennaio 2017 (m.p.r.)
All’estrema periferia, il Comune di Firenze diventa invisibilmente il comune di Sesto, anche se a guardare i capannoni, nessuno se ne renderebbe conto. Non c’è nemmeno un cartello, “Benvenuti all’Osmannoro!” (che i filologi ci riferiscono significherebbe “immondezzaio”).
A cinquecento metri circa oltre l’invisibile confine, c’è un immenso capannone, abbandonato qualche anno fa dalla Aiazzone, una ditta nota per l’imbonitore televisivo che la guidava, cui sono subentrati altri signori poi arrestati dalla Guardia di Finanza per “bancarotta distruttiva, fraudolenta e documentale, riciclaggio di denaro, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, falsa presentazione di documentazione”. Insomma, una sana impresa italiana.
Questo capannone – in una zona in cui la metà delle insegne sono in cinese senza traduzione – è stato occupato da una settantina di africani: non clandestini, gente cui è stata riconosciuta la protezione umanitaria. Siccome nessuna cooperativa riceve trentacinque euro al giorno per ospitare i riconosciuti, l’interessamento dello Stato italiano finisce lì. L’altro giorno, scoppia un incendio e muore un giovane somalo (leggi anche Lo avete ucciso voi, ma anche La morte di Alì e quei profughi dimenticati, ndr).
Evacuati nei giorni più freddi dell’anno, i “protetti” hanno un’idea geniale.
Proprio al centro di Firenze, c’è Palazzo Strozzi. E a Palazzo Strozzi c’è una mostra di alcuni pezzi di metallo, di orrenda bruttezza, ammucchiati da un cinese dal nome Ai Wei Wei. Il tutto è dedicato al Dramma dei Profughi, simboleggiati da una fila di gommoni appesi ai sassi rinascimentali:
“La libertà – Libero è il titolo della mostra –, espressa attraverso ogni singola opera, è un messaggio per chi questo diritto vuole toglierlo e limitarlo. Inoltre, riuscire a portare ancor più in primo piano, sulla facciata di un palazzo storico di una delle più belle città del mondo, il dramma dei migranti e dei profughi, è vitale. Reframe, l’installazione che ha destato più polemiche, porta il mar Mediterraneo sotto gli occhi di tutti”.
E così gli umanitariamente protetti hanno deciso di fare una visita proprio alla mostra di Ai Wei Wei, dove sono stati accolti dalle istituzioni nella maniera che possiamo vedere in questo video (purtroppo incorporandolo, parte subito l’audio, per cui mettiamo solo il link, ma vale la pena di guardare).
Le Istituzioni della Città hanno rimandato la palla al povero sindaco di Sesto Fiorentino, che per ora ha messo i protetti nel Palazzetto dello Sport.
Si può occupare il capannone Aiazzone e marcirci dentro per anni, ma non si può entrare nemmeno per un giorno a Palazzo Strozzi. Infatti, la bellezza di Firenze è esattamente proporzionale a ciò che scarica sulle periferie.
Il Comune di Sesto non ha quindi soltanto l’onore di accogliere settanta persone che volevano invece andare a Firenze. Infatti, è a Sesto, come abbiamo raccontato, che si scaricano tutti i rifiuti di Firenze e dove vogliono farci l’aeroporto internazionale e pure una terza corsia dell’autostrada. Per far venire a Palazzo Strozzi gli altri stranieri, quelli che vanno a spasso con il bastoncino per farsi i selfie.
Always in Your Backyard…
Molte cose buone, ma moltissime cattive nella gestione privatizzata e discrezionale del patrimonio pubblico a Roma. Si comprende perché se qualcuno vuole metterci un po' do chiarezza (vedi giunta Marino) viene cacciato. il manifesto, 15 gennaio 2017
«La mappa interattiva dei beni immobiliari di Roma. Il 14% dei beni indisponibili concessi è inutilizzato. Il 59% è in una posizione irregolare. La mappa interattiva del patrimonio immobiliare di Roma. Dati raccolti da Stefano Simoncini, elaborazioni ReTer. Grafici elaborati da Giovanni Renzi e Davide Rossidoria»
La maggior parte di questi beni, l’84 per cento circa (42.455 beni unitari), fa parte dell’edilizia residenziale pubblica, sono cioè case popolari alla Corviale, con un sistema di gestione afflitto da problemi enormi, dovuti perlopiù a carenza di manutenzione e assenza di controlli. Quando si parla di «Affittopoli» ci si riferisce soprattutto al “patrimonio disponibile”, alloggi e locali commerciali destinati alla messa a reddito (rispettivamente 1,92% e 1,19% del totale), e al “patrimonio indisponibile” assegnato in concessione a fini sociali e istituzionali (1,61%).
Due componenti che complessivamente rappresentano il 4,7 per cento dell’intero patrimonio (circa 1700 beni unitari). Una città perciò più piccola, ma non per questo trascurabile, in quanto il conteggio per beni unitari (che vanno da singole cantine a interi palazzi) è fuorviante, e dei 989 beni del patrimonio indisponibile in concessione, ben 180 sono interi fabbricati o porzioni di fabbricato, e spesso anche di grande pregio.
Tra le realtà associative e culturali che animano il Patrimonio non mancano situazioni di abuso o di attività per lo più economiche, ma prevalentemente esse costituiscono un diffuso e radicato capitale sociale, e sono spesso delle vere eccellenze “storiche” nel contesto capitolino. Parliamo di realtà come l’Accademia Filarmonica Romana, istituzione concertistica tra le più antiche e illustri d’Italia, o come il Grande cocomero, centro riabilitativo per i ragazzi di Neuropsichiatria Infantile del Policlinico Umberto I nato oltre 20 anni fa da un’idea del celebre neuropsichiatra Marco Lombardo Radice, o ancora il Celio Azzurro, nota scuola d’infanzia dedicata all’inclusione multiculturale, o l’associazione A Roma Insieme, fondata 24 anni fa da Leda Colombini, storica figura del Pci romano, che si occupa dei bambini che vivono nel carcere di Rebibbia con le madri e del reinserimento di queste ultime. E poi ancora la storica Casa dei Diritti sociali di via Giolitti, Viva la Vita onlus che da molti anni si occupa di malati di Sla, il centro Ararat all’ex Mattatoio di Testaccio, associazione della comunità curda, insieme a centri sociali come il Rialto Sant’Ambrogio, l’atelier Esc a San Lorenzo, Auro e Marco a Spinaceto, il Csa La Torre su via Nomentana, la Palestra popolare di San Lorenzo, l’ex casale Falchetti a Centocelle, il Laboratorio Sociale Autogestito 100celle, lo spazio sociale 100celleaperte, il Csoa Corto Circuito a Cinecittà.
Come si vede dalla mappa che qui pubblichiamo con i dati di gestione, in buona parte inediti, (interattiva online sul sito de il manifesto, elaborazioni ReTer) il Patrimonio immobiliare del Comune è disseminato un po’ su tutto il territorio della città metropolitana. Si possono distinguere (layer «concessioni minacciate») le concessioni a rischio per l’azione della Corte dei Conti, che sta inducendo l’amministrazione a convertire in determine di sgombero tutte le istruttorie per danno erariale (230 a oggi).
