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». il manifesto, 5 febbraio 2017 (c.m.c.)

Nella notte che ha devastato e portato lutti nell’aquilano, alcuni imprenditori se la ridevano allegramente pensando ai lauti appalti pubblici che avrebbero spartito. Dopo otto anni il terremoto ancora sconvolge un’area geografica enorme.

Il sisma nell’area compresa tra Marche, Abruzzo e Umbria, nota per le grandi qualità storiche e ambientali, diventa purtroppo l’occasione per assestare un colpo micidiale all’architettura dello Stato, come l’abbiamo fin qui conosciuta. Il governo della delicata fase di ricostruzione deve contemperare la dovuta tempestività nell’emettere i pareri sulle opere di ricostruzione da eseguire e il rigore nel difendere un patrimonio culturale fatto di meravigliosi centri storici, di pievi, di monasteri, di paesaggi e reticoli idrici.

La guerra ingaggiata da anni contro la «burocrazia» che blocca l’economia e lo sviluppo di un paese in crisi non poteva mancare di portare l’ultimo e definitivo assalto al sistema delle tutele statali che fa capo al Ministero dei beni ambientali e culturali. Eppure, se ci fosse lo spazio per una intelocuzione seria, nessuno potrebbe negare che le tanto detestate Soprintendenze di Stato hanno operato in modo perfetto ogni volta che sul territorio italiano si è prodotto un terremoto. E i casi sono molti e ricorrenti. Il sisma che ha colpito l’Umbria ha praticamente concluso la fase di ricostruzione e tutto è avvenuto con tempestività nel rispetto delle tutele monumentali o ambientali.

Da allora ad oggi sono accaduti due fatti che stanno provocando il crollo dell’intera architettura dello Stato. Da un lato, il personale a disposizione delle Soprintendenze è sempre più esiguo e i pensionamenti non vengono da tempo reintegrati. C’è il vuoto negli uffici dello Stato. E, ancora, i mezzi strumentali sono ormai merce rara: così tecnici e soprintendenti vanno spesso con la propria autovettura a compiere sopralluoghi. D’altro canto, nel recente terremoto dell’Emilia è stata per la prima volta violata la regola che prevedeva la ricostruzione degli edifici crollati «com’erano e dov’erano», preferendo una arbitrarietà che ignora sempre le ragioni della storia e della cultura.

Con i provvedimenti varati dal governo Renzi nel 2016 si compie il passo successivo poiché con il combinato di due articoli di legge si consente addirittura di sanare gli abusi edilizi – e di ricostruirli- senza avere il parere obbligatorio delle Soprintendendenze. Una mostruosità giuridica che avrà effetti devastanti sia sui paesaggi storici sia per la perdita di autorità di un settore dello Stato.

Ma sulla frenesia semplificatoria e sul completo esautoramento delle funzioni dello Stato è stato creato un vulnus gravissimo il 28 novembre dello scorso anno, quando nell’ordinanza n. 4 del commissario Errani è stata istituita una Soprintendenza speciale per fornire gli indispensabili pareri di competenza esautorando le Soprintendenze di Stato. È il ministro pro tempore a decidere chi occuperà il ruolo guida, una gravità istituzionale in sintonia con la cultura dell’uomo solo al comando, tanto cara a Renzi e come sembra piacere ancora al nuovo presidente del consiglio.

La questione rischia invece di avere conseguenze devastanti sull’ordinamento dello Stato: con incarico discrezionale politico è stato infatti nominato a capo della struttura un tecnico ingegnere, Paolo Iannelli – che avrà rapporti con il segretario generale del Ministero cancellando in tal modo la Direzione generale per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio e, insieme ad essa, il Consiglio dei beni culturali e i Comitati tecnici di settore importanti organi di cui fanno parte i migliori docenti e studiosi della materia.

Insomma la lotta ai burocrati e ai «professoroni» procede spedita anche se, passo dopo passo si sta disarticolando la struttura dello Stato e la tutela prevista solennemente dall’articolo 9 della carta costituzionale che scompare nel gorgo della discrezionalità di una politica senza autorità.

Un film da vedere. «La pedagogia della catastrofe non funziona. Al contrario, le persone impaurite diventano facili prede delle false speranze prospettate dalle tecnoscienze e dalla green economy...» comune-info, 3 febbraio 2017 (c.m.c.)

Demain è un bellissimo docufilm ideato da un gruppo di giovani cineasti francesi e diretto da Cyril Dion e Mélanie Laurent, attrice e regista, già disponibile in dvd ( Domani, 108 minuti). L’intento degli autori è ribaltare l’idea che non sia più possibile invertire la deriva del collasso ecologico globale in atto.La pedagogia della catastrofe non funziona. Al contrario, le persone impaurite diventano facili prede delle false speranze prospettate dalle tecnoscienze, dalla green economy, dall’industria 4.0 e via dicendo. Siamo giunti all’assurdo per cui, in nome della difesa della natura, si procede con una progressiva artificializzazione della vita.

Siamo pronti ad accettare ogni mostruosità (bistecche sintetiche, ingegnerizzazione del clima, esodi su Marte) pur di non mettere in discussione il nostro “stile di vita”. Il Domani diverso che il film ci mostra sotto la guida di personalità note come Robert Hokins, Vandana Shiva, Jeremy Rifkin, Pierre Rabhj, David Van Reybrouck e altri intellettuali di diverse discipline, è quello di un modello socioeconomico migliore, desiderabile, finanche fantastico, oltre che possibile. Ce lo dicono una infinità di belle esperienze raccolte in varie parti del mondo e raggruppate attorno a cinque assi: agricoltura, energia, economia, democrazia e istruzione.

Iniziative intraprese da “gente comune” che non è mossa da particolari intenti messianici se non quello di fare qualche cosa di utile, innanzitutto, per se stessi. Come a Detroit, la città fantasma dell’auto, dove sono sorte 1.600 fattorie urbane. O a Todmoren dove due donne hanno avuto l’idea di piantare commestibili in ogni spazio verde che chiunque può cogliere liberamente: Incredible Edible oggi coinvolge decine di volontari e la piantagione urbana coinvolge settanta aree.

In Normandia, invece, una impresa modello di permacultura sta dimostrando che i metodi agroecologici garantiscono una produttività (e una redditività) superiore fino a quattro volte rispetto a quelli convenzionali. Già oggi i piccoli coltivatori garantiscono i tre quarti del cibo del pianeta, mentre l’agricoltura industriale è sempre più orientata alla filiera della carne (mangimi) e ai biocombustibili.

Sul versante dell’energia le cose già si sanno. Copenaghen sarà totalmente fornita da energie rinnovabili entro il 2025. Ma non potrà mai avvenire la fuoriuscita dai combustibili fossili se non entreranno in funzione anche i “negawatt”: quantità di energia risparmiate grazie al contenimento dei consumi: mangiare bio e poca (niente) carne, acquistare in negozi locali, riciclare, riparare, condividere… A San Francisco l’amministrazione ha adottato la strategia Rifiuti zero. Altrove si lavora sulla mobilità dolce.

A Lille un’industria ha adottato da vent’anni il criterio dell’economia circolare. Ma bisogna cambiare anche banca. La Wir in Svizzera gestisce un sistema di scambi non monetari tra 60.000 aziende. Le monete complementari locali sono più di quattromila. Molti i casi di nuove forme di democrazia deliberativa e di rappresentanza popolare non (solo) attraverso elezioni.

«Dal Municipio sciolto per infiltrazioni alle condanne ai boss per gli appalti sugli stabilimenti così si svela l’intreccio tra criminalità e politica che per anni ha dominato il litorale». la Repubblica, 5 febbraio 2017

C’è o non c’è la mafia ad Ostia? Il suo Municipio è sciolto per mafia. Il suo lungomuro è infestato di mafia. Il suo mare è negato dalla mafia. I suoi abitanti sono strozzati dalla mafia. Allora, c’è o non c’è la mafia ad Ostia?

Un anno fa ci sono stati giudici che dicevano che non c’era e altri che sostenevano il contrario (poi confortati anche dalle eccellentissime toghe della Cassazione), due giorni fa un altro Tribunale non solo ha confermato che c’è ma che ha pure allungato le mani proprio sul tesoro di Ostia: gli stabilimenti balneari. Notizia che fa clamore ma che conoscono pure i bambini, fra le dune di Capocotta e la pineta di Castelporziano.

L’aveva scritto in anteprima anche la nostra Federica Angeli e si era presa — e continua a prendersi — minacce e insulti che la costringono ad andare in giro sotto scorta e ad avere molta cura dei suoi figli che all’asilo vengono fotografati da ignoti vigliacchi. L’aveva denunciato l’assessore alla Legalità Alfonso Sabella — che su Ostia aveva ricevuto una delega da commissario — e che un giorno ci ha confidato di sentirsi lì come nella Palermo dannata dei primi anni ‘80.

L’avevano gridato in molti ma contro di loro — ed è questo che bisogna tenere bene a mente per poi non fingere meraviglia — ogni volta si scatena una reazione sguaiata, violenta. Con intimidazioni. Minacce. Con campagne vergognose sul web e sui fogli locali, tutti foraggiate dai signorotti del luogo. Perché di Ostia non si deve parlare. Perché su Ostia, laboratorio politico criminale a pochi chilometri dal Colosseo, si sta giocando una partita che può diventare decisiva anche per Roma.

Gli Spada avevano finalmente il loro lido. Peccato che un’inchiesta di Repubblica li ha smascherati. Poi sono arrivate anche le condanne della magistratura. Manovalanza da usare alla bisogna, imparentati con i più famosi Casamonica, gli Spada avevano provato a fare il salto nell’aristocrazia del delitto per non rappresentare più soltanto la mafia delle estorsioni e dello spaccio. L’aggancio con Aldo Papalini, l’ex direttore dell’ufficio tecnico del loro Municipio, con un luogotenente della Marina Militare, con un esponente di CasaPound e con l’amministratore di una società. Intrallazzi conditi dall’articolo 7, l’aggravante mafiosa.

Quella che non avevano meritato secondo i giudici di Appello quasi un anno fa i Fasciani — livello più alto del crimine di Ostia — e che invece avevano ricevuto sotto forma di condanna i loro prestanome appena cinque giorni prima. Una giustizia schizofrenica. E a volte assai distratta: perché se i Fasciani non sono mafiosi nessuno è mafioso ad Ostia. Come in effetti i Triassi, altro clan di caratura per le loro parentele con i “siciliani”: e che siciliani, sono i generi dei capostipiti della Premiata Ditta Cuntrera & Caruana di Siculiana, quella che una volta era considerata la Wall Street della droga.

Ci sono mafie per tutti i gusti ad Ostia. Ma non si può dire. Non si può scrivere. Non si può nemmeno pensare. Quando ci sono i mafiosi, ci sono sempre i complici. Uno chi era? Il capo dei poliziotti di Ostia. Il primo dirigente Antonio Franco, arrestato, processato e condannato per la sua interessata relazione con il titolare di una sala scommesse vicina agli Spada. Poi ci sono funzionari e ed ex amministratori già finiti nel calderone di Mafia Capitale. Poi ancora personaggi come Mauro Balini, il “re del porto” al quale hanno sequestrato beni per 400 milioni di euro.

Una fauna corteggiata da associazioni antimafia assai ambigue che ogni giorno diffondono in rete veleni e grossolanità, un piccolo club di soggetti che in Sicilia li chiamerebbero “incagliacani” (accalappiacani), ovvero personaggi non proprio di spessore elevato ma sempre curvi e al servizio permanente ed effettivo di qualcuno. Ostia la considerano loro, fuori dai confini nazionali e dalle leggi. Ostia non si tocca. E nemmeno il suo lungomuro di 11 chilometri. Dove una cabina è diventata una palestra, dove un chiosco è ormai un beauty center, dove ci sono posti letto in riva al mare camuffati da spogliatoi.

Un paio di anni fa, le cartine catastali del 1992 di questa grande banlieu romana sono state nascoste in cassaforte, in un luogo segreto per paura che qualcuno le bruciasse o le facesse sparire. Confrontandola con le mappe Google dei giorni nostri, non c’è una sola Ostia ma ce ne sono due. La prima ancora dignitosa, l’altra che è un inferno di cemento.

La fine di questo piccolo romanzo nero a chi la vogliamo far scrivere? Alla tribù degli Spada, a Carmine detto Romoletto o a suo cugino Armando che a Federica Angeli l’ha avvicinata per urlarle “ti sparo in testa”? Ai Fasciani — non mafiosi per i giudici di una Corte di Appello? Ai Triassi di Siculiana che bivaccano sul litorale laziale? A Mauro Balini e ai suoi misteriosi amici? Agli “onesti cittadini” di Ostia, per fortuna pochi, che l’altra settimana sfilavano per protestare contro il Municipio sciolto per mafia e che mai avevano protestato contro la mafia?

Ecco (finalmente)un articolo che connette analisi e visione raccontando Roma com'è davvero, e come potrebbe essere se i decisori affrontassero i problemi veri e comprendessero quali sono le risorse disponibili. E se chi forma l'opinione pubblica facesse il suo mestiere. il manifesto, 5 febbraio 2017

Di Roma si parla ormai solo in occasioni di cronache giudiziarie, di scandali, di presunte o vere mafie, di aggressioni e stupri. Nel mentre la città affonda nelle splendide macerie della sua fantastica Storia, come nelle Carceri di Piranesi. «Siamo sereni, andiamo avanti» è il refrain della sindaca Raggi e della sua squadra, ma nessuno sa in quale direzione. Sarebbe più saggio affermare: «Fermiamoci e chiediamoci dove e in che direzione andare».

Scrivere su Roma è come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo a questi amministratori afoni preoccupati solo di rispondere a un fantomatico codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone ormai abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati sperando che non cedano lungo il percorso.

Si è dimenticato che una città ha bisogno di idee e progetti; i quali, però, non sono quelli che dovrebbero renderla simile a Dubai o a qualche altra fantasmagoria ultra (o post) moderna. Si è dimenticato che esistono periferie in balia di attività illegali, droga, disagio esistenziale ed economico. E si è dimenticato che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti.

Quando le cose vanno bene, l’amministrazione si limita alla pura ragioneria contabile, strozzata dai debiti. La rassegnazione dilaga incontrastata: è già tanto che qualche autobus arrivi alla fermata e raggiunga il capolinea o che una delle due metro funzioni.

È già tanto che non ci si azzoppi una gamba durante il percorso ad ostacoli per arrivare al lavoro. E una volta arrivati si tira un sospiro di sollievo: anche questa mattina ce l’ho fatta, sono salvo! Nel mentre sciami di cavallette travestite da turisti, scendono da torpedoni a due piani, pronti a divorare tutto ciò che incontrano: dall’Altare della Patria al Mosè di Michelangelo, non distinguendo l’uno dall’altro. Centri commerciali fioriscono come funghi intorno e oltre il raccordo anulare e si leggono, sempre più spesso, cartelli di affittasi o vendesi di antichi negozi e botteghe che non ce l’hanno fatta; fioriscono nuovi Bingo, nuovi negozi di «Compro oro», o creative insegne di «Non solo pane», «Non solo pizza»: un suk di disperazioni.

C’è chi ritiene che Roma sia afflitta da un ritardo di modernizzazione, una modernizzazione mancata o incompiuta, tanto che si invoca il trasferimento della sua funzione di capitale ad altre città (la solita Milano). Ma di quale mancata modernizzazione si parla? Non quella di far funzionare gli autobus, di dare pace a una metropolitana che non sa da che parte andare né di mettere fine al problema dello smaltimento dei rifiuti o di valorizzare (anziché far chiudere) quei centri sociali e quelle associazioni dove si creano lampi di possibili comunità conviviali, nuove culture e nuovi linguaggi. Né, ancora, di accogliere i diseredati del mondo o di intervenire sul risentimento delle periferie, prima che diventino polveriere pronte ad esplodere.

Roma non è mai stata, non lo è ancora adesso, e non sarà mai moderna se a questa parola si attribuisce il significato di competere nella classifica delle città globali, o di essere luogo indiscusso della finanza mondiale, o di essere smart o brand per attirare capitali. E insistere nella necessità di modernizzarla (leggi: politica delle grandi opere), è come tentare di normalizzare il collo della giraffa per farlo diventare come quello di un cavallo.

Roma non ha bisogno di aggiunte, di imbellettamenti per diventare una star nel firmamento della globalizzazione o un’attraente prostituta in attesa di clienti. Roma ha già quanto ogni altra città desidererebbe avere; non servono le grandi opere, serve, al contrario, far funzionare e valorizzare ciò che già c’è (non era questo il programma della sindaca Virginia Raggi?). Perché allora non utilizzare questa sua «mancata modernizzazione», questo suo cronico «ritardo», per trarne un vantaggio competitivo nella scena globale, per sviluppare un modo diverso di essere moderni?

Questo potrebbe essere il progetto. Valorizzare [preferiremmo dire "mettendo in valore" - ndr] le sue bellezze (arte, cultura, tradizioni) e perfino quella sua lentezza e pigrizia, risorsa rara in un mondo che corre troppo veloce; valorizzare la sua tradizione antirazzista (forse più per pigrizia che per merito), per creare luoghi e occasioni di accoglienza, valorizzare quell’immenso patrimonio di verde dell’Agro romano minacciato dall’urbanizzazione, valorizzare le tante esperienze di centri e comunità che producono cultura, convivenza tra diversità e quel welfare spontaneo fatto di coltivazione di orti e di pratiche di sopravvivenza.

E poi ancora impegnarsi seriamente per il Progetto Fori rendendo finalmente giustizia a Antonio Cederna. Dovremmo insomma fare tesoro di questa sua diversità anziché tentare di accorciare il collo della giraffa per renderla simile a un cavallo di razza, del quale non se ne sente alcun bisogno.

«Il nostro Paese è tanto ricco di arte non solo grazie alla capacità di crearla, ma anche alla lucidità con cui, lungo i secoli, si è dato leggi che l’hanno sottratta agli interessi privati e al mercato. L'obiettivo del negoziato è reprimere i reati che riguardano opere d’arte libri e reperti». la Repubblica, 4 febbraio 2017 (c.m.c.)

Non sono molti gli ambiti internazionali in cui l’Italia sappia esercitare una leadership: nonostante tutto, è ancora il caso della tutela del patrimonio culturale, e torna a dimostrarlo, in questi giorni, un seminario del Consiglio d’Europa alla Scuola Imt di Alti Studi di Lucca. Al centro della discussione è il negoziato, in corso presso lo stesso Consiglio d’Europa, sui reati penali contro il patrimonio. Un negoziato che già ad aprile sfocerà in una Convenzione internazionale che — una volta ratificata dagli Stati nazionali — renderà più sicuro ciò che abbiamo di più prezioso: musei, scavi archeologici, biblioteche, archivi e molto altro.

L’obiettivo — facile da comprendere, ma finora arduo da raggiungere — è definire con gli stessi termini, reprimere con i mezzi più avanzati e possibilmente punire con decisione i tanti modi che esistono prima per rubare, e poi per far muovere da uno Stato all’altro questa specialissima refurtiva: quadri, statue, libri, reperti di ogni tipo.

Oggi un’estrema sperequazione di mezzi caratterizza, per così dire, le guardie e i ladri d’arte ( da non immaginare come romantici Lupin: tra loro contano anche i terroristi dell’Isis). L’internazionale del crimine contro il patrimonio usa mezzi sofisticati e ignora ogni confine nazionale, mentre le forze di polizia ( pensiamo ai nostri eroici carabinieri del Nucleo di tutela) e le magistrature che devono combatterla sono frenate da strumenti giuridici antiquati ( pressoché impossibile, per esempio, usare le intercettazioni per reati di questo tipo), rogatorie internazionali interminabilmente lunghe, resistenze sciovinistiche.

Queste ultime rendono complessa la trattativa per la nuova convenzione: l’interesse dei Paesi ricchi di opere d’arte e di siti archeologici ( Italia, Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo e Francia) diverge da quello dei Paesi ricchi di case d’asta e di gallerie antiquarie ( Regno Unito e Olanda su tutti), e la libera circolazione delle merci è forse l’unica religione del nostro tempo.
Qua farà la differenza la qualità della diplomazia italiana, che lavora perché l’amore per le radici della comune identità europea prevalga sull’arbitrio di un mercato senza regole, in cui non di rado sono sfumati i confini tra lecito e illecito.

Dopo decenni di disinteresse, il nostro ministero della Giustizia è ora particolarmente impegnato su questo fronte, e ha preparato anche una profonda innovazione della ( pressoché inesistente) sezione penale del nostro Codice dei Beni culturali. Se durante il precedente governo, il ministero per i Beni culturali ( cui ciò spetta) non aveva portato la proposta di legge in Consiglio dei ministri, con la nascita del governo Gentiloni questo passo è stato compiuto.

Sarebbe importante che, entro lo scorcio della legislatura, il Parlamento riuscisse ad approvarla, anche per dare il senso di un’inversione di marcia rispetto a segnali inquietanti, quali il disegno di legge Marcucci ( che giace in Parlamento) che mira, al contrario, a rendere più indiscriminata l’esportazione; o il discutibile coinvolgimento di rappresentanti di case d’asta internazionali nelle commissioni ministeriali chiamate a ridefinire le regole dell’esportazione.

Il nostro Paese è tanto ricco di arte non solo grazie alla capacità di crearla, ma anche alla lucidità con cui, lungo i secoli, si è dato leggi che l’hanno sottratta agli interessi privati e al mercato: se il patrimonio italiano esiste ancora, lo dobbiamo al continuo aggiornamento di queste leggi. Comprenderlo, e addirittura farlo comprendere all’Europa, è di importanza vitale. Non per il nostro passato: per il nostro futuro.

«Il PIL finisce con l’essere l’altare sul quale si chiede a un Paese di fare sacrifici come se tutti i Paesi fossero uguali e in particolare il valore dei servizi resi non dovesse tenere conto di specifiche realtà». ArcipelagoMilano, 31 gennaio 2017 (c.m.c.)

