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«“I vandali in casa” di Antonio Cederna e “Il grande saccheggio” di Piero Bevilacqua: due testi fondamentali per e comprendere la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale». MicroMega online, 17 maggio 2017 (c.m.c)


«Le parole dell’iniquo che è forte, penetrano e sfuggono. Può adirarsi che tu mostri sospetto di lui, e, nello stesso tempo, farti sentire che quello che tu sospetti è certo: può insultare e chiamarsi offeso, schernire e chieder ragione, atterrire e lagnarsi, essere sfacciato e irreprensibile».
Alessandro Manzoni, I promessi sposi[1]

«La forma di una città cambia più in fretta – ahimè – del cuore degli uomini».
Charles Baudelaire

A commento del successo internazionale della Grande bellezza, Raffaella Silipo scriveva sulla Stampa: «Gli americani si immaginano l’Italia esattamente così: splendide pietre e abitanti inconcludenti».[2] E se invece non fosse così? Se l’Italia decadente degli ultimi decenni fosse anzi l’opposto di quella imbelle, invecchiata e rassegnata, che si consola contemplando dall’alto le proprie bellezze imperiture, ritratta nel film di Sorrentino?

L’Italia è piuttosto un paese in cui sempre più persone e associazioni si ergono a difesa del bello, lottano per una riscossa civile contro la prepotenza distruttiva del cemento, rivendicano il diritto a un territorio sicuro, confortevole, funzionale; e in cui altrettante persone e associazioni, più semplicemente, si prendono cura di angoli del paese dimenticati dalle istituzioni. Si moltiplicano i comitati locali, Fai, Italia Nostra e Legambiente registrano sempre maggior seguito, l’opposizione al saccheggio del territorio è folta e coraggiosa e non teme le speciose etichette di sindrome Nimby (Not In My BackYard). I giovani rispolverano espressioni come «la bellezza salverà il mondo», figure come Tomaso Montanari e Massimo Bray divengono punti di riferimento per chi spera ancora in una rinascita della sinistra,[3] e fra le tante contraddizioni grilline prova a farsi largo (con qualche difficoltà, basti pensare alla vicenda di Paolo Berdini a Roma) la parte migliore del Movimento cinque stelle, quella che propone una gestione del territorio più democratica e avanzata.

La ragione di questa rinnovata sensibilità, di questo impegno ancora minoritario, sì, ma in costante crescita, sta forse nel fatto che, come fa notare Salvatore Settis, «la “domanda” sociale di paesaggio (con la sua sintesi fra natura e cultura, fra spazio e tempo) aumenta sempre di più perché l’offerta – la qualità – diminuisce».[4] Quasi sempre, però, si rivela un impegno vano, di fronte all’ottusità degli amministratori, all’abusivismo e al vandalismo immobiliare che hanno già fatto toccare livelli impressionanti di consumo del suolo, ferito irreparabilmente il paesaggio del paese, messo in pericolo città storiche uniche al mondo e pregiudicato la vivibilità di molte aree urbane. Nonostante queste «sacche di resistenza», siamo costretti ad assistere alla trasformazione dell’ambiente in cui viviamo da bene pubblico inestimabile in risorsa da sfruttare.

Gli storici del futuro, che guarderanno l’Italia repubblicana nell’ottica della lunga durata, non potranno più trascurare un fenomeno di rilevanza internazionale come l’«eclissi del paesaggio italiano».[5] Il nostro paese, per anni il primo produttore di cemento al mondo, è passato da un consumo di suolo del 2,7 per cento del territorio nazionale negli anni cinquanta al 7,0 per cento nel 2014, ossia da 8100 m2 a 21100 m2 (dati ISPRA). Un processo che si abbina a decisioni urbanistiche scellerate, e che non ha eguali nel resto d’Europa. Proprio nel paese dal patrimonio culturale più ricco e diffuso – e storicamente meglio tutelato, fin da prima dell’Unità –, nel Belpaese meta privilegiata, tra il Seicento e l’Ottocento, del Grand Tour dei giovani aristocratici e artisti europei, si è registrata l’espansione urbanistica più disarmonica e incontrollata di tutto il continente, la cui natura speculativa è testimoniata anche dal dato-record sul rapporto fra insediamenti abitativi e popolazione. Le conseguenze non sono state, e non sono, di natura unicamente estetica: il dissesto urbanistico e la perdita del paesaggio sono fonte di limitazioni fisiche, di paure, nevrosi, disagi esistenziali; di spaesamento, appunto.[6]

In tutto questo, l’Italia conserva comunque un primato positivo: il nostro è l’unico paese d’Europa ad aver salvato in larga misura i propri centri storici. Credo che non sia azzardato attribuirne il merito a un uomo in particolare: Antonio Cederna, padre nobile delle moderne leggi di tutela e punto di riferimento ideale e culturale per tutti i comitati e i movimenti impegnati nella difesa dell’ambiente e dei beni culturali.

Archeologo di formazione, giornalista «militante» affermatosi al Mondo di Pannunzio (più avanti collaborerà con l’Espresso, il Corriere della Sera e la Repubblica), il nome di Cederna è legato a decenni di memorabili denunce contro le offese inferte alle bellezze artistiche e paesaggistiche italiane, e ai centri storici «sventrati» di città che crescevano «a macchia d’olio», in modo sistematicamente informe, senza riguardi nei confronti dell’antico e del bello. Cederna non esitò a definire «vandali» i responsabili di tanto scempio.

Il suo primo libro, del 1956, si intitola proprio I vandali in casa, e raccoglie i migliori articoli pubblicati sul Mondo. Un testo fondamentale per comprendere la nostra storia recente, ancora oggi inarrivabile per la chiarezza espositiva, il coraggio e l’originalità dell’argomentazione, la lucidità quasi profetica con cui l’autore anticipò temi divenuti di vasto interesse pubblico, ma che nella mentalità dell’epoca lo relegavano tra gli stravaganti «oppositori del progresso». «Il controcanto a mezzo secolo di storia italiana» scrive Francesco Erbani nella Prefazione alla nuova edizione del 1996. Chi sono dunque i vandali, per Cederna?

«Sono quei nostri contemporanei, divenuti legione dopo l’ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato: proprietari e mercanti di terreni, speculatori di aree fabbricabili, imprese edilizie, società immobiliari industriali commerciali, privati affaristi chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale, urbanisti sventratori, autorità statali e comunali impotenti o vendute, aristocratici decaduti, villani rifatti e plebei, scrittori e giornalisti confusionari o prezzolati, retrogradi profeti del motore a scoppio, retori ignorantissimi del progresso in iscatola. Le meraviglie artistiche e naturali del «Paese dell’arte» e del «giardino d’Europa» gemono sotto le zanne di questi ossessi: indegni dilapidatori di un patrimonio insigne, stiamo dando spettacolo al mondo. Tra le persone civili e i vandali odierni nessun compromesso è possibile». (dall’Introduzione)

L’Italia che aveva subito danni immensi dai bombardamenti bellici, anziché impostare la ricostruzione su basi più avanzate, fece marcia indietro. Frastornata dalla fretta di ripartire, accantonò la ragionevole legge generale di coordinamento urbanistico territoriale introdotta nel 1942 derogandola con provvedimenti ad hoc (fu così inaugurata la pervicace e assurda abitudine a ricorrere a norme speciali per aggirare quelle ordinarie). All’ansia della ricostruzione subentrò poi l’ansia di un progresso spesso malinteso, ed è sull’altare di uno sviluppo economico tanto rapido e straordinario quanto contraddittorio e caotico che fu sacrificata buona parte del «patrimonio insigne». Cerimonieri: la speculazione immobiliare e una politica miope e asservita, che in nome della rendita fondiaria non risparmiarono alcuna regione italiana.

Come ricorda Vezio De Lucia, «nei primi lustri del dopoguerra l’opinione pubblica non percepiva il carattere disastroso che assunsero le politiche urbanistiche e le trasformazioni della città. Solo pochi intellettuali […] s’impegnarono in una lodevole e spesso coraggiosa azione di contestazione e di protesta. La voce più coerente e determinata fu quella di Antonio Cederna. […] Al centro dei suoi interessi è sempre stata l’urbanistica. Un’urbanistica dagli orizzonti vastissimi, tutto lo spazio comunque vissuto dall’uomo, la sua storia, le sue regole».[7]

L’originalità e grandezza di Cederna risiede proprio in questi «orizzonti vastissimi». Professionisti, burocrati e amministratori mediocri sottolineavano il proprio impegno a salvaguardia di grandi monumenti e scorci incantevoli; lui – che ebbe a definirli «esteti da strapazzo e insieme timorosi» (dall’Introduzione), il cui torto più grave era quello di spiare «con trepidazione il nascere di qualche raro capolavoro, e trascura[re] sistematicamente la realtà terribile del nostro tempo, cioè il propagarsi del brutto e dell’indecente» (da «L’architetto neo-romanesco») – oppose una più fertile visione d’insieme, scevra da ogni idealismo elitario.

Il paesaggio, la città e il territorio sono beni di tutti, sono i luoghi attraverso i quali il passato consegna alle generazioni presenti e future la loro identità. Il loro fulcro non è costituito dai singoli panorami o dalle grandi vestigia delle epoche trascorse, e nemmeno dalla loro sommatoria, ma dal rapporto fra i vari elementi, l’equilibrio ecologico e le implicazioni sociali che ne derivano. Una concezione sistemica secondo la quale il territorio è una delle principali fonti del benessere sociale e individuale, e dunque della democrazia.

Su queste basi, Cederna si spese per promuovere una tutela integrale dei centri storici, ritenendola complementare alle necessarie opere di ammodernamento:

«Dobbiamo inchiodarci nel cervello la convinzione che la salvaguardia integrale del vecchio e la creazione del nuovo nelle città sono operazioni complementari, due momenti indissolubili dello stesso procedimento, che antico e moderno hanno prerogative materiali e spirituali distinte e vicendevolmente necessarie; e che solo se si ammette la piena autonomia dei due termini, se ne può risolvere e comporre l’apparente contrasto, cioè sviluppare modernamente una città vecchia, senza distruggere le testimonianze della sua storia». (dall’Introduzione)
Il vero problema era dunque «sviluppare la città moderna non sopra ma oltre l’antica», grazie a una pianificazione e regolazione che privilegiasse l’interesse pubblico su quello privato: tutto il contrario di quanto accadeva sotto l’azione instancabile dei vandali. L’analisi documentatissima di Cederna passa in rassegna le consuete, «sballate ragioni vantate come “imprescindibili”», accampate per giustificare disastri e sventramenti: motivi di traffico, motivi variamente urbanistici, motivi di «decoro», motivi scenografici, motivi di sicurezza. Ma scavando dietro i proclami, scopre puntualmente le «ragioni autentiche, sostanziali, invincibili e micidiali, che da decenni vanno smontando l’Italia antica: le ragioni dell’anarchia, dell’ingordigia e della speculazione privata» (da «Distruggiamo le chiese»).

Particolarmente straziante per Cederna, che vi era cresciuto, è la parabola urbanistica di una Milano divenuta irriconoscibile, che a partire dagli anni trenta annientò il 90 per cento dell’«edilizia minore» di stampo settecentesco e più di una dozzina di chiese storiche (di San Giovanni in Conca rimane tutt’ora un avanzo dell’abside: una grottesca finta reliquia la cui fotografia fu scelta per la copertina della prima edizione dei Vandali in casa), e che, nell’ordine, squarciò e coprì i Navigli, spianò i Bastioni e poi i giardini del centro, sventrò l’intera zona intorno al Duomo e corso Vittorio Emanuele.

Di Venezia, Cederna denuncia – tra i primi in assoluto – il «balordo progettone comunale» che metteva a repentaglio la laguna con autostrade sublagunari e litoranee e persino nuove isole e città satellite. Trovano spazio nel libro anche gli sventramenti di Lucca, Assisi, Ravenna, mentre la data di pubblicazione precede le devastazioni di cui l’autore si occuperà in seguito: per esempio, il Sacco di Palermo perpetrato da amministrazioni mafiose, le «mani sulla città» di Napoli, deturpata dall’abusivismo promosso da Achille Lauro, lo sfregio al paesaggio veneto che addolorava Andrea Zanzotto, la cementificazione selvaggia delle coste, la mala gestione dei bacini d’acqua e dei parchi nazionali, le sciagure annunciate della frana di Agrigento e dell’alluvione di Firenze.[8]

Ma è il destino di Roma, metafora d’Italia e per lui città d’adozione, a tormentare Cederna più di ogni altra cosa, al punto che alla capitale è dedicata oltre metà del libro. La città eterna divenuta «città eternit», dove furono distrutte magnifiche ville cinque e settecentesche, in cui Borgo fu spianato per realizzare via della Conciliazione e la collina di Monte Mario rovinata da un gigantesco albergo Hilton, in cui già negli anni venti la via dei Fori imperiali voluta da Mussolini aveva demolito l’intero tessuto urbano compreso tra piazza Venezia e il Colosseo. L’Urbe che si espanse a macchia d’olio in tutte le direzioni con quelle insane e grigie periferie-dormitorio di cui Pier Paolo Pasolini indagò il degrado sociale. La «capitale corrotta» presa in ostaggio da un «Leviatano onnipossente», la Società Generale Immobiliare che «rappresenta in concentrato gli interessi dei più vari potentati economici d’Italia, dal Vaticano alla Fiat» e «monopolizza terreni, traffica in aree fabbricabili, costruisce quartieri “signorili”» (da «Il Leviatano immobiliare»).

Roma, però, fu teatro anche di molte battaglie vinte: in primis quella per la tutela della via Appia Antica, vero assillo di Cederna. «Andava salvata religiosamente perché da secoli gli uomini di talento di tutto il mondo l’avevano amata, descritta, dipinta, cantata, trasformandola in realtà fantastica, in momento dello spirito, creando un’opera d’arte di un’opera d’arte: la Via Appia era intoccabile, come l’Acropoli di Atene» scrisse nel celebre articolo «I gangster dell’Appia». E la regina viarum, straordinario museo a cielo aperto minacciato dall’abusivismo e da piani di lottizzazione sconsiderati, fu salvata nel 1965 grazie a un’instancabile campagna che portò alla costituzione di un parco archeologico.

Unita al successo della campagna del 1952 contro lo sventramento di via Vittoria e del centro di Roma, talmente devastante da risvegliare le coscienze di decine di intellettuali, che riuscirono a sventare il folle progetto e nel 1955 fondarono Italia Nostra, la vicenda dell’Appia Antica sfata la leggenda secondo cui Cederna è stato un «signor no» destinato alla sconfitta. È stato invece l’ispiratore di svariate battaglie vinte, e di grandi innovazioni come la fondamentale «legge ponte» del 1967, che obbliga i comuni a dotarsi di piani regolatori ponendo un freno alla lottizzazione selvaggia, o delle leggi per la difesa del suolo del 1989 e per la protezione della natura del 1991, promosse in veste di parlamentare. «Pensate cosa sarebbe l’Italia se Cederna fosse pigro» disse l’illustre storico dell’architettura Leonardo Benevolo; come già si accennava, il fatto che gran parte dei centri storici italiani sia stata conservata, e che la necessità della loro tutela integrale sia diventata indiscutibile, si deve anche e soprattutto alle sue campagne.

Mai sconfitto, quindi, ma certo scomodo, Cederna è stato ed è ripetutamente isolato e irriso, e il suo pensiero contraffatto e banalizzato, spesso da soggetti ambigui e tutt’altro che disinteressati. Un caso recente è l’editoriale del Messaggero firmato dal direttore Virman Cusenza, che senza sprezzo del ridicolo – come ha denunciato su MicroMega online Vittorio Emiliani – definisce il «cedernismo» un «impasto di conservatorismo ideologico, di decrescita infelice e di anticapitalismo mascherato da ecologismo, […] cultura sprezzante dei bisogni di modernità, mobilità e vivibilità».[9] Il proprietario del quotidiano Franco Gaetano Caltagirone ebbe invece a scrivere che «nel nome di Cederna a Roma si è consolidato un vincolismo selvaggio», impedendo a Roma di adeguarsi ai tempi come le altre capitali.[10]

Obiezioni evidentemente «pelose» e del tutto inconsistenti. Chiunque abbia letto un suo articolo può facilmente rendersi conto che Cederna non rinunciò mai a corredare le denunce e le proteste di dettagliate, curatissime proposte per un’urbanistica consapevole della propria rilevanza storica e sociale. Si spese perché le città italiane seguissero i virtuosi esempi urbanistici di Stoccolma, Amsterdam, Parigi, Londra, fece conoscere la meraviglia dei parchi nazionali nordamericani, fu sempre pronto a elogiare i casi di buongoverno del territorio.

L’architetto Paolo Desideri è autore di un intervento critico molto più stimolante. Su Limes, Desideri chiamava in causa la presunta ingenuità dell’autore dei Vandali in casa, reo di eccessi polemici nei confronti della famigerata Società Generale Immobiliare e delle grandi imprese edilizie, e di non comprendere che in ambito urbanistico il capitale privato può e deve essere «indirizzato e governato» affinché diventi «capitale trasformativo» (anche grazie all’«urbanistica contrattata», da sempre avversata da Cederna).[11]

Addomesticare il capitale, dunque. Cederna, di formazione borghese e illuminista, non si schierò mai contro il capitalismo in sé, né mise mai in discussione la proprietà privata. Era però convinto che la proprietà privata di un bene pubblico quale il territorio, che porta benefici a tutti, non potesse consentire un uso a beneficio esclusivo del proprietario. La salvaguardia dell’interesse generale doveva prevalere su ogni valutazione di profitto privato: un principio di democrazia, incompatibile con la contrattazione che sposta l’iniziativa in mano alla proprietà, e perseguibile solo attraverso gli strumenti della pianificazione e dello stato di diritto.

Altro che ingenuità: sapeva di vivere in questo paese, l’Italia dei poteri selvaggi e di un capitalismo in gran parte parassitario e semifeudale. L’Italia che – come ha ben sintetizzato Vezio De Lucia – ostacolò in ogni modo le riforme urbanistiche del ministro Fiorentino Sullo scatenando un assalto al territorio mai visto prima e depotenziò quelle del ministro Mancini, e in cui si udì un «balenar di sciabole» golpista ogni volta che si profilò all’orizzonte una svolta sfavorevole alle grandi immobiliari.[12]

Cederna visse l’Italia degli arcana imperii, della strategia della tensione, del Piano Solo, della P2, della pax mafiosa, e fece in tempo ad assistere all’ascesa politica di Craxi e Berlusconi e ai condoni edilizi dei rispettivi governi. Davanti a un sistema di fatto improntato alla difesa della rendita e delle cricche politico-economiche, più che addomesticare il capitale c’era da non farsi addomesticare. Antonio Cederna, insomma, è stato prima di tutto un grande difensore della democrazia, strenuo sostenitore di uno spazio pubblico sottratto a logiche di profitto e agli istinti vandalici del capitalismo.