Il patrimonio si divide in indisponibile in concessione (con dati inediti su tutte le concessioni, compresi beneficiari, canoni e morosità al 30/11/2013); patrimonio disponibile a uso residenziale; centri sportivi in concessione. Da notare la prevalente irregolarità delle posizioni, attestata dai 510 contratti «non presenti agli atti» su 861 (59%), trattandosi probabilmente di procedure non perfezionate. Come particolarmente significativa è pure la composizione dei beneficiari con due nuclei forti: il non profit, tra associazioni, enti pubblici ed enti ecclesiastici (39%), e la voce «altro» (41%), che comprende locali per attività commerciali e produttive, ma anche alloggi ad uso residenziale (destinazioni ammesse nel patrimonio indisponibile per motivi tecnici).
La mappa evidenzia anche un elevato tasso di inutilizzo e abbandono (14%) e la vasta distribuzione su tutto il territorio cittadino, che ne fa nel loro insieme un’infrastruttura fondamentale per politiche territoriali di promozione di cooperazione sociale, cultura diffusa e sviluppo locale.
Riemerge a Venezia la proposta sulla separazione della città antica dal resto del territorio dell'attuale Comune. In una stagione in cui i recinti prevalgono sulla capacità di governare l'equilibrio tra pareri diversi d'un unico sistema, la proposta appare meno irragionevole che nel passato. La Nuova Venezia, 14 gennaio 2017 (m.p.r.)
Se Venezia, Murano e Burano costituissero un comune separato dalla terraferma, forse oggi la difficile questione del turismo sarebbe vicina a una risposta sensata, in linea con l’importante esigenza di salvaguardare la vita e l’economia locali senza rinunciare al benefici di un afflusso anche importante di visitatori. Questa è almeno la sensazione che si ha di fronte alla lettura di un documento approvato nel pomeriggio dell’11 gennaio dalla municipalità appunto di Venezia, Murano e Burano: un corpo di amministratori pubblici che riflette la composizione delle forze politiche presenti su quei territori.
Eppure nelle relazioni al Parlamento parla con durezza contro la speculazione fondiaria che impedisce alle persone senza ricchezza di vivere dignitosamente. In quel periodo, anche grazie alla spinta sociale dei municipi guidati dai primi sindaci socialisti, esisteva la convinzione che le città vanno guidate sostenendo la parte debole della società.
Sarà necessario un imponente lavoro di riflessione sulle cause della tragica involuzione culturale che negli ultimi trenta anni ha fatto diventare le città esclusivi fattori economici rinunciando a qualsiasi ruolo di guida pubblica. La vicenda che trova spazio nelle pagine del manifesto trae origine da atti approvati da amministrazioni di centrosinistra.
Torniamo dunque al nodo culturale. Negli anni Ottanta si afferma il pensiero unico urbano secondo il quale non possa esistere nessuna attività che sfugge dall’azione predatoria di un’economia senza regole. Questo pensiero unico si è affermato con una rapidità sorprendente e ha prodotto il disastro che abbiamo sotto gli occhi. Per questo, germi nuovi nati al fuori delle vecchie culture politiche, hanno iniziato ad affermarsi in questi anni difficili.
È infatti grazie a questa cultura di difesa dei beni comuni che abbiamo vinto il referendum sull’acqua pubblica. È per questa nuova cultura che a Napoli grazie all’azione di Lucarelli e Maddalena si è affermata una importante concezione dei beni comuni. È per questa nuova cultura che tante città stanno ragionando sugli antidoti per rimediare al disastro. Dentro questa prospettiva culturalmente differente va anche richiamata l’importante azione condotta dall’allora prefetto Gabrielli che riuscì a mettere a disposizione del comune di Roma una importante somma da destinare ai gravi disagi abitativi.
Questa nuova cultura ha consentito l’affermazione di Virginia Raggi a sindaco di Roma e proprio dalla capitale arriverà il segnale culturale che l’intero Paese aspetta. Le città non sono luoghi esclusivi per speculazioni dei fondi immobiliari. Le città sono invece i luoghi della socialità e per garantirla si tratta di difendere e ripristinare – ovviamente senza sprechi o favoritismi – la rete delle associazioni che ci difendono da una deriva sociale che può travolgere le stesse radici del vivere urbano.
». il manifesto, 14 gennaio 2017 (c.m.c.)
Quello della nuova amministrazione sarà un dietrofront coordinato su tutti i fronti per riportare il paese indietro di mezzo secolo su riforme, rete sociale, immigrazione, voto alle minoranze e ambiente. Per molti versi la politica ambientale è stata la maggiore success story dell’amministrazione Obama. Negli ultimi 8 anni la generazione di energia eolica è aumentata di 30 volte, all’industria sono state imposte le norme atmosferiche più severe di sempre e ai costruttori di auto regole di efficenza che entro il 2050 dovranno dimezzare i consumi di carburante.
La multa di 4,3 miliardi di dollari imposta alla Volkswagen per la truffa delle emissioni diesel e il fascicolo Fiat aperto l’altro giorno dalla Environmental Protection Agency (EPA), dimostra la priorità della protezione dell’ambiente. Ma se la VW pagherà, la pratica Marchionne verrà quasi certamente archiviata dal governo che si insedierà venerdì prossimo.
Trump che ha promesso di «rifare grandi gli idrocarburi americani», ha schernito le politiche ambientali di Obama come una crociata contro l’industria. Il governo che ha scelto come Segretario di Stato il presidente della Exxon, quasi sicuramente dichiarerà guerra all’ambientalismo globale col possibile rinnegamento degli accordi di Parigi.
Quanto alle politiche domestiche nulla può essere più emblematico della nomina a direttore dell’EPA di Scott Pruitt. Presentato da Trump come «leader nazionale contro la guerra al carbone promossa da Obama» il compito di Pruitt sarà quello di firmare una resa incondizionata dell’ambiente che il suo dicastero sarebbe tenuto a tutelare. Come procuratore generale dell’Oklahoma Pruitt ha passato una carriera a querelare l’ente stesso che ora va a dirigere per conto di conglomerati energetici.
Agli atti del suo ufficio esistono lettere di protesta per le «eccessive norme ambientali» rivelatesi poi copiaincollate da comunicati di aziende petrolifere, come la Devon Energy, che dominano l’economia dell’Oklahoma. Con la scusa della «tutela dei diritti degli stati» dall’ingerenza federale la missione di Pruitt, la cui nomina è stata valutata come uno scherzo crudele dalla comunità ambientalista, sarà di rottamare quarant’anni di protezioni ambientali e dare libero impulso a una politica energetica dettata dai petrolieri a base di carbone, fracking e trivellazioni in aree protette. È facile immaginare quindi che la prosecuzione delle infrazioni automobilistiche comprese quelle della Fiat Chrysler non saranno prioritarie per la EPA di Pruitt.
Il valore delle ultime iniziative di Obama sembrerebbe dunque del tutto simbolico, ma forse ma non del tutto. Molte battaglie politiche infatti sono ora destinate a spostarsi sul confronto fra una Washington espugnata dalle corporation e le amministrazioni statali.
