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Un vero gioiello ecosostenibile. Tutti possono goderne: basta pagare 15mila euro per una settimana di relax: solo un decimo del vostro salario, se guadagnate almeno 140 milioni di euro all'anno. Tutti gli altri fuori: vedano con Google earth. la Repubblica online, 26 aprile 2017

La nuova vita di Santa Cristina, isolotto che uno dei discendenti della famiglia Swarowski ha trasformato in un eden di lusso e sostenibilità. Un ritiro che ospita fino a 16 persone, da affittare per intero, a un prezzo accessibile per un gruppo. Per gustare la città dei dogi in una prospettiva slow

Dove la natura incontra il lusso. Questa è l'Isola di Santa Cristina, nuova meta esclusiva vicino Venezia. Un'isola privata che ha l'ambizione di diventare ecosostenibile e completamente autosufficiente in pochi anni. Si trova nella parte nord-orientale della laguna veneta, immersa nel blu. Persino il Carnevale qui può trovare il suo silenzio. Oggi è gestita da Renè Deutch, figlio della seconda moglie del re dei cristalli Swarovski, che ha donato a questo luogo incantato una nuova vita, recuperandone bellezza e risorse. È un business esclusivo che risponde anche alle esigenze del presente: il pianeta, l'ambiente, la qualità della vita e la ricerca della pace interiore. Lui che di yoga se ne intende, ha visto le potenzialità di un luogo perfetto per ritrovare sé stessi e vivere una vacanza in armonia con lo spazio circostante.

Chi subisce il fascino della città galleggiante e dei suoi eventi - dal Festival del cinema alla Biennale d' arte - avrà qui la sua tregua: un ritiro a cinque stelle all’interno di una villa che conta nove camere (due stanze matrimoniali, cinque doppie e due singole), con un bagno personale in legno e marmo. La libreria che raccoglie i testi di viaggio di famiglia, illuminata da un lampadario di cristallo, unico elemento firmato Swarovski. La cucina è aperta alle incursioni dei migliori chef della zona, come Ruggero e Massimiliano Bovo della trattoria Il Gatto Nero, prediletta dai vip. Le location variano tra dentro e fuori: dal grande salone con il camino alla terrazza esterna, fino all’altana dalla quale si può godere della vista di tutta l’isola, consigliata al tramonto. Una grande piscina e il lago attualmente in fase di bonifica, destinato al recupero delle specie ittiche tipiche della laguna, per una pesca ecosostenibile. Tutto intorno il frutteto biologico, ulivi e vigneti, da cui si producono il vino rosso biologico e l’acquavite Ammiana.

Santa Cristina si affitta per soggiorni di minimo tre giorni con un prezzo abbastanza accessibile: duemila euro al giorno per l'uso riservato dell'intera isola. Se si è in sedici, numero massimo del gruppo di persone che possono essere ospitate, il prezzo diviso è di 375 euro a persona, per i tre giorni. Il pacchetto è unico, le camere pertanto non possono essere affittate una per una, come in un normale albergo. L'isola di Santa Cristina mette a disposizione uno yacht privato firmato "Ammiana" (dal nome delle isole dimenticate Ammiana, da cui ha origine Santa Cristina, un tempo sede di monasteri) - che può accompagnare gli ospiti in interessanti escursioni. Nei dintorni ci sono le bellissime e romantiche Burano, Murano e Torcello. Se il cielo è limpido, dalla barca si possono scorgere le Dolomiti. Venezia, con il suo patrimonio artistico, è distante appena venti minuti. Attraversare la laguna, patrimonio Unesco, significa anche osservarne la flora e la fauna: si possono incontrare cormorani e aironi e riconoscere la salicornia, una pianta alta quasi 40 centimetri tipica dei terreni ricchi di sale.

Questa prevalentemente è la vacanza dedicata a chi ama lo yoga, la natura, lo sport, la qualità della vita in generale. Luogo ideale per trascorrere il Natale in tranquillità, location top per matrimoni eco-chic. Anche il birdwatching qui diventa un’avventura extra-lusso, con l’uso dei cannocchiali di casa Swarovski. Un sogno dove l’inconsueto e ricercato equilibrio tra acqua, natura e silenzio si riflettono in un cambiamento interiore, come fosse il risultato di una profonda meditazione.

Secondo uno studio della Università veneta Cà Foscari, questo sarebbe uno dei più suggestivi e incontaminati tratti della laguna: i ricercatori l'hanno definita una interessante "anomalia" ambientale, “una sorta di valle da pesca in miniatura,

localizzata però non nei pressi della gronda, ma in mezzo alla laguna stessa. Secondo gli studiosi, il buon grado di conservazione ambientale, fa di Santa Cristina un luogo di elevato interesse naturalistico e scientifico, nonché un privilegiato laboratorio sul campo tuttora attivo.

«A maggio cambia la valutazione d’impatto ambientale Da Italia Nostra al Fai: un aiuto alla lobby del cemento.In ballo strade e ferrovie per 21 miliardi di euro Il ministero: sono regole chieste dall’Europa». la Repubblica, 29 aprile 2017 (c.m.c.)

Cambieranno le norme che regolano la valutazione d’impatto ambientale delle Grandi opere, ma non solo di quelle grandi: linee ferroviarie, autostrade, ponti e anche gasdotti come il Tap. In meglio? In peggio? In meglio, secondo il ministero dell’Ambiente, che ha preparato un decreto legislativo sostenendo di dover recepire una direttiva europea e preoccupato soprattutto di semplificare le procedure. In peggio, secondo il fronte ambientalista, che denuncia un ritorno alle opacità e alle pratiche fallimentari della Legge Obiettivo (2001, uno dei trofei del governo Berlusconi). In gioco ci sono opere infrastrutturali, da una parte, territori, paesaggi e comunità di cittadini, dall’altra.

Venti associazioni imputano al ministro Gian Luca Galletti d’aver voluto un provvedimento, gradito alle imprese di costruzioni, che, fra le altre cose, stabilisce possa essere esaminato dalla Commissione Valutazione d’impatto ambientale già il progetto di fattibilità di un tunnel o di un’autostrada, cioè un progetto molto preliminare e non quello definitivo. La Via dovrebbe stabilire se un’opera arreca danni basandosi sulle linee generali e non sui dettagli di un intervento, dove si annidano molti rischi. Il ministero ribatte di voler sbloccare lavori per 21 miliardi, incastrati nelle procedure di valutazione ambientale. Procedure che durerebbero un anno per verificare l’assoggettabilità di un progetto alla Via e tre per la valutazione.

Questo in media, ma si può anche arrivare a sei anni. Replica Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente (che con Italia Nostra, Wwf, Fai e altre sigle si oppone al provvedimento): «I ritardi non dipendono dalla Via, ma da progetti in molti casi mal fatti». Sui tempi lunghi si è pronunciato il Nucleo di valutazione del Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, addebitandoli solo in parte alla Via.

La preoccupazione del ministero è di fornire tempi certi ai proponenti di lavori, pubblici o privati. Ma qui la questione si aggroviglia. Secondo gli ambientalisti, dando il via libera a un progetto preliminare si avvia un cantiere che può incappare in inciampi che, questi sì, rallentano i tempi generando varianti che fanno schizzare i costi. Questo insegnano molte vicende del passato, in particolare dopo la Legge Obiettivo (dal 2001 al 2016, calcola il Wwf, i costi delle infrastrutture sono lievitati da 125 a 375 miliardi), vicende che hanno dato luogo a inchieste giudiziarie, ai rilievi dell’Anac e hanno indotto il governo ad approvare nel 2016 un Codice degli appalti che supera la Legge Obiettivo. Inoltre una Via così concepita, insistono gli ambientalisti, riduce le informazioni ai cittadini e la loro partecipazione alle decisioni.

Secondo il Wwf, «ci sono voluti anni perché nella Via ci fosse un confronto vero sulle opere. Ora si torna indietro». Il ministero insiste sulla necessità di attuare una direttiva europea, pena una procedura d’infrazione. L’argomento non convince Maria Rosa Vittadini, che la Commissione Via ha diretto in passato: «L’Europa chiede una Via che contempli anche la biodiversità o i mutamenti climatici, che presti attenzione alla salute, al paesaggio e alla partecipazione. Quel che propone il ministero è assai riduttivo. Sarebbe utile dividere la Via in due fasi, una su un progetto più avanzato rispetto al preliminare, un’altra su un progetto definitivo. In entrambe le fasi è però essenziale la presenza delle amministrazioni locali e dei cittadini».

«Nuova finanza pubblica . Si utilizza lo shock del debito per scaricarne i costi sugli enti locali e sulle comunità territoriali allo scopo di costringerle alla privatizzazione dei beni comuni». il manifesto 29 aprile 2017 (c.m.c.)

L’attacco alla funzione pubblica e sociale degli enti locali prosegue senza soluzione di continuità. D’altronde, è nella disponibilità dei Comuni la ricchezza sociale cui da tempo mirano i grandi interessi finanziari e immobiliari: territorio, patrimonio pubblico, beni comuni e servizi.

Una ricchezza, quantificata a suo tempo dalla Detsche Bank in 571 miliardi di euro, da mettere sul mercato attraverso la trappola del debito e la gabbia del patto di stabilità e del pareggio di bilancio.

Che il debito per i Comuni sia una trappola risulta evidente da un dato: nonostante l’apporto degli stessi al debito complessivo del paese non superi il 2% (dati Anci 2017), il contributo richiesto ai Comuni – tra tagli ai trasferimenti e patto di stabilità – è passato dai 1.650 miliardi del 2009 ai 16.655 miliardi del 2015 (dati Ifel 2016). Ovvero, si utilizza lo shock del debito per scaricarne i costi sugli enti locali e sulle comunità territoriali allo scopo di costringerle alla privatizzazione dei beni comuni.

Un dato è ulteriormente significativo: la spesa per il servizio al debito – gli interessi – copre in media il 12% della spesa corrente dei Comuni, con punte del 25% negli enti locali medio-piccoli. Si riducono drasticamente i servizi, in particolare alle fasce deboli della popolazione, per onorare con inusitata efficienza le date di scadenza degli interessi sul debito.

Senza porsi almeno due domande fondamentali. La prima: perché gli interessi sul debito continuano a essere così alti quando il costo del denaro per il sistema bancario è a tasso quasi negativo? Si dirà: sono mutui contratti molto indietro nel tempo e dunque con tassi di interesse non attuali. Logica dunque vorrebbe che gli enti locali, invece di pagare interessi da usura sottraendo risorse agli abitanti delle comunità, si ribellassero collettivamente e chiedessero una drastica ristrutturazione dei mutui contratti.

La seconda: perché se la grandissima parte dei mutui è stata contratta con Cassa Depositi e Prestiti, non si richiede con forza un intervento del governo che riporti Cdp alla sua vecchia funzione, ovvero quella di utilizzare il risparmio postale per finanziare gli investimenti degli enti locali a tassi agevolati? Si dirà: perché Cdp nel frattempo è diventata una società mista pubblico-privata (con all’interno le fondazioni bancarie) ed opera come un soggetto di mercato. Logica dunque vorrebbe che si rivedesse radicalmente quella scelta nefasta.

Niente di tutto questo sta avvenendo. Al contrario, ecco la grande novità contenuta nella «manovrina» in discussione in Parlamento: arrivano gli sponsor.

I Comuni non possono assumere personale? Bene, se trovano uno sponsor privato che ne paga lo stipendio potranno farlo. Naturalmente, «senza pregiudicare le funzioni primarie degli enti locali, ma solo per prestazioni aggiuntive» si precisa. Ora, a parte l’utilizzo della funzione lavorativa pubblica come operazione di marketing commerciale, sappiamo bene come, abbassata anche questa asticella della soglia d’ingresso ai privati, sarà un attimo saltarla e privatizzare la gran parte delle prestazioni lavorative comunali.

Viene spontanea una domanda finale: se tutti i servizi pubblici sono stati privatizzati attraverso le Spa e se si iniziano a privatizzare persino le prestazioni lavorative comunali, a che serviranno i sindaci? Niente paura, a loro hanno già pensato Minniti e Orlando: una stella sul petto, un vigile urbano con pistola nella fondina al fianco, e via per la città alla ricerca di mendicanti, marginali, profughi o semplicemente poveri. D’altronde, è il «decoro» la vera funzione pubblica e sociale dei Comuni.

Finché non tornerà soffiare, territorio per territorio, la ribellione.

Un marziano si domanderebbe: che nesso logico ci può mai essere tra la sopravvivenza di un giornale in crisi, una speculazione immobiliare, una religione molto praticata, il capo di un partito politico e il sindaco di una città? Mboh, strani questi terricoli. il Fatto quotidiano online, 28 aprile 2017

La moschea di Firenze non s’ha da fare. O almeno non nell’ex caserma Gonzaga, la stessa a cui è interessato il gruppo Pessina, editore dell’Unità, il giornale del Pd. A deciderlo, però, non è stato il sindaco di Firenze Dario Nardella, cui formalmente spetta amministrare il Comune ma – a stare alle dichiarazioni – l’ex inquilino di Palazzo Vecchio, Matteo Renzi. A inizio aprile, infatti, Nardella comunica che una parte della struttura verrà concessa come moschea temporanea, dando a 30 mila musulmani un luogo di preghiera per il ramadan (26 maggio-24 giugno). Un modo “per evitare di avere centri abusivi in città” e, nelle intenzioni del sindaco, per poi destinare lo spazio a una moschea stabile. Passano pochi giorni e interviene Renzi: “Tecnicamente e giuridicamente non si può fare lì. Forse non è stato neppure Nardella a pensare quella soluzione. La partita è chiusa”. Nardella ne prende atto, spiega che la sua era solo “una proposta, un’ipotesi, non una decisione già presa” finendo preso in giro dalle opposizioni in Comune.

Il vincolo “giuridico” di cui parla l’ex premier è presto spiegato. L’ex Caserma è passata dal demanio al Comune, che si è impegnato a valorizzarla. A inizio 2015 arriva un bando per destinare parte dell’area di 53 mila metri quadri ad housing sociale. Si presentano Investire Immobiliare, società del gruppo Nattino e la Pessina Costruzioni, dell’omonimo gruppo da 400 milioni di fatturato: progetti che mettono insieme una parte a edilizia residenziale per le fasce deboli e un’altra a servizi e commerciale.

Ieri l’ad di Pessina, Guido Stefanelli (che guida anche l’Unità) ha confermato al Corriere fiorentino che la società è ancora interessata: “Mi auguro proprio che la Moschea non la facciano lì”. Nello stesso periodo del bando la Pessina si aggiudicava (maggio 2015) l’appalto per la costruzione dell’ospedale di La Spezia e trattava l’acquisto de l’Unità, oggi in forte perdita. Nei giorni scorsi un’inchiesta di Report ha sollevato dubbi che l’investimento nel giornale sia valso come tornaconto, grazie al rapporto con l’ex premier, per appalti e affari. La società ha smentito e annunciato querela.

«Cancellato con un tratto di penna dalla vecchia normativa il divieto di legare la costruzione di nuove palazzine alla realizzazione di impianti sportivi». il Fatto Quotidiano online, 27 aprile 2017 (p.s.)

Due curve, due tribune e quattro condomini, con appartamenti da rivendere e milioni da incassare: ora si può. Perché se fino a ieri chi voleva costruire nuovi stadi poteva pensare di rientrare nell’investimento realizzando solo cinema, negozi e centri commerciali, dal 24 aprile può mettere in cantiere anche palazzi, case, villette e relativi profitti di vendita. Un affare. Con un tratto di penna su una frase ben precisa contenuta nella vecchia legge sugli impianti sportivi, infatti, il governo Gentiloni ha cancellato il vincolo che impediva di inserire la realizzazione di complessi di edilizia residenziale all’interno del progetto dei nuovi campi sportivi.

Che siano dedicati al calcio o ad altri sport poco importa: basta disegnare arene con capienze da almeno 20mila posti, trovare un imprenditore che fiuta l’affare, una società ambiziosa e un’amministrazione comunale compiacente ed il gioco è fatto. Lì dove c’era l’erba (del campo) ci saranno tante belle casette: lo stadio con gli appartamenti intorno, ovvero l’articolo 62 della manovrina firmata da Mattarella pochi giorni fa.

Altr che norma salva "stadio della Roma” – L’hanno chiamata norma “salva stadio della Roma”, ma in realtà la posta in palio è molto più alta perché di fatto l’esecutivo ha riaperto al grande business della speculazione sugli impianti sportivi. Che, di fatto, potrebbero diventare cavallo di troia per imponenti colate di cemento. Anche residenziali come detto, in deroga ai piani regolatori: perché il divieto esplicito per cui i renziani si erano battuti strenuamente nel 2013 (quando erano ancora forza di minoranza del governo di centrosinistra) è stato ora cancellato dal ministro dello Sport, Luca Lotti, che ha già messo la firma sull’articolo della “manovrina” di primavera. “Una rivoluzione”, ha rivendicato in un’intervista al quotidiano L’Arena. E come dargli torto: prima la legge “non prevedeva nessun altro intervento” se non quelli “strettamente necessari” (definizione che già aveva prestato il fianco a interpretazioni discutibili), ora “può ricomprendere” praticamente tutto.

Con la scusa di un nuovo impianto sportivo (neanche troppo grande: 20mila posti di capienza minima) le società potranno alzare condomini e palazzine, senza neppure il bisogno di una vera e propria variante urbanistica: dal ministero spiegano che la decisione finale spetterà sempre ai consigli comunali, ma di fatto i piani regolatori potranno essere superati semplicemente con il parere positivo della conferenza dei servizi.

Sparitio il vincolo sul residenziale – Si tratta a tutti gli effetti di un colpo di mano. A sorpresa, peraltro. Perché nella “finanziaria-bis” licenziata dal consiglio dei ministri prima di Pasqua era atteso un capitolo dedicato agli investimenti sportivi, dove inserire la tanto attesa garanzia da 97 milioni di euro per la Ryder Cup e alcune misure per i mondiali di sci di Cortina. Ma nessuno si aspettava che spuntasse dal nulla anche un articolo dedicato alla “costruzione di impianti sportivi”.

Una paginetta scarsa che modifica la normativa vigente in un paio di punti cruciali. La vera novità è riassunta tutta in una frase: in quello che c’è scritto (o meglio, in quello che non è scritto) all’interno del comma 1 dell’articolo 62: «Lo studio di fattibilità può ricomprendere anche la costruzione di immobili con destinazioni d’uso diverse da quella sportiva, complementari e/o funzionali al finanziamento e alla fruibilità dell’impianto». Dal testo è stata cancellata la frase «con esclusione della realizzazione di nuovi complessi di edilizia residenziale» che compariva nella precedente legge n.147 del 2013 e che fino ad oggi aveva messo al riparo i progetti dall’invasione di nuove palazzine. Basta questa piccola spunta per aprire le porte alla speculazione.