Negli ultimi giorni da Banca d’Italia, da Bruxelles e dalla Banca Centrale Europea sono arrivati ammonimenti, bacchettate e sollecitazioni come piovesse. Due i temi principali: le mancate o parziali riforme e lo sforamento dello 0,2% del rapporto debito PIL, fissato al 3% col patto di stabilità e crescita (PSC) stipulato e sottoscritto nel 1997 dai paesi della UE. La domanda che mi faccio e che penso si facciano molti dei nostri lettori è: ma che colpa abbiamo noi? Sì, proprio come il refrain della vecchia canzone dei Rokers del 1965, (magari riascoltarla non fa male). Noi milanesi.

Tanto per cominciare non siamo stati capaci di far pesare a Roma quello che ora il Governo ci riconosce: essere la principale locomotiva del Paese – non l’unica certo – e non aver mandato in Parlamento una classe politica capace di fare riforme che non abortiscano sugli scogli della Corte dei Conti, della Corte Costituzionale e, a livello locale, sugli scogli dei Tribunali Amministrativi Regionali. La sollecitazione a fare le riforme cade in un mondo legislativo assolutamente inadeguato, di dilettanti allo sbaraglio. Un esempio? La legge Delrio.

La scarsa attenzione al formarsi di una classe dirigente e, ancora peggio, una sorte di disprezzo della politica da parte della borghesia imprenditoriale sono due nostre colpe gravi. Ricordo a me per primo ma a tutti quelli della mia generazione il tempo in cui i milanesi si gloriavano nel dire che a Roma si faceva politica e noi invece lavoravamo e che i politici erano un taxi sul quale si saliva al bisogno. Questo disimpegno lo stiamo pagando anche adesso.

Se saremo sanzionati da Bruxelles e fossimo costretti ad esempio a un aumento dell’IVA e/o delle accise sulla benzina, è chiaro a tutti che il peso maggiore andrà sulle aree dove produzione e consumi sono maggiori. Se così sarà noi dunque saremo in prima linea.

Qui però vale la pena di aprire ancora una volta il problema del sistema di calcolo del PIL (o Prodotto Interno Lordo) che misura il valore di mercato di tutte le merci finite e di tutti i servizi che hanno una valorizzazione in un processo di scambio. Il PIL finisce con l’essere l’altare sul quale si chiede a un Paese di fare sacrifici come se tutti i Paesi fossero uguali e in particolare il valore dei servizi resi non dovesse tenere conto di specifiche realtà.

Nel calcolo del PIL sono sì compresi virtualmente anche i valori della produzione legata all’economia nera, guai se così non fosse da noi, ma essendo un calcolo teorico comunque ci penalizza ma, quello che è più grave, non si conteggiano i servizi forniti in modo volontario e gratuito ormai da una vastissima platea di cittadini. Milano in testa alla lista del lavoro volontario gratuito. Lo stesso discorso vale per il lavoro domestico e di accudimento a vecchi e bambini, ancora prevalentemente femminile, altrove in Europa per la maggior parte a carico dello Stato.

L’obiezione c’è: se questo lavoro fosse pagato, essendo di tipo integrativo e sostitutivo di funzioni non svolte dalla mano pubblica, e se quest’ultima le pagasse, i conti dello Stato peggiorerebbero e di conseguenza il rapporto debito/PIL.

Ma io propongo un’altra lettura. Il volontariato funziona dal punto di vista del suo valore con un meccanismo simile alla banca del tempo: è una sorta di autotassazione volontaria a favore dello Stato al quale “versiamo” il nostro tempo, dunque un aumento del gettito fiscale. Se così potesse essere, se così si potesse calcolare il PIL, fuori dall’utopia, di nuovo noi milanesi saremmo in prima linea come contribuenti volonterosi, insieme con altri, in un Paese più ricco, certo sulla carta. Ma il PIL non è carta?

La riflessione comunque sul PIL va fatta e noi milanesi dovremmo chiederla e forse, per una volta, troveremmo d’accordo M5s, Lega, Forza Italia, Pd e tutti insomma.

Ma la gratuità del lavoro è un tema che si allarga e comprende anche una parte della classe politica: sull’onda della riduzione dei costi della politica, ad esempio la legge Delrio prevede che i consiglieri delle Città Metropolitane non percepiscano compensi.

Contemporaneamente molti Comuni assumono consulenti che hanno emolumenti superiori a quelli degli assessori con i quali collaborano. Il divario tra le somme percepite da consiglieri comunali e quelli regionali sono stridenti. Ad alcune cariche e funzioni pubbliche può accedere soltanto chi ha redditi propri, alla faccia della democrazia, come ha sottolineato anche recentemente il Procuratore Generale milanese Roberto Alfonso all’inaugurazione dell’anno giudiziario.

Nel Paese delle disuguaglianze anche questo è un aspetto sul quale riflettere, senza indugi, senza ipocrisie e sapendo che per farlo si dovranno correggere anche pesantemente trattamenti che vengono da situazioni pregresse e diritti”acquisiti”. La politica saprà fare pulizia? In casa sua prima che altrove?

«Nel documento inoltrato alla Conferenza dei servizi i tecnici capitolini sollevano svariate obiezioni sull’intervento sotto il profilo della sicurezza, dei trasporti e dell’impatto ambientale in un’area a rischio idraulico». corriere della sera online, 2 febbraio 2017 (c.m.c.)

«Non idoneo». Due parole che riassumono il parere negativo del Campidoglio al progetto dello stadio della Roma a Tor di Valle. Il documento, protocollato in data 1° febbraio, è stato inviato alla Conferenza dei servizi alla Regione Lazio. Tra le motivazioni dettagliate nel documento, la sicurezza stradale e pedonale. Altra osservazione: l’incompatibilità del progetto definitivo con un’area considerata a rischio idraulico. Tra le criticità rilevate dai tecnici del Comune, in particolare del dipartimento Urbanistica, la mancanza di un sistema di trasporto adeguato e la sottostima degli aumentati flussi di traffico. Sono molteplici, e pertinenti ad ambiti diversi, le obiezioni sollevate dai tecnici capitolini.

Le modifiche richieste per sbloccare l’iter

Se non fosse che, malgrado il parere «non favorevole», in chiusura il Comune lascia aperto uno spiraglio: «Le condizioni per addivenire al parere favorevole - si legge nel documento pubblicato sul sito della Regione Lazio - sono definite dall’elaborazione delle modifiche/integrazioni progettuali necessarie a: assicurare adeguati livelli di sicurezza stradale: veicolare e pedonale; assicurare adeguati livelli «di esercizio» delle infrastrutture stradali; completare la documentazione progettuale con le elaborazioni mancanti; colmare le carenze di contenuti rilevate; nonché dalla: ridefinizione del perimetro delle zone, che interessano le aree di sedime dell’intervento in questione, già soggette a rischio per eventi idraulici “R3” e “R4” del Pai, nonché delle fasce fluviali “A” “B” e “C” e conseguente declassificazione».

In serata, dal Campidoglio è arrivato un ulteriore chiarimento per giustificare il «no» con riserva: «Sul progetto definitivo dello stadio della Roma c’è la volontà ad andare avanti per analizzare il dossier - si legge nel comunicato di Palazzo Senatorio - . È stata chiesta proprio per questo motivo la proroga di trenta giorni della Conferenza dei Servizi. Riserve sono state espresse sui livelli di sicurezza stradale, veicolare e pedonale nella consapevolezza che ci sono trenta giorni per intervenire. C’è una lista di temi da affrontare nel periodo di sospensione; ci sono tutti i margini per concludere positivamente la procedura».

Miccoli: «Raggi e Berdini imbroglioni»

Critiche pesanti all’alt del Comune dal deputato dem, Marco Miccoli: «Ancora una volta Virginia Raggi e il confuso ideologo del no a tutto, l’assessore Paolo Berdini - il commento del parlamentare - hanno imbrogliato Roma e i romani. Due giorni fa hanno chiesto un mese di tempo e il rinvio della Conferenza dei servizi per poter valutare ancora meglio il progetto dello stadio e le eventuali proposte di varianti. Oggi hanno dato parere sfavorevole seppellendolo definitivamente».

Il no della Città metropolitana

E tuttavia anche la Città metropolitana - peraltro guidata da Raggi - ha detto no al progetto. Il parere complessivo di Palazzo Valentini, anch’esso disponibile sul sito della Regione, esprime «dissenso» sul piano «con le motivazioni per le quali, vista la particolare articolazione e complessità, si rimanda a quanto espresso nei singoli pareri allegati». Per il «superamento del dissenso» la Città metropolitana indica numerose prescrizioni, divise per argomento. Si va dai temi della mobilità (tra cui l’«ulteriore potenziamento della Roma-Lido») alla tutela e valorizzazione ambientale, dalla viabilità alle infrastrutture fino alla coerenza della pianificazione urbanistica generale.

«L’idea di eddyburg: raccontare la vitalità veneziana, quella parte della società che non si è arresa, il bisogno di dinamismo di una popolazione trascurata. Abbiamo accennato solo ad alcune realtà associative veneziane: chiediamo l’aiuto dei lettori per arricchire la nostra lista».

«Possiamo salvare Venezia prima che sia troppo tardi?» si chiedeva il New York Times in agosto 2016. Il declino della città amata da gran parte del mondo sembra inesorabile. Le cronache raccontano di una lenta trasformazione verso un parco divertimenti per turisti, ormai perno dell’economia locale. Un’evoluzione che ha suscitato aspre critiche da parte della stampa internazionale e ha portato in luglio l’UNESCO a dare un ultimatum alla città: o si inverte la tendenza o Venezia rischia di non essere più riconosciuta patrimonio dell’umanità. Questo è solo la continuazione di un processo che Venezia vive da decenni e che ha lentamente portato allo spopolamento e alla decadenza della città. Questa tendenza storica si autoalimenta, a causa del continuo emigrare di giovani e famiglie e dall’aumento dei prezzi di case e beni quotidiani. Il processo continua, ma alcuni dei pochi veneziani rimasti tentano di fermare e di spingere indietro.

Nella società veneziana infatti c’è qualcuno che rema controcorrente. «R-esistiamo» diceva lo striscione dei ventenni di Generazione 90. A settembre hanno manifestato insieme a un migliaio di cittadini per dimostrare che la loro pazienza è al limite. Il corteo è stato la valvola di sfogo di una popolazione nuovamente delusa da istituzioni poco lungimiranti, che non immaginano un futuro per Venezia. Un malessere diffuso inonda la città e cresce di giorno in giorno. I pochi veneziani che sono rimasti non vogliono arrendersi alla logica del profitto da turismo imperante in città. Resistono all’esodo che ha portato il numero dei cittadini da 145 mila nel 1960 a meno di 55 mila nel 2016, mentre assistono a giovani coppie costrette a trasferirsi per potersi permettere di comprare una casa.

In città, gli appartamenti vengono affittati a settimana a turisti, un guadagno facile e conveniente, grazie soprattutto ai siti online che permettono di trovare nuovi inquilini ogni giorno. I prezzi gonfiati di negozi e ristoranti rincorrono il turista disposto a pagare più del dovuto e escludono la clientela locale, costretta a frequentare i soliti posti noti solo ai residenti. L’apertura di un nuovo negozio è ormai accolta con diffidenza e rassegnazione dai veneziani, che allo stesso modo scelgono di investire nel profitto più facile: attività rivolte ai turisti. L’apertura di un negozio di souvenir è la normalità, mentre quella di un negozio utile per la vita quotidiana è un miracolo.
I più giovani, già abbattuti dalla situazione nazionale, studiano e cercano lavoro altrove, in città che offrono più speranze di una Venezia che vive solo di attività turistiche e che loro stessi contribuiscono a indebolire. Gli studenti fuori sede che scelgono di studiare nelle famose università veneziane, non hanno i mezzi per fermarsi dopo gli studi: la città non propone agevolazioni negli affitti o sistemazioni apposite, i prezzi della vita sono alti e vi è bassa opportunità di lavoro, data la scarsa presenza di aziende. I veneziani stessi peggiorano questo spopolamento, diventando sempre più arrabbiati e arroganti, scoraggiando l’idea che Venezia sia una città in cui si può vivere, in cui ci si può trasferire e non solo scappare. Queste e altre dinamiche hanno innescato una spirale di rabbia e negatività, accentuata dalla cattiva gestione dell’amministrazione ordinaria e straordinaria dei problemi della città.

La “questione Venezia” è composita: numerosi problemi che devono essere affrontati con approcci diversi. Per questo parte dei veneziani non hanno aspettato una risposta delle istituzioni locali e nazionali, ma si sono attivati personalmente per tentare di riempire quel vuoto lasciato dalle istituzioni e da chi ha la responsabilità di cambiare le cose. Una vitalità alternativa è nata dall’esigenza: associazioni, gruppi, comitati si sono creati spontaneamente per dare dei segnali. I veneziani che hanno deciso di non arrendersi si sono rimboccati le maniche, hanno organizzato i bisogni, hanno steso statuti di associazioni e gruppi per tentare di migliorare la città.

Salvaguardia della laguna e delle sue tradizioni sono gli obiettivi cardine delle associazioni che tentano di proteggere l’unicità di Venezia e della sua conoscenza marinaresca. Così tre ragazzi con la passione per la voga hanno fondato Venice on board, per dare la possibilità di esplorare la città attraverso i canali in barche tipiche. E la più nota delle barche, la gondola, è protetta da El Felze, associazione dei mestieri che contribuiscono alla sua costruzione: dieci abilità artigianali diverse per comporre il simbolo di Venezia dallo scafo alla forcola, dal remo al fregio dorato. Il Caicio fa delle attività culturali svolte galleggiando sull’acqua il suo scopo primario. L’attività culturale veneziana è portata avanti anche dal Forcolaio Matto, giovane artigiano che nel suo negozio in Strada Nuova intaglia forcole e remi, proseguendo il tipico mestiere del remer. Queste e altre associazioni, come Viva voga Veneta e il Nuovo Trionfo si legano per il recupero delle tradizioni marinare, perché siano vissute così come lo erano in origine, promuovendo la conoscenza genuina dell’ambiente insieme ad un turismo più sostenibile.

Le associazioni agricole fanno del rispetto della Laguna e dei suoi prodotti la loro ragione d’essere. La società agricola La maravegia coltiva ortaggi nell’isola di Sant’Erasmo, ispirandosi al principio del “siamo ciò che mangiamo” e consegnando quotidianamente i prodotti ai clienti. Nella piccola isola si possono trovare anche I sapori di Sant’Erasmo dei fratelli Finotello, che coltivano piccoli orti per garantire ai propri concittadini prodotti gustosi e salutari. Le vigne di Sant’Erasmo sono curate dall’associazione Laguna nel bicchiere che dal 1993 si occupa di vini prodotti a Venezia e dintorni, con scopo didattico per gli studenti. L’obiettivo è quello di insegnare il territorio e i suoi prodotti, perché vengano valorizzati e salvaguardati. Attorno a Venezia vi è una produzione a chilometro zero, a dimostrazione che i cittadini si sono impegnati in piccole imprese quotidiane per mantenere la terra fertile e la città viva.

Altra caratteristica della Venezia viva è quella della cultura tradizionale e internazionale. Oltre ai numerosi circoli ARCI sparsi in tutta la città, Venezia ospita l’associazione Awai che tenta di costruire una comunità di artigiani e artisti con centro nel giardino degli Amai. Utilizzando materiali e tecniche diverse, promuovono espressioni innovative e tipiche, con attenzione alle proposte culturali in funzione alla città. I due fondatori di DoppioFondo hanno sfidato il modello di economia dominante e hanno fondato un laboratorio di stampa d’arte nel cuore di città, pensandolo come luogo di scambio e di incontro di persone e culture come lo era tradizionalmente Venezia. Il cambiamento della città è raccontato e denunciato dai fotografi di Awakening, affiggendo gigantografie delle situazioni più critiche della Venezia in trasformazione. La fotografia è anche il modo di esprimersi degli artisti di Isolab, centro di ricerca e laboratorio con obiettivo di diffondere progetti di autori emergenti. Venezia quindi gode di una vitalità culturale diffusa, merito anche del fascino della città che da sempre ispira artigiani e artisti.

A Venezia diversi gruppi si oppongono al declino della città: associazioni e gruppi chiedono un’inversione di marcia alle amministrazioni e una presa di coscienza dell’opinione pubblica. Così il sito Venessia.com utilizza la goliardia per commentare le trasformazioni e paragonarle al passato, tentando di delineare e preservare il cittadino “100% venessiano”. Approccio di protesta e proposta lo hanno anche i ventenni di Generazione ’90 che si battono per non essere l’ultima generazione che ha avuto la possibilità di crescere giocando nei campi di Venezia. Lo stesso obiettivo è perseguito dai Giovani Veneziani, associazione fondata nel 1994 come reazione all’immobilismo delle amministrazioni. La piattaforma civica 25 Aprile si impegna in quotidiana informazione attraverso il gruppo Facebook e iniziative periodiche locali per vigilare sull’operato delle istituzioni locali. Masegni e nizioleti, nata con l’obiettivo specifico di mantenere i nomi delle calli scritte sui tradizionali “lenzuolini” in veneziano e non in italiano, ora si batte per la cura e il rispetto del patrimonio culturale. Altrettanto specifico scopo ha l’associazione Mamme con le rampe: rendere Venezia più accessibile. Grande rilevanza è stata ottenuta da Poveglia per tutti, che si è opposta alla vendita da parte del demanio dell’isola, partecipando all’asta con un’offerta ottenuta grazie a quote versate dalla popolazione cittadina e internazionale.

L’esigenza di protestare contro l’operato delle amministrazioni nel tempo si è espressa in modo più incisivo con il comitato No grandi navi. Questo tenta di fermare l’invasione delle navi da crociera che attraversano la laguna, provocando danni ai fondali e producendo inquinamento. Il comitato No MoSe ha lottato contro la grande opera raggiungendo notevole eco, riuscendo a portare la popolazione in protesta per le strade e interessando la stampa nazionale. Questi due comitati rappresentano la reazione dei cittadini a due importanti cause del malessere di Venezia e allo stesso tempo testimoniano la sordità delle amministrazioni alle volontà popolari.

L’Assemblea Sociale per la Casa, invece, monitora le case di proprietà del Comune di Venezia e la loro cattiva gestione, denuncia gli sfratti ingiustificati e si propone come ente di protezione per le persone coinvolte. L’ASC tenta di rispondere all’esigenza di organizzazione del sistema casa, altra grande problematica veneziana e causa importante dello spopolamento di Venezia.

Venezia si può vantare di una serie di associazioni e gruppi, sintomo di una società interessata e interessante, non disposta ad assistere inerte al declino della città. Vi è una vitalità di base, che si rivolge alle istituzioni e a cui queste devono sempre guardare e riferire. I campi di intervento sono i più diversi, ma gli obiettivi si intersecano e tendono tutti verso la riqualificazione della società veneziana e la salvaguardia della tradizione. Nonostante questo, non sempre i gruppi hanno collaborato in modo organico e ragionato, minimizzando il loro impatto. Una collaborazione prolungata di queste associazioni potrebbe essere di grande utilità alla città, per mantenerla viva e unita. Conoscere le associazioni e i problemi che affrontano è il primo passo per incoraggiare un processo di condivisione per organizzare eventi che potrebbero risollevare l’interesse nazionale e internazionale alla questione Venezia, mostrando la vera faccia della città.

Da questa considerazione nasce l’idea di eddyburg: raccontare la vitalità veneziana, la società che non si è arresa, il bisogno di dinamismo di una popolazione trascurata. Abbiamo accennato solo ad alcune realtà associative veneziane: chiediamo l’aiuto dei lettori per arricchire la nostra lista. Vogliamo raccogliere ogni esperienza utile allo sviluppo positivo della città: mandateci le vostre segnalazioni di associazioni ed eventi per rendere questa rubrica completa. Vogliamo raccontare la Venezia decisa a invertire la rotta: Venezia è viva.

Riferimenti

Sulla trasformazione della città, oltre i materiali raccolti nella sezione di
eddyburg Venezia e la laguna, e a quelli raccolti nel sito SDE a proposito della recente iniziativa Venezia - Amministrare la città, si veda il cortometraggio La città di Guido Vianello del 1974.

«Il dibattito di questi giorni dimostra che non esiste una progettazione dei trasporti in città, si improvvisa cercando di rimediare maldestramente ai guai creati».territorialmente, 2 febbraio 2017 (c.m.c.)

Quando il saggio indica la luna qualcuno vuol farci vedere solo il dito. Pare proprio quello che sta succedendo attorno al Passante TAV: le persone sono attonite all’idea di spendere 1,5 miliardi per una mega stazione senza treni, ma si cerca di cambiare argomento e deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dicendo che si metteranno tanti bus in quella voragine ai Macelli.

Così ha fatto l’assessore ai Trasporti del Comune di Firenze Stefano Giorgetti nelle sue recenti dichiarazioni dove ha tranquillizzato che la futura “Foster” non sarà un deserto, ma ci saranno ben 20.000 viaggiatori al giorno che scenderanno e saliranno da tutti i bus diretti in città.

Questa prospettiva, che dovrebbe consolare i cittadini perplessi nel vedere tanti soldi buttati, al Comitato No Tunnel TAV rinforza invece le domande che non hanno ancora trovato risposta: se il buco ai Macelli sarà una stazione di bus che si fanno a fare due tunnel ferroviari? Se i viaggiatori ferroviari saranno così pochi che si spendono a fare 1,5 miliardi di euro?

Il Comitato indica da anni che questo progetto TAV è profondamente inutile e pericoloso, mentre qualcuno vuol distrarre l’attenzione parlando di autobus Il Comitato si pone anche un’altra serie di domande: ma è stato fatto uno studio che giustifichi lo spostamento di tutti i bus che arrivano a Firenze in una zona come quella dei Macelli? Questa decisione non sarà una trovata, poco credibile, per giustificare un errore marchiano come quello di aver iniziato a realizzare una ferrovia sotto la città? Ancora le dichiarazioni di Giorgetti, “È proprio la presenza dei pullman che ci consentirà di realizzare la nuova stazione”, sono lì a darci la risposta: è lo spostamento dei bus a far sembrare plausibile questa operazione!

