«L’urbanista Oriol Ne-lo, tra i suoi autori, spiega a Venezia come fare. “Posti-letto bloccati a quota 160 mila per sempre e spostati via dal centro”». La Nuova Venezia, 21 marzo 2017 (m.p.r.)
Venezia. Mentre Venezia ancora si interroga sul problema del governo dei suoi flussi turistici, Barcellona - con un nuovo piano-pilota - ha già deciso di bloccarli. L’amministrazione catalana guidata dal sindaco Ada Colau - che aveva già dichiarato al suo insediamento che Barcellona «non avrebbe fatto la fine di Venezia» sul piano turistico, scatenando un piccolo caso internazionale - è però passata dalle parole ai fatti. Come spiega il professor Oriol Ne-lo, urbanista catalano che è tra gli esperti che hanno predisposto il piano appena provato che «cristallizzerà» le presenze turistiche di Barcellona al livello attuale, ma con un meccanismo dinamico, che sposterà progressivamente la ricettività dal centro storico alle altre zone della città.
«Il vivere urbano è cambiato. Ma resta luogo di pratiche autoritarie e inique dovute al controllo dei dati. Un saggio adesso ci dice: è ora di riprenderceli». lettera43, 19 marzo 2017 (c.m.c.)
Come si abita oggi una città? Per orientarci ricorriamo a Google Maps; per avere suggerimenti su dove mangiare consultiamo TripAdvisor o Yelp; per cercare un posto dove dormire, AirBnb o Hostels.com; e così via. Basta riflettere un istante per riconoscere l’elusività di una linea che separi lo spazio materiale e quello digitale. In apparenza queste applicazioni sembrano del tutto innocue, meri servizi; ma nascondono delle dinamiche di controllo con pesanti ricadute sulla città “in carne e ossa”. Per valutare correttamente questo lato oscuro dell’informazione urbana, però, occorre un atteggiamento diverso nei suoi confronti.
La lezione di Lefebvre.
Nel 1968 Henri Lefebvre pubblicò un testo seminale al riguardo, Il diritto alla città (oggi edito in Italia da Ombre Corte). Secondo il sociologo francese si trattava di rivendicare una maniera di abitare ispirata all’autogestione e alle comunità cresciute dal basso. Invece di demandare sempre il controllo degli spazi alle autorità – che molto spesso si limitano a cercare accordi con le élite economiche – occorre riappropriarsene in prima persona, di quartiere in quartiere. Ora, è fuori discussione che ci sia bisogno di politiche inclusive e un approccio più egualitario. Il crescere delle diseguaglianze, la segregazione delle zone periferiche e la progressiva riduzione di spazi pubblici a favore di enti privati conferma tutta l’attualità di queste tesi. Ma come abbiamo visto e come verifichiamo ogni giorno estraendo uno smartphone per strada, il nostro modo di vivere la città è cambiato a un livello più profondo. Il che suggerisce un aggiornamento dell’intuizione di Lefebvre.
I nuovi diritti digitali legati al vivere urbano.
È quanto propone un gruppo di ricercatori americani nel recentissimo pamphlet Our digital rights to the city (Meatspace Press), curato da Joe Shaw e Mark Graham. Il breve volume, scaricabile gratuitamente online, raccoglie una serie di contributi ispirati al rapporto fra potere delle tecnologie e forme dell’abitare metropolitano. Se Lefebvre difendeva il «diritto alla libertà, all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare, il diritto all’opera (all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione», questi studiosi ne aggiungono un altro ancora. Il diritto digitale, appunto: la possibilità di gestire i propri dati relativi al vivere urbano, invece di darli in pasto a Google & Co.; e ribadire la politicità di queste informazioni.
Il pregio principale del saggio è quello di affrontare questi temi con grande chiarezza e incisività. Un buon esempio è il paper di Valentina Carraro e Bart Wissink (The Jerusalems on the map). Secondo gli accordi di Oslo (1993), Gerusalemme è ancora sotto gestione internazionale e non appartiene né a Israele né a un futuro Stato palestinese. Ma se cercate “Gerusalemme” su Google, l’infobox a destra dice che è la «capitale di Israele»: consolidando la descrizione proposta da Wikipedia e ratificando così un potere non riconosciuto in teoria, ma esercitato nella pratica. Per Carraro e Wissink è una dimostrazione della politicità delle mappe, che vanno molto al di là di una rappresentazione neutra di come stanno le cose. A questo si può opporre un tipo alternativo di cartografia, certo. Il progetto collaborativo e open source OpenStreetMap fornisce un campo aperto di discussione, dove gli utenti possono ridefinire costantemente la mappa stessa. E tuttavia, anche OpenStreetMap risente delle diseguaglianze: il fatto che si possa discutere non significa che tutte le opinioni siano equamente considerate. Tant’è che la comunità di questo progetto è largamente a favore di Israele.
La logica del controllo colonizza la vita quotidiana.
Passando dalla geopolitica all’abitare, il saggio di Jathan Sadowski propone un interessante esperimento mentale. Il palazzo dove vive il sociologo ha installato un tornello elettronico a ogni ingresso: purtroppo la chiave non funziona bene e lui è rimasto più volte chiuso fuori casa. Questa pratica, secondo Sadowski, illustra la «logica del controllo che colonizza la vita quotidiana, riempiendola di posti di blocco che regolano l’accesso e rafforzano l’esclusione»: il problema è che ce ne accorgiamo solo quando questi sistemi si ritorcono contro di noi; quando le password smettono di funzionare.
Ci aspetta un futuro dispotico?
Pensate all’idea stessa di smart city: un luogo dove le infrastrutture sono connesse alla rete, e degli algoritmi su vasta scala lo rendono più efficiente in termini di mobilità e servizi. Tutto molto bello, ma sotto la narrazione pacificata e cool si nasconde altro: la raccolta di dati relativi ai cittadini esprime anche un forte bisogno di monitoraggio. A tal proposito, Sadowski propone due scenari per il futuro. Forse un domani sarà impossibile accedere in un negozio se non si hanno soldi sufficienti sulla carta di credito; o non potremo entrare in una certa zona se il nostro “punteggio di sicurezza” non è abbastanza alto e veniamo classificati come minacce. I fan di Black Mirror, la serie tivù di Charlie Brooker, avranno riconosciuto una variazione sul tema: e proprio come in Black Mirror, non si tratta di remota fantascienza. Ma di un’ipotesi molto realistica. Che fare, dunque?
Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti .
Una proposta è offerta da Mark Purcell nel suo contributo. Invece di limitarsi a una percezione liberale del diritto digitale alla città, è necessario considerarlo come parte di un progetto politico più vasto e di matrice antagonista. Non si tratta di allinearsi agli sforzi di Snowden o WikiLeaks, bensì dichiarare che l’informazione verrà organizzata autonomamente dagli abitanti.
Un esempio concreto sono gli attivisti che riscrivono dati e mappe nelle città indiane per garantire a tutti – anche agli strati della popolazione ignorati dallo Stato – un autentico accesso ai servizi. Oppure la comunità Lacan di Los Angeles, che documenta gli abusi polizieschi nei quartieri in modo da fornire prove per chi desidera fare ricorso. Come riassume Taylor Shelton, si tratta di gestire i dati in modo da «aiutare a produrre letture dei problemi urbani che non stigmatizzino ulteriormente i quartieri già emarginati, ma che invece ne situino i problemi all’interno di un più ampio contesto storico, geografico e politico-economico».
Ogni nostro dato può generare profitto.
Come sempre, la frattura è tra chi accumula potere e numeri e chi invece ne è deprivato, spesso in maniera silenziosa o surrettizia. Del resto, anche gli strumenti più banali ricordati in apertura – Maps, TripAdvisor, Yelp – non sono certo opera di benefattori per agevolare la vita quotidiana. Come sottolinea Kurt Iveson in Digital labourers of the city, unite!, queste applicazioni gratuite richiedono da parte nostra un lavoro altrettanto gratuito che viene sfruttato su base quotidiana. I nostri movimenti, i nostri like, le nostre ricerche: ogni singolo dato è assorbito per generare profitto.
In conclusione, il diritto digitale alla città si compone di tante diverse richieste: una migliore conoscenza delle rappresentazioni urbane; la libertà nel gestirle senza deleghe; un’eguaglianza che sia materiale e digitale allo stesso tempo; la possibilità di agire sul territorio al di là della governance istituzionale. Per chi vede gli spazi comuni della metropoli come una semplice serie di servizi – la rete di trasporti, le strade, le piazze – non è nulla di troppo importante. Ma per chi ritiene che l’abitare sia qualcosa d’altro e di più prezioso si tratta di un tema particolarmente urgente.
(Questo articolo è tratto dal nuovo numero di pagina99, '"quante tasse pagano in Italia Google & co", in edicola, in digitale e in abbonamento dall'18 al 24 marzo 20).
Anche il grande giurista raccoglie la crescente preoccupazione di quanti vedono i poteri dominati da un'idea deforme ed inumana dello "sviluppo" proseguire della folle dissipazione del patrimonio essenziale dell'umanità: la Terra. la Repubblica, 20 marzo 2017
Le generazioni future hanno fatto il loro ingresso nel dibattito pubblico. Ciò, perché la condizione dei viventi è oggi inedita. La Terra (intesa come ambiente fisico e sociale), per millenni, si è pacificamente considerata la base di perpetua riproducibilità nel tempo della vita degli esseri umani, quali che fossero le offese che i suoi figli potevano infliggerle. Oggi non è più così. Le odierne capacità distruttive, di gran lunga superiori alle capacità rigenerative delle risorse della natura fisica e dei legami sociali, fanno dubitare circa la sensatezza della formula di Thomas Jefferson al tempo della Rivoluzione americana: «La terra appartiene ai viventi». Era, in origine, una formula polemica verso un passato opprimente, che esprimeva l’ansia di liberazione da un peso, per permettere l’espansione della creatività della generazione attuale.
Oggi, quella formula significherebbe cecità di fronte alle esigenze di futuro. Un tempo ci si poteva concedere il lusso d’essere ciechi; non più oggi. Le capacità di consumo e di distruzione delle risorse vitali, associate all’egoismo dei viventi protetto dall’ideologia dei diritti appropriativi e distruttivi di risorse comuni, sono tali da minacciare la riproduzione della vita. (...) Il discorso sui «diritti delle generazioni future» è un tentativo, se non di colmare la distanza, almeno di tematizzare la minaccia incombente su un pianeta le cui forze vitali, lo stock energetico e le sue capacità di rinnovamento sono in declino, insidia
te da un consumo quantitativo e qualitativo crescente. È stato detto che per millenni la Terra si è presa cura dei suoi figli, fornendo loro in abbondanza ciò di cui necessitavano; oggi — segno di senescenza del nostro habitat — sono i figli a doversi prendere cura della loro madre-Terra.
Le buone intenzioni si scontrano e soccombono di fronte agli interessi immediati. Le «generazioni future» chiedono moderazione nell’uso delle risorse alla generazione presente e dunque propongono un conflitto tra ciò che esiste e ciò che non esiste, appartenendo esse, per l’appunto, al mondo che deve ancora venire e nemmeno è certo che verrà. Così, gli inquinamenti, la produzione di anidride carbonica e di sostanze chimiche letali, la distruzione delle risorse ambientali ed energetiche, la tecnologia non solo di vita ma anche di morte, i mezzi di riduzione dell’autonomia personale procedono senza sosta per la forza della realtà, malgrado gli allarmi sempre crescenti e per lo più impotenti. Ciò fa temere che vi sia un’incoercibile forza interna al sistema di relazioni economiche e sociali entro il quale viviamo, una forza a sua volta nemica dei nostri figli e dei figli dei nostri figli.
Le questioni così sollevate interpellano la nostra stessa visione costituzionale della vita. Il costituzionalismo può ignorarle? Se il suo nucleo minimo essenziale e la sua ragion d’essere sono la protezione del diritto di tutti all’uguale rispetto, la risposta, risolutamente, è no, non può ignorarle. Fino alle soglie del tempo nostro non c’era ragione di affrontarle. Ogni generazione compariva sulla scena della storia in un ambiente naturale e umano che, se pure non era stato migliorato dai padri, certamente non ne era peggiorato fino a comprometterlo. Il costituzionalismo non ha avuto, fino agli anni recenti, ragioni per preoccuparsi delle prevaricazioni intergenerazionali. Ma, molti motivi ne ha oggi, e drammatici.
Per quale ragione la cerchia de «i tutti» che hanno il diritto all’uguale rispetto dovrebbe essere limitata ai viventi e non comprendere anche i nascituri? Basta porre la domanda per rispondere che non c’è alcuna ragione: gli uomini di oggi e di domani hanno lo stesso diritto all’uguale rispetto, perché uguale è la loro dignità, quale che sia il loro momento. Al tempo nostro, le parole di Thomas Jefferson dovrebbero essere sostituite con «la Terra appartiene ai già viventi, tanto quanto appartiene ai non ancora viventi». «La Terra appartiene ai viventi», invece, spezza ogni legame di debito e credito tra ogni generazione e autorizza ciascuna di esse a sfruttare «la Terra» fino in fondo. Oggi sappiamo che, se fosse davvero così, correremmo il rischio di non poter parlare di «ogni generazione». In tal modo, il discorso sulle generazioni future ristabilisce il legame di debiti e crediti che per secoli si teorizzava esistere tra viventi e non viventi, cambiando però direzione: per secoli, i figli sono stati considerati debitori nei confronti dei padri; oggi, i padri si devono sentire debitori nei confronti dei figli.
I diritti di credito dei figli nei confronti dei padri possono essere considerati il risvolto al futuro di quello che Hans Jonas, in un testo fondativo di questa tematica, Il principio responsabilità, ha considerato essere la pretesa, fondamentale quanto altra mai, dei nostri successori di trovare un mondo in condizioni almeno non peggiori di quelle che noi stessi abbiamo trovato. È sua la formulazione del cosiddetto «imperativo ecologico»: «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura di un’autentica vita umana sulla terra».
Tuttavia, a onta delle difficoltà, chi oserebbe proclamare un assioma contrario, cioè che qualcuno abbia, o che tutti insieme abbiamo il diritto di distruggere il mondo o di preparare per i nostri posteri una condizione di vita disumana in vista dell’egoismo della generazione alla quale apparteniamo o, ancor peggio, in vista dell’egoismo dei potenti che godono della loro potenza nella generazione alla quale appartengono?
Sarebbe, questa, una massima generalizzabile? Non c’è alcuna ragione per restringere alla sola contemporaneità il criterio morale di giustizia di cui parla la massima kantiana.
Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Gustavo Zagrebelsky, Diritti per forza ( Einaudi, pagg. 144, euro 12). Il volume sarà in libreria da domani
Benedetto Vecchi intervista Saskia Sassen. Nella sua analisi la sociologa sottolinea le nuove rapaci iniziative di sfruttamento messe in atto dal capitalismo della globalizzazione, soprattutto nel dominio della finanza. il manifesto, 18 marzo 2017, con riferimenti
L’esclusione di parti rilevanti della popolazione mondiale dalla vita attiva è la triste realtà del presente e degli anni a venire. È la tesi di Saskia Sassen, sociologa della globalizzazione e delle città globali, distillata nei suoi ultimi due libri – Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori) e Espulsioni (Il Mulino) -. E se il primo offre una riflessione sul rapporto dinamico tra globale e locale, il secondo analizza le caratteristiche del capitalismo estrattivo, categoria o figura delle tendenze emergenti dell’economia mondiale, dove l’espulsione di popolazioni dai luoghi dove hanno sempre vissuto e il land-grabbing sono elementi di una pratica diffusa di appropriazione privata di ricchezze naturali, conoscenza.
L’espropriazioni di regioni africane, asiatiche e anche europee per darle alle imprese multinazionali dell’agro-alimentare, il saccheggio delle risorse naturali sono elementi ricorrenti nelle cronache del capitalismo estrattivo. Qui è la finanza il protagonista di una espropriazione di ricchezza che non ha antecedenti nella storia. Una analisi, quella di Saskia Sassen, che delinea un futuro dove la tendenza all’espulsione della popolazione ha il contorno di una apocalisse sociale.
La lettura dei saggi usciti recentemente vedono invece Saskia Sassen impegnata nel contrastare una lettura riduzionista della globalizzazione – una parentesi destinata a chiudersi – per affinare la critica appunto del capitalismo estrattivo che non ama l’isolazionismo e contrasta il nazionalismo economico. Intervistarla è un’avventura che alterna incontri vis-à-vis (a Roma durante un suo passaggio) e numerosi scambi di mail per registrare precisazioni al fine di sgomberare il campo da possibili equivoci.
Uno dei refrain dei media recita che la globalizzazione è arrivata al capolinea con il ritorno al centro della scena dello stato nazione. Come interpreta questa fase dell’economia globale?
«Siamo nel pieno di un sommovimento globale, dovuto alla crisi economica e al rafforzamento del capitalismo che qualifico come estrattivo che sta plasmando una nuova geografia del potere mondiale. In questa nuova geografia del potere si sono formate zone intermedie tra globale e locale che hanno costituito lo spazio dove globale e locale hanno perso l’opacità che li contraddistingueva per diventare momenti distinti ma interdipendenti l’uno con l’altro. Sono «spazi di frontiera» che non hanno nulla a che fare con la geografia, ma sono i luoghi, le dinamiche che portano a prendere decisioni che travolgono l’operato tanto delle istituzioni sovranazionali che di quelle nazionali e locali.
«Nel tempo, sono saltate le vecchie divisione tra Nord e Sud del pianeta, tra Est e Ovest, tra paesi centrali e paesi periferici del capitalismo. Sia ben chiaro non sono scomparse, bensì saltate nel senso che non sono più centrali. Non è quindi rilevante stabilire se ritorna o no lo stato-nazionale, che ha già subito trasformazioni negli assetti costituzionali, negli equilibri tra potere giudiziario, legislativo, esecutivo per essere in linea con le necessità dell’economia mondiale. Ha ceduto cioè parte della propria sovranità su un determinato territorio.
«Nell’esercizio della governance mondiale sono semmai centrali gli "spazi di frontiera" ai quali ho fatto riferimento. Piegano ai loro voleri la sovranità nazionale e le regole definite internazionalmente per quanto riguarda i flussi finanziari, i diritti umani, la tutela ambientale. Contribuiscono inoltre a plasmare una nuova e tuttavia mutevole divisione internazionale del lavoro».
Donald Trump ha vinto le elezioni facendo leva sul patriottismo. Indica la Cina e l’Europa come ostacoli dell’economia statunitense. Ha promesso di far tornare in patria il lavoro decentrato al di fori degli Stati Uniti dalle imprese americane. Possiamo considerare Trump un presidente che vuole la deglobalizzazione? O più realisticamente come il presidente del declino degli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale?