“Rischio speculazione” – «Il provvedimento è molto chiaro, nulla da interpretare: prima c’era un vincolo sul residenziale, ora non c’è più», commenta Roberto Della Seta, ex presidente di Legambiente e deputato del Partito Democratico, da sempre attivo sulla questione stadi. «A me pare che questa operazione non riguardi tanto il nuovo stadio della Roma (a cui lui ora sta collaborando come consulente per la certificazione ambientale per i proponenti, nda), quanto altre città: ultimamente si è parlato di Firenze, mi vengono in mente anche i piani di Lotito per la nuova casa della Lazio che prevedevano una parte residenziale. Di sicuro in molti saranno contenti di questa legge». La misura era stata presentata come un favore allo stadio della Roma perché propone una conferenza dei servizi più rapida, il cui parere conclusivo d’ora in poi servirà anche da variante urbanistica (lo scoglio su cui la giunta Raggi si era incagliata negli scorsi mesi, anche per le spaccature interne). Ma all’interno dello stesso Movimento 5 stelle romano ritengono che il vero obiettivo sia un altro: «Per quel che ci riguarda non ci sono grosse novità», conferma a ilfattoquotidiano.it Daniele Frongia, assessore allo Sport del Comune. «Dopo la ‘manovrina’ l’assessore all’Urbanistica, Luca Montuori, ha incontrato l’As Roma, ma è servito solo per ribadire gli accordi già presi: le carte in tavola non cambiano». Ovvero a Tor di Valle non ci sarà nessuna riconversione degli edifici commerciali previsti dal dossier: «Con la vecchia o con la nuova legge, possiamo garantire che il residenziale non entrerà nel progetto. Prendiamo atto invece dell’accelerazione nell’iter della conferenza: nel nostro caso, dove tutto è già stato approfondito a lungo, potrebbe avere un risvolto positivo, il rischio è che abbia effetti deleteri altrove».

La giravolta dei renziani – L’articolo 62 della manovrina, insomma, serve anche per chiarire che il parere della conferenza dei servizi sostituirà l’eventuale variante urbanistica necessaria in caso di cambio di destinazione d’uso dei terreni. Virginia Raggi vi avrebbe fatto volentieri ricorso negli scorsi mesi, quando il progetto di Tor di Valle si era arenato proprio per la difficoltà ad approvare un atto in giunta e poi in consiglio comunale (data la contrarietà dell’ex assessore Berdini e di alcuni consiglieri).

Ora il processo accelerato sarà un aiuto in più, ma non sposterà gli equilibri che sembrano già raggiunti. Mentre potrebbe essere determinante per quei progetti ancora tutti da definire nel resto del Paese. C’è anche un ulteriore favore ai proponenti: la sospensione dei permessi per l’occupazione di suolo pubblico nel raggio di 300 metri dallo stadio in occasione delle partite, che rimetterà nelle mani delle società anche il business degli ambulanti. Ma queste sono briciole, in confronto alla possibilità di costruire palazzine e condomini, magari un intero nuovo quartiere, dove non potrebbe sorgere nulla. Un affare da milioni di euro.

Naerdella: «Non ho seguito la vicenda». Ma il 10 marzo annunciava novità sulla normativa – È curioso che quattro anni fa, quando il governo Letta aveva provato a cancellare il vincolo sul residenziale, tra i tanti a insorgere c’era stata anche l’ala renziana del Pd. Dario Nardella, uno dei primi promotori del ddl sugli stadi, aveva difeso personalmente quella clausola, definita come “discrimine” contro la «tentazione di usare la realizzazione di grandi impianti sportivi come pretesto per altre finalità».

Oggi, contattato da ilfattoquotidiano.it, il sindaco di Firenze spiega di essere «preso dagli impegni locali in città» e di «non aver seguito la vicenda». Eppure la città da lui amministrata è una di quelle maggiormente interessate dalle novità, visto che la famiglia Della Valle costruirà nel quartiere di Novoli (inizio lavori previsto nel 2019) un nuovo impianto da 40mila posti. Il progetto è stato presentato il 10 marzo e in quella occasione Nardella sottolineò – con grande soddisfazione – di aver saputo dal suo amico Luca Lotti che a breve ci sarebbero state modifiche importanti alla legge sugli stadi. Che quindi gli interessava eccome.

Dagli uffici del ministero dello Sport, invece, precisano che si tratta di una norma che vuole solo snellire alcuni passaggi burocratici e dare una spinta positiva alla ristrutturazione e costruzione di nuovi impianti. E i rischi speculativi? Chi lavora con Luca Lotti è sicuro: non ci sono perché la decisione finale spetterà sempre ai consigli comunali. Ed in effetti gli enti locali (il Comune, la Regione laddove competente) continueranno ad avere l’ultima parola all’interno della conferenza dei servizi. Ma stravolgere i profili delle città italiane grazie ad uno stadio medio-piccolo sarà molto più facile e veloce. E soprattutto redditizio, specie per chi al pallone vuole abbinare il mattone.

«Un manifesto per il Veneto e Acqua guerriera: due libri che raccontano un paesaggio disordinato e consumato dalla politica a corto di idee». il manifesto 28 aprile 2017 (c.m.c.)

Nel vuoto della politica, lo sprawl in Veneto (la regione è stata spesso paragonata alla città diffusa di Los Angeles) continua ad estendersi. Il risultato di un’urbanistica disordinata, non programmata e spesso spinta solo dalla rendita speculativa, ha portato la regione ad essere la seconda in Italia (dopo la Lombardia) per consumo di suolo, con oltre il 12% di territorio impermeabilizzato (ma nel Veneto centrale, cioè escludendo le montagne e la costa, siamo a oltre il 20).

La questione ambientale a Nordest non riguarda però solo il cemento. Certo, la prima conseguenza visibile della crisi dell’ultimo decennio è la marea di capannoni e fabbriche abbandonati. Ma c’è anche un immenso patrimonio residenziale vuoto o sottoutilizzato, c’è l’antico paesaggio di acque inquinato e deteriorato, ci sono quei tre milioni e mezzo di auto e moto private (su una popolazione di quasi cinque milioni di abitanti) a rappresentare più di tutto l’incapacità di pensare il territorio come un campo aperto di possibilità e di innovazione.

E proprio da qui prende le mosse Un manifesto per il Veneto, volume che raccoglie alcune riflessioni del dipartimento di urbanistica dell’università Iuav di Venezia (a cura del raggruppamento di ricerca Nuq, Mimesis, pp.90, euro 10). Un libro scritto da specialisti ma pensato per portare al grande pubblico questioni fondamentali e quanto mai urgenti. Partendo dai principali assi tematici, cioè i trasporti, le acque, l’agricoltura, l’energia, il team di studiosi prova a portare delle proposte che potrebbero indirizzare in modo virtuoso la futura politica non solo locale. Ogni «crisi» in fondo non è altro che un cambio di paradigma, che rappresenta anche la fine di un ciclo di vita per un edificio o una porzione di territorio.

Serve pensare, anche a livello territoriale, ad azioni orientate al riciclo. Significa ripensare le funzioni e immaginare nuovi modi d’uso per il complesso delle costruzioni esistenti. E rinunciare a costruire ancora. Lavoro che richiede meno risorse economiche e più fantasia, oltre a un presupposto di partenza: il futuro di questi spazi appartiene a tutti.

Propositi forse un po’ troppo astratti per una classe politica che, almeno da queste parti, sembra dedicarsi più che altro a operazioni di marketing territoriale (brand come il Prosecco, il fiume Piave, l’eterna Venezia), totalmente slegate dalle conseguenze ambientali (tutto ciò quando non è invischiata in casi di corruzione e mala gestione, spesso legata alle grandi opere come il Mose).

A riportare questi argomenti su un piano più concreto aiuta la pubblicazione Acqua guerriera, raccolta di reportage della giornalista friulana Elisa Cozzarini, in cui racconta le esperienze di comitati, attivisti, pescatori e produttori che vivono in simbiosi con il fiume Piave. Il volume esce per Ediciclo Nuova Dimensione (pp.144, euro 12,50), piccolo editore che negli ultimi anni ha affrontato in modo eccelso le problematiche legate all’ambiente in questo lembo d’Italia. Al tema l’autrice aveva già dedicato il documentario La piave nel 2013.

Il libro torna sugli stessi luoghi, esplorando modi di vivere i corsi d’acqua apparentemente in contrasto con quegli interessi economici che in pochi decenni hanno stravolto equilibri secolari in ecosistemi delicati. La Piave come metafora del nostro modo di rapportarci alle acque: artificializzata per il 90% del suo corso, intubata, deviata, utilizzata in modo eccessivo per scopi agricoli o energetici, riempita di rifiuti. Ma ridare centralità ai fiumi vuol dire modificare il nostro rapporto con quella che resta una risorsa, l’acqua.

Riscoprire la cultura dell’acqua (soprattutto nei luoghi della Serenissima) è la premessa per un turismo non invasivo, per una produzione di beni più rispettosa dell’ambiente, per la ridefinizione dell’identità collettiva che torna a legarsi a un territorio concreto e alle sue problematiche.
L’azione di comitati e associazioni poi, in molti casi, ha ispirato nuove forme di governance, in cui la partecipazione attiva dei cittadini si è posta come complementare al lavoro di chi governa questi territori. Percorso disseminato di ostacoli, ma in grado di apportare nuova linfa ad amministrazioni spesso a corto di idee e di finanze. Piccoli passi per un modello di civiltà sostenibile.

A Bologna la rigenerazione si fa congli sgomberi: la minacciata chiusura di XM24, spazio sociale autogestito è l'episodio centrale della ristrutturazione fisica e sociale della Bolognina: un quadrante della città che continua a far gola alla speculazione. In calce il link all'appello.

Mentre negli uffici regionali si confeziona il quadronormativo che la legittima e promuove, la “rigenerazione” si propone nelle vestidi gentrification e displacement alla Bolognina, unquartiere di Bologna già noto per altre rinunce identitarie della sinistra. Un’area(la “città della ferrovia” nel Piano Strutturale Comunale del 2008) che,seppure con molto fumo progettuale, errori reiterati e sinora palese insuccesso,è stata scelta come campo esemplare di applicazione del nuovo ciclo delneoliberismo immobiliare che si autodefinisce “rigenerazione” e passaattraverso la riconquista di luoghi centrali da parte della rendita fondiaria,dopo gli anni di esilio a mangiar campagne. Manovre di cui la nuova legge urbanisticaregionale vuole essere il manifesto esplicativo (a cui eddyburg ha dedicato molte paginedi critica e approfondimento).

Ma per rigenerare prima bisogna sgombrare, XM24 come le caseoccupate. Eliminare quegli indecorosi segni di autogestione, di libertàd’espressione, di socialità aperta e non filtrata, di anarchia praticata.Pulire, abbellire, far lievitare le potenzialità speculative. E così espelleregli abitanti attuali.
XM24 esiste dal 2002 come “spazio pubblico autogestito” inun’area a ridosso della stazione ferroviaria un tempo sede del mercatoortofrutticolo, data regolarmente in concessione dal comune. Concessione cheora non intende rinnovare. Quindici anni in cui oltre ad iniziative proprie,organizzate dai collettivi che hanno sede nello spazio, XM24 ha ospitato leattività di centinaia di gruppi e collettivi nazionali ed internazionali. (unpo’di storia qui, ripresada Wu Ming)

XM24 non è soggetto facile da difendere, si tratta dicollettivi anarchici che concedono ben poco all’affabulazione an/estetizzanteoggi in voga. Ma si tratta di ragazzi colti, lucidi, capaci di analizzarecriticamente il presente e di creare momenti importanti di proposta, socialitàe multietnicità (dalle feste e i mercatini, ai corsi di italiano, ai seminaritematici; vi invito a visitare il loro sito).Doti rare che la città pubblica dovrebbe invece favorire e incoraggiare.

E’ importante opporsi all’intenzione del comune di nonrinnovare la convenzione. “Perché XM24 da 15 anni offre uno spazio persocializzare anche a chi non ha un euro, perché a XM24 può fare sport chi nonha i soldi per andare in palestra, perché a XM può mettere su una band anchechi non ha i soldi per pagare una sala prove, perché a XM puoi partecipare,proporre, collaborare a presentazioni di libri, dibattiti, spettacoli senzabisogno di pagare un centesimo. Perché se sei un migrante a XM puoi impararel’italiano anche se non hai i soldi per un corso di lingue. Perché a XM puoivedere un concerto a prezzi popolari. Perché a XM24 si condivide, non sispecula....”, sta scritto in un volantino della campagna I love XM24 - ed è tutto vero.

Ma la Bolognina continua a far gola agli speculatori.Nonostante i fallimenti clamorosi delle Officine Minganti, una vecchia fabbricatrasformata in centro commerciale (con investimento Coop Adriatica), troppopretenzioso in un’area, il quadrante Bolognina Est, con i redditi più bassidella città e la più alta presenza etnica, in particolare cinese, conattitudini di consumo modeste e comunque proprie. Una riqualificazione che èrimasta isolata in un contesto che, malgrado le aspettative, non è cambiato el’ha vanificata.

Anche sul versante Ovest sinora gliesperimenti di valorizzazione si sono rivelati rovinosi: la Trilogia Navile unprogetto sovradimensionato, incappato in ripetuti fallimenti delle impresecostruttrici, è stato risucchiato nel buco nero delle narrazioni iperreali,nell’universo parallelo dei sogni degli immobiliaristi. Oggi si presenta comeun gigantesco relitto mai ultimato, un mostro residuato come spauracchio afutura memoria. Un fondale postapocalittico agli orti di XM24 che verso serabrulicano invece di umanità.

Nel medesimo comparto l’unico progetto realizzato è la nuovasede municipale, trasferita qui nel 2008 dall’antico Palazzo d’Accursio dellapiazza Maggiore. Un’operazione della galassia che si muove entro il Consorzio CooperativeCostruzioni, a cui il comune di Bologna versa infatti cospicuo canone d’affitto.

Una bizzarra interpretazione rovesciatadel neoliberismo, in cui sul pubblico gravano gli oneri mentre i privati fannobusiness. Sarebbe interessante almeno avere dati sull’efficacia funzionale diquesta scelta addensativa della tecnostruttura, che non ha comunque liberatogli spazi centrali. L’edificio, progettato da Mario Cucinella, se sotto ilprofilo estetico divide le opinioni dei bolognesi, sul versante dell’ecologiaha perso la grande opportunità di diventare un esempio istituzionale dirisparmio e di efficienza energetica, è anzi particolarmente insalubre edenergivoro.

Ma se ragioniamo di opportunità perse, per capire lepulsioni che agitano la Bolognina dobbiamo ricordare il grande buco progettualedella stazione ferroviaria che non a caso, la semiotica non inganna, si ètrasformato in quell’enorme sarcofago sotterraneo grigio(-sporco) multipianoche è la stazione di Bologna.

Fin dal concorso di idee lanciato nel 1983, il criterio difondo fissato dai bandi è la definizione di una nuova centralità attorno allastazione che diventi area di connessione tra il centro storico, a Sud verso lecolline, e la Bolognina, a Nord verso la pianura. La distanza in linea d’aria èquella del fascio dei binari, passante in direzione est-ovest; quella intermini cronometrici è enorme, solo un ponte (di fine ‘800) per unire. La cittàè insomma divisa in due parti, quella storica di impostazione medievale e quellaottocentesca dell’espansione extra moenia avviata appena prima che la ferrovia venissecostruita. Il mandato del bando è la ricucitura, ne fioriscono progetti distraordinaria inventiva che tuttavia vengono presto dimenticati. Anche quasi 15anni dopo, quando il comune affida a Ricardo Bofill il compito di progettare lanuova stazione, i prerequisiti rimangono i medesimi, tant’è che l’architettocatalano disegna, oltre che l’interramento dell’alta velocità che poi si èrealizzato, un montante che sovrappassa i binari e connette le due sponde dellacittà. La parte di superficie del suo progetto, colpevoli i due grattacieli,rimane vittima di un referendum cittadino, che premia il mantenimento dellavecchia stazione ma indica anche la necessità di un nuovo concorso di idee,vinto a quel punto, intanto è passato un altro decennio o quasi, da ArataIsozaki. Anch’egli stila un progetto tutto incentrato sulla ricucitura, che siva ad aggiungere alla lista degli irrealizzati. Quante energie creativesprecate per finire in una catacomba che mette in tensione la nostra fiducianelle tecniche!
Questa schematica cronistoria per dire che la consapevolezzadella distanza tra Bologna-città e Bolognina-periferia è ben presente sin daglianni ’80. Oggi accentuata da una voragine le cui connessioni di mobilitàsembrano un labirinto punitivo immaginato in una notte di sballo da urbanistiubriachi. E’ vero, impiego solo un’ora per andare a Milano, ma quanto tempo miserve per raggiungere la stazione? Come sempre la ‘modernità’ si scontra con inostri ritardi.

Ma il quartiere Bolognina, malgrado la confusioneprogettuale e gli errori esecutivi, è in una posizione perfetta per larivalorizzazione, o rigenerazione che dir si voglia. Tanto più in questa fasein cui la città s’è scoperta turistica e ha voglia di allargare il raggio deibenefici economici che ne derivano oltre le soglie del centro storico. Il che puòessere un bene a patto non avvenga a scapito del costo della vita, e dunque degliabitanti e dei fruitori abituali.

Gli sgomberi degli edifici occupati hanno mostrato il voltoduro e poliziesco dell’amministrazione comunale, che non ha saputo rispondereall’emergenza abitativa se non con la cacciata delle famiglie.
Politiche di aggressione delle fasce sociali più deboli cheverranno replicate contro XM24 se non ci mobilitiamo per difendere questospazio di autogestione giovanile, che è allo stesso tempo un modo per proporre un’ideadi città come luogo di vita e di condivisione, e non come terreno dispeculazione.

Il documento allegato è un primo momento di aggregazione e di denuncia, se lo condividi puoi firmarlo e diffonderlo.

«In Spagna si sta affermando il neomunicipalismo, ovvero l’idea di ripartire dalla città, Barcellona è l’esempio più grande. Ma l’obiettivo è far nascere una rete europea delle città ribelli». MicroMega online, 21 aprile 2017 (c.m.c.)

Il 24 maggio del 2015 in diverse città spagnole delle liste civiche nate dal basso vincono le elezioni comunali. A Madrid, Barcellona, Saragozza, Cadice, Pamplona, Santiago de Compostela, La Coruña, Badalona i cittadini entrano per davvero nelle istituzioni con progetti di rottura rispetto al passato. Esperienze diverse in contesti urbani diversi. Grandi metropoli e piccoli capoluoghi di provincia. Ma con un punto in comune: cambiare la Spagna e chiudere con i quarant’anni di bipartitismo PP-PSOE, partendo dalla partecipazione della cittadinanza e dallo strettissimo legame con i movimenti sociali presenti sul territorio. Sono passati quasi due anni da quel giorno e la scommessa neomunicipalista, che ha ottenuto importanti risultati nelle città in cui governa, guarda già oltre il municipalismo.