Lasciano basiti le dichiarazioni del presidente della Commissione Ambiente Fabrizio Ricci che continua a dire che senza i tunnel le FS potrebbero “bypassare Firenze con il tracciato dell’alta velocità”. Ma vogliamo scherzare? Ma di cosa si sta parlando? Dal nodo fiorentino passano circa 200 treni AV ogni giorno, non ci sono percorsi alternativi; i treni o passano da Firenze o non passano! Il Comitato si chiede se non sarebbe opportuno un ripassino di geografia da parte dei nostri politici.

Il dibattito di questi giorni dimostra che non esiste una progettazione dei trasporti in città, si improvvisa cercando di rimediare maldestramente ai guai creati.Il re pare proprio nudo; c’è da chiedersi solo quand’è che i Fiorentini cominceranno a riderne sul serio.

Comitato No Tunnel TAV

A tutto questo c’è solo una spiegazione razionale: che si debba scavare e rimuovere milioni di metri cubi di terra perché ci sono accordi inconfessati e inconfessabili da cui non si può tornare indietro. perUnaltracittà, 2 febbraio 2017 (c.m.c.)

Il Comitato No Tunnel TAV di Firenze ha letto con incredulità le dichiarazioni dell’Assessore ai Trasporti del Comune di Firenze Stefano Giorgetti relative al futuro del Passante AV. Che il progetto rivisto fosse caratterizzato da gravi lacune è stato subito chiaro, ma adesso che alcuni particolari stanno emergendo la cosa si sta facendo addirittura ridicola.

Giorgetti ha riconosciuto che nella futura “mini-Foster” andrebbero solo i treni AV che attualmente fermano a Campo di Marte, servendo cioè circa 3.000 viaggiatori al giorno, il 10% dei viaggiatori dell’alta velocità a Firenze. Tutti gli altri, circa 160.000 al giorno, continuerebbero a servirsi di Santa Maria Novella.

C’è da non credere alle proprie orecchie! Si costruiscono due tunnel sotto la città e una stazione di 700.000 metri cubi di volume e 60.000 di superfici utili per un numero di viaggiatori come a Pontassieve! Si mettono a rischio monumenti e migliaia di appartamenti per realizzare una stazione con molto meno traffico di Rifredi o Campo Marte!

E in quei pericolosissimi tunnel sono previsti solo poche decine di treni al giorno! Quasi tutti i treni AV andranno a Santa Maria Novella; ma allora di cosa si parla quando si dice che si «libereranno i binari di superficie»? Questo deserto che hanno ideato ai Macelli a cosa potrebbe mai servire? Ecco la trovata: ad una stazione dei bus! Anzi, un hub, sembra una cosa più seria. Si cerca di riempire il vuoto di idee con una trovata da cabaret. Si giustifica la costruzione di 7 km tunnel ferroviari e tre piani sotto terra per una fermata di autobus? Ma vogliamo scherzare?
Per un traffico da stazione di campagna si sono stanziati e si vogliono spendere 1,5 miliardi di euro?

Il Comitato sa che ormai le faide interne al PD toscano portano agli assurdi che vediamo, ma si chiede cosa faccia il governo davanti a questi numeri, cosa ci sia stato a fare il Ministro Del Rio alla riunione del 25 scorso dove si è deciso di continuare con questi lavori TAV; come possa continuare a tacere il Ministro del Tesoro Padoan davanti a tanto vergognoso sperpero in una controllata dal suo ministero; a che politiche di risanamento stia pensando il Presidente del Consiglio Gentiloni se tollera follie come questa.

Il quadro che l’assessore Giorgetti ha aiutato a chiarire è senza senso, non ha alcuna logica. A tutto questo c’è solo una spiegazione razionale: che si debba scavare e rimuovere milioni di metri cubi di terra perché ci sono accordi inconfessati e inconfessabili da cui non si può tornare indietro.

Di questi veti e accordi segreti è prigioniera Firenze.

*Comitato No Tunnel TAV Firenze

«Una storia minore, che però dice molto di come le cose spesso funzionano in Italia». Il Fatto Quotidiano online, 31 gennaio 2017

La sentenza sancisce “l’esistenza di criticità acustiche” che impediscono la costruzione di Bellaria. La vicenda è stata anche oggetto di un’inchiesta giudiziaria archiviata nel novembre del 2014. Nel decreto di archiviazione si racconta dei 29 milioni di euro nascosti al Fisco da parte di Immobiliare Santilo, la società che aveva venduto i terreni diventati edificabili: tutto però è stato prescritto o sanato dallo scudo fiscale

È una storia che da anni tiene banco a Peschiera Borromeo, un piccolo comune alle porte di Milano. Una storia minore, che però dice molto di come le cose spesso funzionano in Italia. Ora è arrivata una sentenza del Consiglio di Stato, che da un lato impedisce la realizzazione delle nuove residenze, dell’asilo e del parco che erano stati previsti in zona Bellaria in barba a ogni criterio di sicurezza, visto che lì di fianco sorge uno stabilimento della Mapei a rischio di incidente rilevante. Dall’altro lato, la sentenza dice chi in questi anni ha fatto l’interesse pubblico, e chi invece non ha rispettato le leggi per farsi gli affari suoi.

Tutto inizia nel 2007, quando il sindaco del Pd Francesco Tabacchi e il suo assessore all’Urbanistica Silvio Chiapella, entrambi vicini all’allora presidente della provincia Filippo Penati, danno il via a un’incredibile speculazione immobiliare, approvando in zona Bellaria un piano integrato d’intervento per edificare su quello che era un terreno agricolo nuove case, un asilo e un parco, questi ultimi due come opere a scomputo degli oneri di urbanizzazione. Peccato che l’area abbia più di un problema: la strada di fianco è piuttosto trafficata e i limiti di inquinamento acustico non vengono rispettati, mentre nello stabilimento della Mapei, quello dell’ex presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, c’è un deposito di sostanze a rischio di esplosione, con possibili conseguenze in un raggio di 200 metri.

L’amministrazione di centrodestra che segue quella di centrosinistra se ne accorge e nel 2012 annulla parte del piano, bloccando la costruzione dell’asilo, del parco e delle residenze che non sono ancora state tirate su. Il sindaco Antonio Falletta e il presidente del consiglio comunale Luciano Buonocore presentano anche un esposto in procura. L’inchiesta giudiziaria viene archiviata nel novembre del 2014, ma solo per sopraggiunta prescrizione. Nel decreto di archiviazione sono elencati i nomi dei consiglieri comunali che hanno fatto approvare il piano Bellaria, considerato illegittimo, e racconta dei 29 milioni di euro nascosti al Fisco da parte di Immobiliare Santilo, la società che aveva venduto i terreni diventati edificabili a First Atlantic Real Estate (oggi Idea Fimit) e a tre cooperative locali, realizzando plusvalenze per oltre 42 milioni di euro. In ogni caso tutto finito in prescrizione o sanato grazie allo scudo fiscale.

In comune, dove nel frattempo è tornato al governo il Pd con Luca Zambon, il decreto di archiviazione viene protocollato solo mesi dopo, in modo che nessuno possa leggere cosa c’è scritto sopra. La vicenda Bellaria continua però a tenere banco e a fine 2015 la giunta Zambon finisce per cadere. Qualche mese fa il Fatto quotidiano.it dà conto in un articolo del decreto di archiviazione infrattato e quando lo scorso giugno, in campagna elettorale, alcuni cittadini distribuiscono l’articolo a mo’ di volantino, il Pd locale minaccia pure querele.

Alle elezioni Zambon viene sconfitto da Caterina Molinari, alla guida di due liste civiche. La nuova amministrazione, per quanto riguarda Bellaria, conferma la linea dell’amministrazione di centrodestra. E cambia, rispetto alla giunta Zambon, la linea difensiva del comune nel ricorso che Immobiliare Santilo e Idea Fimit hanno presentato al Consiglio di stato per fare ripristinare su Bellaria il piano originario che già il Tar aveva giudicato illegittimo.

Nei giorni scorsi la sentenza è arrivata, a sancire “l’esistenza di criticità acustiche” che impediscono l’attuazione dei progetti delle opere pubbliche da destinare a parco e asilo. E soprattutto i rischi di incendi ed esplosioni “presenti anche al momento dell’approvazione e dell’adozione del piano integrato di intervento”. Ora ci sarà da realizzare delle opere di mitigazione dei rischi e dell’inquinamento acustico a favore di chi ha comprato un alloggio anni fa, negli edifici costruiti prima che le magagne saltassero fuori. E, secondo la sindaca Molinari, non ci si dovrà fermare a questa sentenza: «Riteniamo che i responsabili della vicenda debbano rispondere direttamente delle scelte e delle conseguenze che ne sono derivate, a tutela della legalità e del benessere dei cittadini».

«Da nord, al centro fino al sud: ovunque discariche, tonnellate interrate, quasi sempre tossiche, anche gettate alla luce del sole o coperte senza garanzie. È il disastro ambientale intorno a noi». il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2017 (p.d.)

FOGGIA, 250 MILA TONNELLATE

DI VERGOGNA
di Tommaso Rodano
L'accoglienza è da film splatter: sul lato della strada che sale fino alla discarica di Giardinetto c’è il corpo di un cane morto. Bianco, in putrefazione: dev’essere lì da giorni. Siamo a 20 chilometri da Foggia, tra le pianure della Capitanata. All’orizzonte si vedono le cime bianche dei Dauni; alle spalle, in lontananza, c’è il mare del Gargano. Ma il comune più vicino, Troia, non compare nei depliant turistici. Un territorio che pare anonimo, marginale, ma porta una dote tremenda: 250 mila tonnellate di rifiuti industriali, in buona parte tossici. Sono nascosti sotto terra e abbandonati in superficie, in due file di capannoni fatiscenti. Giardinetto è una terra dei fuochi in miniatura su uno spazio di 70 ettari. Lo scenario è immobile dal 1999: sono passati quasi 18 anni.
La strada sterrata che porta alla discarica è circondata da colline innaturali, opera dell’uomo: sono gonfie di laterizi e scarti di materiale edile. Nessuna sbarra, nessun cancello chiuso, nessun segnale di pericolo, si arriva senza impedimenti fino al piazzale su cui poggiano i fabbricati.Nel primo ci sono – letteralmente – montagne di rifiuti industriali in polvere. Il deposito è sommerso da una sostanza fangosa e scura, dalle sfumature verdastre e blu. Sulla superficie qualche impronta umana e quelle delle zampe di un animali; in cima al più alto dei colli neri c’è uno sgabello abbandonato, come se qualcuno l’avesse piazzato lì per riposarsi dopo il trekking tra i veleni.
Nella seconda rimessa ci sono centinaia di balle di rifiuti accatastate l’una sopra l’altra. La maggior parte dei sacchi sono sfibrati o squarciati. Sopra c’è la scritta “1000 kg”, su alcuni si legge “German”o“Korea”. Dentro, ancora sostanze granulose e scure. I vetri dei capannoni sono rotti, i soffitti sono a pezzi, le lastre d’amianto – per non farsi mancare nulla – sono spezzate sul pavimento, tra le pareti ci sono spazi aperti. In cima alla collina, poi, svettano le pale eoliche: nelle giornate di vento queste polveri volano dappertutto. Quando piove si mescolano all’acqua, i canali di scolo le portano a valle, scendono fino al fiume Cervaro.
Di cosa parliamo? Fanghi, ceneri di combustione, residui di lavorazione. Questo piccolo territorio ha accolto,a sua insaputa, i rifiuti velenosi delle industrie del Nord, e probabilmente anche estere. Il merito è della Iao srl, “Industria Ambientale Organizzata”. L’azienda apparteneva a una facoltosa famiglia di imprenditori locali, i Fantini, poi affiancata da un industriale vicentino, Giuseppe De Munari, considerato il deus ex machina del business immondizia.
Nel 1999, quando la fabbrica viene sequestrata per la prima volta, il risultato della loro attività è sotto gli occhi sbigottiti dei carabinieri di Bari: i materiali non venivano sottoposti ad alcun tipo di ciclo di recupero; erano semplicemente stoccati nei capannoni o adagiati all’aperto, sullo spiazzo. Qualche anno dopo si scoprirà che il peggio era invisibile agli occhi: la maggior parte dell’immondizia era stata nascosta sotto terra.
Nel 2010 il procuratore di Lucera (Fg), Pasquale De Luca – ascoltato dalla commissione parlamentare sul traffico illecito dei rifiuti – l’ha definita la “Gomorra” del foggiano: “la realtà supera ogni fantasia proprio come nel libro di Saviano e nel film: la quantità di rifiuti depositati nel sottosuolo è stata stimata dal nostro consulente tecnico (...) in circa 250 mila tonnellate. (...) Ogni camion trasporta due o tre tonnellate al massimo, quindi bisogna fare i calcoli di quante migliaia di mezzi sono passati e hanno trasportato questi rifiuti pericolosissimi, che sono fanghi, materiali misti a cemento, a benzene, a cromo esavalente, ad amianto, a vanadio, a idrocarburi e a metalli pesanti, tutti cancerogeni”.
Lo scempio è rimasto completamente impunito. Nel primo processo, anno 2004, De Munari e soci vengono condannati in primo grado, ma la sentenza è annullata in appello dalla corte di Bari. “Per un vizio di forma: – spiega De Luca – l’imputato principale era sempre malato”.
Il processo ricomincia da capo, ma gli imputati vengono salvati dalla prescrizione. Anche perché il tribunale di Lucera non ravvisa l’aggravante di “disastro ambientale”: “la barriera idraulica costituita da argille”, si legge nella sentenza del 2015, avrebbe protetto le falde acquifere. Risultato? Liberi tutti. L’azienda rientra in possesso dell’area, ma non ha le risorse per bonificarla. Il comune di Troia neppure. L’intervento potrebbe costare decine di milioni di euro.
È tutto immobile. Per le famiglie di Giardinetto è l’ultimo schiaffo. Il “disagio sanitario” e i “troppi tumori” hanno stimolato inchieste giornalistiche e interrogazioni parlamentari, ma nemmeno uno studio epidemiologico. In pochi chiedono ancora giustizia, come il comitato “Salute e Territorio” – stremato dalle battaglie perse – o il fotografo Giovanni Rinaldi, che gira come un cane sciolto con la sua reflex per testimoniare le violenze subìte dalla sua terra. Gli agricoltori preferiscono il silenzio, per paura di essere danneggiati. Quasi tutti si arrendono all’oblio.



LA POLVERE RADIOATTIVA
NELLA TOSCANA DEI FUOCHI
di Ferruccio Sansa
In questa terra qui ci puoi mettere le patate”, avrebbero detto agli agricoltori. Sì, era terra, ma radioattiva. Fino a 60 volte i livelli medi. Si chiama Polverino 500 mesh ed è lo scarto dei lavori di taglio e finitura dei metalli. Contiene piombo, rame, nichel e cromo, e proviene da rocce vulcaniche o effusive che hanno un’alta radioattività naturale. E adesso potrebbe essere finita nella terra dei campi, nei muri delle case, nella sabbia di torrenti e spiagge. Una storia lunga quella del Polverino che, secondo un investigatore, “rischia di svelare una terra dei fuochi nel cuore della Toscana”. Una vicenda dove, a leggere le intercettazioni, le strade dei rifiuti intrecciano quelle della politica. In particolare del Pd locale.
Adesso è in mano al pm Giovanni Arena della Direzione Distrettuale Antimafia di Genova. Ma la storia comincia altrove e incrocia indagini diverse, tra Aulla (ai confini tra Toscana e Liguria) e Vaglia, a nord di Firenze. Già, il centro della questione è la cava di calce di Paterno, a Vaglia, poi trasformata in discarica (sequestrata nell’estate scorsa). Qui dove, ha raccontato Franca Selvatici su Repubblica, negli anni sono confluiti i fanghi delle gallerie del Tav toscano, gli scarti tossici delle concerie di Santa Croce e quelli dello stabilimento Solvay di Rosignano. Poi pneumatici e scarti dell’edilizia contenenti amianto. Ma il guaio è soprattutto un altro: il polverino, che da Aulla sarebbe stato smaltito a Vaglia. E in giro per l’Italia.
Cominciamo appunto da Vaglia. Qui nel 2013 sono stati depositati anche 1.300 big bags (grandi sacchi, per dirla all’italiana) di questa sabbia finissima. “Quanta roba c’è costì?”, chiede il gestore della discarica al telefono. E da Aulla gli rispondono: “Cinquanta viaggi… 1.500 tonnellate”.
Ma di che cosa parlano i protagonisti dell’intercettazione? L’anno scorso è stata disposta un’analisi del contenuto dei sacchi che da Aulla sono arrivati a Vaglia. Gli esperti dell’Università di Pisa con quelli dell’Arpat hanno misurato una radioattività fino a 60 volte superiore alla media della discarica. Superiore perfino ai limiti fissati per le radiografie. L’inquinamento potrebbe essere finito nelle falde acquifere, il torrente Carzola scorre a pochi metri. Ecco allora le indagini epidemiologiche disposte sugli abitanti: le prime in linea con i livelli medi toscani (salvo per il tumore al seno), le seconde con livelli di mortalità doppi rispetto alla norma (ma bisogna considerare che le persone decedute erano anche fumatori). Ma c’è un altro punto essenziale: a Vaglia – secondo gli investigatori – i rifiuti come il polverino sarebbero stati mischiati con la calce destinata all’edilizia. Ha raccontato Salvatore Resia, dipendente della discarica: “Mi ricordo che venivano portati nel capannone o nello stabilimento della calce alcuni carichi di fanghi provenienti dalle concerie, che emanavano un odore nauseabondo. Questi fanghi venivano lavorati con la calce o il cemento… È andata avanti per circa un anno, poi i nostri clienti si sono lamentati perché i prodotti ottenuti con questo procedimento non erano di buona qualità e avevano un odore terribile. Abbiamo perso molti clienti”.
Ancora una volta le intercettazioni rivelano che cosa si voleva fare con il polverino. C’era un imprenditore che aveva in animo di utilizzarlo per i ripristini ambientali e addirittura confidava di averlo ceduto a un agricoltore: “Una parte dei sacconi di polverino – annotano gli investigatori – sono già stati allontanati, in quanto ceduti a una persona che li avrebbe utilizzati per spanderli su un terreno agricolo”. All’ignaro acquirente sarebbero state decantate le qualità della terra dicendo: “Questa qui puoi metterci le patate”. Ci sarebbe poi un’azienda piemontese dove il polverino veniva mescolato perprodurre la sabbia umida che poi veniva venduta. Per gli investigatori “diffondendo in maniera incontrollata il rifiuto sul territorio”. Non basta: c’era chi aveva in animo di rifilarlo a Libia, Iran e Iraq, di usarlo come zavorra per le navi o contrappeso per le gru.
Le intercettazioni delle inchieste rivelano anche la presenza della politica dietro all’affare polverino. Il 21 dicembre 2013 ecco al telefono Fabio Pieri (al tempo sindaco Pd di Vaglia, non coinvolto nell’inchiesta sul polverino) con l’imprenditore che gestiva la cava e l’ha trasformata in discarica. Parlano di Leonardo Borchi, ex comandante dei vigili urbani che ha intenzione di candidarsi alle primarie del centrosinistra. E che si è schierato contro la discarica. “Se passa lui, Vaglia può chiudere”, si lascia scappare il gestore della discarica. Pieri sbotta: “Bisogna lavorare perché nun lo faccia lui”. Ma nel 2014 Borchi diventa sindaco.
Sono diverse ormai le inchieste sulla discarica di Paterno. A novembre i gestori della ex cava ed ex fornace sono stati condannati in primo grado per abbandono di rifiuti e omessa bonifica. C’è poi un secondo fascicolo del pm fiorentino Luigi Bocciolini dove si parla di una discarica non autorizzata di rifiuti anche pericolosi. Ma soprattutto c’è l’inchiesta per traffico di rifiuti: è in mano ai pm genovesi perché lo stabilimento da cui è partito il polverino era ad Aulla.