Oggi, mentre prosegue l’eterna anomalia italiana, la crisi del capitalismo globale ha moltiplicato questi suoi istinti vandalici. Lo illustra magistralmente Piero Bevilacqua in Il grande saccheggio, un libro di qualche anno fa che ha il raro pregio di saper osservare il nostro tempo in una prospettiva storica. Bevilacqua dimostra che il capitalismo è entrato «in un’epoca di distruttività radicale: dissolve le strutture della società, decompone lo Stato, cannibalizza gli strumenti della rappresentanza politica e della democrazia, desertifica il senso della vita; va divorando, sino al limite del collasso, le risorse naturali sul cui sfruttamento ha fondato i propri trionfi economici» (p. IX).

Con buona pace dell’architetto Desideri, la vera ingenuità – oggi ancor più di quando scriveva Cederna – è credere di poter indirizzare e governare il grande capitale scendendovi a patti, mentre da anni è quest’ultimo a addomesticare la democrazia piegandola ai suoi fini privati, ponendo vincoli all’azione pubblica e svuotando la politica di efficacia.

«Il cosiddetto libero mercato ha divorato l’interesse generale. Questa conquista di civiltà politica dell’Occidente si è dissolta nel libero e caotico perseguimento degli interessi particolari da parte degli individui. Com’era prevedibile, nessuna armonia celeste ha ricomposto lo scatenamento privato degli interessi in un superiore stadio di avanzamento collettivo. Il cuore del potere politico che nella seconda metà del Novecento si era assunto il compito di rappresentare l’interesse generale è stato assediato e occupato.

[…] I grandi poteri privati assediano il potere pubblico piegandolo a servire i loro sparsi e disordinati interessi. Si è realizzata una rifeudalizzazione dello spazio pubblico, come se la storia dell’Occidente fosse tornata indietro di quattro secoli». (p. 32)

Si può concordare o meno con le conclusioni di Bevilacqua, il quale, sulla scorta della teoria marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto, ritiene che il capitalismo sia giunto a una sconfitta storica e che sia vano attendersi una ripresa dalla crisi («Godot non arriverà»). Ma è certo che negli ultimi trent’anni il pensiero economico, sorreggendo di fatto lo strapotere del capitalismo finanziario globale, ha «distaccato l’economia dalla società, si è trasformato in una tecnologia della crescita senza fedi e senza progetti, un dispositivo neutro libero ormai da ogni contesto» (p. 22). Il risultato è la privatizzazione della politica, il trionfo dell’interesse privato sull’interesse pubblico.

Per Bevilacqua,

«Viviamo in una delle più paradossali società che la storia umana abbia mai edificato nel suo lungo cammino. Una ricchezza straripante che dilaga dappertutto e la condanna alla marginalità degli uomini e delle donne che la producono. Oceani di beni che dilagano intorno a noi, ma che non servono a darci tempo di vita, non ci liberano dalla precarietà, ci gettano nell’insicurezza, ci spingono a un lavoro crescente, a rapporti umani definitivamente mercificati e privi di senso. Una potenza tecnologica senza precedenti, che non ci libera dalle fatiche quotidiane, ma che ormai si erge come una potenza che minaccia il mondo vivente». (p. 183)

La strada del consumo si è definitivamente separata dalla strada del benessere, e in parallelo si consuma il divorzio tra la politica democratica e un potere che ormai viene esercitato al di fuori delle istituzione. È come se le storiche anomalie semifeudali del sistema italiano si manifestassero in tutto l’Occidente. Con un ulteriore paradosso, nel nostro paese, che è quello da cui siamo partiti: l’impegno civico in difesa della bellezza italiana e del territorio come bene pubblico si è fatto massa critica, ma una democrazia azzoppata lo recepisce solo sotto forma di slogan vuoti. A maggior consapevolezza corrisponde maggiore impotenza. E alla crescente e inesorabile impermeabilizzazione del suolo, causa di continui e spesso drammatici disastri idrogeologici (quelle che Cederna chiamò «alluvioni programmate»)[13] corrisponde una pari impermeabilizzazione delle classi cosiddette dirigenti alla richiesta di un modello di sviluppo alternativo.

Mentre gli investimenti pubblici per la tutela del paesaggio, la riqualificazione urbana, la preservazione degli equilibri ecologici e il risanamento fisico del territorio, di cui c’è disperato bisogno, vengono costantemente rinviati, si continua a promuovere il modello delle grandi opere, dell’alta velocità e delle mega-autostrade, dei «grandi eventi» con cui derogare alla normativa ordinaria. Creano lavoro, si dice. Ma le grandi opere sono ad alta intensità di capitale, mentre le piccole ad alta intensità di lavoro: queste ultime, a parità di investimento, produrrebbero ricadute estremamente più positive sull’occupazione, e in un’ottica keynesiana sulla domanda aggregata. L’utilità delle grandi opere, finanziate tramite il perverso meccanismo del project financing, che finisce per favorire le grandi imprese appaltatrici e le banche grazie alla garanzia dello Stato, appare del tutto sproporzionata (quando non del tutto fittizia) rispetto ai suoi enormi costi.[14]

Eppure non vi si rinuncia, nemmeno in epoca di austerity: troppo forti gli appetiti dei grandi capitalisti, troppo forti i legami coltivati nel «laboratorio segreto in cui», come ci ricorda Braudel, «il possessore di denaro incontra quello del potere politico». C’è una tendenza naturale del capitalismo a porsi al riparo dal rischio d’impresa, dalla concorrenza che per sua natura erode i margini di profitto: è nel campo politico che si determina l’esito di questa ricerca ossessiva della rendita. Se la politica è forte e democratica, può fungere da contrappeso grazie alla sua capacità di indirizzo e di legiferare in nome dell’interesse generale. Se è forte ma non democratica, oppure debole e subalterna, diviene il garante della rendita, il regista dei grandi interessi privati – come è sempre accaduto in Italia e come sempre più accade nel mondo.[15]

Come riappropriarsi della democrazia? Negli ultimi anni diversi pensatori hanno ribadito la centralità del territorio come ambito in cui ricreare spazi pubblici sottratti alla distruttività del capitale. Che la dimensione privilegiata sia quella urbana – dalle «città delle reti» di Manuel Castells alle «città ribelli» di David Harvey, fino ai sindaci a cui «far governare il mondo» di Benjamin Barber –,[16] oppure, come sostiene anche Bevilacqua, le aree interne e i borghi abbandonati,[17] è nella politica locale che può nascere la resistenza al «grande saccheggio», e insieme la proposta di un’alternativa. Se si crede che non debba essere soltanto un ripiego sul territorio, ma anche una riprogettazione del territorio – la rivendicazione dei luoghi, della città e del paesaggio come beni comuni da gestire e rimodellare secondo l’interesse generale – non dovrebbe sfuggire l’attualità di Antonio Cederna. La sua intera biografia dimostra che nel lungo periodo i «no», se non una nuova realtà, possono almeno costruire una nuova mentalità.

NOTE

[1] Antonio Cederna, racconta la figlia Camilla in Un italiano scomodo. Attualità e necessità di Antonio Cederna (a cura di M.P. Guermandi e V. Cicala, Bononia University Press, Bologna 2007), portava sempre nel portafogli queste parole, impresse su un foglietto con una vecchissima macchina da scrivere.

[2] Raffaella Silipo, «La bellezza nonostante», La Stampa, 3 marzo 2014

[3] Vedi per esempio i rispettivi interventi su MicroMega n. 2/2017.

[4] Salvatore Settis, Paesaggio, costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile, Enaudi, Torino 2010, p. 74.

[5] L’espressione è tratta da Leonardo Benevolo, Il tracollo dell’urbanistica italiana, Laterza, Roma-Bari 2012.

[6] Vedi Francesco Vallerani, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Unicopli, Milano 2013.

[7] Vezio De Lucia, Nella città dolente. Mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi, Castelvecchi, Roma 2013, pp. 67-68.

[8] Gran parte degli articoli di Cederna successivi a I vandali in casa sono reperibili sul sito dell’Archivio Cederna: ww.archiviocederna.it.

[9] Vittorio Emiliani, «Il Messaggero, quotidiano di Caltagirone, all’attacco di Cederna e del “cedernismo”», in MicroMega online, 28 febbraio 2017, http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-messaggero-quotidiano-di-caltagirone-all%E2%80%99attacco-di-cederna-e-del-%E2%80%9Ccedernismo%E2%80%9D.

[10] Citato in Giulio Cederna, «Mio padre direbbe: “tirem innanz…”», in Un italiano scomodo, cit.

[11] Paolo Desideri, «Il cedernismo malattia senile del riformismo», in Limes n. 3/2007.

[12] Vezio De Lucia, Nella città dolente, cit.

[13] Antonio Cederna, «Alluvione programmata», Corriere della Sera, 10 ottobre 1977.

[14] Vedi Ivan Cicconi, Il libro nero dell’Alta velocità, Koiné, Roma 2011.

[15] Per una sintetica ma esauriente trattazione storica dell’alternarsi tra regolazione pubblica e deregolazione privata, e della sinergia fra politica e grande proprietà, vedi Pierfranco Pellizzetti, Società o barbarie. Il risveglio della politica tra responsabilità e valori, il Saggiatore, Milano 2015, cap. 2.

[16] Vedi Manuel Castells, La città delle reti, Marsilio, Venezia 2004; David Harvey, Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, il Saggiatore, Milano 2013; Benjamin Barber, If Mayors Ruled the World: Dysfunctional Nations, Rising Cities, Yale University Press, New Haven 2014.

[17] Oltre al capitolo conclusivo del Grande Saccheggio, «Uno sguardo al futuro», vedi gli articoli raccolti in www.officinadeisaperi.it/author/piero-bevilacqua/.

(17 maggio 2017)

« L'associazione ambientalista per la sua campagna a difesa delle foreste boreali, un ecosistema che offre casa a 20 mila specie animali e vegetali, compreso il caribù, rischia la chiusura». la Repubblica, 17 maggio 2017 (p.s.)


ROMA - Quanto valgono le foreste boreali che costituiscono il secondo ecosistema terrestre del mondo come ampiezza, aiutano a difendere la stabilità climatica, offrono una casa a 20 mila specie animali e vegetali, compreso il caribù? E' una stima difficile perché il valore che rappresentano è legato alla sopravvivenza della nostra specie. Più facile è indicare il costo che viene chiesto a chi si batte per la loro difesa: 200 milioni di euro. Greenpeace è stata citata davanti a un tribunale degli Stati Uniti con questa richiesta di indennizzo da Resolute Forest Products, una multinazionale che ha deciso di rispondere così alla richiesta degli ambientalisti di adottare politiche sostenibili di taglio della foresta in Canada.

La cifra è ovviamente simbolica perché l'associazione ambientalista non è in grado di pagarla. In sostanza il colosso del legname chiede la chiusura di una voce storica dell'ambientalismo. E lo fa utilizzando una norma ideata per combattere la mafia. Greenpeace è stata accusata presso la Corte distrettuale della Georgia del Sud di diffamazione e di violazione della Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act, la legge Rico, una norma promulgata da Nixon nel 1970 per combattere il crimine organizzato.

La decisione della Resolute segna dunque una svolta dei rapporti tra mondo produttivo e ambientalismo che ha il segno dell'era Trump. Fino a oggi le aziende chiamate in causa per la loro azione inquinante avevano intavolato una trattativa con la controparte che nella maggior parte dei casi si era conclusa con un vantaggio reciproco: gli ambientalisti avevano incassato il miglioramento delle politiche, le aziende avevano ottenuto un ritorno di immagine e spesso un aumento di efficienza. Adesso si è arrivati al muro contro muro. Vale dunque la pena ricostruire le ragioni dello scontro.

Resolute Forest Products è la principale società canadese del settore del legno e della carta. Ha sede in Canada, a Montreal, e fornisce carta per la produzione di libri, riviste, giornali, cataloghi, volantini, elenchi telefonici. Per farlo, però - accusa Greenpeace - gestisce in maniera non sostenibile vaste aree della foresta boreale canadese, violando i diritti delle popolazioni indigene che la abitano da sempre, devastando l'habitat e mettendo in pericolo specie, come il caribù, già minacciate.

La società sotto accusa ribatte provando a capovolgere lo scenario. Greenpeace è accusata di frode perché "per anni ha indotto a donare milioni di dollari" per cause sbagliate. Resolute - afferma l'azienda nel suo ricorso legale - ha piantato un miliardo di alberi nelle aree boreali. Dunque non ha diminuito la capacità delle foreste di catturare anidride carbonica ma l'ha addirittura migliorata tagliando boschi e ripiantando alberi. Se le foreste boreali indietreggiano - continua Resolute - è colpa dell'urbanizzazione, delle centrali elettriche, delle strade, non delle motoseghe che tagliano gli alberi.

Finora questa tesi non ha ottenuto il sostegno della magistratura. Già nel 2013 Resolute aveva citato per diffamazione Greenpeace Canada davanti alla Corte superiore dell'Ontario chiedendo un indennizzo di 5 milioni di euro. La causa è ancora in corso, ma gli attacchi legali di Resolute hanno subito una battuta d'arresto il 9 marzo 2017, quando la Corte d'appello dell'Ontario ha definito "scandalose e vessatorie" le accuse di Resolute nei confronti di Greenpeace Canada. Resolute ha reagito rilanciando con un'accusa che mette sullo stesso piano Greenpeace e i clan mafiosi.

L'associazione ambientalista ha reagito parlando di Strategic Lawsuit Against Public Participation (cause strategiche contro la pubblica partecipazione): cause civili basate su accuse infondate che hanno come obiettivo l'intimidazione, il tentativo di soffocare le voci libere. E ricorda che la foresta boreale è la corona verde del pianeta: si estende per 16 milioni di chilometri quadrati - circa il doppio della foresta amazzonica - dall'Alaska alla Russia, passando per il Canada e la Scandinavia. Rappresenta oltre un quarto delle foreste rimaste sulla Terra e occupa più della metà del territorio canadese. Nonostante ciò, attualmente solo l'8 per cento della superficie forestale del Canada è protetto e molte aree sono minacciate.

Un rapporto appena reso noto dall'associazione ambientalista indica come importanti case editrici internazionali, tra cui Penguin Random House, HarperCollins, Simon & Schuster e Hachette acquistino carta da Resolute. Greenpeace invita queste case editrici internazionali a unirsi alla richiesta di tutelare la libertà di espressione e il diritto ad associarsi per la difesa di temi di interesse pubblico, come la conservazione delle foreste.

«Abbiamo sia le tecnologie che le risorse finanziarie per prevenire le peggiori conseguenze del cambiamento climatico: quello che non abbiamo è tempo da perdere», commenta Jennifer Morgan, direttrice di Greenpeace International. «Bisogna agire subito e molte aziende hanno accolto le nostre richieste per arginare il global warming e l'inquinamento: da quelle della moda a quelle che producono olio di palma. Noi abbiamo 55 milioni di persone che ci danno online il loro supporto. Non credo che sia una buona politica sfidare il peso dell'opinione pubblica».

«Una proposta di legge dei verdiniani sottoscritta da un’ampia maggioranza allontana le ruspe dai fabbricati, basta dimostrare che siano abitati. Solo in Campania sono 70 mila». il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2017 (p.d.)

Giovedì arriva nell’aula del Senato il progetto di legge “blocca ruspe”. La giunta della Campania, guidata da Vincenzo De Luca, lo attende con trepidazione da mesi, al punto da averne anticipato gli effetti in una proposta di legge regionale approvata il 16 marzo scorso. E il momento è arrivato. Sembra proprio che il progetto normativo – primo firmatario il verdiniano Ciro Falanga – abbia la strada spianata, almeno al Senato. Il testo con pochi emendamenti è stato approvato nelle commissioni di Palazzo Madama con una maggioranza inedita che va dal Pd a Forza Italia e M5S.
Tutti d'accordo nel fermare le demolizioni introducendo nella normativa due criteri che lasciano ampie possibilità di farla franca. Il primo è quello della penuria di fondi. La legge assegna per l’esecuzione delle demolizioni appena 10 milioni di euro ogni anno fino al 2020. Basta per eseguirne 130-140 all’anno. Con il secondo si stabilisce che tutte le case abitate saranno messe in coda alla lista degli edifici da demolire, senza distinzioni tra casotti di tufo e ville con piscina. “Ma l’aspetto più grave – rincarano il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli e il responsabile territorio e paesaggio Sauro Turroni – è che l’applicazione non ha limiti di tempo a differenza dei condoni. Questo significa che chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità, uno strumento formidabile anche in mano alla criminalità che potrà agire indisturbata utilizzando dei prestanome”.
Secondo la lettura dei Verdi si fermeranno anche le demolizioni delle case abitate edificate nelle aree protette, con vincolo ambientale e idrogeologico. “Appellandosi a questa legge, gli avvocati faranno giustamente il loro dovere che è quello di tentare ogni strada per impedire la demolizione dell’immobile del proprio assistito – ha avvertito il procuratore generale di Napoli Luigi Riello – ogni legale dirà: perché demolite casa al mio cliente e non a quell’altro? È stato verificato che l’ordine di priorità è stato rispettato? Sono stati controllati bene tutti i criteri? I quali criteri, mi si permetta di dirlo, mi sembrano evanescenti”.
Ed è soprattutto in Campania che l’abusivismo edilizio è diventato una piaga storica, favorita più che contrastata dalla politica in cambio di voti. Tanti. Nella regione dove circa il70% dei Comuni è privo di un Piano regolatore e anche la zona rossa intorno al Vesuvio è intensamente popolata, le case abusive sono oltre 70 mila. Per De Luca non c’è alternativa. Da poco eletto governatore, spiegava: “Ci vuole una sanatoria, si tratta di buon senso”. E poi: “Se c’è un povero cristo che nell’entroterra campano, senza danneggiare nessun paesaggio, ha fatto l’abuso, lo si sana perché non abbiamo alternative”. Ogni anno in Italia vengono realizzate 20 mila nuove case abusive. In Sicilia anche il governatore Rosario Crocetta ha proposto di fermare le ruspe, nonostante esista una casa abusiva ogni 900 metri di costa.
Articoli di Luciano Cerasa e di Corrado Zunino e dichiarazione di Loredana De Petris. il Fatto Quotidiano, la Repubblica, il manifesto, 15-17 maggio 2017

il Fatto Quotidiano
ABUSI EDILIZI, VERDI: “MATTARELLA E GRASSO FERMINO
LA LEGGE CHE LI LEGALIZZA E FERMA LE DEMOLIZIONI.
È PEGGIO DI UN CONDONO”

«Il ddl, che ha come primo firmatario l’ex senatore di Forza Italia passato ad Ala Ciro Falanga, arriverà in aula al Senato giovedì 18. Prevede che le case abitate finiscano ultime in ordine di priorità tra quelle da abbattere. Gli ambientalisti: "Invece di commissariare i comuni che non eseguono le demolizioni, si è scelta una strada assurda come quella di fermare le ruspe"»

Un provvedimento “di una gravità inaudita”, che «legalizza in modo permanente l’abusivismo con una portata peggiore del condono edilizio dal punto di vista dei suoi effetti futuri». E’ il giudizio dei Verdi sul disegno di legge che fissa i «criteri per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi», che il 18 maggio arriverà in aula al Senato. Il coordinatore nazionale Angelo Bonelli e il responsabile territorio e paesaggio Sauro Turroni lanceranno il 16 maggio un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e al presidente del Senato Pietro Grasso perché la legge, che ritengono presenti «vari profili di incostituzionalità», sia fermata e non venga promulgata.
Secondo i Verdi il ddl, primo firmatario l’ex senatore di Forza Italia passato ad Ala Ciro Falanga, «produrrà effetti di continue violazioni di legge» perché «introduce l’abusivismo di necessità e le case abitate non saranno abbattute perché collocate per ultime nell’ordine di priorità anche se si trovano in zone vincolate dal punto di vista ambientale e idrogeologico».