Il neomunicipalismo è figlio del movimento del 15M, gli Indignados, che hanno invaso le piazze spagnole nel maggio del 2011. La reazione alla grande crisi, che stava distruggendo, con le contro-riforme del governo Zapatero e poi del governo Rajoy, il fragile Welfare state spagnolo, è stata imponente e ha permesso la politicizzazione di una nuova generazione che negli anni della bolla immobiliare viveva per lo più nell’apatia politica. Il triennio 2011-2013 è stato quello delle grandi manifestazioni, delle Mareas in difesa della sanità e dell’educazione pubblica, del radicamento degli Indignados nei quartieri delle città, della lotta contro gli sfratti portata avanti dalla Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah), di cui Ada Colau, attuale sindaca di Barcellona, era la portavoce.

La disoccupazione aveva toccato i drammatici record greci (27%), le famiglie che avevano perso la casa erano oltre 500mila, i giovani che emigravano circa 100mila l’anno. Il sistema spagnolo, nato con la transizione dalla dittatura franchista alla democrazia, era entrato in cortocircuito: non si trattava solo di una crisi economica e delle sue tragiche conseguenze sulla popolazione, ma di una crisi sociale, politica, istituzionale, territoriale e culturale.

Partecipazione, trasparenza e confluencia
È in questo contesto che nasce la scommessa neomunicipalista. E il caso di Barcellona è senza dubbio quello più emblematico. Nei mesi in cui a Madrid un gruppo di giovani professori universitari lancia Podemos con l’obiettivo di presentarsi alle elezioni europee del maggio 2014, nel capoluogo catalano una dozzina di attivisti con alle spalle le lotte dei primi anni Duemila, in cui Genova, il movimento no global e l’esperienza dei dissobedienti italiani sono stati riferimenti costanti, capisce che la sfida dev’essere lanciata a livello locale. L’obiettivo non è il Parlamento europeo e nemmeno quello spagnolo o quello catalano, ma la città di Barcellona.

Nel giugno del 2014 si presenta un manifesto, Guanyem Barcelona, ossia Vinciamo Insieme Barcellona, con cui si invita la cittadinanza a partecipare. Ci si dà poco più di due mesi di tempo per raccogliere 30mila firme. Se non si ottengono, non si fa nulla. Non ci sono i partiti, non ci sono le fantomatiche quote. Sono mesi di assemblee pubbliche in tutti i quartieri della città, in cui si ascoltano le persone, soprattutto quelle più colpite dalla crisi e dalle politiche di austerity. Di firme se ne raccolgono molte di più ben prima della scadenza prevista. Inizia così un progetto che oggi è una solida realtà che governa la seconda città della Spagna e che passerà a chiamarsi Barcelona en Comú.

Il resto è storia ed è ormai conosciuto. L’attento e faticoso lavoro per costruire una confluencia con le formazioni politiche della sinistra catalana che decidono di sommarsi a questo progetto: Iniciativa per Catalunya Verds (ICV), Esquerra Unida i Alternativa (EUiA), Podemos, Equo, Procés Constituent. In una confluenza non si ragiona per quote come in una coalizione, ma secondo la logica “una testa un voto”. Non è facile, ma ci si riesce: nasce un nuovo soggetto politico in tutto e per tutto, un nuovo spazio dove le regole sono diverse. Ma fin da subito c’è l’elaborazione di un codice etico, con cui si limitano mandati e stipendi, e di un programma, costruito insieme alla cittadinanza. Infine, e solo come ultimo passaggio, c’è la creazione di una lista con una candidata che nessuno mette in discussione: Ada Colau. Il tutto, è bene ricordarlo, con processi di votazione, sia presenziale sia on-line gestiti da una società che, a differenza del Movimento 5 Stelle, non ha collegamenti con i vertici politici della formazione.

Dal maggio del 2015 si è fatto molto, per quanto gli ostacoli e le difficoltà siano state tante. Innanzitutto perché governare in minoranza non è facile. Il sistema politico spagnolo è diverso da quello italiano, non c’è il ballottaggio e la lista vincente non ottiene la maggioranza assoluta nel consiglio comunale. Barcelona en Comú ha 11 consiglieri su 41: per arrivare ai 21, che significano la maggioranza, la strada è impervia, tenendo poi conto che la frammentazione politica è notevole con ben sette formazioni spaccate non solo sull’asse destra/sinistra, ma anche su quello indipendenza catalana sì/no. Nella primavera del 2016, dopo una consultazione tra gli iscritti a Barcelona en Comú, si è arrivati a firmare un accordo con i socialisti che sono entrati nel governo.

La maggioranza è ancora lontana, ma senza dubbio è stato un passo avanti, non scevro da dubbi e critiche. Ma le difficoltà sono poi nel reale potere dei Comuni in Spagna dopo la ricentralizzazione portata avanti dai governi del PP negli ultimi anni con la scusa degli sprechi delle amministrazioni locali: con la legge Montoro, i Comuni, oltre ad essere stritolati dalle politiche di austerity, non possono nemmeno spendere a fini sociali l’eventuale avanzo di bilancio. Infine, rimane la vexata quaestio della relazione tra movimenti e istituzioni: il rischio, sempre presente, è quello di una istituzionalizzazione del progetto una volta dentro il palazzo.

Due anni di governo

I primi mesi di governo sono stati difficili anche per la dura campagna di stampa dei grandi mass media. “Non sono capaci di fare politica. Non sanno gestire un’amministrazione. Non è gente preparata”, si ripeteva continuamente. Dopo due anni ci si rende conto che non è stato così. I bilanci dei Comuni, non solo quello di Barcellona, ma anche degli altri governati da liste neomunicipaliste, non sono più in rosso, come in passato. Ed anzi si è ridotto il debito creato dalle destre: a Madrid, in solo un anno e mezzo, Manuela Carmena ha ridotto di quasi 2 miliardi di euro il debito del Comune sui quasi 6 miliardi che si era trovata quando è stata eletta. Le radicali misure di trasparenza, insieme alla limitazione degli stipendi, ha dato i suoi frutti. E allo stesso tempo si sono aumentate le politiche sociali.

A Barcellona si sono finanziate fin da subito le mense per gli studenti, si sono investiti 150 milioni di euro in un Piano per i quartieri, si sono costruiti nuovi asili e si sono rimunicipalizzati quelli che erano stati privatizzati, si è avviato un piano per ricollocare le famiglie sfrattate e un piano di costruzione di case popolari, oltre ad obbligare le banche a mettere sul mercato gli appartamenti sfitti a canone sociale e a multare quelle che si negano. Si sono poi fatte pressioni sulle grandi compagnie di acqua, luce e gas per evitare che alle famiglie a rischio povertà vengano tagliati i servizi durante l’inverno. Si è avviata la costruzione della prima impresa di energia elettrica comunale – sarà la più grande di tutta la Spagna – che a breve potrà servire 20mila cittadini e di un’impresa di onoranze funebri comunale che ridurrà di circa il 50% i costi rispetto a quelle private esistenti attualmente.

Si sono potenziati i trasporti pubblici, sia il metro che gli autobus, si stanno costruendo 62,5 km in più di piste ciclabili in tutta la città e si è avviato l’esperimento delle superilles – ossia, spazi in cui si vieta la circolazione di veicoli – con l’obiettivo di trasformare Barcellona in una città ambientalmente sostenibile. Si è lavorato poi molto sul grande problema del turismo e della conseguente gentrificazione – Barcellona riceve oltre 27 milioni di turisti l’anno –, approvando il PEUAT, un piano comunale che proibisce la costruzione di nuovi hotel in tutto il centro cittadino, e multando con 600mila euro AirBnB che mantiene sul suo portale annunci di appartamenti senza licenza. Il tutto sempre con la partecipazione della cittadinanza: il nuovo Programa de Actuación Municipal (PAM) è stato elaborato grazie a 430 assemblee nei quartieri e alla piattaforma web decidim.Barcelona (“decidiamo.Barcellona”), tramite cui si sono raccolte oltre 10mila proposte fatte da associazioni attive nella città o da singoli cittadini, che sono state votate da più di 130mila persone.

Se ciò non bastasse, tante sono state le battaglie ancor più direttamente politiche che sono state fatte: per la chiusura dei CIE, scontrandosi con il governo spagnolo; per una memoria storica democratica, recuperando la storia degli sconfitti troppo spesso dimenticati dalle istituzioni; per la femminilizzazione della politica, che va ben al di là delle sole “quote rose” e riguarda tutti gli ambiti della vita istituzionale e non. E poi la questione dei rifugiati e dell’accoglienza in un’Europa sempre più chiusa nella sua fortezza, divorata da nazional-populismi xenofobi: nel settembre del 2015 Ada Colau ha lanciato la proposta delle Ciudad Refugio, le città rifugio, permettendo così la creazione di una rete di “città ribelli” che in tutta la geografia spagnola lavora con altre priorità, mettendo in comune nuove esperienze e nuove pratiche.

Oltre il Comune

Il Comune, però, non è l’unico obiettivo di un progetto politico che guarda oltre le frontiere della città. E questa è la grande forza del neomunicipalismo di Barcelona en Comú. Il Comune è il primo step, un livello in cui la distanza tra governanti e governati è minore, in cui il contatto con la cittadinanza e con il tessuto associativo è sempre presente, in cui le battaglie che si portano avanti hanno una ricaduta immediata.

Ma bisogna andare oltre. In primo luogo, per quanto riguarda il caso di Barcellona, la realtà catalana, ma poi anche la Spagna e l’Europa. Perché? Lo ha spiegato recentemente Ada Colau: “«Non è un caso che il municipalismo sia sempre più presente. È stato un errore democratico non considerare le città come degli attori politici. E si sta dimostrando che se vogliamo migliorare e approfondire la democrazia, le città non possono solo amministrare perché dobbiamo affrontare le grandi sfide globali che ci pongono gli Stati: il cambio climatico, la mobilità, il problema della casa, la disuguaglianza, le migrazioni… Le grandi sfide globali hanno luogo nelle città e non si tiene conto politicamente delle città. I Comuni devono avere più voce e più voti, più capacità di decisione e più peso politico».

Dopo oltre un anno di riunioni e di incontri pubblici in tutta la geografia della Catalogna, è nato lo scorso 8 aprile il nuovo soggetto politico catalano che segue il modello di Barcelona en Comú. «L’apparizione di questo spazio politico ha molto a che vedere con la crisi politica in cui viviamo, la nostra democrazia non funziona come dovrebbe e molte persone hanno deciso di implicarsi e corresponsabilizzarsi per migliorare le forme di fare politica», queste sono state le parole di Ada Colau l’8 aprile. Il nome del nuovo partito non è ancora stato stabilito, probabilmente sarà quello di Catalunya en Comú o di En Comú Podem, che è il nome della coalizione che ha vinto le elezioni politiche generali in Catalogna sia a dicembre 2015 che a giugno 2016, mandando al Parlamento di Madrid ben 12 deputati guidati dallo storico e attivista Xavier Domènech.

Si tratta di una confluenza che riunisce, nonostante i dubbi e le frizioni con un settore del Podemos catalano, le stesse formazioni che hanno dato vita a Barcelona en Comú e che è nato con un processo partecipativo chiamato Un País en Comú (“Un Paese in Comune”): un programma e un codice etico costruiti con la cittadinanza in un contesto estremamente complesso come quello catalano, con la questione dell’indipendenza – difesa dall’attuale governo regionale – sempre sulle prime pagine di tutti i giornali. Rompere il frame indipendenza sì/indipendenza no con un programma centrato sulle politiche sociali, sui beni comuni e sulla difesa di un referendum non sarà facile per il nuovo soggetto politico lanciato da Ada Colau. Vedremo i primi risultati in autunno, quando molto probabilmente si terranno le elezioni regionali anticipate.

Ma non c’è solo il livello catalano che è indispensabile per dare respiro ai Comuni “ribelli”, facendo pressioni sul governo regionale e su quello nazionale per modificare leggi e politiche restrittive. La sfida neomunicipalista guarda molto più in là dei Pirenei. C’è l’Europa, in primo luogo, ma in realtà c’è tutto il mondo. Lo si fa con umiltà e senza fretta, seguendo la massima “andiamo piano perché andiamo lontano”. All’interno di Barcelona en Comú, che è un partito “pesante”, e non “leggero” come Podemos, vi è infatti una commissione internazionale che lavora da oltre un anno a una mappatura dei progetti neomunicipalisti esistenti in tutto il globo: da liste civiche nate dal basso che governano alcune città, grandi come Napoli o la cilena Valparaíso o piccole come l’inglese Frome, a progetti che hanno fatto il salto alla politica e che si trovano ora all’opposizione in Comune, come Coalizione Civica a Bologna, Buongiorno Livorno o Ciudad Futura a Rosario in Argentina, fino a movimenti con un’agenda municipalista che non hanno ancora deciso di presentarsi a delle elezioni in Italia, Francia, Polonia, Stati Uniti, Germania, Grecia, Danimarca e un’infinita di altri paesi. L’obiettivo è quello di creare una rete municipalista internazionale.

Per questo i prossimi 9-11 giugno si terrà a Barcellona un incontro internazionale chiamato Fearless Cities, città senza paura, a cui parteciperanno centinaia di progetti neomunicipalisti provenienti da tutto il mondo, per condividere pratiche e tessere relazioni in vista di quello che sarà il nuovo step di questa scommessa: riportare la politica tra le persone, renderla partecipativa, promuovere politiche di accoglienza, rompere le gabbie delle leggi di bilancio schiave dell’austerity. O come ha detto recentemente Ada Colau: «considero che il municipalismo è essenziale per migliorare la nostra democrazia. Questo è il secolo delle donne e il secolo delle città. E il luogo migliore per vivere questo momento politico così appassionante è il municipalismo, che non è altro che l’amministrazione più vicina alla cittadinanza».

«Se chi governa “perdona” ciclicamente il ripetersi di un reato, di fatto induce in chi pratica quel reato la convinzione che ciò che ha fatto magari non sia lecito, ma tollerato sì». il Fatto Quotidiano online, 27 aprile 2017 (p.d.)

La madre di tutte le battaglie a tutela di quel paesaggio di cui all’articolo 9 della Costituzione e della quale ci si ricorda solo nei preamboli delle leggi e mai nella sostanza, è la lotta all’abusivismo edilizio. Lotta? Ma che dico mai? Semmai “lotta a favore all’abusivismo”. Tappeti rossi sul nostro già martoriato suolo a chi costruisce abusivamente. La nostra legislazione è un susseguirsi di condoni veri o mascherati che consentono il mantenimento dello status quo e di fatto legittimano il perdurare dell’illegalità. Perché se chi governa “perdona” ciclicamente il ripetersi di un reato, di fatto induce in chi pratica quel reato la convinzione che ciò che ha fatto magari non sia lecito, ma tollerato sì.
L’esordio della mani per i condoni data 28 febbraio 1985, quando la legge n. 47 del governo Craxi-Nicolazzi disegna un quadro normativo sull’edilizia “provvisorio”, ma che ha come maggiore conseguenza quella di ammettere al condono tutti gli abusi realizzati fino all’1 ottobre del 1983. Secondo i dati del Centro ricerche economiche e sociali del mercato dell’edilizia (Cresme), l’effetto annuncio del primo condono avrebbe provocato l’insorgere – nel solo biennio 1983-84 – di 230.000 manufatti abusivi, mentre quelli realizzati fra il 1982 e tutto il 1997 sarebbero stati 970.000.
A riaprire i termini del condono, meno di 10 anni dopo, è la legge n. 724 del 23 dicembre 1994 (primo governo Berlusconi), intitolata significativamente “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”. La 724 spalanca le porte della precedente legge 47/1985, estendendola agli abusi realizzati fino al 31/12/1993. Nel biennio successivo si contano 14 decreti, (l’ultimo fu il Dl 495/1996) tutti decaduti per mancata conversione in legge e tutti contenenti una norma, un richiamo, anche solo un riferimento alla sanatoria edilizia. La raffica di decreti termina solo quando la Corte costituzionale (sentenza 360 dell’ottobre del 1996) stabilisce l’illegittimità della prassi di reiterare all’infinito le decretazioni d’urgenza facendone poi salvi gli effetti.
L’ultima sanatoria ex lege risale al 24 novembre 2003 (ancora Berlusconi) con la conversione del decreto 30 settembre n. 269, “Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici”.
Perché oggi parlo di abusivismo? Perché il tema resta sulla cresta dell’onda. Partiamo dal governatore piddino Vincenzo De Luca che in Campania vuole sanare 70mila case abusive. E pensare che quelli del Pd campano, quando a legiferare sull’abusivismo edilizio era la giunta di centrodestra guidata da Stefano Caldoro (Pdl), usavano questi toni: “Finché il territorio sarà considerato oggetto di baratto in cambio di consensi elettorali, quelle che poi verranno saranno lacrime di coccodrillo“. Passiamo poi al governatore Pd della Sicilia Rosario Crocetta: secondo un’anticipazione del quotidiano La Repubblica dell’8 aprile scorso, “il governo Crocetta e una maggioranza trasversale all’Assemblea regionale siciliana presenteranno il piano sull’abusivismo, un pacchetto di norme che, per almeno un anno, sospende le demolizioni di case costruite sulla costa, anche all’interno dei 150 metri dalla battigia: “Nessuno parli di sanatoria – ha detto Crocetta – Si tratta di una norma che evita l’abbattimento se lì si possono realizzare opere di servizio pubblico, come lidi o altro, e nelle more dei piani che dovranno fare i Comuni si bloccano le ruspe per almeno un anno”.
Soprattutto, il tema dei condoni va affrontato perché è proprio di questi giorni la discussione in Parlamento di un disegno di legge titolato (“Disposizioni in materia di criteri per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi“, presentato nel 2013 da tale Ciro Falanga, deputato trasformista campano, prima Forza Italia, ora in Ala, la compagine dei verdiniani. Votato al Senato il 22 gennaio 2014, poi trasformato alla Camera e lì votato il 18 maggio 2016, licenziato all’unanimità dalla commissione Giustizia del Senato il 12 aprile scorso, il testo andrà presto al voto finale del Senato. In esso si fissa l’aberrante criterio secondo cui non tutti gli abusivismi sono uguali: ci sono quelli di speculazione e quelli di necessità. Dato questo presupposto, in futuro dovrà darsi priorità ai primi nell’abbattimento. E non lo si chiami condono edilizio, perché formalmente non lo è: come definire, però, un provvedimento di legge che torna a distinguere tra “abusivismo di necessità” e “abusivismo di speculazione”, stabilendo che il primo deve finire in coda nella scala di priorità quando c’è da decidere sugli abbattimenti, rinviandoli a data da destinarsi, ossia mai.
Il Ddl prevede anche che a occuparsi delle demolizioni future non saranno più i sindaci, bensì i prefetti, stanziando 10 milioni di euro ad hoc l’anno dal 2017 al 2020. Dato che si calcola che ogni demolizione costa 80 mila euro, in sostanza si potrebbero demolire appena 130 edifici l’anno. In tutta Italia. Attualmente sono 46.760 le ordinanze di demolizione che attendono esecuzione (dati fermi al 2011) e ogni anno vengono realizzate circa 20.000 case abusive.
Sempre di più mi vergogno di essere italiano. E mai e poi mai, a maggior ragione, entrerei in politica in una nazione in cui si varano norme che favoriscono la delinquenza allo scopo di accumulare consenso elettorale. Se in una remota ipotesi entrassi in politica e addirittura facessi parte del governo, cosa farei io in materia di lotta all’abusivismo edilizio?
Ecco alcuni spunti. 1) Accertamento di tutti gli abusi esistenti sul territorio e relativa pubblicità cartacea presso l’albo pretorio comunale e in rete; 2) monitoraggio costante del territorio al fine di evitare nuovi abusi; 3) commissariamento di quei comuni che non hanno uno straccio di piano regolatore; 4) inasprimento delle pene per coloro che realizzano costruzioni abusive; 5) immediata esecutività delle ordinanze (contingibili e urgenti) di abbattimento, una volta accertata l’assenza di titolo abilitativo (il procedimento penale segua la via che gli compete); oneri per l’abbattimento e il rispristino a carico del delinquente; obbligo di riutilizzo del materiale derivante dalle demolizioni.
Voglio concludere con un’osservazione sul cosiddetto “abusivismo per necessità”. Di cosa parliamo, per favore? Con tutti gli alloggi liberi che ci sono sul territorio italiano, è davvero “necessario” costruire una villetta? Possibile che con tutti gli alloggi in vendita o da affittare, una famiglia abbia come unica alternativa all’andare a dormire sotto i ponti, pagare un’impresa che le realizzi una casetta?