PFAS, IL VELENO INVISIBILE
CHE FA AMMALARE IL VENETO
di Andrea Tornago
Non ha odore né colore. Si disperde nell’acqua senza lasciare traccia e una volta entrato nell’organismo agisce silenzioso per anni. Il veleno invisibile che ha contaminato il Veneto, dall’acronimo impronunciabile Pfas (sostanze perfluoro alchiliche), comincia a fare davvero paura.
Un recente studio della Regione Veneto sui composti chimici prodotti per decenni da una fabbrica vicentina, usati per impermeabilizzare il fondo delle pentole e i tessuti, ha dato corpo a uno dei peggiori incubi di ogni popolazione esposta: rischio aumentato di malattie per le donne in gravidanza, problemi per i nuovi nati, tra cui mutazioni cromosomiche. L’allarme è contenuto in un rapporto del 29 settembre scorso del registro nascita del Coordinamento malattie rare della Regione Veneto, reso noto solo pochi giorni fa dalle autorità sanitarie.
Nella "zona rossa" a maggior contaminazione, un’area di ventuno comuni in gran parte nella valle vicentina del Chiampo, i tecnici della Regione hanno riscontrato tra il 2003 e il 2015 “l’incremento della preeclampsia, del diabete gestazionale, dei nati con peso molto basso alla nascita, dei nati Sga (piccoli per l’età gestazionale, ndr) e di alcune malformazioni maggiori, tra cui anomalie del sistema nervoso, del sistema circolatorio e cromosomiche”. L’impatto elle sostanze che hanno contaminato più di 250 mila persone nelle province di Verona, Vicenza e Padova, di cui almeno 60 mila maggiormente esposte, arriva a toccare la salute delle nuove generazioni.
Il rischio aumentato di patologie come la preeclamspia, che provoca ipertensione ed altri gravi scompensi nel corso della gravidanza e può mettere a rischio la vita della madre e del bambino, e di anomalie nei neonati (in alcuni casi quasi doppio rispetto al resto della regione), ha fatto saltare sulla sedia il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia.
In una nervosa riunione di giunta, riportata dai giornali locali, Zaia si sarebbe infuriato per non aver ricevuto subito sul suo tavolo i risultati degli studi sanitari citati in una relazione del direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, che lo scorso 21 ottobre ha chiesto l’adozione di provvedimenti urgenti per la salute della popolazione “volti alla rimozione della fonte della contaminazione” ipotizzando addirittura “lo spostamento della sede produttiva della ditta”. In quel documento, Mantoan non faceva riferimento solo al rapporto sulle gravidanze. Un altro rapporto del servizio epidemiologico della Regione aveva riscontrato, nel giugno del 2016, un “moderato ma significativo eccesso di mortalità” per le cardiopatie ischemiche e cerebrovascolari, per il diabete mellito e per l’Alzheimer nelle donne. Confermando i risultati di un precedente studio dell’Enea e dell’Isde, l’Associazione medici per l’ambiente, secondo cui negli ultimi trent’anni in Veneto ci sarebbero stati “1260 morti in più” delle attese nelle aree contaminate.
Nellea aree inquinate c’è preoccupazione, ma nessuno parla. Al coordinamento dei comitati “Acqua libera dai Pfas”, da quando sono emersi i nuovi dati degli studi regionali, non si è rivolto nessuno: “Pensate che la gente sia informata? – spiega al Fatto Piergiorgio Boscagin, referente locale di Legambiente – Quella documentazione non era nota nemmeno ai sindaci”.
Il primo cittadino di Sarego, Roberto Castiglion (M5s), uno dei comuni dell’area rossa, ha subito scritto all ’assessore regionale alla Sanità Luca Coletto chiedendo “perché non siano stati immediatamente messi al corrente i sindaci” per poter tutelare al meglio la salute pubblica. Dopo aver chiesto la documentazione sanitaria integrale, Castiglion ha invitato gli assessori e il dirigente Mantoan a un incontro con la cittadinanza, ma i vertici politici e tecnici hanno deciso di non partecipare.
Nelle acque sotterranee nei pressi della fabbrica Miteni di Trìssino (ex Rimar, Ricerche Marzotto), che produce Pfas da più di cinquant’anni, secondo le rilevazioni effettuate dall’Arpav nel 2013 erano presenti concentrazioni elevatissime di composti perfluorurati, fino a 245 milioni di nanogrammi. E anche se dal 2011 l’azienda ha smesso di produrre i vecchi composti più dannosi (ora si occupa di Pfas a catena corta, in gergo “4C”, che nel maggio 2015 più di 200 scienziati hanno chiesto ugualmente di mettere al bando al pari dei vecchi), secondo la Regione la barriera idraulica per mettere in sicurezza il sito industriale “non sembra garantire il rispetto delle concentrazioni soglia” degli inquinanti.

«Il lavoro di Renzo Piano è iniziato 12 mesi fa, coadiuvato da Pantaleo e da tre giovani architetti, Anna Merci, Laura Mazzei e Nicola Di Croce. La filosofia del rammendo ha guidato la scelta degli interventi. Il metodo della partecipazione e delle connessioni sociali ha ritmato ogni passaggio». Corriere del Veneto, 15 gennaio 2017

Un hub civico e culturale nell’ex-scuola Edison a Marghera. E un giardino del fitorimedio, un lungo parco urbano da nord a sud: a un anno di distanza dalla decisione di Renzo Piano di portare a Marghera il G124, il suo team senatoriale sulle periferie, ora i progetti sono pronti. Il titolo è un programma: «Marghera terreno fertile. Dalle buone pratiche alle politiche».

«Una cosa è alla base di tutto, quasi un architrave», sottolinea Raul Pantaleo, il tutor locale dell’intervento, a sua volta membro dei TAMassociati, i curatori del Padiglione Italia nella Biennale appena chiusa. Quale? «Il regolamento sui beni comuni», messo a punto da Labsus, il laboratorio nazionale sulla sussidiarietà. Il gruppo di Renzo Piano chiede dunque al sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, di adottare quel regolamento, che riconosce ai gruppi di vicinato, alle associazioni e ai singoli cittadini la possibilità di prendersi cura della propria città.

Sono tutte proposte che i progettisti del G124 consegneranno in dettaglio all’amministrazione di Venezia a fine mese, in un incontro pubblico all’ex-scuola Edison.

Il lavoro di Renzo Piano è iniziato 12 mesi fa, coadiuvato da Pantaleo e da tre giovani architetti, Anna Merci, Laura Mazzei e Nicola Di Croce. La filosofia del rammendo ha guidato la scelta degli interventi. Il metodo della partecipazione e delle connessioni sociali ha ritmato ogni passaggio: 7 esplorazioni a piedi, di cui tre con lo stesso senatore, hanno battuto palmo a palmo Marghera, dal Porto all’area agricola verso l’entroterra, dalla stazione a Forte Tron. Hanno incontrato decine di associazioni: «Qui c’è un tessuto culturale e sociale, spesso informale, di grande vitalità», sottolineano gli architetti. Ne è nata una rete: Orma, Officina Riuso Marghera, «non è una semplice cordata di associazioni - spiega Anna Merci - Ma un organismo civico, laico, innovativo che punta ad avere capacità contrattuale e creatività nelle pratiche». E infine hanno individuato una sezione di territorio dove intervenire, nella Marghera Sud, stretta tra l’ex-scuola Edison fino alla piccola Chiesa della Rana sperduta tra le fabbriche. «Ogni tappa è stata discussa, valutata, scelta con gli abitanti», continua Merci.

L’ex-scuola, innanzitutto: abbandonata nel 2007, in parte usata da alcuni enti (Protezione Civile, Prefettura, Dormitorio Caritas, la Palestra) e il resto (3650 mq sui 5300 complessivi) vissuto da gruppi come gli straordinari ragazzi del Parkour. E’ su quest’ultima parte che si è concentrato il progetto di messa a norma, recupero e ridisegno degli spazi. Dunque: laboratori artigiani, co-working, auditorium, aule per le attivissime scuole di musica del quartiere, stanze per danza e attività sportive. E all’esterno, l’abbattimento di muri e recinzioni, riconnettendo così il quartiere e dotandolo di una piccola piazza-parco. Un intervento stimato attorno ai 600 mila euro, da trovare magari attingendo al Fondo nazionale per le periferie urbane.

Più giù, a ridosso degli orti urbani, partiranno presto i lavori per il giardino del fitorimedio, in un fazzoletto di terra che si trasformerà in un angolo didattico e ricreativo con piante e siepi scelte per mitigare e assorbire gli inquinanti che qui infestano ovunque i terreni.

Un giardino-gioiello, dentro la città-giardino (così è nata Marghera) studiato con gli esperti dell’Università di Udine, Luca Marchiol e Guido Fellet. Strategica è l’idea, che i progettisti proporranno alla città, di dotarsi di una dorsale ecologica, che la attraverserebbe da nord a sud per quasi 3 km sul fianco ovest, quasi da contraltare all’asse brutale di via Fratelli Marghera.

Un sinuoso «corridoio ecologico» costruito tessendo la miriade di piccoli lotti e interstizi pubblici abbandonati o non utilizzati e mappati in corso d’opera. Un bosco nel cuore della città.

L’idea sarà recepita? Di sicuro, l’intera «strategia orizzontale», come la definisce Pantaleo e cara a Renzo Piano sembra quasi un controcanto rispetto alla città verticale di cui tanto si è ripreso a parlare.

«In una “comunicazione” del 26 gennaio, Bruxelles invita gli Stati a non investire risorse pubbliche per realizzare impianti inutili o aumentare una capacità di incenerimento già eccessiva». Altreconomia online, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)

Parla esplicitamente di “moratoria” per nuovi forni e “spegnimento” per quelli datati. Il caso della Lombardia «Le risorse pubbliche dovrebbero evitare di creare sovracapacità per il trattamento di rifiuti non riciclabili, come gli inceneritori». Non si tratta dell’appello di un’associazione ambientalista ma di un’indicazione forte che la Commissione europea ha fornito - il 26 gennaio scorso - nell’ambito di una “comunicazione” ufficiale dedicata all’economia circolare.

Undici pagine che segnano ancora una volta la distanza netta tra le strategie comunitarie e quelle intraprese dal nostro Paese, incardinate sul provvedimento “Sblocca-Italia” del 2014 e sul “fabbisogno” impiantistico dei forni stimato al rialzo. Neppure troppo tra le righe, quello che emerge è inoltre la condizione critica di alcune “zone” italiane, com’è oggi ad esempio quella della Lombardia e della sua eccessiva “capacità” di incenerimento installata.

Prevenzione, riuso e riciclo, scrive la Commissione, dovrebbero guidare la gerarchia della gestione dei rifiuti. E in quanto tale meritano l’assoluta priorità nella destinazione dei fondi per lo Sviluppo regionale e di Coesione. A proposito del “livello nazionale”, poi, Bruxelles chiarisce che i «i finanziamenti pubblici hanno giocato un ruolo chiave nello sviluppo di soluzioni più sostenibili nella gestione dei rifiuti».

Motivo per cui non ce ne si può servire per “eludere” l’agenda delle azioni da mettere in campo. Ed è in questo paragrafo che l’attenzione si rivolge alla necessità di non alimentare una crescita ingiustificata di impianti di incenerimento.Tra il 2010 e il 2014, riporta la “comunicazione”, la capacità di incenerimento nei 28 Paesi dell’Unione europea (considerando inoltre Svizzera e Norvegia) è cresciuta del 6% fino a raggiungere quota 81 milioni di tonnellate. Germania, Francia, Olanda, Svezia, Italia e Regno Unito ne coprono i tre quarti.

Ciascun cittadino di Svezia e Danimarca “gode” di una potenzialità di incenerimento pari rispettivamente a 591 e 587 chilogrammi di rifiuti pro-capite.nzo Favoino -che lavora presso il centro di ricerca della Scuola Agraria del Parco di Monza ed è il coordinatore scientifico della rete “Zero Waste Europe” (https://www.zerowasteeurope.eu/)- ha letto con attenzione il documento della Commissione.

«Vi è un forte mandato alla Banca europea per gli investimenti e ai Paesi membri di rivedere i loro finanziamenti per la realizzazione delle infrastrutture di settore -spiega-, riducendone la quota all’incenerimento (e comprimendone fortemente la possibilità) ed allineandoli invece con l’evoluzione prevista della politica di rifiuti: l’economia circolare. Penso che questo possa essere utilizzato da subito in quelle situazioni (ad esempio la Polonia) dove gli attuali piani per l’incenerimento eccedono la crescita prevista della raccolta differenziata nel medio termine. Ma anche per rimettere ancora una volta in discussione l’impianto complessivo dello Sblocca-Italia, e fornire argomenti sia alle Regioni che intendono opporsi alle previsioni di nuovi inceneritori in esso contenute, che a quelle (Lombardia) che hanno già messo in agenda il decommissioning, ossia lo spegnimento progressivo di quelli in eccesso (cosa che le ha messe in rotta di collisione con le previsioni dello Sblocca-Italia)».

A proposito delle aree ove già attualmente si registra sovracapacità, la Commissione parla esplicitamente di alzare le tasse di incenerimento, eliminare gradualmente i sussidi al comparto, prevedere una “moratoria” per i nuovi impianti e disporre lo spegnimento per quelli datati. La Lombardia, come evidenzia Favoino, è una “zona” interessata.

Nel 2015, dati del Rapporto Rifiuti urbani 2016 dell’Ispra alla mano, i tredici inceneritori che ricadono sul suo territorio hanno bruciato 2,39 milioni di tonnellate di rifiuti -compresa frazione secca, combustibile solido secondario e bioessiccato, e a fronte del fatto che i cittadini lombardi avessero prodotto indifferenziato per “soli” 1,9 milioni di tonnellate-.

Sta di fatto invece che la capacità autorizzata è tarata su 2,91 milioni, 600mila tonnellate in più. Gli impianti a quel punto devono “lavorare” a tutti i costi, anche importando “combustibile”. «L’incidenza percentuale più elevata dell’incenerimento rispetto alla produzione si rileva in Molise (56%) -segnala l’Ispra-. Ciò è, tuttavia, da attribuirsi quasi totalmente alle quote di rifiuti urbani di provenienza extraregionale, soprattutto dal Lazio. Seguono la Lombardia (45%) e l’Emilia Romagna (33%) dove, come già evidenziato, incidono anche le quote importate dalle altre regioni».

«La Commissione europea, come prevedibile, non ha fatto dichiarazioni nette contro l’incenerimento -riflette lucidamente Favoino-, ma il ruolo di questo in futuro è stato fortemente ristretto e compresso, rispetto alla situazione attuale, ai piani in essere e alle politiche di finanziamento».

Ora sta ai Paesi raccogliere la sfida.

«Comunicato stampa:Il Comitato No Tunnel TAV constata come si siano avverate le peggiori previsioni per la città: lo sciagurato progetto di Passante Alta Velocità di Firenze è stato confermato per intero nella riunione tentasi ieri a Roma tra Ministero dei Trasporti e enti locali». territorialmente online, 26 gennaio 2017 (c.m.c.)

Per il momento ha vinto la lobby del cemento e della politica clientelare che la sostiene, senza curarsi delle incongruenze e delle illogicità insite in ciò che è stato deciso; ma ormai la politica italiana ci ha abituato ad assumere gli ossimori come realtà.La Regione parla di «centralità del sottoattraversamento e della stazione di Santa Maria Novella» senza rendersi conto che le due cose sono incompatibili: o è centrale l’una o l’altro. Dietro questa confusione semantica si cela soprattutto l’imbarazzo di imporre alla città un progetto sbagliato, cercando affannosamente una logica dove non c’è che approssimazione.

Questa confusione la si vede chiaramente nell’idea che si propone per la Foster 2.0: si parla di “mini Stazione”, ma non si capisce cosa ci possa essere di “Mini” in una struttura a tre piani di 450×50 metri, dove – se l’aritmetica non è una opinione – si avranno tre livelli da oltre 20.000 metri quadri ciascuno. Lo scavo è di quelle dimensioni e non si può certamente ridurre. Si sta preparando un enorme deserto sotterraneo nel cuore della città.

L’idea di uno hub per treni AV e autobus è un coniglio fatto uscire dal cappello, un gioco di prestigio per nascondere l’assenza di idee, un goffo tentativo per mettere qualcosa nel deserto che si vuol costruire.

Nessuno si rende conto che, se si crea un interscambio forte tra bus e AV, si taglia totalmente fuori il trasporto ferroviario, soprattutto quello regionale, che resterà così totalmente scollegato dai trasporti a lungo percorso? I bus, che sono una componente fondamentale del trasporto locale, resterebbero lontanissimi dalla stazione di Santa Maria Novella dove continuerebbero ad attestarsi i treni locali. Ma ci si rende conto dell’incongruenza, della rottura di carico che si provoca?

Adesso i bus turistici entrano in città dall’uscita autostradale di Firenze Sud e, col raccordo che porta a Varlungo, poi in piazza Piave; soluzione assolutamente carente, ma l’idea di far attraversare tutta la zona ovest di Firenze per arrivare ai Macelli è ancora più pazza!
Ma esiste un piano dei trasporti che giustifiche questa trovata, che appare invece una boutade inventata sul momento per giustificare un progetto che non sta in piedi?

Il comitato ricorda come sarebbe molto più semplice, economico ed efficace concentrare servizi distribuendoli attorno alla stazione di Santa Maria Novella, soprattutto utilizzando gli spazi ricavabili dal terrapieno ferroviario e dalle zone dismesse al Romito; ma l’imperativo è scavare, muovere terra: esattamente ciò che gradiscono le mafie in tutti i cantieri d’Italia.

Nell’incontro romano si sono totalmente ignorati i rischi enormi di uno scavo in area metropolitana; questi non sono per niente spariti, si sono solo volutamente dimenticati; ma ce ne ricorderemo presto. Purtroppo.

«L’affermarsi di concetti quali “pianificar facendo” delegittimava fino al sospetto di ideologismo il tecnico legato ai valori del territorio. Oggi le evidenti difficoltà del campo richiedono un “passaggio di fase”». La città invisibile, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

1.1 La recente ripresa di interesse sul campo elaborativo “particolare” costituito dalla penetrazione e dai condizionamenti della criminalità organizzata su politiche e pratiche urbanistiche e territoriali si può collegare certo agli studi diversificati che stanno osservando le crescenti distorsioni dei processi di governance della cosa pubblica (Gallino, 2012; Bevilacqua, Agostini, 2016; Barbieri, Giavazzi, 2014).

Tra gli effetti spaziali, possono annoverarsi i frequenti episodi di corruzione che stanno caratterizzando la gestione di progetti e programmi territoriali, specie nel nostro paese. Non solo per quanto riguarda i continui scandali che investono e stravolgono il comparto delle grandi opere, ma più in generale per le contraddittorie problematicità che segnano molte attività di trasformazione dell’uso dello spazio.

Tutto ciò può significare un sostanziale fallimento di azioni e strategie tipiche della fase precedente di “urbanistica concertata”, contrassegnata spesso dalla presenza di piani tanto “straordinari e complessi” quanto sovente “singolari ed anomali”. Ciò che può evidenziarsi non solo dagli effetti ambientali, in termini di consumo di suolo, distruzione di paesaggio, inquinamenti crescenti, perdita di funzioni territoriali essenziali, e da quelli economico-finanziari, per spreco di risorse e indebitamenti fino al default dei soggetti gestori; ma anche dalla presenza pressoché costante, di fenomeni di corruttela.

Altre discipline, dalla sociologia agli studi giuridici e politici, hanno evidenziato come elemento distintivo (Barbieri, Giavazzi, cit.; Sciarrone, 2009; Mattei, 2013) assai frequente nella distorsione della governance la presenza di criminalità organizzata, mafia ‘ndrangheta o camorra a seconda delle diverse realtà regionali italiane. Si tende sovente a “esasperare le semplificazioni” delle procedure di gestione, fino all’illegittimità e appunto all’illegalità, segnate da rilevanti processi di corruzione, ma spesso concertati con quegli interessi “speculativi speciali” rappresentati dalle soggettività citate.

1.2 La problematicità delle vicende urbanistiche della fase ha contribuito a rilanciare oggi le concezioni più legate alle dimensioni “etiche e valoriali” dell’urbanistica (Magnaghi, 2010; Berdini, 2011; Salzano, 2003), che sembravano di recente riposte sullo sfondo dalle capacità pragmatiche della governance. L’affermarsi di concetti quali “pianificar facendo” o “piano come trading zone” delegittimava fino al sospetto di ideologismo il tecnico legato ai valori del territorio. Oggi le evidenti difficoltà del campo richiedono un “passaggio di fase” o come si diceva un tempo un “cambio di paradigma”: nuovi approcci, contenuti, linguaggi. Con la difficoltà ulteriore dell’accentuarsi di un certo ritardo istituzionale, che ne esaspera gli aspetti critici; specie nel cogliere limiti e contraddizioni di approcci e prospezioni affermatesi nel passato recente, e quindi nella capacità di individuare i momenti per una svolta (Magnaghi, cit.; Bevilacqua, 2011).

Peraltro non sono solo l’analisi di campo e le dialettiche disciplinari a favorire l’elaborazione sulla “deterritorializzazione di stampo mafioso”; anche vicende che hanno contrassegnato le pratiche professionali dell’urbanistica spingono in tale direzione. I problemi di tecnici operanti nelle zone storicamente “ad alta densità criminale”, come quelli di coloro che esercitano nelle aree – anche settentrionali – di penetrazione più recente, sono passati dalla cronaca giudiziaria alla pubblicistica specifica (De Leo, 2015). Qualche tempo fa il caso di Marina Marino, professionista di consolidata expertise nella “bonifica” e nell’amministrazione di enti territoriali a forte rischio di presenza criminale – o addirittura di comuni sciolti per mafia –, ha scosso tra gli altri, una parte della comunità disciplinare (Cornago, 2014) e favorito ulteriore allargamento ed approfondimento del lavoro su tale terreno.

1.3 Oggi questo filone elaborativo presenta intenso fermento: ricerche tipiche di sede si coordinano fino a formare Osservatori di livello nazionale. La pubblicistica disciplinare dedica crescente spazio al tema. I dottorati – oltre che le tesi di laurea – che continuano ad essere sensori delle traiettorie innovative della ricerca, dedicano attenzione ad esso. Peraltro, seppure con molta discontinuità e spesso senza la necessaria tensione, la questione dei condizionamenti della criminalità organizzata rispetto alle pratiche è presente nell’elaborazione urbanistica da più di una trentina d’anni.

Certo, fino al recente passato, essa non ha rappresentato un tema “individuato e dichiarato”, quanto piuttosto la ricaduta, pure rilevante, di istanze analitico-programmatiche tese alla lettura ed all’azione su problematiche specifiche; che caratterizzavano nelle diverse fasi parti del territorio nazionale: abusivismo, consumo di suolo, infrastrutture, gestione dei rifiuti; o percorsi di indagine su comparti e categorie sostantivi per l’assetto, come le grandi opere, le ricostruzioni post disastri sismici o idrogeologici, i grandi progetti turistici, i centri commerciali, le attrezzature speciali (Sberna, Vannucci, 2014).

1.4 Nell’articolo si tenta un prospetto di geografia della “deterritorializzazione di stampo mafioso”, incrociando tre traiettorie evolutive, cronologica, spaziale e tematica. La storicizzazione di quest’ultima permette forse di rischiarare anche le altre.