In testa alla lista delle priorità degli abusi da demolire ci sono gli immobili di rilevante impatto ambientale o costruiti su area demaniale o in zona soggetta a vincolo ambientale e paesaggistico o a vincolo sismico o a vincolo idrogeologico o a vincolo archeologico o storico-artistico, quelli che costituiscono un pericolo per la pubblica e privata incolumità e quelli sottratti alla mafia perché nella disponibilità di soggetti condannati per reati di associazione mafiosa o di soggetti colpiti da misure di prevenzione. Tuttavia all’interno di ognuna di queste categorie sono stabiliti ulteriori gradi di priorità. Gli edifici saranno demoliti secondo questo ordine: prima quelli in corso di costruzione o non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado, poi quelli non stabilmente abitati e infine quelli abitati.

Per ciascuna delle 3 sopra dette categorie i Procuratori della Repubblica detteranno i criteri di priorità che dovranno tenere conto delle specificità del territorio di competenza, attribuendo la priorità, di regola, agli immobili in corso di costruzione o comunque non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado e agli immobili non stabilmente abitati. Infine, per gli abbattimenti vengono stanziati 10 milioni di euro l’anno, a fronte di un costo di circa 80mila euro a demolizione.
«Le demolizioni con questa futura legge saranno fermate per due ordini di motivi», si legge nell’appello. «Perché la cifra stanziata per le demolizioni è sufficiente per eseguirne 130-140 all’anno e perché buona parte delle case sono abitate e quindi saranno in coda alle priorità stabilite dalla legge e perciò mai demolite. Ma l’aspetto più grave della legge è che la sua applicazione non ha limiti di tempo a differenza dei condoni. Questo significa che tra tre mesi, un anno o due chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità. Questo significa che il parlamento della Repubblica Italiana si accinge a legalizzare in modo perenne l’abusivismo edilizio, che anzi dalla norma riceverà ulteriori stimoli. E la norma potrà diventare uno strumento formidabile anche in mano alla criminalità che con prestanome, che corrispondano a criteri di necessità previsti della legge, potrà realizzare case abusive in spregio alla legge».
Invece, dunque, di «approvare norme più stringenti per demolire sul nascere l’abuso e per commissariare quei comuni, anche con lo scioglimento dei consigli comunali, che non sono rigorosi o nell’adottare strumenti urbanistici o nell’eseguire le demolizioni, si è scelta una strada assurda come quella di fermare le ruspe dietro l’alibi delle priorità e dell’inesistente abuso di necessità. Non è un caso che nei resoconti stenografici i senatori Falanga e Palma parlino esplicitamente di fermare le demolizioni a partire dalla Campania. Infatti sia il Presidente della regione Campania De Luca che della Sicilia Crocetta attendono con ansia questa legge dopo aver approvato in giunta provvedimenti blocca ruspe». In Campania le case abusive sono 70mila, in Sicilia ne sono state costruite 2.438 nel 2015 e 1.749 nel 2016.

L’appello è già stato firmato da Paolo Berdini, Vittorio Emiliani, Gianfranco Amendola, Francesco Lo Savio, Vezio De Lucia, Luana Zanella, Fabio Balocco e Mario Staderini.

il Fatto Quotidiano
IN SENATO ARRIVA IL SALVA-ABUSI
di Luciano Cerasa

«Una proposta di legge dei verdiniani sottoscritta da un’ampia maggioranza allontana le ruspe dai fabbricati, basta dimostrare che siano abitati. Solo in Campania sono 70 mila».

Giovedì arriva nell’aula del Senato il progetto di legge “blocca ruspe”. La giunta della Campania, guidata da Vincenzo De Luca, lo attende con trepidazione da mesi, al punto da averne anticipato gli effetti in una proposta di legge regionale approvata il 16 marzo scorso. E il momento è arrivato. Sembra proprio che il progetto normativo – primo firmatario il verdiniano Ciro Falanga – abbia la strada spianata, almeno al Senato. Il testo con pochi emendamenti è stato approvato nelle commissioni di Palazzo Madama con una maggioranza inedita che va dal Pd a Forza Italia e M5S.

Tutti d'accordo nel fermare le demolizioni introducendo nella normativa due criteri che lasciano ampie possibilità di farla franca. Il primo è quello della penuria di fondi. La legge assegna per l’esecuzione delle demolizioni appena 10 milioni di euro ogni anno fino al 2020. Basta per eseguirne 130-140 all’anno. Con il secondo si stabilisce che tutte le case abitate saranno messe in coda alla lista degli edifici da demolire, senza distinzioni tra casotti di tufo e ville con piscina. “Ma l’aspetto più grave – rincarano il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli e il responsabile territorio e paesaggio Sauro Turroni – è che l’applicazione non ha limiti di tempo a differenza dei condoni. Questo significa che chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità, uno strumento formidabile anche in mano alla criminalità che potrà agire indisturbata utilizzando dei prestanome”.

Secondo la lettura dei Verdi si fermeranno anche le demolizioni delle case abitate edificate nelle aree protette, con vincolo ambientale e idrogeoogico. “Appellandosi a questa legge, gli avvocati faranno giustamente il loro dovere che è quello di tentare ogni strada per impedire la demolizione dell’immobile del proprio assistito – ha avvertito il procuratore generale di Napoli Luigi Riello – ogni legale dirà: perché demolite casa al mio cliente e non a quell’altro? È stato verificato che l’ordine di priorità è stato rispettato? Sono stati controllati bene tutti i criteri? I quali criteri, mi si permetta di dirlo, mi sembrano evanescenti”.

Ed è soprattutto in Campania che l’abusivismo edilizio è diventato una piaga storica, favorita più che contrastata dalla politica in cambio di voti. Tanti. Nella regione dove circa il70% dei Comuni è privo di un Piano regolatore e anche la zona rossa intorno al Vesuvio è intensamente popolata, le case abusive sono oltre 70 mila. Per De Luca non c’è alternativa. Da poco eletto governatore, spiegava: “Ci vuole una sanatoria, si tratta di buon senso”. E poi: “Se c’è un povero cristo che nell’entroterra campano, senza danneggiare nessun paesaggio, ha fatto l’abuso, lo si sana perché non abbiamo alternative”. Ogni anno in Italia vengono realizzate 20 mila nuove case abusive. In Sicilia anche il governatore Rosario Crocetta ha proposto di fermare le ruspe, nonostante esista una casa abusiva ogni 900 metri di costa.

la Repubblica

AL VOTO LANUOVA LEGGE SULLE DEMOLIZIONI.
E SCATTA L'ALLARME:
«SI RISCHIAL'ABUSIVISMO LEGALIZZATO»
di Corrado Zunino

«Un appello di Verdi, urbanisti ed ex magistrati contro il Decreto Falanga: "Così si legalizza per sempre l'abusivismo edilizio". Nasce l'abuso per necessità: "Niente ruspe per chi non ha un'altra casa"».

Roma - In Senato si vota, fra tre giorni, una legge per cambiare le regole sugli abbattimenti delle abitazioni abusive. Il primo firmatario è un verdiniano, Ciro Falanga, e il decreto in dirittura d'arrivo prevede una serie di provvedimenti di peso. Oggi la maggior parte delle demolizioni è affidata alla magistratura, che interviene quando i sindaci non ottemperano (quasi sempre, in Italia). La novità del Decreto Falanga è quella di organizzare una vera e propria classifica delle priorità per l'invio delle ruspe. In fondo a questa graduatoria c'è "l'abuso per necessità".

A chi non ha un alloggio alternativo - la maggior parte di coloro che hanno commesso un abuso edilizio, d'altra parte - non si potrà tirare giù l'edificio illegale. Fosse anche una villa, fosse anche in un'area protetta. Nel testo, si legge, all'ultimo posto delle priorità sono posizionati «gli immobili abitati la cui titolarità è riconducibile a soggetti appartenenti a nuclei familiari che non dispongano di altra soluzione abitativa». Si dovranno quindi segnalare «alle competenti amministrazioni comunali» gli edifici «in possesso di soggetti in stato di indigenza».
A sostenere il decreto - è il 580-B, "Disposizioni in materia di criteri per l'esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi" - ci sono dieci milioni di euro. Una cifra che, parametrata ai costi attuali di un abbattimento, consentirebbe 130 interventi l'anno in tutto il Paese.

Il Decreto Falanga è atteso con una certa premura dai governatori della Campania e della Sicilia. In particolare, Vincenzo De Luca ha disposto a Napoli e nelle altre quattro province campane la sospensione di ogni intervento di demolizione in attesa dell'ultimo passaggio parlamentare del Ddl 580-B, appunto al Senato. Ma l'azione di Ala e Forza Italia - che fin qui non ha incontrato ostacoli da parte del Pd e del Movimento 5 Stelle, la sesta commissione ha votato favorevolmente e all'unanimità - conosce un'opposizione formale da parte dei Verdi con i suoi coordinatori nazionali Angelo Bonelli e Luana Zanella e il responsabile territorio Sauro Turroni. In questa campagna sono affiancati da urbanisti di peso come Paolo Berdini (ex assessore della Giunta Raggi) e Vezio De Lucia, ex magistrati ambientali come Gianfranco Amendola e Domenico Lo Savio, dal radicale Mario Staderini, l'intellettuale Vittorio Emiliani, l'avvocato Fabio Balocco.

Sul provvedimento si è già espresso il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello. «Se si irrigidiscono i criteri di priorità con una legge si apre la via a un contenzioso enorme», ha detto. «Gli avvocati tenteranno ogni strada, giustamente, per impedire la demolizione dell'immobile del proprio assistito. Si chiamano incidenti di esecuzione. Ogni legale alzerà un'opposizione: perché demolite la casa del mio cliente e non quella a fianco?». I criteri di priorità, sostiene il magistrato, sembrano evanescenti: «Questa legge prova a tutelare il piccolo abuso di necessità rispetto all'ecomostro, ma rischia solo di rallentare l'intero processo di demolizioni».

Nel Napoletano, dove ci sono 70.000 abitazioni fuorilegge, si era avvertita nelle ultime stagioni un'inversione di tendenza con una decrescita dei manufatti abusivi e un aumento delle autodemolizioni da parte dei proprietari: sconfitte al processo, diverse famiglie sceglievano di abbattere la costruzione avviata per evitare il conto dello Stato, più oneroso.

Nelle audizioni al Senato si parla esplicitamente di fermare le ruspe al Sud. Il senatore di Forza Italia, Nitto Francesco Palma, anche lui magistrato, ha dichiarato: «Il disegno di legge è volto a salvare dagli abbattimenti le abitazioni delle persone che vivono in Campania con un reddito assai modesto e non già i grandi gruppi alberghieri o i faccendieri che abitano dimore lussuose presso la Costiera sorrentina».

L'appello di chi si oppone al decreto è stato inviato oggi ai presidenti della Repubblica e del Senato e chiede di fermare «una legge blocca demolizioni che legalizza in modo perenne l'abusivismo edilizio». La denuncia di ambientalisti, urbanisti e scrittori sottolinea: «L'aspetto più grave del provvedimento è che la sua applicazione non ha limiti di tempo, a differenza dei condoni. Questo significa che fra tre mesi, un anno o due chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità. Significa, inoltre, che da questa norma l'abusivismo riceverà ulteriori stimoli e la criminalità organizzata potrà realizzare case abusive in spregio alla legge attraverso prestanome».


il manifesto
ABUSIVISMO,
«STOP AL DDL FALANGA»
dichiarazione di Loredana De Petris

La capogruppo di Sinistra Italiana e presidente del gruppo misto al Senato, Loredana De Petris, chiede alla maggioranza di rinviare il ddl Falanga in commissione. Il disegno di legge che porta il nome del senatore verdiniano Ciro Falanga potrebbe essere approvato dall’aula di palazzo Madama questa settimana. Sarebbe una pietra tombale sulla demolizione di case abusive - spiegano in un appello ambientalisti, urbanisti e ex magistrati - a causa del meccanismo ideato per programmare le demolizioni: una scala di priorità che ha in cima le case in costruzione, da abbattere per prime, e all’ultimo gradino quelle già abitate. «Le case già abitate di fatto sono tutte salve. Per le altre - dice il verde Angelo Bonelli - bisogna individuare l’abuso, poi arriva la sentenza che ordina la demolizione, e ci sono 90 giorni di tempo per eseguirla. In tre mesi la casa può essere finita, ci si mette dentro una famiglia, e il gioco è fatto». Anche il procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, è intervenuto contro il ddl: «Se si irrigidiscono i criteri di priorità con una legge si apre la via a un contenzioso enorme. Gli avvocati tenteranno ogni strada, giustamente, per impedire la demolizione dell’immobile del proprio assistito». Il firmatario del ddl, Falanga, ovviamente difende il suo provvedimento e dice che se non sarà approvato si dimetterà da senatore.

«Da Milano a Roncadelle, un viaggio sulle tracce del disastro urbanistico che affligge la Piana». Internazionale online, 15 maggio 2017 (p.d.)

I turisti calano dal torpedone armati di teleobiettivi e macchine fotografiche. Sciamano entusiasti nell’unica navata del centro commerciale Mega di Vimercate, si radunano sotto la cupola di metacrilato, studiano le iscrizioni alle pareti: il supermercato si definisce “controcorrente”, la parrucchiera è “ParrucChiara”. Mentre ammirano l’erba sintetica del presbiterio, una cliente li interpella, lo sguardo complice di chi ha colto un segreto.

“Siete qui per qualcuno di famoso?”.
“No, signora. Siamo in gita aziendale”.
La donna rimane interdetta, gli invasori non somigliano a impiegati in vacanza, anche se adesso si concedono un caffè, come nella classica pausa da viaggio organizzato.
In realtà, vero motivo della sosta è proprio la visita a questo scatolone grigio di negozi brianzoli, definito “mega” in un tempo remoto, il 1984, quando il gigantismo padano era ancora bambino. Oggi una struttura del genere, circa 2.500 metri quadrati, impallidisce di fronte al maxiprogetto del nuovo supermercato Esselunga di Vimercate sud, con 3mila metri quadrati solo per il settore alimentare e 1.800 per gli altri prodotti.
In compenso il Mega potrebbe rivendicare un primato, quello di essere il più antico centro commerciale della Lombardia, anello di congiunzione tra i mercati coperti di quartiere e le cattedrali dello shopping da svincolo autostradale. Purtroppo non esiste una cronologia ufficiale e le notizie sulla nascita di questi fabbricati si ricavano a fatica da feste d’anniversario e procedure fallimentari. Sono architetture prive di una storia pubblica, dove “il passare del tempo si svela soltanto attraverso la novità dei prodotti”. L’Atlante dei classici padani ne censisce 1.141 tra Piemonte, Lombardia e Veneto. Gli asili nido si fermano a 1.007.
Proprio dalla capitale di questa macroregione, Milano, è partita la gita aziendale di Padania classics per visitare alcuni epicentri del disastro psicourbanistico che affligge la “Piana”. Una cinquantina di fotografi e videomaker, giornalisti e architetti, critici d’arte e appassionati ha raccolto l’invito di Filippo Minelli ed Emanuele Galesi, che da sette anni catalogano e analizzano gli elementi costitutivi del paesaggio padano. Sul pullman è stato distribuito un kit aziendale, completo di penna, taccuino e macchina fotografica usa e getta. “Questo non è un viaggio passivo”, ci hanno spronato gli organizzatori, “qua bisogna produrre!”.

Il dépliant della “Gita 2017” la definisce infatti “una ricognizione partecipativa, una conferenza paradossale e uno scambio informale di idee”. L’obiettivo è quello d’interrogarsi sull’identità della “regione divenuta Macro” e sui meccanismi che ne hanno sfruttato lo smarrimento, tra compro oro e svendo cemento, palmeti e videoslot, Lega nord e grandi opere incompiute.
All’inizio del nuovo millennio, Eugenio Turri e Mimmo Jodice hanno condotto una ricerca per certi aspetti simile, sfociata nel libro Iconemi: storia e memoria del paesaggio. I due autori raccontano e fotografano la pianura lombarda isolando i segni che la caratterizzano. Come in un appartamento ci sono angoli e oggetti che fanno di quello spazio la nostra casa, così in un territorio ci sono elementi che più di altri definiscono il paesaggio. Turri e Jodice si soffermano sulle chiaviche dei canali, le rogge, le testate dei fontanili, i filari d’alberi, le cascine a corte chiusa. Il loro intento è un’educazione dello sguardo. Se non capiamo cosa dice il paesaggio, rischiamo di considerarlo soltanto uno spazio da riempire, senza preoccuparci di ciò che cancelliamo. E di ciò che aggiungiamo.
Minelli e Galesi ci spingono invece a studiare gli sgorbi che germogliano tra le Alpi e il Po. Rotonde, centri commerciali, tralicci, capannoni, piscine fuori terra, palme fuori luogo, statue neoclassiche da giardino, totem pubblicitari, cave/discariche, reti arancioni da cantiere, svincoli a quadrifoglio, centri massaggi, sushi wok, villette-su-terrapieno, ampi parcheggi. Dopo quarant’anni di cura del cemento, non si può più dire che quegli scarabocchi non hanno senso. A prima vista, una distesa di asfalto può sembrare incomprensibile, ma se un gruppo di ragazzini comincia a usarla per andare in skateboard, ecco che acquista un significato, malgrado quello originario rimanga un mistero. Allo stesso modo, poiché gli orrori del paesaggio padano sono vissuti ogni giorno da milioni di esseri senzienti, bisogna assumersi il compito di comprenderli, a partire dagli effetti che producono su chi li attraversa.

Ben Hur e Godzilla a Burago
Il cappuccino del centro commerciale Mega ci aiuta ad assimilare questa nuova consapevolezza, prima di risalire a bordo e riprendere il viaggio. Il pullman esce da Vimercate, attraversa un confine invisibile, e già costeggia le villette a due piani di un altro comune. Siamo a Burago, il paese della famosa – e quasi omonima – fabbrica di “macchinine”, fallita con arresti una decina d’anni fa. Dall’alto del finestrino, sbircio nei giardini di case e condomini. Luoghi dove prende corpo, in scala ridotta, l’ideale di paesaggio degli abitanti. Ed ecco manifestarsi, in mezzo alle aiuole, una sproporzionata rotonda di ghiaia, per consentire alle auto di manovrare più in fretta. Ecco piante, anfore, statue e fontanelle che sembrano scarti della scenografia di un film in costume, tipo Ben Hur e Godzilla contro i pirati dei Caraibi.
Ecco la versione bifamiliare dei colossali autolavaggi che punteggiano la Piana. Ed ecco la chiesa romanica di santa Maria in Campo, a ottanta metri dal guardrail dell’A4. Classificata al 41° posto tra i “Luoghi del cuore Fai”, secondo il suo sito internet “è tornata ad essere un centro […] di affettuosa attenzione da parte delle persone che vivono nei suoi dintorni”. Infatti, la siepe squadrata che le gira intorno sembra presa in prestito dal parcheggio di un motel. Perché nella macroregione anche l’affetto per il territorio si nutre di veleni.
Non è l’indifferenza che semina immondizie, ma al contrario l’ossessione per lo spazio, il bisogno di produrre e mettere a valore, il fastidio per ciò che appare vuoto e il desiderio irrealizzabile di riempirlo tutto, tutto, tutto. Fino al punto di costruire nuovi vuoti – dai pannelli pubblicitari ai camion vela alle rotonde – per il puro gusto di poterli farcire. Così la catastrofe non è il frutto esclusivo di amministrazioni scellerate, ma si diffonde anche attraverso le scelte individuali, dall’uso dell’auto al tempo libero, dall’insegna della ditta di famiglia al colore di un cancello antieffrazione. Se si trattasse di una sola grande opera, inutile e imposta dall’alto, la si potrebbe ancora giudicare una forma di colonialismo. Sentirsi vittime di un’entità che vomita cemento e insensatezza.
Ma dal momento che “il Disastro”, come lo definiscono Minelli e Galesi, si allarga per migliaia di ettari, dal demanio ai giardini privati, ci tocca ammettere che non siamo indigeni innocenti, e domandarci in cosa consista la nostra complicità.