«Per il momento, non posso dire se Donald Trump sarà il presidente del declino americano. È presto per dirlo. So però che ha preso decisioni pericolose dal punto di vita del loro contenuto razzista. Non ho mai immaginato che questo potesse accadere, ma invece è accaduto. Negli Usa viviamo una situazione di smarrimento, incredulità che forse anche voi in Italia avete avuto con Berlusconi: soltanto che quel che ha fatto il leader di Forza Italia è un gioco da ragazzi rispetto a quanto promette di fare Trump.
«Le sue posizioni non sono amate dalle élite liberali. È cosa nota, ma non possiamo però ignorare il fatto nel recente passato i liberal non si sono opposti efficacemente alla crescita della povertà e che non hanno fatto molto per affermare politiche a sostegno della classe operaia e del ceto medio: tutti elementi che Trump dice invece di voler fare».
Nel libro Espulsioni, il capitalismo estrattivo si caratterizza per depredare le ricchezze di una nazione e poi abbandonare il paese. Questo potrebbe andare bene per quanto riguarda alcune risorse naturali – il petrolio e altre risorse naturali. Il discorso diventa più complicato per quanto riguarda il land-grapping, la biodiversità, la proprietà intellettuale. Ma se ci si sofferma sui Big data, la tesi del capitalismo estrattivo come brutale pratica predatoria diventa problematica. Facebook, Google, Amazon non abbandonano mai il campo perché i dati sono prodotti dall’attività on line di uomini e donne….
«Il land-grapping, la biodiversità, la proprietà intellettuale, le piattaforme digitali possono certo essere considerati esempi di capitalismo estrattivo, ma è la finanza il modello emergente di capitalismo estrattivo sia rappresentato dalla finanza.
«Le attività bancarie offrono servizi, ma sopratutto prestano danaro e per questo si fanno pagare degli interessi. Fin qui tutto normale. Diverso è invece il caso dei nuovi servizi finanziari finalizzati ad estrarre valore da ogni attività economica, sia che riguarda la produzione, la distribuzione che la vendita di merci e servizi.
«Il cuore dello stile economico occidentale ha visto uno spostamento da un paradigma dove erano centrali la produzione e il consumo di massa a una realtà dove la capacità di spesa dei singoli o delle famiglie è oggetto di attenzione da parte delle imprese finanziarie, che puntano a sfruttare proprio questa capacità di spesa per produrre redditi e profitti. In anni recenti si è molto scritto e letto della privatizzazione dei servizi sociali, del credito al consumo. Bene, la finanza estrae valore dal consumo, dall’accesso monetario all’acquisto di servizi sociali, ma anche dal finanziamento delle imprese, dalla borsa, dal debito pubblico degli stati. Le imprese finanziarie hanno sviluppato sofisticati strumenti per ognuno di questi aspetti e quando la vena del valore si sta esaurendo, lasciano il campo, indifferenti alla povertà, all’implosione del legame sociale, financo al fallimento degli stati nazionali. E’ un cambiamento radicale rispetto il passato».
Questa rapacità della finanza ha caratteristiche nichiliste, non crede?
«Mi interessa sottolineare il cambiamento di prospettiva. Il consumo è stato sempre parte integrante del capitalismo, ma siamo di fronte a una radicalizzazione del suo ruolo. Lo stesso vale per la finanziarizzazione del welfare state, che in passato era prerogativa dello Stato nazionale. Ora sono i singoli e le famiglie che devono comprarsi, indebitandosi con le imprese finanziarie. Gli stati nazionali hanno visto tuttavia crescere il loro deficit e per evitare il collasso e il fallimento hanno fatto ricorso alle imprese finanzarie. Questo significa che gran parte dell’entrate fiscali vanno a pagare gli interessi sul debito. Siamo cioè di fronte a una forma estrema di capitalismo estrattivo.
«Gli strumenti sviluppati, il software usato, i dispositivi messi in campo riguardano infatti tutte le forme di capitale. Questa è la dinamica che sta cambiando la globalizzazione degli ultimi venti anni. Non credo quindi che stiamo entrando in una fase di deglobalizzazione, ma di un suo mutamento. Il problema è come immaginare delle risposte a tutto ciò. E su questo il ritardo è immenso. Ma non dico che è impossibile colmarlo».
Dalle Città globali alle Espulsioni .
Docente alla Columbia University, Saskia Sassen è la teorica delle Città globali, come recita il volume che l’ha resa nota a livello mondiale. Ha pubblicato anche Fuori controllo (Il Saggiatore), Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa (Feltrinelli), Le città nell’economia globale (Il Mulino), Globalizzati e scontenti (Il Saggiatore), Una sociologia della globalizzazione (Einaudi), Territorio, autorità, diritti» (Bruno Mondadori), Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale (Il Mulino)
Riferimenti
Numerosi articoli di Saskia Sassen sono raccolti, in eddyburg, li trovate digitando il suo nome e cognome nella finestra sensibile in cima a ogni pagina, a sinistra della piccola lente
«Un trasloco problematico per la città. Ma chi decide?» ArcipelagoMilano, 15 marzo 2017 (m.c.g.)
Vorrei tornare sulla questione del trasferimento delle Facoltà della Università Statale all’area Expo e del destino di Città Studi, riguardo al conflitto tra interesse del cittadino e interesse finanziario.
Rimando alle documentate argomentazioni già pubblicate su ArcipelagoMilano prodotte dall’associazione “Che ne sarà di Città Studi?” e dal Municipio 3 per chi ne volesse sapere di più, limitandomi qui a riassumerle per sommi capi ad uso di chi ancora non le conoscesse.
L’Università Statale ha intenzione di spostare le sue numerose facoltà dislocate nel quartiere Città Studi nelle aree di Arexpo, ove creerebbe un nuovo campus universitario. Ciò tra l’altro avverrebbe in concomitanza con il trasferimento altrove dell’Istituto Tumori e del Besta, liberando così complessivamente nella zona circa 350.000 mq di edifici. Il che vuole anche dire che almeno 20.000 persone, studenti e impiegati, cesseranno di usare quei servizi diffusi in tutto il quartiere, dai mezzi di trasporto alle attività commerciali e residenziali, che ne fanno ora un quartiere ottimamente servito e vitale.
È evidente che una così massiccia dismissione, con poche o nessuna prospettiva di rioccupazione degli edifici abbandonati per gli anni a venire, produrrà con certezza un lungo periodo di gravissimo degrado per l’intero quartiere. Mentre 20.000 persone saranno trasferite in una zona molto più periferica, che per un certo tempo difficilmente garantirà loro lo stesso livello di servizi disponibili a Città Studi.
Perché tutto ciò avviene? Per quanto è riassunto nella lapidaria considerazione del Rettore della Statale: per ristrutturare le attuali sedi storiche del quartiere «Avremmo costi di circa 1.500 euro al metro quadro. L’investimento complessivo sarebbe analogo a quello necessario per il trasferimento sulle aree Expo».(Il Fatto Quotidiano 19 luglio 2016)
Dunque per il Consiglio di Amministrazione dell’Università è ovvio che il gioco non vale la candela, conviene abbandonare Città Studi e trasferirsi in una nuova sede sui terreni di Arexpo, così risolvendo anche parte del problema di quest’ultima: come far fruttare la sua faraonica e per ora deserta urbanizzazione.
Proprio questo è il punto. È ormai cosa arcinota e acquisita da molto tempo che il “valore” di una città o di una sua parte non è costituito solo dai suoi edifici e dalle sue infrastrutture, ma anche e soprattutto dalla linfa che dà loro un senso: la presenza di attività umane e del loro intrecciarsi in un legame di reciproca necessità e valorizzazione. Senza questa linfa edifici e infrastrutture perdono ogni valore, e il degrado si estende a tutto l’intorno. Dunque è questa linfa che conferisce il “plusvalore” anche ai beni privati, e che in buona sostanza rappresenta ciò che si può definire “bene comune”, in quanto immateriale e generale generatore di valore.
Inoltre negli ultimi decenni la capacità dell’uomo di creare artificialmente qualità urbana dovunque lo si decidesse si è dimostrata una pericolosa illusione, che a fronte di pochissimi casi felici ha generato moltissimi mostri, di cui sono piene le periferie.
E a Città Studi, che ha già sofferto per i molti vuoti lasciati dalle scelte tecnico-finanziarie dei decenni precedenti (vedi zona Rubattino – Lambrate ma non solo), ci è voluto più di mezzo secolo per creare una fitta e solida rete di attività di commercio e servizi legate alla presenza quotidiana di studenti, docenti e impiegati. Il che ne fa una zona di Milano attiva, un corpo vivo, parte sana della città .Un perfetto esempio di “bene comune”, amplificato dalla qualità della sua urbanistica ottocentesca, con molto verde, e dagli edifici di cui è composta, comprese le sedi accademiche, alcune di valore storico.
È dunque ormai diffusa la consapevolezza che per la qualità di vita in una città è importante preservarne il tessuto insediativo recuperando il più possibile sia gli edifici esistenti che la delicata sinergia di funzioni che si è nel tempo creata tra essi e con le infrastrutture circostanti più significative . Conservare e ridensificare anziché dismettere e delocalizzare, anche quando questa operazione comporta investimenti maggiori di quelli necessari per nuove edificazioni, è la base di ogni politica insediativa moderna rispettosa dell’ambiente e delle persone.
Le pressioni del Governo per dare un senso all’operazione aree ex Expo hanno condizionato gli organi decisionali dell’Università Statale, spingendoli a ragionare come banali operatori immobiliari: se a me conviene delocalizzare lo faccio, e del bene comune chi se ne frega.
Peccato che questo messaggio sembri arrivare da una Università che si fregia del titolo di “Statale”, quasi considerasse privo di qualsiasi valore quello che sarebbe invece opportuno insegnare a tutti i suoi studenti, ovvero il rispetto per il bene comune.
Ma certo che una logica più virtuosa non si instaura mai se mancano indirizzi, incentivi e regole. Quindi ancora più deprimente è notare che il Comune e i suoi Municipi non mostrino alcun interesse alla questione, e non prendano posizione, colludendo di fatto con la visione opportunista di Arexpo.
Un’Amministrazione pubblica evidentemente poco interessata ad assumersi l’unico ruolo che le spetterebbe, ovvero quello di guardiano del “bene comune” nell’interesse di cittadini, non di questo o quell’imprenditore ancorché pubblico. Dunque per ora il destino di Città Studi sembra segnato. Viene da paragonare i responsabili di questo scempio annunciato a un ‘equipe di illustri chirurghi di indiscussa professionalità che si preparano a trapiantare un rene (le facoltà universitarie) da un donatore vivo (Città Studi) a un malato (Arexpo, che se no non ce la fa a riempire le sue preziose aree deserte).
Peccato che si siano dimenticati di chiedere al donatore se è d’accordo, e pronti a concludere: il trapianto è stato un successo, il paziente è vivo, sfortunatamente il donatore è morto.
«Il problema principale dello sviluppo, e del turismo, non è l’assenza di musei, di centri storici o di parchi archeologici, ma è la scomparsa del paesaggio, la distruzione di un sapere collettivo». il manifesto, 18 marzo 2017 (c.m.c.)
L’Italia possiede un bene ineguagliabile che è rappresentato dall’enorme Patrimonio culturale stratificatosi per più di trenta secoli e in maniera capillare nell’ordito armonico delle nostre antiche città, dei nostri musei, delle chiese, dei siti archeologici, dei palazzi dei nostri centri storici immersi nel paesaggio. Il paesaggio è l’immagine, lo specchio della ragione e come tale presuppone – in coloro che vi lavorano, erigono palazzi, costruiscono piazze, strade e scuole modificandone il volto – un’intima partecipazione al diritto di goderne, di gioirne e di apprezzarne la bellezza.
La devastazione della gran parte del paesaggio e delle città soprattutto del Mezzogiorno è, purtroppo, la dimostrazione che il riconoscimento e la produzione della bellezza sono attività che i cittadini, soprattutto quelli meridionali, non hanno esercitato, compreso ed interiorizzato da troppo tempo. I cittadini e la classe dirigente del Mezzogiorno non hanno ancora compreso, non hanno voluto comprendere, che con la scomparsa del paesaggio e delle antiche città si scardinava un fondamentale nesso psicologico di formazione identitaria perché la stabilità dei luoghi garantisce alle società un senso di perpetuità, in grado di conservare l’identità individuale e collettiva.
In una temperie culturale nella quale i valori estetici tendono a essere antifunzionali e antieconomici perché di ostacolo all’efficienza e alla misurabilità economica, la consapevolezza che una città del Mezzogiorno, Matera, sia stata scelta come capitale europea della cultura infonde, a noi meridionali, una speranza.
Il paesaggio agrario del Mezzogiorno che sembrava, alla fine della seconda guerra mondiale, ancora immoto agli occhi di Silone e persino di Pasolini, a partire dagli anni ‘50 viene, invece, devastato e consumato in maniera sempre più impetuosa. Dagli anni ’80 del secolo scorso il processo di riduzione a merce del suolo e del paesaggio agrario subisce un’ulteriore e violentissima accelerazione.
In Italia, fra il 1990 e il 2005, ben il 17% della superficie agricola utilizzata è stata cementificata o degradata e, per esempio, la Calabria è in cima a questa classifica negativa con oltre il 26% del suolo consumato, subito dopo la Liguria, prima con il 27% (Istat), con l’inevitabile dissesto idrogeologico che ne consegue. Un’altra statistica (Ispra 2014) ci dice che, al 2001, ben 7 vani su 10 del patrimonio edilizio italiano erano stati costruiti nei soli 55 anni precedenti, ma anche che il consumo di suolo per abitante nel 1950 era di 178mq., nel 1989 di 286mq. e nel 2012 di 369mq.
Le Regioni meridionali contribuiscono più delle altre all’enorme consumo del suolo, prime fra tutte la Calabria con 1.243.643 alloggi, di cui 482.736 vuoti, per poco meno di 2 milioni di abitanti, con la conseguente percentuale più alta di alloggi vuoti: il 38% (Istat). E se in Lombardia ci sono 5 abitanti per edificio, in Toscana poco più di 4, nel Lazio circa 5, nelle regioni meridionali, invece, abbiamo meno di 3 abitanti per edificio in Sardegna e in Sicilia e, addirittura, solo 2,5 abitanti in Calabria. L’aumento più evidente dell’abusivismo edilizio si osserva in Molise, Calabria e Basilicata che registrano, fra il 2002 e il 2010, indici medi intorno al 35% delle nuove abitazioni (25% in Basilicata). La Calabria ha 798 chilometri di coste dei quali ben 523 (il 65% del totale) sono urbanizzati, trasformati da interventi antropici legali e abusivi: gli abusi lungo la costa calabrese, secondo una ricerca dell’Università di Reggio Calabria, erano ben 5210: uno ogni 153 metri!
I dati sopra riportati mettono in evidenza quanto l’attuale incapacità da parte dei meridionali di distinguere, salvaguardare, e di produrre, la bellezza sia una condizione patologica della psiche, individuale e collettiva. La bruttezza genera disarmonia, produce incapacità di distinguere il bello dal brutto, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, produce assuefazione all’assenza di regole estetiche e morali, genera immoralità diffusa e, quindi, ‘ndrangheta, camorra e mafia.
Il problema principale dello sviluppo, e del turismo, del Mezzogiorno non è l’assenza di musei, di centri storici o di parchi archeologici da visitare, ma è la scomparsa del paesaggio, la distruzione di un sapere collettivo che dovrebbe essere rappresentato dall’enorme Patrimonio culturale che deve interagire, sistemicamente, con un sostrato eno-gastronomico ancora ricco e vivo, con la tradizione millenaria della nostra biodiversità agricola, con una ricettività alberghiera adeguata e con un mare non inquinato. Bisognerebbe, insomma, che una nuova classe dirigente del Mezzogiorno, portatrice di questo sapere intellettuale collettivo, riuscisse a concepire ed a realizzare un gigantesco e capillare piano di risanamento dei territori, dei mari, dei boschi, dei fiumi e delle coste che impegni, da subito, alcune decine di migliaia di giovani.
Uno dei primi atti del new deal di Franklin Delano Roosevelt fu quello di progettare e finanziare un gigantesco piano di restauro del territorio che impegnò, a partire dal 1933, alcune centinaia di migliaia di ragazzi fra i 18 e i 25 anni. Negli anni che seguirono due milioni di giovani lavoratori, chiamati “L’armata degli alberi di Roosevelt”, piantarono 200 milioni di alberi, rifecero gli argini dei torrenti, allestirono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe e strade di collegamento, scavarono canali per l’irrigazione, gettarono ponti, combatterono le malattie degli alberi, ripulirono spiagge e terreni incolti.
Ecco cosa ci vorrebbe per il Mezzogiorno: un new deal fondato sul restauro dei paesaggi naturali e storici, dei paesaggi agrari e urbani; un new deal nel quale la “redditività” del nostro patrimonio storico e naturale non risieda solo nella sua commercializzazione, ma in quel profondo senso di appartenenza, di identificazione, di cittadinanza che creerebbe la ricomposizione materiale ed immateriale dei luoghi, dei paesaggi.
«Il progetto Brugnaro-Tacopina è lo stesso che all’epoca non si fece fare all' allora presidente del Venezia, per la netta opposizione del Consiglio comunale all’idea di un centro commerciale privato ». La Nuova Venezia, 17 marzo 2017 (m.p.r.)
Venezia. Che sia la volta buona? Per il sindaco Brugnaro vendere ai privati i terreni del Quadrante di Tessera è l’unica opzione sul tavolo per fare quello stadio di cui si parla da oltre vent’anni: impianto e centro commerciale “Made by Tacopina” e Venezia Calcio, in cambio di soldi per ripianare i debiti dell’immobiliare del Casinò proprietaria dei terreni. Operazione irricevibile per l’opposizione Pd: lo vieterebbe il Piano di assetto territoriale approvato dalla giunta Orsoni. I progetti del Comune. «Sto lavorando con il presidente Tacopina per vendere le aree del quadrante di Tessera dell’immobiliare del Casinò, piena di debiti: i privati fanno stadio, centro commerciale, parcheggi. Non lo facciamo noi, lo fanno loro. Si dice da 20 anni e sto cercando di farlo», ha detto giovedì il sindaco Brugnaro in diretta Facebook, rispondendo alle domande dei redattori della pagina satirica de “Lo Schitto”.
Relazione introduttiva al convegno "Ex Scali ferroviari: la parola ai cittadini". Un tema decisivo per il futuro della metropoli lombarda: vinceranno gli affari immobiliari o le condizioni di vita degli abitanti di oggi e di domani? Milano, 18 marzo 2017
“Ex Scali ferroviari: la parola ai cittadini.