Le prime tracce di presenza criminale si registrano oltre trent’anni fa nell’ambito di ricerche che osservano “l’edilizia spontanea” che degenera in abusivismo, un fenomeno dapprima tipicamente meridionale, ma presto colto come rilevante, oltre che nelle tre regioni ad alta densità criminale, in altre parti del paese, per esempio Roma (Fera, Ginatempo, 1985; Costantino, 2001).

Nel corso degli anni ottanta, il crescente interesse per l’impatto ambientale di grandi attrezzature ed infrastrutture, di trasporto, energetiche, di gestione dei rifiuti, permette di scoprire il ruolo costante e crescente fino alla dominanza, della criminalità organizzata (Arlacchi, 1983; Piselli, Arrighi, 1985; Sciarrone, 2009), che si era già vista all’opera nella costruzione post-sismica del Belice, ed emerge, più nettamente nel caso dell’Irpinia. Le Colombiadi, i Mondiali del ’90, le grandi opere di fine Prima Repubblica, favoriscono gli incroci tra “Tangentopoli e Mafiopoli” (Arlacchi, cit.; Bocca, 1992).

Talora queste costituiscono occasioni di nuove colonizzazioni criminali di territori che prima non avevano mai conosciuto tali fenomeni, o quasi (Giorgio Bocca, cit., oltre ad Arlacchi, ricorda come il rapimento di Paul Getty negli anni ’70 servì ad assicurare alla ‘ndrangheta di Gioia Tauro le risorse utili a pagare a Fiat Iveco i camion con cui si sarebbero eseguiti i primi movimenti di terra per il costruendo porto industriale. In seguito a quell’affare la famiglia dei Mazzaferro, collegata alle cosche della piana di Gioia Tauro, subappaltava i lavori dell’ampliamento del villaggio-Juventus a Villar Perosa, “aprendo” così le attività in Piemonte).

Ma l’affermarsi dell’emergenza rifiuti, insieme alla sostanziale dominanza del settore dell’escavazione, sul finire del secolo, illumina la capacità mafiosa di controllo su intere filiere, fino all’intero ciclo, dall’accaparramento dei terreni, alle fasi di raccolta e movimentazione, alla posa in discarica e alla sua gestione, o all’incenerimento. La retorica di Gomorra (Sales, 2014).

Ma altri grandi eventi e attrezzature permettono, qualche tempo dopo, la “diffusione nazionale” di mafia ‘ndrangheta e camorra: in primis l’alta velocità, ma anche l’aumento dei grandi centri commerciali e dei distretti turistico- commerciali. Ambiti che permettono tra l’altro alla criminalità di controllare anche l’intero ciclo del cemento in contesti centro-settentrionali, come già avveniva in molte aree del sud. Le opere della Legge Obiettivo negli anni più recenti sono state contrassegnate da scandali a forte intensità di corruzione e criminalità (Barbieri, Giavazzi, cit.; Imposimato, 1999).

La crisi economico-finanziaria, con i limiti alla spesa pubblica, ha clamorosamente ampliato le possibilità di manovra della criminalità: spesso soggetto prioritario, se non unico, a disporre della liquidità necessaria a sostituire la precedente capacità di spesa pubblica. Il crescente ricorso al project financing, per esempio, è stato un altro mezzo di grande penetrazione della criminalità nell’economia dei territori, specie settentrionali. Siamo all’attualità, con la criminalità diffusa su tutto il territorio nazionale (Galullo, 2015).

Riferimenti bibliografici

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Barbieri G., Giavazzi F., 2014, Corruzione a norma di legge, Rizzoli, Milano
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Bevilacqua P., 2011, Il grande saccheggio. L’età del capitalismo distruttivo, Laterza, BariRoma
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Costantino D., 2001, “Problemi sociali dei contesti paesaggistici siciliani”, in Atti del workshop di Presentazione del quadro conoscitivo del Piano Territoriale Paesaggistico di Ambito 1 della Regione Siciliana, Trapani, Bozza Stampa
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De Leo D., 2015, Mafie & Urbanistica, Angeli, Milano
Gallino L., 2012, Finanzcapitalismo, Einaudi,Torino
Galullo R., 2015, Finanza criminale. Soldi, investimenti e mercati delle mafie e della criminalità in Italia e all’estero, Il Sole 24 ORE, Milano
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Magnaghi A., 2010, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Milano
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Piselli F., Arrighi G., 1985, “Parentela,clientela e comunità”, in Bevilacqua P., Placanica A., Storia d’Italia. La Calabria, Einaudi,Torino
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Sberna S., Vannucci A., 2014, Le mani sulla città. Corruzione e infiltrazioni criminali nel governo del territorio, in Fregolent L., Savino M. (a cura di), 2014, Città e politiche in tempo di crisi, Franco Angeli, Milano
Sciarrone R., 2009, Mafie vecchie mafie nuove, Donzelli, Roma

riferimenti

Sull'argomento si veda, su eddyburg, il lavoro di Serena Righini, L’hinterland milanese tra sregolazione e criminalità

«Chiediamo alle forze politiche che in Parlamento svolgono un’azione di opposizione di mettere in stato d’accusa il Governo della Repubblica, per l’aperta e continuata violazione di un principio costituzionale e per la responsabilità piena e consapevole nel privare i cittadini italiani delle risorse necessarie per la loro sicurezza». il manifesto, 26 gennaio 2017 (c.m.c.)

Essi denunciano una realtà mille volte nota e denunciata: la fragilità del nostro territorio, che necessità di cure particolari, investimenti, risanamento di equilibri sconvolti. A questa realtà antica, che illustra la sordità inscalfibile delle nostre classi dirigenti, si aggiunge ora l’impotenza delle amministrazioni locali, privi di risorse, che portano a situazioni indegne di un paese civile. Un paese che sino a poco tempo fa si vantava di essere la quarta o la quinta potenza industriale del pianeta.

Dov’è finita tanta boria?

In questi ultimi giorni abbiamo assistito a spettacoli grotteschi. Centinaia di scuole chiuse per mancanza di riscaldamento, allarmi degli studenti e dei genitori sulla sicurezza degli edifici dove debbono formarsi le nuove generazioni. Le scuole dei nostri ragazzi sono spesso insicure, con servizi scadenti, prive di mezzi. Ebbene, tale squallida situazione, frutto di una politica europea che ci trascina verso il declino non è più tollerabile. Ma non è più tollerabile anche alla luce di quante risorse vengono impiegate dai nostri governi in spese militari.

Il nostro paese cade in ginocchio per qualche alluvione o per nevicate fuori dall’ordinario e noi sperperiamo in spese belliche e in interventi militari, nei vari teatri di guerra, oltre 29 miliardi di € l’anno (2015), circa 80 milioni di € al giorno. Mentre siamo impegnati ad acquistare gli aerei F35 al costo di 14 miliardi complessivi. Si tratta di velivoli da combattimento, strumenti di aggressione e di morte che denunciano da soli la violazione dell’articolo 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».

Ebbene, di fronte ai problemi elementari in cui si dibatte il nostro paese – la cui soluzione potrebbe generare centinaia di migliaia di posti di lavoro – riteniamo moralmente intollerabile lo sperpero di tante risorse a fini di guerra.

Chiediamo alle forze politiche che in Parlamento svolgono un’azione di opposizione di mettere in stato d’accusa il Governo della Repubblica, per l’aperta e continuata violazione di un principio costituzionale e per la responsabilità piena e consapevole nel privare i cittadini italiani delle risorse necessarie per la loro sicurezza.

Piero Bevilacqua, Tonino Perna (Università di Messina), Paolo Berdini, Tiziana Draghi (Università di Bari)Rossella del Prete (Università del Sannio) Piero Caprari, Roberto Budini Gattai, Ilaria Agostini( Università di Bologna), Cristina Lavinio, Paolo Favilli, Francesco Trane, Maria Pia Guermandi (Emergenza cultura), Alberto Magnaghi, Enzo Scandurra, Daniele Vannitiello, Ginevra Virginia Lombardi (Università di Firenze), Piero di Siena, Rossano Pazzaglia, (Università del Molise),Francesco Pardi, Laura Marchetti, Giuseppe Saponaro, Giancarlo Consonni, Andrea Ranieri, Annamaria Rufino (Università della Campania), Graziella Tonon, Velio Abati, Romeo Salvatore Bufalo (Università della Calabria), Amalia Collisani, Salvatore Cingari (Università di Perugia), Marcello Buiatti, Carlo Cellamare, Michele Carducci, Giovanni Attili, Luigi Vavalà, Lia Fubini, Alfonso Gambardella, Ignazio Masulli, Paola Bonora, Alessandro Bianchi, Ugo Olivieri (Università di Napoli, Federico II), Edoardo Salzano, Vezio de Lucia, Giorgio Nebbia, Stefano Sylos Labini, Franco Toscani, Lucia Strappini, Giorgio Inglese (Università di Roma.La Sapienza) Alberto Ziparo, Patrizia Ferri, Pier Luigi Cervellati, Anna Nassisi, Vittorio Boarini.

Pubblichiamo il testo dell'appello del gruppo cittadinanza attiva e comitato FAI "Che ne sarà di città degli studi?" 18 gennaio 2017 (m.c.g.)

Un altro esempio di ‘cattiva pratica’ urbanistica e amministrativa del capoluogo lombardo: pur di assecondare il discutibilissimo progetto di riuso delle aree EXPO Milano 2015, fortemente voluto da Renzi e da AREXPO (la società proprietaria dei terreni, controllata per il 39% dal ministero dell'Economia e delle finanze e compartecipata dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia) si mette a rischio la sopravvivenza di una vasta porzione della periferia milanese storicamente vocata all’istruzione universitaria. Ma i cittadini non ci stanno.(m.c.g.)

Egregio Sindaco Sala,

siamo un gruppo di residenti di Città Studi, Lambrate e Milano Est aggregatisi a partire dal febbraio 2016 tramite Facebook (dove la nostra pagina “Che ne sarà di Città Studi?” conta oggi oltre 2300 membri) e iniziative sul territorio. Lo scorso novembre, la campagna da noi lanciata per il riconoscimento di Città Studi come “Luogo del Cuore FAI” ha avuto un riscontro molto significativo tra i cittadini della Zona 3: in quattro settimane scarse hanno aderito con più di 4.500 firme, conferite per un terzo sul sito del FAI e per ben due terzi (oltre 3.000 firme) su carta, recandosi appositamente presso diverse decine di negozi della zona che si sono offerti di ospitare la raccolta. Vista la massiva e sentita partecipazione, il nostro gruppo si è anche costituito nell’omonimo Comitato FAI “Che ne sarà di Città Studi?”. (1)

Le scriviamo per manifestarLe la nostra viva preoccupazione per il futuro della periferia di Zona 3, che pare pericolosamente sospeso tra cecità amministrativa e vuoto di programmazione urbanistica.

L’area di Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica è notoriamente afflitta da cronici problemi – degrado, occupazioni abusive, randagismo e microcriminalità- derivanti dalla presenza di numerosi siti industriali ed edifici civili dismessi lasciati in stato di abbandono, primo tra tutti l’amplissima area dell’ex Innocenti al Rubattino, da dieci anni sospesa nel limbo del lentissimo completamento della fase 1 e della mancata attuazione della fase 2 del PRU.

Eppure, a più di 6 mesi dall’insediamento della Sua Giunta e del Municipio 3, da parte di entrambe le amministrazioni non c’è segnale dell’intenzione di intervenire in modo strategico e radicale per risolvere finalmente lo stallo del PRU Rubattino e i collegati problemi di degrado e sicurezza dell’area. Il Piano per le Periferie da Lei varato lo scorso dicembre addirittura vede quest’area esclusa da ogni intervento strutturale.(2)

Il disinteresse del Comune e del Municipio 3 per la risoluzione dei gravi problemi dell’area Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica si somma alle incognite del progetto che incombe sulla periferia del quartiere Città Studi: il trasferimento delle Facoltà Scientifiche dell’Università Statale sul sito di Rho-Expo. Grazie al sostegno fornito dalla Sua Amministrazione e da Lei personalmente, oltre che dall’uscente governo Renzi e da Regione Lombardia, il progetto è stato finanziato e troverà attuazione.

Sull’abnormità e sui possibili devastanti effetti di questo trasferimento e dell’ulteriore progetto di trasloco che interesserà la stessa periferia di Città Studi – lo spostamento a Sesto San Giovanni degli Istituti Tumori e Besta – ci siamo già espressi nell’allegato volantino(3), diffuso in 15mila copie tra i residenti di Zona 3 e che La invitiamo a leggere. Ora ci preme richiamare alla Sua attenzione che l’area Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica è contigua e strettamente connessa – dal punto di vista della vitalità sociale, culturale ed economica – all’amplissima area di Città Studi (vie Valvassori Peroni, Pascal, Golgi, Celoria, Ponzio, Venezian, Colombo, Saldini, Botticelli, piazzale Gorini) che si svuoterebbe in conseguenza del trasferimento delle Facoltà Scientifiche di UniMi a Rho e dei due ospedali a Sesto.

È sorprendente come un’Amministrazione che proclama di voler porre le periferie al centro della propria visione sia completamente cieca alla concreta possibilità che il trasloco di UniMi e degli ospedali da Città Studi avrà l’effetto di aggravare ed allargare nella periferia e sin dentro il cuore di Zona 3 il cronico problema delle aree dismesse e abbandonate al degrado. Già oggi dall’area di Lambrate Stazione-Rubattino-Ortica l’abusivismo, il randagismo e la microcriminalità si allungano fin dentro zone più centrali di Lambrate e Città Studi. Il rischio che questi problemi avanzino e diventino endemici dentro la Zona 3 è grandemente favorito dalla vastità delle superfici che si svuoteranno e spopoleranno a seguito dei due progetti di trasferimento: almeno 350.000 mq tra edifici e plessi universitari e ospedalieri, oltre ai terreni annessi.

Non meno grave per Città Studi, Lambrate, Rubattino, Ortica e l’intera Zona 3 sarà il venir meno della vitalità sociale e culturale e dell’indotto economico che l’Università, gli ospedali e la correlate presenze (studenti, ricercatori e docenti, personale tecnico-amministrativo, personale sanitario, utenti degli ambulatori ospedalieri, degenti e loro famiglie) garantiscono da molti decenni a tutta la Zona 3, risultando però particolarmente importanti proprio per la sua periferia.

Con queste premesse, il trasferimento delle Facoltà Scientifiche e degli Istituti Tumori e Besta da Città Studi potrebbe assestare alla periferia della Zona 3 un colpo molto grave, se non fatale. In apertura della conferenza di presentazione del piano “Fare Milano” Lei ha detto che il Sindaco è in contatto quotidiano con i suoi cittadini che lo richiamano all’attenzione sui problemi. Ispirati da queste parole, abbiamo deciso di rivolgerci a Lei direttamente per segnalare il rischio concreto che, continuando su queste linee – da un lato avallate lo smantellamento di Città Studi senza avere alcun piano per il post dismissione, dall’altro non intervenite a sanare i problemi dell’area Lambrate Stazione – Rubattino – Ortica – Lei e la Sua Amministrazione getterete le basi per il futuro disastro sociale ed economico della periferia di Zona 3. Ci appelliamo a Lei perché scongiuri tale prospettiva, rivedendo con urgenza le vostre politiche per queste aree, a partire dagli interventi urbanistici.

In un evidente vuoto di programmazione urbanistica, si stanno infatti innestando sulla stessa zona, entro un raggio di pochissimi chilometri, tre grandi progetti: due dismissioni – Istituti Tumori e Besta, Università Statale – e una riqualificazione – scalo ferroviario di Lambrate – portati avanti ognuno per conto proprio, in assenza di una visione complessiva e ignorando i problemi e le potenzialità del territorio.

Guardando a tali potenzialità, la necessità di reperire nuovi spazi che spinge l’Università Statale a lasciare Città Studi poteva ben essere risolta utilizzando i numerosi grandi spazi disponibili alla periferia di Zona 3, tra l’altro vicinissimi alle sedi storiche di UniMi. Un’Amministrazione comunale davvero interessata a “mettere le periferie al centro”, avrebbe certamente visto la grande opportunità di riqualificare e anche rilanciare tutta la periferia di Zona 3 che si poteva creare destinando proprio l’amplissima e servitissima (tangenziale, stazione FS, metro, mezzi di superficie, aeroporto) area ex-Innocenti al Rubattino (4) alla realizzazione del nuovo e moderno campus di cui la Statale ha bisogno. Considerata anche la presenza in zona dell’area dello scalo di Lambrate da riqualificare, Rubattino offriva spazi sufficienti per accogliere l’intero progetto Human Technopole (5). Il nuovo polo scientifico e tecnologico si sarebbe qui giovato della presenza del Politecnico e delle numerose aziende farmaceutiche, biomediche e tecnomedicali che hanno sede nella periferia e nell’hinterland Est di Milano.

Invece, tramite ingenti finanziamenti pubblici, il Governo Renzi e Regione Lombardia hanno incentivato l’Università Statale a trovare nuovi spazi a Rho. L’Amministrazione comunale ha appoggiato la soluzione, consegnando la periferia di Zona 3 a un futuro di possibile ulteriore declino. Infatti, a partire dalla necessità di risolvere il problema del post-Expo, si è creato con effetto domino il problema del post-Città Studi, su cui persiste l’allarmante silenzio del Comune e del Municipio 3.

A noi cittadini della Zona 3 pare proprio che Lei e la Sua Giunta puntiate ad affossare la nostra periferia, piuttosto che “metterla al centro” come da Suo programma elettorale. Ora ci aspettiamo che vi facciate responsabilmente carico delle nostre preoccupazioni, riconsideriate molto seriamente la situazione – urbanistica e non solo – della periferia di Zona e diate risposta alle nostre domande, rompendo il vostro silenzio.

Da parte nostra, in rappresentanza dei cittadini della periferia e dell’intera Zona 3, vigileremo con massima attenzione su tutte le ulteriori vicende e fasi che riguarderanno la dismissione delle Facoltà Scientifiche e degli Istituti Tumori e Besta da Città Studi, adoperandoci per difendere la storia e l’identità del nostro territorio, con lo stesso civismo che ci ha spinto a scriverLe.

Grazie per la Sua attenzione,

Il Gruppo di Cittadinanza Attiva e Comitato FAI “Che ne sarà di Città Studi?”

Milano, 18 gennaio 2017

Note alla lettera:

Note alla lettera:
1) Presentazione e scopo del comitato disponibili al link: http://iluoghidelcuore.it/comitato/584
2) La situazione non pare sostanzialmente modificata dall’integrazione al Piano per le Periferie recentemente proposta dal Municipio 3.
3) Il volantino, del novembre 2016, è scaricabile sul blog del nostro gruppo, al link: https://chenesaradicittastudi.files.wordpress.com/2016/11/volantino_pronto_per_stampa.pdf
4) Ci riferiamo alla vastissima area su cui dopo un decennio non ha trovato ancora attuazione la fase 2 del PRU Rubattino, situata immediatamente a ridosso del quartiere residenziale “Parco Grande Rubattino”, distante appena 2 km dalle Facoltà Scientifiche di UniMi site intorno a via Celoria.
5) In zona Rubattino, a due passi dall’area ex Innocenti e dallo scalo di Lambrate, sono tra l’altro presenti, di proprietà della Statale, un ampio terreno non edificato (18.000 mq) in via San Faustino e, di fronte, in via Trentacoste 2, un edificio moderno che ospita le Facoltà di Farmacia e Veterinaria e confina con un’ampia area non più edificata appena dismessa dal Comune.

Lo show del sindaco di Venezia: chiacchiere e promesse col naso lungo, sorrisi, allusioni e scambio di doni. Poi si vedrà. L'importante sono i soldi promessi da Roma. Corriere del Veneto, 25 gennaio 2017, con postilla

Dice Italia Nostra con il suo vicepresidente Paolo Lanapoppi: «Nella nostra lettera all’Unesco spieghiamo che nessuno dei 10 punti richiesti dalla Convenzione di Istanbul è stato rispettato. Non capisco come possono collaborare quando una delle richieste principali della commissione di Istanbul era di portare le grandi navi e le petroliere fuori laguna mentre il sindaco ha ribadito il progetto delle crociere in Marittima». In effetti l’interrogativo resta. E’ stato uno dei temi al centro della discussione di ieri pomeriggio su cui però la nota a margine del Comune dedica solo quattro righe.

«Non c’è stata nessuna vittoria, la decisione su Venezia sarà presa a luglio, e sarà il governo a dover dare una risposta, è tutto fumo, il disaccordo resta in primis sullo scavo delle Tresse». Così il portavoce del Gruppo 25 Aprile commenta la stretta di mano di ieri tra la direttrice dell’Unesco Bokova e il sindaco Luigi Brugnaro. «Non si capisce a cosa si riferisca il sindaco dove dice di aver presentato i progressi fatti da Venezia negli ultimi 15 mesi — interviene il capogruppo Pd in consiglio comunale Andrea Ferrazzi- siamo in attesa di progetti concreti».

Sulle stesse note il segretario di Confartigianato Venezia Gianni De Checchi: «Mi fa molto piacere che l’Unesco abbia visto proposte concrete nel documento di Brugnaro, speriamo di vederle anche noi veneziani». Sindaco, assessori e dirigenti hanno cercato di spiegarlo nel dossier presentato mescolando idee, sogni e cose fatte. Perché se ad esempio è stato condiviso che uno dei problemi più evidenti sia la proliferazione di strutture ricettive non alberghiere, dall’altro la soluzione è stata individuata nella modifica della legge regionale «per la cui formulazione il Comune ha da sempre fornito il proprio supporto». In attesa resta tutto com’è. Hanno parlato di sicurezza e della riqualificazione delle parti più degradate o isolate della città. Quello che sindaco e assessori hanno cercato di spiegare ieri è che con la riqualificazione urbanistica e ambientale, la rigenerazione di Porto Marghera, la rivitalizzazione del tessuto socio-economico, la valorizzazione delle periferie, si possa far crescere il centro urbano.

postilla
Il grande battage pubblicitario della gita della troupe del sindaco Brugnaro a Parigi (18 persone) si è conclusa come doveva: con molte pagine di pubblicità per il piccolo trumpista italiano, molte cortesie sulla Senna tra i soggetti titolati, e nessuna decisione nel merito. Qualcuno, in Laguna e dintorni, ha rilevato che Brugnaro e la sua corte non hanno dato una risposta soddisfacente a nessuna delle questioni solleva dall'Unesco.