Sull’ambiente sarà determinate il peso della California: lo stato più popoloso rappresenta ad esempio di gran lunga il maggiore mercato automobilistico nazionale e per questo è da sempre battistrada sulle politiche ambientali. Non è pensabile competere senza adeguarsi alle norme che permettono la commercializzazione di vetture in California. È la ragione per cui all’atto pratico le regole californiane si convertono di fatto in norme per tuttii costruttori. Lo ha appreso Marchionne quando è stato obbligato a rispettare le quote richieste e commercializzare in California le 500 elettriche che sul suo bilancio gravano come una perdita, come non perde occasione di lamentare.
La protezione dell’ambiente americano – e globale – dipenderà quindi in parte dall’adeguamento all’innovazione tecnologica imposta sulla West Coast e che il governatore Jerry Brown ha giurato se necessario di difendere a tutti i costi. L’iniziativa di Obama a carico dell Fiat è un ultimo assist a chi come lui dovrà, nella notte trumpista, raccogliere il testimone ambientale.
«Nulla è più lontano da una saggia comprensione e da una concreta politica dei beni culturali di quanto non sia il consumismo». Presentazione di un libro di Andrea Emiliani, Il paesaggio italiano. casadellacultura, città bene comune, 13 gennaio 2017 (c.m.c.)
Andrea Emiliani, Il paesaggio italiano, introduzione di Pierluigi Cervellati, Minerva, Argelato 2016, pp. 103
Una passione conoscitiva coltivata a tutto campo e una non meno solida passione civile; il tutto ben rispecchiato in una scrittura rapsodica, fatta di accensioni, aperture, sospensioni, svolte inattese. Il risultato è un libro* raro in cui il vissuto dell'autore sollecita e lascia spazio a quello del lettore, lo spinge a ricercare nella memoria; e, quando questa non basta, a reperire i documenti iconografici di cui il libro - suo unico limite - è, in vero, parco (a eccezione della splendida Galleria fotografica con gli scatti di Paolo Monti relativi per lo più all'Appennino emiliano).
Il richiamo all'esperienza diretta è d'obbligo: il paesaggio è un aspetto del reale in cui oggetto e soggetto sono insieme distinti e interdipendenti: è il mondo fisico per come è percepito (visivamente, ma non solo) e, insieme, il contesto in cui si svolge la vita degli individui e della società (non sempre e, anzi, sempre meno consapevoli dei profondi condizionamenti che dall'ambiente fisico derivano).
Quello rivisitato da Andrea Emiliani è in primo luogo il paesaggio inteso come: «il nostro specchio prediletto, il teatro di molti tra i nostri sentimenti» (p. 15); ovvero il paesaggio nel suo splendore, in cui rifulge il suo essere, con la lingua, la più grande opera collettiva: «Il paesaggio non ha un autore solo, ma infiniti inventori che ne hanno perfezionato il volto nel corso della secolare opera di umanizzazione che il territorio, il nostro spazio di vita, ha ospitato» (ibid.).
Emiliani insiste sulle «relazioni genetiche» (p. 19) che intercorrono tra il paesaggio reale e l'interpretazione che ne hanno dato la pittura e la letteratura; in questa linea, non manca di richiamare come nelle varie restituzioni abbiano operato influenze fra le arti - in particolare tra la fotografia e la letteratura, fra la letteratura e il cinema - e come il nostro stesso sguardo, lo sguardo di ciascuno di noi, sia stato segnato da queste interrelazioni.
Lo straordinario corrispondersi fra i singoli contesti e la loro 'ricreazione' nelle arti visive e nella pagina scritta, secondo Emiliani, è venuto in qualche modo a costituire un'«autobiografia del paesaggio» (p. 17); un concetto, questo, di grande valenza conoscitiva e progettuale: vi è implicita una linea programmatica dove l'esperienza diretta, la memoria collettiva e le interpretazioni illuminanti si tengono per mano e sono riferimenti imprescindibili per un'"idea di cultura" che intenda prolungarsi «operativamente nel presente» (p. 34).
Le circostanze hanno voluto che quell'«autobiografia» conoscesse una battuta d'arresto proprio in coincidenza con la «nascita dell'ente Regione, tra il 1970 e il 1975» (p. 19). Un rapporto di causa ed effetto? No: la caduta di attenzione verso il paesaggio nella letteratura e nell'arte ha ragioni profonde: è piuttosto riconducibile, dice Emiliani, «alle forti correnti che trascinano la complessa forma umanizzata che è il paesaggio verso la banalizzazione e l'annullamento»: è il frutto della «silenziosa omologazione ai prodotti di consumo» (ibid.). Come dargli torto? Non è questa la condizione in cui siamo immersi? Semmai è ulteriore motivo di preoccupazione la difficoltà della letteratura e dell'arte, ma anche delle scienze umane, nel dare conto di questo passaggio epocale.
Con rapidi accenni lo studioso non manca di richiamare alcune delle pietre miliari che in ambito letterario hanno concorso a delineare un'autobiografia del paesaggio italiano: da Alessandro Manzoni (l'Adda e dintorni) a Giovanni Pascoli (giustamente definito "conoscitore poetico e "tecnico" del paesaggio rurale italiano"), da Massimo Bontempelli, a Ugo Ojetti, Emilio Cecchi, Carlo Emilio Gadda, Guido Piovene, Corrado Alvaro, Ignazio Silone, Mario Soldati. Una galleria che ognuno può completare.
Per parte mia, aggiungerei almeno i nomi di Federico Tozzi (le splendide istantanee su Siena) e Carlo Levi (le pagine memorabili su Matera e su Torino); e anche di non pochi poeti italiani del novecento (ma il discorso ci porterebbe troppo lontano). Dopo una ricognizione d'assieme, il libro prende il volo. In brevi, intensi passaggi, vengono restituite le emozioni vissute dall'autore stando su una soglia ideale tra la memoria personale del paesaggio reale e le sue restituzioni nella letteratura e nell'arte (senza dimenticare gli apporti preziosi della storiografia e della geografia umana, a cominciare da quelli di Emilio Sereni e di Lucio Gambi).
Ci vengono così regalate sei perle - L'aurora sul Metauro di Baldasar Castiglione, Il teatro prospettico di Federico da Montefeltro, Il silenzio di Ferrara, La luce di Venere sul borgo del Pratello [Bologna], L'occhio di Napoleone a Catania, Le Ricordanze [Giacomo Leopardi] - che lascio interamente alla scoperta del lettore.
Ma ecco, in un sapiente montaggio, irrompere la sera del 28 agosto 1944, quando sotto i cingolati del «più grande esercito di tutti i tempi» le strade di Urbino, città che la guerra aveva risparmiato, «si sbrecciavano per sempre» (p. 29). L'immagine, efficacissima, è assunta da Emiliani come emblema di «uno storico trapasso», da lui lapidariamente riassunto nella formula: «C'era dunque, una volta, l'Italia» (p. 30). Il giudizio apodittico è subito spiegato: il variegato e pur unitario paesaggio italiano si è estesamente sfaldato, prima ancora che per l'edificazione selvaggia, per il dissolversi della «sofferta, ma misurata, paziente trama secolare" dell'«Italia dei contadini»: di quell'«accudire attività produttive» da cui ha preso corpo il «più gigantesco e qualificante profilo e onnipresente disegno italiano» (p. 31).