Zingonia, la città ideale
Il primo contributo alla conferenza itinerante arriva da Carlo Sala, autore della prefazione all’Atlante dei classici padani. Siamo a Zingonia, un paese che il dépliant della Gita definisce “esperimento urbanistico e sociale d’interesse primario”. Fu costruito nei primi anni sessanta, nella bassa bergamasca, con l’idea di integrare in un unico agglomerato zona industriale e abitazioni. L’imprenditore Renzo Zingone sognava appartamenti per 50mila operai, ma nonostante il boom economico, la sua megalomania si rivelò un annebbiamento da abbuffata domenicale. Completati gli stabilimenti, la vendita delle case non ebbe fortuna. I cantieri si fermarono, molti palazzi restarono abbandonati, i servizi non andarono oltre l’ospedale e il centro sportivo. Il tutto spalmato su un’area troppo grande, senza piano regolatore, condivisa da cinque comuni.
Oggi Zingonia ha quattromila abitanti, più della metà sono stranieri, e il suo nome compare sui giornali locali per i blitz dei carabinieri “in stile Scampia”, lo spaccio di stupefacenti e il degrado. Di sicuro, non è un posto comodo dove abitare. Sala ce lo ricorda, parlando al microfono di fianco al guidatore e chiedendo scusa per la nota seriosa, in contrasto con il clima della comitiva. Non stiamo partecipando a un giro turistico nelle pene altrui, un safari trasgressivo nello sfacelo. Scopo della gita aziendale, e dell’intero progetto Padania classics, è quello di stimolare l’analisi critica.
Per tutta risposta, al termine dell’intervento gli altoparlanti diffondono le note di Boys, brano simbolo dei terribili ottanta, stampato nella mente di molti grazie al video supercafone con Sabrina Salerno in costume da bagno bianco. “Pezzone!”, annuisce contento il primo che riconosce il riff iniziale, mentre tra i sedili rimbalzano esegesi in bilico tra sarcasmo e nostalgia. Mi guardo intorno: la gran parte dei gitanti doveva avere tra i cinque e i sedici anni quando Sabrina Salerno cominciò a furoreggiare. Le sue hit italodisco fanno parte di noi. Come scrisse Rilke, “l’unica patria dell’uomo è la sua infanzia”, ma il patriottismo non è mai una virtù. Abbiamo sorbito la feccia, non per questo dobbiamo convincerci che sapeva di cioccolato.
Marco Revelli, nel suo Non ti riconosco. Viaggio eretico nell’Italia che cambia, si interroga sul proprio spaesamento, sull’incapacità di ritrovarsi nei luoghi di una vita, restando “fisicamente senza la terra in cui affondare le radici”. Ma in tutto il torpedone, l’unico che potrebbe dire altrettanto è Marco Belpoliti, sette anni più giovane del settantenne Revelli. Tutti gli altri vivono la condizione di “nativi escremenziali”, costretti a riconoscersi nel paesaggio della Piana, nelle macerie che li hanno cullati fin da bambini, senza per questo passare dal riconoscimento alla riconoscenza. Siamo caduti nella malta da piccoli, ma non vogliamo arrenderci all’assuefazione.
A Zingonia visitiamo la parrocchia di Santa Maria madre della chiesa, in un quartiere di garage dai portoni blu e di facciate condominiali di mattoni a vista. Il sagrato è un’aiuola spartitraffico, provvista di ulivo della pace, tris di cipressi e croce terracielo in rottami di metallo. Pezzi di grondaia, ipotizza qualcuno. Il piazzale antistante ospita una rotonda e quattro lampioni brontosauro che vegliano sulla sacralità del luogo. Nell’Atlante, il tempio è ribattezzato “bunker del Signore”, perché il suo ingresso con discesa agli inferi ricorda quello di un rifugio antiatomico. Secondo gli autori, la forma dell’edificio è un chiaro riferimento all’apocalisse neuroedilizia e un invito esplicito a “rintanarsi e pregare” in attesa “che ritorni l’ordine naturale delle cose”. Sfogliando il capitolo “Dal Macro al profano”, si rimane travolti da un’orda di chiese simili a fortilizi per guerre stellari. La salvazione che quelle mura simboleggiano ricorda più la sicurezza di un ministro dell’interno che la resurrezione di Gesù Cristo. Segno che la Padania è davvero uno stato mentale, capace d’insinuarsi anche nelle abitudini spirituali.
Intermezzo, sulla BreBeMi
Risaliti a bordo, ci lasciamo alle spalle la città ideale, sulle note di All that she wants degli Ace of Base. Ma una colonna sonora più adatta, per il miraggio tossico di Renzo Zingone, sarebbe Padania degli Afterhours, che in due versi coglie il vero genius loci di questo territorio: “Lotti tradisci e uccidi per ciò che meriti / fino a che non ricordi più che cos’è”. Una voracità sterile e frettolosa, che non conosce confini e genera incompiutezza, perché non sa finire. E infatti Zingonia ci insegue, come le terre di Mazzarò nella novella La roba di Giovanni Verga. Credi di esserne uscito, ma appena domandi “Dove siamo?”, ti senti rispondere “A Zingonia”. Cioè a Verdello, o a Verdellino, a Boltiere, a Ciserano, a Osio sotto. Perché Zingonia in realtà non esiste, o meglio è il nome di quel paesaggio ibrido, modulare e ripetibile all’infinito, che ci accompagna tra mareggiate di déjà vu, fino all’ingresso dell’autostrada A35, la famigerata BreBeMi.
L’infrastruttura, inaugurata tre anni fa, è già oggetto di barzellette e adagi popolari, che prendono di mira le sue corsie vuote (transiti pari a un terzo della media nazionale), le tariffe troppo care (13 euro per 62 chilometri), il finanziamento “tutto privato”, il contributo pubblico di 320 milioni a fondo perduto, gli sconti pagati dai contribuenti, l’assenza di aree di servizio. Senza contare i 900 ettari di suoli agricoli asfaltati, perché a dispetto della fede nel calcestruzzo, la terra della macroregione non è ancora consumata al 100 per cento, le rogge e i fiumi non sono tutti tombati, e gli iconemi di Turri e Iodice resistono nei ritagli di campagna, insieme a lepri, fagiani e lucciole.
Chi ha tentato di opporsi a quest’ennesima rapina di suolo, lo ha fatto anche in nome di una facile profezia: l’impatto di un’autostrada non si limita mai a una striscia di territorio. Farà nascere nuove strade, nuove piattaforme per la logistica, nuovi svincoli, quartieri e fabbricati. Anzi: poiché la congestione non si risolve aggiungendo strade, si può dire che gli effetti collaterali urbanistici di una nuova arteria sono in realtà il suo vero obiettivo. Come volevasi dimostrare, il 20 gennaio 2017 la società di progetto Brebemi spa ha annunciato l’avvio dei lavori per il raccordo tra la A35 e la A4, con casello autostradale a 11 piste. Secondo Legambiente, altri 60 ettari consumati. Ed è solo l’inizio.
Appena un mese prima, lungo la stessa direttrice, il ministro delle infrastrutture e dei trasporti Graziano Delrio aveva tagliato il nastro della nuova linea ad alta velocità Milano-Brescia. La osservo correre, tutta in viadotto, proprio accanto all’autostrada e mi domando che senso abbia collegare due città con due ferrovie, una per i treni normali e una per le Frecce, quando la distanza che le separa (77 chilometri) permette di raggiungere l’alta velocità solo per pochi minuti. Anche in questo caso, l’obiettivo dev’essere un altro, non quello di migliorare la mobilità. Si tratta di far pagare caro qualche minuto di tempo risparmiato, un quotidiano a scelta e uno spuntino, massacrando nel frattempo le alternative più economiche. Come scrisse Ivan Illich, quando cresce la velocità negli spostamenti, diminuisce l’uguaglianza sociale.

La cittadella dello shopping di Orzinuovi
Raggiungiamo la zona Pip di Orzinuovi, sigla che sta per “Piano insediamenti produttivi”. Nel gergo dei classici padani, quest’area industriale è lo strip della città, cioè il suo viale-vetrina all you can eat, completo di rotonda con archi trionfali, portale d’accesso in tubi d’alluminio, parcheggi smisurati, centri commerciali attivi e in rovina, fabbriche dismesse, villette, rigurgiti agricoli, toponomastica coloniale (viale Adua) e monumento all’alpino.

Pranziamo al ristorante sushi wok dell’Iper Tosano, che col suo self service a base di pizza, salsiccia, surimi e futomaki sembra il corrispettivo gastronomico degli insani accostamenti del paesaggio padano. Niente di meglio, per digerire, di una passeggiata lungo lo strip, fino agli arcobaleni malati dell’Orceana park. Se l’assurdo, come scrisse Camus, è “il malessere di fronte all’inumanità dell’uomo stesso”, allora in questa landa ce n’è un intero giacimento. Tutto lo spazio è progettato per le macchine, con una stolida avversità contro chiunque intenda viverlo a piedi. Ciononostante, raggiungiamo la meta. È un centro commerciale abbandonato, dopo un’esistenza di soli quattro anni. C’erano un bar ristoro, una trentina di negozi, la libreria Edison, l’Upim, il bowling e sette sale cinematografiche.

Emanuele Galesi ci spiega che la ditta costruttrice aveva debiti con la banca, non li poteva saldare e così l’istituto le ha concesso un prestito di cento milioni, sperando che l’investimento nella “cittadella dello shopping” rimpinguasse le tasche del creditore. Risultato: come dare la scossa a una rana morta. Chiuso per fallimento nel 2013, il complesso è invecchiato in fretta, e ora è talmente malandato che pare in cancrena da decenni. Buchi di vermi giganti crivellano le pareti e l’intonaco si stacca in brandelli ustionati. Bancali di legno rimpiazzano i chiusini delle fogne, saccheggiati e rivenduti a peso come denti d’oro. Eppure, mentre cammino tra i pozzetti scoperchiati, i cocci di vetro e le scritte naziste, provo un senso di liberazione, come se l’abbandono avesse prodotto un’oasi, un territorio finalmente lasciato a sé stesso, senza progetti e calcoli.

Il Disastro è ormai talmente dispiegato che non si può pensare di estirparlo. L’abbattimento degli ecomostri è una misura eccezionale, quindi per lo più occorrerà tenerseli e reinventarli. In questi quattro anni, il sindaco di Orzinuovi non ha brillato nel proporre alternative per l’Orceana park. Tuttavia, se oggi qualcuno provasse a utilizzare lo spazio, quello stesso sindaco potrebbe multarlo e allontanarlo, “a tutela della sicurezza e del decoro”, come prevede il decreto Minniti. Dopo la gita aziendale 2017, lo strip di viale Adua sarà inserito di sicuro tra quelle “aree su cui insistono complessi monumentali interessati da consistenti flussi turistici”, nelle quali si applica il cosiddetto “daspo urbano”.

Una Stonehenge di calcestruzzo
Monumentali sono i cinque piloni della Corda molle, una Stonehenge di calcestruzzo e tondini, che si eleva tra i campi a sudovest di Brescia. Le grandi colonne dovevano sorreggere un cavalcavia, sopra il raccordo autostradale Ospitaletto-Montichiari. Ma la bretella, simile a una corda allentata, era talmente molle che si è disfatta, e invece di collegare A4, A21 e BreBeMi, è morta sulla riva della roggia Quinzanella, a un chilometro da dove ci scarica il pullman.

Su uno dei giganteschi menhir, sopra a vecchi rattoppi di vernice grigia, campeggia la scritta “€spropri 2007 mai pagati. Vergogna!”. Il cantiere interrotto, infatti, non si è lasciato dietro solo i pilastri, ma anche un lotto di strada incompleta, circa tre chilometri a due corsie, che avrebbero dovuto raddoppiare la provinciale 19. Ora invece c’è soltanto un corridoio di ghiaia, giovani pioppi, tubi corrugati e frantumi. I lavori, all’inizio, erano in capo a Centro padane, la società che gestisce, da 45 anni, l’A21 Piacenza-Brescia. Nel 2012, però, Anas ha indetto un nuovo bando per l’autostrada e se l’è aggiudicato il gruppo Gavio.

Intoppi, inciampi e direttive hanno ritardato il passaggio di consegne, così la gestione è ancora in mano a Centro padane, ma non gli investimenti. La Corda molle fa parte di questi ultimi e pertanto rimane in sospeso, insieme ai bonifici per i terreni espropriati. Intanto la zona si è trasformata in una discarica dove cubi di gommapiuma fradicia si mescolano a teli di plastica per minacciare l’acqua di un canale d’irrigazione. Sullo sfondo la cascina Lama, con i silos per il foraggio e l’architettura rurale, è talmente smarrita che pare un rifiuto buttato insieme agli altri.

“Sembra il gran tour dell’ottocento a visitar le ruine”, scherza Michele Santoro di Legambiente, con l’occhio sul mirino della macchina fotografica. E se non fosse per la miseria della campagna ferita, ci si potrebbe anche abbandonare al fascino perturbante di questa necropoli.

“L’Incompiuto”, mi suggerisce Andrea Masu, “è lo stile architettonico più importante del novecento italiano, sia per la quantità delle opere che per la coerenza delle sue forme. Con il collettivo Alterazioni video abbiamo censito centinaia di costruzioni in tutta la penisola, soprattutto in Sicilia, e chiediamo che vengano riconosciute come patrimonio artistico-culturale. Luoghi della memoria, capaci di raccontare la storia recente del nostro paese”. Uno stile talmente autorevole, che già vanta tentativi di imitazione. Ripenso al serbatoio idrico a forma di colonna dorica che abbiamo ammirato tra Osio Sotto e Levate. Una struttura da acquedotto, di quelle che di solito rimangono anonime, o al massimo ospitano il nome di una località, come a Zingonia e Boltiere. In quel caso, invece, grazie alla fantasia dell’architetto Gambirasio, la torre piezometrica diventa un tempio greco incompiuto, appena iniziato, nuovo di pacca ma limitato a una sola, gigantesca colonna.

I gitanti, nel frattempo, si preparano a cingere uno dei piloni con un abbraccio collettivo, applicando al cemento i princìpi della silvoterapia. Se abbracciare gli alberi promette benessere ed energia positiva, che effetto ci si deve aspettare dal contatto affettuoso con un’autostrada interrotta? Nel dubbio, mi astengo dal rituale. Ammetto che avrei preferito un attacco psichico, con le onde cerebrali di tutta la brigata rivolte contro l’insidioso monumento. Tuttavia, rifletto, che colpa ne ha il pilastro, se l’hanno abbandonato qui? Forse consolarlo per la sua solitudine è un gesto che non gli andrebbe negato. Ci si può prendere cura del disastro come di un male incurabile, lenendo le piaghe che ha disseminato e allo stesso tempo impedendo che ne diffonda ancora?

Ritorno al futuro
L’ultima tappa della gita è a Roncadelle, tra i comuni d’Europa con la più estesa superficie destinata a imprese commerciali: 8,7 metri quadrati per ogni abitante. Mi aggiro nel parcheggio del centro commerciale Brescia 2000, battezzato così ben prima dell’alba del secondo millennio. Saracinesche abbassate e balconi deserti occhieggiano nel gialloverde carioca dell’edificio, a indicare che il duemila è piuttosto diverso da come ci si aspettava. Cerco un angolo dove fare pipì, vicino a una batteria di cassonetti dell’immondizia.

Quando mi giro, i miei compagni di viaggio stanno risalendo sul pullman, senza fretta. Allungo il passo per raggiungerli, ma una strana inquietudine mi trattiene. Tutto d’un tratto, il piazzale d’asfalto si è animato di persone, e decine di clienti si dedicano agli acquisti. Indossano vestiti lucidi o di stoffe catarifrangenti. Parlano ad alta voce, ridendo allegri come deejay radiofonici. Si muovono compatti su strisce semoventi tipo tapis roulant, e i pochi che camminano hanno la stessa andatura, il moonwalk di Michael Jackson. Le auto in manovra ricordano la vecchia Renault Espace, ma le forme sono avveniristiche e le lamiere scintillanti. Dietro il centro commerciale si alzano grattacieli di plastica e vetroresina, mentre il cielo è offuscato da piccoli elicotteri monoposto. Fossimo di ritorno da un rave, potrei anche spiegarmi certe allucinazioni, ma in una gita aziendale le droghe lisergiche sono fuori posto.

In un’aiuola curatissima, cresce una vite con tanto di cartello: vite. È l’unica pianta dei dintorni, lindi e puliti come un cartongesso appena posato.

Poi li metto a fuoco meglio: una decina di ragazzi con la maglia metallizzata del Brescia, lo scudetto tricolore appuntato sul petto e la stella per chi si aggiudica 10 campionati. Allora capisco. Questo è il 2017 come lo sognavano trent’anni fa, senza inciampi o magagne di mezzo. Spettri dell’immaginario, fantasmi di un futuro invecchiato, Brescia 2000 vista da Brescia 1980.

Un brivido mi corre lungo la schiena, mentre ricordo quel racconto di William Gibson (Il continuum di Gernsback) in cui il protagonista ha visioni molto simili a queste. E come lui mi rendo conto che il vero futuro degli anni ottanta, il nostro presente, non è certo piacevole, con le sue catastrofi. Eppure, poteva essere molto peggio. Poteva essere perfetto.

Il Giornale dell'Arte, maggio 2017.

Il 6 aprile scorso è entrato in vigore - tramite decreto (DPR 31/2017) - il "regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata".Si tratta di un provvedimento che incide direttamente sull'attuazione del Codice dei Beni culturali e, nello specifico, sul procedimento di autorizzazione paesaggistica, vale a dire il nulla osta che gli organi territoriali di tutela, le Soprintendenze, devono concedere per poter effettuare qualsiasi intervento di trasformazione territoriale in aree sottoposte a tutela

Anche se l'amministrazione delegata al rilascio delle autorizzazioni paesaggistiche è, ai sensi del Codice, la regione che, come è ormai prassi consolidata, può delegare il compito ai Comuni, il parere delle Soprintendenze è vincolante ed è stato spesso causa fra le principali di contenzioso - sia che sia concesso o che sia negato - da parte sia di privati o amministrazioni richiedenti che di cittadini, comitati e associazioni difesa del patrimonio, sull'altro versante.