«Il parere legale ha confermato ciò che i movimenti, i cittadini, gli agricoltori denunciano da almeno 30 anni, conducendo una dura battaglia sul campo». la città invisibile, 24 aprile 2017 (c.m.c.)


«La Monsanto deve essere ritenuta responsabile per crimini contro l’umanità, violazione dei diritti umani, libertà di informazione e Ecocidio».

I cinque giudici internazionali del tribunale Monsanto hanno presentato, oggi [18 aprile 2017, NdR] a L’Aia, il loro parere legale dopo aver analizzato per 6 mesi le testimonianze di oltre 30 testimoni, avvocati ed esperti sui danni causati dalle attività della Monsanto. I giudici hanno concluso che la Monsanto ha condotto azioni che hanno negativamente pregiudicato il diritto ad un ambiente sano, il diritto al cibo e il diritto alla salute. I giudici hanno infine incoraggiato gli organi di controllo a proteggere l’ambiente e i diritti umani internazionali contro la condotta delle multinazionali che stanno, inoltre, violando il diritto alla libertà di ricerca scientifica.

Il parere legale ha confermato ciò che i movimenti, i cittadini, gli agricoltori denunciano da almeno 30 anni, conducendo una dura battaglia sul campo. Il modello di un’agricoltura basata su monocolture, sull’ampio uso di prodotti chimici e di sementi geneticamente modificate, e il modello economico industriale, basato a sua volta su politiche neoliberiste di libero scambio e sulla liberalizzazione del commercio, stanno avvelenando milioni di persone e stanno espellendo i piccoli agricoltori dalla terra, consentendo alle aziende di stabilire monopoli e ottenere il controllo dei nostri semi e del nostro cibo. Pur avendo distrutto buona parte del nostro suolo, inquinato l’acqua e messo a rischio la biodiversità, pur avendo contribuito massicciamente al cambiamento climatico, il modello di agricoltura industriale produce solo una minima parte del cibo disponibile a livello globale basandosi sulla falsa asserzione che abbiamo bisogno di veleni per produrre cibo.

I produttori reali sono i nostri impollinatori, gli organismi del suolo e della biodiversità e i piccoli agricoltori che, come co-creatori e co-produttori con la natura, forniscono la maggior parte del cibo che è nutriente per il pianeta e per la gente e in grado di offrire una soluzione alla povertà, alla crisi agraria, all’emergenza della salute e alla malnutrizione.

Il parere consultivo dei giudici internazionali del tribunale Monsanto rappresenta quindi un colpo consistente al potere del big business e un supporto rilevante per il lavoro di migliaia di attivisti, agricoltori, consumatori e cittadini di tutto il mondo. I giudici hanno considerato come, durante l’ultimo mezzo secolo, le aziende abbiano creato miti e propaganda su sostanze chimiche velenose «necessarie per sfamare il mondo».

Per l’industria si trattava di aumentare le loro fonti di utili dopo la fine della guerra, ma per il pianeta e i suoi abitanti, i costi sono stati molto alti: invece di nutrirci, il cibo di origine industriale è diventato una delle principali cause di malattia e povertà. Il parere consultivo del Tribunale Monsanto non solo esprime preoccupazione sui risultati delle attività delle multinazionali in tutto il mondo, ma mette in guardia la società civile e le istituzioni sui pericoli futuri.

Nonostante tutti i loro crimini, le grandi aziende stanno, infatti, cercando di ingrandirsi, reclamando potere assoluto, diritti assoluti, immunità assoluta, mettendo in campo strumenti ancora più violenti contro la natura e le persone. Fusioni, acquisizioni e accordi, come quelli tra la Monsanto-Bayer, fra la Dow-Dupont, fra la Syngenta-ChemChina, risulteranno in un cartello di 3 aziende giganti di semi e prodotti chimici in grado di controllare il nostro cibo e la nostra agricoltura, con un forte impatto sui diritti degli agricoltori e dei consumatori. Mentre la concorrenza è la retorica degli accordi di libero scambio, il monopolio è il vero risultato. E’ questo il modo con cui le multinazionali stanno distruggendo la diversità, il pluralismo e la democrazia, cercando di sbarazzarsi delle normative che proteggono il nostro cibo, la nostra salute e i nostri mezzi di sussistenza.

I movimenti di tutto il mondo hanno denunciato ogni tentativo delle multinazionali di estendere il loro controllo sulla nostra vita, sui nostri semi, e sulle conoscenze indigene attraverso i diritti di proprietà intellettuale, utilizzando lo strumento di brevetti sui semi e sulla vita. La porta ai brevetti è stata aperta attraverso la chiave dell’ingegneria genetica, dichiarando che i semi sono un’invenzione aziendale e quindi di proprietà delle multinazionali.

Attraverso la creazione di monopoli, le multinazionali raccolgono royalties e negano agli agricoltori il diritto di condividere e conservare i semi derubando così i cittadini dei loro diritti alla sovranità alimentare. Oltre ai problemi di sicurezza, tra cui la modificazione genetica, la biologia sintetica e la modifica dei geni legata agli OGM, la questione principale appare essere quella dell’obiettivo delle multinazionali di ottenere il possesso della vita sulla terra.

Il Tribunale Monsanto ha confermato la pericolosità di prodotti e di sostanze chimiche tossiche come Round Up (glifosato) e Basta (glufosinato), neonicotinoidi, atrazina, e altri pesticidi velenosi che hanno causato distruzione dei suoli, desertificazione, sterminio di api, aumento di epidemie come cancro e difetti congeniti.

Queste multinazionali stanno contaminando la popolazione inquinando il suolo e avvelenando i nostri sistemi alimentari. La relazione pubblicata di recente da Hilal Elver, relatore ONU per il diritto al cibo, presenta una chiara analisi relativa all’uso di pesticidi in agricoltura e agli impatti sui diritti umani. Lo scorso settembre, la Corte Penale Internazionale ha dichiarato di voler dare la priorità ai reati connessi alla “distruzione dell’ambiente”, allo “sfruttamento delle risorse naturali” e alla “espropriazione illegale” di terra prendendo in considerazione molti crimini tradizionalmente sottovalutati. La CPI non sta estendendo formalmente la sua giurisdizione, ma ha specificato di voler valutare reati esistenti, come i crimini contro l’umanità, in un contesto più ampio.

Il parere consultivo reso pubblico dai giudici del Tribunale Monsanto ha un forte valore morale e conferma la necessità di affermare il primato dei diritti umani e ambientali all’interno di un quadro giuridico internazionale. Il diritto internazionale dovrebbe ora riconoscere, con precisione e con chiarezza, i diritti dell’ambiente e il reato di Ecocidio. Il Tribunale conclude che, se il reato di Ecocidio fosse riconosciuto nel diritto penale internazionale, le attività della Monsanto potrebbero, con tutta probabilità, costituire un crimine. I movimenti della società civile possono ora contare su nuovi strumenti e su un parere consultivo legale eminente per rafforzare la loro azione in difesa dei diritti della terra e dei suoi abitanti.

Storia pregressa e prossime attività in programma

Il procedimento che ha condotto il “Cartello dei Veleni” a prendere atto dei propri crimini e che ha portato all’organizzazione del Tribunale Monsanto, è frutto di 30 anni di lavoro in campo scientifico, legale, sociale e politico da parte di movimenti, scienziati e cittadini coscienziosi.

Mentre i tribunali si occupano dei crimini del Cartello di Veleni, che è molto importante affinché si affermi la giustizia, le persone detengono il potere di cambiare le modalità di produzione del loro cibo.

Contemporaneamente al Tribunale Monsanto, lo scorso ottobre si è svolta a L’Aia anche un’Assemblea Popolare. E’ stato un incontro di movimenti ed attivisti che lavorano per difendere il nostro ecosistema e la nostra sovranità alimentare, che studiano gli effetti delle sostanze chimiche usate in agricoltura sulle nostre vite, sul nostro suolo, sulla nostra atmosfera e sul clima. L’Assemblea Popolare ha rappresentato un’occasione per individuare insieme la giusta strada per reclamare un futuro basato sulla Libertà dei Semi e del Cibo, sull’agro-ecologia e sui diritti degli agricoltori, sui nostri beni comuni, su economie di condivisione e sulla Democrazia della Terra.

Negli stessi giorni, si sono svolte Assemblee Popolari auto-organizzate da comunità locali di tutto il mondo che hanno dato vita ad una rete globale di cooperazione al fine di garantire un futuro più salutare sia dal punto di vista della genuinità del cibo sia da quello del rispetto dell’ambiente.

Il 16 ottobre 2016, Giornata Internazionale dell’Alimentazione, l’Assemblea Popolare ha emesso il suo verdetto: la Monsanto e il Cartello dei Veleni sono colpevoli di crimini contro in nostro pianeta e contro l’umanità. L’industria che fabbrica i veleni sta distruggendo la vita sulla terra, la nostra salute e le nostre democrazie. L’Assemblea Popolare ha quindi deciso che è tempo di mettere fine ad un secolo di ecocidio e genocidio.

Nel momento in cui le multinazionali si compattano per mezzo di fusioni ed aumentano di dimensioni e potere, i movimenti che hanno preso parte all’Assemblea Popolare hanno deciso di unire le forze per reclamare i diritti delle persone ad un’alimentazione sana e a un ambiente altrettanto sano e sicuro, come anche per difendere le tutele esistenti, in materia di diritti umani e ambientali conquistate nel corso di decenni di lotte sociali.

Nel 2016 si sono svolte più di 1100 Assemblee Popolari in 28 paesi diversi, nelle quali i partecipanti hanno preso l’impegno di difendere collettivamente la Libertà dei Semi, del Cibo e i nostri diritti democratici per far sì che il nostro sistema alimentare del futuro protegga la vita sulla terra ed il benessere di tutte le creature viventi.

Questa mobilizzazione a livello globale continua a crescere: movimenti da ogni parte del mondo continuano a incontrarsi con il comune intento di mettere fine ad un secolo di ecocidio e genocidio.

In risposta alla serie di preannunciate fusioni tra i giganti dell’industria agro-chimica, l’ultima delle quali l’acquisizione di Monsanto da parte di Bayer, Navdanya sta organizzando diversi eventi ed attività per i prossimi mesi:

Recentemente, Navdanya è entrata a far parte di un vasto movimento di opposizione contro i veleni presenti nel nostro sistema alimentare e ha invitato la cittadinanza a firmare l’Iniziativa dei Cittadini Europei per vietare il glifosato e per riformare le politiche di approvazione dei pesticidi nell’Unione Europea. In relazione agli effetti dei pesticidi contenenti glifosato sulla salute umana, molti testimoni da Europa, Stati Uniti e Argentina hanno partecipato al Tribunale Monsanto, condividendo la loro esperienza relativa ai danni associati ai prodotti chimici utilizzati in agricoltura.

In India, Navdanya è molto attiva nel contrastare il processo locale di approvazione delle fusioni tra multinazionali e sta mettendo in guardia il governo indiano sui conflitti d’interesse esistenti e sul pericolo derivante dalla troppa concentrazione di potere. Allo stesso tempo, Navdanya ha riunito vari movimenti per intraprendere un Satyagraha Yatra, un pellegrinaggio per la Libertà dei Semi e del Cibo, programmato nel mese di aprile 2017.

In Grecia, dal 20 al 22 aprile, Navdanya si unirà a Peliti per il Festival Olimpico per la Libertà dei Semi insieme a movimenti e organizzazioni provenienti da tutto il mondo.

In Germania dal 25 al 29 aprile, insieme a CBG (Coalition against Bayer Dangers), IFOAM Organics International, Colabora e molti altri movimenti di cittadini ed organizzazioni, Navdanya ha organizzato una serie di eventi che culmineranno in una manifestazione, il 28 aprile a Bonn, di fronte al World Conference Center dove, lo stesso giorno, è in programma l’incontro annuale di Bayer con gli azionisti.

Mai come ora è stato più importante per la popolazione organizzarsi per fermare la presa di potere delle multinazionali sul nostro cibo e sul nostro pianeta.

Vi invitiamo ad unirvi alle comunità di tutto il mondo in questa nuova “Chiamata all’azione contro la presa di potere delle multinazionali sul nostro cibo e sulla nostra salute”. Vi invitiamo inoltre ad organizzare un’Assemblea Popolare, ovunque voi siate per creare un futuro migliore per il nostro sistema alimentare ed il nostro pianeta.

In ogni luogo, assumiamo l’impegno per creare un futuro più salutare per il nostro cibo e per il nostro pianeta. Dalle Assemblee Popolari lanceremo una campagna di boicottaggio, per proteggere i cittadini dai veleni e dalle imposizioni del Cartello dei Veleni, e per liberare i nostri semi e la nostra terra, le nostre comunità e società, il nostro pianeta e noi stessi.

«Un rapporto sullo stato dell’economia sociale e solidale porta alla luce cifre ed esperienze che fanno della capitale catalana un interessantissimo esempio di come al giorno d’oggi proposte di modelli alternativi al neoliberismo non solo siano possibili, ma già in atto».comune-info, 24 aprile 2017 (c.m.c.)



A Barcellona, ​​più di 4.700 iniziative socio-economiche si ispirano ai valori della cooperazione, dell’orizzontalità e dell’autogestione. Sono l’espressione dell’economia sociale e solidale catalana, esperienze che allo stesso tempo si configurano come pratica economica e come movimento sociale.

Nel 2016 Anna Fernàndez e Ivan Miró pubblicano un rapporto sullo stato dell’economia sociale e solidale a Barcellona, portando alla luce cifre ed esperienze che fanno della capitale catalana un interessantissimo esempio di come al giorno d’oggi proposte di modelli alternativi al neoliberismo non solo siano possibili, ma già in atto. Gli autori presentano un lavoro di ricerca che ha fatto emergere una realtà che a Barcellona è radicata da molto tempo e che conta oltre 4.700 iniziative socio-economiche, pari al 2,8% del totale delle imprese registrate, distribuite nei differenti quartieri della città (vedi cartografia). Un insieme di realtà dove trovano lavoro più di 53.000 persone, pari all’8% dell’occupazione totale e che partecipa al 7% del PIL della città. Ma di preciso di cosa stiamo parlando?

L’economia sociale e solidale nei quartieri di Barcellona

Senza entrare nel dibattito sui concetti, per il quale si rimanda al documento prodotto da RIPESS nel 2015, riportiamo integralmente la definizione che il volume dà riprendendola da una proposta di legge redatta nel 2015 dalla rete di economia solidale catalana, la XES Catalunya: «[…] si definisce l’economia sociale e solidale come un insieme di iniziative socio-economiche i cui membri, in modo associativo, cooperativo, collettivo o individuale, creano, organizzano e sviluppano democraticamente e senza dover necessariamente avere scopi di lucro, processi di produzione, di scambio, di gestione, di distribuzione delle eccedenze, di sistemi monetari, di consumo e di finanziamenti di beni e servizi volti al soddisfacimento dei bisogni. Promuovono relazioni di solidarietà, cooperazione, reciprocità, basate sul dono e la trasformazione egualitaria della economia e della società; hanno come finalità la promozione del bien vivir e la sostenibilità e la riproduzione della vita di tutta la popolazione».

Riportare la vita al centro e ripartire dalle relazioni

Si tratta di un paradigma che, contrapponendosi a quello dominante, rimette al centro la vita umana e le relazioni, ponendo l’accento sulla necessità di portare sullo stesso piano produzione e riproduzione. Produrre per rispondere alle necessità umane nel riconoscimento del ruolo fondamentale che ha il processo di riproduzione. Si tratta di un modello socio-economico che mette in secondo piano la formalizzazione giuridica delle entità, raccogliendo al suo interno realtà di differente tipo. La prima parte del lavoro di Fernàndez e Mirò illustra in maniera dettagliata e con dati alla mano la pluralità delle esperienze che compongono il panorama dell’economia sociale e solidale barcellonese: cooperative di lavoro, di servizi, di consumatori e di utenti; cooperative per l’abitare e per la formazione; le mutue e i servizi bancari e di credito che promuovono la finanza etica; il terzo settore sociale e imprese per l’inserzione e l’avviamento al lavoro; gruppi di consumo, orti urbani e banche del tempo; forme di autogestione comunitaria di strutture ed edifici pubblici e altri ancora.

Risulta evidente come non siano la forma giuridica o il settore di riferimento a determinare quali siano le esperienze afferenti all’economia sociale e solidale, quanto piuttosto un insieme di criteri che spaziano dall’equità di genere alla sostenibilità ambientale, dalla democraticità dei processi decisionali alla [re]distribuzione egualitaria della ricchezze e altri ancora. Certo non sempre è facile stabilire un confine netto tra chi è dentro e chi è fuori, ma trattandosi di pratiche che hanno l’ambizione di trasformare la società in cui intervengono, si tratta di percorsi e processi sempre perfezionabili e in continuo mutamento. Una questione, quest’ultima, messa in luce anche da un’altra esperienza del panorama catalano volta alla mappatura delle realtà dell’economia solidale del territorio. Si tratta del Pamapam, una pratica di collaborative mapping realizzata dalla ONG Setem Catalunya su base volontaria per intervistare, conoscere e, successivamente, mappare pratiche solidali.