A questo punto il libro concentra l'attenzione sui rapporti tra il paesaggio e l'istituzione museale, tema centrale nell'opera e nella vita stessa dell'autore. Come non manca di rimarcare Pierluigi Cervellati nella bella introduzione, nel «rinnovo critico/espositivo della Pinacoteca» di Bologna, Andrea Emiliani è stato tra i protagonisti di una rivoluzione museografica che, nel capoluogo emiliano ma non solo, ha puntato sullo stretto legame e sulla reciproca valorizzazione fra quanto raccolto ed elaborato nei musei e il contesto geografico di loro diretta pertinenza: le città e le campagne intese quali straordinari depositi di cultura materiale in cui rifulgono - anche se sempre meno - saperi, tecniche e, più complessivamente, culture dell'abitare.
La rivoluzione museografica propugnata da Emiliani «in parallelo - ricorda Cervellati - con le ricerche elaborate dall'amministrazione comunale di Bologna sulla città storica» (p. 7), ha puntato a ristabilire un legame virtuoso fra museo e territorio attraverso «campagne di rilevamento» in cui la fotografia di Paolo Monti ha svolto un ruolo fondamentale (si spiega così la Galleria fotografica posta in fondo al libro). Dico ristabilire, dal momento che si è trattato di uno sforzo, quanto mai apprezzabile, di rinnovare una storia che in Italia - è lo stesso Emiliani a ricordarcelo - ha visto l'istituzione museo rispondere alla «dimensione geografica […] con l'inventario delle peculiarità "locali", dando così voce a ogni città - e si può ben dire - a ogni paese della fittissima rete creativa italiana» (p. 39).
Ed è, appunto, nel vivo di questo ordine di problemi che il volume si addentra negli ultimi due capitoli (Il Museo, laboratorio della storia; Dall'ambiente al museo). L'autore fornisce a grandi linee le coordinate delle vicende della museografia italiana dal Settecento in poi; una storia in cui già dalla seconda metà del XVIII secolo sono riconoscibili indirizzi che «forniscono un apporto insostituibile alla nozione di bene culturale», destinata a coagularsi «nel concetto (per il vero un po' tesaurizzante, ma insostituibile) di patrimonio» (p. 41). Già nell'abbrivio settecentesco, nella vicenda museale emerge la tensione a «unire il tempo, e cioè la storia, con lo spazio e cioè il luogo» (ibid.): un'impostazione che ha consentito al museo di interagire con la sete di conoscenza de visu (il Grand Tour ecc.) che animava la società europea coeva e, allo stesso tempo, di assumere una duplice valenza: antropologica ed educativa. Questo ha collocato da subito il museo fra le istituzioni civili per eccellenza, a fianco della biblioteca e della scuola. Infatti, rimarca Emiliani, «il museo civico italiano dopo l'unità nazionale, e cioè dopo il 1860 e fin verso il 1910, [ha assolto] anche a compiti di rappresentanza delle civiche virtù» (p. 43).
Cosa è successo da allora? Accennando al possibile ruolo di un «museo della città», Emiliani fa osservare che, quando diviene il ricettacolo di frammenti più o meno preziosi derivanti da «sventramenti e abbattimenti urbanistici», «il museo civico assume l'immagine della buona e della cattiva coscienza urbanistica e culturale della città e del suo crescente suburbio» (pp. 44-45). Questo serve a richiamare come i rapporti fra il museo e il paesaggio si siano alquanto complicati da quando, lo dico con parole mie, l'intervento umano sui contesti rurali e urbani ha perso il suo legame con l'abitare e con la cura, principi cardinali tanto dell'agri coltura quanto dell'urbis coltura a cui dobbiamo la parte preponderante del nostro patrimonio culturale. Come non bastasse, l'onda del degrado non ha risparmiato l'istituzione museale.
Lo attesta, per un verso, il venire avanti di sistemazioni da fiera campionaria rispondenti a «modelli di intervento architettonico e conservativo di bassissimo livello museologico e anche di mediocre levatura progettuale» (p. 46) e, per altro verso, il proliferare di iniziative che tradiscono una solida tradizione: la linea che l'autore definisce «incisivamente antropologica» (p. 41). Un esempio, a quest'ultimo riguardo, è il fiorire di "musei" della cultura contadina, di cui Emiliani salva solo rare esperienze: «da San Michele all'Adige al Pitré di Palermo, da San Marino di Bentivoglio a Villa Sorra e più ancora a Forlì» (p. 33).
Sul resto ha un giudizio durissimo: «il dissennato smontaggio dell'economia e della cultura contadina italiana» ha prodotto un'infinità di 'reperti', facendo affluire in strutture spesso improvvisate «masse imponenti di materiali […] usciti dalla funzione d'uso» (p. 60) e incapaci sia di svolgere un ruolo di documentazione scientifica sia di fare da innesco per una crescita culturale.
La gran parte di quei "musei", sostiene a ragione l'autore, sono luoghi in cui in omaggio al "modello mercantile" si è preteso «di violentare e assoggettare le forme e gli oggetti dei contadini e di asservirli a rozze apparizioni ripetitive e decorative: proprio come per gli oggetti di conquista o per le teste imbalsamate di animali cacciati» (p. 32). Per contro, Emiliani vede positivamente il costituirsi di «veri e propri parchi museografici»: strutture diffuse sorte soprattutto a partire dalla «cosiddetta archeologia industriale» (dove quel "cosiddetta" è ancora una volta l'indice di un uso sorvegliato della lingua, oltre che un modo di evitare ogni corrività con le mode). Lo studioso vi scorge il fiorire di estese opportunità per rinnovare la funzione del museo sia sul versante didattico che su quello di un'acculturazione estesa su nodi strategici quali i rapporti "fra cultura e tecnica" e «fra cultura e scienza» (p. 48). E questo in continuità con la funzione svolta egregiamente da specifiche declinazioni dell'istituzione museale («Il museo tecnico, il museo naturalistico, il museo scientifico, il museo di oggetti speciali, dalle armi ai tessuti, dai vetri alle ceramiche e infine alla macchine», p. 47).
Nell'ultimo capitolo il libro affronta la questione delle fratture e degli ostacoli che impediscono ai contesti socio-territoriali di ritrovare nel museo un «cantiere attivo della propria osservazione sulla storia» (p. 45). All'origine di tutto c'è il fatto che «la nozione di "merce" [ha preso] ad attraversare sempre più frequentemente il museo» (da cui un feticismo dell'oggetto in sé, in coerenza, verrebbe da aggiungere, a quel che accade nel territorio con il disfarsi della trama complessa che teneva insieme i paesaggi e che ha tra le sue conseguenze il degradarsi degli organismi architettonici alla condizione di oggetti 'spaesati').
L'autore punta quindi il dito sullo scollamento fra «amministrazione del cosiddetto patrimonio culturale e il patrimonio stesso» (p. 53) indicando fra le cause la mancata attuazione di un effettivo decentramento amministrativo. Si richiamano, in proposito, le speranze che, in una stagione ricca di fermenti, venivano da più parti attribuite alle autonomie locali: «In questo disegno proiettivo, in fondo al quale era pur sempre la nascita dell'ente Regione e l'adempimento al dettato costituzionale (art. 117), consistette l'apporto più alto delle amministrazioni locali, degli studiosi che gradualmente vi afferivano, dei tecnici impegnati».