Convegno dibattito sull’uso delle ultime aree libere di Milano"
Palazzo Marino, Milano. 18 marzo 2017
Milano dispone ormai di poche risorse in termini di aree prevalentemente o totalmente non edificate e inutilizzate ma intercluse nel tessuto urbano. Tra queste principalmente gli scali ferroviari, la Piazza d’armi, la Goccia di Bovisa, le caserme ed altre minori.
Per quanto riguarda gli scali ferroviari si tratta di 1.250 000 mq, di cui 1.053.000 in trasformazione. L’accordo di programma destinava circa la metà di queste aree all’edificazione, con la possibilità di realizzarvi 674.00 mq di SLP per funzioni residenziali e terziarie, pari a 2.022.000 mc convenzionali e circa 4.000.000 mc reali vuoto per pieno, oltre ad eventuali servizi pubblici e privati in aggiunta, lasciando a verde circa 525.000 mq.
Lo scopo della giornata odierna è riflettere sulla opportunità che venga data rapida attuazione a previsioni urbanistiche di questa natura, più o meno rivisitate, come sembra sostenere la giunta o invece riconsiderare queste scelte, anche alla luce della prospettiva, comunque già avviata, della revisione dell’intero piano di governo del territorio. Cercando di valutare la questione non soltanto dal punto di vista degli aspetti procedurali, di diritto e societari come è stato già fatto in altre occasioni, ma primariamente dal punto di vista propriamente urbanistico: cosa può sperare, volere, ottenere la città dalla trasformazione di queste aree?
Solo un accenno alle principali motivazioni di chi caldeggia il rapido varo del progetto: dare un futuro ad aree da tempo inutilizzate e in qualche parte degradate, alimentare con offerte qualificate il mercato immobiliare, utilizzare parte dei proventi immobiliari per realizzare vari tipi di servizi, tra i quali la cosiddetta “circle line”, finalizzata ad incrementare l’utilizzo del trasporto pubblico. Argomentazioni largamente pubblicizzate, ad esempio nel workshop di FS di dicembre, sulle quali perciò non pare necessario soffermarsi oltre.
Da parte mia svilupperò invece le ragioni del dubbio e delle necessità di approfondimento, che mi paiono consistenti.
Partiamo dall’aria che respiriamo. L’Italia (a causa di Milano in primis) è sotto procedura di infrazione per la persistente violazione dei limiti europei sulla qualità dell’aria. La Commissione europea ha inviato all’Italia testualmente un “ultimo avvertimento” il 15 febbraio 2017, intimandogli di provvedere con adeguate misure. Dopo gli avvertimenti scatteranno le sanzioni che saremo noi cittadini a dover pagare. E’ chiaro e fuori discussione che la densità edilizia e di traffico nell’area urbana sono le cause di tale situazione di inquinamento atmosferico, date le condizioni geografiche e meteo climatologiche che non sono modificabili dall’uomo. Primo dubbio allora: non si ritiene opportuno fermare o almeno rinviare ogni ulteriore densificazione edilizia, come quella ipotizzata sugli scali e su altre aree dismesse, fino al raggiungimento di uno stabile miglioramento della qualità dell’aria, o almeno all’ avvio di un efficace piano di risanamento? In particolare le funzioni attrattive (cioè caratterizzate da presenze prevalentemente o esclusivamente diurne, dunque uffici, commercio, servizi pubblici e privati, etc.) generalmente contribuiscono alle emissioni più di quelle residenziali, per ragioni sia di richiamo di traffico che di caratteri funzionali e tipologici. D’altro canto il mercato milanese e le non-norme urbanistiche vigenti tendono a spostare il mix funzionale delle iniziative immobiliare verso tali funzioni. Non si ritiene dunque di dovere in particolare contenere l’ulteriore intensificazione nella città di tale gruppo di funzioni, invece largamente ipotizzate e auspicate sugli scali?
L’ulteriore addensamento di funzioni attrattive nella città centrale accresce le criticità nei comuni di cintura e in particolare in quelli dove pure esistono sia risorse territoriali dismesse sia centri terziari sviluppatisi nei decenni passati, che talvolta presentano ormai condizioni critiche dal punto di vista dell’utilizzo. Non si ritiene dunque di dover riconsiderare la deriva in accrescimento di tali funzioni a Milano anche per ragioni di equilibrio sociale ed economico rispetto al resto dell’area metropolitana? Altrimenti si corre il rischio che la crescita di Milano, invece di essere sviluppo armonico, si trasformi in qualcosa di molto diverso: concorrenza sleale, (al limite del parassitismo) nei confronti dell’hinterland. Dunque prima di avviare nuove grandi operazioni terziarie milanesi si misuri bene lo stato di salute, sotto questo profilo, della cintura metropolitana.
L’entità dello stock edilizio inutilizzato o invenduto, da sommarsi a quello non ancora realizzato ma già convenzionato o concesso è, a Milano, certamente molto rilevante, benché ad oggi non precisamente quantificato. Non si ritiene opportuno sospendere decisioni che legittimino nuova produzione edilizia fino all’accertamento dell’entità di tale patrimonio e soprattutto all’assunzione di misure efficaci per il suo “smaltimento”, posto che l’ulteriore alimentazione di un mercato immobiliare sovraccarico potrebbe avere effetti ulteriormente depressivi e, quel che è peggio, distorsivi rispetto a diverse e più moderne e corrette direzioni di investimento?
Il sistema del trasporto pubblico milanese è stato storicamente conformato da una cabina di regia strettamente urbana, con conseguente sotto dotazione infrastrutturale e funzionale dell’hinterland, come dimostra la pronunciata sproporzione del taglio modale tra trasporto pubblico e privato, nella cintura rispetto al capoluogo. Non si ritiene sia giunto il momento di correggere questo squilibrio, spostando la cabina di regia dalla città alla metropoli reale (dunque Monza compresa)? E di valutare se la priorità di investimento non debba essere data a prolungamenti esterni delle linee metropolitane, alla protezione del trasporto pubblico, al potenziamento in genere del servizio extraurbano, particolarmente su ferro, alla organizzazione degli interscambi ed altro ancora, piuttosto che alla realizzazione della Semicircolare milanese, affetta da limiti funzionali non piccoli ( solo un treno ogni 20 minuti nella tratta nord più densamente edificata) e che comunque aumenterebbe invece di diminuire il differenziale di accessibilità tra città centrale e hinterland ( non dimentichiamo che la stazione di Porta Romana è a soli 2km da piazza del Duomo) ? E poi esisterebbero davvero le risorse per fare la Semicircolare? Il vecchio ADP vi destinava 50 milioni, considerati sufficienti per alcune delle sistemazioni di stazione, utili per Ferrovie indipendentemente dalla attivazione di una linea urbana. E il resto del progetto quanto costa e chi lo finanzia? Nella documentazione non risulta esservi risposta.
Chi sostiene la bontà della trasformazione ipotizzata sugli scali (concentrazioni volumetriche di funzioni attrattive e più trasporto pubblico) la argomenta con il miglioramento della percentuale traffico pubblico / privato che si otterrebbe. Ma di solito non considera che la riduzione del valore percentuale della gomma sul ferro sarebbe pagata con un aumento del suo valore assoluto, con esiti finali altamente incerti e potenzialmente anche negativi: cioè con un possibile aumento assoluto del traffico. Non sembra opportuno approfondire assai bene la non semplice questione prima di prendere decisioni irrevocabili?
Gli scali ferroviari sono invece una potenziale risorsa basilare per il futuro sviluppo di una logistica urbana non inquinante: arrivo delle merci su ferro molto vicino alla destinazione finale e ultimo miglio su mezzi elettrici di varia tipologia. Si tratta naturalmente di una prospettiva che presuppone una trasformazione profonda del sistema di trasporto merci nella regione e anche nel paese, che tra l’altro è ormai auspicata anche dalle Ferrovie. Data l’insostituibilità delle aree in questione per ospitare queste possibile attrezzature, non si ritiene obbligatorio far precedere ogni ipotesi di trasformazione degli scali dalla messa a punto degli schemi progettuali per il loro utilizzo come piattaforme logistiche urbane innovative, in modo da non bruciare per sempre questa opportunità? E ciò non modificherebbe il perimetro stesso delle aree in dismissione?
La Milano compatta ha una dotazione di verde ancora pressoché limitata ai parchi ottocenteschi centrali, nonostante nel frattempo siano completamente cambiate l’entità, le esigenze e la sensibilità ambientale dei cittadini. Non si ritiene che, oggi, verde urbano voglia dire anche orti urbani ed agricoltura di prossimità, land art, grandi spazi attrezzabili per attività del tempo libero, creazione di paesaggio ed altro ancora e che per tali funzioni gli scali e le altre aree dismesse, a maggior ragione se fortemente urbane e collegabili al sistema del verde metropolitano, siano una risorsa irripetibile, imperdibile e in realtà di enorme valore non solo ambientale ma anche economico strategico, proprio come è stata, ad esempio, la creazione del Central Park a New York? Gli effetti della trasformazione a verde di queste aree sarebbero clamorosi: con gli scali la dotazione di verde della città centrale e semicentrale (per intendersi entro o a diretto contatto con la circolare 90/91) crescerebbe del 57%. Una quantità già apprezzabile persino da un punto di vista strettamente ecosistemico/ambientale (qualità e temperatura dell’aria). Analogamente l’utilizzazione a verde della Goccia e di Piazza d’armi avrebbero un valore simile, e persino più radicale, dotando la fascia urbana compatta semiperiferica di grandi parchi di cui è oggi quasi del tutto priva, essendo quelli esistenti situati solitamente in cintura, cioè all’esterno del continuo edificato. Il sistema verde Bovisa- Farini, avrebbe poi il carattere di una penetrazione di verde quasi continua dai parchi di cintura al centro terziario di Porta nuova: un vero Central Park milanese.
Non mancano nel mondo esempi di grandi parchi realizzati specificamente su scali ferroviari dismessi. Ad esempio il Central Park di Valencia, il Millennium Park di Chicago, il Rail Deck Park di Toronto, il Park Spoor Nord di Anversa, lo State Historic Park e il Taylor Yard River di Los Angeles, il Park am Gleisdreieck e il Schöneberger Natur-Park Südgelände a Berlino. Da notare che di solito, grazie alla geometria fusiforme queste nuove aree verdi presentano il vantaggio di un grande allungamento degli affacci: il che moltiplica gli effetti di riqualificazione urbana. Anche a Milano i fronti direttamente riqualificati sarebbero assai rilevanti.
Gli scali, la piazza d’armi, la Goccia della Bovisa, ed altre ancora, sono aree sostanzialmente pubbliche, e come tali da non doversi nuovamente ripagare con altri soldi pubblici. Non si ritiene che tali aree debbano essere perciò destinate principalmente alla creazione dei nuovi parchi e di eventuali altri servizi necessari e richiesti dalla popolazione, limitando la nuova edificazione alla quantità occorrente per pagare il costo delle opere di sistemazione a verde e di eventuali altri servizi o dell’edilizia residenziale pubblica (oltre che degli smantellamenti, delle bonifiche necessarie, e della sistemazione delle stazioni)? Quale può essere l’ordine di grandezza della nuova edificazione occorrente in tale ipotesi? Il PGT stima ufficialmente l’utile immobiliare medio a Milano in 1.000 €/mq SLP. A Farini, Genova e Romana, i valori immobiliari sono notevolmente superiori alla media e dunque superiore è l’utile immobiliare, che potremmo prudenzialmente valutare in almeno 2.000 €/mq. Se quantifichiamo gli extra costi che si vogliono coprire nella misura indicata dal vecchio ADP e vi aggiungiamo quello della sistemazione a parco, si giunge ad un extra costo totale di circa 314 mln €, corrispondente all’utile immobiliare di 157.000 mq SLP contro i 518.000 dell’edilizia libera prevista nel vecchio ADP: meno di un terzo. Questo ridimensionamento consentirebbe di lasciare e sistemare a verde circa l’80% delle aree in dismissione. Ora, è del tutto evidente che i conti non si possono fare con questa grossolana approssimazione, sufficiente solo per determinare l’ordine di grandezza delle variabili in gioco, ma questi sono i ragionamenti che vorremmo veder sviluppati ed affinati dal Comune per tentare di definire un possibile accordo con FS che sia nell’effettivo interesse pubblico.
Il vecchio ADP è molto lontano da questo modello. Non mi soffermo su questo punto perché un altro intervento entrerà nel merito dello squilibrio tra utilità pubblica e privata nel vecchio ADP.
Quale procedura adottare? Solo un accenno: sembrerebbe di poter dire meglio e quasi obbligatoriamente all’interno della revisione del PGT e comunque e soprattutto con approccio metropolitano, data la vastità delle implicazioni extra situ, che difficilmente possono essere trattate di striscio ed accidentalmente in un ADP.
Chi deve rispondere a tutte queste domande? Certo gli amministratori con adeguati supporti tecnici. Ma su tali questioni, benché non semplicissime, vorremmo che i cittadini fossero bene informati e direttamente chiamati ad esprimersi. La città è dei cittadini e quando sono in gioco grandi questioni e risorse irriproducibili è giusto che possano influire direttamente sulle decisioni. L’urbanistica ai cittadini! Questa è la rivoluzione che oggi viene proposta.
Mentre si riconsiderano allora tutte le valutazioni finora avanzate per la realizzazione di un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia, come naturale completamento del corridoio scandinavo-mediterraneo, che dovrà essere ultimato entro il 2030 (così è stabilito per le reti di trasporto trans-europee delineate dall’Unione Europea), si fa strada il progetto di un tunnel scavato in prossimità della Sella dello Stretto, insabbiato sotto il livello del mare: 16 km di lunghezza (in parte raccordato alle gallerie autostradali), di cui circa 3 km subalvei a una profondità di 200 metri, posizionati tra Gazirri, lungo la riva siciliana, e Punta Pezzo, sulla sponda calabrese. Previsto un costo di 1,5 miliardi di Euro. Tempi di realizzazione 5 anni.
Lo studio è stato presentato nel corso della conferenza su “Mobilità urbana e connettività strutturale fra le sponde dello Stretto, Sfida al Pil nel contesto euro” all’Accademia Peloritana dei Pericolanti dell’università di Messina che ha organizzato l’evento con il Collegio amministrativo ferroviario italiano e l’Istituto di Alti Studi di Geopolitica e Scienze ausiliarie. Giovanni Saccà, l’ingegnere che ha realizzato il progetto, prevede un’analoga soluzione per i collegamenti ferroviari, con un tunnel lungo il doppio, che unirebbe il centro della città di Messina a Reggio Calabria con un tracciato percorribile a 200 km/h. Tre miliardi il costo degli interventi, incluse le opere accessorie per servire le nuove stazioni ferroviarie. Coinvolto un team interdisciplinare di esperti, compresi geologi e biologi marini, oltre al noto patologo Cosimo Inferrera.
Il progetto si ispira all’Eurasia Tunnel di Istanbul costruito sotto il Bosforo in un’area sismicamente attiva, e costituito da segmenti collegati da articolazioni flessibili capaci di resistere a terremoti fino a magnitudo 7,25. Parametri di sicurezza elevati che il ponte sullo Stretto, ad esempio, non potrebbe garantire. Ancor meno nel caso del passaggio di treni ad alta velocità.
I tunnel sotto il mare invece tengono conto della particolare orografia dei territori, oltre che della posizione dello Stretto, terzo polo nel Mediterraneo dopo Suez e Istanbul.
Forti le implicazioni e non solo geopolitiche: «Porsi problemi di mobilità e di logistica significa anche affrontare i grandi temi della giustizia sociale, dell’innovazione, del lavoro, della riqualificazione territoriale – spiega Filippo Romeo, direttore del programma Infrastrutture e Sviluppo territoriale dell’Isag - Calabria e Sicilia devono cogliere questa sfida e approfittare della centralità strategica del Mediterraneo e delle merci che vi transitano. Il progetto è solido e rappresenta un’occasione unica per creare sviluppo e attrarre investimenti. E per ridurre fino al 25% i nostri costi per trasporti e logistica verso l’estero».
Riferimenti
Nel vecchio archivio di eddyburg trovate un’intera cartelladedicata al Pontesullo Stretto, contenente una sessantina di articoli dal 2005 al 2012. Ulterioriarticoli in date successive, non ancora classificate nel nuovo archivio, letrovate digitando le parole: “stretto di Messina” nell’apposito casella in cima a ogni pagina.
Con una carrellata sui giudizi correnti sullo stadio fiorentino ci ricordano che la mamma dei fessi è sempre incinta. E, attorno a Palazzo Vecchio, anche quella degli affaristi. la città invisibile, 14 marzo 2017
«Ancora una volta siamo di fronte ad una grossa operazione finanziaria e immobiliare che utilizza strumentalmente un bene comune»
In occasione della recente presentazione del nuovo stadio dei fratelli Della Valle a Firenze è andato in scena un vero e proprio festival del provincialismo e del servilismo.
Provincialismo, perché questo progetto, dopo decenni di frustrazione bottegaia, secondo la comunicazione dominante, potrà finalmente consentire a Firenze il meritato riscatto (ne ha davvero bisogno?) rispetto al fior fiore delle metropoli internazionali, a tal punto che «Tokyo in confronto sembrerà Sorgane», mentre i turisti «visiteranno la periferia nord fiorentina con lo stesso sguardo sognante che indossano quando passano su Ponte Vecchio», solleticati dall’aria “molto sexy” di questa arena. Chissà cosa potranno combinare: ne vedremo delle belle.
Il nuovo stadio della città, affermano, non avrà nulla da invidiare a quelli di Monaco, Bilbao, Bordeaux, Nizza. Perdinci! «Qui a Firenze non siamo secondi a nessuno» sembrano dire in coro i protagonisti della surreale vicenda.
Servilismo, perché a scorrere i commenti sembra di rileggere le trionfanti lodi alle imprese del trascorso ventennio fascista. Cosa pensare quando si legge che le “morbide volute” dello stadio gareggeranno con “le guglie aguzze” del Palazzo di Giustizia «in una gara ideale di architetture contemporanee»? «Costruiremo un tempio sopraelevato che ci permetterà di superare i nostri limiti», sarà uno “stadio da Rinascimento", mentre la “rivoluzione” comincia qui e ora con i Della Valle e la corte dei loro valletti.
I cronisti fanno a gara nel paragonare, in maniera blasfema, le forme del nuovo stadio all’ottagono del Battistero, e, visto che ci siamo, all’ottagono del tamburo della cupola del Brunelleschi e, perché no, anche a quello delle Cappelle Medicee. Per di più ricorda anche il Giglio di Firenze, così siamo tutti contenti, storici dell’arte, tifosi e concittadini mossi dal sacro furore campanilista.
Al di là della retorica roboante di questi giorni, pensiamo sia necessaria un po’ di onesta intellettuale: le cose vanno chiamate con il proprio nome.