Verso un nuovo modello di città: cooperativa, solidale e per il bene comune

La seconda parte del volume è dedicata alla configurazione dello spazio urbano di Barcellona con un approfondimento su alcuni suoi quartieri emblematici che, provenendo da traiettorie storico-culturali nonché socio-economiche differenti, sono oggi protagonisti nella definizione di un modello di spazio urbano che si ponga come alternativo a quello dominante. Quest’ultimo ha dato alla luce un modello di città che già nell’89 fu definito da David Harvey “entrepreneurial city” (città imprenditoriale), così indicata per l’accumulazione del capitale con i conseguenti fenomeni di privatizzazione e mercificazione di risorse pubbliche, esclusione di intere fasce della popolazione, finanziarizzazione della rendita urbana e depauperamento del patrimonio storico-culturale nonché dell’ambiente stesso.

Fernàndez e Mirò mostrano come nei differenti quartieri sia in atto una – riprendendo le parole di Lefebvre – produzione sociale dello spazio urbano volta ad affermare pratiche collettive e solidali, nel perseguimento del bene comune. Così sta accadendo alla Barceloneta, quartiere con un forte passato cooperativo e che oggi soffre una forte pressione turistica, o a Sants, quartiere di tradizione operaia dove si incontrano pratiche di autogestione di aree ed edifici dismessi minacciati da progetti immobiliaristi.

Gli autori hanno messo in luce i punti di forza e di debolezza di un fenomeno che a Barcelona sta crescendo in maniera esponenziale. Ne è un dato chiaro anche la costituzione del Commissionat de Economía Cooperativa, Social i Solidaria i Consumo da parte della sindaca Ada Colau, eletta nel giugno del 2015 con la piattaforma cittadina nata con il nome di Guanyem Barcelona – Vinciamo Barcelona – e oggi conosciuta come Barcelona en Comú. La giunta comunale dichiara così apertamente qual è il modello socio-economico che intende perseguire, un modello improntato proprio al paradigma dell’economia solidale.

Articolo pubblicato anche su Labsus – Laboratorio per la Sussidiarietà


«Per un intero secolo, pensatori e utopisti si sono esercitati sul tema della nuova frontiera di uscita dallo spazio angusto (mentale e fisico) tradizionale». Città Conquistatrice, 23 aprile 2017 (c.m.c.)


In principio era il concetto di crescita infinita ai suoi albori, unito alla meccanica specializzazione: per così dire, ci si allargava e ci si restringeva allo stesso tempo. Lo stabilimento o ufficio amministrativo più grande, per produrre più pezze di tela, barre di ferro, pratiche e pacchi di fogli stampati, aveva bisogno di spazio, e quello spazio si doveva automaticamente cercare «un po’ più in là».

Il medesimo luogo, in parallelo, perdeva concettualmente dei pezzi, dedicandosi in esclusiva a certe pezze di tela, certi tipi di barre di ferro, certe pratiche e servizi. Per le altre, erano disponibili altri spazi, contenitori, personale, e all’inizio questo processo era chiamato virtuosamente «decentramento», a evocare ariosità, salute, benessere, visto che il problema pareva giusto quello di una angusta soffocante «congestione».

Per un intero secolo, pensatori e utopisti si erano esercitati su questo tema della nuova frontiera di uscita dallo spazio angusto (mentale e fisico) tradizionale, e finalmente una innovazione tecnico-sociale pareva rispondere a quasi ogni difficoltà incontrata sul terreno pratico: l’automobilismo di massa. Che cancellando insieme alle telecomunicazioni l’idea stessa di distanza, poneva le basi di quanto sarebbe stato poi ribattezzato lo sterminato Tecnoburbio.

Matrix

E al centro di tutto questo azzeramento virtuale dello spazio e delle distanze, vera e propria torre d’avorio della modernità, stava il concetto di campus, luogo di ultraconcentrazione mentale degli eletti che sfornava puro pensiero, per spalancare ancora nuovi orizzonti di crescita ed espansione per il resto del mondo. Da lì, un po’ come da una sorta di computer centrale come ci si immagina qualunque organizzazione gerarchica, emanava la ragnatela di comando strategico per il mondo, i mercati, il futuro.

Che si trattasse di una struttura universitaria o legata alle imprese industriali, il campus ci è da sempre stato presentato secondo i medesimi criteri: cittadella esclusiva autoreclusa, anche se amichevolmente aperta, col verde a fungere sia da sfondo rilassante che da elastica barriera di reclusione, dentro cui si muoveva l’élite del pensiero creativo. Ma già agli albori, di quella che pareva l’alba dell’utopia, una versione migliorata di medioevo monastico, senza nessuno dei rovesci della medaglia draghi e barbari inclusi, qualche sociologo e studioso notava vistose crepe: disaffezione, stress da isolamento, e addirittura (udite udite) scarsa propensione a produrre pensiero, o almeno qualità innovativa nettamente inferiore a chi continuava a meditare e ricercare «congestionato» in città. Piccoli sintomi, all’inizio: il campus di impresa giusto un filino meno innovativo di quello universitario, era solo la dimostrazione dei prevalere naturale del pubblico rispetto al privato? Macché: c’era ben altro.

Sprawl di cervelli

Accadeva, e ancora accade semplicemente, che un ambiente chiuso e autoreferenziale, così come tende a diventare tutto ciò che si isola rispetto al resto della società, perde in vitalità complessiva e quindi proprio in ciò che dovrebbe esprimere al massimo grado. Se per il quartiere suburbano residenziale monoclasse dormitorio, questo isolamento poteva tradursi in stress, se per il centro commerciale introverso diventava occasione di sbilanciare l’offerta o incrementare gli aspetti pubblicitari e identitari, nel caso dello office park direzionale, e peggio ancora del campus di ricerca, la crisi tocca un nervo vitale, quello della sua fondamentale ragione d’essere produttiva.

Un centro di innovazione che non riesce a innovare, perché ha perduto i contatti con la società e il mondo con cui dovrebbe interagire, deve recuperarli in fretta, e il modo più immediato è quello di tornare a immergersi a strettissimo contatto. Da qui, tutte le tendenze, a partire dagli ultimi scorci del ‘900 sino ad oggi, al ricentraggio dei quartieri generali di riflessione di tante imprese, a volte si dice a «inseguire la propria materia prima», ovvero la creative class a cui lo sprawl suburbano non è mai andato troppo a genio. Basta così? Torniamo alla città tradizionale dopo mezzo secolo di ricreazione a piedi nudi nei prati dell’ex Nuova Frontiera suburbana? Molto probabilmente no, ma la lezione da imparare è che schematizzando troppo, schiacciando esseri umani e natura secondo qualche schema meccanico di breve respiro e troppo semplificato, si rischiano grossi guai. Evitiamoli, per quanto possibile.

Riferimenti:
– AA.VV. Rethinking the corporate campus, SPUR, San Francisco, aprile 2017
– Per la citata definizione di Tecnoburbio, si veda qui su questo sito l’estratto tradotto da The Bourgeois Utopia di Robert Fishman

la Repubblica, Roma, 23 aprile 2017

LA post-verità di Dario Franceschini è che l’autonomia del Colosseo non avrebbe ricadute sul governo del patrimonio culturale della Capitale. Ma basta ricordare che giustificò proprio con la sottrazione di quegli introiti l’introduzione del biglietto al Pantheon per capire che non è vero. Come dimostra anche l’aggressiva operazione con la quale il ministro ha sfilato al Comune le Scuderie del Quirinale, siamo di fronte ad una precisa strategia: fare del Collegio Romano il vero centro decisionale della politica culturale romana. Se si aggiunge il fatto che la moglie di Franceschini guida l’opposizione pd in Campidoglio ce n’è abbastanza per innescare uno scontro frontale.
La disarticolazione del patrimonio culturale romano in più centri decisionali e la sostanziale demolizione della soprintendenza sono destinati a incidere in negativo su ogni progetto di fruizione integrata. Lo “scippo” del Colosseo è la pietra tombale sul progetto di Antonio Cederna: un unico parco civico e archeologico che unisse l’Appia ai Fori senza soluzione di continuità. È dunque naturale che il sindaco reagisca.
La stragrande maggioranza della comunità scientifica dell’archeologia e della storia dell’arte si è pronunciata (con documenti ufficiali delle varie consulte) contro la riforma Franceschini, giudicata il punto più basso della storia della tutela nell’Italia unita. Il patrimonio è stato diviso in una good company (grandi musei e grandi monumenti) che mercifica in modo cinico e anticulturale ciò che gli è affidato, e nella bad company del territorio, delle biblioteche e degli archivi. La politica ha colonizzato gli organismi scientifici secondo il modello Rai, e la ricerca è ormai fuori dall’agenda. Infine, appare fuori controllo l’uso spregiudicato di un precariato senza diritti, travestito da volontariato.
L’M5S ha partecipato alla mobilitazione contro tutto questo sfilando lo scorso 7 maggio nella manifestazione romana del coordinamento Emergenza Cultura. E il vicesindaco Luca Bergamo ha dichiarato: «Basta con lo sfruttamento intensivo del nostro patrimonio a meri fini di biglietteria ». Se questo ricorso non è una lite per la cassa, ma il primo passo verso una politica culturale alternativa, allora si potrebbe aprire uno scenario di grandissimo interesse.
Riferimenti

Abbondanti materiali sul "progetto Fori" sono raggiungibili digitando le parole nel "cerca" presente in ogni pagina del sito. Una presentazione del progetto Fori è raggiungibile qui

«International Earth Day. Da Silicon Valley alle università californiane, centinaia di migliaia in piazza contro il "maccartismo climatico"». il manifesto, 23 aprile 2017 (c.m.c.)

«Una nazione che distrugge le proprie terre distrugge se stessa. Le foreste sono i polmoni della nostra terra, purificatrici dell’aria e fonte di forza per la nostra gente». Sul sito della associazione Earth Day della California campeggia questa frase di Franklin Roosevelt, quasi a dare una ulteriore misura di quanto sia rimossa questa America etnonazionalista, populista e oligarchica da quella che all’inizio del secolo scorso costruì lo Stato sociale.

Prima ancora un altro Roosevelt – il cugino guerrafondaio Teddy – era stato paladino dei parchi nazionali, tutelando quasi un milione di km quadrati di territorio federale. Il movimento «conservazionista» era nato qualche anno prima, soprattutto nella California esplorata da John Muir, padrino dei parchi della Sierra Nevada e di Yosemite.

Il naturalista scozzese veicolava la riverenza per la natura precedentemente espresso da Thoreau e Walt Whitman, un misticismo contemplativo in perenne tensione, nella storia americana, con l’impulso opposto a sottomettere la natura al «destino manifesto» dello sviluppo e del capitale. Dal lavoro californiano di Muir discende il moderno movimento ambientalista che dai conservatori del Sierra Club si evolverà alla moderna militanza di Greenpeace e agli eco-guastatori di Earth First con le loro azioni contro le dighe e a favore delle antiche foreste dell’Ovest.

La prima mobilitazione della Giornata della Terra avviene attorno ad una perdita di petrolio da una piattaforma nella baia di Santa Barbara. Culla del ambientalismo moderno la California ha tradotto 50 anni di istanze «verdi» in normative ambientali e politiche energetiche all’avanguardia che oggi mettono lo Stato in antitetica controtendenza rispetto alla rottamazione ambientale del governo Trump.

Dal polo solare, eolico e high tech californiano dove fioriscono new company come la Tesla e dove perfino Marchionne è tenuto, controvoglia, a commercializzare Fiat 500 elettriche, l’azzeramento delle norme di consumo sulle auto di Detroit e il «ritorno al carbone» continuamente perorato da Trump appaiono ancora più paradossali. Un atto, tra l’altro, di volontario autolesionismo economico che cede il primato tecnico scientifico ancorato in gran parte proprio qui.

Non sorprendono dunque le dichiarazioni del governatore Jerry Brown, reduce personale delle prime battaglie ambientaliste di 40 anni fa: «Qualunque cosa facciano a Washington, non possono cambiare i fatti… la scienza parla chiaro». Un attacco esplicito al tentativo «di costruire un universo alternativo basato su non-fatti di nostro gradimento. La California – ha assicurato Brown, che gode di ampio consenso elettorale – non tornerà indietro. Né ora né mai!».

Al di là della minaccia retrograda al complesso ambientale-industriale supportato dalla grande rete scientifico-universitaria del suo Stato, Brown ha inquadrato la natura epistemologica dello scontro politico in atto. Il neo oscurantismo trumpista vuole ampliare l’offuscamento già operato dalle fake news alla confutazione dell’indagine scientifica se questa non serve agli interessi industriali.

E la resistenza, col movimento ambientalista in prima linea, si trova oggi a dover difendere la natura stessa dei fatti e le fondamenta della conoscenza. Fra le motivazioni delle centinaia di marce per la scienza di ieri c’era quindi la resistenza al negazionismo climatico, al creazionismo e all’antivaccinismo dilganti con l’appoggio implicito ed esplicito di un potere esecutivo che ha elevato ignoranza e l’approssimazione a valori politici. Una resistenza ontologica al tempo delle bufale.

Le ragioni alla base delle marce per la scienza hanno suscitato molto dibattito. C’è stata, diffusa, la preoccupazione di cadere nella trappola della parte che da sempre cerca di dipingere scienza, educazione, ambientalismo come «ideologie politiche» per elevare simultaneamente oscurantismo e integralismo a legittima «opposizione», meritoria di par condicio. Alla fine è prevalso il consenso sull’urgenza di farsi contare pubblicamente come scienziati nel momento in cui il governo americano sferra un attacco senza precedenti contro la scienza e l’ambiente.

Un attacco che comprende la nomina a direttore dell’Epa (l’agenzia federale per l’ambiente) di Scott Pruitt, un avvocato di petrolieri che da attorney general dell’Oklahoma aveva copia-incollato su carta intestata un comunicato della Devon Energy per denunciare i tentativi della stessa Epa di limitare le emissioni nel suo Stato.

Pruitt ha ripetutamente citato in tribunale la stessa agenzia che ora dirige e intende rottamare. Appena assurto alla direzione ha intimato ai 15.000 scienziati Epa di cessare ogni iniziativa contro il mutamento climatico. Il «maccartismo climatico» dell’amministrazione Trump è tale che brigate di hacker operano oggi per copiare e salvaguardare i dati delle agenzie ambientali prima che i nuovi dirigenti le possano cancellare. Intanto i trumpisti annullano i satelliti per i rilevamenti di Noaa e Nasa.

La scienza è quindi di fatto diventata l’oggetto di una contesa politica a cui le centinaia di migliaia di partecipanti ai cortei hanno valutato di non potersi sottrarre.

Così ieri sono scesi in piazza tecnici, professori, ricercatori e scienziati, hanno lasciato per un giorno i laboratori di Caltech, Berkeley, Jpl, Salk institute, Scripps e da migliaia di altri in tutta America e scesi in prima linea contro l’involuzione autarchica, antitetica alla curiosità e all’intelligenza scientifica che rappresenta oggi una minaccia senza precedenti al nostro pianeta.

il Fatto Quotidiano online, 22 aprile 2017 (c.m.c.)

Il Ponte di Messina è “un’ipotesi reale“. A riaprire la discussione sulla realizzazione, pochi giorni dopo il no deciso del ministro per le Infrastrutture Graziano Delrio, è un altro componente del Governo Gentiloni. Per il ministro per la Coesione territoriale Claudio De Vincenti «quello che sicuramente si deve fare è una velocizzazione infrastrutturale del passaggio tra Calabria e Sicilia. E il Ponte è il progetto più avanzato». Quasi non fossero ministri dello stesso governo.

Sarà l’aria di Messina o di Palermo, divise dall’antica rivalità. Di fatto Delrio, in visita nel capoluogo di provincia, aveva confermato lo stop a ogni velleità pontiera perché «la priorità del Sud è l’alta velocità». Zittiti così Lupi e Alfano (Ap) e i loro out out sul tema, archiviata la solenne promessa di Matteo Renzi, a maggio e ancora nello scorso autunno, con allegati 100mila posti di lavoro. «La concessione del Ponte è stata caducata». Ca-du-ca-ta: cioè interrotta, fatta cadere. Quattro sillabe, quelle pronunciate dal ministro delle Infrastrutture, che chiudono ufficialmente il capitolo. Forse. Perché ecco che da Palermo, stavolta, il progetto “caducato” torna miracolosamente in piedi, con la promessa di trovare ancora le gambe per camminare e unire così la Sicilia all’Italia.

L’annuncio, stavolta, è per bocca di un altro ministro del governo Gentiloni che evidentemente non ha parlato né col premier né con quello delle Infrastrutture. De Vincenti è reduce da una giornata palermitana dove ha incontrato Rosario Crocetta e il sindaco metropolitano Leoluca Orlando. A metà pomeriggio di un giorno non caldissimo ma assolato (17 gradi) se ne esce così: «Il Ponte è un’ipotesi reale. Bisogna velocizzare il passaggio infrastrutturale tra Calabria e Sicilia e l’ipotesi fin qui più sviluppata, anche progettualmente, è quella del Ponte di Messina». Difficile conciliare questa visione con quella del collega. «Il problema – aveva appena detto Delrio – non è il ponte ma avere un collegamento ferroviario adeguato tra la Sicilia e il resto d’Italia, ci siamo soffermati sul Ponte ma ci siamo dimenticati di considerare che bisogna prima programmare l’alta velocità tra Roma e Reggio Calabria».

Dunque il ministro delle Infrastrutture pensa ai binari, quello della coesione al cemento. A dire il vero lo stesso Delrio ha cambiato diametralmente idea rispetto a se stesso. Lo scorso ottobre aveva stragiurato che il Ponte si faceva. C’erano perfino i soldi. «Il Ponte non è una cattedrale nel deserto ma è parte essenziale del corridoio Napoli-Palermo. Oggi per andare in treno da Roma a Palermo ci vogliono dieci ore e mezza. Con il Ponte e tutto il corridoio scenderemo a sei ore. Naturalmente si tratta di coinvolgere i territori con il dibattito pubblico, di limitare l’impatto ambientale e anche i costi». Nella stessa intervista il cronista fa notare che un anno prima Delrio la pensava diversamente, quando del Ponte diceva «Ho sempre sostenuto che abbiamo altre priorità». Ennesima inversione a U sul ponte che non c’è.

Va detto che le giravolte intorno al ponte fanno parte di una telenovela che impegna la politica da 150 anni perché dell’opera si è iniziato a parlare fin dal 1866, durante il governo Ricasoli. Lo Stato inizia a spenderci i soldi nel 1981, con Forlani e Spadolini e la costituzione della società Stretto di Messina Spa. Fu cavallo di battaglia per Berlusconi, che a Porta a Porta lo magnificava ancora nel 2004 e con tanto di plastico. Poi motivo di scorno per Mario Monti, che nel 2012 lo bloccò ma solo in parte, tenendo in piedi il baraccone societario per evitare costose penali per il disimpegno dal progetto.