E subito Emiliani precisa: «Diciamo con serietà: pur nella modestia dei risultati particolari, fu un cammino che valeva la pena di ricordare e di studiare, perché inedito nel nostro Paese; perché facile a tramontare, di fronte a disegni di diversa, centralistica democrazia che più tardi vinsero» (p. 56). Debolezza del movimento innovatore? Forza dello schieramento avverso? Comunque sia, in un bilancio storico andrà considerato che, fatte salve rare eccezioni (fra le quali si colloca senz'altro la situazione emiliana, direttamente vissuta dall'autore), è tutto da dimostrare che, sul fronte delle articolazioni locali della Pubblica amministrazione, alla prossimità ai beni da tutelare abbia corrisposto (e corrisponda) in Italia una coscienza e una preparazione, e ancor più una tensione condivisa, in grado di fare della questione della tutela del patrimonio culturale, dentro e fuori dai musei, una priorità sociale e politica.
Emblematica l'esperienza dei piani paesistici: quanto lavoro, talora pregevole, è finito su un binario morto per il persistere della svendita del suolo agricolo e della devastazione dei paesaggi (rurali e urbani) da parte degli Enti locali! In un bilancio storico - e ancor più nella messa a punto di linee d'azione - andranno comunque soppesate queste parole di Andrea Emiliani: «nulla è più lontano da una saggia comprensione e da una concreta politica dei beni culturali di quanto non sia il consumismo, il ritmo stesso di crescita del sistema capitalistico, con l'imposizione dei suoi raddoppi di produzione-consumo nel giro breve di anni, e dunque vissuto lungo una spirale che si avvita verso l'alto liberando a terra unicamente rovine e orrende montagne di rifiuti, simbolo repellente dello spreco e dei veri risultati di quel modello. Non è un caso se, a fronte di tanta distruttiva voracità, una quota assai alta di beni culturali, quella ovviamente più appetibile - e dunque la città, la casa, l'oggetto di antiquariato - sia già da tempo entrata in una masticazione inesorabile: destinata forse a sopravvivere, in qualche ibernata forma ma totalmente aliena rispetto al contesto, alla nozione di patrimonio, all'idea di cultura» (p. 63).
* Andrea Emiliani, Il paesaggio italiano, introduzione di Pierluigi Cervellati, Minerva, Argelato 2016, pp. 103.
. la Repubblica, 13 gennaio 2017 , con postilla
Perché no
IN QUELLE MURA L'IDENTITÀ
ITALIANA COSÌ LA SVILIAMO
di Tomaso Montanari«L’unicità.Rappresenta la continuità tra classico e moderno Resti gratuito»
Ha scritto Kant: «Tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità ». Il Pantheon deve avere un prezzo, o può continuare ad avere una dignità?
La dignità del Pantheon è intimamente legata al cuore stesso della nostra identità: esso simboleggia la continuità tra il mondo classico e la nostra cultura moderna (è un’architettura antica ininterrottamente usata), mostra l’eccezionale ruolo che l’arte ha avuto in Italia (ospita le tombe di Raffaello e Annibale Carracci), racconta la nostra faticosa epopea nazionale (accogliendo i sepolcri dei re d’Italia). Infine, rappresenta l’unità del nostro spazio pubblico, attraverso una comunione formale e sostanziale con la piazza che sarà interrotta dal pedaggio.
Questa interruzione è un peccato mortale, sul piano civile e politico: perché prende un pezzo di città e lo trasforma in attrazione turistica, disincentivando i romani dall’ingresso, e dunque dalla conoscenza di se stessi. Ed è anche un peccato vero e proprio: di simonia, cioè di vendita di cose sante, visto che il Pantheon è anche una chiesa consacrata (e infatti una direttiva della Cei, già troppo disattesa, vieta di fare pagare per accedere alle chiese). Il Pantheon – come tutto il nostro patrimonio culturale – è una scuola: di memoria, di futuro e di cittadinanza.
I cittadini mantengono le scuole attraverso la fiscalità generale: ed è lì che bisogna guardare. Togliere i biglietti a tutti i musei statali ci costerebbe circa 100 milioni di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale viaggia sui 120 miliardi di euro l’anno. Siamo sicuri che sia un buon affare mettere a reddito il cuore stesso dell’identità nazionale, invece che far pagare le tasse a tutti?
Il ministro Franceschini ha spiegato che gli introiti del Pantheon serviranno a compensare il denaro che egli sottrae al patrimonio storico e artistico di Roma isolando il Colosseo in una assurda autonomia plurimilionaria. Egli ha citato il precedente del ministro Bottai: ma il capo di quel governo era Mussolini, per il quale «i monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine» (discorso del 31 dicembre 1925). Ora è l’ideologia è un’altra: non quella del fascismo, ma quella della supremazia assoluta del mercato. Tanto che il Mibact potrebbe cambiare la sua sigla in Mimcin: Ministero per la mercificazione della cultura e della identità nazionale.
Ma, come ha scritto Michael Sandel, «assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle. Spesso gli economisti assumono che i mercati siano inerti, che non abbiano ripercussioni sui beni che scambiano. Ma questo non è vero. I mercati lasciano il segno. [...] Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate». La cultura dovrebbe essere l’antidoto a un mondo dove il denaro misura e compra tutto: ma se avveleniamo l’antidoto, che speranze avremo di cambiare?
Perché sì
GIUSTO IL BIGLIETTO SE SERVE
A SALVARE I NOSTRI TESORI
di Corrado Augias
«La sfida.Prevedere un costo può aiutare a risolvere i problemi di cassa»
In decisioni come queste non esistono un torto e una ragione, nemmeno un meglio e un peggio, tutti sono animati dalle migliori intenzioni, divisi solo da due concezioni, forse potrei dire da due urgenze.
L’annuncio di far pagare un biglietto per il Pantheon ha suscitato polemiche, vivaci quelle dell’assessore Luca Bergamo da noi intervistato ieri. Gli aspetti pratici della questione sono parecchi e vanno chiariti. Il Pantheon è arrivato quasi intatto fino a noi perché usato come chiesa dai primi cristiani - Bernini si portò via i bronzi per farne il baldacchino di San Pietro, ma pazienza. Ancora oggi il monumento è anche una chiesa ed è opportuno distinguere il turista dal fedele; sarà logisticamente possibile farlo? Oppure: far pagare un biglietto implica ingaggiare il personale addetto e predisporre una biglietteria. Sarà possibile una collocazione che non offenda il monumento né quel gioiello della piazza antistante?
Spero che prima dell’annuncio gli uffici ministeriali abbiano impostato la soluzione di questi e di altri possibili problemi. Resta il merito delle obiezioni, in particolare quella dell’assessore Bergamo, che può essere riassunta in questi termini: Roma non è un museo per turisti, il ministro guarda al patrimonio della città «come a un giacimento da sfruttare per la bigliettazione» (sic).
Altrove Bergamo ha anche aggiunto che «si può fare molto di più e di meglio che un parco archeologico nell’area centrale di Roma». Muove l’assessore una nobilissima visione idealistico-romantica. Dietro le sue parole traspare l’immagine di Chateaubriand che contempla immalinconito la mole del Colosseo illuminato da una pallida luce lunare.
Ho fatto a tempo a conoscerla anch’io la Roma di quando le rovine erano parte stessa della città, il fascino del Grand Tour poggiava anche su questo: la vita brulicante e chiassosa nelle strade e il grandioso silenzio del passato.