Siamo di fronte ad una grossa operazione finanziaria e immobiliare che utilizza strumentalmente un bene comune, la nostra città, quella dei vecchi e dei nuovi abitanti, per consentire alle società coinvolte di occupare una superficie di 48 ettari, di costruire volumi edilizi esorbitanti, per ricavare alla fine un utile di circa 30 milioni l’anno. La faccenda sta tutta qui, in questo semplice calcolo economico.
Non interessa poi se, con l’avallo dell’amministrazione comunale, si mette a ferro e fuoco un intero sistema urbano, se si fa sprofondare tutta la zona ovest, da Rifredi a Novoli a Peretola sotto il peso di questa pesante speculazione immobiliare, se si alterano i delicati equilibri del rapporto tra la città, la Piana e il suo ambiente. Tanto le regole e i controlli sono saltati, si conformano ai desiderata dei privati. Anzi sembra che l’amministrazione pubblica e il suo apparato tecnico si siano trasformati in una sorta di consulenti, di facilitatori a disposizione del privato, in questo caso dei Della Valle, affinché il progetto proposto possa passare indenne attraverso le maglie della vituperata burocrazia comunale.
Altro che urbanistica liquida, qui siamo proprio di fronte all’urbanistica evaporata, evanescente, le cui “regole” sono delle finzioni senza più alcuna credibilità.
La retorica dei valletti di turno servirà poi a giustificare e a far sembrare necessarie queste operazioni.
L’ingorgo è garantito, sarà pesantissimo. Basta osservare la mappa della zona: in pochi chilometri si concentreranno questi nuovi volumi, stadio, alberghi e centro commerciale (poco più piccolo di quello dei Gigli di Campi Bisenzio), oltre alla Scuola dei Marescialli, Nuova Mercafir, Autostrada Firenze Mare e Nuovo aeroporto intercontinentale. Una micidiale successione di funzioni molto ingombranti che andranno ad intasare la principale via di accesso e di uscita da Firenze verso la Piana e l’Appennino. Un vero e proprio tappo la cui retroazione si farà sentire sull’intero sistema dei trasporti della città, appesantendolo enormemente.
I profitti saranno privati, i costi socializzati e scaricati sull’intero sistema territoriale.
Sulla localizzazione di queste funzioni grava anche il rischio di incidente aereo messo in evidenza dalla Commissione nazionale di VIA sul nuovo aeroporto di Firenze. Lo stadio e gli annessi volumi commerciali si trovano sulla direzione di sorvolo degli aerei a poche decine di metri e, stante il parere del Ministero, non sono stati valutati a sufficienza gli «scenari probabilistici sul rischio di incidenti aerei» di questa opera che, come afferma il Presidente del TAR Armando Pozzi, è «viziata da eccesso di potere per difetto di istruttoria, irrazionalità e illogicità».
In questi giorni abbiamo sentito impropriamente parlare di rivoluzione, vorremmo ricordare che, secondo noi, «oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza». Quella che ci viene imposta è in realtà una pericolosa involuzione culturale, politica e sociale.
In un’epoca di profondo ripensamento degli scenari economici, di nuova attenzione ai contesti ambientali e alla qualità della vita delle persone, di nuovi modelli urbani ecologici e socialmente equilibrati, i Della Valle e i loro sodali continuano a proporci progetti monstre obsoleti, vecchi, datati, testimoni della loro afasia culturale e intellettuale, incubi alla “Truman show” del tutto superati.
Invitiamo coloro ai quali sta realmente a cuore Firenze, a partire dai numerosi tifosi fiorentini, ad estendere e approfondire il dibattito sulle presunte qualità delle scelte in corso, ad adoperarsi affinché questa vergognosa operazione sia bloccata per riaffermare un’idea di città amministrata in nome dell’interesse collettivo dei suoi cittadini e non del solito dominus di turno.
La follia speculativa e la sottomissione amministrativa stanno preparando un tormentato futuro che tutti noi vorremmo evitare.
«Quello che è successo, è il risultato di quello che già all’inizio alcuni esperti, allora inascoltati avevano capito e spiegato. La Nuova Venezia, 12 marzo 2017 con riferimenti (m.p.r.)
Nella figura 14 della presentazione del presidente Zaia al consiglio regionale dell’altro giorno risulta che le previsioni del traffico giornaliero medio “Tgm” sulla Pedemontana sono crollate dagli originari 33.000 veicoli della prima previsione del 2003 (del proponente) agli attuali 15.200 o 18.000 veicoli (previsioni 2016 Cassa Depositi e Prestiti-Banca europea investimenti, o 2017 Area Engineering, regionale). Ne risulta una riduzione di -54% o -45%; in entrambi i casi, in pratica un dimezzamento.
«Indiani d’America accampati con le loro tende a pochi passi dalla Casa Bianca. Ma il megaprogetto Dakota Pipeline non si ferma». la Repubblica, 12 marzo 2017 (c.m.c.)
Washington. Alla fine di un lungo sentiero delle lacrime, a duemila e cinquecento chilometri dalla loro terra all’altro capo del tempo e dell’America, Lakota Sioux, Cheyenne, Arapaho, Corvi, Cherokee hanno portato a Washington la loro invincibile sconfitta. Nel gelo di un weekend che li aveva accompagnati dalla tundra delle Grandi Pianure del Nord, hanno tentato l’ultima battaglia contro l’ennesimo stupro che il “Uasìchu”, l’Uomo Bianco, “colui che si prende il grasso e lascia le ossa agli altri” in lingua Lakota, sta compiendo nel corpo della loro terra. Ma sanno che il tubo di acciaio che il nuovo oleodotto pomperà dai giacimenti del Nord Dakota fino a Chicago sotto la terra, i laghi, i ruscelli delle loro riserve si farà, si sta facendo, perché così ha ordinato il Viso Pallido dai Capelli color di Carota che vive nella grande tenda bianca.
Per due giorni, anche sotto un improvviso nevischio che ha stroncato le prime fioriture dei ciliegi giapponesi nel centro della città, gli indiani, guidati dai Lakota Sioux della Standing Rock Reservation in South Dakota, hanno alzato i loro tipì di tela, prima davanti al massiccio palazzo della Posta divenuto oggi un Hotel Trump e poi attorno all’obelisco di marmo dedicato a George Washington. Hanno portato in corteo, nei canyon di cemento e vetro delle strade dei lobbysti, serpentoni di gomma per rappresentare l’oleodotto e per gridare “L’acqua è vita”, quell’acqua che le inevitabili fughe di greggio intossicheranno con foto di paperelle incatramate e di volpi stecchite.
Si sono accampati e hanno danzato con i piumaggi d’onore, lance e tomahawk, a torso nudo davanti alla Casa Bianca, cantando “Trump must go”, se ne deve andare e si sono concessi qualche amara ironia, come Jobeth Brownotter, Lontra Bruna. Indossava uno dei cappellini distribuiti a milioni dalla campagna elettorale di Trump con la scritta “Make America Great Again”, rifacciamo grande l’America, ma trapassato da una freccia, come nei vecchi film western.Ma che cosa può una tenda di tela contro grattacieli di acciaio e cemento? Niente. La Dakota Access Pipeline, che porterà mezzo milione di barili di greggio al giorno dai giacimenti di Bakken ai dintorni di Chicago per mille e 500 chilometri è stata sbloccata immediatamente dopo l’insediamento di Grande Capo Pel di Carota.
Obama ne aveva fermato l’ultimo tratto, quello che perfora la terra della Riserva della Roccia Eretta, ma sapeva che sarebbe stato solo un gesto. Per ordine del nuovo Presidente, il Genio Militare ha rinnovato l’autorizzazione. I bulldozer sono tornati a rivoltare la terra che conserva le ossa degli antenati e lo spirito della loro anima. La Guardia Nazionale e gli sceriffi hanno sloggiato l’ultimo accampamento di Lakota che erano rimasti appesi ai loro stracci nel gelo di febbraio. E la talpa ha ripreso a scavare.
Hanno danzato, ma che cosa può una danza contro un governo che ha scelto, per il secondo, più importante ministero dell’Amministrazione, Rex Tillerson, il boss della Exxon Mobil, un grande sciamano del liquido nero. I leader della marcia, molti dei quali erano donne, si aggrappano a uno dei tanti, effimeri trattati che il governo dei soldati blu firmarono con le nazioni della Grande Prateria a Fort Laramie, nel 1851 e che garantiva anche ai Sioux il controllo delle loro terre in cambio del diritto di passaggio delle carovane dei pionieri e di pochi dollari mai versati, Ma nel 1924, dopo guerre, violazioni spudorate, semi-estinzione dei bisonti che erano la vita delle nazioni di cacciatori nomadi, e rotaie, i diritti territoriali dei nativi furono cancellati in cambio del riconoscimento della cittadinanza americana degli indiani e i tribunali da allora dibattono e decidono che cosa ancora resti di quei trattati ottocenteschi.
Hanno speso duecento mila dollari per organizzare la marcia sulla capitale, partita dai Lakota della Roccia Eretta che sono appena 8 mila, ma che cosa possono quei soldi contro i 3,78 miliardi di dollari investiti da società petrolifere e prestati dalle maggiori banche del mondo, dalla Citi alla Paribas, dalla Wells Fargo alla Société Générale, per costruire l’oleodotto. Per loro si è mossa soltanto la senatrice Democratica del Massachusetts, Elizabeth Warren, che vanta lontane origini Cherokee, ma nei chilometri di cammino fra la stazione di Washington e la Casa Bianca, i pochi turisti dissuasi dal freddo, e i pochissimi washingtoniani, incalliti da ben altre manifestazioni, li guardavano come una curiosità folcloristica.
Hanno pregato, ma che cosa possono le preghiere di qualche superstite del genocidio indiano contro la sete inestinguibile di petrolio che noi abbiamo? Il sogno è l’autonomia energetica, la benzina a poco prezzo, la liberazione degli Stati Uniti dal ricatto dei Paesi produttori, e che importa se qualche Lakota Sioux saltella, se una donna Cheyenne canta contro la Casa Bianca e 131 geologi, ambientalisti, ingegneri avvertono che sicuramente quelle tubature avranno perdite e fughe? Certo non importa a Donald Trump, il Presidente che invoca l’America First, ma si dimentica dei First Americans. Dei primi americani.
Ieri la notizia agghiaccioante del senzatetto bruciato vivo nel suo giaciglio a Palermo, oggi la buona notizia di un'iniziativa promettente a Torino. Noi speriamo che diventi nazionale. la Repubblica online, ed. Torino, 12 marzo 2017
Solo chi vive la condizione di barbone, come qualcuno continua a chiamare con disprezzo chi non ha un tetto, può sapere quali sono le necessità. Capire quali diritti rivendicano le persone — secondo i promotori del «sindacato« dei senzatetto — è utile per chi decide poi le politiche di sostegno e aiuto cosa fare. Ci sono senza dimora che rifiutano i percorsi di reinserimento, oppure preferiscono il freddo della notte al letto in un dormitorio. «Forse perché in un dormitorio dovrebbe rispettare alcuni paletti — raccontano — Meglio piccole strutture sparse, che grandi poli». Nei piani dell’Associazione italiana persone senza dimora, questo per ora il nome provvisorio, c’è l’idea di proporre progetti. Il primo riguarda incontri nelle scuole per riuscire a sensibilizzare i ragazzi sui problemi dei senza dimora. Altro progetto è la costituzione di attività commerciali che possano creare posti di lavoro per permettere ai clochard di riprendersi una parte della propria dignità.
Ampia analisi critica di un libro di Vezio De Lucia e Francesco Erbani su
l'urbanistica romana nel quadro di una riflessione sull'intricato nodo del rapporto pubblico/privato. casadellacultura.it, ciclo "città bene comune"10 marzo 2017 (p.d.)
Il dialogo prende così uno scorrevole respiro tra Erbani che interpella e sollecita e De Lucia che, sul filo della memoria, mette in fila fatti, ricordi, analisi e riflessioni in una visione di lungo periodo che prova a fissare in brevi tratti una serie di fasi, periodi e tendenze.
Si ripercorre così il periodo che va dagli anni cinquanta fino all'amministrazione Marino, soffermandosi soprattutto sulle battaglie di tutela e valorizzazione delle zone archeologiche da parte di Antonio Cederna: un intellettuale che riuscì a far coagulare un ampio consenso su una serie di positive proposte, promosse, ottenute e realizzate (anche se spesso solo parzialmente) dalle giunte Argan, Petroselli, Rutelli e Veltroni, sino all'esplicita inversione di rotta della giunta Alemanno. Un'inversione le cui premesse, tuttavia, erano già visibili in nuce in quella filosofia del "pianificar facendo" su cui si improntò il piano regolatore promosso ed approvato dalla seconda giunta Veltroni caratterizzato da un approccio che non verrà più rimesso in discussione, neppure dalla successiva giunta Marino e dal suo assessore all'urbanistica Giovanni Caudo.
Come icasticamente sintetizza De Lucia: "L'urbanistica di Walter Veltroni e del suo predecessore Francesco Rutelli si è sviluppata sulla base di accordi fra l'amministrazione pubblica e i privati possessori di aree. Lo hanno definito il "pianificar facendo". La perdita di forma che Roma andava assumendo ha ricevuto il sigillo dall'ultimo - e il peggiore - piano regolatore della sua storia, quello del 2008. E che nei fatti non pianificava granché, visto che prendeva atto di quel che si era già deciso e a quelle contrattazioni forniva un superiore avallo amministrativo. Il successo di Gianni Alemanno - osserva De Lucia - è stato in gran parte strappato nei luoghi in cui Roma perdeva le caratteristiche più proprie di una città". Una volta eletto, però, "Alemanno si è trovato a gestire un piano regolatore che aveva già quasi consumato le proprie previsioni edificatorie. Pressato da più parti, ha provato ad aggiungere dell'altro, ad andare oltre le dimensioni fissate in quel documento. E ha usato le norme contenute nello stesso piano e che consentivano di superarlo. Dove ha potuto, ha forzato, gonfiato ciò che spettava ai privati sottraendolo al pubblico. […] Nel programma di Ignazio Marino - prosegue De Lucia - era contenuta l'intenzione di fermare questa disseminazione del cemento nella campagna romana e di invertire la rotta mettendo mano alle aree già costruite, ma malamente. Un proposito di discontinuità con il passato di Alemanno, ma anche di Rutelli e Veltroni. Un proposito in qualche misura rispettato […] per iniziativa dell'assessore Caudo. Poi però il proposito è stato negato dalla decisione di collocare arbitrariamente a Tor di Valle il nuovo stadio della Roma [con la contestuale edificazione di tre torri alte 200 metri di terziario, per un edificazione totale di 1 milione di metri cubi, N.d.A] il cui interesse pubblico è tutto da dimostrare" (pp. 10-11).
Si tratta della stessa questione, ancora irrisolta, con cui si trova ad avere a che fare oggi Virginia Raggi. Una faccenda talmente spinosa che - almeno fino al momento in cui scriviamo - pare gestita in prima persona dalla sindaca e con un ristretto staff fiduciario: per esempio nella contrattazione di una più o meno consistente riduzione delle volumetrie terziarie chieste in contropartita alla realizzazione dello stadio privato di una società calcistica proprietà dell'italo-americano James Pallotta - uno dei promotori finanziario-immobiliari dell'operazione - condotta tentando di estromettere dal processo decisionale il proprio assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini. Quest'ultimo, che - osserva De Lucia - in un suo libro del 2008, La città in vendita (Donzelli), aveva già denunciato questo modo di procedere come "la degenerazione del nuovo piano regolatore che è diventato "il piano dell'offerta", per mettere a disposizione del mercato finanziario internazionale gli affari immobiliari possibili nella capitale" (p. 46), ha invece ribadito, anche recentemente, che tutto ciò che vi si può edificare è quanto già previsto dal piano regolatore. Ha cioè cercato di stoppare in anticipo qualsiasi ipotesi di contrattazione integrativa tra proprietari delle aree o sviluppatori immobiliari e pubblica amministrazione volta ad ottenere un aumento delle volumetrie edificabili e dunque maggiori possibilità di guadagno.
Secondo De Lucia: "a spingere verso la dilapidazione del territorio [della capitale] ha contribuito l'invenzione del "pianificar facendo", l'ossimoro che ha compagnato la formazione del nuovo piano. Il "pianificar facendo" - osserva - ha legittimato interventi di ogni genere e di ogni misura, in ogni angolo del territorio comunale. [Lo stesso] Paolo Berdini, nel libro Giubileo senza città, ha documentato come, attraverso i programmi di riqualificazione e di recupero urbano (e gli altri istituti derivati dall'accordo di programma, con l'uso disinvolto della legge per Roma Capitale e di altre possibilità di deroga, già prima dell'adozione erano stati autorizzati quasi 52 milioni di metri cubi (quasi i tre quarti delle future previsioni di piano). […] Quando finalmente è stata completata le stesura del nuovo piano, non c'era molto da aggiungere alle decisioni maturate prima" (p. 36).
In altri termini - afferma Erbani - "Nella sostanza il piano non pianifica. Ratifica. Non investe sul futuro, regola i conti con il passato. Non interviene per definire l'assetto della città, non ha una visione, ma prende atto di quello che è maturato negli accordi fra l'autorità pubblica e la proprietà fondiaria e fornisce un involucro capiente. Non concepisce la città come un sistema in cui tout se tient e dove è necessario bilanciare i pesi, ma sancisce che i pesi possono distribuirsi dove capita o, meglio, dove li collocano gli interessi privati, che non si subordinano all'interesse generale, ma che si cerca in vario modo di disciplinare, come farebbe il vigile a un incrocio. È - conclude - un piano regolatore che non è generale, ma assembla tanti piani particolari. Proclama buone intenzioni, ma non le progetta" (p. 36).
Ho potuto toccare con mano questa situazione quando, tra il dicembre 2014 e il marzo 2015, (trovandomi spesso a Roma per motivi familiari e terapeutici) ho deciso di mia spontanea iniziativa di frequentare il laboratorio partecipativo promosso dall'assessore all'urbanistica Caudo per definire i dettagli dell'accordo di programma per il riuso dell'area dell'ex Fiera di Roma sulla Cristoforo Colombo nei pressi dell'EUR, dopo il trasferimento delle attività fieristiche nel nuovo polo di Ponte Galeria sulla Roma-Fiumicino. Contavo di potervi portare l'esperienza maturata a Milano nella critica al mancato controllo degli esiti urbanistici e progettuali relativi al riuso dell'area dell'ex Fiera di Milano anche per effetto dagli incongrui indici edificatori assegnati (1,15 mq/mq). Indici che erano stati fissati solo sulla base delle aspettative di rendita fondiaria da parte di Fondazione Fiera (250 Milioni di €) che aveva la necessità di far fronte ai costi imprevisti nella realizzazione del nuovo polo di Rho-Pero. Qui le smodate e incontrollate bizzarrie di Fuksas nel progetto della spina vetrata centrale di accesso ai padiglioni espositivi avevano determinato una serie di problemi tecnici e contribuito a una significativa lievitazione dei costi dell'opera.