È indubbio infatti che l'autorizzazione paesaggistica costituisca a tutt'oggi lo strumento principale di tutela del territorio da parte dello Stato e per questo sia divenuta spesso oggetto di aspro confronto fra chi la ritiene un potere eccessivo nelle mani di funzionari tecnici (i 'burocrati' oggetto di strali in particolare da parte di coloro che rivendicano sempre e comunque il primato della politica) e chi invece ne vorrebbe rafforzare l'attuazione soprattutto in termini di maggiori risorse da attribuire a chi la esercita, vale a dire le Soprintendenze.

Il nuovo regolamento si inserisce in questo dibattito proseguendo in una linea di modifica e semplificazione del Codice dei beni culturali (2004), linea che nel settore della tutela paesaggistica, è in pratica iniziata immediatamente dopo l'emanazione della seconda e ultima tornata di modifiche al testo, avvenuta nel 2008.

Già nel 2010, infatti, con un precedente decreto (DPR n. 139) era stata emanata una prima tornata di semplificazioni per interventi di lieve entità e in questi anni numerosi sono stati i provvedimenti, della più varia natura, ma in particolare quelli mirati alla ripresa economica o ad incentivare un generico 'sviluppo', che hanno inciso sul provvedimento di autorizzazione paesaggistica (circoscrizione dei tempi concessi per l'emanazione del provvedimento e dispositivo del silenzio/assenso).

Questa progressiva compressione delle soglie temporali e delle modalità di intervento rientra peraltro nel filone della "semplificazione amministrativa", vera e propria parola d'ordine delle ultime stagioni politiche così come questo regolamento che stabilisce un lungo elenco di interventi per i quali l'autorizzazione non è più richiesta (31) e un altro ancor più lungo (42 casi) in cui è sufficiente ;un'autorizzazione semplificata, appunto.

Se molti dei casi elencati possono rientrare nella sfera - pur pericolosa - del buon senso (opere che non alterino l'aspetto esteriore di edifici ovviamente non vincolati, oppure interventi antisismici o di consolidamento che non comportano modifiche alle caratteristiche morfotipologiche, ai materiali di finitura, o alla volumetria o altezza dell'edificio), in altri casi le interpretazioni si possono prestare a più di una ambiguità. Ad esempio, nel caso dei dehors - strutture che sempre più pesantemente incidono sull'aspetto e la vivibilità di vie e interi isolati dei nostri centri storici - la differenza che distingue quelli che non necessitano di alcuna autorizzazione da quelli che prevedono la procedura semplificata rischia di essere molto sottile nella pratica.

L'esempio dei dehors, poi si ben si presta ad una critica complessiva sulla ratio di normative così concepite: se infatti un singolo intervento può avere un'incidenza modesta sull'insieme dell'ambiente urbano - aspetto che ne giustifica l'inserimento in un provvedimento come questo - è la somma dei singoli che fa la differenza. Vale a dire che una strada o piazza invasa da decine di dehors - ciascuno di per sé di 'lieve' impatto - muta radicalmente nel suo uso urbano e si configura, nell'insieme, come un'operazione di perdita dello spazio pubblico, sempre più minacciato nelle nostre città e per questo tanto più prezioso.

L'esempio vale per altri casi dell'elenco, dagli arredi urbani alle installazioni di microeolico, ai pannelli solari, all'apertura o chiusura di finestre e verande... e potremmo continuare sino ai casi più eclatanti come la realizzazione di parcheggi per i quali la derubricazione a interventi di lieve entità (B.11) sembra davvero eccessiva.

La logica dell'elenco, insomma, rischia di essere molto miope e pericolosa quando impiegata su organismi così delicati come i centri storici o comunque su aree sottoposte a tutela paesaggistica.

Solo una pianificazione urbanistica e territoriale consapevole dei valori della tutela potrebbe superare l'impasse e le lacune determinate dalla somma di interventi puntuali e dal frazionamento di provvedimenti singoli e ignari di un contesto non solo geografico-culturale, ma sociale ampio. Quella pianificazione che, però, nel nostro paese appare sempre più residuale, se a dieci anni dall'emanazione del Codice che prevedeva la copianificazione paesaggistica solo tre regioni - Puglia, Toscana e, da pochissimo, il Piemonte cui si può aggiungere il decreto salvacoste in Sardegna - vi hanno ottemperato.

In quanto strumento normativo, un regolamento è di per sé utile in quanto cerca di eliminare spazi di ambiguità applicativa (anche se non sempre ci riesce, come nel nostro caso), ma dovrebbe essere accompagnato da procedure di controllo e monitoraggio sulla sua efficacia e soprattutto sulla sua adeguatezza al contesto organizzativo. In un momento così delicato come è quello attuale, infatti, in cui la riorganizzazione del Mibact, soprattutto per quanto riguarda gli organi di tutela territoriali, è ancora in una fase di assestamento e in taluni territori le carenze di organico sono tali da rendere molto complesso l'esercizio delle normali attività (gli architetti delle Soprintendenze sono attualmente poco più di 500 sull'intero territorio nazionale), l'ennesima decurtazione dei temp operativi (solo 10 giorni sono concessi al Soprintendente per emanare una valutazione negativa circostanziata) rischi di creare smagliature ripetute all'impianto della tutela e uno stravolgimento complessivo di intere aree urbane e non, dato dalla sovrapposizione non sufficientemente governata di innumerevoli interventi di "lieve" entità.

il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2017 (p.d.)

Si chiamerà “Nuova capitale” e sarà costruita lontano dalla megalopoli del Cairo. Il presidente egiziano Abd el-Fattah al-Sisi ha le idee chiare, non solo su come trattare i diritti umani dentro i propri confini, ma anche come cambiare il volto del Paese. Al-Sisi come un faraone, desideroso di lasciare una traccia indelebile nella storia, in barba a tutte le conseguenze e al senso morale di un simile progetto. Una nuova città artificiale riservata alle élite politiche, amministrative e militari, realizzata a nord-est del Cairo, verso il Canale di Suez. Un bunker di cemento e lusso, inaccessibile ai comuni mortali, capace solo di accogliere leader internazionali.
L’obiettivo del presidente egiziano è quello di uscire dal caos di una Capitale ormai fuori controllo, inferno nel deserto dove si bruciano le vite di quasi venti milioni di esseri umani. Un nuovo palazzo presidenziale, nuovi pure il parlamento e le principali sedi amministrative e ministeriali, quartier generale degli affari che, in Egitto, stanno andando a picco. Qualcosa di simile, vent’anni fa, l’ha pensata e realizzata il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaiev, inaugurando Astana, la nuova capitale dell’ex Repubblica sovietica ricca di risorse. Astana, ‘Capitale’ appunto, spostata dalla vecchia sede, Alma Ata, nel profondo sud-est del grande Paese dell’Asia Centrale, nel cuore del Kazakistan, a due passi dai giacimenti di petrolio e gas.
Una città tirata su dal nulla, come nelle intenzioni di Al-Sisi. Il presidente, più che a un libro dei sogni, dovrebbe pensare alle macerie in cui rischia di trascinare l’Egitto, dove l’inflazione nel 2016 si è attestato sul 24,3% e ora corre verso il 30%; dove, nell’ultimo anno, i prezzi sono generalmente raddoppiati. L’Egitto rischia la bancarotta. Il Fondo Monetario Internazionale ha garantito ossigeno ad Al-Sisi grazie al maxi prestito da 12 miliardi di dollari, spalmato in tre anni, per rilanciare l'economia egiziana e ridare fiducia agli osservatori internazionali dopo le recenti tensioni. Gli interessi su quel prestito, tuttavia, vanno onorati, e qui sta il rovescio della medaglia. Il Fmi scommette sull'Egitto (si tratta del più grande finanziamento concesso ad un Paese del Medio Oriente dal Fondo guidato da Christine Lagarde), così come l'Egitto, a partire dalla fine degli anni 80, con Mubarak saldamente alla guida, ha scommesso sul mattone.
Dal libro dei sogni, incubi piuttosto, alla terrificante realtà. Un investimento nato male e proseguito peggio, trasformato in una enorme bolla speculativa. Grazie a quella strategia, nei dintorni del Cairo sono nate delle città-satellite: Città 6 Ottobre – in ricordo della Guerra del Kippur tra Paesi arabi e Israele del 1973 – 30 chilometri a sud-ovest, nel governatorato di Giza, e New Cairo, dalla parte opposta della capitale.
Villaggi residenziali dai nomi invitanti, Mi vida, Il gioiello del Nilo, Palm Hills, Westown Resort, Pyramid Heights, Mountain view, quando in realtà l'unica cosa che si può ammirare da qui è la piattezza di un deserto inesorabile. Compound blindati, protetti da guardie armate, i negozi incassati dentro i soliti mall. Soluzioni residenziali per pochi, divise per categorie. Nei progetti dovevano diventare la casa di molti di egiziani, purtroppo le cose sono andate diversamente.
Il ceto medio non riesce a permettersi costi alti e la conseguenza è che l'80% delle residenze sono vuote, una parte non è mai terminata e per un'altra, addirittura, i lavori sono rimasti in fase progettuale. Raggiungere Città 6 Ottobre, se non si dispone di un veicolo, è praticamente impossibile. I trasporti pubblici quasi non esistono. Uno stradone a otto corsie si è fatto spazio tra l'agglomerato urbano alla periferia occidentale, abbattendo palazzi per raggiungere, attraverso l'autostrada 26 luglio, la nuova città artificiale. Passare da un lato all'altro dell'autostrada è impossibile, non un ponte, un sottopasso, tutto isolato.
Solo una fila infinita di mega cartelloni pubblicitari che invogliano ad investire su questi falsi villaggi del benessere. A Città 6 Ottobre è possibile arrivare anche da sud-est, da Giza e dalle sue Piramidi, transitando lungo l'autostrada diretta ad Alessandria d'Egitto, dove il 3 febbraio 2016 è stato ritrovato il corpo di Giulio Regeni. All'altezza del grande incrocio tra le due autostrade, c'è la base dei servizi di intelligence egiziani e, poco distante, un campo di addestramento.

L'edizione online de il manifesto dell'11 maggio rinvia a un articolo del maggio 2016, che ricorda la pesante testimonianza del provincialismo culturale di Venezia. Mentre papa Francesco predica e pratica il dialogo, l'incontro e la sintesi tra le religioni il suo chierichetto Brugnaro (e i suoi referenti nel patriarcato), colgono ogni occasione per ribadire la loro cecità; e noi per ricordarla. il manifesto, 11 maggio 2017

«Biennale Arte. Ultimatum del comune di Venezia contro il padiglione islandese: l'artista Christoph Büchel ha trasformato santa Maria della Misericordia in una moschea e le polemiche in città sono divampate»

«La moschea è chiusa, lì pregavano», ci dice in tono intimidatorio un’anziana signora a cui chiediamo di indicarci la chiesa di Santa Maria della Misericordia. Il padiglione islandese alla Biennale di Venezia invece esiste. Anche se forse resterà aperto ancora per poco. Entro il 20 maggio (2016) gli artisti che hanno realizzato il progetto dovranno presentare al Comune un nulla osta della curia che autorizzi la discussa installazione «in un luogo di culto cattolico» o la chiesa-moschea chiuderà i battenti a pochi giorni dalla sua apertura al pubblico. «Abbiamo seguito alla lettera tutte le procedure come ogni altro padiglione. Questo immobile è di proprietà privata dal 1973», risponde alle accuse uno dei giovani che ha contribuito alla realizzazione dell’opera. Eppure questa moschea è già un caso senza precedenti sulla stampa locale e per i partiti xenofobi che spadroneggiano in Veneto. Quest’opera però va ben oltre le solite puerili polemiche: si tratta di un misto tra arte e religione che sfida i pregiudizi di una città in cui i musulmani hanno sempre avuto il loro spazio mentre ora sono relegati a Marghera e Mestre. Solo lì sorgono le uniche due moschee locali.

«Chiuderemo presto, abbiamo avuto varie visite della polizia», chiosano l’artista svizzero Christoph Büchel e la curatrice Nina Magnusdottir che hanno lavorato al progetto con la comunità islamica locale. Da una chiesa sconsacrata (anche se la curia smentisce), adibita a magazzino, è nata un’installazione magica che sfrutta con intelligenza il corpo della vecchia chiesa, il suo altare e le parti retrostanti, adibite a sala per le abluzioni e ufficio dello sheykh. Soprattutto il venerdì, visitatori musulmani e lavoratori che passano la loro giornata nei negozi veneziani si dirigono verso la moschea-installazione per una preghiera. Per questo l’opera è un successo che va al di là della sua funzione d’uso artistica e acquista valore nello spazio urbano.

«Le polemiche sono alimentate per fare politica», ci spiega uno degli ideatori. All’ingresso dell’antica chiesa, dove già dalla porta si vedono magnifiche calligrafie arabe tra cui i novantanove nomi di dio, chi vuole proseguire la visita verso l’altare deve togliersi le scarpe come in una moschea vera. E così l’islamofobia in Laguna ha preso la forma di scarpe che calpestano i tappeti della moschea e di visitatori che fomentano l’odio in un luogo che riporta in vita una chiesa abbandonata nella città antica di Venezia.

«Già nel Seicento, Venezia era una città aperta al pluralismo religioso, una sala di preghiera si trovava nel palazzo oggi conosciuto come Fondaco dei Turchi», continua l’artista. A pochi passi da qui, a Cannaregio sorge il ghetto ebraico: le restrizioni imposte agli ebrei nel Cinquecento vennero estese negli anni anche ai musulmani. La sfida riguarda non solo Venezia ma anche Reykjavik dove la comunità islamica sta facendo grandi passi avanti per integrarsi nel tessuto urbano.
Questa installazione sfida i limiti dell’arte, denuncia l’arretratezza nell’integrazione di milioni di musulmani in Italia che, anche a Milano, aspettano l’approvazione di gare d’appalto per la costruzione di nuove moschee.

«Negli ultimi anni il processo di urbanizzazione e la dinamica espansiva di città e agglomerati urbani ha registrato un forte incremento. Il rapporto dell’Istat "Forme, livelli e dinamiche dell’urbanizzazione in Italia"» . Sbilanciamoci info, 11 maggio 2017 (c.m.c.), con postilla

Negli ultimi anni il processo di urbanizzazione e la dinamica espansiva di città e agglomerati urbani non ha accennato a diminuire. Anzi, ha registrato un forte incremento. Questo è quello che sostiene l’ultimo rapporto dell’Istat, Forme, livelli e dinamiche dell’urbanizzazione in Italia, uno studio dettagliato che analizza l’evoluzione delle aree urbane in relazione ai fenomeni demografici, economici e sociali.

Il dato più interessante è stata la crescita, nel decennio 2001 – 2011, delle aree urbane: +8,5%, pari, in valori assoluti, a 1600 Km2. Un aumento registrato soprattutto nelle aree non urbane (9,5%), piuttosto che nelle città medie (8,2%) e in quelle grandi (7,1%).

Ma come è stata condotta la ricerca? Nello specifico il paper individua 21 sistemi locali – in poche parole le grandi aree urbane e tutto il territorio intorno – in cui i processi di urbanizzazione sono più avanzati, oltre a 86 città di medie dimensioni e a 504 piccole realtà. Per definire cosa sia l’urbanizzazione e calcolarne il grado sono stati presi in esame i principali studi nazionali e internazionali, tenendo in considerazione due diverse linee interpretative: da un lato quella demografica, relativa alla presenza della popolazione nelle aree metropolitane, dall’altra quella territoriale, che a sua volta, tiene conto di una molteplicità di fattori, tra cui il consumo del suolo, la diffusione e la concentrazione.

Dal rapporto emerge come dal 2001 tutti e 21 i sistemi urbani si sono estesi di oltre il 10%. In particolare le aree che sono cresciute di più sono Bologna (17,1%), Taranto (13,3%) e Torino (11,6%).

Se confrontiamo il livello di estensione delle principali realtà urbane, con quello di urbanizzazione possiamo comprendere appieno il fenomeno: i 21 sistemi coprono complessivamente “solo” l’8% della superficie totale nazionale – circa 27 mila Km2 – ma raccolgono oltre il 25% degli insediamenti abitativi. Di contro, le città medie coprono il 25% del territorio nazionale, ma rappresentano solo il 29% dei sistemi abitati. Roma e Milano, ad esempio, sono due centri altamente urbanizzati, con un’estensione complessiva, rispettivamente dell’1,3% e dello 0,6%, ma con una superficie totale delle aree abitate del 4% e 3,6%.

Il processo è ancora più evidente, se al posto degli insediamenti urbanizzati prendiamo in considerazione la popolazione residente: nelle principali realtà urbane vivono oltre 22 milioni di persone – il 36,3% della popolazione nazionale – mentre le quattro realtà che superano il milione di abitanti contano il 20% della popolazione nazionale complessiva. I 21 sistemi, sottolinea il rapporto, presentano anche alti livelli di densità abitativa: nel 2015 le principali realtà urbane presentavano, in media, valori pari a 828 abitanti per Km2, contro una media complessiva nazionale di 201; le città di medie dimensioni, infatti presentano un dato in linea con la media nazionale (223 abitanti per Km2), mentre nelle città piccole la densità abitativa è molto ridotta (111 abitanti per Km2).

Per capire appieno i trend storici relativi all’aumento della popolazione nelle 21 principali realtà urbane, l’Istat introduce i concetti di core – il nucleo centrale delle città – e di ring – le periferie. Nel decennio 1951 – 1961, l’aumento della popolazione nelle aree, complessivamente di 2,8 milioni, registra una crescita record nei core (+2,0 milioni) rispetto ai ring (+800000). Una tendenza che si inverte nel decennio successivo: nonostante la crescita positiva sia nei core che nei ring, le periferie sperimentano un aumento di 200 mila unità in più rispetto ai centri. Nei tre decenni che vanno dal 1971 al 2001, le aree, complessivamente, dapprima rallentano la crescita e poi decrescono: tra il 1971 e il 1981 si registra un aumento di 980000 unità, mentre nei vent’anni successivi i core registrano un decremento di 1.750.000 persone; una diminuzione non compensata dal trend leggermente positivo registrato nei ring, e che porta ad una perdita di circa 255 mila residenti. Solo nel decennio 2001 – 2011 si ha una controtendenza, con un aumento della popolazione urbana di 820 mila persone; il trend è negativo nei core (-82 mila) ma compensato dall’afflusso di persone nei ring (+903 mila).

E per quanto riguarda l’Europa? Per confrontare il caso italiano a quello di altri Paesi europei il rapporto, riprendendo i dati satellitari contenuti nel database Urban Atlas, classifica i rilevamenti in 5 macro aree (aree artificiali, agricole, boschive, umide e acque). Il parametro che rileva i livelli di urbanizzazione è quello del suolo artificiale: nel 2012 l’Italia registra una superficie artificiale del 7% su una media europea del 4,1%. I Paesi europei che presentano i valori più alti sono Malta (32,6%), Paesi Bassi (12,3%), Belgio (12,1%) e Lussemburgo (10,1%), mentre gli esempi più virtuosi sono Finlandia, Svezia e Lettonia, con una superficie artificiale solo del l,6%.