Ma, a cose fatte, e nell'attesa del responso finale dell'agenzia dell'Onu (che verrà a luglio), una domanda s'affaccia: che cosa (e chi) guadagna o perde Venezia, se l'Unesco cancella la Capitale del Veneto dalla sua lista? E del resto, in che cosa l'inclusione di Venezia in quella lista aumenta davvero la possibilità che Venezia e la sua Laguna ne traggano beneficio e che i suoi attuali saccheggiatori siano ostacolati nel proseguire il saccheggio?
Grazie al meritorio lavoro della sezione Venezia di Italia Nostra l'Unesco ha posto precise domande e stringenti raccomandazioni al Comune e allo Stato: ma se il Comune e lo Stato rispondessero picche (invece di far finta di obbedire continuando a operare peggio di prima) che cosa potrebbe fare l'Unesco? Nessuna regola certa e chiara quell'Agenzia internazionale può proporre, e nessuna sanzione può comminare in caso di infrazioni. Del resto, è noto che l'influenza del governo italiano sull'Unesco è forte, e che l'uomo più potente di quell'organizzazione è ancora Francesco Bandarin, sostenitore, in Laguna, della "corrente di pensiero" favorevole al MoSE.

C'è poco da illudersi, la battaglia per salvare Venezia si vince o si perde nella città, del cui popolo il primo compito è sostituire a Brugnaro e alla sua corte una diversa compagine per il governo della città.

Nel prossimo futuro Milano e la sua area metropolitana rischiano di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella del riuso degli scali ferroviari dismessi, una superficie in dismissione. arcipelagomilano.org, 24 gennaio 2017 (m.c.g.) con postilla

Il workshop dedicato al recupero degli scali ferroviari milanesi, organizzato da FS Sistemi Urbani (FSSU) in collaborazione con l’assessorato all’Urbanistica del Comune di Milano che si è svolto il 15, 16 e 17 dicembre nell’ambito dell’iniziativa Dagli scali, la nuova città, al di là del suo successo prevalentemente mediatico, ha comunque consentito il confronto, del quale ho riferito nei miei resoconti, tra progettisti, urbanisti, amministratori, funzionari, imprenditori e semplici cittadini, su importanti temi urbanistici diventati di grande attualità. Infatti, al termine del mandato di Pisapia, l’Accordo di Programma (AdP) predisposto dopo una lunga e complessa trattativa con FSSU dal precedente assessore Lucia De Cesaris, del tutto inaspettatamente, non è stato approvato in via definitiva dal Consiglio Comunale costringendo la nuova amministrazione e riaprire la trattativa.

Il workshop ha anche offerto l’occasione per portare all’attenzione di un vasto pubblico l’Appello sugli scali ferroviari milanesi che ha denunciato l’attuale inadeguatezza del Comune rispetto al compito promuovere una cultura urbana di cui a Milano si sente da tempo la mancanza, considerato che le grandi trasformazioni degli ultimi vent’anni sono state soprattutto frutto di trattative ed accordi condotti in assenza di ogni forma di dibattito pubblico e di partecipazione sociale alle decisioni.

Con la nuova amministrazione e le impegnative dichiarazioni del nuovo Assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran subito dopo la sua nomina nell’incontro del 19 luglio dello scorso anno, era sembrato che si volesse cambiare totalmente metodo. Ma quando ci si è resi conto che il Comune aveva delegato a FSSU la definizione delle strategie e degli indirizzi per il recupero degli scali ferroviari, la delusione è stata grande e molto diffusa la volontà di manifestare il proprio dissenso come testimoniano le trecento adesioni al nostro Appello.

Per quanto il fatto che FSSU e assessorato abbiano assegnato degli incarichi diretti, sopra soglia e senza alcuna selezione di evidenza pubblica a cinque colleghi possa essere apparso il movente della denuncia resa pubblica con l’Appello, in effetti le questioni che abbiamo contestato anche direttamente all’assessore Maran sono ben più importanti e gravi.

Innanzi tutto il fatto di accettare la doppia identità di cui si avvale FSSU – tema trattato molto chiaramente da Luca Beltrami Gadola su queste stesse pagine – che si comporta come soggetto privato nel momento in cui assegna gli incarichi professionali senza rispettare la legge Merloni e come ente pubblico quando siede al tavolo della trattativa per la definizione dell’AdP e pretende di sottoscriverlo insieme a Comune e Regione in base all’ art. 34 della legge sull’Ordinamento degli Enti locali.

Poi, che a svolgere il ruolo di definizione degli indirizzi strategici e dei criteri urbanistici per il recupero degli scali ferroviari milanesi sia FSSU, che vanta la proprietà delle aree ed ha come compito fondamentale la loro valorizzazione immobiliare. Aree sulle quali è invece tenuto il Comune a esercitare la propria competenza urbanistica, in piena autonomia, equanimità e interpretando l’interesse pubblico.

Inoltre, che la trattativa tra Comune e FSSU e per la definizione del nuovo AdP si svolga essendo tuttora pendente il ricorso presentato da quest’ultima nell’aprile dello scorso anno al TAR della Lombardia per ottenere l’annullamento degli atti relativi alla mancata approvazione da parte del Consiglio Comunale del precedente AdP con l’evidente intento di condizionare il Comune nel corso della trattativa soprattutto perché nel ricorso si riserva espressamente di chiedere presunti danni passati e futuri.

Ne consegue che quella che è indicata come “collaborazione” tra FSSU e Assessorato all’Urbanistica non ha alcuna validità in termini di corretta pratica amministrativa. Tuttavia nel farvi riferimento il Comune si rende nei fatti corresponsabile degli atti che FSSU ha adottato e sta portando avanti con l’iniziativa Dagli scali, la nuova città, anche nell’impiego di ingenti risorse pubbliche, visto e considerato che essa è al 100 % di proprietà di FS e quindi del Ministero delle Finanze.

L’accesso agli atti, che ho chiesto personalmente, ha provato che non esisterebbe alcuna delibera della Giunta o del Consiglio comunale che autorizzi la collaborazione con FSSU. Nella lettera che ho ricevuto dalla Direzione Urbanistica del Comune di Milano si dichiara infatti che non vi è alcuna collaborazione tra il Comune e FSSU, e che l’ufficio non possiede alcun documento o informazione (sic!) relativi all’evento Dagli scali, la nuova città.

Stando a quanto pubblicamente affermato sia dall’Assessore Maran e dal presidente di FS Sistemi Urbani Carlo De Vito, l’unico atto formale in base al quale la collaborazione tra FSSU e Comune è stata attuata, sarebbe la Delibera di Indirizzo sugli scali del Consiglio comunale. Ma in essa non si cita affatto l’iniziativa Dagli scali, la nuova città. Per cui l’assessore avrebbe collaborato alla sua realizzazione in assenza di atti che esplicitamente lo autorizzino.

Invece, parrebbe che solo in coda a una riunione di Giunta del 6 di dicembre, l’assessore Maran abbia chiesto la conferma al possibile uso del logo del Comune per l’indizione e la realizzazione del workshop di tre giorni che si sarebbe tenuto, aperto alla cittadinanza, dal titolo Dagli scali, la nuova città.

Al termine di queste considerazioni relative alla scarsa trasparenza e alla dubbia legittimità della collaborazione tra FSSU e Comune, campeggia una questione ben più importante che riguarda la legittimità della proprietà delle aree degli scali ferroviari vantata da FSSU. Infatti, nel momento in cui si è proceduto alla loro dismissione dalla funzione per la quale erano state espropriate e concesse alle Ferrovie dello Stato, verrebbero meno i presupposti della concessione e con maggior evidenza dello stesso titolo di proprietà.

Le questioni illustrate fanno emergere chiaramente un impegno trasversale e ampiamente condiviso, tra chi ha aderito al nostro appello, ad affrontare tematiche di interesse molto generale che non consentono di interpretare l’azione intrapresa come una questione puramente corporativa.

Ma anche in questo quadro di interessi molto generali non si può non lamentare la genericità e scarsa attendibilità delle promesse – formulate dall’assessore e inspiegabilmente condivise dall’Ordine degli Architetti – che i concorsi si faranno in futuro, dopo la firma dell’AdP, sui singoli scali e le grandi funzioni che vi si localizzeranno, perché così facendo il Comune rinuncia alla sua imprescindibile funzione di indirizzo dello sviluppo della città che si elabora in questa fase, accettando di fatto la “visione” della proprietà.

Peraltro, le prospettive di effettivo recupero delle aree dismesse degli scali ferroviari sono condizionate da fattori estremamente aleatori: la situazione del mercato immobiliare, la disponibilità di investimenti stranieri, la discrezionalità di chi acquisterà da FSSU le aree edificabili e la caratterizzazione politica della amministrazioni che si avvicenderanno nei tempi, inevitabilmente lunghi, di interventi tanto impegnativi.

La considerazione di queste difficoltà induce a immaginare che ci siano altri interessi, ben più consistenti, che esigono di semplificare la procedura e ridurre al massimo i tempi della definizione del nuovo AdP tra FSSU, Comune e Regione. Pierfrancesco Maran può essere comprensibilmente interessato a portare a casa l’AdP per la speranza di vedere, entro il suo mandato, qualcosa di realizzato su qualche scalo a favore della sua brillante carriera politica.

La Regione, per quanto possa avere pieno titolo a essere il vero regista a causa della portata territoriale dell’operazione scali, tiene un atteggiamento prudente concedendo un generico patrocinio all’evento Dagli scali, la nuova città, forse consapevole che un maggior coinvolgimento potrebbe essere censurabile.

Ma FSSU ha ben altre finalità che non coincidono affatto con il pubblico interesse. Infatti, con l’attuale crisi del mercato immobiliare, con l’offerta inevasa di immobili a City Life e Porta Nuova con gli impegni già assunti di localizzare nell’area di Expo le grandi funzioni, immaginare che si possa avviare concretamente e a breve il recupero degli scali è pura illusione. FSSU è interessata innanzi tutto a ottenere che il Comune firmi l’AdP perché solo al momento della firma si genereranno, per incanto, le volumetrie sulle aree degli scali consentendo a FSSU, che attualmente è una Srl di capitali pubblici, di entrare in borsa diventando una Spa con capitali anche privati. Quindi l’operazione è tutta finanziaria e gestita in una logica privatistica attraverso la traduzione delle aree dismesse in diritti edificatori, utili poste di bilancio necessarie alla programmata quotazione in borsa.

Non credo ci sia altro da aggiungere e invito chi non l’avesse ancora fatto ad aderire aggiungendo la propria firma all’Appello sugli scali ferroviari milanesi.

postilla

Nel prossimo futuro Milano e la sua area metropolitana rischiano di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella del riuso degli scali ferroviari dismessi (7 scali ferroviari, una superficie in dismissione di ben 1.100.000 mq.). Invece di imporre, trattandosi di aree caratterizzate da alta accessibilità pubblica, rigorosi criteri di localizzazione di nuove funzioni di irraggiamento metropolitano, l’amministrazione comunale sta delegando a FS Sistemi Urbani tutta la filiera progettuale. Nel 2015 si era verificata una inaspettata discontinuità: la bozza di Accordo di Programma, a cui si lavorava dal 2005 nelle segrete stanze del potere e che prevedeva la realizzazione di 674.000 mq di superficie di pavimento, prevalentemente a destinazione residenziale e spalmati sul territorio in maniera indifferenziata, era decaduta per l’ostruzionismo non solo dell’opposizione, ma anche di parte della maggioranza, evidenziando, nella fase conclusiva del mandato del sindaco Pisapia, una dialettica politica inattesa. Ma con la giunta Sala, e con l’assessore all’Urbanistica Maran, si sta compiendo un salto di qualità: immemori della bocciatura recente, si è lasciato a FFSU non più ‘soltanto’ il compito di proporre progetti, ma anche di elaborare visioni strategiche di medio-lungo periodo (naturalmente, ricorrendo alle firme prestigiose di 5 studi di fama internazionale i quali, su incarico professionale della FFSU, sono alacremente al lavoro e presenteranno le loro proposte nell’aprile 2017). Si tratterebbe di un compito tipicamente pubblico e la scelta dell’amministrazione suscita seri interrogativi. La delega ampia affidata a FSSU prelude a una approvazione senza se e senza ma delle sue proposte? Si rinuncia ancora una volta da parte dell’amministrazione municipale a svolgere un compito di regia e di controllo sul disegno complessivo della città? E il sedicente governo della Città Metropolitana non batte un colpo su progetti di evidente irraggiamento di area vasta?
E’ molto probabile, perché è FFSU, perché sono i grandi gruppi della finanza immobiliare che, per motivi del tutto estranei alla effettiva rigenerazione urbana, continuano a dettare l’agenda a questa amministrazione, così come l’hanno dettata alla precedente.
Qualcosa si sta però muovendo nella società civile e nel mondo della professione e dell’accademia: il successo dell’iniziativa promossa da Emilio Battisti è un segnale promettente.(m.c.g.)


«I due puntini rossi indicano il resort Rigopiano, all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio »Articoli di Marco Imarisio,corriere della sera, la Repubblica, il manifesto, 24 gennaio 2017 (c.m.c.)

corriere della sera
IL RESORT COSTRUITO SUI DETRITI
DELLA VALANGA DEL 1936
E SCATTA UNA NUOVA INDAGINE
SUI LAVORI DI AMPLIAMENTO.
di Marco Imarisio

Pescara. Carta canta. Per almeno due volte. Nel 1991 la Regione Abruzzo decide di dotarsi di una mappa che segnala eventuali criticità sul proprio territorio. Si tratta di un debutto, reso necessario dalle alluvioni e dallo sciame sismico del biennio precedente. La carta ufficiale mostra come l’hotel Rigopiano sia al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. A farla breve, un lembo di terreno rialzato rispetto alla superficie intorno per via dell’accumulo di materiale caduto dall’alto. Nel dicembre del 2007 quel documento diventa una specie di Vangelo ambientale, perché viene adottato tale e quale com’era dalla Giunta che sulla base delle sue segnalazioni approva il nuovo Piano di assetto idrogeologico.

Con il senno di poi si può fare di tutto, ma è vero che quelli riportati sopra non sono giudizi, ma semplici dati rilevati dai documenti ufficiali presenti sul sito della Regione. Sono stati resi pubblici dal Forum H2O, filiazione diretta dei comitati per l’acqua pubblica. Attivisti, ingegneri e operatori ambientali militanti. I due puntini rossi che indicano il Rigopiano, ponendolo all’interno di una zona che gli esperti della Regione hanno considerato a elevato rischio di «anche precipitazione ambientale» sono il punto di partenza che ha portato la Procura di Pescara ad acquisire la loro denuncia.

«L’elemento conoscitivo non è stato trasformato in un vincolo che avrebbe obbligato a non costruire o a farlo seguendo direttive che avrebbero fatto impennare i costi». Da qui in poi ogni elemento diventa opinione, quindi confutabile. Come quella di Augusto De Sanctis, presidente del Forum, convinto che non sia stata sciatteria, ma una pura questione di soldi. L’hotel Rigopiano era una struttura preesistente, in una zona dove nel 1936 si era verificata una valanga di portata paragonabile a quella che mercoledì scorso ha fatto strage.

A quel tempo, nella valle sorgeva solo un rifugio. Secondo il Forum H2O questo non è importante, perché i tempi di ritorno di questi fenomeni estremi sono molto lunghi. Come per le piene dei fiumi, possono avere una ciclicità plurisecolare, raggiungendo aree che ai non addetti ai lavori sembravano tranquille. «È per questo» aggiunge De Sanctis «che esistono le carte del rischio, basate sugli eventi già noti ma soprattutto sulle caratteristiche specifiche del terreno in questione».

L’accusa esplicita è questa: l’ultima ristrutturazione, avvenuta tra il 2007 e il 2008, «ha ampliato le capacità ricettive della struttura e quindi il rischio intrinseco», quando invece c’erano tutti gli elementi per accorgersi dei problemi. Almeno una parte di colpa nel disastro sarebbe quindi da attribuire a quegli ultimi lavori, autorizzati da una delibera del comune di Farindola il 30 settembre 2008 che divenne oggetto di una inchiesta e di un processo per corruzione e abuso di ufficio, chiusi nell’aprile del 2016 con l’assoluzione «perché il fatto non sussiste» di tutti gli imputati. Sindaco, assessore e consiglieri comunali.

I reati erano prescritti da tempo. «Ma la completezza dell’istruttoria impone il vaglio delle risultanze dibattimentali» scrissero i giudici nelle motivazioni della sentenza. La Del Rosso srl, titolare dell’hotel, aveva preso possesso di alcuni terreni limitrofi dei quali era proprietario il Comune, e li aveva utilizzati per espandere la ristrutturazione in corso. I magistrati ipotizzarono uno scambio di denaro in cambio della sanatoria, che si rivelò inesistente.

La valutazione dei giudici su quei lavori differisce non poco da quelle di Forum H2O. «Non soltanto non emerge alcun profilo di illegittimità nella delibera adottata, ma non può ravvisarsi neppure un esercizio dei pubblici poteri non improntato a imparzialità e buon andamento. Infatti, l’occupazione abusiva, che riguardava una porzione di terreno piuttosto esigua (1.700 metri quadrati), tenuto conto della collocazione geografica, un’area di montagna totalmente disabitata e destinata a pascolo, fu sanata e stabilito per la sua occupazione un canone ritenuto congruo».

Non è un precedente da poco. Le ultime modifiche del Rigopiano hanno superato indenni il verdetto dell’aula. Quelle meno recenti risalgono alla notte dei tempi. La nuova inchiesta della Procura su come e perché l’hotel Rigopiano sia stato costruito in un’area dove sono presenti colate di detriti, rischia di avere un valore esclusivamente storico.

la Repubblica
LA PREFETTURA NEL MIRINO ,GLI AMBIENTALISTI ACCUSANO «HOTEL COSTRUITO SUI DETRITI»
«I soccorsi partiti dopo ore. Ma anche i documenti sulla morfologia del territorio. L’indagine per “disastro colposo”»

Pescara. L’indagine punta verso la Prefettura di Pescara. Ovvero verso il luogo che tutto ha gestito, durante le giornate dell’emergenza prima, durante e dopo la valanga che ha sepolto l’hotel Rigopiano: il Ccs, il Centro di coordinamento del soccorso che il prefetto Francesco Provolo ha attivato nella mattinata di mercoledì, subito dopo la prima scossa di terremoto. La “situation room” che si trova al piano terra del palazzo di piazza Italia e dove sono rappresentate tutti gli enti e le forze dell’ordine, la protezione civile, i vigili del fuoco.

Del resto non poteva essere altrimenti. Qui sono arrivate le segnalazioni dei cittadini e dei comuni dell’intera provincia, sommersi dalla neve e terrorizzati dai quattro terremoti. Qui sono state raccolte le telefonate del superstite Giampaolo Parete e del suo datore di lavoro Marcello Quintina, sottovalutate e ritenute, nel caso di Quintina, una delle tante bufale che circolavano quel giorno. Tant’è che la polizia identificherà nelle prossime ore l’alta funzionaria della Prefettura che rispose al telefono.

Dal Ccs, infine, sono state gestite le turbine spazzaneve e sono stati coordinati i soccorsi all’hotel, una volta realizzato — con ritardo — la gravità di ciò che era successo a Ferindola. «Tutti i problemi e le interferenze nel flusso delle comunicazioni avvenuti nel post-valanga hanno provocato ritardi che verosimilmente ammontano a circa un’ora», spiega il procuratore aggiunto Cristina Tedeschini, titolare insieme al pm Andrea Papalia, del fascicolo aperto per “disastro colposo” e “omicidio colposo plurimo” al momento contro ignoti. Aggiungendo: «L’incidenza del ritardo non è di particolare rilievo». Come a dire: ciò su cui stiamo lavorando non è tanto il dopo, ma il prima. E infatti saranno sentiti funzionari e dirigenti della provincia e della Prefettura e sarà acquista tutta la documentazione relativa al Ccs.

Il prima, dicevamo. Il fascicolo d’indagine della procura di Pescara si arricchirà presto con la Mappa geomorfologica dei bacini idrici della regione Abruzzo, un documento che è stato reso noto dal Forum H20 Abruzzo e che testimonierebbe come l’hotel Rigopiano sia stato costruito sopra colate e accumuli di detriti preesistenti, compresi quelli da valanghe, all’imbocco di un vallone. Non esattamente la posizione ideale dove tirar su una struttura del genere, oltretutto aperta al pubblico. Altro filone d’indagine, quello relativo al piano valanghe: gli inquirenti si recheranno presto alla Regione Abruzzo all’Aquila per prendere il Piano, previsto da una legge del 1992. A Repubblica risulta che in 25 anni non sia stata fatta una mappatura completa a causa della scarsezza delle risorse economiche, e che tra le aree non coperte ci sia proprio il comune di Farindola.

Quindi il sindaco Ilario Lacchetta, che ha dichiarato di non aver mai ricevuto nemmeno il bollettino Meteomont relativo al mercoledì della tragedia, non poteva sapere se il suo territorio fosse ad alto rischio slavine o no. Ma è tutta la posizione “geologica” dell’albergo a interessare gli investigatori, che infatti vogliono rivedere le relazioni sulla ristrutturazione dell’hotel e le carte del processo per corruzione (conclusosi con una sentenza di assoluzione) su un episodio che risale al 2007. Si vuole capire, al di là della vicenda penale chiusa definitivamente, se la concessione edilizia ottenuta dai proprietari dell’hotel sia in regola e conforme ai vincoli imposti dal Parco del Gran Sasso.