Quella Roma, quel silenzio, quella convivenza non ci sono più né torneranno più. Viviamo in anni in cui ovunque nel mondo, in particolare a Roma, è difficile perfino garantire la normale, ordinaria protezione dei monumenti – di manutenzione a Roma non è nemmeno il caso di parlare.
Quando attraverso a piedi Valle Giulia, Villa Borghese, il Pincio e vedo gli scempi commessi durante la notte mi chiedo sempre se sia una fatalità a volere una capitale così derelitta o se dipenda solo da un’amministrazione incapace o sopraffatta dagli eventi.
Presa ogni possibile precauzione, coordinati gli intenti tra Stato e Comune, ricavare un profitto da alcuni monumenti per destinarlo ad altri monumenti in un momento in cui le casse pubbliche sono vuote, mi sembra solo un volersi adeguare alla drammaticità del momento.
postilla
Sembra che la Costituzione del 1948 non sia stata abrogata, e che quindi sia ancora vivo l'articolo 9, il quale proclama che la Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione. Se è così le spese relative alla tutela di quel patrimonio costituiscono una delle ragioni per le quali esistono le istituzioni della Repubblica, esiste lo Stato, e i cittadini pagano le tasse appunto per consentire che lo Stato adempia ai suoi compiti. Augias sembra dimenticarlo. Anche lui paga un pedaggio a quella parte, ahimè sempre più numerosa, di intellettuali che sono stati conquistati dall'ideologia mercantilistica che pervade il nostro mondo. Ci piacerebbe che eminenti formatori dell'opinione pubblica, quando sembrano mancare i quattrini per far funzionare la sanità e la scuola, e tutelare i monumenti, sprecassero qualche parola, magari veementi, contro tutto ciò che ha «vuotato le casse» le spese inutili (Grandi opere), quelle in contrasto con la Costituzione (quelle per le guerre altrui) e mancassero al loro dovere di perseguire efficacemente l'evasione fiscale, comunque camuffata. Come afferma, giustamente, Tomaso Montanari
«Nelle campagne italiane esistono persone che hanno scelto di radicarsi sul territorio per coltivarlo in maniera autonoma, efficiente, rispettosa dell’ambiente. Chi sono?» terranuova, 12 gennaio 2017 (c.m.c.)
Sembra una favola sbarazzarsi dei metodi agroindustriali, eppure oggi in Italia c’è chi vive questa favola tutti i giorni. Chi sono queste persone? Come fanno reddito? Quali tecniche adottano? E perché il loro lavoro è necessario?
«Nell'autunno 2015 iniziano le riprese del documentario indipendente "Con i piedi per terra", durante un viaggio per l’Italia intrapreso per intervistare contadini, ricercatori, medici e docenti universitari» spiega Valentina Gasperini, una delle voci e dei protagonisti del progetto.
«Compiuto con lo spirito della ricerca, è un'indagine realizzata riprendendo in presa diretta le attività quotidiane nei campi, nei boschi, nelle case e nei mercati. Con il ritmo sostenuto dell'avanscoperta, e valorizzato da musiche originali, il documentario racconta attraverso decine di storie personali come fare reddito in maniera sostenibile, onorando il senso di appartenenza al territorio e la cultura dei saperi millenari. Testimonianze che smascherando l'inganno ideologico operato dell'agro-industria lasciano affiorare un paesaggio finemente lavorato, come un pizzo fatto di attività agricole all'opera Con i piedi per terra».
"Con i piedi per terra" è una tappa del "Viaggio Tra Terra e Cielo": un percorso che procedendo dal web al video arriverà in teatro.
"Radici nel cielo" è un collettivo di artisti e tecnici attivo nel teatro civile e nel videomaking documentaristico. Elabora percorsi di ricerca e spettacolo sull’etica e il senso di appartenenza alla terra e alla comunità umana.
Nato nel 2015, Radici nel Cielo fa narrazione orale e comunicazione multimediale accogliendo i saperi e le abilità di professionisti diversi, con un metodo di lavoro aperto alle collaborazioni.
Il collettivo ha come base operativa la Tenuta San Cassiano ma, proprio come radici, i suoi membri vivono sparsi e lavorano uniti, disseminati tra monti
«Penelopi in cerca di tela, progetti e iniziative per renderle artefici di un tessuto sociale solidale e multiculturale, basato non sulla “tolleranza” ma sulla condivisione e sulla solidarietà». ArcipelagoMilano, 10 gennaio 2017 (c.m.c.)
A Milano arrivano sempre più stranieri, tra cui molte donne, spesso condannate all’invisibilità, relegate tra le mura domestiche proprie o dei datori di lavoro per svolgere lavori tipicamente “femminili”. La scarsa conoscenza della lingua italiana e la poca informazione sui propri diritti, la frequente condizione d’irregolarità, il basso livello di scolarizzazione o il mancato riconoscimento del loro titolo di studio, sono le cause che impediscono alle donne di partecipare pienamente alla vita sociale della comunità ospite. E il persistere anche nel nostro Paese di pregiudizi sociali e culturali, impedisce spesso il loro coinvolgimento in rapporti di amicizia e solidarietà, nonché la loro partecipazione alle attività del territorio, con una ricaduta positiva su tutta la comunità, in virtù del ruolo di ponte tra famiglia e società che la donna inevitabilmente (seppur inconsapevolmente) svolge.
Questi aspetti della vita femminile, di frequente trascurati, sono ciò su cui si concentrano diverse associazioni di promozione sociale e culturale di Milano, che si rivolgono proprio alle donne, italiane e straniere, per renderle artefici di un tessuto sociale solidale e multiculturale, basato non sulla “tolleranza” ma sulla condivisione e sulla solidarietà.
Tra le Associazioni impegnate a offrire occasioni d’espressione, incontro e condivisione alle donne c’è Makramè , Onlus la cui storia si lega al territorio dell’attuale Municipio 2, tra via Padova, viale Monza e Piazzale Loreto (dove vi è un’altissima concentrazione di residenti stranieri) e al desiderio di rispondere all’esigenza inespressa di spazi “protetti”, inclusivi e capaci di abbattere ogni tipo di discriminazione o asimmetria sociale, linguistica o culturale.
Antonella Piccolo (Presidente dell’Associazione) e Wanda Di Pierro (vicepresidente) hanno pensato di incoraggiare l’incontro e la solidarietà femminile attraverso la creatività e l’arte, presentando al Bando del 2009 del Comune di Milano (in collaborazione con l’Associazione Al Quafila) il “progetto Macramè”, il cui titolo fa metaforicamente riferimento alla tecnica di tessitura manuale basata su soli tre nodi, a partire dai quali si realizzano manufatti stupendi.
Questo primo progetto è stato poi assorbito nell’ambito di Associazione Makramè, già esistente dal 2005 ma di cui la nuova Onlus ha raccolto l’eredità, dotandosi di una precisa identità femminile e multiculturale e assumendo il proposito di tessere legami con null’altro che volontà, solidarietà, creatività e coinvolgimento delle donne.
Dal 2012 al giugno 2016, grazie ai bandi indetti dal Comune di Milano per il sostegno di progetti di utilità sociale, Makramè ha ottenuto la concessione alcuni spazi nella Cascina Turro, ex sede restaurata del Governo provvisorio lombardo del 1948 (sotto l’amministrazione del Consiglio di Zona 2), e grazie a finanziamenti pubblici e privati (tra cui quelli di Fondazione Cariplo), ha potuto portare avanti due importanti attività pensate per incentivare una solidarietà basata non sul “bisogno” ma “desiderio” (di uscire di casa, di stare insieme, di realizzare qualcosa di bello e sentirsi parte di un gruppo in cui non contano età, religione, lingua, status sociale o etnia di appartenenza).