Per quanto riguarda l’Italia, l’estensione del suolo artificiale è espressa con il concetto impermeabilizzazione: tra i 21 sistemi urbani presi in considerazione la città più impermeabilizzata è Napoli (38,9%), seguita da Milano (33,1%) e da Busto Arsizio (31,6%). La media totale di impermeabilizzazione delle principali città urbane è del 13,8%, molto superiore alla media italiana, mentre quella delle città medie si attesta intorno al 5,9%, di un solo punto percentuale sotto la media. Le regioni che registrano valori superiori al 10% sono invece la Lombardia (11,7%) e Campania (10,6%).

Lo studio poi si concentra sull’analisi del consumo di suolo in Italia introducendo il concetto di urban sprawl, ossia la diffusione dei centri abitativi e delle aree cementificate. Tra il 1991 e il 2011 i centri a edificato consolidato aumentano di due punti percentuali, passando dal 4,8% al 6,7%. La tendenza è ancora più evidente nei principali sistemi urbani, dove l’edificato consolidato aumenta di 4 punti, dal 15,3% al 19,3%. In particolare, lo sprawl urbano aumenta in 157 sistemi urbani (il 26% del totale), ed è particolarmente forte nella fascia pedemontana lombarda (Milano – Bergamo – Brescia), nella pianura emiliano – veneta, in provincia di Pescara, nelle aree metropolitane di Roma e Napoli e nella Toscana settentrionale.

Tra i fattori che contribuiscono al consumo del suolo urbano, l’edificato residenziale è quello che più di altri viene associato all’insediamento antropico: dai due milioni di caseggiati presenti nel suolo italiano nel 1919, siamo passati a dodici valori. Un aumento di circa il 6,6%: nei 21 sistemi urbani l’aumento è stato del 6,9%, mentre nelle realtà medie del 6,7%. L’incremento più evidente si è registrato nelle città di Milano – passata da 20 mila edifici residenziali del 1991 a oltre 28 mila nel 2011 – e soprattutto di Roma – da 19 mila conglomerati del 1991 a 29 mila del 2011. Sempre secondo i dati dell’Istat, tra il 2001 e il 2014 sono stati progettati in Italia circa 541 mila fabbricati destinati soprattutto ad uso abitativo.

Nel corso degli anni si è andata quindi affermando, continua l’Istat, un’edilizia residenziale “aggressiva” e meno attenta al rispetto del suolo e dell’ambiente. Una tendenza in linea con le altre “con le altre dinamiche dei consumi che hanno caratterizzato lo sviluppo economico del nostro Paese dal dopoguerra in poi”.

In Parlamento è fermo da diverso tempo un Ddl che dovrebbe regolamentare il consumo di suolo e introdurre norme per limitare lo sfruttamento del territorio e la sua cementificazione. A causa del mancato accordo tra il Governo e le Regioni, la legge rischia di non vedere la sua approvazione entro la fine – oramai, prossima – della legislatura.

Anche la campagna Sbilanciamoci! da tempo denuncia gli squilibri ambientali, economici e sociali delle diverse città. Nel 2015 con l’ebook Sbilanciamo le città la campagna ha lanciato alcune proposte che, se fatte proprie e tradotte in norme da Sindaci e Giunte, potrebbero migliorare la qualità della vita e il benessere dei cittadini. Un vero e proprio programma di governo delle città improntato alla declinazione pratica delle parole d’ordine di Sbilanciamoci! nel locale: sostenibilità, inclusione, partecipazione, solidarietà, diritti. Ciò di cui i territori hanno bisogno, ora più che mai.


postilla

Purché nessuno si illuda che la legge in attesa di approvazione aiuti a risolvere il problema. Su
eddyburg lo abbiamo argomentato spesso, vedi ad esempio l'articolo di Vezio De Lucia Nessuno ferma il consumo di suolo, nonchè l'eddytoriale 148. e l'articolo Eddyburg e le norme sul cosumo di suolo. Altre analisi critiche puntuali del ddl sono contenute nell'articolo di De Lucia Il progetto di legge del governo non ferma il consumo del suolo, rilancia la speculazione e quelli di Cristina Gibelli, Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani e di Ilaria Agostini del maggio 2015 Due leggi per il suolo.

Ogni occasione è buona per privatizzare gli spazi pubblici, oltre ogni decenza. La barbarie non è solo quella che si veste di stracci a uccide con spadoni e scimitarre, è anche quella che indossa abiti scuri e toilettes preziose e adopera come armi le ricchezze accumulate, la volgarità delle messe in scena e la complicità degli amministratori pubblici. La Nuova Venezia , 12 maggio 2017

«Biennale è anche duello di mondanità tra feste, cocktail,cene di gala. Un giardino di limoni e suonatori di tamburi per Pinault,tavole di specchi e peonie per Fendi. Non soloinstallazioni alla Biennale: anche feste, dinner, cocktail».
È l’arteall’ora di cena, o poco prima, ma soprattutto dopo, quando le file degli invitatisi scompongono per ricomporsi altrove, in formazioni inedite, talvolta audaci,in ogni caso biennalesche. A nessuno, infatti, è sfuggita la carezza daasteoridi tra il gruppo Lvmh di Bernard Arnault e François Pinault che si sonospartiti i giorni della settimana (il martedì al primo, ieri sera all’altro) ele celle frigorifere dei fioristi rubacchiandosi disinvoltamente anche qualcheospite.
Il filmato di Manuela Pivatolia
Il sagrato della chiesa di SanGiorgio trasformato in un guardino di limoni sul bacino di Piazza San Marco,per accogliere a rombo dei tamburi (che si sentivano fino in città) gli ospitidella riservatissima festa organizzata da Francois Pinault, in occasione dellaBiennale. L'articolo sulle curiosità, anche mondana, della Biennale

Lì dove, martedìsera, Vuitton ha messo in campo l’artiglieria pesante - la mostradedicata a Pierre Huyghe all’Espace della maison in calle Vallaresso e poi lacena nel Salone da ballo del Museo Correr e quindi un’ultima coppa di champagne(Ruinart) all’ultimo piano del T Fondaco per festeggiare il Padiglione dellaFrancia - ieri sera ha brillato Pinault, che festeggia il suo Damien Hirst, giàda un mese a Palazzo Grassi e Punta della Dogana.
Lì dove il presidente e Ceo di Fendi, PietroBeccari, ha incantato i suoi ospiti disponendoli intorno a due lunghissimitavoli foderati di specchi sui quali si riflettevano i teleri della Scuola diSan Rocco, ilbretone ha risposto prendendosi la FondazioneCini e ha accolto i suoi ospiti a San Giorgio al ritmo prodotto da suonatoribretoni di tamburo: disposti davanti alla chiesa, martellavano su vecchi bidonidi metallo producendo musica e ipnosi.
Lì dove l’uno ha fattodecorare la sala del Tintoretto con una serra di peonie bianche, l’altro harisposto a colpi di agrumi. Sessanta piante diaranci e limoni, disposte su tre file: un corridoio spettacolare per lapasserella degli arrivi.

Erano in 1300, mercoledì sera da Pinault, tra artisti, galleristi, tra cuiGagosian che gli esperti definiscono il più potente al mondo, direttori dimusei, la famiglia al completo con Salma Hayek e Francois-Henri.Charlotte Casiraghi, Farah Diba, Adrien Brody, Bianca Brandolini d’Adda. Pertutti, ostriche e formaggi serviti in cassettine di legno prima, tra suoni diviolini e il confortante calore delle stufe.

Erano in duecento da Fendi, più altri trecentoal Correr, più altri cinquecento al T Fondaco, quindi i conti sono pari. Chi c’era daentrambe le parti dice che non ci sono paragoni, salvo tacere chi dei due abbiasuperato l’altro. L’arte della mondanità, scivolosa anch’essa, esige quel fairplay che consente di fluttuare (fin che ce n’è) da un posto all’altro come soloin laguna è dato di fare. I parsimoniosi non se ne perdono una, oggi conBulgari e Venetian Heritage alle Gallerie dell’Accademia, con l’americano MarkBradford a Palazzo Ducale, a Ca’ Corner della Regina da Prada e, domani, giùnei Piombi del Ducale con lo stilista Domenico Dolce. Stefano Gabbana, invece,resta a casa.

Per mille vie prosegue la guerra contro i poveri. Dovremo aspettare che essi diventino la maggioranza in ogni luogo della terra perché la rabbia esploda? Cronaca di di Giuliano Santoro, commento di Tommaso Di Francesco e info della redazione de il manifesto, 11 maggio 2017


MOLOTOV E ROGO,
A CENTOCELLE UCCISE TRE SORELLE ROM
di Giuliano Santoro
«La strage. A fuoco una roulotte, muoiono due bambine euna ventenne nel parcheggio di un supermarket. La procura: “non è xenofobia”»
In cima a una scala mobile, sul tetto del fabbricato, c’è unparcheggio. Qui saltuariamente attraccava il camper della famiglia Halilovic,rom di nazionalità bosniaca. Ed è sempre qui, in questa terrazza di asfalto cheaffaccia sul quadrante tra via Prenestina e Casilina, che le fiamme sonodivampate alle prime ore di ieri, tra le 3 e le 4. Dentro al veicolo sitrovavano undici persone. In tre non sono riuscite a fuggire e sono morte sulcolpo: sono la ventenne Elisabeth e le sorelline Francesca e Angelica, di 8 e 4anni. La scala mobile è quella del centro commerciale Primavera. È una speciedi varco postmoderno tra due luoghi del Novecento romano.
I gradini semoventi seguono curiosamente la linea discendenteche tracciano i palazzoni del Casilino 23, disegnati negli anni Sessanta dalmaestro Ludovico Quaroni. Da qui affondano dentro il cemento, passano in mezzoa supermercati e negozi in franchising e infine conducono ad una porta a vetriscorrevole che sbuca in un altro pezzo di mondo.
È il sobborgo di Roma sud-est, dove assieme al Forte Prenestino,il centro sociale occupato più vecchio di Roma e più grande d’Europa, tra millecontraddizioni prosperano aperitivi vegani, tacos take away e spritz a buonmercato.
La casa itinerante degli Halilovic non staziona qui in modopermanente. Probabilmente la famiglia va e viene, per non dare nell’occhio eper non essere cacciata dalla vigilanza del centro commerciale. Pare proprioche dal furgone attrezzato avessero gettato gli ormeggi poche ore prima dellastrage. Virginia Raggi arriva verso le 10 del mattino. I curiosi, non tanti,scuotono la testa di fronte alle lamiere fumanti. «La morte di una ragazza e didue bambine è un dolore per tutta la città», dice la sindaca. Una signoraripete il mantra del razzismo medio, quello che circola nei preserali indiretta dal paese che odia: «Ormai sono troppi…». Ma viene smentita da unanziano di passaggio: «Se non sai cos’è la fame non ti permettere di giudicarequesta gente».
Le panchine in mezzo al verde, ad abbellire il parcheggio delrogo, sono da qualche tempo luogo di ritrovo di comitive di giovanissimi, tradi loro c’è qualcuno suggestionato dai simboli dell’estrema destra. Ma nessunopensa veramente che qui siano capaci di tanto. Le prime ore lasciano spazio aqualche indiscrezione proveniente dai vigili del fuoco: «Quando le fiammedivampano così velocemente è difficile pensare all’evento colposo»,profetizzano ufficiosamente basandosi sulla loro esperienza.
Poi arriva, avvolta nel silenzio sotto il sole, la macchinadella polizia scientifica. Il trolley dell’attrezzatura tecnica che scivolasulla strada precede la prima ammissione: c’è del liquido attorno al rudere delveicolo e quel che ne rimane letteralmente viene portato via raccogliendo lacenere con la paletta. È un attentato. Una cosa che pare troppo grande a ancheper Centocelle, per la sua gente che ne ha viste tante e che mostra la pazienzastoica dei quartieri popolari.
Qualcuno adesso dice che sì, già una roulotte era stataincendiata qualche settimane fa. E pare che il capofamiglia, Romano Halilovic,avesse litigato con parte della comunità che risiede tra il campo di Salviati equello de La Barbuta, che fosse stato allontanato dagli insediamentiattrezzati. Il campo più vicino è quello di via dei Gordiani, dove vivonoalcuni parenti di Romano e da dove non si esita a dire di non avere nessuncontatto recente con gli Halilovic.
Lui viene descritto con un certo timore come un omone,personaggio che si è fatto molti nemici e non avrebbe una storia limpidissima.La rivelazione successiva è, se possibile, ancora più agghiacciante: c’è unascena ripresa dalle telecamere del centro commerciale, si vede una bottigliaincendiaria che colpisce la parte anteriore del camper. La Procura di Romaprocede per i reati di incendio doloso e omicidio volontario, al momento controignoti.
Tutta la politica, fino al Quirinale, chiede che venga fattachiarezza e giustizia. Papa Bergoglio manda un cenno di solidarietà con levittime. Le associazioni, dalla Caritas alla Croce rossa fino ad AmnestyInternational, sottolineano come questa strage, comunque la si voglia vedere, èfiglia del vuoto di diritti e dell’abbandono di pezzi di popolazione. I campirom regolari a Roma sono sette, ma proprio la mancanza di politiche diintegrazione favorisce la nascita di baraccopoli spontanee e temporanee. Inserata il Pd locale consegna una corona di fiori, mentre un gruppo difemministe del quartiere convoca proprio in viale della Primavera un presidiodi solidarietà e protesta.
Nelle immagini, fanno sapere dalla procura, si vede un uomo chelancia un ordigno artigianale, per di più il killer agisce a volto scoperto, inun luogo notoriamente tenuto sotto l’occhio di teleobiettivi della sorveglianzadel centro commerciale. Il gesto di un balordo, il salto di qualità di unmovimento razzista o una faida tra clan o qualche conto da regolare con unosgarbo finito in tragedia?
Nel pomeriggio di questa calda giornata, la scala mobile checollega tra mondi di Centocelle conduce ad un altro varco: il parcheggio delrogo diventa una piazza, un luogo di incontro per centinaia di cittadini solidalie militanti antirazzisti. È il momento della discussione collettiva e delloscambio di informazioni, ci si chiede con sgomento come si sia potuto arrivarecosì in basso. Più di una persona punta il dito contro le ricette dell’odio checircolano ogni sera in televisione: «I rom sempre al centro dell’attenzione,capri espiatori e nemici pubblici da combattere». Dalla questura fanno sapere:«Il movente non è razziale». Lo striscione bianco, scritto al volo e appesosulle ringhiere del parcheggio di via Guattari dice con semplicità quello chepensano in tanti: «Sono morti del quartiere».
UNA MORTE DA STIGMA SOCIALE
di Tommaso DI Francesco
Mentre scriviamo l’unica certezza è che le povere vite di unaragazza e di due bambine, le sorelle Elisabeth, Francesca e Angelica Halinovic,sono ormai cenere. Unico residuo delle loro esistenze bruciate nel camperincendiato nella zona di Centocelle dove vivevano con la loro famiglia compostadai genitori e da ben 11 figli. Troppo presto per capire il movente di questoomicidio, commesso con il lancio di una molotov e però davanti ad un centrocommerciale munito di videotelecamere.
Troppo presto – e già gli inquirenti lo escludono – per dire cheil criminale sia stato mosso dall’odio xenofobo per i rom, tanto da farericorso ad un rituale plateale quanto sprovveduto; oppure se si tratta di unbalordo mosso da risentimento o vendetta magari all’interno della stessacomunità rom, perché la famiglia delle ragazze uccise denuncia di essere stataintimidita. Certo non è lo stesso episodio di soli sei anni fa quando sempre aRoma, a Tor Fiscale, morirono quattro bambini in un rogo dentro un campo Rom,provocato da una stufetta.
Ma sono troppi ormai gli «incidenti», una vera litania, che cicostringono a commentare queste morti nei luoghi della esclusione sociale chequalcuno preferisce definire – ieri le agenzie italiane lo ripetevano –«ambienti nomadi».
Costringete alla chiusura e ghettizzazione un gruppo sociale cheavete etichettato come diverso, sporco, dedito al furto, quasi etnicamenteconnotato per il malaffare; obbligatelo alla promiscuità interna senzacollegamenti con il mondo esterno, alla marginalità. Ecco che questo stigmasociale diventerà esso stesso la motivazione del misfatto che si consuma. Èquello che accade ai Rom in tutta Europa. Come dimenticare che l’ex premierfrancese Valls aveva costruito la sua fortuna elettorale pochi anni fa sullacacciata da Parigi dei Rom. Una fenomenologia europea che rappresenta uno deisegnali, per tutti, della mancata integrazione sociale. Perché i rom sono staticacciati dai luoghi d’insediamento storico, Slovacchia, Repubblica ceca,Bulgaria, ex Jugoslavia.
E, pur non avendo mai fatto guerra a nessuno, sono staticostretti di nuovo alla fuga per salvarsi, a quel «nomadismo» chelombrosianamente i luoghi comuni della xenofobia vogliono ogni voltaattribuirgli, come fosse una «caratteristica» stampata sulla loro pelle e nelloro sangue.
Non è così invece. Alla loro stanzialità e sicurezza essiattendono ogni giorno, relegati però nei «campi», nella «emergenza» dellenostre società. Il progetto d’integrazione abitativa e prima ancora lascolarizzazione dei bambini rom, dovrebbero appartenere ad un programmaprogressista di svolta negli insediamenti urbani e in tutta Italia. Non è così.Anzi, spesso è proprio il contrario, con gli ultimi «nostrani» che sirivoltano, aizzati dall’estrema destra razzista, a ricacciare i nuovi esclusiancora più sotto. Poco prima o appena dopo i rifiuti urbani, la monnezza.
La retorica dunque non serve, né è utile rinnovare gli stessi,improduttivi interventi fin qui realizzati. Occorre anche una rivoluzioneculturale. Pensate che effetto farebbe – proponeva Leonardo Piasere nel suorecente e bel saggio «L’antiziganismo» – se mettessimo la parola «ebreo» alposto delle parole «zingaro» «rom» o «nomade», e per un popolo che ha subìtocon il Porajimos lo stesso sterminio nazista. Che effetto farebbe dunque sentirparlare di «Piano ebrei», del «Centro raccolta ebrei» e del «vilaggioattrezzato per ebrei».
Serve, com’è accaduto ieri a Centocelle, vicino Via Gordiani –in una zona a memoria almeno «pasoliniana», che lavora ed è attivasull’integrazione – la reazione emotiva e politica degli abitanti che hannovisto consumarsi la tragedia vicino casa, sotto le loro finestre.
Portano in tanti bigliettini e lettere di commiato e di dolore;e hanno scritto uno striscione, forse tardivo, ma vero e necessario: «Sonomorti del quartiere».