La situazione dell'ex Fiera di Roma era abbastanza simile, anche se relativa a un'area grande circa un terzo di quella dell'ex Fiera di Milano: l'indice edificatorio di circa 1 mq/mq era infatti stato fissato solo in relazione all'obiettivo di coprire i debiti di bilancio accumulatisi nella gestione del nuovo polo, al più con l'aggiunta della motivazione che ciò corrispondeva più o meno al volume dei padiglioni esistenti e dismessi. Anche a non voler addentrarsi nella considerazione che - a parità di volume edificato - il peso urbanistico/insediativo dei nuovi edifici terziari e/o residenziali in previsione sarebbe stato ben superiore di quello determinato dall'uso sporadico delle attività fieristiche nei padiglioni preesistenti, feci sommessamente rilevare che l'esito sarebbe stato - come all'ex Fiera di Milano - quello di edifici molto alti e molto densi, che avrebbero gravato in modo intollerabile sugli attigui tessuti edilizi della retrostante via dell'Accademia, costituiti da palazzine di tre-cinque piani. Se proprio non si voleva rideterminare in modo urbanisticamente più congruo l'indice edificatorio, la mia proposta era quella di introdurre prescrizioni di destinazione funzionale e tipo-morfologiche che concentrassero una prevalente quota di funzioni terziarie in edifici anche molto alti e densi sul lato della Cristoforo Colombo (larga più di 80 metri), lasciando una quota minore di residenza meno densa e di altezza più contenuta verso il lato opposto, quello via dell'Accademia, una strada di modesto calibro locale.
La risposta di chi rappresentava l'amministrazione nella conduzione del laboratorio partecipativo fu di netta opposizione. Si sostenne infatti che non si sarebbe dovuto condizionare così pesantemente la libertà imprenditiva e progettuale dell'attuatore edilizio-immobiliare della trasformazione dell'area. Mi rimane il fondato dubbio - anche considerando che Fiera di Roma nelle sue varie articolazioni è espressione di una società compartecipata dallo stesso Comune di Roma! - che ciò che non si voleva condizionare era la possibilità del conseguimento del massimo di rendita fondiaria a fronte delle mutevoli condizioni economico-finanziarie del mercato immobiliare.
L'assessore Berdini, poco dopo il suo insediamento, ha completamente scavalcato quell'obiezione facendo approvare dal Consiglio comunale il sostanziale dimezzamento - in conformità a quanto previsto dal piano regolatore per le aree edificabili - dell'indice edificatorio contrattato da Marino e Caudo. Si è così garantita la realizzazione di tutti gli spazi pubblici prescritti, con densità ed altezze edificatorie compatibili con i caratteri dei tessuti edilizi attigui e preesistenti, e - quindi - senza più la necessità di preventive prescrizioni funzionali e tipo-morfologiche che ne attenuassero gli effetti perversi. La reazione di Fiera di Roma è stata un ricorso al Tribunale Amministrativo per danni economici procurati al risanamento del proprio bilancio a seguito della mancata approvazione delle bozza di intesa precedente, esattamente come fatto da FS/Sistemi Urbani nei confronti del Comune di Milano a seguito della mancata ratifica consiliare della bozza di accordo di programma sugli ex scali ferroviari.
Tutto ciò la dice lunga sullo stato dei rapporti tra aspettative di rendita delle grandi proprietà fondiarie (anche di enti pubblici istituzionali) e ruolo di indirizzo pubblico. Quest'ultimo dovrebbe essere esercitato dai comuni solo sulla base di congruità ed opportunità di interesse generale negli assetti insediativi ed urbanistici del territorio. Quando (raramente) i comuni provano a sottrarsi alla riedizione della disastrosa prassi degli anni '50/'60 delle "convenzioni senza o contro i PRG" - una pratica progressivamente tornata a diffondersi dagli anni '90 in versione finanziarizzata 2.0 e ripropostasi con le reboanti e suadenti denominazioni di programmi integrati di intervento, progetti di riqualificazione urbana, accordi di programma - la reazione delle proprietà fondiarie è ferocemente indirizzata ai punti più dolenti della difficile situazione delle finanze locali: da un lato la richiesta di enormi indennizzi per danni economici arrecati e, dall'altro, l'offerta di modeste ma immediatamente conseguibili contropartite (rispetto alla dimensione economico-finanziaria in gioco) in termini di oneri ed opere di urbanizzazione.
Insomma, anche questo esempio dimostra che ha ragione De Lucia quando afferma che a Roma "la storia dell'ultimo PRG comincia nel 1993 e dura quasi tre lustri, durante i quali il governo della capitale si è collocato in uno spazio politico e culturale ambiguo. Mentre a Milano, per esempio - capitale indiscussa della controriforma [urbanistica, N.d.A] - la preferenza per l'urbanistica contrattata è stata formalmente ed esplicitamente contrapposta al governo pubblico del territorio, a Roma è prevalsa invece una linea subdola, si è continuato a professare adesione alla pianificazione canonica mentre, sopra e sottobanco, si è praticata la medesima urbanistica contrattata di Milano" (p. 33).
Ciò che sorprende nell'acuta disamina della vicenda romana condotta nel dialogo tra De Lucia ed Erbani è che via via che ci si avvicina alle vicende più prossime - come si è detto, con l'esclusione forse voluta di quelle di più immediata attualità elettorale - sembra manifestarsi una sorta di presbiopia. Mi chiedo cioè come sia possibile che le ricostruzioni siano precise, puntuali e dettagliate su nomi, fatti e circostanze degli episodi più lontani e, invece, nella pur estremamente pertinente critica alla fase del "pianificar facendo" ci si limiti a citare il nome e la responsabilità dei sindaci che l'hanno avallato politicamente e non quello di coloro che l'hanno teorizzato, giustificato e praticato sul piano culturale e tecnico nella redazione del piano regolatore generale di Roma. Non si tratta di un fatto secondario, perché se è vero che nelle pratiche di pianificazione e governo del territorio ci sono le responsabilità politiche di quanti governano la cosa pubblica, è altrettanto vero che non possiamo dimenticare le responsabilità tecniche, o meglio culturali, in questo caso ascrivibili a quegli urbanisti che hanno messo a punto il piano, ovvero a Giuseppe Campos Venuti e al suo delfino accademico e professionale Federico Oliva. Dico questo per amore di chiarezza e verità storica, ma devo anche dire che la mia preoccupazione principale è di natura culturale e riguarda il destino, non dei pianificatori, ma dell'urbanistica italiana. Il piano di Roma ha infatti legittimato l'assunzione diffusa, anche da parte di amministrazioni locali tradizionalmente attente a praticare una pianificazione ad indirizzo pubblico, di quel particolare modo di intendere la pianificazione. Se non si porta la critica alla radice di questo atteggiamento rinunciatario alla definizione di un'idea di dimensione pubblica del progetto della città, difficilmente sarà possibile indicare una strada che proponga un'alternativa all'indefinita prosecuzione di singole contrattazioni sul futuro di parti di città.
Invece, la sola indicazione che negli ultimi capitoli del libro viene da parte degli autori per ritrovare un destino di dimensione pubblica della capitale è quella del rilancio strategico del suo ruolo turistico e culturale attraverso la ripresa del Progetto Fori e del parco dell'Appia Antica come "colonna vertebrale di una nuova struttura in grado di costruire, al di là degli errori e delle speculazioni di "Roma moderna", (...) la vera "Roma futura"" (p. 124). Pur riconoscendo che la dimensione, anche territorialmente rilevante, dell'ambito archeologico-turistico-culturale continuerà sempre più a rappresentare un fattore determinante della forma urbana ed insediativa della Capitale, non posso non rilevare come - rispetto alla dimensione complessiva del problema urbano ereditato dalle vicende ripercorse nel libro e così ben rappresentato nelle mappe che ne illustrano l'estensione - ciò costituisca un'indicazione che, in questa prospettiva, appare parziale e riduttiva. È forse questo senso di incompiutezza del ragionamento, questa mancanza di una propositività complessiva sui destini di Roma che più si coglie concludendo quella che, pur con questi limiti, rimane un'interessante e piacevole lettura.
P.S. Tra la stesura di questo commento e la sua pubblicazione sono intervenute due novità rilevanti: le dimissioni dell'assessore all'urbanistica, l'indipendente Paolo Berdini – che riteneva troppo arrendevoli gli orientamenti della sindaca Raggi favorevoli a una parziale riduzione delle edificazioni non connesse alle attività calcistiche – e l'annuncio da parte della sindaca di un accordo raggiunto con la proprietà dell'area per il dimezzamento delle volumetrie inizialmente previste e l'eliminazione delle tre torri da 200 metri di altezza. La Raggi e il M5S vantano come un positivo compromesso il dimezzamento delle volumetrie e la contestuale riduzione di opere di trasporto pubblico e accesso all'area, ma sia la versione “estremistica” dell'ex assessore Caudo (che riteneva indispensabili tutte le opere pubbliche da lui previste e che per questo era disposto a concedere qualunque edificazione fosse in grado di sostenerne l'onere) sia quella “compromissoria” di Raggi/M5S sono pur sempre conseguenze della logica dell'urbanistica contrattata: se mi fai fare di meno, ti do di meno. Invece, il criterio corretto sarebbe: se servono molte opere per rendere accessibile e sicura l'area e l'intervento ammissibile non è in grado di sostenerne il peso economico è bene non farlo lì, ma da un'altra parte. Come mi capita spesso di far osservare non è affatto detto che il 50% di una follia sia qualcosa di ragionevole: talvolta è mezza follia, ma assai più spesso è addirittura una follia e mezza!
Con il voto della Commissione Ambiente della Camera dei deputati del 9 marzo 2017 deve considerarsi virtualmente conclusa – salvo improbabili miracoli – un’aspra battaglia durata otto anni tra un fronte che ha tenacemente inteso introdurre alcune modifiche di fondo alla legge quadro 394 del 1991 sulle Aree Protette e non ha mai flettuto da questa intenzione e un fronte che a tali modifiche si è opposto in modo generoso e motivato spiegando come esse stravolgessero la legge invece di migliorarla e mettessero a rischio il futuro stesso delle aree protette come istituzioni qualificate di tutela ambientale.
Nonostante ci fosse un’ampia discussione in corso da almeno un anno con la quasi totalità dell’ambientalismo italiano schierato contro le modifiche, nonostante ci fossero state delle mediazioni interessanti e decisamente migliorative, il 7 marzo il presidente della Commissione Ermete Realacci (si: Ermete Realacci) con quello che può essere definito un colpo di mano ha imposto la votazione immediata del testo nella sua versione peggiore in modo tale che entro fine marzo la Camera possa approvare il provvedimento mettendolo al riparo da qualsiasi rischio di calendario.
Il testo che è passato in Commissione conferma tutti i punti “qualificanti” per i quali la maggioranza bipartisan Forza Italia-Pd ha cominciato a battersi sin dal 2009 con l’entusiastico sostegno della dirigenza di Federparchi e il particolare del suo presidente Giampiero Sammuri. Su tutto questo si è dibattuto a lungo e approfonditamente in questi anni per cui non è necessario tornare nel dettaglio su tutti i passaggi e su tutti i particolari. Basti ricordare che mentre le aree protette italiane languono in una situazione di sottofinanziamento cronico, di dotazioni di organico disperatamente inadeguate, strangolate da modalità burocratiche che le paralizzano, la “riforma” si è concentrata soprattutto su alcuni indirizzi che non hanno possibilità alcuna di incidere su questi nodi ma che tuttavia sono in grado di cambiare in profondità la fisionomia delle aree protette italiane così come era stata immaginata dalle molteplici forze che avevano voluto e fatto approvare la 394. Questi indirizzi si dicono in breve: presidente dei parchi di nomina partitica, direttore di nomina presidenziale senza più alcuna necessità di competenze naturalistiche, consigli direttivi spogliati della componente scientifica ma in compenso “arricchiti” di lobbies come quella degli agricoltori, possibilità di svolgere attività impattanti nei parchi mediante compensazione monetaria. Le aree protette italiane, in nome di interessi di bottega e di una visione schiettamente neoliberista dell’economia e della società, sono insomma messe nelle mani di apparati partitici - ora, a differenza che in passato, in modo pienamente legittimo - e di portatori di interessi che una volta in maggioranza faranno prevedibilmente passare la conservazione della Natura in secondo piano o la elimineranno di fatto dalle priorità istituzionali dei parchi.
E’ questa un’altra pagina oscura della storia delle politiche ambientali degli ultimissimi anni, l’ultima di un rosario che si è sgranato clamorosamente con la fine - di fatto - del Parco nazionale dello Stelvio e con l’eliminazione dell’autonomia e della specificità del Corpo Forestale dello Stato. Ed è letteralmente sconvolgente che questa deriva sia regolarmente sotto l’egida di figure che considerate da sempre come “fondatrici” dell’ambientalismo italiano e nella pressoché totale vacanza del Ministero dell’Ambiente.
E’ facile prevedere che queste norme faranno sentire presto i suoi effetti nefasti sul corpo delle aree protette italiane che già versano in pessime acque. La resistenza alla riforma è stata tuttavia forte, tenace, articolata e ricca di intelligenze: ci si può solo augurare – ci si deve augurare – che da qui riparta un ambientalismo che sappia mettere un argine al degrado e aprire prospettive diverse alla protezione della natura in Italia.
«Il processo di smantellamento è solo all’inizio: è difficile trovare tecnici disposti a esporsi alle radiazioni, così alcune aziende appaltatrici, legate ai clan di yakuza, ricorrono a manodopera meno tutelata». Il Fatto Quotidiano online, blog China files, 11 marzo 2017
Oltre 21 mila miliardi di yen (circa 170 miliardi di euro): è questa la stima più recente del costo totale dei lavori di bonifica e smantellamento della centrale nucleare di Fukushima Daiichi (in giapponese “Numero 1”), per una durata dei lavori prevista tra i 30 e i 40 anni. Appena tre anni fa le stime dei costi — che comprendono anche gli indennizzi versati alle famiglie evacuate dalle aree limitrofe all’impianto — erano dimezzate. L’11 marzo di 6 anni fa un terremoto di magnitudo 9.0 colpiva la regione del Tohoku, nel nordest del Giappone, innescando uno tsunami alto fino a 40 metri che ha causato la morte di 19mila persone. L’evento provocava anche malfunzionamenti nell’alimentazione dei reattori alla centrale scatenando un triplo meltdown.
Circa 160mila persone residenti intorno all’impianto furono costrette a evacuare la zona a causa della fuoriuscita di materiali radioattivi. Oggi, mentre la regione del Nordest cerca, a fatica, di rialzarsi, la centrale di Daiichi è ancora un enigma. In superficie, come racconta il Guardian, i lavori di messa in sicurezza procedono: le strutture esterne dei reattori danneggiate dalle esplosioni verificatesi poche ore dopo il terremoto e lo tsunami sono state messe in sicurezza e il terreno è stato coperto da materiali impermeabili che tengono l’acqua piovana in superficie.
Sono state aggiunte alcune strutture per il relax dei lavoratori tra cui una mensa e, a un km dall’impianto un piccolo supermercato aperto dalle 6 del mattino. Tuttavia i problemi rimangono e la loro soluzione sembra sempre più complessa. A cominciare, appunto, dalla gestione dell’acqua contaminata, un mix di quella pompata da Tepco per raffreddare i reattori e di quella sotterranea che scorre dentro i reattori nel suo corso dalle colline intorno alla centrale verso l’oceano. Nemmeno il “muro di ghiaccio” – una serie di tubature con tecnologia refrigerante inserite nel terreno della centrale intorno ai quattro reattori danneggiati, un’opera da circa 200 milioni di euro – è servito a impedire all’acqua di entrare nei reattori e fuoriuscire poi nell’oceano.
Tepco ha dovuto aggiungere dei pozzi di “sottoscarico” per raccogliere l’acqua, drenarla negli impianti di filtraggio e scaricarla nell’oceano. La maggior parte dell’acqua contaminata viene raccolta in cisterne saldate, alte 10 metri per 12 metri di diametro, che hanno gradualmente sostituito quelle a flange. All’interno di queste sono contenute oltre 900mila tonnellate d’acqua contaminata. Secondo quanto riferito dal settimanale Sunday Mainichi, oggi la parte collinare dell’impianto si presenta come una vera e propria “foresta” di cisterne di stoccaggio.
La sfida più complessa è poi quella del ritrovamento — e della conseguente rimozione — del combustibile nucleare sciolto depositatosi al fondo dei recipienti in pressione dei tre reattori gravemente danneggiati durante il terremoto e tsunami dell’11 marzo 2011. A fine 2014 Tokyo Electric (Tepco), la utilty energetica più grande del Giappone che gestisce anche i lavori di smantellamento del sito, era riuscita a rimuovere oltre 1500 barre di combustibile nucleare dal reattore numero 4, dove la bassa radioattività permetteva maggiori margini di manovra. Discorso diverso per i reattori 1, 2 e 3.
A causa dell’alta radioattività, l’azienda ha scelto di operare a distanza inviando robot in grado di raccogliere immagini e informazioni utili. La strategia non ha finora avuto successo. L’ultimo tentativo è stato fatto a febbraio di quest’anno.
Scorpion, un robot lungo circa 60 cm e dotato di telecamere, una sulla “coda”, che può essere alzata rispetto al livello del corpo, e rilevatori di temperatura e radiazioni progettato da Toshiba, è stato inviato all’interno del reattore numero 2, dove, in precedenza, erano stati registrati alti picchi di radioattività. La sua missione, la cui durata era stata programmata in 10 ore, è stata annullata dopo appena due ore.
Il robot ha incontrato difficoltà di movimento dovute — secondo le dichiarazioni ufficiali di Tepco — probabilmente “alle radiazioni o a degli ostacoli”. La macchina è stata costruita per resistere a un’esposizione fino a mille sievert per ora, abbastanza da riuscire a resistere agli alti livelli di radioattività registrati — tra i 250 e i 650 sievert per ora — impossibili da sostenere per un essere umano e difficili anche per robot di ultima generazione.
Tepco ha fatto sapere di essere riuscita a raccogliere informazioni importanti e che ha in programma di cominciare con l’estrazione di altre 500 barre di combustibile dal reattore 3 a metà del prossimo anno. Ma sui lavori di bonifica aleggiano altre ombre, in particolare circa le forniture di forza lavoro. Oggi nella centrale lavorano circa 6mila tecnici e lavoratori, alcuni esposti a dosi di radiazioni superiori alla media.