La prima attività è Voci di donne (esistente dal 2009), un coro femminile multiculturale che, ormai da sette anni, si esibisce con canti popolari di tutto il mondo, diretto da Camilla Barbarito (cantante e ricercatrice di musiche etniche e canzoni folkloristiche) e che, inizialmente sostenuto dall’Associazione, ormai si autofinanzia (pur continuando a usufruire di uno spazio concesso gratuitamente dall’ICS Casa del Sole situato nel Parco Trotter per le prove).
La seconda è il Laboratorio di sartoria creativa del martedì mattina: non un vero e proprio “corso” come ne esistono tanti a Milano, ma uno spazio libero di incontro, in cui trascorrere il tempo con altre donne, e i figli, e apprendere delle tecniche attraverso l’aiuto reciproco e la guida della giovane docente Erika (che realizza costumi anche per il Teatro alla Scala). Avviato nel 2012, il progetto si basa sulla realizzazione artigianale di accessori (che non richiedono lunghi tempi di realizzazione e si sottraggono all’individualismo del capo di vestiario, favorendo invece il lavoro di squadra), alcuni dei quali sono stati esposti in occasione delle festa “Popolandomi” dello scorso settembre.
L’obiettivo dell’autofinanziamento attraverso la vendita dei prodotti realizzati dalle partecipanti è ancora lontano; per sopravvivere il laboratorio avrebbe ancora bisogno di un sostegno esterno (pubblico o privato). La vicepresidente Wanda spiega che «basterebbero 10 o 15 mila euro all’anno», non solo per l’acquisto dei materiali e la retribuzione dell’insegnante, ma soprattutto per permettere ad un numero maggiore di donne di incontrare questa esperienza e di «far proseguire il percorso, alle donne che lo desiderano, verso una forma di microimprenditorialità».
Il nuovo Municipio 2 insediatasi lo scorso giugno non le ha rinnovato la concessione degli spazi né le ha assicurato alcun sostegno economico rilevante. Costretto a chiedere ospitalità presso la Cooperativa Tempo per l’infanzia (in via Bechi 9), il laboratorio di sartoria è ora portato avanti solo da un piccolo gruppo di donne, con l’obiettivo di realizzare eventi di autofinanziamento che permettano al laboratorio di riaprirsi. La nuova scommessa è quella di costruire uno spazio creativo in cui donne richiedenti asilo possano trovare un luogo in cui sentirsi accolte e incontrare le “sarte” di Makramè.
Ma al momento l’Associazione non riesce a garantire l’attivazione formale di quella rete solidale che ne faceva non solo un “luogo protetto” di accoglienza, ma anche un punto di riferimento per l’integrazione sociale delle donne, migranti, anziane, neoarrivate, che avessero bisogno di essere guidate anche nelle questioni pratiche come la regolarizzazione del permesso di soggiorno, l’inserimento dei figli nel sistema scolastico, la ricerca di lavoro o di corsi di formazione professionalizzanti, l’individuazione di luoghi sociali sul territorio.
I bandi pubblici favoriscono i progetti “innovativi”, ma in questo modo non garantiscono la continuità dei progetti, né favoriscono l’acquisizione di competenze o la stabilità dei rapporti umani tra i partecipanti: «È un peccato che il Municipio 2 non ci riconosca la stessa rilevanza sociale attribuitoci dall’Amministrazione precedente, perché il nostro operato ha ricadute positive sul territorio, crea socialità, favorisce i rapporti e l’integrazione multiculturale».
Le associazioni di promozione sociale non sono “corsifici” il cui scopo è quello di rinnovare ogni anno l’offerta con proposte accattivanti; il loro obiettivo è quello di trasformarsi in punti di partenza per processi lunghi e difficili di condivisione delle responsabilità, acquisizione di fiducia reciproca, costruzione di equilibri che annullino le asimmetrie etniche, generazionali, sociali, culturali.
Le istituzioni restano talvolta troppo lontane dalla realtà dell’emarginazione silenziosa di molti cittadini (e cittadine) e dalle difficoltà di coloro, operatori e volontari, impegnati a favorire l’integrazione: per acquisire reale consapevolezza della situazione dovrebbero abbandonare statistiche e teorie sociologiche e scendere per le strade, visitare i centri di accoglienza, vedere i luoghi in cui la multiculturalità e l’uguaglianza non si studiano ma si “fanno”. Allora la distribuzione dei sostegni economici potrebbe essere ripensata in maniera più adeguata alle reali esigenze dei cittadini e cittadine e in modo da garantire una maggiore continuità ai progetti che cercano di fornire ad esse una risposta.
«La resistenza degli occupanti, la solidarietà degli attivisti dei centri sociali e della sinistra politica e diffusa, la decisiva mediazione dell'assessore all'urbanistica di Roma Paolo Berdini hanno impedito lo sgombero della casa dei precari, dei giovani e dei disoccupati Alexis nel quartiere Ostiense a Roma». il manifesto, 11 gennaio 2017
La resistenza degli occupanti, la solidarietà degli attivisti dei centri sociali e della sinistra politica e diffusa, la decisiva mediazione dell’assessore all’urbanistica di Roma Paolo Berdini hanno impedito lo sgombero della casa dei precari, dei giovani e dei disoccupati Alexis nel quartiere Ostiense a Roma. La casa prende il nome da Alexandros Grigoropoulos, uno studente quindicenne ucciso da un poliziotto greco il 6 dicembre 2008 nel quartiere Exarchia ad Atene, nei giorni delle mobilitazioni contro le politiche di austerità. Il grande artista Blu ha concepito un murale che rappresenta la vita metropolitana, e di strada, con volti, macchine e catene della nostra vita quotidiana. La facciata, a pochi passi dalla Centrale Monte Martini trasformata in un museo, oggi è un’opera d’arte.
Lo sgombero era nell’aria da settimane al punto da avere allertato gli attivisti. Il 2 dicembre avevano organizzato un’assemblea dove è stato rilanciato il progetto di recupero dell’ex rimessa Atac, occupata da quattro anni, che è stato fatto rientrare intelligentemente nella delibera regionale per l’emergenza abitativa approvata sia dalla Regione Lazio che da Roma Capitale.
Ieri mattina alle sette e mezza si è presentata la polizia con i vigili urbani per eseguire uno sgombero e creare una nuova crisi abitativa e politica per la giunta Raggi. Sul tavolo una richiesta di sequestro preventivo per una presunta inagibilità della struttura avanzata dal Gip su richiesta dell’azienda municipale dei trasporti Atac. Gli attivisti di Alexis, una ventina, hanno reagito immediatamente, costruendo barricate che hanno resistito il tempo necessario per fare convergere centinaia di cittadini che hanno bloccato il traffico sull’Ostiense e intavolare una trattativa. A tarda mattinata è stato stabilito un protocollo d’intesa che ha stabilito il trasferimento degli occupanti nella rimessa dell’Atac di via Della Collina Volpi, al Valco San Paolo, mentre lo stabile di Ostiense sarà riqualificato con i fondi di Regione e Comune. Il deposito Atac dove si trasferiranno gli attivisti ha una storia particolare. Occupato e più volte sgomberato negli anni, è stato ribattezzato dai movimenti con il nome di un partigiano romano: Sestilio Ninci.