LA SICUREZZA CHE NON C’È
PER LE FAMIGLIE ROM E SINTI ITALIANE
«Rapporto 2016 dell'Associazione 21 Luglio . Elencoparziale degli episodi violenti durante lo scorso anno sul territorio nazionale»
Lasicurezza prima di tutto. In effetti è un tema che riguarda molto da vicino lefamiglie Rom che la vulgata comune vorrebbe nomadi ma che invece per la maggiorparte sono costrette a vivere nei campi o in condizioni ancora più precarie.Basti pensare ai tanti episodi violenti che hanno avuto come bersaglio Rom eSinti. L’elenco che segue, relativo all’anno 2016, non è esaustivo ed è trattodal rapporto annuale dell’Associazione 21 luglio. «Nella maggior parte dei casile indagini per individuare i responsabili sono ancora in corso e daglielementi a disposizione non è possibile definire con certezza questi episodicome crimini d’odio», si legge nel rapporto 2016.
•9 febbraio 2016 – Nel pomeriggio una roulotte prende fuoco nel parcheggiodell’insediamento Rom di via Dozza a Bologna. I pompieri e la poliziamunicipale sospettano si tratti di un incendio doloso.
•11 febbraio 2016 – Un gruppo di 10 Rom riporta ad Associazione 21 luglio che leloro abitazioni in un insediamento spontaneo in un quartiere di Roma nord sonostate vandalizzate e parzialmente distrutte in loro assenza nel corso dellamattinata. Due testimoni, operai edili impiegati presso un cantiere nei pressidell’insediamento, intervistati da Associazione 21 luglio riportano di avervisto personale della polizia municipale muoversi tra le abitazioni di fortunaintorno alle ore 9.30. La stessa mattina la polizia municipale aveva sgomberatoun altro insediamento spontaneo a 250 metri di distanza. Le autorità di Romarispondono a una richiesta di informazioni da parte di Associazione 21 luglioche non risulta alcun coinvolgimento di personale della polizia municipale nelpresunto atto vandalico. Le famiglie Rom sono intimorite e non presentanodenuncia.
•3 aprile 2016 – Alla fine di un incontro di calcio, a Roma un gruppo di ultrastenta di assalire un insediamento spontaneo di Rom nelle vicinanze. La poliziaprotegge gli abitanti.
•25 aprile 2016 – Il giorno della Liberazione una delegazione della Lega Nordvandalizza le unità abitative ormai vuote dell’insediamento di via Idro aMilano. Un rappresentante del partito, Samuele Piscina, riferisce ai media:«Siamo andati al campo Rom di via Idro per cominciare la “demolizione” dellebaracche abusive, mentre la sinistra tergiversa, forse attendendo che glizingari si ristabiliscano in massa».
•28 aprile 2016 – Durante la notte vengono lanciate tre bombe carta verso uninsediamento spontaneo di Rom in un quartiere di Roma nord, gli aggressorifuggono in auto. Una donna cittadina romena rimane ferita e viene portata inospedale. La polizia avvia le indagini e arresta il conducente della vettura lamattina seguente, contestando il reato di lesioni personali aggravate dadiscriminazione razziale.
•4 giugno 2016 – A Mugnano (NA), sulla facciata dell’abitazione del sig.Imbimbo, assessore per la cultura e l’educazione del comune, compare la scritta«Imbimbo rom». L’assessore definisce l’episodio «un tentativo fallito diintimidazione razzista».
•5 giugno 2016 – A Samassi (CA) nel corso della notte alcuni colpi di fucileraggiungono l’abitazione occupata da una famiglia rom, la loro automobile vienedata alle fiamme. Nessuno risulta ferito, si registrano danni alle proprietà. ICarabinieri avviano le indagini.
•23 luglio 2016 – un bambino rom viene lievemente ferito da munizioni da cacciamentre gioca all’aperto a Marcon (Ve). La polizia avvia le indagini.
•18 luglio e 29 agosto 2016 – Un insediamento spontaneo di rom viene dato allefiamme ad Afragola (NA). Gli abitanti riportano di aver visto un uomo con un’automobilegrigia avviare il rogo. La polizia avvia le indagini, ma non viene offertaalcuna alternativa abitativa alle persone, molte delle quali hannocompletamente perso la loro abitazione. Il 29 agosto l’insediamento vienenuovamente dato alle fiamme.
•3ottobre 2016 – A Scampia (NA) alcune persone, identificate nel mese di dicembre2016 a seguito di indagini da parte della Polizia, assaltano l’insediamento romdi via Cupa Perillo distruggendo con bastoni le vetrate di alcune baracche, deifurgoni e delle auto ed esplodono un colpo di pistola in aria.
•9 ottobre 2016 – A Schio (VI) nella mattinata una roulotte abitata da unafamiglia rom prende fuoco. Le autorità locali sospettano si tratti di unepisodio doloso.

Nel dibattito sul destino degli ex scali ferroviari c'è un grande assente: l 'obiettivo di un più alto livello di«convivenza civile, nel cui manifestarsi rifulgano tre elementi: la coesione sociale; le relazioni virtuose che promuovono la crescita umana e culturale dei singoli come della collettività; e un abitare condiviso». Arcipelago Milano, 9 maggio 2017

Sul recupero delle aree degli scali ferroviari sono già emerse diverse indicazioni utili a meglio definire, dal punto di vista della Pubblica amministrazione, i termini del nuovo Accordo di Programma: una riforma del trasporto su ferro così da rimettere a sistema la mobilità urbana e regionale; il perseguimento di una stretta connessione fra accessibilità e destinazioni funzionali; il conseguimento di complessità nelle attività e nella popolazione insediabile.

Eppure, più complessivamente, si sta facendo strada un’idea cardinale: le aree degli ex scali sono un’occasione straordinaria per riattrezzare la città e il contesto metropolitano con una ricaduta che investe l’intera regione.

Questo porta subito in evidenza una contraddizione sul piano strategico: operazioni come quella di buttare denaro pubblico nella voragine dell’area ex Expo (oltretutto mettendo a repentaglio il destino di Città Studi) e la stessa Città della Salute avrebbero richiesto una rigorosa verifica a tutto campo sull’impiego delle risorse della collettività e sul convogliamento delle stesse energie private.

In questi mesi sono emerse questioni tutt’altro che peregrine e dalla soluzione tutt’altro che scontata: di chi è l’effettiva proprietà delle aree (Maria Agostina Cabiddu et alii)? E poi, quanto delle plusvalenze conseguite nella trasformazione spetta al Comune (vedi l’articolo di Roberto Camagni e Alberto Roccella su ArcipelagoMilano del 12 aprile 2017)?

Su questi nodi si può disquisire e dividerci; ma è difficile non convenire che siamo di fronte a una grande questione politica. Più che mai il Comune è chiamato a decidere se intende guidare il processo e controllarne gli sviluppi o se, come è accaduto nella trasformazione delle grandi aree dismesse degli ultimi tre decenni, delega di fatto questo compito agli operatori immobiliari.

Il bilancio di cosa sia disceso da questa delega assume i contorni di un grande fallimento: un campionario di errori o comunque di occasioni mancate sul fronte della messa a frutto delle potenzialità per la città (fallimenti solo in parte mascherati dai successi registrati sul piano dell’investimento immobiliare). Non c’è tempo qui per un’analisi nel merito, ma un fatto è certo: il recupero di grandi aree comporta un’operazione complessa in cui concorrono insieme la fondazione di parti di città e la riqualificazione del più ampio comparto urbano interessato.

Su entrambi i versanti, a Milano come in molte altre città, gli operatori immobiliari si sono dimostrati inadeguati, se non del tutto disinteressati. L’intervento privato, ancorché di grande portata, è stato capace di sfruttare parassitariamente la città esistente (e in particolare le economie esterne da questa espresse), ma non di promuovere valori urbani che non siano quelli del lievitare dei prezzi a mq. Il risultato è uno scambio decisamente asimmetrico in cui nel rapporto pubblico/privato la città ha fatto la parte della benefattrice, senza esserne adeguatamente ripagata in termini di avanzamento della qualità urbana.

Nel dibattito, pur ricco, che si è sviluppato fin qui sulla questione del recupero degli Scali ferroviari a Milano la qualità urbana, in specie l’urbanità che ne è il culmine, è la grande assente. Eppure, in fatto di trasformazioni urbanistico-architettoniche, nel processo di programmazione, progettazione e realizzazione un posto non secondario dovrebbe spettare alla promozione di questa qualità che rappresenta il punto più alto raggiunto dalla civilizzazione.

L’urbanità ha a che vedere con la convivenza civile. Nel suo manifestarsi rifulgono tre elementi: la coesione sociale; le relazioni virtuose che promuovono la crescita umana e culturale dei singoli come della collettività; e un abitare condiviso che si fa carico dell’habitat, con attenzione alla difesa/incremento delle risorse per il vivere e alla cura dei luoghi.

Accanto alle infrastrutture primarie (trasporti, telecomunicazioni, fognatura, acqua, gas etc.) e alle infrastrutture cosiddette secondarie (i servizi sociali ai vari livelli di utenza, a cui andrebbero aggiunte le attività culturali in senso lato), va introdotta la nozione di infrastrutture della socialità riconoscendo il ruolo che gli spazi aperti pubblici (strade, piazze, verde etc.) e i rapporti fra spazio pubblico e spazio privato possono assolvere nel favorire le relazioni di prossimità e in generale la qualità urbana di una formazione insediativa.

La costituzione delle infrastrutture della socialità dipende molto, anche se non esclusivamente, dai seguenti fattori: la scelta appropriata delle destinazioni d’uso e l’istituirsi di sinergie fra le attività; l’instaurarsi di una stretta relazione fra spazi pubblici e privati e l’esaltazione della loro mutua appartenenza, in un equilibrio sempre da ritrovare fra relazione e difesa; la qualità degli spazi aperti pubblici e la loro capacità nel fare da connessione e da legante tra gli organismi edilizi; il definirsi di luoghi dotati di “bellezza civile” (nozione che traggo da Giambattista Vico), in particolare di bellezza dialogica, ovvero di bellezza che nasce dall’interazione (qualità in cui le città italiane sono state maestre).

Questo porta a riconoscere le potenzialità dello spazio pubblico quale sede basilare delle infrastrutture della socialità, rispetto a cui le infrastrutture primarie dovrebbero svolgere un ruolo di servizio (esattamente il contrario di quanto accade con la piastra dell’area Expo), mentre le infrastrutture secondarie (nel senso estensivo sopra indicato) dovrebbero costituirne i capisaldi.

A ben guardare, negli interventi di recupero delle aree dismesse realizzati a Milano da Bicocca a Citylife, passando per Porta Nuova, un’evoluzione c’è stata: dall’imitazione della città ottocentesca (assai inferiore al modello) si è assistito all’avanzare di gated communities camuffate.

Tre potenti fattori spingono in questo senso: la predilezione degli operatori immobiliari per i grandi complessi edilizi in cui si combinano autoreferenzialità ed esibizionismo, a discapito di una complessità che si affida a interventi minuti e integrati all’insegna della misura e dell’affabilità; l’adozione di tecnologie costruttive che finiscono per ridurre la stessa architettura (per come l’abbiamo conosciuta fin qui) a un ruolo ancillare nella configurazione degli edifici: un ruolo prossimo a quello del disegno delle carrozzerie automobilistiche; e, motore primo, l’inseguimento esclusivo della massimizzazione della rendita immobiliare con tutto quello che consegue (selezione funzionale e sociale, aumento dei processi di specializzazione e segregazione etc.).

Se le decisioni sul riassetto urbanistico-architettonico delle aree degli scali fossero lasciate agli operatori immobiliari, il piatto è già servito: grandi complessi per lo più sviluppati in altezza (grattacieli per uffici sigillati e torri residenziali di lusso, con boschi verticali o meno, su palafitte o meno) e aree verdi anche in grande quantità ma scarsamente infrastrutturate e poco frequentate e per questo destinate a diventare poco sicure: una ricetta di matrice lecorbuseriana che è tra i modi inventati nella modernità per dire addio alla città. Il verde è importante ma va visto come teatro di relazioni, intessuto di articolazioni, di attività e di presenze che arricchiscano di opportunità l’impiego del tempo libero.

Se non si cambia rotta, lo scenario prossimo venturo è già disegnato: solitudini che si giustappongono a solitudini; estraneità conclamate, quasi urlate, con gli abitanti e i city users orfani del carattere accogliente e ospitale degli interni urbani che ha caratterizzato i momenti migliori della storia della città.

So bene che i media fanno il tifo per quel tipo di scenario e che più di un amministratore pubblico non fa nulla per evitarlo, ritenendo esaurito il proprio compito nell’innescare la trasformazione il prima possibile. Dopotutto, le conseguenze – fratture nel corpo sociale, lacerazioni nel tessuto urbano, accentuazione dei problemi di sicurezza – si faranno sentire sul lungo periodo e nessuno sarà chiamato a risponderne.

Se avesse invece consapevolezza della portata in gioco, chi ha responsabilità di governo della cosa pubblica potrebbe evitare il disastro ponendo precise condizioni perché la trasformazione, oltre che sui principi richiamati all’inizio, sia imperniata sulle infrastrutture della socialità. Come? Puntando essenzialmente su due elementi: la creazione di complessità funzionale e sociale favorendo sinergie e l’instaurarsi negli spazi aperti pubblici di interferenze nei modi d’uso e nelle presenze così da favorire, con la socialità, il naturale presidio dei luoghi urbani; il rinnovarsi di una stretta relazione fra spazi aperti pubblici, spazi collettivi e spazi privati che, architettonicamente interpretata, faccia da principio fondante dei luoghi del convivere: della loro vitalità e della loro bellezza.

Per concludere, a Milano nei prossimi decenni occorre puntare sul “ring degli scali”: un sistema forte e riconoscibile di luoghi a elevata qualità relazionale e di grande bellezza civile, capaci di innervare di linfa vitale interi comparti urbani, periferici e no. Si tratta di un’operazione complessa ma che va introdotta e regolata nell’Accordo di Programma al pari delle altre questioni strategiche da cui molto dipende il futuro della città.

Fra i molti eventi organizzati a Venezia in concomitanza con l’apertura della Biennale d’arte, uno dei più importanti è stato l’inaugurazione di una retrospettiva, dedicata all’artista americano ...(segue)

Fra i molti eventi organizzati a Venezia in concomitanza conl’apertura della Biennale d’arte, uno dei più importanti è stato l’inaugurazione di una retrospettiva,dedicata all’artista americano MarkTobey, presso la Peggy Guggenheim collection. Durante la cerimonia, largo spazio è stato dato all’intervento diFrancesca Lavazza, direttore responsabile dell’immagine del marchio dellaomonima azienda, che ha parlato subito dopo il direttore del museo e prima della curatrice scientifica dellamostra.

La signora Lavazza, che si è presentata come “donna, mecenate e imprenditrice” (equindi in un certo senso simile a Peggy!), ha tenuto a ribadire che la sua ditta non è solo uno sponsor della mostra, che hadefinito “intima ed elegante”, ma un “globalpartner “ della fondazione Guggenheim. Secondo il modello introdotto da Tom Krens, durante la sua ventennale econtroversa direzione che ha trasformato il museo da tempio dell’arte moderna amarchio da sfruttare in franchising in ogni

parte del mondo, il global partner non eroga contributi occasionali per un singolo evento, ma si impegna a una collaborazione a lungo termine, ottenendo in cambio rilevanti benefici in termini di visibilità e di immagine, nonché di uso degli spazi fisici di proprietà della fondazione.

Fra i partners si annoverano grandi corporations come Delta airlines, BMW, Armani e Deutsche Bank. Quando, dopo quindici anni di collaborazione, nel 2014 Deutsche Bank ha disdetto l’accordo, al suo posto è arrivata Lavazza, impegnata sul fronte internazionale in una aggressiva campagna di penetrazione nel mercato nordamericano, e su quello nazionale nel peggioramento delle condizioni di lavoro dei suoi dipendenti. Lavazza non ha mai reso noto l’entità della donazione/investimento, ma sembra difficile possa trattarsi di cifre molto diverse da quelle erogate da UBS, la banca svizzera altro attuale global partner, e che consistono in quaranta milioni di dollari. D’altronde, come ha detto Francesca Lavazza, che nel 2016 è stata anche “eletta” membro del board dei trustees della fondazione,” se l’Italia è la culla della cultura, Lavazza non può non avere nel proprio DNA una innata sensibilità per l’arte”. E forse è per dare prova di questa sensibilità che nei suoi manifesti pubblicitari deforma quadri come il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo o usa l’immagine dell’edificio di Frank Lloyd Wright come tazzina da caffè e coffee station.

Se la fondazione Guggenheim e la Lavazza s.p.a sono due entità private, due grandi corporations che uniscono le loro forze per aumentare i rispettivi giri d’affari e sono quindi libere di sottoscrivere gli accordi che vogliono, diversa invece è, o dovrebbe essere, la situazione quando uno dei contraenti è una pubblica istituzione, come la fondazione Musei civici di Venezia con la quale Lavazza ha in corso una collaborazione.

L’accordo, sottoscritto nel settembre del 2015, prevede il coinvolgimento dell’azienda nella promozione “sia dei grandi eventi – dal carnevale alle feste del Redentore – sia, più in generale, dell’immagine della città lagunare, che con i suoi straordinari tesori artistici e le sue incomparabili bellezze architettoniche rappresenta un patrimonio unico al mondo”. “Vogliamo contribuire a promuovere un territorio culturale ricchissimo”, aveva dichiarato all’epoca, Francesca Lavazza,

La fondazione Musei civici, oltre a ricevere un contributo destinato ad attività di restauro e conservazione delle collezioni, potrà “associare l’attività museale ad un brand di rilevanza internazionale valorizzando le collezioni e le attività scientifiche” (!), mentre per Lavazza l’accordo sottolinea ulteriormente la volontà di investire in una città “simbolo della cultura e dell’arte italiana nel mondo”. Come immediato ritorno dell’investimento l’azienda aveva ottenuto la possibilità di utilizzare l’area dell’Arsenale nord per attività ed esposizioni temporanee. Ed è alla Tesa 113 dell’Arsenale che, nel 2015, si è svolto “il primo degli appuntamenti che Lavazza offre alla città”, una mostra di “straordinarie fotografie accomunate dal filo conduttore del caffè”.

A buon titolo, quindi, Francesca Lavazza ha potuto concludere il suo intervento alla Guggenheim dicendo «per noi la location di Venezia è molto importante, qui passano milioni di persone alle quali possiamo far conoscere il nostro caffè … grazie a questa mostra, possiamo davvero essere come brand e ambassador della cultura italiana, ma anche offrire il nostro caffè a tutti i visitatori del museo».

Se la via Alessandrina sarà demolita, il progetto Fori - voluto da Cederna e Petroselli per ridare un altro volto alla città - sarà cancellato.

Stanno demolendo la via Alessandrina. È il colpo di grazia al Progetto Fori, la più straordinaria proposta di rinnovamento dell’urbanistica romana messa a punto fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. L’essenza del progetto è l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, la strada voluta da Benito Mussolini per collegare piazza Venezia al Colosseo e, sul piano retorico, per collegare l’impero romano al nascente impero fascista.

La prima idea di eliminare la strada era stata di Leonardo Benevolo che, in un libro del 1971, aveva suggerito di cancellare tutte le manomissioni operate ai danni del centro storico di Roma dopo l’unità d’Italia. Fu poi l’allora soprintendente archeologico Adriano La Regina che, nel denunciare i danni prodotti dal traffico ai monumenti romani, propose prima di eliminare le auto dalla via dei Fori Imperiali e subito dopo di demolire la stessa strada. La proposta fu raccolta dal sindaco Giulio Carlo Argan, da Antonio Cederna, Italo Insolera e da un grande numero di studiosi e intellettuali non solo italiani.