Recenti resoconti dei media giapponesi hanno rivelato che in alcuni casi i lavoratori sono poco preparati e troppo anziani per resistere a lunghe ore di lavoro. Nessuno vuole oggi lavorare a Fukushima, anche perché una volta finito l’incarico il reinserimento sociale dei lavoratori è complicato da episodi di discriminazione e isolamento. Qualcuno, però, lo deve pur fare. Così per sopperire alle carenze di manodopera, alcune aziende appaltatrici — alcune delle quali legate ai clan di yakuza — hanno reclutato senzatetto e anche qualche straniero, in particolare brasiliani di origine giapponese.
«Siamo all’inizio della scalata a una montagna», ha dichiarato Naohiro Masuda, direttore dei lavori alla centrale, al settimanale economico Toyo Keizai. «Abbiamo capito che tipo di equipaggiamento ci serve». Più critico, invece, è stato un tecnico di Greenpeace raggiunto dal Guardian. Le operazioni di smantellamento di Fukushima Daiichi, ha detto, sono un’opera che va «al di là di ogni umana comprensione».
Altro che "chirurgo".Per la prima volta il presidente di una Regione (ma è un leghista) considera l'istituzione come se fosse un'azienda privata, le accolla il rischio d'impresa" e fa pagare il bilancio negativo ai cittadini, dimenticando che non sono azionisti. la Nuova Venezia, 9 marzo 2017 (p.s.)
Venezia. Si sente come un chirurgo in sala operatoria che deve salvare un paziente in fin di vita e che per questo deve fare ogni manovra possibile, se necessario anche l’amputazione di una gamba. Il governatore Luca Zaia per far vivere la Pedemontana ha messo le mani nelle tasche dei cittadini proponendo il ritorno, a partire dal 2019, dell’addizionale regionale Irpef per i redditi sopra i 28 mila euro.
Questa è la prima addizionale dell’era Zaia, i veneti la capiranno?
«Non è un addizionale coram populo: su 2 milioni 668 mila 997 contribuenti va a pesare solo sulla parte alta e altissima, circa 120 mila persone. La fascia intermedia paga 3 euro al mese; le fasce deboli e quindi pensionati, casalinghe e lavoratori non sono toccati. E il Veneto è ancora fra le prime tre regioni d’Italia quanto a minor pressione fiscale. Ricordo che non ho applicato i ticket della sanità».
Ma così vengono traditi i principi leghisti del federalismo fiscale.
«Nessun tradimento. Il federalismo fiscale, insieme all’autonomia, resta una priorità. Io sono l’antitasse e certo non mi diverto a metterle. Ma un amministratore corretto e perbene, davanti a un problema, deve intervenire. L’approccio è quello del chirurgo che entra in sala operatoria dove c’è un paziente in fin di vita: ha l’obbligo di fare tutto il possibile per salvargli la vita. Lo stesso vale per me con la Pedemontana. C’è invece una minoranza che gode a dire ai familiari che il paziente sta morendo e che è meglio non mettergli le mani addosso».
Certo è che ai veneti viene chiesto un sacrificio.
«Un sacrificio che ci permetterà di completare un cantiere da oltre 2 miliardi. Pensiamo alle conseguenze se l’opera si bloccasse: alle aziende che chiuderebbero, ai lavoratori che resterebbero a casa, agli espropriati che non prenderebbero i soldi, ai costi degli ammortizzatori sociali che dovremmo attivare. Ripeto, si tratta di un sacrificio: io stesso e il consiglio regionale pagheremo mille euro l’anno. Io ho presentato una soluzione innovativa che verrà ripresa a livello nazionale per tutti i project che hanno lo stesso problema: dopodiché il consiglio è sovrano e potrà decidere se procedere o meno».
Ha annunciato che l’addizionale avrà carattere temporaneo. Quanto temporaneo?
«Questa è una tassa di scopo che riguarda la Pedemontana e per una piccola parte i tagli di quest’anno che non riusciamo a riassorbire. Per me si esaurisce col 2019, poi sarà il consiglio a decidere. E, preciso, di tratta di una manovra che può avere aliquote modificate fino a dicembre 2017. Al governo ho chiesto 200 milioni di contributo su questa operazione: se li versasse, il fabbisogno si ridurrebbe e le aliquote cambierebbero».
Potrebbero essere applicate aliquote diverse in rapporto alla prossimità geografica all’opera?
«No perché la Pedemontana è di tutti. Come il Passante».
Ma c’erano alternative all’addizionale?
«No. Il progetto è del 2002, la gara del 2006, l’aggiudicazione del 2009. In virtù di una legge dell’epoca, chi metteva in gara doveva garantire che il traffico ci fosse: il rischio di impresa, insomma, ce l’aveva la Regione. A un certo punto l’impresa non è riuscita a trovare sul mercato i finanziamenti e Cassa Depositi e Prestiti ha detto che lo studio del traffico, con 33 mila veicoli al giorno, non stava in piedi e che era antecrisi. Sono stati rifatti gli studi del traffico, ricalibrati su 27 mila veicoli. A questo punto abbiamo cambiato ragionamento: si è passati da un modello in cui il concessionario guadagna in base ai pedaggi a in base ai flussi del traffico garantiti dalle Regioni, a un modello nuovo in cui il concessionario ha un canone annuale e la Regione incassa i pedaggi. Un modello nuovo che potrebbe essere esportato. Questa è la soluzione proposta, l’alternativa era fermare i lavori e riparlarne tra 10-15 anni, con tutti i contenziosi relativi».
Non bastava intervenire sui pedaggi?
«No, tanto che per arrivare ai 27 mila veicoli abbiamo dovuto anche togliere l’esenzione. Ma c’è un vantaggio: che il pedaggio viene abbassato per tutti, il 23% in meno».
Con gli eventuali guadagni legati ai pedaggi restituirete l’addizionale?
«La restituzione va in servizi. C’è una cosa da ricordare: in realtà questa strada sarebbe già stata completata da tempo».
In che senso? Cos’è successo?
«Nel ’98 c’era già il progetto, si chiamava Autostrada Pedemontana Veneta, c’era il ministero delle Infrastrutture con Nerio Nesi che lo seguiva. Erano previsti diversi svincoli e solo tre barriere; c’era una carreggiata con due corsie per ogni senso di marcia più l’emergenza ed era larga 25 metri. Il mondo ambientalista fece un assalto alla Conferenza dei servizi che si tenne a Castelfranco e protestò vivacemente perché non voleva l’autostrada. Il risultato? La Pedemontana com’è oggi, con i caselli a pagamento, una carreggiata di 24,5 metri e un limite di velocità a 110 anziché a 130. Abbiamo perso i caselli liberi, buttato via un progetto e c’è un’opera che deve essere ancora realizzata».
Parliamo di costi, lievitati.
«Si è detto che si è passati da 800 milioni a 2,2 miliardi: un’eresia. La verità è che è stato fatto il progetto esecutivo, ci sono 300 milioni di espropri e poi tutte le opere dei 35 Comuni che hanno dato il consenso negoziando le opere complementari. Nel piano economico si può leggere quanto costa l’infrastruttura e quanto costano tutte le opere. A pesare è poi il fatto che per circa il 50% del tracciato è in trincea, ci sono 32 gallerie. In ogni caso tutti costi sono documentati, se qualcuno ha notizie che noi non sappiamo, vada in Procura e non infanghi con insinuazioni».
Realisticamente che tempi ci sono?
«Se il consiglio dà corso ai provvedimenti portati, si firma l’accordo che ci permette tra l’altro di pagare gli espropriati entro 60 giorni. Loro hanno al massimo 8 mesi per fare il closing finanziario e trovare 1,1 miliardi. Nel 2018 apriamo il primo pezzo, nel 2021 l’opera è finita».
Lo stato di avanzamento?
«Circa il 30-40%, ma abbiamo fatto le opere più complicate: gallerie e scavi».
Ma presidente oggi lei la Pedemontana la rifarebbe?
«È una struttura chiesta dal territorio ed era nel programma di tutti i partiti. Grazie ad essa si ridurranno di 2/3 i tempi di percorrenza. Pensiamo alle aziende, certo, ma anche ai pendolari e alla sicurezza stradale: la Schiavonesca Marosticana è la seconda strada più pericolosa d’Italia».
La scelta del ministero dell'ambiente: la Laguna sembra salvata dalle manomissioni più pesanti, ma il turismo sregolato di massa continuerà a stravolgere la città storica. Il Sole24ore, 9 marzo 2017
È stato scelto il progetto del nuovo approdo cui far ormeggiare a Venezia le grandi navi da crociera: è il progetto Duferco alla bocca di porto del Lido, a fianco delle paratoie mobili del Mose contro l’acqua alta.
Mesi dopo l’approvazione data al progetto dalla commissione Via, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti ha firmato il decreto di approvazione ambientale del progetto e ha mandato il decreto al ministro dei Trasporti e infrastrutture, Graziano Delrio, per avviarne la procedura. Costo stimato (con un po’ di ottimismo), 127 milioni. Tempo di costruzione stimato (con un po’ di ottimismo), 2 anni e mezzo.
Inoltre, il ministro Galletti ha bocciato in via formale il progetto concorrente, il cosiddetto Sant’Angelo Contorta e varianti, che era stato proposto anni fa come progetto di riferimento indicato dal Governo e poi era stato modificato con un diverso tracciato dal Comune di Venezia. La questione riguarda le circa 600 grandi navi da crociera che ogni anno entrano in laguna, attraversano il centro città e ormeggiano alla stazione marittima. Quello è l’unico percorso possibile per il pescaggio delle grandi navi moderne attraverso il labirinto di canali che serpeggiano tra i bassifondi della laguna.
Il passaggio di questi colossi del mare è amatissimo dai viaggiatori a bordo e dalle compagnie di navigazione, ma per questioni di gigantismo è odiato da legioni di intellettuali, da coorti di foresti, da quasi tutti i turisti non crocieristi e da diversi abitanti di Venezia.
Nel 2012, Governo Monti, il ministro dello Sviluppo economico, trasporti e infrastrutture era Corrado Passera; quello dell’Ambiente era Corrado Clini. Insieme emanarono un decreto che vieta il passaggio di navi giganti lungo quel percorso, che viene tollerato finché non c’è un’alternativa, alternativa che viene però imposta.
L’Autorità del Porto presentò un progetto sponsorizzatissimo per lo scavo di un vasto passaggio attraverso i bassifondi della laguna per collegare la stazione marittima con il mare aperto attraverso la bocca di porto di Malamocco. Il Comune si aggregò con una variante: il canale avrebbe sfiorato il polo industriale di Marghera.
Un politico storico del Pd veneziano, Cesare De Piccoli, insieme con l’azienda siderurgica e ingegneristica Duferco propose invece un terminale nuovo al limite fra laguna e mare, fuori dalle dighe del Mose, da collegare con la stazione marittima con vaporini a basso impatto ambientale per far arrivare crocieristi e valigie.
Questi e altri progetti furono sottoposti al vaglio della commissione di Valutazione di impatto ambientale del ministero dell’Ambiente che promosse solamente il progetto Duferco.
Promozione e bocciature sono rimaste nel cassetto fino all’altro giorno, quando le acque sono state mosse dall’interrogazione parlamentare del senatore veneziano Felice Casson (Pd). Ieri Delrio ha detto che con i ministri Dario Franceschini (Beni culturali) e Galletti «stiamo studiando una soluzione a brevissimo per la regolazione delle crociere a Venezia».
Appena nominato presidente dell’Autorità portuale, il nuovo provveditore al porto Pino Musolino ieri ha espresso perplessità sul progetto approvato dal punto di vista ambientae. Ha detto che la Via è «un requisito di legge, ma è solo un parere sulla compatibilità ambientale, non dà valutazioni di merito. Quelle spettano al Cipe, ai comitati ministeriali, all’Autorità portuale».
«Proteste e reazioni negative alla proposta di sottoscrivere un contratto per 99 anni dell'atollo di Faafu per investimenti turistici. Una "città" per le élite mondiali. India fortemente contraria». la Repubblica online, 10 marzo 2017. con postilla.
L'annuncio di una possibile vendita all'Arabia Saudita di un grande atollo delle Maldive ha già provocato molte reazione negative, non solo nell'arcipelago ma anche sul fronte delle relazioni politiche internazionali. L'idea del re saudita, Salman, è quella di sottoscrivere un contratto di affitto per 99 anni dell'atollo di Faafu, composto da 18 isole, per investimenti turistici.
Nei progetti i sauditi, che hanno già ottenuto un pre-accordo con il presidente maldiviano Yameen, vorrebbero costruire sull'atollo "una città di prima classe" per le élite mondiali con servizi all'avanguardia, università, e ospedali. Le indiscrezioni su una possibile vendita di Faafu, dove abitano circa 6mila persone, sono bastate per scatenare le proteste dell'opposizione. "In altri tempi - ha affermato Ahmed Naseem, esponente del partito democratico maldiviano - vendere terra delle Maldive agli stranieri sarebbe stato considerato alto tradimento e punito con la pena di morte".
Ma quello che più preoccupa sull'arcipelago è il pericolo che Riad voglia usare i suoi investimenti per diffondere ancora di più alle Maldive la sua dottrina religiosa wahhabita, interpretazione molto conservatrice dell'Islam. Alle Maldive i sauditi già finanziano borse di studio e vorrebbero esportare insegnanti per le scuole islamiche locali. Il presidente maldiviano, che due anni fa ha fatto approvare un emendamento alla Costituzione per permettere agli stranieri di possedere terre sugli atolli, risponde che si tratta di esagerazioni. Per il presidente Yameen, l'Arabia Saudita sta solo cercando di diversificare i suoi investimenti per ridurre la dipendenza dal petrolio.
Ma nel nome di questa nuova alleanza con Riad, il governo delle Maldive è visto con sempre maggiore diffidenza dall'India e ha praticamente rotto le relazioni diplomatiche con l'Iran. Quest'ultimo è stato un favore a Riad che subito dopo la rottura dell'arcipelago con Teheran, nell'estate del 2016, ha concesso alle Maldive un prestito da 150 milioni di dollari per realizzare nuove infrastrutture, tra le quali c'è anche l'ammodernamento del principale aeroporto della capitale Malè. Alle Maldive l'Islam è religione di Stato ma lo scivolamento verso la versione più fondamentalista promossa dai sauditi preoccupa non soltanto i suoi vicini.
postilla
Lì, alle Maldive, protestano. Se invece i sauditi cambiassero idea e volessero impadronirsi delle isole veneziane dell'Idroscalo, Sant'Andrea e Vignole, che si stanno vendendo al miglior offerente, magari nel regno di Brugnaro troverebbero qualche mugugno e molti applausi.
Un altro passo per la trasformazione della città in un mosaico di recinti. All’asta per essere "valorizzati " le isole di Sant’Andrea e Vignole, e il vasto complesso dell'Idroscalo. Articoli di Francesco Bottazzo e Alberto Vitucci, Corriere del Veneto e La Nuova Venezia, 10 aprile 2017 (m.p.r.)
Corriere del Veneto
«PROGETTO VENEZIA»
di Francesco Bottazzo
Milano. Fino agli anni Novanta era il luogo dove gli operatori finanziari ci facevano le aste a chiamata, quella Borsa «gridata » che è ancora oggi nell’immaginario collettivo. E non è un caso se in questa stessa sala il governo ha «messo all’asta» la caserma Miraglia delle Vignole, un’isola della laguna veneziana: «E’ un luogo significativo e abbiamo bisogno di trovare investitori», ha spiegato il ministro della Difesa Roberta Pinotti. In realtà l’obiettivo è razionalizzare, ridurre la spesa e valorizzare tutta l’isola. Perché ancor oggi in alcuni edifici ci sono i Lagunari che verrebbero spostati alla caserma Bafile di Mira dove saranno concentrate tutte le funzioni, anche quelle della caserma Matter di Mestre.
«Il sindaco ha accettato il piano a patto che ci rimangano vicini», sorride il ministro. «I lagunari sono i nostri marines e hanno sulla loro divisa il leone di San Marco. Vorrei che con questo accordo le Forze armate si sentissero a casa a Venezia perché per noi la sicurezza è di straordinaria importanza », incalza Luigi Brugnaro. Gli schermi di Palazzo Mezzanotte trasmettono le immagini dell’isola, dell’idroscalo e di quel canale attorno al quale sono stati costruiti tutti gli edifici, alloggi, officine, padiglioni e cavana. Per capire quello che è stato denominato «Progetto Venezia» bastano pochi numeri e un po’ di storia: 197 mila metri quadrati sulla laguna, trenta costruzioni e un canale navigabile di 800 metri di lunghezza e trenta di larghezza (l’idroscalo) da una parte; centro di addestramento militare fin dal 1884, base di partenza degli idrovolanti e di Gabriele D’Annunzio per molte delle sue imprese dall’altra.
Resort e marina la nuova vita dell’isola (ma senza nuovi edifici, i volumi dovranno rimanere quelli di oggi) dopo la gara per la concessione di 50 anni che bandirà Difesa Servizi, la società del ministero che si farà assistere nel ruolo di advisor della Cassa Depositi e prestiti. «Ma sarà un percorso partecipato con una consultazione pubblica per raccogliere idee», precisa Fausto Recchia, amministratore delegato di Difesa Servizi spa. Poi al suono della campanella (l’avvio del bando previsto a giugno) bocce ferme e spazio agli investitori che saranno chiamati a pensare a un’operazione che sfiorerà i duecento milioni di euro. «Venezia può contare su 30 milioni di turisti all’anno, è il posto più sicuro al mondo, ed è molto collegato - riflette Aldo Mazzucco, amministratore delegato della Cdp - Su questi tre pilastri si svilupperà la ricerca di investitori, presumibilmente grandi società di resort che hanno intenzione di puntare su attività convegnistiche e aziende internazionali».
Anche grazie alla posizione privilegiata a dieci minuti dal canale della Giudecca e da una quindicina da Murano. La parola d’ordine e valorizzare: restituire alla fruibilità collettiva luoghi fino a ieri nascosti e chiusi perché occupati dai militari, e far risparmiare il ministero che con l’operazione Venezia riesce a mettere da parte 2,6 milioni di euro all’anno anche grazie alla «chiusura» della caserma Matter di Mestre (con il conseguente trasferimento delle attività a Mira) che verrà modernizzata e probabilmente utilizzata per uffici della Pubblica amministrazione (quali l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza) e case. Il protocollo firmato ieri dal sindaco, dai ministri (Difesa, Infrastrutture e Cultura) e dal Demanio è tra i principali esempi di recupero e «restituzione » al territorio e alle comunità locali di un’area militare di interesse storico-culturale. Il tavolo tecnico costituito subito dopo (e coordinato dal Comune) dovrà individuare le linee guida e le procedure più semplici per eventuali varianti urbanistiche e vigilare sul protocollo.