Intanto solo in consulenze e studi il fantasma del Ponte riusciva a costare agli italiani reali 600 milioni di euro, buona fetta di quegli 6-8,5 miliardi – una manovra finanziaria di tutto rispetto – che servirebbero per realizzarlo (forse). Ma che nessuno trova. Così il Ponte resta diletto e dannazione di chi governa. Lo fu per i romani, che immaginavano un collegamento stabile tra Calabria e Sicilia, ma con un ponte su barche. Ne parla Plinio il Vecchio agli inizi del primo secolo d.C. Duemila e 17 anni dopo ancora ne parlano, spinti dal sonno della ragion politica che si trastulla nell’allucinazione eterna del Ponte dei Ponti. Mentre quelli veri che già ci sono, dal Cuneese alla Brianza, si sgretolano e crollano miseramente.

Finalmente Carlo Petrini, intervistato da Angelo Mastrandrea, "la butta in politica": ha compreso dove stanno le radici dei disastri in atto e lo dice. La sua è una critica radicale al neoliberismo e ai colonialismi vecchi nuovi. il manifesto 23 aprile 2017

Guardiamo alla salute del pianeta, ma pure a quella di chi lo abita, sembra dire Carlo Petrini, un una singolare sintonia con papa Francesco. Solo se si guarda al problema da questa prospettiva si potrà avere uno sguardo più ampio che consenta di connettere questioni che nell’agenda politica sono rigorosamente separate: i cambiamenti climatici, la produzione alimentare e le migrazioni, ad esempio.

L’ideatore di Slow Food è convinto che non si può affrontare la febbre che rischia di portare la Terra al capolinea pensando solo di alleviarne i sintomi. A suo parere è necessario affrontare il malessere alla radice, combattendo «il folle sistema economico» che lo produce e proponendo un «cambio di paradigma» radicale. Socialista e umanitario, verrebbe da dire.

La sua ricetta teorica per salvare il pianeta si compone di due ingredienti fondamentali: la decolonizzazione del pensiero e la creazione di un nuovo modello socio-economico. Quella pratica si risolve nella proposta di un Piano Marshall per i paesi più poveri. «Due giorni fa il nostro primo ministro Paolo Gentiloni ha detto che bisogna aumentare gli aiuti ai paesi di partenza dei migranti per creare lavoro a casa loro. Giusto, però la verità è che l’Ue non fa nulla. Se volesse intervenire davvero, dovrebbe inventarsi una sorta di Piano Marshall, ma ancora più forte», dice.

Vorrebbe dire abbandonare l’austerity, proprio quello che l’Unione europea non vuole.
«Sarebbero tanti soldi, certo. In ogni caso, se non si fa nulla quei costi li pagheremo ugualmente, perché non ci saranno muri che terranno di fronte all’ondata migratoria. È questa la battaglia politica più importante oggi in Europa, l’unico modo per far fronte all’avanzata dei Salvini e delle Le Pen».

Oggi si celebra la Giornata mondiale della terra, ma a nessuno è venuto in mente di legarla alle migrazioni come fa lei.
«Se non vediamo la connessione tra distruzione degli ecosistemi e migrazioni non capiamo nulla di quello che sta accadendo. La maggior parte delle persone non fugge per le guerre, ma perché le loro prospettive di vita sono nulle. I giovani africani si vedono negato il diritto alla terra, che un tempo era consuetudinario, perché i nuovi colonizzatori arrivano ad acquistarla legalmente, accaparrandosela a prezzi ridicoli grazie ai governi-canaglia figli della decolonizzazione».

Chi intende per nuovi colonizzatori?
«Penso ai cinesi e agli indiani, che comprano milioni di ettari di terreni in Africa per produrre cibo che non finisce agli africani, o ai fondi sovrani che fanno lo stesso per produrre biocarburanti. Questo causa la perdita di biodiversità e di fertilità dei terreni, e provoca le migrazioni di massa.

Poi ci sono i vecchi colonizzatori. Molti investimenti europei in Africa sono legati alla sostenibilità ambientale.
«Anche questo è un terreno minato. Le faccio un esempio: in Uganda il governo locale ha messo a disposizione della Norvegia una grande superficie di terreno per la riforestazione. Di per sé sarebbe una cosa positiva, se non fosse che 10 mila pastori sono rimasti senza lavoro. Bisogna imparare a decodificare le nuove forme di colonialismo che si nascondono dietro questi progetti, che possono essere sostenibili dal punto di vista ambientale ma non da quello sociale. Soprattutto in Africa, è necessario un processo di decolonizzazione del pensiero, anche perché la storia comincia a presentarci il conto. Dopo lo schiavismo, il colonialismo becero e quello mascherato degli accordi con i governi post-coloniali, ora le popolazioni cominciano a ribellarsi. Intere aree si stanno desertificando a causa dei cambiamenti climatici, masse di diseredati non possono più vivere su quelle terre. Questa situazione non regge.

Lo sfruttamento delle risorse però non si ferma.
«Il comportamento dell’umanità negli ultimi cinquant’anni è stato senza dubbio irresponsabile. Basta pensare a quello che è stato fatto con le deforestazioni e con le estrazioni minerarie e petrolifere, dove le maggiori penalizzate sono state le comunità locali. Se adottiamo questo punto di vista, avere un’attenzione per i più deboli ci porta a pensare a una visione di ecologia integrale simile a quella prospettata da papa Francesco nell’enciclica Laudato sii: è necessario pensare non solo alla terra ma pure a chi la abita. Ci sono forme di egoismo e di insensibilità che la comunità internazionale tollera da troppo tempo, quasi che le risorse siano infinite. La sofferenza degli ecosistemi si somma a quella delle comunità».

La sua è una critica radicale al neoliberismo.
«Bisogna risalire alla fonte di questi comportamenti irresponsabili. Io credo che la ragione principale sia una logica economica perversa che mette di fronte a tutto il profitto e non guarda in faccia a nessuno. Si tratta di un iperliberismo sfrenato che sta distruggendo il pianeta a beneficio di pochi. Per questo è necessario un cambio di paradigma. Se non si pensa alla costruzione di un’economia di comunità, che guardi ai bisogni a livello locale, non ne usciremo.

Poi c’è la questione del cibo, che è stato tra i primi a sollevare con Slow Food e Terra Madre.
«La questione alimentare è uno dei punti chiave, ma la comunità internazionale non l’ha mai messa in evidenza. Si parla di cambiamenti climatici e della perdita di fertilità dei suoli e non si mette in discussione la pratica più invasiva, che è la produzione di cibo. Si parla delle tonnellate di plastica in mare, ma si tace sulla pesca a strascico per la produzione di mangimi animali, che depreda la biodiversità. O i governi cominciano a riflettere su queste cose o andiamo verso il disastro. Purtroppo, le cose non stanno andando in questa direzione: Trump non dimostra quella sensibilità che dovrebbe avere una delle potenze mondiali che hanno più responsabilità nel disastro ecologico. Siamo a un crocevia decisivo».

«La storia del Comitato è iniziata il 16 marzo del 2011.Le ragioni vanno oltre gli ulivi da difendere. il Tap è un'opera inutile dal un punto di vista tecnico».Lettera43, 23 aprile 2017 (c.m.c.)

Non solo gli ulivi da difendere. Dal 2011 presìdi, battaglie, tribunali, 18 mila pagine di progetto scandagliate. Genesi e ragioni del Comitato anti-pipeline raccontate dal suo portavoce Gianluca Maggiore.Le nostre ragioni vanno oltre gli ulivi da difendere. Per noi il Tap è un'opera inutile e lo diciamo da un punto di vista tecnico: anche se li espiantassero, la fattibilità del progetto è ancora tutta da dimostrare». Gianluca Maggiore è il portavoce del Comitato No Tap. Di formazione perito meccanico, dal 2011 si è studiato oltre 18 mila pagine di documenti sulla Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto di 878 chilometri che dalla Grecia dovrebbe raggiungere la spiaggia di San Foca, in Puglia, nel 2019.

«Non ci siamo svegliati ora». Almeno questo è ciò che desiderano la Commissione europea, il governo e la società Tap Ag, con sede a Baar, in Svizzera. Al contrario, Maggiore, insieme con i sindaci salentini e il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano, pensa ancora di poter fermare le macchine. Ormai, dice, migliaia di persone gravitano intorno al movimento No Tap. «Quello che più mi infastidisce», racconta, «è leggere articoli che ci dipingono come gente che si è svegliata adesso, come se fossimo soli. Questa non è solo la battaglia del Comitato No Tap, ma della popolazione». Secondo il portavoce dei contrari al gasdotto, l'opera non è stata pensata per funzionare.

La storia del Comitato è iniziata il 16 marzo del 2011. Su media locali e nazionali uscì per la prima volta un comunicato stampa di Tap Ag, la società svizzera, in cui si descriveva a grandi linee l'idea del progetto e la sua finalità. Il Comitato ancora non esisteva: c'era solo un'associazione cittadina, Tramontana, che iniziò a volerci capire di più. «Non avrei mai immaginato che sei anni dopo saremmo arrivati a questo punto», dice Maggiore.

«Tutti i sindaci erano contrari». A ottobre 2011 il progetto cominciò a prendere forma: sul territorio salentino il piano prevedeva che dal punto di approdo di allora - una zona scogliera - partisse una rete di tubi di 21 chilometri per raggiungere la rete di gas regionale. Il 16 febbraio 2012 in un'aula piena Tap Ag presentò il progetto rivisto a Melendugno, alla presenza di centinaia di persone: «Tutti i sindaci presenti erano contrari», racconta Maggiore. In sostanza fu l'atto di nascita del Comitato No Tap.

Nuovo progetto, nuovi problemi. La seconda versione prevedeva l'approdo alla spiaggia di Melendugno, come oggi, e un allaccio alla rete del gas, stavolta nazionale. La conduttura pensata all'inizio non era sufficiente, così il piano si dovette spostare di 55 chilometri verso Brindisi. Il Comitato No Tap continuò a studiare e presentò le contromosse. Già all'epoca l'idea degli attivisti era che il Tap fosse inutile, in Salento come altrove.

Ingresso delle istituzioni. Ad aprile 2013 i sindaci, di cui diversi vicini ai No Tap, formularono le prime osservazioni, che a settembre produssero la prima bocciatura a livello regionale e nazionale. La notizia si fece sentire in Puglia. I No Tap entrarono nelle istituzioni: Maggiore insieme con altri tre attivisti (un professore di economia, un ingegnere e un fisico) furono nominati tra i 40 esperti del Comitato di volontari di Melendugno voluto dal sindaco Marco Potì, uno che nelle interviste televisive ha sempre alle sue spalle la bandiera del Comitato No Tap. Competenze locali che hanno dato corpo e argomenti alla protesta.

La battaglia per il Tap diventò poi istituzionale: governo contro Comune e Regione. Tra la fine del 2013 e il 2014 arrivò una nuova vittoria per il fronte del no: il ministero dei Beni culturali considerò il punto d'approdo in Italia nella spiaggia di San Foca inadeguato. Il ministero dell'Ambiente nel 2014 approvò la Valutazione di impatto ambientale (Via) con 58 prescrizioni, ma poi - è la versione del Comitato - intervenne il Consiglio dei ministri per limitarli.

In contatto con i NO TAV. Il 10 settembre 2014 fu il giorno della grande manifestazione contro il Tap organizzata in Puglia. "No Tap" non era più solo uno slogan salentino: «Da allora siamo in contatto con altre realtà di cittadini, come i No Tav», prosegue Maggiore.

Migliaia di pagine di memoria. Il portavoce del Comitato No Tap è diventato anche uno dei personaggi de L'alleato azero, graphic novel edita da Round Robin e prodotta dalla Ong Re:Common, una delle voci più critiche al progetto del gasdotto. Ovviamente è quello che durante un'assemblea del Comitato cita a memoria alcune delle migliaia di pagine di commenti e osservazioni sulla Valutazione di impatto ambientale.

osservazioni sulla Valutazione di impatto ambientale.


«Ospiterà da giugno a settembre l’opera rock firmata da Franco Migliacci e 4 premi Oscar La struttura è alta 14 metri». Articolo di Cecilia Cirinei e commento di Tomaso Montanari. il manifesto, 21 aprile 2017 (c.m.c.)

IL KOLOSSAL SU NERONE DIVIDE ROMA
“NO AL MAXI PALCO SUI FORI IMPERIALI”
di Cecilia Cirinei

Una struttura di grande impatto visivo, 36 metri di larghezza, 27 di profondità e 14 di altezza, è comparsa da due giorni nell’area di Vigna Barberini all’interno del sito archeologico del Palatino. È il palco che ospiterà, dal 1 giugno al 10 settembre, il musical “Divo Nerone — Opera Rock”. Ci sono già anche le 480 poltrone della platea, l’impianto audio e delle luci. Presto arriverà la scenografia e le tre file di gradinate.

E la città si divide fra favorevoli e contrari a questo maxi allestimento ideato da Franco Migliacci che mette insieme quattro premi Oscar: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo, Gabriella Pescucci e Luis Bacalov con la regia di Gino Landi, e che potrà ospitare 3025 spettatori. I biglietti sono già in vendita e la stima attuale è che il 50% sia già stato prenotato (prezzi da 45 a 180 euro).
Il palco spacca Roma ma il progetto del musical su Nerone, proprio nell’area dove viveva nell’antica Roma, ha il patrocinio del ministro dei Beni culturali Dario Franceschini che ha visto un anno e mezzo fa le scenografie di Dante Ferretti e che è favorevole a utilizzare i monumenti come cornici di eventi. Oggi, per esempio, si terrà al Colosseo un concerto di musica rinascimentale.

Per Francesco Prosperetti, Soprintendente all’area archeologica di Roma «Vigna Barberini, nel contesto dei palazzi e dei Fori imperiali, è vicina ai resti della camera da pranzo di Nerone, la Coenatio Rotunda, ma di nessun impatto sul contesto delicatissimo del Palatino. Il canone d’uso dell’area è di 250 mila euro, molto di più dei 100 mila pagati dal Teatro dell’Opera a Caracalla, ed è importante che alla Soprintendenza andrà anche il 3% dell’incasso dei biglietti. Servirà proprio per il recupero della Coenatio. Nella fase finale verranno messe tende e veli che mitigheranno l’impatto. Posso aggiungere che ho visto le prove e mi sembra un musical di alta qualità».

Decisamente contrario Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza: «Siamo alla follia. Sono convinto che si possono usare le strutture antiche, ma quando già ci sono, come il teatro di Ostia antica. Costruire ex novo in un luogo delicato come Vigna Barberini per ospitare ogni sera 3000 spettatori non sta né in cielo né in terra».

Per molti tour operator questo musical farà aumentare il pernottamento dei turisti, facendolo passare da 2 a 3 notti. «Ci siamo tuffati in questa avventura per realizzare il sogno di riunire 4 premi Oscar — racconta Cristian Casella che rappresenta la Nero Divine Ventures Spa — e per proporre alla città un evento internazionale. Dante Ferretti ha creato una scenografia straordinaria».

L’amarezza di Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza: “È una follia”.

UN SUPERPALCO SUI FORI
L'ULTIMA FOLLIA DI NERONE
di Tomaso Montanari

«Non serve a niente assoggettare il nostro passato alle logiche del presente».

I Fori come palcoscenico per spettacoli blockbuster? La vera antichità come fondale del kitsch di un musical su Nerone? Difficile spiegare perché non è una buona idea, nel momento in cui il Ministero per i Beni culturali investe quasi venti milioni di euro pubblici per trasformare il Colosseo stesso in una location per eventi e il comune di Verona vuole coprire l’Arena, trasformandola in una specie di palasport di lusso. Eppure, no: è una pessima idea.

In una società dello spettacolo in cui tutto – a partire dalla politica – è fiction, in cui tutto è intrattenimento, in cui tutto parla alla pancia è vitale salvare quei pochi luoghi in cui si può sviluppare una conoscenza critica e razionale del reale. Leon Battista Alberti diceva che l’arte è una finestra sul mondo reale: noi stiamo trasformando il patrimonio culturale in uno specchio che rimanda ossessivamente l’immagine del nostro presente. In Italia abbiamo un enorme privilegio: le nostre città ci mettono a contatto con il passato, cioè con un altro modo di vivere, e di pensare.

Se mascheriamo quel passato assoggettandolo alle logiche del presente, non ci serve a niente. Ma se ci educhiamo a leggerlo, a comprenderlo e ad amarlo per quello che è, può darci la forza di capire – diciamolo con Gramsci – «che non tutto ciò che esiste è naturale che esista». È sempre stato così: la conoscenza del passato aiuta a costruire un futuro diverso dalla continuazione del presente. Se oggi non ne siamo più capaci è anche perché pensiamo che il modo migliore per “valorizzare” i Fori sia farci un musical su Nerone. Senza l’incendio, speriamo.

«Domani si celebra la Giornata della Terra “E noi scienziati saremo in piazza contro Trump” spiega Marco Tedesco, glaciologo a New York», intervistato da Federico Rampini. la Repubblica, 21 aprile 2017

FRA noi c’è chi reagisce mobilitandosi. Chi cerca nuovi canali di comunicazione con l’opinione pubblica. E chi rimane paralizzato». Così lo scienziato italiano Marco Tedesco riassume i tanti impatti di Donald Trump sui ricercatori che si occupano di cambiamento climatico. Esperto della Nasa, docente alla Columbia University di New York nello Earth Institute (uno dei più importanti poli mondiali di scienze ambientali), Tedesco ha acquisito la sua fama negli Stati Uniti per esplorazioni e ricerche che spaziano dalla Groenlandia all’Antartide all’Himalaya. Tutte hanno in comune lo stesso tema: il cambiamento climatico. Sabato sfilerà nella manifestazione di New York, con partenza a Central Park.