”». la Repubblica, 11 gennaio 2017 (c.m.c.)
Si chiamerà Parco archeologico del Colosseo. È la struttura che mette il sigillo alla riforma voluta da Dario Franceschini per i Beni culturali. Un luogo simbolo, che il ministro ha posto quale approdo di un percorso iniziato nel 2014, una riforma che ha fatto discutere e che, secondo alcuni, rinnova, secondo altri, stravolge l’assetto del patrimonio italiano. Dunque il Colosseo, il Foro romano, il Palatino e la Domus Aurea, oltre a una significativa fetta della Roma storica, formeranno un parco che verrà guidato da un direttore scelto con un bando internazionale, come accaduto per gli Uffizi o Brera.
Il parco non avrà più a che fare con la soprintendenza che aveva competenza anche sui beni storico-artistici e paesaggistici entro le Mura Aureliane e che appena nel marzo scorso era nata una volta disarticolata la storica soprintendenza archeologica di Roma, quella che in molti identificano con la figura di Adriano La Regina, dalla quale erano state scorporate l’Appia Antica, Ostia e il Museo nazionale romano.
Franceschini firmerà a giorni un decreto che interessa pure Pompei, ma solo perché anche nel sito vesuviano comparirà l’espressione “parco”.
Le questioni più rilevanti investono invece Roma, dove nel giro di pochi mesi si cambia ancora. Il ministro assicura che si semplifica, ma gli umori che si raccolgono negli uffici vanno in altra direzione. La soprintendenza, ora diretta da Francesco Prosperetti, perde i pezzi più prelibati (oltre 6 milioni i visitatori ogni anno, 60 milioni incassati, di cui 42 alla soprintendenza e 18 al concessionario), ma continuerà a essere mista e dotata di autonomia, e, invece di limitarsi al centro storico (cioè alla parte entro le Mura Aureliane) avrà competenza su tutto il territorio del comune, inglobando quelle che da marzo aveva assunto un’altra soprintendenza, ora soppressa.
Replicando a chi lo accusa di sottrarre fondi a Roma, Franceschini assicura che un 30 per cento di quel che incasserà il parco sarà destinato alla tutela di tutto il patrimonio romano, archeologico e non. E che un altro 20 per cento, come avviene da un anno, alimenterà il fondo di solidarietà che finanzia l’intero sistema museale. Per lo storico dell’arte Tomaso Montanari, la separazione dell’area archeologica centrale dalla soprintendenza «significa fare a pezzi una città, è un atto di ostilità verso Roma. È un grave errore che spinge il pedale sulla mercificazione del nostro patrimonio: e non è un caso che il ministro abbia confermato di voler ricostruire l’arena del Colosseo».
Franceschini sostiene di aver trovato un precedente di questa separazione in un provvedimento del 1939 di Giuseppe Bottai, che «istituì la soprintendenza di Foro Romano e Palatino, soprintendenza che solo negli anni Sessanta si è deciso di riunificare». Fra i favorevoli al provvedimento figura Giuliano Volpe, archeologo e presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali: «Il nuovo parco è coerente con il disegno complessivo della riforma, e spero produca miglioramenti non solo nella gestione ma anche per la ricerca: l’importante è che da ora ci si concentri sul consolidamento delle strutture di soprintendenze e poli museali, che sono in gravi difficoltà ».
Franceschini si dice certo che la nascita del parco favorisca un’intesa con il comune di Roma, che ha una propria sovrintendenza responsabile della gestione di parti importanti dell’area archeologica centrale. Ed esibisce quale prova il fatto che la perimetrazione del parco coincide con quella fissata negli accordi del 2015 con il Campidoglio (sindaco Marino).
L’attuale assessore alla cultura e vicesindaco Luca Bergamo esprime perplessità, mentre l’urbanista Giovanni Caudo, assessore con Marino, aggiunge che quella perimetrazione andava rivista, perché esclude la Passeggiata archeologica e le Terme di Caracalla, include il Circo Massimo, ma non un settore del Celio e di piazza Venezia.
Insomma pezzi importanti di città: l’area archeologica romana, insiste Caudo, «non è in un recinto, come a Pompei, ma è parte integrante dell’organismo urbano ».
«Le elezioni secondo la legge Delrio. Tagliati i fondi dell’istituzione abolita per finta, restano i "costi della politica"». il manifesto, 10 gennaio 2017 (p.d.)
Per forza: tutta colpa del popolo canaglia che con il referendum sulla Costituzione ha resuscitato le malnate Province. Mica vero. Il referendum, se anche avesse vinto il Sì, non avrebbe cambiato nulla a parte l’eliminazione della paroletta in questione dalla Carta. Si sarebbe poi dovuto, e grazie alla modifica costituzionale potuto, procedere a una vera riforma. Solo che i problemi politici sarebbero rimasti intatti anche con la vittoria dei Sì, e sarebbero stati gli stessi che hanno trasformato la Delrio in un disastro camuffato da strepitosa vittoria lampo. Problemi tipo: che fare dei dipendenti attualmente in un limbo tra Province e Regioni, impiegati in cerca d’autore, oppure come coniugare la scelta di procedere al dettato europeo che nella famosa lettera-diktat dell’estate 2010 imponeva la cancellazione delle Province con la contemporanea e contraddittoria riforma che chiede ai piccoli comuni di accorparsi.
In realtà la riforma Delrio non ha eliminato solo gli elettori delle Province: ha anche saccheggiato i fondi dell’istituzione abolita per finta. In effetti le Province non hanno più soldi. Scarseggiano i fondi non per il mantenimento della Casta, come da propaganda di tutti i colori, ma per le funzioni che nonostante il rullo di tamburi renziano sono rimaste in collo alle non-morte: viabilità, edilizia scolastica, ambiente.
I dati diffusi dalla Cgil sono una cronaca della catastrofe. I fondi per la manutenzione ordinaria delle strade sono scesi del 68%, quelli per la manutenzione straordinaria dell’84%. La polizia provinciale, incaricata di vegliare sull’ambiente, è passata in otto anni da circa 2700 effettivi a 700. I fondi per quel 13% di scuole a carico delle Regioni sono scesi del 20% anche se le scuole in questione sono aumentate di un quinto.
L’istituzione resta. I “costi della politica” che comportava permangono. I fondi per fare quel che a detta istituzione competerebbe sono scomparsi. I dipendenti deambulano nella terra di nessuno. Gli elettori sono stati sgravati dalla dura fatica di eleggere. Il consuntivo della riforma Delrio non è precisamente trionfale. Un po’ come quello della riforma Rai, mai andata tanto male come dopo il tocco di quel Mida alla rovescia che si chiama Renzi, o quello della Buona scuola, che il governo ha dovuto modificare in un punto fondamentale ma continua a provocare disastri e andrà rimaneggiata presto. I conti del Jobs Act sono arrivati ieri: parlano di una disoccupazione di nuovo alle stelle.
Perché mai, con simili successi alle spalle, Paolo Gentiloni rivendichi piena continuità col precedente governo resta un mistero.