Gongola il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro quando il ministro ai Beni culturali Dario Franceschini parla di «collaborazioni pubblico-private, riqualificazione dell’esistente e di tutela del patrimonio storico e del paesaggio senza per questo voler dire no a tutto: anche la valorizzazione è una forma di tutela» sottolinea. È la linea su cui si sta muovendo il ministero anche sull’isola di Lazzaretto Vecchio («Stiamo pensando a come intervenire e rigenerare», spiega Franceschini) all’insegna di quello quello che rischia di sembrare uno slogan ma su cui scommette il collega delle Infrastrutture Graziano Delrio. «Venezia deve essere una città viva e abitata, la laguna deve vivere economicamente non solo di turisti». Oggi in mostra c’è la caserma Miraglia delle Vignole, ieri c’era l’isola d Poveglia (su cui l’allora solo imprenditore, e non ancora primo cittadino Luigi Brugnaro aveva previsto un centro per curare disturbi alimentari e un investimento di 40 milioni prima di naufragare sotto le proteste delle associazioni e il dietrofront del Demanio), domani tra gli altri anche gli isolotti (in portafoglio alla Cdp) di Sant’Angelo delle polveri e San Giacomo in Paludo. «Il tema vero del futuro sarà la velocità nel raggiungere gli obiettivi prefissati. La politica, se la vogliamo riformare, deve cambiare ritmo: deve essere meno di parte, più concreta e coraggiosa» sottolinea il sindaco.
La Nuova Venezia
“PROGGETTO VENEZIA”, ALBERGHI NELLE ISOLE
di Alberto Vitucci
«La cosiddetta valorizzazione dei beni demaniali si traduce spesso in una privatizzazione. Con una perdita del bene comune per la collettività».
Un albergo di lusso all’Idroscalo. Resort e casette per turisti nel cuore della laguna, nelle isole di Sant’Andrea e delle Vignole. È questo il destino imminente dei beni demaniali in laguna dopo la firma, avvenuta ieri a Milano del «Progetto Venezia», che riguarda la caserma Miraglia e il complesso dell’isola delle Vignole e di Sant’Andrea, per anni sede dei lagunari.
«Il testo approvato dal Senato, ora in discussione alla Camera, prevedeva che chi estrae dagli impianti nelle zone protette dovesse contribuire alle spese per il recupero ambientale». il Fatto Quotidiano, 10 marzo 2017 (p.d.)
A volte la toppa è peggio del buco: è capitato in commissione Ambiente, ieri, alla Camera. Si discuteva la proposta di riforma dei parchi nazionali e delle aree protette (non si è conclusa, si continuerà a fine marzo) e, tra i 700 emendamenti arrivati e la fretta di chiudere una vicenda che va avanti da anni, è saltato proprio uno dei punti contestati dagli ambientalisti. Paradossalmente, però, si è trasformato in un regalo a petrolieri e impianti d’energia.
«Un puntuale confronto tra la delibera del 2014 e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As Roma». Il Fatto Quotidiano online, 9 marzo 2017 (c.m.c.)
Come cambia il progetto dopo l'intesa tra la giunta M5S e la società giallorossa? Ecco un confronto tra la delibera del 2014 e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As Roma. La prima prevedeva 16 treni/ora con il prolungamento della metro B e aumento dell'offerta sulla Roma-Lido. Ora, stando alle dichiarazioni della sindaca, la Roma realizzerà la nuova stazione Tor di Valle e un paio di treni nuovi, ma nulla più. Così dovrà intervenire la Regione, che ha già finanziato per 180 milioni il restyling della linea. Il Ponte di Traiano, in origine a carico dei privati, verrà costruito con 140 milioni già stanziati dal Cipe per il Ponte dei Congressi .
Un fine accordo politico o un regalo ai costruttori? La partita dello stadio della Roma è tutt’altro che chiusa. Virginia Raggi, dopo l’intesa di massima raggiunta con i vertici della società giallorossa e dell’Eurnova Spa di Luca Parnasi, dovrà lavorare per il prossimo mese per trasformare il procedente progetto in un piano compatibile con la visione politica del M5S e sostenibile dal punto di vista dei trasporti e dei servizi alla città.
La sindaca oggi è stretta fra due fuochi: da una parte i sostenitori del vecchio progetto, con a capo l’ex primo cittadino Ignazio Marino, che le rinfacciano di aver sacrificato opere pubbliche fondamentali per recuperare cubature verticali (le famose torri di Libeskind) che non consumano suolo; dall’altra, gli oltranzisti del M5S, che avrebbero voluto l’annullamento completo della delibera-stadio e la proposta di un nuovo sito (Pietralata o Tor Vergata), continuando a considerare il nuovo accordo una “mera speculazione edilizia”. Il Fatto Quotidiano.it ha passato al setaccio la delibera di Marino e la bozza di accordo raggiunto fra Raggi e l’As – confermata in più punti dal vicepresidente della commissione capitolina Mobilità, Pietro Calabrese – confrontando punto per punto il “prima” e il “dopo”, tenendo sempre presente che si tratta di un piano informale ancora suscettibile di modifiche.
Impianti sportivi
Delibera Marino – Partiamo dalla parte sportiva, quella essenziale. Nella delibera del 2014 si prevede lo stadio vero e proprio da 60.218 posti, con il campo da calcio e l’area sottostante per i servizi (uffici, reception, sala conferenze, ecc). L’impianto è previsto al posto dell’attuale ippodromo, la cui tribuna, realizzata dall’architetto Julio Lafuente nel 1959, è interessata da un’istruttoria di vincolo da parte del Ministero Beni Culturali. Di fianco, c’e’ la cosiddetta Nuova Trigoria, con i campi di allenamento, la Hall of Fame giallorossa e altri servizi utili alla società. Quindi, tutte le opere a supporto, come la connettività interna, i parcheggi pubblici in standard Coni e gli altri servizi minimi come fognature ed elettrodotti.
Bozza accordo Raggi – La modifica più importante potrebbe riguardare il numero dei posti a sedere, che scenderebbero a quota 55.000: lo Juventus Stadium ne conta 41.507. Basteranno? Quest’anno la Roma ha fatto registrare appena 18.000 abbonati, contro i 23.000 della stagione 2015/2016 e i 26.000 del campionato 2014/2015, numeri però “drogati” dalla contestazione anti-barriere all’Olimpico. Seppure siano lontani i tempi del record dei 48.687 nell’annata 2002/2003, una squadra molto competitiva e un impianto accogliente potrebbero spingere tranquillamente il numero dei tesserati oltre quota 30.000. Inalterato il progetto della Nuova Trigoria con i campi e il museo. Prevista anche una contestuale lieve riduzione dei parcheggi. Lo stadio non dovrebbe essere spostato rispetto al progetto precedente.
Business park e commerciale
Delibera Marino – La parte più controversa di tutta la vicenda. Come si evince dalla cronologia della delibera 132/2014, il carico di cubature verticali fu proposto dalla giunta Marino alla Eurnova Spa per aumentare le opere civili da realizzare a suo carico e giustificare l’interesse pubblico dell’opera. Da questo presupposto nascevano le tre torri disegnate dall’archistar Daniel Libeskind, alte 100 metri e “ispirate a Piranesi”, le quali andavano a comporre una parte dei 336.000 mq (contro i 49.000 mq della parte sportiva) destinati ad un’area commerciale situata a nord dell’impianto.
Bozza accordo Raggi – Come noto, le torri di Libeskind sono state cancellate di netto dal progetto. Questo ha permesso alla giunta Raggi di recuperare il 50% delle cubature totali, il 60% se consideriamo solo l’area business. Di gran lunga inferiore il risparmio sul consumo del suolo, dato che al posto delle torri dovrebbero essere realizzati tre edifici da massimo 10 piani, in linea con la definizione di “skyline” vigente nella Capitale, che non vuole strutture più alte della Cupola di San Pietro. Il taglio, comunque sia, dovrebbe permettere al progetto di rientrare nel limite di edificazione di 300.000 mq previsto dal piano regolatore generale per l’area di Tor di Valle, considerando che anche i parcheggi e gli altri servizi (non dovendo servire più grattacieli da decine di piani) saranno ridimensionati.
Trasporto su ferro
Delibera Marino – Previsto il potenziamento dell’offerta di trasporto pubblico su ferro a servizio dell’area di Tor di Valle e della città con frequenza di 16 treni/ora nelle fasce orarie di punta, attraverso il prolungamento della linea B della Metro fino a Tor di Valle – costo stimato di 50,45 milioni di euro – e contestuale potenziamento della ferrovia Roma-Lido, “prevedendo tutti gli interventi di ammodernamento e di attrezzaggio necessari al raggiungimento del livello di esercizio di cui sopra”, con l’adeguamento della nuova stazione di Tor di Valle e la realizzazione di un collegamento ciclo-pedonale con la stazione ferroviaria di Magliana sulla linea FL1 (costo stimato di 7,5 milioni di euro). Da valutare, in una fase successiva, anche un ulteriore prolungamento della Metro B fino alla stazione della FL1 di Muratella.
Bozza accordo Raggi – Salta completamente il prolungamento della linea B: ciò vuol dire che per raggiungere lo stadio in metropolitana bisognerà scendere a Piramide e poi prendere la Roma-Lido. Il trenino per Ostia ora è il vero nodo. Stando alle dichiarazioni congiunte Raggi-Baldissoni, la Roma assicurerà la realizzazione della nuova stazione Tor di Valle e un paio di treni nuovi. Non molto. La Roma-Lido è la peggiore tratta pendolari d’Italia (dati Legambiente) e dovrà portare 30mila persone allo stadio. Di vitale importanza, a questo punto, diventa il progetto della Regione Lazio che ha già finanziato per 180 milioni il completo restyling della linea: il piano esecutivo, non collegato al progetto-stadio, sarebbe dovuto partire a maggio con un bando di gara, ma pesa sulla vicenda il ricorso della società francese Ratp, che si è vista bocciare il project financing in conferenza dei servizi. Dall’entourage di Nicola Zingaretti assicurano di essere in grado di alzare la frequenza fino 12 treni/ora (uno ogni 5 minuti). “Il primo stanziamento di 180 milioni per trasformare la Roma Lido in metro di superficie – spiega Calabrese – opera su cui vigileremo con la massima attenzione, fa parte di un programma più ampio che arriva fino a 400 milioni e che modernizzerà la linea per chi va allo stadio, ma soprattutto per i 300mila romani che vivono nel X Municipio”. Allo stato attuale, tra l’altro, non risulta compreso nell’accordo il collegamento ciclopedonale con la stazione ferroviaria di Magliana, che a sua volta serve il treno regionale per l’aeroporto di Fiumicino (difficile da potenziare): un’opera poco costosa – appena 7,5 milioni – ma fondamentale, che però non dovrebbe avere difficoltà ad essere reinserita. “Il ponte ciclopedonale rimane – assicura ancora il consigliere M5S – come rimangono tutte le altre realizzazioni minori, e le clausole, fra cui il completamento delle opere pubbliche prima delle private, così come peraltro previsto per legge”.
Viabilità stradale
Delibera Marino – La giunta di centrosinistra aveva imposto ai privati l’adeguamento di Via Ostiense e Via del Mare – le due strade sono parallele e adiacenti – fino al raccordo con il GRA, per un costo stimato di 38,6 milioni, più interventi per la messa in sicurezza nel tratto urbano fino al nodo di Marconi. Inoltre, si pretendeva la realizzazione di un nuovo tratto di raccordo tra l’autostrada Roma-Fiumicino (viadotto della Magliana) e Via Ostiense/Via del Mare, con un nuovo ponte sul Tevere (cosiddetto Ponte di Traiano), compreso lo svincolo di connessione con la Roma-Fiumicino, costo stimato di 93,7 milioni di euro. Il nuovo ponte sarebbe andato ad aggiungersi al Ponte dei Congressi, distante un paio di chilometri e già finanziato dal Cipe per 140 milioni di euro.
Bozza accordo Raggi – Resta sicuramente l’adeguamento di Via Ostiense e Via del Mare, pare però solo fino alla zona dello stadio: è possibile che il Comune debba addossarsi il costo dei restanti 2 km. Ipotesi rigettata da Calabrese: “L’adeguamento delle vie del Mare/Ostiense, che nella delibera Marino era previsto dal Gra solo fino a Tor di Valle, è stato esteso al nodo Marconi”. Per quanto riguarda i collegamenti con l’altra riva del Tevere, non è stato nominato nelle priorità lo svincolo del viadotto della Magliana. Ciò vuol dire che toccherà alla parte pubblica accollarselo. Il Comune di Roma ha intenzione chiedere al Cipe di rinunciare ai 140 milioni stanzianti per il Ponte dei Congressi – che ha ricevuto parere favorevole, ma che deve essere quasi riprogettato per via delle numerose prescrizioni – e di destinare quei fondi al Ponte di Traiano, il cui progetto verrebbe “regalato” dalla Roma. “In base a varie simulazioni sui flussi – spiega il consigliere – verrà realizzato un solo ponte sul Tevere. Abbiamo già appurato che con le economie sul ponte dei Congressi si potranno realizzare altre opere per rendere adeguato il sistema della mobilità pubblica su ferro nella stessa area”. Il problema è che l’opera finirebbe nella cosiddetta “Fase 2” a cui ha accennato Virginia Raggi, non vincolata al primo calcio d’inizio nel nuovo impianto.
Collegamento fluviale
Delibera Marino – Nella previsione di rendere il Tevere navigabile, la giunta Marino aveva chiesto alla Roma di prevedere anche la realizzazione di due attracchi per imbarcazioni fluviali gestite da un’azienda comunale, uno a servizio del nuovo Parco Fluviale e uno a servizio dello stadio.
Bozza accordo Raggi – L’approdo fluviale è stato stralciato dal nuovo accordo, anche in relazione alle controindicazioni poste dall’Autorità di Bacino del Tevere.
Parco del Tevere
Delibera Marino – La delibera 132 impone alla Roma di realizzare un “landscape plan” per “tutti i 34 ettari di parco che circondano l’area e si affacciano sul Fiume Tevere”. L’idea è di creare un parco fluviale con un importante sistema di videosorveglianza a copertura di tutta l’area.
Bozza accordo Raggi – Il progetto del parco fluviale è stato confermato ma il Comune di Roma, se lo riterrà necessario, dovrà provvedere autonomamente alla videosorveglianza.
Rischio idraulico
Delibera Marino – La delibera prevede un investimento di 5 milioni per la messa in sicurezza idraulica del Fosso di Vallerano e il consolidamento dell’argine del Tevere nei pressi della confluenza del fosso. L’opera è fondamentale perché oggi l’area dove dovrebbe sorgere lo stadio fa da “bacino” per le acque piovane e di esondazione del fiume, le quali altrimenti provocherebbero l’alluvione del quartiere di Decima.
Bozza accordo Raggi – L’opera è stata confermata e messa in cima alle priorità del nuovo patto.
Rischio idrogeologico
Delibera Marino – Negli atti ufficiali approvati in Campidoglio non c’e’ traccia di alcun rischio idrogeologico inerente i terreni dove sono previsti lo stadio e il business park.
Bozza accordo Raggi – Durante la conferenza dei servizi in Regione Lazio, le associazioni ambientaliste hanno più volte fatto presente il rischio di tenuta degli edifici previsti rispetto a un’area alluvionale nell’ansa del Tevere. Un rischio, tuttavia, mai certificato da alcuna prescrizione tecnica in merito. L’argomento era stato ripreso, in parte, dal leader del M5S, Beppe Grillo, che nelle ore immediatamente precedenti all’accordo aveva anche ipotizzato uno spostamento del progetto stadio da Tor di Valle. Comunque sia, lo stralcio delle torri di Libeskind ha mitigato anche i timori dei più “diffidenti”.
Ecocompatibilità edilzia
Delibera Marino – All’ultimo punto delle prescrizioni contenute in delibera, si afferma testualmente che “per tutte le opere relative al progetto di realizzazione dello stadio e del complesso edilizio ad esso connesso, è obbligatoria l’adozione di materiali da costruzione ecocompatibili e di tecnologie, le più avanzate messe a disposizione dalla ricerca scientifica, per l’ottenimento del massimo dell’efficienza e risparmio energetico, con il ricorso alle fonti rinnovabili e agli apparati tecnologici di ultima generazione”.
Bozza accordo Raggi – Il concetto è stato confermato e ribadito da Virginia Raggi a margine del nuovo accordo. “Stiamo trattando per ottenere tutti gli edifici in categoria Casa Clima A – conferma Calabrese – spazi aperti con standard qualitativi massimi, e in convenzione sarà fondamentale stabilire i criteri progettuali propri dell’architettura bioclimatica e della permacultura”.
Proprietà dello stadio
Delibera Marino – Come noto, l’impianto non sarà di proprietà dell’As Roma Spa, ma di una società chiamata Stadio Tdv Spa, partecipata As Roma SPV LLC – con sede nel Delaware (Usa), partecipata da James Pallotta, Michael Ruane, Thomas Dibenedetto e Richard d’Amore – e dall’Eurnova Spa di Luca Parnasi. L’ “utilizzo” – quindi non la “gestione” – dell’impianto, tuttavia, è concesso “in modo prevalente per la durata di anni 30 alla AS Roma S.p.A.” seppur “opponibile a terzi in caso di vendita”. Si precisa che “l’impianto sportivo dovrà essere sine die vincolato a tale destinazione, garantendo la strumentalità” e che “i suddetti accordi e impegni dovranno essere formalizzati prima della stipula della convenzione urbanistica che ne dovrà dare atto”. Una nota del 2014 di Mark Pannes, Ceo della Stadio Tdv, ha precisato ulteriormente che vi sarà “il riconoscimento di un diritto di prelazione in favore della Società sportiva in caso di trasferimento dello Stadio e la partecipazione della As Roma S.p.A. agli utili generati dall’impianto”.
Bozza accordo Raggi – L’argomento non è stato ufficialmente trattato, ma è possibile che si chieda a James Pallotta e ai suoi di fornire maggiori rassicurazioni alla società sportiva e ai tifosi giallorossi circa il futuro dell’impianto e, magari, di aumentare ulteriormente il periodo di tempo di “utilizzo prevalente”.
Consuntivo costi pubblico/ privato
Costo privato - L’investimento iniziale su tutto progetto-stadio da parte della Roma era di circa 1 miliardo e 657 milioni di euro totali, ma con tutte le modifiche ipotizzate il costo dovrebbe scendere a quota 700 milioni. La Roma risparmierà circa 600 milioni di euro sui 626 milioni previsti per la costruzione delle torri di Libeskind, questo perché restano comunque gli edifici bassi e l’albergo. Inoltre salteranno tutta una serie di opere, fra cui quelle più costose sono il ponte carrabile (42 milioni), lo svincolo autostradale (47 milioni) e il prolungamento della linea B (54 milioni di euro). Andranno quindi ricalibrate le opere standard, come i parcheggi, facendo scendere il conto dai 154 milioni iniziali ai circa 100-110 milioni del nuovo accordo. Da limare al ribasso anche i costi sulle opere confermate (stazione Tor di Valle, Via del Mare/Ostiense) e da scorporare le opere minori (sottopassaggio, videosorveglianza, pontili sul Tevere).