Questo è il primo Earth Day nell’èra Trump, il presidente che nega la scienza dell’ambiente. Come reagisce la comunità scientifica?
«Molti fra noi si danno da fare per proteggere dati preziosi che sono minacciati, per difendere la ricerca, e i diritti civili degli scienziati. C’è una corrente che esplora anche nuove strategie di comunicazione con l’opinione pubblica: per far capire che facciamo davvero scienza, e su questa base vogliamo dialogare anche con chi ha posizioni politiche o culturali ostili. Tra i più impauriti ci sono tanti giovani, per esempio dottorandi: nell’attesa di ciò che può succedere temono di vedersi chiudere le prospettive, i progetti su cui volevano costruire una vita di ricerche».
Quanto pesa l’aspetto economico, il taglio dei fondi?
«Il problema maggiore è l’incertezza. E non mi riferisco all’incertezza nei modelli matematici sul cambiamento climatico: con quella siamo attrezzati a misurarci… Di fronte alla mannaia dei tagli alla ricerca è come se fossimo su una spiaggia dove sta arrivando lo tsunami, ma senza vie di fuga e senza conoscere l’altezza dell’onda. È bloccata la National Science Foundation, la più grossa agenzia federale che finanzia la ricerca pura, non può selezionare progetti perché non sa quali risorse avrà. Dalla Nasa all’Ente oceanografico e atmosferico, si tagliano anche i satelliti del meteo. Vuol dire creare dei buchi di conoscenza, generare lacune, interrompere la copertura satellitare del pianeta da cui dipendono le serie temporali sul clima. Possono essere rovinati 40 anni di dati sulle emissioni carboniche ».
In America c’è una robusta tradizione di mecenatismo privato, non potrebbero intervenire gli imprenditori ambientalisti, rimediare di tasca loro?
«Possibile ma poco probabile. Il pubblico e il privato hanno ruoli diversi: è lo Stato che sostiene la ricerca di base, mentre le imprese preferiscono quella applicata che ha ricadute commerciali. E la comunità scientifica che seleziona i progetti a cui dare finanziamenti federali, ha i criteri più rigorosi».
Quanto danno può fare l’Amministrazione Trump all’ambiente in cui viviamo?
«Tanto, troppo. Anche l’aggiunta di una quantità relativamente limitata di CO2 rispetto agli scenari precedenti, può scatenare reazioni del clima i cui effetti si sentiranno molto a lungo. I processi di cambiamento climatico oltre una certa soglia raggiungono il punto di non ritorno, diventano incontrollabili. E lui sta accumulando decisioni dannose: dal via libera agli oleodotti, alla deregulation che elimina restrizioni sulle emissioni di centrali elettriche o automobili. Tutto questo aumenterà il fattore di stress sul pianeta. Va ricordato che con Barack Obama eravamo sulla buona strada, sì, ma non sulla strada ottimale. Vedo anche un altro attacco alla scienza: il tentativo di creare delle task-force cosiddette indipendenti, per mettere sotto controllo la comunità dei ricercatori. È un progetto che vuole spostare i finanziamenti verso think tank legate alle lobby del petrolio. Un’altra minaccia: la fuga in avanti verso la geo-ingegneria, il tentativo di manipolare il clima, con progetti controversi come il lancio di solfati che raffreddino l’atmosfera. Esperimenti pieni d’incognite, di pericoli, di conseguenze inattese».
Le sue ricerche sul campo la portano a vivere per mesi ogni anno alle latitudini più estreme, le zone ghiacciate del pianeta dove spesso gli effetti del cambiamento climatico sono allo stadio più esacerbato. Che conclusioni ne trae?
«È un susseguirsi di campanelli d’allarme, dall’Artico alla Groenlandia continuano ad esserci record battuti. Il permafrost, lo scioglimento delle nevi, i ghiacciai marini, le correnti nei fiordi, è tutto un sistema che ci sta dicendo quanto è avanzato l’impatto del cambiamento climatico ».

«Le riqualificazioni per attrarre turisti fanno schizzare i prezzi delle case. Equo canone abolito, defiscalizzazioni, visti gold per immigrati di lusso... Il precedente governo di centro-destra ha stravolto tutto». il manifesto, 20 aprile 2017 (c.m.c.)

Il mercato immobiliare lisboneta sta subendo negli ultimi anni una vera e propria rivoluzione. Ormai la capitale portoghese è una delle mete principali del turismo internazionale e quindi è necessario creare posti per i visitatori in arrivo.

La globalizzazione non conosce regole, anzi, le vuole abbattere. Occorre attrarre capitali, si dice, e poco importa se poi si alterano gli equilibri a tal punto che la vita delle persone si fa drammatica. Il fenomeno è in realtà più complesso di quanto non appaia. Da una parte è innegabile che i quartieri “tipici” dell’Alfama, Mouraria, Santa Caterina e della Baixa Pombalina stessero cadendo a pezzi. Una situazione di degrado che ben presto sarebbe diventata irreversibile. Chi aveva un po’ di soldi preferiva aree di nuova costruzione e anche i negozi erano stati sostituiti dai centri commerciali. Questo ha fatto sì che le parti più antiche fossero e siano vissute generalmente dagli strati più poveri.

In un batter di ciglio lo status quo viene stravolto. Durante gli anni in cui al governo c’è stato il centro-destra sono state poste le basi per quello che è uno dei più grandi stravolgimenti degli ultimi decenni.

Primo: riforma della legge sugli affitti, per cui i contratti a equo canone sono stati definitivamente aboliti. Secondo: chi, tra gli extracomunitari, investe almeno 500 mila euro, ha diritto a un visto gold con cui muoversi liberamente nell’area Schengen. Terzo: defiscalizzazione per gli stranieri che spostano la propria residenza in Portogallo.

Insomma non solo Airbnb. Lisbona è stata invasa da un’orda di stranieri molto facoltosi che, ovviamente, preferiscono comprare nelle zone più belle e romantiche, meglio se su una collina vista fiume. I prezzi sono saliti fino a 10 mila euro al mq, in un paese in cui il salario medio mensile è di 800 euro. Una quantità di soldi impressionante e quindi non si va troppo per il sottile. Spesso i palazzi sono disabitati da tempo, quindi, a livello teorico, perché no se si ristruttura? Il punto è che a Lisbona, oggi, non si trova una casa in affitto a pagarla oro.

Il bloco de esquerda vorrebbe limitare la possibilità di affittare a turisti ma per ora non è stato fatto molto. Gli investimenti per il sostegno all’edilizia popolare sono pochi e per gli sfollati dal centro le alternative quasi inesistenti. Il Programa Especial de Realojamento (Per) istituito nel 1993, non è più finanziato dal 2009. Così, anche nelle periferie dove il turismo non arriva, si fanno i conti con l’aumento degli sfratti. Fernando Medina, il sindaco socialista della capitale, ha promosso un piano per immettere appartamenti sul mercato a con affitto calmierato, ma i numeri non rispondono alle effettive esigenze e poi ci vuole tempo. Da poco il governo Costa ha approvato un programma di reabilitação de bairros sociais, con un finanziamento di circa 100 milioni di euro, che dovrebbe riguardare 25 mila persone.

Una risposta per punti ad una lettera del ministro Franceschini in merito al provvedimento sulle esportazioni delle opere d’arte dall’Italia che è prossimo ad essere discusso dal Senato. la Repubblica articolo9 blog autore, 19 aprile 2017 (c.m.c.)

Qualche giorno fa il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini ha risposto con una lettera al direttore ad un mio articolo su Repubblica.

Non ho avuto la possibilità di replicargli sul giornale. Lo faccio dunque ora: perché il provvedimento sulle esportazioni delle opere d’arte dall’Italia, che era l’oggetto del nostro scambio di vedute, è prossimo ad essere discusso dal Senato.

E lo faccio con una certa larghezza: eccezionale per un post di un blog. Ma l’unico modo di replicare efficacemente al cumulo di post-verità (ora è di moda chiamarle così) su cui si basa la narrazione del ministro è smontarne gli ‘argomenti’ pezzo a pezzo.

1. Quali associazioni?

Franceschini afferma testualmente che il testo della norma in questione è “frutto del lavoro di Parlamento, Governo e associazioni”.

L’uso, furbescamente generico, della parola «associazioni» per indicare i soggetti portatori di interessi con i quali il Governo (cioè il ministro stesso) ed il Parlamento (cioè il senatore Andrea Marcucci, primo firmatario del testo dell’articolo in questione) hanno lavorato per mettere a punto il testo dell’articolo 68 del disegno di legge sulla concorrenza, potrebbe lasciar intendere, al lettore distratto, non informato o semplicemente in buona fede, che si tratti delle associazioni che si occupano della tutela del patrimonio storico ed artistico nazionale (come sarebbe naturale attendersi dal ministero che di tale tutela è tenuto ad occuparsi per mandato istituzionale).

E invece no: le associazioni di cui parla il ministro sono quelle professionali dei mercanti d’arte, delle case d’asta, dei trasportatori professionali di opere d’arte, dei legali che li affiancano: è questa la compagnia (riunita in una sorta di cartello, l’Apollo 2) con la quale il ministro ha discusso della modifica delle norme sull’esportazione di opere d’arte dall’Italia.

E tutto ciò proprio nello stesso momento in cui gli uffici del ministero da lui diretto denunciavano l’ennesimo caso di esportazione irregolare e di vendita truffaldina, presso la sede di una grande casa d’aste, addirittura di un bene artistico di proprietà dello Stato. Ebbene, la casa d’aste, nonostante fosse stata avvertita, ha proceduto comunque all’aggiudicazione dell’opera d’arte e solo l’intervento coordinato degli Uffici ministeriali, dei carabinieri del Comando tutela patrimonio culturale, dell’avvocatura dello Stato e della magistratura, e le perplessità del cliente che si era aggiudicato l’oggetto in sede d’asta, ha finora impedito che l’aggiudicazione andasse ad effetto.

Al momento sono in corso le azioni legali e la vicenda avrà una sua soluzione nelle aule di giustizia. Della vicenda si sono occupati i giornali, ma evidentemente questo non è bastato ad indurre il ad interrompere i rapporti con chi stava, in quello stesso momento, trafficando con opere d’arte italiane, addirittura di proprietà dello Stato, illecitamente sottratte alle raccolte cui appartenevano ed illecitamente esportate e messe poi sul mercato.

E dunque vin da chiedersi: ma il ministro Franceschini con chi sta? Sta con gli uffici del suo Ministero che difendono il patrimonio culturale o con i mercanti che spingono perché di quello stesso patrimonio venga liberalizzata totalmente la vendita all’estero?

2. Chi è in ritardo?

Franceschini sostiene poi che il provvedimento «affronta gli annosi problemi del ritardo delle procedure … e della frequente eterogeneità nelle decisioni sull’autorizzazione all’esportazione di opere d’arte».

Ebbene, se il ministro fosse capace di autocritica farebbe bene a ripensare alla cervellotica riforma che ha messo in piedi, moltiplicando a dismisura i posti di livello dirigenziale generale per distribuire stipendi a persone che finora poco o nulla di buono hanno prodotto, al di là delle narrazioni trionfalistiche, e che invece non ha previsto l’unica vera struttura che in un Paese come l’Italia sarebbe davvero servita: una Direzione generale preposta al coordinamento degli uffici di esportazione, che avrebbe potuto organizzarne il lavoro e renderlo il più possibile omogeneo, evitando che i cittadini maturassero la convinzione che la tutela è un fatto episodico, che dipende dalle valutazioni soggettive dei funzionari che lavorano nei vari uffici. Invece, e sembrerebbe quasi che si sia voluto approfittare dell’occasione, si è preferita la politica del ‘tana liberi tutti’.

3. Cosa potrà uscire se passa la legge?

Il Ministro poi continua il suo intervento affermando che «Anche con la nuova disciplina nessun bene vincolato potrà uscire in via definitiva dal Paese né potranno uscire le opere incluse nelle collezioni dei musei: le novità riguardano solo le opere di proprietà privata non vincolate».

L’affermazione corrisponde al vero solo per quello che riguarda le opere incluse nelle raccolte dei musei pubblici. Ma per le altre opere, di proprietà privata, anche se vincolate, ed anche se raccolte in collezioni, il discorso è molto diverso.

Infatti oggi possono essere vincolate, anche al momento in cui sono presentate per l’esportazione, le opere d’arte realizzate da artisti non più viventi e che hanno più di cinquanta anni, se presentano interesse storico od artistico particolarmente importante, (così come previsto dall’articolo 10, comma 3, lettera a) del Codice dei Beni culturali), e possono essere vincolate anche le opere che, a prescindere dall’epoca della loro realizzazione, (e quindi anche se hanno meno di cinquanta anni), siano particolarmente significative a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte della scienza, della tecnica, dell’industria e della cultura in genere (articolo 10, comma 3, lettera d) del Codice). Ma a seguito delle modifiche che la nuova normativa apporta allo stesso articolo 10, [introducendo, proprio dopo la lettera d) di cui ora abbiamo parlato, una lettera d-bis)], accadrà che, per intanto, potranno essere oggetto di esame, anche all’esportazione, per valutarne l’eventuale interesse particolarmente importante, ai fini dell’imposizione del vincolo, le sole opere d’arte che siano state realizzate da un artista non più vivente e che abbiano più di settanta anni. Invece le opere che abbiano fra i cinquanta e i settanta anni, ovvero siano state realizzate da un artista ancora vivente, possono essere vincolate solo se «presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione».

Innanzitutto l’innalzamento della soglia temporale in presenza della quale gli uffici dell’amministrazione possono legittimamente procedere al vincolo delle opere d’arte sottrae alla possibilità di tutela molta parte delle opere d’arte prodotte negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, le quali potranno essere vincolate solo se ne dimostrerà l’interesse eccezionale. E c’è una vera perla: secondo la nuova disposizione che si intende inserire all’articolo 10, anche gli oggetti di interesse archeologico, non potranno essere vincolati se realizzati da artista ancora vivente (magari richiamato fra noi con una seduta spiritica!) o se eseguiti da meno di cinquanta anni (a cosa ci si riferisce? al periodo di tempo decorso dalla scoperta?). E comunque, se ricompresi fra i cinquanta ed i settanta anni (ancora una volta non è dato capire se, per gli oggetti archeologici, ci si intenda riferire all’epoca della loro scoperta, o a cosa), potranno essere vincolati solo se di valore eccezionale (non in sé, ma) per l’integrità e la completezza del patrimonio nazionale. Un incredibile pasticcio.

Inoltre tale nuova disposizione contrasta con quanto previsto alla precedente lettera d) dello stesso articolo 10, a termini della quale è oggi possibile vincolare un oggetto d’arte, a prescindere dall’età che esso ha, se è particolarmente significativo (anche se non eccezionale) per la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte, ecc. Ebbene, come convive tale disposizione – che naturalmente può applicarsi anche con riguardo alle opere di arte contemporanea – con la nuova previsione, che esclude la possibilità del vincolo per opere, o per le collezioni di opere, che abbiano meno di cinquanta anni, e, se ricomprese fra i cinquanta e i settanta anni, lo ammette sole se gli uffici riescono a dimostrare che esse, opere singole o collezioni, sono eccezionali? I contenziosi, come è agevole immaginare, sono serviti su un piatto d’argento. E sullo stesso piatto è servita l’opportunità, ai proprietari di opere d’arte o di collezioni formate da opere d’arte che hanno meno di settanta anni, ma più di cinquanta, e che sono state vincolate, magari in occasione della loro presentazione ad un ufficio esportazione per essere autorizzate all’uscita dal territorio nazionale, di richiedere la revisione del vincolo, posto che nessuna di tali opere e/o collezioni è stata vincolata in quanto giudicata di interesse eccezionale, per la semplice ragione che tale soglia di interesse, ai fini dell’imposizione del vincolo, non era finora richiesta.

E sarà oggettivamente difficile non accogliere le richieste di revisione dei vincoli esistenti, che i privati potranno formulare, all’indomani dell’approvazione della riforma, ai sensi dell’articolo 128 del Codice dei beni culturali. Alla luce di quanto esposto, tre sono le possibili ragioni che hanno indotto il Ministro a scrivere la frase sopra riportata: o ha mentito, sapendo di mentire; o, benché i fidi collaboratori gliel’abbiano spiegata, non ha capito la portata effettiva della proposta di cui si è attribuita la paternità (leggi: Governo) ed il merito, in uno con il Parlamento (leggi: Marcucci); oppure i fidi collaboratori che hanno scritto il testo a braccetto con i mercanti d’arte gli hanno mentito, nascondendogli la vera portata della modifica alle regole della tutela che la nuova disposizione arreca. Sarebbe bello avere una risposta puntuale.

4. Ce lo chiede l’Europa?

Il Ministro, in apertura della sua lettera, ha parlato di fantomatici ritardi accumulati dall’Italia nell’allinearsi “a quanto avviene in tutta Europa” in materia di esportazione di opere d’arte. E anche qui viene il dubbio che il ministro sia vittima del suo stesso storytelling. Egli sembra infatti ignorare che non c’è alcun ritardo da parte dell’Italia rispetto a presunti obblighi di allineamento a immaginari parametri europei.

Il Trattato istitutivo della Comunità europea, nella versione consolidata attualmente vigente, stabilisce infatti, agli articoli 28 e 29, che sono vietate, fra gli Stati membri, restrizioni quantitative, rispettivamente, all’importazione ed all’esportazione, o misure equivalenti, ma con riguardo alle ‘merci’. Al successivo articolo 30 dello stesso Trattato è tuttavia chiarito che «Le disposizioni degli articoli 28 e 29 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito giustificati da motivi … di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale…»

È la cosiddetta ‘eccezione culturale’, che ha consentito al nostro Paese, ed in genere ai Paesi del sud Europa – i ‘produttori’ di patrimonio culturale –, di mantenere ognuno la propria legislazione in materia di esportazione di opere d’arte, in genere più restrittiva, sia pure in forme diverse, rispetto a quella dei Paesi dell’Europa del nord. La detta norma è tuttora in vigore e perciò non si capisce a quali ritardi il Ministro abbia inteso porre rimedio, né si capisce perché (e grazie a chi) si sia convinto che, in materia di esportazione di opere d’arte ci dovremmo allineare al resto d’Europa essendo invece molto più avanzati, e avendo ottenuto la vittoria dell’eccezione culturale.

Come gli capita spesso, Franceschini si è dimenticato di un dettaglio: l’articolo 9 della Costituzione, che obbliga lo Stato repubblicano a tutelare il patrimonio storico ed artistico della Nazione.

Sempre in nome di un presunto allineamento a non meglio precisate norme UE, il Ministro afferma, poco dopo, che «Come già avviene in Europa, viene introdotta , con esclusivo riferimento all’esportazione, una soglia di valore, di 13500 euro. Al di sotto di tale soglia, anche le opere con più di 70 anni e di autore non più vivente potranno uscire dall’Italia senza autorizzazione; ma ciò potrà avvenire solo a seguito della dichiarazione dell’interessato, verificata dagli uffici che, se lo riterranno, potranno apporre il vincolo». E poi prosegue, per magnificare ulteriormente quello che evidentemente ritiene un suo grande successo politico: “Come ben chiarito … [la soglia di 13500 euro] è il valore più basso in Europa (in Francia 150000 euro, in Germania 300000 euro)e dall’applicazione della soglia restano comunque esclusi reperti archeologici, archivi, incunaboli, manoscritti”.

Questa prosa asseverativa, scritta stando, idealmente, a gambe larghe, con le mani a pugno sui fianchi, il petto in fuori ed il mento proteso in avanti, non tiene affatto conto della banale verità poc’anzi rammentata: l’Italia, in materia di tutela si è finora avvalsa di quella eccezione culturale. Viceversa, aver voluto collegare la libera esportabilità degli oggetti d’arte ad una soglia di valore economico, ha fatto saltare, una volta e per sempre, la ragion d’essere di detta eccezione culturale, basata, appunto, sul valore storico degli oggetti stessi e sulla loro idoneità ad essere strumenti per la promozione dello sviluppo della cultura nel Paese di appartenenza, e quindi sulla possibilità di vietarne l’esportazione. Ma ora basta: è arrivato l’ultraliberista Dario Franceschini. E l’unico valore che viene riconosciuto è quello economico.