Intanto si deve aggiornare, in negativo, il bilancio della strage. Col recupero di altri quattro corpi, il numero delle vittime sale a nove: tra loro Linda Salzetta, sorella di Fabio, il manutentore sopravvissuto. Non si placa nemmeno la rabbia dei familiari. «Quelli che sono morti sono stati uccisi, quelli che ancora non si trovano sono stati sequestrati contro il loro volere. Avevano le valigie pronte e volevano rientrare», si sfoga Alessio Feniello, papà di Stefano, il 28enne ancora tra i dispersi.

il manifesto
«L’HOTEL RIGOPIANO COSTRUITO SUI DETRITI DI FRANE PRECEDENTI»

«Cumuli di rabbia. Ritrovato il corpo del settima vittima. Oggi i primi funerali a Penne e Farindola Si indaga anche sulle comunicazioni tra l’albergo e le istituzioni comunali e provinciali»

«L’ipotesi operativa è che la slavina possa non aver raggiunto e saturato tutti i locali, che ci sia un cuore della struttura dove non sia arrivata. Se poi lì dentro possano esserci condizioni di vita, questo non lo sappiamo». Va avanti ininterrotto il lavoro dei soccorritori tra le macerie dell’Hotel Rigopiano a Farindola (Pescara). «Proseguiamo nell’esplorazione dei locali – dice Luca Cari, portavoce dei vigili del fuoco -, seguendo la speranza di trovare ancora superstiti, anche se non c’è alcuna certezza. Stiamo procedendo da stanza a stanza, stiamo aprendo varchi in muri anche da ottanta centimetri. Siamo riusciti a sfondare con un escavatore quella montagna di ghiaccio che ci impediva di far giungere i mezzi pesanti fino al complesso turistico».

Sepolta da 120.000 tonnellate di massi, pietre e neve, come 4.000 tir carichi. Il fronte di distacco della massa nevosa aveva una larghezza di 500 metri e una lunghezza di 250, con uno spessore di 2,5 metri. Questo evidenziano gli studi del servizio Meteomont dei carabinieri, che stanno esaminando dimensione e forza d’impatto della valanga che ha devastato l’albergo, sotto cui si trovano ancora in 22. Nelle scorse ore, infatti, sono stati trovati altri 2 corpi.

Attualmente sono 7 le vittime accertate (ieri è stato ritrovato il corpo di una donna), 11 sopravvissuti: tra questi ultimi 4 bambini, che stanno bene. Oggi si svolgeranno i primi funerali. Mentre ieri, nel vano caldaie, sono stati recuperati vivi tre splendidi cuccioli di pastore abruzzese. «E ciò rafforza ogni speranza…».

«Ma quel resort – denuncia il Forum Acqua Abruzzo – sorge su un letto di detriti di vecchie frane». «Per l’area del Rigopiano – spiega Augusto De Sanctis, Forum H2O – la prima mappa elaborata dalla Regione Abruzzo che segnalava criticità importanti è del periodo 1989-1991 ed è stata ripresa tal quale e, quindi, confermata dalla Giunta regionale con delibera numero 1383 del 27 dicembre 2007, con la quale è stato adottato il Piano di assetto idrogeologico. Le due carte ufficiali mostrano inequivocabilmente che l’hotel è costruito al centro di un’area con colate detritiche, dette conoidi. Sorge, cioè, su una zona rialzata formata proprio dai detriti che arrivano giù dal canalone a monte dell’albergo. Insomma al momento della ristrutturazione principale, avvenuta circa dieci anni fa, che ha ampliato le capacità ricettive e quindi il rischio intrinseco, c’erano tutti gli elementi, sia sul terreno, sia nelle carte, per accorgersi dei problemi». Che, dunque, erano noti da un pezzo».

Purtroppo, però, – fa ancora presente De Sanctis – «in questa circostanza risalta anche la gravissima omissione della Regione Abruzzo che ha elaborato una legge sulle valanghe 25 anni fa, la 47/1992, in cui si prevedeva l’inedificabilità per le aree a rischio potenziale di caduta e la chiusura invernale delle strutture in caso di pericolo. La mappa in 25 anni non è stata mai redatta».

Alcuni di questi aspetti saranno approfonditi dall’inchiesta della magistratura che ha aperto un fascicolo per omicidio plurimo e disastro colposo. Indagano il procuratore aggiunto di Pescara, Cristina Tedeschini, e il pubblico ministero Andrea Papalia. «Gli accertamenti – spiega Tedeschini – vertono sulle circostanze relative alle decisioni sull’apertura e lo stato di esercizio dell’hotel e sulla viabilità di accesso, la formazione e successiva caduta della valanga, l’allerta slavine lanciata da giorni. Siamo alle battute iniziali, non ci sono al momento scenari diversi da quelli che tutti possono immaginare».

Attenzione rivolta anche alle «comunicazioni telefoniche, via whatsapp e scritte» da e verso l’albergo. «Ci sono state interferenze – dichiara – inefficacia nei flussi comunicativi, ma al momento non tutto appare rilevante». Alla domanda sul ritardo con cui sarebbero stati attivati i soccorsi dopo l’allarme lanciato da Quintino Marcella, il magistrato risponde che «disfunzioni e magari ritardi da parte della sala operativa nel recepire l’importanza di una segnalazione sono un fatto registrato. Che questa incomprensione, sottovalutazione o ritardo possa aver avuto una qualunque conseguenza causale sulla efficacia dell’azione di soccorso, è da dimostrare. Al massimo sballa un’ora. Avete visto quanto tempo ci vuole per arrivare lì».

Nel mirino poi la mail, una sorta di sos, inviata dall’Hotel Rigopiano. E’ lo scorso 18 gennaio e, dopo il succedersi di forti scosse di terremoto e di intense nevicate, l’amministratore dell’Hotel Rigopiano, Bruno Di Tommaso, invia una mail al prefetto di Pescara, al presidente della Provincia, alla polizia provinciale e al sindaco di Farindola. «Vi comunichiamo – recita il messaggio – che a causa degli ultimi eventi la situazione è diventata preoccupante. In contrada Rigopiano ci sono circa 2 metri di neve e nella nostra struttura al momento 12 camere occupate (oltre al personale). Il gasolio per alimentare il gruppo elettrogeno dovrebbe bastare fino a domani, data in cui ci auguriamo che il fornitore possa effettuare la consegna. I telefoni invece sono fuori servizio. I clienti sono terrorizzati dalle scosse e hanno deciso di restare all’aperto.

Abbiamo cercato di fare il possibile per tranquillizzarli ma, non potendo ripartire a causa delle strade bloccate, sono disposti a trascorrere la notte in macchina. Con le pale e il nostro mezzo siamo riusciti a pulire il viale d’accesso, dal cancello fino alla Ss42. Consapevoli delle difficoltà generali, chiediamo di predisporre un intervento al riguardo. Certi della vostra comprensione, restiamo in attesa di un cenno di riscontro». Appello ignorato da tutti.

La Municipalità Venezia, Italia Nostra, le associazioni veneziane non si riconoscono con l'operato del sindaco Brugnaro sulla gestione della città e della sua Laguna. La Nuova Venezia, Italia Nostra Venezia, Gruppo 25 Aprile, 23 gennaio 2017 (m.p.r.)


Italia Nostra Venezia

LA MUNICIPALITÀ ALL'UNESCO:
I VENEZIANI PATISCONO MA NON SONO ASCOLTATI
Venezia: lo striscione mostrato all’Ateneo Veneto sabato 21 gennaio è già arrivato a Parigi davanti alla sede dell’Unesco). Dopo la lettera di Italia Nostra Venezia (inviata giorni fa alla direttrice dell’Unesco Irina Bokova e ai direttori delle commissioni incaricate di studiare la questione Venezia), ora anche la Municipalità di Venezia Murano Burano si rivolge ai vertici Unesco per annunciare i provvedimenti invocati dai rappresentanti dei cittadini residenti nella Venezia insulare, in probabile contrasto con quanto sindaco e governo nazionale andranno a presentare a Parigi (l’incontro è previsto per domani 24 gennaio).
Ricordiamo che la commissione Unesco per i siti Patrimonio dell’Umanità aveva riscontrato (su sollecitazione di Italia Nostra) gravi problemi nella gestione del sito “Venezia e la sua Laguna” e aveva concesso a Comune e Governo fino al 1 febbraio 2017 per presentare un piano per rimediare. La lettera della Municipalità ha un altissimo valore giuridico perché quell’istituzione rappresenta, come si dichiara nel testo, un corpo di cittadini regolarmente eletto (e non una semplice associazione come la nostra, per quanto prestigiosa). Implicito è il fatto che il volere dei cittadini veneziani è stato sopraffatto da quello dei residenti nella terraferma comunale, molto più numerosi.
Molto istruttiva la lista di provvedimenti invocati dalla Municipalità e ben sintetizzati nell’articolo della Nuova Venezia che proponiamo qui sotto. Di nostro aggiungiamo che l’idea di scrivere all’Unesco si è formata probabilmente nel corso della riunione sul “Futuro di Venezia” organizzata pochi giorni or sono dal gruppo 25 Aprile, alla quale aveva partecipato il presidente della Municipalità Andrea Martini assieme a rappresentanti dei sestieri e di tante associazioni, inclusa naturalmente Italia Nostra che aveva molto insistito sull’importanza del procedimento in corso a Parigi. Aggiungiamo ancora che stiamo in queste ore traducendo per i nostri lettori la lista delle criticità riscontrate dalla Commissione Unesco e delle relative richieste contenute in quello che è ormai noto come “l’Ultimatum del 1 febbraio” e che inseriremo la lista in italiano su questo sito appena sarà pronta.



La Nuova Venezia
«STOP AI TROPPI TURISTI
E AI CAMBI D'USO»
di Alberto Vitucci

»Il presidente della Municipalità Andrea Martini scrive alla direttrice Irina Bokova. «Dal Comune non ci hanno mai risposto»
«Stop allo scavo di nuovi canali in laguna, un tetto alla presenza dei turisti in città - non più di 50 mila persone al giorno - blocco dei cambi d'uso da residenza ricettivo e all'apertura di negozi non tradizionali, incentivi per chi affitta ai residenti». Sono alcuni dei punti definiti «improcrastinabili», dalla Municipalità, «perché sia davvero invertita la tendenza allo spopolamento e alla totale trasformazione della città antica in un parco a tema». Priorità assolute da attuare per dimostrare che il governo della città ha cambiato rotta.

Lo scrive il presidente della Municipalità di Venezia Andrea Martini, in una lettera aperta inviata ieri al direttore dell'Unesco Europa Irina Bokova. Alla vigilia del vertice con il sindaco Brugnaro a Parigi, la Municipalità ricorda i tanti problemi aperti e le «mancate risposte» ricevute dall'amministrazione. «Le scrivo come presidente democraticamente eletto della Municipalità di Venezia, Murano, Burano», attacca Martini, «organismo che rappresenta 63 mila cittadini veneziani. Sono proprio quelli maggiormente colpiti dalle criticità che il rapporto dell'Unesco ha con chiarezza descritto, richiamando su di esse l'attenzione mondiale. Criticità che i veneziani patiscono e che richiedono decisioni improcrastinabili». «Abbiamo indicato quali dovrebbero essere le scelte da fare subito per fermare il degrado di Venezia e della sua laguna», continua, «per regolamentare i flussi turistici, rilanciare la salvaguardia e difendere la residenzialità. Abbiamo inviato all'amministrazione documenti precisi non ricevendo purtroppo alcuna risposta».
Il primo, spiega il presidente, è stato approvato l'8 ottobre scorso. Il Consiglio «dichiara la propria totale e ferma contrarietà a qualsiasi progetto di escavo di nuovi canali», e prevede di «mantenere alla Marittima di Venezia solo attività compatibili e ricorrere all’esterno per ospitare navi over 40.000 tonnellate di stazza». Il secondo, dell'11 gennaio 2017, si occupa proprio del contenimento della pressione turistica. Prevede la prenotazione obbligatoria per i gruppi, limite complessivo, tra pernottanti ed escursionisti di 50.000 turisti al giorno, di non ampliare l’offerta di posti letto, di limitare le locazioni di appartamenti a turisti, di introdurre incentivi per chi affitta ai residenti. La Municipalità, scrive ancora il suo presidente, «ha organizzato incontri per la regolamentazione del traffico acqueo, la riduzione del moto ondoso, l’inquinamento. Ha espresso parere contrario alle deliberazioni dell’Amministrazione Comunale in merito alle alienazioni degli immobili del Comune, ai cambi di destinazione d’uso da residenziale a turistico, all’autorizzazione all’edificazione di nuovi alberghi, alla cancellazione del Parco della Laguna Nord».
«Aggiungo il mio vivo auspicio», conclude Martini, «che la clamorosa iniziativa prospettata dal prestigioso organismo da Lei diretto ottenga i positivi effetti sperati per la nostra città». Intervento pesante, di critica alle posizioni dell’amministrazione e di sollecito ad attuare «provvedimenti drastici». Si aggiunge a quello inviato dalla sezione veneziana di Italia Nostra all’Unesco. Anche qui si richiamano le emergenze e si denunciavano i mancati interventi negli anni assunti dall’amministrazione comunale».

Gruppo 25 Aprile on line
PARIS, BONJOUR! LETTERA E FLASHMOB ALL'UNESCO

Lo striscione da 4 metri lo conoscete: è quello che adornava il tavolo degli oratori venerdì, all’incontro conclusivo di #Veneziamiofuturo. Si è fatto un migliaio di chilometri per arrivare fin qui, al quartier generale dell’UNESCO che domani si appresta a ricevere la visita del Sindaco di Venezia:

I nostri pesciolini da Parigi salutano la mamma Anna Ferrigno ma non sono l’unica sorpresa: l’UNESCO oggi riceverà anche la lettera che qui trascriviamo, in cui viene denunciato il rischio di una violazione della Convenzione di Aarhus se veramente il “pacchetto di misure” annunciato alla stampa verrà presentato dal Sindaco senza alcuna forma di pubblica consultazione, che la Convenzione ratificata con Legge dello Stato nel 2001 ha reso obbligatoria anche in Italia.

Se invece il Sindaco ci va a mani vuote o per “sondare il terreno” vuol dire che il suo viaggio a Parigi potrà essere interpretato come una simpatica visita di cortesia che potrebbe anche avere un senso sempre che non si porti venti persone al seguito, dato che a pagarne il viaggio saremmo noi.

In entrambi i casi, la richiesta dei cittadini è semplice: essere informati sulle misure concrete che il Sindaco intende presentare all’UNESCO, dato che nemmeno il Consiglio comunale riunitosi il 19 gennaio lo è stato e per le “uova pasquali con sorpresina” è ancora presto, siamo solo a gennaio.

Diversamente dalle sue, le nostre proposte sono in rete dal 10 gennaio e sono il frutto di una consultazione pubblica; nella stesura definitiva distribuita all’Ateneo Veneto verranno pertanto depositate oggi all’UNESCO insieme con questa lettera:


Gruppo 25 aprile

Veneziamiofuturo

LE PROPOSTE
DEI SESTIERI DI VENEZIA
Ateneo Veneto 20 gennaio 2017
Premessa di metodo. Questo documento di sintesi riassume le proposte e le richieste raccolte negli incontri con i sestieri. Non ha natura esaustiva e non rappresenta la posizione di una singola associazione perché il nostro obiettivo è dare voce alle istanze del territorio (i sestieri) con riferimento ai problemi più sentiti nella “città d’acqua”. In questo senso è anche un “quaderno delle lamentele”, dove per ogni “lamentela” abbiamo elaborato una possibile risposta. Le proposte rispondono ai criteri che avevamo indicato all’inizio del ciclo di incontri: non chiediamo la luna, non vogliamo creare illusioni o fare demagogia; quelle di cui ci facciamo portatori sono richieste concrete, attuabili e realistiche. Ai rappresentanti eletti nelle Istituzioni chiediamo che ognuno faccia la sua parte e la faccia subito, perché Venezia si sente “assediata” e la situazione non ammette ritardi ulteriori.
Il dibattito all’Ateneo Veneto permetterà di discutere alcune proposte “prioritarie” e di affinarne altre, collocandole in una visione “di insieme” su ciò che è necessario e urgente per dare un futuro a Venezia: non parliamo del lungo periodo ma delle cose che andrebbero fatte subito, prima che sia troppo tardi; il resto è materia per un “programma di governo” di chi vorrà candidarsi alle prossime elezioni. Questa bozza preliminare è stata pubblicata per 10 giorni sulla nostra pagina facebook e sul nostro sito Internet per raccogliere i commenti e suggerimenti di chi ha partecipato agli incontri (sono oltre 500 persone) e anche di chi non lo ha fatto.
Il ciclo di incontri nei sestieri, compreso quello conclusivo all’Ateneo Veneto, è stato interamente auto-finanziato dai cittadini senza alcun appoggio di partiti o sindacati, aziende o cooperative, enti pubblici o Fondazioni. Non abbiamo etichette e non ne vogliamo, il nostro è soltanto un movimento di opinione che alle “ricette” calate dall’alto (spesso formulate da persone che non conoscono la città) ha preferito un approccio diverso: quello di proposte nate dal contatto quotidiano con il territorio, sestiere per sestiere.
A come Alloggi Alla Regione Veneto chiediamo: 1) la modifica urgente della legge regionale del 2013 che ha liberalizzato in modo selvaggio le locazioni turistiche; tale modifica potrà essere adottata in tempi brevi dato che si tratta soltanto di introdurre un’eccezione per i sestieri di Venezia, in omaggio alle esigenze specifiche di tutela del suo tessuto sociale, che è parte integrante della sua specialità, imponendo requisiti vincolanti anche in materia di scarico delle acque reflue, a tutela dell’igiene e dell’ambiente lagunare; 2) un intervento immediato sulla controllata ATER, il cui compito è “la costruzione ed il recupero di alloggi, da assegnare in locazione temporanea o permanente a canone calmierato” finalizzato all’assegnazione degli alloggi attualmente non utilizzati, eventualmente anche favorendo forme di auto-restauro a carico degli inquilini potenziali, e al completamento delle unità abitative i cui lavori sono stati avviati e non ancora ultimati.
B come Bricole Al Ministro delle Infrastrutture e Trasporti chiediamo: lo stanziamento dei fondi necessari per avviare un programma straordinario di manutenzione e sostituzione delle bricole, a completamento dei primi interventi avviati dal Provveditore interregionale per le Opere Pubbliche, sulla base della cartografia aggiornata realizzata su nostra richiesta nel maggio 2016.
C come Case e Cambi di destinazione d’uso Al Sindaco e al Consiglio comunale di Venezia chiediamo: di bloccare immediatamente e per un paio d’anni almeno i cambi di destinazione d’uso da residenziale a turistico-ricettivo o alberghiero nei sestieri, facoltà che è già riconosciuta dal PAT (Piano di Assetto Territoriale) in vigore dal 2014 a tutela della residenzialità, che è precipitata ai minimi storici e in alcuni sestieri rischia di estinguersi in assenza di una terapia d’urto immediata. Questo provvedimento, di natura emergenziale e provvisoria, andrà accompagnato da misure “strutturali” e permanenti volte a incentivare le locazioni di lungo periodo rispetto a quelle di natura speculativa (vedasi anche lettera R come rifiuti, alla voce TARI, per l’utilizzo della leva fiscale a fini perequativi): quello che va costruito è un insieme di misure tali da costituire un patto comunale con i proprietari “virtuosi”.
D come Dignità Al Sindaco di Venezia e alla Giunta comunale chiediamo: di riconoscere e agevolare nei fatti il diritto di ogni persona a condurre un’esistenza dignitosa e decorosa. Il rispetto per gli anziani e i disabili non può limitarsi a qualche posto “riservato” a bordo dei vaporetti ma deve concretizzarsi in forme di sostegno mirate a sostenere la qualità della vita di queste fasce di cittadinanza. In questi settori il Comune di Venezia vanta una consolidata tradizione che è necessario preservare o ripristinare contro i tagli effettuati, anche incoraggiando le numerose forme di volontariato presenti sul territorio che spesso operano senza alcun contributo pubblico.
E come Educazione Nautica Alle scuole cittadine proponiamo: un progetto di educazione nautica, al quale siamo pronti a fornire il nostro contributo con docenti volontari ed esperti a titolo gratuito, in considerazione dei sempre più frequenti incidenti (a volte mortali) che in parte sono dovuti ad inesperienza e/o mancata conoscenza delle regole di base, dato che la normativa in vigore consente la navigazione senza patente per le imbarcazioni con motori di potenza non superiore ai 40 cavalli (che con semplici ritocchi alla portata di tutti salgono in realtà a 60).
F come Flussi turistici Al Sindaco di Venezia, al Consiglio e alla Giunta comunale chiediamo: di avviare al più presto un programma di gestione dei flussi turistici che permetta di alleggerire e diversificare (nel tempo e nello spazio) una pressione divenuta insostenibile e incompatibile con la possibilità stessa di offrire un’accoglienza degna della reputazione della Città; fra le proposte attualmente sul tavolo, quella protocollata da Roberta Bartoloni che è stata illustrata nell’incontro di Castello presenta caratteristiche di gradualità, flessibilità, fattibilità in tempi brevi, non discriminazione e contenimento dei costi che abbiamo particolarmente apprezzato – senza escluderne altre che potranno essere confrontate con questa al fine di prendere il meglio di ognuna.
G come Gestione dei beni comuni Al Sindaco e al Consiglio comunale di Venezia chiediamo: di dare un segno tangibile di discontinuità rispetto alla politica di alienazione di beni pubblici avviata dalle amministrazioni precedenti, che nella situazione attuale di bilancio (con l’allentamento dei vincoli del patto di stabilità) risulta incomprensibile oltre che miope, e in alcuni casi si è tradotta in un gettito assolutamente irrisorio rispetto alla perdita definitiva per la collettività, come è stato per la casa del custode dei Giardini Papadopoli.
H come Hotels Basta alberghi nei sestieri! V. alla lettera C come “Case”.
I come Illuminazione Alla giunta e agli uffici comunali competenti chiediamo: illuminazione notturna e installazione di telecamere di sorveglianza in ruga degli Oresei, che di recente ha conosciuto episodi di barbara violenza ai danni di una esercente.
L come Lavoro Considerato che l’industria del turismo a Venezia è ormai quella che impiega il maggior numero di occupati, spesso precari e mal pagati rispetto al costo della vita [1] con la duplice conseguenza del pendolarismo dalla terraferma (30.000 persone circa) e di un sempre maggior numero di giovani veneziani che scelgono la via dell’espatrio[2] Al Sindaco di Venezia e alla Giunta comunale chiediamo: di superare la fase attuale di sfruttamento dell’Arsenale come spazio per feste esclusive quando invece dovrebbe essere perno naturale e fulcro ideale per la creazione di posti di lavoro qualificati, che non siano legati soltanto alla monocultura turistica; questo potrà avvenire progettando una cittadella della ricerca finalizzata agli studi marittimi in grado di ospitare istituzioni di ricerca italiane e straniere e offrendo spazi ad imprese compatibili con il complesso e impegnate nel settore marittimo (cantieristica, lavori marittimi…), dell’artigianato tradizionale (imprese fabbrili, falegnamerie…) e del restauro, all’interno di una cornice culturale unica al mondo. Per rispettare la promessa di “restituzione alla città” a suo tempo fatta, chiediamo inoltre l’apertura dell’Arsenale alla cittadinanza abbattendo le barriere attuali per permettere un percorso di visita unico (anche negli spazi occupati dalla Biennale) che potrebbe anche generare reddito con visite guidate a pagamento per piccoli gruppi. [1] Dato Unioncamere: il 77% dei posti di lavoro creati nella città metropolitana di Venezia nel 2016 erano precari. Più della metà delle offerte di lavoro (4.350 su 8.000 circa) riguardava le attività ricettive e della ristorazione. Al secondo posto (3.600 circa) le posizioni “non qualificate” nel commercio e nei servizi. Fonte: Nuova Venezia 8 novembre 2016. [2] Veneziani stabilmente residenti all’estero nel dicembre 2016 (fonte: liste elettorali referendum costituzionale): 12.296, numero superiore alla somma dei residenti nei sestieri di San Marco e San Polo!
M come Museo Correr Alla Fondazione Musei Civici di Venezia ricordiamo che: il Museo Correr, fondamentale Istituzione nella vita culturale della Città, deve questo nome al suo fondatore, Teodoro Correr: un nobiluomo veneziano che negli anni seguenti alla caduta della Repubblica era riuscito a raccogliere un’enorme quantità di opere artistiche e cimeli veneziani delle più svariate epoche, salvandoli dalla dispersione e costituendo il primo nucleo del Museo. Grazie a ulteriori importanti donazioni e acquisti, come quello effettuato dal Comune di Venezia a fine ‘800 dei cimeli del Doge Francesco Morosini, il Museo Correr andò sempre più ampliandosi e divenne un importante punto di riferimento per studiosi e cittadini. Nel 1922 le Raccolte vennero trasferite in Piazza San Marco, in una nuova sede che si estendeva tra l’Ala Napoleonica e parte delle Procuratie Nuove. Assieme al Palazzo Ducale costituisce (o dovrebbe costituire) il fulcro espositivo di opere d’arte e collezioni storiche che ricordano la storia e la cultura della Serenissima. Purtroppo gli interventi radicali degli ultimi anni dimostrano come restauri e ripristini, anche corretti dal punto di vista formale, possono in realtà alterare gli scopi e le caratteristiche originarie di una Istituzione. La cittadinanza ha la sensazione che si sia persa di vista la valorizzazione degli aspetti più originali e fondamentali della storia e della civiltà di Venezia a favore di altri nel complesso storicamente più marginali. Alla Fondazione Musei Civici di Venezia chiediamo dunque di ritornare allo spirito e alla ratio che stanno alla base della nascita delle collezioni del Museo Correr, ricordando altresì che il recupero di dignità e di coscienza della città passa non solo da una maggiore attenzione alla sua storia e alla sua civiltà ma anche da un uso che non sia soltanto turistico e commerciale dei suoi monumenti simbolo, e sottolineando come il turismo di qualità che si dice di voler coltivare è in realtà interessato a conoscere la storia e le caratteristiche specifiche di una Repubblica marinara unica al mondo più che a ritrovare anche qui il tipo di cose che potrebbe trovare in qualsiasi altro museo.
N come Negozi di vicinato e botteghe artigianali Al Sindaco e al Consiglio comunale di Venezia chiediamo: l’Adozione di un Regolamento comunale che, come già fatto dal Comune di Firenze, fissi un limite al proliferare di attività commerciali incompatibili con la tutela del patrimonio monumentale e immateriale (artigianato locale), avvalendosi delle disposizioni di legge recentemente adottate a livello nazionale[1] con l’obiettivo di privilegiare negozi di vicinato e attività artigianali; per tali attività chiediamo inoltre di attivare forme di agevolazione fiscale e incentivi compatibili con la norma “de minimis” (entro la soglia dei 200.000 euro pro capite, che permette di evitare l’obbligo di notifica alla Commissione europea). [1] Decreto legislativo n° 222 del 25 novembre 2016
O come Ospedale Una proposta innovativa e promettente che abbiamo ricevuto è quella di collegare il nostro ospedale all’Università di Padova e portare a Venezia gli specializzandi e i dottorandi. Sviluppando questo gemellaggio con la Università di Padova, Venezia potrebbe diventare sede di ricerche mediche avanzate allestendo, negli enormi e liberi spazi del convento dei domenicani (Ospedale Civile ), un centro di studi sanitari di eccellenza a livello mondiale come (in altro ambito) è stato fatto a Trieste con la SISSA. In questo modo si utilizzeranno al meglio gli spazi dell’ormai quasi vuoto convento di San Domenico evitando operazioni speculative di tipo turistico. In quei locali si potrà sviluppare la clinica e la ricerca, per cure innovative e di assoluta eccellenza. Questo farebbe del nostro Ospedale civile un polo di attrazione e rivitalizzerebbe tutta la zona circostante. Al Ministero della Salute chiediamo: il mantenimento del punto nascite dell’Ospedale civile di Venezia, in deroga alla soglia dei 500 parti all’anno, in considerazione dei tempi di percorrenza e delle modalità di trasporto tipiche della realtà lagunare, accogliendo in questo la richiesta già presentata dalla Regione.
P come Posti barca Al Sindaco di Venezia chiediamo: di sbloccare il bando per l’assegnazione dei posti barca vacanti nei sestieri e nelle isole, che gli uffici comunali hanno predisposto da più di un anno su indicazione dell’allora Commissario Zappalorto e che allo stato attuale risulta essere un obbligo disatteso dalla Giunta in carica, dato che il regolamento comunale applicabile ne prescrive la pubblicazione con cadenza biennale.
Q come Qualità dell’Aria Alla Regione Veneto chiediamo: un intervento immediato sull’Agenzia regionale per l’Ambiente (ARPAV) affinché venga finalmente installata una stazione di monitoraggio della qualità dell’aria nei sestieri, considerato che l’unica centralina presente in Laguna, è stata collocata a Sacca Fisola in tempi remoti quando le circostanze erano diverse da quelle attuali, non è rappresentativa dell’esposizione reale della popolazione residente a Venezia tanto che è classificata come “stazione di fondo” e pertanto non misura l’impatto delle fonti locali di inquinamento quali il traffico acqueo e marittimo. Un piano per l’adeguamento e la rottamazione dei motori marini più inquinanti, facendo uso dei fondi UE “strutturali” di competenza regionale o anche ai bandi di gara annuali quali ad esempio Life+.
R come Rifiuti Al Consiglio comunale di Venezia chiediamo: la rimodulazione delle imposte comunali come la TARI (tassa sui rifiuti) con tendenziale abbattimento allo zero per le prime case e aliquota ridotta per le utenze domestiche in generale; nel breve termine, revoca immediata degli aumenti deliberati dal Consiglio comunale per il 2016, da finanziarsi con l’aumento dell’aliquota applicata ad alberghi e altre attività ricettive di tipo turistico.
S come scuole (e asili) comunali Al Sindaco di Venezia e alla Giunta comunale chiediamo: un rinnovato sostegno allo sviluppo degli asili nido e delle scuole materne che rappresentano un servizio fondamentale per la cittadinanza e che hanno sempre costituito uno dei fiori all’occhiello del Comune di Venezia. Si tratta di attività strategiche che mirano a fornire un ottimo livello di educazione dei piccoli e costituiscono un prezioso supporto, specialmente per quelle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, a tariffe compatibili con i livelli stipendiali attuali. Appare pertanto logico chiedere che, anche per il futuro, il Comune si impegni a garantire livelli qualitativi adeguati e sicurezze ai bambini e alle loro famiglie, nonché ai lavoratori del settore.
T come Traffico Acqueo Al Sindaco e al Consiglio comunale di Venezia chiediamo: elaborazione e attuazione di un piano per il riassetto del traffico acqueo che ponga come obiettivi primari: la salvaguardia del patrimonio immobiliare pubblico e privato contro gli effetti del moto ondoso; il controllo dell’inquinamento atmosferico; il controllo dell’inquinamento acustico; la sicurezza della navigazione con precedenza al trasporto pubblico di linea, comprese le gondole da parada o traghetti; la razionalizzazione del trasporto merci che è attualmente caratterizzato da barche in ferro sproporzionate alle necessità e alle caratteristiche dei rii interni.
U come Ultima spiaggia in assenza di una terapia d’urto immediata sul duplice fronte casa-lavoro, la curva demografica nei sestieri è tale che i residenti “sopravvissuti” a Venezia sono condannati all’irrilevanza da una classe politica cinica e miope (per non dire di peggio) che ragiona soltanto con il pallottoliere del “quanti voti porta” questa o quella comunità locale, non solo a livello regionale (nessuno consigliere regionale, allo stato attuale) ma anche nel loro stesso Comune: dalla Giunta in carica i segnali già accumulati in questo senso sono troppo numerosi per poter essere ignorati. Alla Regione Veneto chiediamo: la convocazione del referendum di iniziativa popolare per il ripristino di due Comuni autonomi (Venezia e Mestre) su cui sono state raccolte 9.000 firme, in modo tale che la popolazione possa esprimersi nel merito della questione, dato che l’istituzione della Città Metropolitana di Venezia permette di affrontarla in modo completamente diverso rispetto al passato e considerato che il Sindaco attuale ha ritirato le deleghe alle Municipalità, facendo con questo venir meno anche l’ultima flebile parvenza di decentramento amministrativo. Considerata l’imminente convocazione del referendum regionale sull’autonomia, un abbinamento delle due consultazioni referendarie permetterebbe di superare l’obiezione relativa ai costi del referendum che riguarda l’assetto territoriale dell’attuale Comune di Venezia. Alle Autorità italiane chiediamo: Il riconoscimento di uno Statuto speciale per Venezia, che permetta alla Città di: I° trattenere una quota del gettito fiscale prodotto anziché elemosinare periodicamente quanto le è in realtà dovuto se si considera il residuo fiscale accumulato ogni anno (la differenza fra imposte riscosse sul suo territorio e la somma di trasferimenti e servizi ricevuti dallo Stato); II° decidere in autonomia quali sono le priorità di intervento sul suo territorio, senza essere sacrificati sull’altare del pallottoliere elettorale che non prende in conto il valore universale di Venezia, le sue caratteristiche uniche al mondo e il suo status di Patrimonio dell’Umanità.
V come Venezia all’aperto Fra le richieste che abbiamo raccolto nei sestieri ci sono anche: 1. Il ripristino del cinema all’aperto di campo San Polo. 2. Il raddoppio della frequenza del mercatino di Santa Marta, che è particolarmente apprezzato dai residenti. 3. Il ripristino dei mercatini delle cose vecchie e del collezionismo, denominati “Mercatini dei Miracoli”, eliminando il requisito del 50% di venditori professionisti che ne ha determinato la scomparsa. 4. La manutenzione e ripristino della funzionalità delle fontane pubbliche, e più in generale di tutti i manufatti di proprietà comunale sulla pubblica via (panchine, fontanelle e segnaletica), che a volte si trovano in condizioni di incomprensibile abbandono. 5. Le strutture disponibili per le attività sportive (voga a parte) sono scarse, manca ad esempio una struttura per avvicinare i ragazzi all’atletica. Al Comune chiediamo di garantire un’offerta completa di attività sportive partendo dal miglior utilizzo delle strutture esistenti.

Il presente documento è stato consegnato ai mass media e ai partecipanti all’incontro pubblico del 20 gennaio, per essere poi pubblicato sulla pagina facebook di “Venezia mio futuro” e sulla pagina internet www.gruppo25aprile.org.

«Firenze diventa ancor più diseguale; il suo patrimonio pubblico viene privatizzato e messo al servizio del piacere esclusivo di pochi super ricchi; La Pira si rivolta nella tomba». la Repubblica online, blog "articolo 9", 23 gennaio 2017 (c.m.c.)

Ci sono molti modi per amministrare una città, e i suoi edifici.

Qualche giorno fa l’urbanista Ilaria Agostini ha invitato la Giunta comunale di Firenze ad accogliere «nella città vecchia il popolo nuovo»: a dare, cioè, casa ai migranti nei grandi volumi vuoti e pubblici del centro storico. Agostini citava il luminoso precedente di Giorgio La Pira, che nel 1953 requisì molte case sfitte «considerato che gravissima è la carenza degli alloggi nel Comune di Firenze» (così la memorabile ordinanza che firmò).

Ora, Dario Nardella non è La Pira. La sua dimensione è più quella di: ‘votiamo il nome delle linee della tranvia scegliendo tra Michelangelo, Brunelleschi, Leonardo, Botticelli’… (e non è una battuta, purtroppo). La sua idea di Firenze punta sul rincoglionimento retorico dei cittadini, e sul lusso come unico asset strategico di sviluppo economico.

E dunque sapevamo che il grande complesso religioso di Costa San Giorgio non sarebbe stato restituito alla città, e men che meno a quelli che papa Francesco chiama gli ‘scartati’: ma che sarebbe divenuto, invece, un grande resort per milionari.

Oggi questo ‘progetto’ è stato presentato, con un linguaggio che merita un commento.

Alfredo e Diana Lowenstein, che hanno già trasformato Cafaggiolo in un altro resort, hanno detto che: «La scelta della Toscana è stata una scelta d’amore – perché la bellezza e la varietà del suo territorio, la straordinaria ricchezza del patrimonio artistico-culturale delle sue città ci hanno da sempre affascinato. Il colpo di fulmine è scattato 50 anni fa, quando abbiamo trascorso la nostra luna di miele proprio a Firenze, scelta per la nostra grande passione per la storia della famiglia dei Medici e del Rinascimento. Oggi facciamo un primo importante passo verso il nuovo destino di questa struttura, con lo sviluppo di un progetto di valorizzazione che, dopo tanti anni di abbandono, ridarà lustro e vita ad un patrimonio di inestimabile valore. Ci proponiamo di offrire al mercato dell’ospitalità una proposta assolutamente originale, di carattere esperienziale, capace di trasmettere le suggestioni di luoghi secolari che fanno parte della storia di questa città. Ci ripetiamo spesso infatti quello che è il nostro primo intento: non essere i proprietari del Complesso Immobiliare di Costa San Giorgio, esserne solo i custodi. Un bene mobile o immobile si può acquistare, si può vendere, ma un’eredità storica e culturale non si può mercanteggiare, si può solo custodire, preservare, conservare per i nostri figli e per i figli dei nostri figli».

C’è qualcosa di oltraggioso in questo storytelling che trasforma una gigantesca (e legittima, vista la variante urbanistica concessa da Nardella) speculazione immobiliare in un atto di amore. C’è qualcosa di insopportabile in questa idea che prendere un monumento e trasformarlo in un hotel esclusivo a mille stelle sia ‘valorizzazione’. C’è qualcosa di degradante nel marketing per cui la storia della città diventa un’esperienza spray, tra una spa e un drink. C’è molta ipocrisia in questa idea di mercanteggiare dicendo di non star mercanteggiando.

Capisco che in un momento in cui la ricchezza dell’1% più facoltoso degli italiani (in possesso oggi del 25% di ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte quella del 30% più povero, gli addetti alla comunicazione sconsiglino gli speculatori di parlare di lusso.

Ma la verità è esattamente questa: Firenze diventa ancor più diseguale; il suo patrimonio pubblico viene privatizzato e messo al servizio del piacere esclusivo di pochi super ricchi; La Pira si rivolta nella tomba.

Siamo sconfitti e umiliati, e questa non è più una città: almeno non pigliateci in giro.

«Emergenza Belpaese: Banche e F-35 . Quanti spalaneve potremmo comprare rinunciando all’acquisto di un solo F35 ?» il manifesto, 21 gennaio 2017 (c.m.c.)

Il Galileo di Bertolt Brecht rispondeva al suo allievo: «Sfortunata la terra che ha bisogno di eroi». Che si può anche tradurre come «beato quel paese che non ha bisogno di eroi»». E l’Italia certamente non è questo paese. Senza questi eroici vigili del fuoco, i volontari del Soccorso alpino e di altre organizzazioni la tragedia di questi giorni avrebbe avuto un bilancio ancora più pesante.

Non solo all’hotel Rigopiano, ma anche nei tanti borghi e frazioni rimaste isolate. È mai possibile che nell’era della rivoluzione dei mezzi di trasporto e comunicazione possono essere lasciate senza corrente elettrica 70-80mila persone secondo le stime approssimative che circolano? Certo, c’è stata una nevicata eccezionale, ma la verità è un’altra.

Anche quando abbiamo nevicate «normali» (come capita d’inverno!) c’è difficoltà a spalare le strade di montagna in molte località dell’Appenino, soprattutto nel Centro-Sud, a riparare i pali della corrente elettrica, in tante località dove i cavi della corrente passano su pali di legno vecchi e malfermi. L’ho sperimentato di persona in cinque anni di presidenza del Parco nazionale dell’Aspromonte: non c’è stato un solo inverno senza che paesini e frazioni non restassero senza corrente elettrica per qualche giorno o non fosse consentito l’accesso per la neve molto alta. Bisognava urlare, utilizzare le tv e le radio locali per costringere gli addetti ai lavori a compiere il proprio dovere.

In realtà, per chi conosce la pubblica amministrazione dall’interno sa che i servizi necessari di manutenzione sono un’eccezione e che solo nelle emergenze si attivano forze ed energie che vivono nel letargo.

Non riusciamo più a fare la manutenzione ordinaria, figuriamoci la straordinaria che oggi sarebbe necessaria per adeguarsi all’epocale mutamento climatico, allo squilibrio dell’ecosistema, per affrontare gli «« eventi estremi»» con cui, ci piaccia o no, dovremo convivere per molto tempo. Ma, non ci sono i soldi, si dice – nel momento dell’emergenza se ne stanzioni subito pochi e se ne promettono tantissimi -, per comprare tutti gli spalaneve che servirebbero, per rifare la vecchia rete elettrica che collega paesi e borghi delle nostre colline e montagne, per altro con un alto tasso di dispersione energetica.

Ma, se un cacciabombardiere F-35 che serve per distruggere e fare la guerra, costa come minimo dai 120 ai 150 milioni di euro (ne stiamo acquistando ben 90 per 15 miliardi di dollari) ed uno spalaneve nuovo fiammante costa 80mila euro, ci si domanda: quanti spalaneve potremmo comprare rinunciando all’acquisto di un solo F35 ? (Per chi indovina, ed invia per primo la risposta, regaliamo un abbonamento al manifesto).

Insomma, se viene l’estate abbiamo l’emergenza incendi, in autunno l’emergenza alluvioni, in inverno l’emergenza neve e in tutte le stagioni, secondo una temporalità imprevedibile, l’emergenza terremoti.

Così il Belpaese va giù un pezzo dopo l’altro, soprattutto l’Italia dei borghi antichi, delle aree interne di cui tutti parlano e scrivono, ma dove non succede assolutamente niente a livello di messa in sicurezza del territorio.

Ma, anche le città non se la passano tanto bene. Nella scorsa settimana sono state chiuse per il freddo (sic) più di mille scuole nelle città piccole, medi e grandi del Centro-Sud. Caldaie che si guastano e nessuno ripara, gasolio che finisce e non ci sono i soldi per comprarlo, o per riparare le finestre che si rompono o i vecchi impianti di riscaldamento. Eppure, con un tratto di penna in un baleno si sono trovati 20 miliardi di euro come salvagente per le banche. In questo caso la velocità è stata massima e non c’è stato nessun vincolo europeo o politica di austerity che conti. Con questa somma potremmo avviare un programma serio di attività di manutenzione ordinaria e straordinaria, di messa in sicurezza del nostro territorio e creare centinaia di migliaia di posti di lavoro veramente utili alla società ed all’ecosistema.

Rifare e rendere efficiente la rete elettrica nazionale, mettere in sicurezza antisismica scuole e ospedali, terrazzare le colline, canalizzare le acque e rinaturalizzare fiumi e torrenti, proprio come ribasce spesso, inascoltato, questo giornale. Potremmo far lavorare insieme italiani e immigrati, i nostri «naufraghi dello sviluppo» secondo la definizione di Latouche, cioè i profughi di un mercato del lavoro che li espelle e chi scappa dalla fame e dalle guerre.

Utopia? No, è vero il contrario. Spendere in armamenti una pesante fetta di finanziaria e ben 20 miliardi per tamponare il sistema bancario italiano quando sappiamo che hanno la pancia piena di crediti inesigibili (per 200 miliardi) e di titoli tossici è questa la distopia dell’ insostenibile cinismo del nostro governo. In fine dei conti per loro quella del Kapital è l’unica emergenza che conta.

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