Costo pubblico - Come detto, la Regione Lazio si occuperà dell’efficientamento della Roma-Lido (180 milioni) mentre il Cipe, se accoglierà la richiesta del Comune, finanzierà con 140 milioni – già comunque destinati al Ponte dei Congressi – lo svincolo sulla Roma-Fiumicino con contestuale Ponte di Traiano. Va ribadito che si tratta di opere che sarebbero state realizzate comunque. Non è ancora chiaro se il Campidoglio dovrà sborsare i 7,5 milioni per il ponte ciclopedonale che collega alla stazione Magliana della ferrovia regionale (opera comunque importante). Salvo quest’ultima voce, il Comune potrebbe non essere costretto a flussi di cassa in uscita, sebbene si debbano registrare i mancati introiti per alcune decine di milioni di euro derivanti dagli oneri concessori che la Roma avrebbe pagato per realizzare i grattacieli.
Tempistiche e iter burocratico
Delibera Marino – Con l’ok definitivo della Conferenza dei Servizi, la Roma sperava di poter dare giocare la prima partita nel nuovo stadio nell’estate del 2019. Soprattutto, la delibera voluta da Ignazio Marino e Giovanni Caudo vincolava il primo calcio d’inizio al completamento di tutte le opere di servizio previste, al fine di evitare quanto accaduto nella Capitale negli anni precedenti, ovvero l’edificazione privata senza le collegate opere di urbanizzazione.
Bozza accordo Raggi - Entro fine marzo il proponente dovrà presentare un secondo progetto, che dovrà passare in Assemblea Capitolina affinché venga approvato di nuovo l’interesse pubblico (il dibattito nella maggioranza M5S e’ molto serrato). A quel punto, si tornerà in conferenza dei servizi il 5 aprile, in Regione Lazio, dove c’e’ il rischio di dover ricominciare da capo, analizzando soprattutto la questione trasporti e viabilità. Difficile che si possa far scendere in campo i giallorossi per una gara ufficiale prima del 2020. Non solo. Le opere finanziate da parte pubblica, come la Roma-Lido e il ponte sul Tevere, saranno slegate dal progetto-stadio: sulla prima vige il classico “cauto ottimismo”, nonostante incomba il ricorso della Ratp che potrebbe rallentare l’iter, mentre sulla seconda i tempi potrebbero allungarsi a dismisura, tanto da portare Virginia Raggi a inserire l’opera nella cosiddetta “seconda fase”.
«Spazi urbani. Un’intervista a Neil Brenner, autore del volume "Stato, spazio, urbanizzazione". Il nazionalismo economico nutrito da xenofobia e populismo come risposta allo tsunami della crisi. Oggi l'intervento del teorico statunitense all'Università di Roma 3». il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)
Il libro sarà presentato oggi al Dipartimento di architettura – Ex Mattatoio – Aula Libera dell’Università Roma 3 (ore 16, Largo Giovanni Battista Marzi 10). L’intervista che segue si è costruita con diversi momenti e incontri. Dallo scambio estemporaneo su Internet alle pazienti spiegazioni e chiarimenti dell’autore.
Con la svolta neoliberale, le metropoli diventano le piattaforme produttiva che non distingue più tra vita e lavoro. È nelle città che sono governati i flussi di capitale, conoscenza, uomini e donne. La finanza diviene inoltre centrale nella ristrutturazione urbana. Non come rendita, ma come momento di governo del regime di accumulazione. Alcuni studiosi hanno scritto espressamente che, con il neoliberismo, l’uso capitalistico del territorio raggiunge il suo acme. Cosa pensa di questa tendenza?
Con la crisi del 2007, assistiamo a uno tsunami a livello globale. La città, nuovamente, è il luogo dove si manifesta. E se ci sono studiosi che parlano dell’esistenza di metropoli globali come piattaforme dell’economia mondiale, altri focalizzano l’attenzione sul «pianeta degli slums». Più prosaicamente assistiamo alla crescita di nuove metropoli e al declino di altre…. ?
«Questo processo di distruzione dello spazio pubblico sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a "servitù automatizzata", dell’istruzione ad "addestramento tecnologico", della democrazia a "partecipazione controllata"». La Città invisibile, 4 marzo 2017 (c.m.c.)
«Ogni cinque giorni la popolazione urbana nelle città del mondo aumenta di un milione», ci avvertono i tecno-ecolocrati, con la gravità di chi sta pronunciando una sentenza di condanna e con la sicurezza di chi sta riconoscendo un’inesorabile legge della storia.
Sullo sfondo di questa neutra minaccia, come uno scenario naturale, c’è la compiuta attualizzazione di ciò che J.C. Michéa ha chiamato la distruzione delle città in tempo di pace: l’ipertrofia globale del sistema suburbano, la trasformazione dello spazio cittadino in un’alternanza delirante di tristi periferie, quartieri residenziali «senza misura», capannoni e centri commerciali come templi per la terapia del consumo al dettaglio, snodi e svincoli stradali per movimentare l’irrinunciabile traffico automobilistico, con l’opzionale coreografia di centri storici trasformati in vetrine hi-tech e “parchi giochi” per turisti, videosorvegliati come prigioni a cielo aperto.
In tutto ciò si mettono in opera inedite contrazioni e convergenze, così che non è più possibile distinguere tra i tanti termini in circolazione: tecnopoli, megalopoli, conurbazione, etc. La “città globale” cresce con il “pianeta urbano”, la metà dell’umanità che consuma oltre l’ottanta per cento delle risorse energetiche e che abita agglomerati tenuti insieme per mezzo di dispositivi di mobilità e interconnessione, delocalizzazione e rilocalizzazione, decomposizione dei quartieri e riorganizzazione delle relazioni spaziali dietro le spinte dello “sviluppo” economico e del mercato della “sicurezza”.
Questo processo di distruzione dello spazio pubblico e la conseguente giustapposizione cumulativa di ambienti privatizzati e flussi sorvegliati, sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a «servitù automatizzata», dell’istruzione ad «addestramento tecnologico», della democrazia a «partecipazione controllata», dei servizi pubblici a «servizi d’interesse generale», insomma a tutte le componenti attive della guerra condotta dal modo di produzione dell’economia politica contro l’uomo, le sue attività pratiche, la sua ragione socializzata, il suo “mondo comune” come spazio di permanenza e di azione, che nasce proprio nella culla della città e che vi trova la sua naturale protezione.
Ma se questa guerra ha trovato fino a tempi recenti una sua espressione primaria nella ricorrente modificazione strategica dell’ambiente architettonico urbano, negli smembramenti e nelle compartimentazioni che organizzavano e delimitavano le aree di pertinenza e di appartenenza delle diverse classi sociali, oggi, sotto il vessillo della scarsità delle risorse e dell’emergenza ambientale, la Banca mondiale e i connessi “organismi internazionali” sperimentano nuovi modi d’intervento centrati in modo privilegiato sulle metropoli cosiddette “emergenti”, per farne dei modelli operativi a vocazione universale.
Com’è attestato con chiarezza dalla “crisi” in corso, l’effettivo movimento socio-tecno-economico – di persone, cose, dati, denaro, petrolio, acqua, elettroni, etc. – sul quale si basa il meccanismo d’incessante modificazione-perpetuazione del modo di produzione, si avvale oggi di una massa di popolazione largamente inferiore a quella che abita l’intero pianeta.
Ci sono dunque città “utili”, e città che non lo sono. Le prime sono quelle maggiormente suscettibili di “attirare gli investitori”, innanzitutto perché offrono infrastrutture come strade scorrevoli, aeroporti, servizi di “interesse generale” e di “alta qualità” (alias con elevato grado di automazione e interconnessione digitale); hanno almeno un’università in grado di mettere a disposizione esperti nei settori chiave delle tecnologie integrate al modo di produzione, in particolare nel campo dei “big data”, dei “sistemi distribuiti”, del “data intelligence”, dell’erogazione di “servizi smart”, e via innovando; inoltre garantiscono produttività, mobilità e adattabilità al cambiamento della mano d’opera; sono in grado di migliorare la “raccolta di risorse” interrompendo i “cicli di dipendenza”, ad esempio smettendo di sovvenzionare l’abitazione e i servizi urbani per abbandonarli eventualmente al mercato privato; assicurano garanzie di “pace sociale” dando prova di una governance efficace nella gestione della messa in scena della partecipazione; infine, ma è un aspetto primario, sono provviste di un grado sufficiente di “eco-sostenibilità”, soprattutto sul piano energetico.
I conglomerati urbani o suburbani in grado di garantire in misura sufficiente tali caratteristiche sono detti «città intelligenti» o, nell’imperante gergo anglico, smart cities (dove l’aggettivo smart risuona anche di altri significati tra cui “alla moda”, “abile”, “malizioso”). Le dieci grandi città attualmente classificate le più “intelligenti” del pianeta sono Copenaghen, Tel Aviv, Singapore, New York, Barcellona, Oslo, Londra, San Francisco, Berlino, Vancouver. Ma molte altre ambiscono a questo marchio. E così Seul prepara un piano di “crescita verde”. Abu Dhabi ha avviato da alcuni anni un progetto di città satellite sostenibile ad emissioni zero, Masdar City, in grado di accogliere cinquantamila residenti e altrettanti pendolari le cui condizioni di vita, logistiche e ambientali, siano monitorate e regolate nei minimi dettagli. Al momento appare però un deserto in mezzo al deserto, animato solo dall’onnipresente ronzio di un’enorme torre del vento per il condizionamento dell’aria, un nonluogo già costato quasi venti miliardi di dollari ma frequentato solo dagli addetti alla sicurezza e alle pulizie.
Già da qualche anno, la proverbiale filantropia internazionale dell’Ibm (nota ad esempio per la fornitura di macchinari e assistenza tecnica necessari ad “automatizzare” la gestione dei campi di sterminio nazisti) ha avviato la Smarter Cities Challenge, una selezione tra varie città in tutto il mondo, sulla base della solerzia dei loro amministratori nel volersi consegnare alla tecnocrazia di “ultima generazione”, per irrorarle di esperti, innovazione tecnologica e sovvenzioni al fine di renderle, appunto, smarter.
Tra queste, Birmingham, che sta cercando di riconvertire il proprio centro storico in un paradiso del commercio digitale a banda larga ultraveloce; e Siracusa, che dovrebbe cercare di «conciliare tecnicamente le diverse anime del territorio»: industria petrolchimica e turismo di qualità. E, curiosamente, anche Accra, la città del Ghana nota per un suo suburbio che “accoglie” ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici dall’occidente, che poi vengono bruciati dagli abitanti per ricavarne metalli rivendibili. Si dà il caso che recentemente vi sia stato scoperto anche un consistente giacimento di petrolio.
Così, solo le “città intelligenti” – adattabili ai sempre nuovi scenari globali perché “messe in forma” con i principi dello “sviluppo sostenibile” – potranno restare “competitive” ed eventualmente sopravvivere alle diverse catastrofi che la crescita incessante della popolazione mondiale urbanizzata insieme alla crescente scarsità o deperibilità delle risorse (acqua, energia, etc.) ci promettono. E parrebbe precisamente questo il loro scopo. In tutto ciò s’intravede poi anche un elemento di circolarità, un mulinello che si avvita su se stesso, e che esprime eloquentemente il tipo di “dinamica” che sostiene oggi il sistema socio-tecnoeconomico.
È evidente, infatti, che la possibilità di accedere allo status “smart” sarà tanto maggiore quanto più le condizioni di partenza sono “vergini”, cioè quanto più radicalmente la tradizionale dimensione urbana – che in questo contesto non può rappresentare altro se non un inutile ostacolo alla “modernizzazione” – sarà stata smembrata e annientata, e la maniera più efficace per raggiungere in tempi brevi condizioni di questo tipo, a meno di non progettare una “città” da zero, è evidentemente quella di passare attraverso una “catastrofe”, ad esempio un disastro naturale come un forte terremoto o una devastate inondazione, oppure un disastro di natura tecnologica, ad esempio nucleare, o ancora un bombardamento o una guerra civile, con le connesse condizioni di paralisi e di trauma psichico collettivo che in questi casi investono la popolazione sopravvissuta per lungo tempo, mettendola nelle condizioni “ottimali” di poter accettare l’inaccettabile.
Gli esempi si moltiplicano. Gli abitanti di New Orleans, sparpagliati e deportati anche in Stati lontani, dopo che alcuni anni fa l’uragano Katrina aveva colpito la loro città, hanno scoperto che le loro case, le loro strutture pubbliche, gli ospedali e le scuole, non sarebbero mai state riaperte o ricostruite. A loro posto, si sta ri-pianificando una nuova città intelligente, un paesaggio “verde” e “neutro”, in cui l’ingegneria sociale, coadiuvata dagli esperti dell’Ibm, si cimenta nella gestione controllata di tutti i “parametri vitali”: la circolazione, il consumo energetico, l’inquinamento, la “comunicazione”, la “salute dei cittadini”, etc. Un destino simile è ampiamente prevedibile per la regione di Fukushima, in Giappone, dove, tra le altre cose, la bioingegneria è già al lavoro per mettere a punto nuove specie di riso in grado di crescere in terreni impregnati di radioattività.
Più vicino a noi, l’occasione per fare “prove di smart city” arriva dalla città-non-più-città dell’Aquila, dopo la completa disgregazione del tessuto sociale e lo spopolamento del territorio che hanno seguito il devastante terremoto del 6 aprile 2009. Il progetto, avviato nel 2012 dall’Ocse e sostenuto dallo Stato italiano, prevede la trasformazione dell’Aquila in un «laboratorio vivente», dove «sistemi energetici intelligenti», «moderne tecnologie edilizie» e «nuovi materiali» possano essere usati per «la progettazione di nuovi luoghi di vita» e per «celebrare e valorizzare la storia della città»; in cui «possono essere creati luoghi di lavoro moderni, creativi e flessibili, che siano adatti a nuovi modelli di business», così che «tutti gli spazi e i luoghi nuovamente progettati e ricostruiti diventerebbero delle vetrine volte a dimostrare l’applicazione inequivocabile di queste innovazioni, e, in quanto tali, diventerebbero parte integrante dell’offerta turistica, parallelamente ai beni ambientali, culturali e storici già esistenti».
Società come Ibm, TechnoLab e Telecom sono operativamente coinvolte nell’esperimento, che tra l’altro ha già trovato due gemellaggi “intelligenti” nelle città di Lorca in Spagna, anch’essa vittima di un violento terremoto nel maggio del 2011, e di Mostar in Bosnia, simbolo della guerra civile nella ex-Jugoslavia. Le amministrazioni delle tre città hanno sottoscritto «un patto di amicizia volto a condividere un programma di ricostruzione basato su modelli ecocompatibili, all’insegna del risparmio energetico, della mobilità sostenibile e della sicurezza». Gli esiti a medio termine dell’esperimento aquilano sono per altro tristemente immaginabili: una vetrina di facciate pseudo-antiche, falsificate e rese “sensibili” dal maquillage nanotecnologico, dietro le quali c’è solo la città invisibile del turismo affaristico e del controllo sociale. I “cittadini”, ovunque risiedano, restano altrove, dissolti in uno spazio senza storia.
Peraltro, laddove ve ne siano le condizioni e le risorse, questi esperimenti a cielo aperto per testare le “nuove tecnologie” nella gestione della sopravvivenza possono essere fatti anche su un terreno integralmente vergine, in cui gli abitanti umani sono solo virtuali. E anche qui la storia si ripete, seppure con mutevoli sembianze: il 5 maggio 1955, una bomba atomica da 31 chilotoni (circa il doppio di quella sganciata dieci anni prima sulla città vivente di Hiroshima) fu fatta esplodere su Survival City, una città fantasma costruita appositamente dall’esercito degli Stati Uniti nel deserto del Nevada e completamente equipaggiata di abitanti-manichini, derrate alimentari, acqua corrente ed elettricità, e con telecamere installate in posizioni strategiche per registrare i dettagli dell’esplosione. Tra gli obiettivi dell’esperimento, la messa a punto dei parametri di costruzione dei rifugi antiatomici.
Oggi, la società privata Pegasus Global Holdings, sta progettando un’altra città fantasma nello stato del New Mexico, chiamata The Center for Innovation, Testing and Evaluation, allo scopo di testare il grado di penetrazione e di efficacia dell’innovazione tecnologica integrata – la convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive – nella gestione di una “città ideale”, inserita in un contesto di emergenza socio-ambientale permanente e totalmente depurata dalle scorie della storia. La presenza di abitanti in carne ed ossa, in questo caso, non è prevista, non perché verrebbero inceneriti da un’esplosione, ma perché non sono, letteralmente, necessari a definire il “contesto urbano”.
In una “città ideale” come questa, infatti, e in misura progressiva anche nelle città dove è in corso un processo di riconversione come quelli sopra descritti, la “gestione sociale” non avverrebbe più per mezzo dei dispositivi “classici” di inclusione-esclusione (partecipazione rappresentativa, organizzazione architettonica, polizie pubbliche e private, videosorveglianza, etc.) ma giungerebbe soprattutto dalla completa smaterializzazione dello spazio pubblico: un luogo esiste solo in quanto è provvisto di coordinate geografiche e di un’identità anagrafica digitale, divenendo così una location (le coordinate geografiche creano la connessione tra lo spazio fisico e il suo corrispondente digitale anagrafico) e così l’intero spazio fisico esiste solo in quanto è posto in corrispondenza con un’infrastruttura invisibile che ne determina in modo univoco le caratteristiche e l’agibilità controllata.
Chi è privato della possibilità di stabilire una “connessione” con tale infrastruttura, non “esiste” e, viceversa, tutto quanto lo circonda si riduce a una spettrale città fantasma.
Per riprendere il luminoso pensiero degli impiegati del progresso e sacerdoti della servitù volontaria citati in apertura:
«questi meccanismi di base aprono scenari di innovazione e creatività immensi», visto che «stabilita la connessione, lo smartphone mette a portata di un clic, o meglio di un touch, il “contesto” che riguarda il luogo in cui ci troviamo, lo spessore dell’identità anagrafica di quel luogo, fatto di informazioni, foto, video, recensioni, commenti, dati e creando la possibilità di interazione sociale “connessa” a quel luogo. Questo grazie ai metadati di georeferenziazione delle informazioni […] geolocalizzarsi è la chiave di accesso al contesto che ti circonda».
La fine della città e dello spazio pubblico che essa protegge porta con sé anche la fine della ragione, mettendo a nudo una volta di più che, come ha scritto Hannah Arendt in una lettera a Karl Jaspers nel 1946: «si tenta in modo organizzato di sterminare la nozione di essere umano».