In pratica il ministro è riuscito nell’impresa, andando contro corrente sia rispetto alle normative plurisecolari emanate dagli stati preunitari, sia rispetto alle disposizioni emanate, in più di un secolo, dalla legislazione di settore dello Stato unitario, di parificare, finalmente, le opere d’arte a qualsiasi altra merce di cui possiamo essere esportatori. Un risultato epocale, non c’è che dire.

5. Autocertificazione = bomba libera tutti.

Il valore economico delle opere d’arte da esportare non è soggetto ad una certificazione resa da un soggetto indipendente, ma è dichiarato dallo stesso mercante d’arte interessato alla loro esportazione. E se il valore così autocertificato è inferiore ai 13500 euro, il mercante non deve neppure presentare l’oggetto d’arte all’ufficio di esportazione: si limita a inserirlo in un apposito elenco sul suo registro informatico e può esportarlo in qualunque momento a meno che il Soprintendente, mosso da curiosità, consultando sul suo computer il registro del mercante, non gli chieda di presentare quel determinato oggetto in ufficio per una verifica dell’autodichiarazione.

Quindi a decidere se un oggetto d’arte può o no uscire dall’Italia sarà d’ora in poi il mercante d’arte: salva la facoltà di un controllo, sporadico ed episodico, da parte dell’ufficio di esportazione.

Infatti già la legge sulle autocertificazioni stabilisce espressamente che il controllo sulle dichiarazioni rese dai privati su fatti a loro noti non può che essere ‘a campione’ e nella nuova previsione normativa è scritto espressamente che il Soprintendente può richiedere un controllo (solo) per “taluna delle cose” inserite dal mercante nell’elenco degli oggetti di valore inferiore ai 13500 euro. E non basta. Per blindare ulteriormente la libera esportabilità, da parte dei mercanti d’arte, degli oggetti che essi stessi certificano essere di valore inferiore ai 13500 euro, è prescritto che qualora questi oggetti vengano sottoposti a verifica (rigorosamente a campione, in base a quanto fin qui detto) e, secondo il Soprintendente, la loro esecuzione risalga ad oltre cinquanta anni ma sia inferiore ai settanta anni, potranno essere sottoposti a tutela solo se «presentano un interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico eccezionale per l’integrità e la completezza del patrimonio culturale della Nazione», in base all’espresso richiamo alle condizioni di vincolo stabilite dalla nuova previsione aggiunta all’articolo 10 del Codice, e il detto vincolo dovrà essere dichiarato «dal competente organo centrale del Ministero», organo centrale che, in assenza di ogni indicazione specifica nell’attuale assetto organizzativo del Ministero, deve ritenersi che sia il Direttore generale per l’archeologia, le belle arti e il paesaggio. Senza che siano ovviamente indicati tempi e modalità sia per l’inoltro della proposta di vincolo al detto organo centrale da parte degli uffici di esportazione, sia per la partecipazione dei privati controinteressati al detto procedimento. Ogni precisazione, sotto il profilo procedurale ed organizzativo, è rinviata ad un successivo decreto ministeriale. Chi vivrà vedrà.

Nulla si dice per gli oggetti di valore inferiore ai 13500 euro e realizzati da oltre settanta anni circa le condizioni e le modalità per la loro sottoposizione a vincolo: è da pensare che per tali oggetti il livello di interesse necessario e sufficiente per la tutela, e la competenza ad emanare il relativo provvedimento, siano rimasti quelli finora richiesti, ma le disposizioni sono scritte in modo tale che non c’è da giurarci. Insomma un pastrocchio.

Ma il ministro è orgoglioso di un tale ‘capolavoro’. Ed infatti la lettera a Repubblica si chiude con una autocelebrazione, sulle sorti magnifiche e progressive del ministero negli anni felici della gestione franceschiniana:«… l’Italia … è tornata ad essere paese guida nel mondo per la tutela come hanno dimostrato gli ottimi risultati del G7 cultura di Firenze».

Quali risultati? Ma è chiaro: quelli dello storytelling, della postverità, della narrazione.

Il governo si appresta a esentare dai tributi tutte le costruzioni ubicate nel mare territoriale" e per estensione a porti (Venezia), impianti eolici, alberghi col pontile, ristoranti su palafitte. il FattoQuotidiano online 19 aprile 2017 (p.s.)

Con l’ennesimo favore all’industria delle trivelle il governo rischia di esentare dai tributi locali interi porti e qualsiasi altra costruzione offshore sarà mai realizzata direttamente nei mari italiani. A beneficio di futuribili resort col pontile modello Dubai o di improvvisati palafittari della ristorazione lungo la costa lucana che non pagherebbero alcuna imposta. Nelle bozze della manovrina correttiva, di cui ancora si attende il testo definitivo (il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan mercoledì si è “scusato per il ritardo” annunciando che “dovrebbe arrivare domani”), c’è infatti un articolo che entra a gamba tesa nella querelle tributaria e legale che contrappone da anni i colossi dell’energia ai sindaci delle località costiere dalle cui acque estraggono idrocarburi.

Nella parte dedicata allo sviluppo c’è un articolo, il 35, che determina uno stop retroattivo per le società proprietarie delle 119 piattaforme censite nel mare italiano dal pagamento Ici, Imu e Tasi. Si impoveriranno, quindi, i bilanci dei comuni costieri e dei loro cittadini che non beneficeranno dei tributi che tre recenti sentenze della Cassazione avevano indicato come dovuti.

Così, a meno di modifiche dell’ultimo minuto, una misura che doveva recuperare risorse per rispettare i parametri europei assesta invece il colpo di spugna su cartelle di accertamento ormai decennali per un valore di oltre 100 milioni di euro. Se già questo è un problema per gli amministratori locali dei comuni litoranei interessati dalle trivelle, più ancora lo sono gli effetti collaterali della norma che impatta in modo imprevedibile sull’imponibilità di qualsiasi costruzione a mare, compresi alberghi e porti galleggianti come il terminal container di Venezia o le centrali eoliche in fase di realizzazione a Taranto e di progettazione in Molise.

L’articolo della manovra, stando alla bozza, è titolato Costruzioni ubicate nel mare territoriale e fornisce l’interpretazione autentica e definitiva di norme precedenti: «Non rientrano nel presupposto impositivo dell’imposta comunale sugli immobili (ICI), dell’imposta municipale propria (IMU) e del tributo per i servizi indivisibili (TASI), le costruzioni ubicate nel mare territoriale, in quanto non costituiscono fabbricati iscritti o iscrivibili nel catasto fabbricati». E che cosa vuol dire? Che se non c’è l’iscrizione al catasto non c’è rendita, se non c’è rendita non c’è neppure tributo che possa essere preteso. Né oggi né mai. Un intervento a gamba tesa nella querelle che si accoda ai precedenti, culminati nel 2016 con la cosiddetta “norma sugli imbullonati” contenuta in Legge di Stabilità che ha parzialmente escluso gli impianti dal pagamento delle imposte correnti.

Il passato degli accertamenti Ici però non era coperto da questi “scudi” e una decina di sindaci di comuni litoranei si sono impuntati su quelli, attraverso le commissioni tributarie. Mossi non solo dal principio ma soprattutto dal valore del gettito, stimato tra i 100 e i 200 milioni di euro. Una benedizione per i bilanci degli enti locali che convivono con le trivelle lungo la costa come Termoli (Campobasso), dove il tributo da corrispondere per Edison era di un milione e mezzo di euro per ciascuna annualità (quelle accertate vanno dal 1999 a 2009) o Pineto (Teramo) con oltre 33 milioni per gli anni 1993-1998, con interessi e sanzioni a carico di Eni. Tre sentenze della Cassazione hanno poi dato ragione ai sindaci stabilendo che le trivelle, ieri come oggi, vanno iscritte al catasto e assoggettate all’imposta.

Sembrava cosa fatta ma ecco che – prima ancora di andare all’incasso – la manovra correttiva 2017 riapre la partita dalla parte dei petrolieri. “Certo che questa norma rischia di impattare sugli accordi stragiudiziali in corso”, spiega Ferdinando D’Amari, il legale che sta seguendo i contenziosi con le compagnie. «La Cassazione ha accolto le ragioni dei comuni stabilendo l’obbligo dell’imposizione a prescindere dall’accatastamento e ha indicato il sistema di determinazione delle imposte dovute da desumere attraverso le scritture contabili. Proprio mentre è in corso la definizione degli importi arriva questa norma che scardina tutto e va contro il giudicato della Suprema Corte». Il testo del governo, fa notare, non cita assolutamente le trivelle o gli “opifici industriali” ma parla genericamente delle “costruzioni nel mare territoriale”.

Così facendo, la norma che vanifica le speranze dei sindaci a favor di petrolieri rischia di inaugurare anche in Italia una stagione di “far west a mare” dalle conseguenze ambientali imprevedibili. «Se costruisco un ristorante o un albergo entro le 12 miglia marine quella struttura, secondo le nuove norme, sarebbe esente dalle imposte. Mi sembra a dir poco pericoloso». Si vedrà come e se questa vicenda troverà un muro prima che gli imprenditori più avventurosi si mettano a progettare i loro. La stessa Eni, del resto, dal 2010 lavora all’ipotesi di conversione delle piattaforme arrivate al termine del ciclo produttivo in strutture ricettive (Temporary Islands). Di fatto scatena immediate polemiche politiche, soprattutto ad opera dei Cinque Stelle che sull’imposizione delle trivelle hanno sempre dato battaglia.

«Il governo conferma l’amicizia con le compagnie petrolifere modificando le carte in tavola per salvarle dal pagamento dell’Imu, onere che invece pagano attività produttive e cittadini», attacca il senatore Gianni Girotto. «La giurisprudenza ha da poco confermato l’interpretazione in favore di alcuni enti locali attribuendo alle compagnie petrolifere l’onere del pagamento. Ci batteremo con forte impegno affinché le disposizioni sulle esenzioni siano stralciate e le compagnie paghino quanto dovuto».

«Beni immobiliari indisponibili. Il collegio del Lazio rigetta l’accusa di danno erariale formulata contro le associazioni e adottata dal Campidoglio. Le organizzazioni sfrattate dagli immobili capitolini potrebbero fare causa al Comune». il manifesto, 19 aprile 2017 (c.m.c.)

Gli spazi sociali romani sotto sfratto hanno vinto una battaglia fondamentale, forse decisiva, nella guerra dei Commons: il presidente della Corte dei Conti del Lazio ha detto no. Con le sentenze depositate ieri riguardanti due dei 20 casi attualmente pendenti sui 230 complessivi, quelli delle associazioni «Agorà 80» e «Anche tu insieme», il collegio giudicante per la Regione Lazio ha detto no al procuratore Guido Patti, colui che ha montato un castello accusatorio pesantissimo contro i dirigenti capitolini che hanno gestito in passato il patrimonio non disponibile del Comune di Roma in concessione per usi sociali e culturali.

Ha detto che il danno erariale semplicemente non c’è, non sussiste, sfilando la pietra angolare di tutto il castello, in quanto la tesi del procuratore contabile è che quelle concessioni, in parte scadute, in parte mai del tutto regolarizzate, o che comunque presentano dei vizi formali, avrebbero dovuto pagare un canone di mercato per l’intero periodo di usufrutto.

Hanno vinto i dirigenti e gli avvocati, tra cui i bravissimi Pino Lo Mastro e Stefano Rossi, ma anche diverse avvocatesse giovani e agguerrite, che il 6 aprile scorso avevano sostenuto 8 ore di dibattimento, duettando fino allo sfinimento con un Patti glaciale, inflessibile, che aveva manifestato gli unici segni di emotività rivolgendo battute verso il pubblico delle associazioni presenti in aula: «Vi siete portati la claque». Ricambiato da una risata fragorosa di tutta l’aula quando, excusatio non petita, aveva affermato di non avere intenti persecutori verso le associazioni.

Hanno vinto le associazioni, che possono essere più fiduciose nel fatto che le richieste di risarcimenti milionari a loro rivolte da parte del Comune non abbiano alcuna conseguenza. E anzi, rischiano di mettere in una posizione legale molto scomoda l’amministrazione capitolina. Se infatti le sentenze saranno confermate in appello e se faranno giurisprudenza, come è assai probabile, visto il peso della giudice che l’ha emessa, la presidente Piera Maggi, e visto che i due casi giudicati coprono un po’ tutte le fattispecie, il Comune si troverà con centinaia di intimazioni emesse verso le associazioni prive di ogni base legale. Con il rischio di trovarsi presto a parti invertite, inseguito da centinaia di cause civili intentate dalle associazioni contro il Campidoglio per la definizione del giusto canone e per richieste di risarcimenti in ragione di provvedimenti infondati e vessatori, soprattutto da parte di chi, per la minaccia subita, ha già lasciato gli spazi.

Sono già tre le associazioni che stanno avviando cause civili per la definizione del giusto canone, tra cui la «Mario Mieli», che quasi certamente vinceranno così che il Comune dovrà cominciare a perdere soldi in spese legali. Ma sono ben più ingenti i danni attuali e potenziali che sta già scontando la collettività per le azioni amministrative ispirate dagli insensati criteri della procura contabile, e assecondate altrettanto scriteriatamente dal Comune, dirigenza e giunta messi insieme. Se ne può avere un’idea prendendo il caso del Sant’Egidio, che ha lasciato i locali di Nuova Ostia in cui operava a causa delle diffide al rilascio del Comune con richiesta di risarcimento parametrato sul canone di mercato. In quel caso i danni sono 4 in uno. La perdita di un presidio di legalità e welfare in un quartiere con enormi fragilità sociali; le mancate entrate del canone di concessione, seppur non altissimo; i danni legati al degrado in cui sta rapidamente cadendo lo spazio che naturalmente è già stato occupato da “senza tetto”, e infine il rischio di una causa da parte di Sant’Egidio per tutta questa vicenda.

Nelle sentenze, si motiva l’annullamento del danno erariale sostenendo, come già spiegato dal manifesto, che l’irregolarità formale della concessione non può essere parametrato sul valore di mercato semplicemente perché si tratta di patrimonio classificato come indisponibile, e cioè vincolato a usi sociali e istituzionali, e perciò non poteva in ogni caso essere messo a reddito, neanche se le associazioni senza titolo fossero state sfrattate dai dirigenti, come avrebbe voluto Patti, non a caso accusato dalla rete di organizzazioni (oltre 50) di «abuso della funzione inquirente», nell’esposto presentato alla Corte dei Conti.

Ora le associazioni attendono che il Comune non solo revochi in autotutela tutte le diffide, ma che provveda rapidamente a verificare il valore sociale delle attività svolte negli spazi in concessione. E, contestualmente alla restituzione agli usi collettivi degli spazi inutilizzati o affidati ad associazioni inesistenti, immediatamente regolarizzi, con tante scuse, tutte le associazioni. E senza bando, come è nelle sue prerogative. Checché ne dica Patti.

la Repubblica, 19 aprile 2017

QUANDO ponti, cavalcavia e viadotti non vengono spazzati via dalle scosse di terremoto o dalle bombe d’acqua dei nostri torrenti impazziti ma semplicemente vengono giù da soli, per di più con una frequenza impressionante, c’è da domandarsi a quale punto di degrado sia arrivata in Italia la gestione della cosa pubblica. Sei crolli in meno di tre anni, due dei quali solo negli ultimi 4 mesi, con il loro corredo di morti e feriti. Insieme al calcestruzzo armato delle nostre opere pubbliche si sbriciolano anche la credibilità e il senso civico di un paese che non impara mai dal suo passato, che dopo lo sgomento momentaneo, invece di capire e correggere gli errori compiuti, torna a paralizzarsi nel consueto rimpallo di responsabilità. È la stessa Italia che realizza opere ardite e gigantesche all’estero, che crea il terzo ponte sul Bosforo, che allarga il canale di Panama. La stessa Italia che in soli otto anni, tra il ’56 e il ’64, costruisce l’Autostrada del Sole, assicurandole un alto livello di qualità. Oggi quell’Italia non è in grado di programmare neppure la manutenzione di quello che ha costruito negli ultimi anni. Il ponte crollato sulla A14 nei pressi di Ancona è di appena un mese fa. Preceduto da altri cinque incidenti ravvicinati. Casi sempre più frequenti, che avranno anche cause diverse e diverse responsabilità. Ma che hanno in comune il marchio dell’incuria, del disinteresse, dell’ignavia.

C’è innanzitutto una ragnatela di competenze e di veti in cui gli stessi attori di queste vicende si sono ormai persi. Il tratto crollato ieri è targato Anas, che tuttavia si occupa solo di 25 mila chilometri di strade italiane, mentre la maggior parte delle arterie fa capo ai Comuni, alle Regioni e alle Province. Ma nel caso di ponti e viadotti, i confini non sono più così chiari. Ricordiamo ancora, dopo l’incidente di Lecco, le infinite discussioni tra Provincia e Anas per stabilire chi avesse la competenza. E ci sono poi le lungaggini dei provvedimenti che dovrebbero finanziare la manutenzione. Come il contratto di programma con i 5 miliardi per l’Anas, rimasto fermo per mesi.
Ma non è solo un problema di cortocircuiti burocratici. Inaugurare una nuova opera, soprattutto se di un certo rilievo, assicura ai politici, governativi o locali che siano, un ritorno in termini di consenso (almeno nel breve periodo) sicuramente più ricco di quello che accompagna un’opera di manutenzione. Poco importa ricordare che il calcestruzzo di cui sono fatti ponti e viadotti non ha una vita eterna. Che senza interventi, quella miscela di cemento, acqua, sabbia e ghiaia, armata con sbarre di ferro e acciaio, dopo una ventina di anni comincia a dare evidenti segnali di cedimento. Soprattutto poi se nel tentativo di risparmiare tempo e denaro, si riduce la sezione dei tondini di ferro oppure si usa sabbia di mare invece che quella di fiume. In quei casi, opere anche recenti rischiano di sgretolarsi in un attimo. E qui entriamo nei territori della corruzione e del malaffare, di cui è tristemente lastricata la storia delle opere pubbliche italiane.
Malaffare a parte, c’è una domanda, tra le tante, che bisognerebbe porre all’Anas e al governo. Da chi sono pagati i collaudatori di ponti e viadotti, dall’ente appaltante o dalla società che ottiene l’appalto? La risposta dovrebbe essere ovvia, ma solo in teoria: nello scandalo del Mose di Venezia, con il suo corredo di corruttele, chi collaudava l’opera era ricompensato dalla società realizzatrice. E sappiamo a quali disastri può condurre il conflitto di interessi.
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