Ma a imporre il Progetto Fori al centro del dibattito politico, urbanistico e culturale fu Luigi Petroselli, sindaco dal settembre 1979 quando Argan si dimise. L’esordio di Petroselli in materia di archeologia fu lo smantellamento di via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il comune eliminò il piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. Ma Petroselli voleva anche che la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi e dei ceti borghesi ma di tutto il popolo di Roma, anche di quello più sfavorito. Perciò l’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore nel febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stesso clima festoso dell’Estate romana di Renato Nicolini.

Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciò a morire anche il Progetto Fori. Dopo di lui, tutti gli amministratori degli ultimi trent’anni hanno continuato a evocare il Progetto Fori, che non aveva però più niente a che fare con l’idea geniale e originaria di Adriano La Regina, Antonio Cederna e Luigi Petroselli di demolire la strada fascista e ricostituire l’unitarietà dell’area archeologica (Foro Romano e Fori Imperiali), non più intesa come monumento né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come spazio pedonale nel cuore della città moderna.

Non è possibile adesso – in questo momento di emergenza determinato dai lavori di smantellamento della via Alessandrina – riprendere il dibattito sui necessari aggiornamenti all’originario Progetto Fori. Interessa solo ricordare che negli ultimi anni si è realizzata un’ampia convergenza sul fatto che nulla impedisce di mettere mano allo smontaggio della via dei Fori Imperiali, sapendo che per le esigenze transitorie di ordine logistico fra piazza Venezia e largo Corrado Ricci si può utilizzare la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa voluta da Benito Mussolini.

Chiediamo pertanto alla sindaca Virginia Raggi e al ministro Dario Franceschini di provvedere immediatamente alla sospensione dei lavori di demolizione della via Alessandrina e al ripristino del precedente stato di fatto.

Alberto Asor Rosa
Piero Bevilacqua
Anna Maria Bianchi
Pier Luigi Cervellati
Filippo Coarelli
Vittorio Emiliani
Vezio De Lucia
Maria Pia Guermandi
Adriano La Regina
Paolo Maddalena
Tomaso Montanari
Rita Paris
Edoardo Salzano
Enzo Scandurra
Walter Tocci
Fausto Zevi

Associazione Bianchi Bandinelli, Comitato per la Bellezza, Emergenza Cultura

Il caso della storica Arena Borghesi, a Faenza, dove il cemento prevale sui beni comuni ed identitari e la prassi contrasta palesemente con i principi fondativi degli strumenti urbanistici. Documento di Italia Nostra e Legambiente, sezioni di Faenza. 8 maggio 2017 (p.d.)

Nel 1816, a ridosso delle mura urbane di Faenza, viene realizzato il Viale Stradone e dal 1824 il Fontanone è il suo fondale prospettico, un edificio neoclassico pensato per il paesaggio e la socialità del luogo, che ha origine da un intervento pubblico di valore etico. Con i fondi di una sottoscrizione popolare si costruisce, in una prima fase, la facciata della fontana; due anni dopo, con l’acquisto di un’area privata attigua, si realizzano una sala caffè e un giardino.

L’Amministrazione comunale di due secoli fa investe quindi sulla bellezza della città, con un progetto di paesaggio che nasce dal coinvolgimento della cittadinanza; o testimonia un’epigrafe che ricorda l’origine “popolare” di un luogo d’incontro che diventa patrimonio della comunità.
Nel 1891, all’inizio del Viale Stradone, viene realizzato il primo teatro dell’Arena Borghesi. Nel 1928, Vincenzo Borghesi ristruttura l’Arena realizzando un’architettura del paesaggio fatta di mattoni e alberi che si relaziona al vicino Viale Stradone. È una “piazza” per il teatro e il cinema inserita tra imponenti alberi che occupano un quinto dello spazio, non come oggetti di arredo, ma come elementi di “costruzione” fisica e identitaria del luogo.

L’Arena Borghesi è uno dei paesaggi più vissuti e riconoscibili della città, “esiste nella coscienza” individuale e collettiva. Nel 1957, il proprietario Vincenzo Borghesi dona l’Arena all’Ospedale Civile. Lungo il Viale Stradone, agli inizi dell’Ottocento e del Novecento, la città riceve in dote due lezioni di urbanistica; esempi anche di valore etico, per il lascito alla comunità di patrimoni paesaggistici e culturali che producono cittadinanza e senso di appartenenza.

All’inizio di questo secolo, il tema urbanistico dell’Arena Borghesi, modello di relazione col Viale Stradone, rischia però di essere stravolto da un intervento di anti-urbanistica. L’ASL (attuale proprietaria) ha posto in vendita, tramite asta, l’Arena. Un Accordo di Programma del RUE 2015, prevede che la nuova proprietà ceda l’area al Comune, ad esclusione di uno spazio reso edificabile, e copra parte dei costi di restauro.

La funzione pubblica di cinema all’aperto è garantita (una condizione ovvia per questo luogo) ma l’identità e il paesaggio dell’Arena sarebbero profondamente alterati. Infatti la parte di area resa edificabile confina con un supermercato che da anni “chiede” di allargarsi; l’Accordo di programma del Comune ne consente l’ampliamento dentro l’Arena.
L’espansione del supermercato produrrebbe alcuni effetti oggettivi che l’Amministrazione Comunale però “non vede”:
- la riduzione di un quinto della superficie dell’Arena;
- la cancellazione dello spazio alberato che determina il carattere del luogo;
- l’allargamento dell’errore urbanistico del supermercato realizzato nel 1981, un edificio incongruo e fuori contesto (come lo classificò lo stesso PRG del 1996);
- la disgregazione di un paesaggio storico e delle sue relazioni col contesto del Viale Stradone.
Non è a rischio la “bella vista” di 10 alberi, ma la qualità dell’abitare legata ad un paesaggio identitario che sarebbe svilito a servitù di un supermercato. L’invasione del cemento sull’Arena Borghesi rappresenta una sconfitta per la cultura del paesaggio ed è una “tomba” dell’urbanistica; l’Accordo di Programma rinnega gli stessi principi del RUE che ha tra i suoi obiettivi la qualità paesaggistica e identitaria.
In relazione al “movente” economico dell’Accordo di Programma, le Associazioni hanno proposto più volte al Comune l’opportunità di coinvolgere una pluralità di attori (sponsor, mecenati, cittadini), in alternativa all’accordo con un singolo privato. La proposta specifica (ignorata) si riferisce alla costituzione di Bene Culturale, una procedura che il Comune potrebbe avviare per riuscire ad inserire l’Arena Borghesi tra i beni finanziabili con l’Art Bonus e coinvolgere così la comunità, come insegna il caso storico del “Fontanone”.
Per sostenere l’esigenza di una tutela paesaggistica dell’Arena Borghesi, Italia Nostra e Legambiente di Faenza hanno presentato le osservazioni al RUE e realizzato un dossier informativo inoltrato alla Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Ravenna, all’Assessore all’Urbanistica della Regione Emilia Romagna, alla Provincia di Ravenna. La relazione contiene il quadro storico delle trasformazioni urbanistiche e l’analisi del contesto paesaggistico che introducono le motivazioni della richiesta di tutela paesaggistica dell’Arena Borghesi, ai sensi del D.Lgs. 42/2004.
Attualmente esiste il vincolo per la conservazione degli edifici (il proscenio, l’ingresso e l’ex locale per ristoro), mentre il vincolo esistente sull’area aperta è stato cancellato alcuni anni fa. Il solo vincolo sugli edifici rende possibile “l’invasione edilizia” del vicino supermercato e quindi l’alterazione di un paesaggio storico. L’identità dell’Arena Borghesi dipende da un’architettura del paesaggio unitaria; la conservazione della sua integrità è il presupposto della tutela di questo luogo.
Con questa motivazione le Associazioni hanno realizzato varie iniziative per coinvolgere i cittadini. Nel settembre 2016, è stata realizzata l’installazione Red carpet, un unico tappeto visivo per segnare la continuità di un paesaggio storico vissuto che unisce l’Arena col Viale Stradone. 200 teatrini di cartoncino rosso, appesi agli alberi del Viale, davano forma alla finalità di conservare l’integrità dell’Arena Borghesi; i modelli (del proscenio reale) erano infatti il risultato di pieghe, tagli, incastri e della totale assenza di scarti. L’iniziativa attualmente in corso è la petizione, indirizzata al Sindaco di Faenza, per scongiurare la minaccia del cemento e l’alterazione del paesaggio identitario. Nelle prime due settimane sono state raccolte circa 1200 firme, attraverso i consueti banchetti in piazza e la sottoscrizione on line sulla piattaforma digitale Change.org.

Due testimonianze della miopia e della sudditanza della politica italiana di fronte ai poteri forti di un mondo ottuso. Articoli di Daniele Matini e Francesco Musolino. il Fatto Quotidiano, 8 maggio 2017 (p.d.)

LO SCALO LOW-COST CHE

AI BENETTON NON CONVIANE

di Daniele Martini
C'è un progetto alternativo per il potenziamento dell’aeroporto di Fiumicino che costa quattro volte meno di quello preparato dalla società AdR-Aeroporti di Roma della famiglia Benetton che gestisce lo scalo: 5 miliardi di euro invece di 20. È un piano efficace e dettagliato per dotare la capitale di una struttura più capiente ed efficiente dell’attuale in vista degli aumenti di traffico sperati, circa 10 milioni di passeggeri in più dal 2021 rispetto ai 40 attuali.

Rispetto al piano ufficiale, quello alternativo ha anche il merito di non intaccare le zone pregiate della Riserva statale del litorale romano riperimetrata appena tre anni fa con vincoli più stringenti grazie a un decreto del ministero dell’Ambiente dopo 7 anni di trattative che hanno coinvolto i comuni di Roma e Fiumicino. Infine quel piano non stravolge il reticolo di canali di irrigazione delle campagne della zona così come prevede invece il progetto ufficiale. Il piano alternativo è stato elaborato per l’agguerrito Comitato “Fuoripista” di Fiumicino da tecnici di primo livello ed è una roba seria. Ma resta al palo.
Procede invece come un treno l’altro progetto, quello dei Benetton nonostante sia un concentrato di difetti. A partire dai costi, circa tre volte superiori a quelli del Ponte sullo Stretto, tanto per avere un punto di riferimento noto. E nonostante i danni sicuri e irreversibili che infierirebbero su un ambiente prezioso e supertutelato di cui utilizzerebbe un’area enorme, 1.300 ettari circa per far posto a una quarta e quinta pista, terminal, piazzole, alberghi, negozi. Superfici, guarda un po’ i casi della vita, in gran parte di proprietà dei Benetton che verrebbero espropriate a peso d’oro facendo più che felici i Benetton stessi.
Gli imprenditori veneti si atteggiano come benefattori anche a Fiumicino, investitori illuminati in grado di risolvere i problemi della collettività togliendo le castagne dal fuoco a uno Stato che fa la figura di un mendicante con il cappello in mano. Per l’aeroporto di Roma lo Stato non ha i soldi per il potenziamento, mentre i Benetton quei quattrini ce li hanno, in parte cash e in parte sanno come farseli dare. Il paradosso è che una bella fetta di quei liquidi entra a fiumi ogni giorno nelle casse della società aeroportuale grazie proprio allo Stato e al suo buon cuore.
Il regalo ha una data e un donatore certi: vigilia di Natale del 2012, ultimo giorno di vita del governo presieduto da Mario Monti. Alla chetichella fu concesso allora ad Aeroporti di Roma di aumentare di colpo e in modo consistente le tariffe, circa 10 euro a biglietto aereo, soldi pagati dagli ignari viaggiatori. In cambio i Benetton si impegnavano a investire per lo sviluppo dello scalo. Il raddoppio che propongono è proprio strettamente collegato a quel patto e, a prima vista, sembrerebbe quindi giusto che venisse rispettato. Solo che si tratta di un’intesa truccata, perché il raddoppio è inutilmente eccessivo, costoso e pure dannoso per l’ambiente.
Ai Benetton però piace tanto per almeno due motivi. Primo: serve per ricevere dallo Stato un’altra montagna di quattrini con gli espropri dei terreni. E poi perché per costruire piste, terminal e alberghi i Benetton, presumibilmente, utilizzerebbero le ditte di casa, dalla Spea alla Pavimental, guadagnandoci di nuovo.
Il piano alternativo del Comitato “Fuoripista” è come il classico granello di sabbia che può bloccare un ingranaggio gigantesco. È per questo che la sola esistenza di quel progetto crea imbarazzi a non finire a tutti gli interlocutori a cui è stato presentato, dai dirigenti del ministero delle Infrastrutture agli stessi manager di Adr. I quali non se la sentono di liquidarlo come si trattasse di un opuscoletto di propaganda, ma non sono neanche nella condizione di poterlo ricevere per quel che è: un contributo gratuito per lo sviluppo a basso costo dell’aeroporto. Gli affari sono sempre affari. Negli incontri al ministero e nella sede di Adr a Fiumicino, i rappresentanti del Comitato “Fuoripista” hanno incassato un’attenzione tutt’altro che di circostanza, ma senza concessioni.
Dirigenti ministeriali e tecnici aeroportuali hanno consigliato di trasmettere il piano alternativo per Fiumicino all’Enav, l’ente nazionale per il controllo del traffico aereo. Forse l’avranno pure fatto per scaricare ad altri la patata bollente, ma il passaggio all’Enav è comunque davvero necessario. Il progetto alternativo costa molto meno dell’altro perché si basa su due capisaldi: un migliore utilizzo degli spazi aeroportuali attuali e un diverso scaglionamento dei decolli e degli atterraggi. E siccome è proprio questa la materia di cui si occupa l’Enav, ovvio che intervenga per dire la sua.
L’incontro tra il Comitato e l’ente di assistenza al volo c’è stato nella prima settimana di maggio ed è sembrato la fotocopia degli altri. L’Enav ha comunque messo al lavoro i suoi tecnici per esaminare il progetto nei dettagli. In attesa di queste valutazioni, logica vorrebbe che per precauzione non venisse messo il turbo al piano di raddoppio dei Benetton. E invece sembra che i dirigenti di Adr siano presi da una fretta irrefrenabile. E con essi l’Enac, l’ente dell’aviazione civile, in teoria controllore anche di Adr. Dopo che i tecnici dell’aeroporto avevano aggiunto una serie di modifiche al gigantesco progetto originario con robette tipo un nuovo tracciato della pista quattro e la costruzione di un troncone autostradale dell’A12 a Nord di Roma, Enac ha deciso di saltare il passaggio della Valutazione Ambientale Strategica (Vas), obbligatorio per opere di quelle dimensioni.
Il 30 marzo l’ente dell’aviazione diretto da Vito Riggio si è rivolto direttamente alla Commissione Via (Valutazione impatto ambientale) del ministero dell’Ambiente. E sempre sull’onda della fretta ha deciso pure di non aspettare neanche le valutazioni che il Consiglio di Stato è in procinto di consegnare al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, perché possa esprimersi sulla faccenda fondamentale del perimetro della Riserva statale. E già che c’era l’Enac ha fatto finta di non sapere che su quel perimetro un parere autorevole e vincolante già c’è: quello del ministero dell’Ambiente, contrario a qualsiasi modifica delle aree della Riserva, compresa la cosiddetta zona 1. Proprio quella dove si espanderebbe l’aeroporto in versione Benetton e sulla quale non si può costruire non una pista o un terminal, ma nemmeno un capanno.


G7, CITTA' IN OSTAGGIO

CON ELIPORTO PRIVATO
PER DONALD TRUMP
di Francesco Musolino
Donald Trump l’ha preteso e noi non abbiamo saputo dirgli di no. Il 26 maggio atterrerà a Sigonella con il suo Air Force One per poi ripartire con un elicottero alla volta di Taormina, toccando terra su una pista tutta sua. Evidentemente per un vertice di capi di Stato e di governo di due giorni non era sufficiente un solo eliporto. È ciò che sta accadendo a Taormina, dove si terrà il prossimo G7 (26 e 27 maggio), con i militari al lavoro per spianare entrambe le aree: una nei pressi della piscina comunale, l’altra nel cosiddetto “piano porto”. Ma una volta atterrato nel suo eliporto, ve lo immaginate Trump sfrecciare lungo vicoli e stradine con l’inevitabile corteo di auto superblindate?
In questa situazione di assoluta incertezza, come sempre in Sicilia, si va avanti giorno dopo giorno. Più sperando nella Provvidenza divina che nella programmazione dei lavori. Accogliere i leader di Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Usa dovrebbe essere un’occasione di riscatto; intanto è diventata una corsa contro il tempo.
E se gli albergatori sono gli unici a fregarsi le mani, i timori sulla sicurezza sono molti. Gli occhi sono rivolti ai Giardini Naxos, dove il 27 maggio si terrà un corteo di protesta internazionale, il “Contro G7” per paura di eventuali scontri con le forze dell’ordine. Il sindaco di Taormina, Eligio Giardina, dribbla le polemiche e garantisce che tutto andrà per il

meglio. Ma gli scongiuri non servono, visto che Taormina è uno dei pochissimi Comuni siciliani ancora sprovvisto di un piano di protezione civile (“fermo in fase di bozza al 2013, mentre si starebbe procedendo ad aggiornarlo d’ufficio”), con i tecnici comunali “travolti dal G7”e nessuna segnaletica sul territorio che indichi vie di fuga e aree di attesa.

Ma prima di annunciare il G7 a Taormina forse sarebbe stato sensato informarsi sullo stato delle infrastrutture e sulla mole dei lavori da attuare. Certo non basteranno i 35 mila euro promessi - e non ancora versati - dal governatore siciliano Rosario Crocetta come generoso contributo. E intanto il tempo passa e Taormina è un cantiere fra strade da bitumare, militari che presidiano le vie con le mitragliette in bella vista e una lunga lista di disagi inflitti agli incolpevoli turisti disorientati.
Chissà, magari speravano di poter respirare l’atmosfera che stregò Truman Capote e Tennessee Williams, invece devono fare i conti con squadre di operai che scoperchiano i tombini per potenziare la fibra ottica. E gli abitanti di Taormina e Castelmola (il comune di mille anime sovrastante) che non hanno già previsto un weekend fuoriporta, dovranno munirsi di un pass per la circolazione pedonale nel centro storico. Per due giorni la città verrà blindata e consegnata ai componenti delle delegazioni internazionali (circa 1.500 persone), cui si sommeranno i reporter accreditati e le oltre 10 mila unità preposte alla sicurezza, fra polizia ed esercito. Uno stato d’assedio costoso e imposto dall’alto per soddisfare le esigenze di sicurezza. Il G7 a Taormina, fortemente voluto da Matteo Renzi, rischia d’essere una dimostrazione di lassismo Made in Italy.
A poco più di due settimane dall’appuntamento alcuni cantieri verranno chiusi in extremis, altri riceveranno un’agibilità solo provvisoria, come il PalaCongressi (cui sono stati assegnati 806 mila euro per “lavori di manutenzione ordinaria” con consegna il 15 maggio). Ma se era noto sin dal luglio 2016 che la sede prescelta sarebbe stata Taormina, perché si è atteso sino al 3 aprile per l’avvio di questo cantiere? Inoltre, a causa di un improvviso aumento dei costi è definitivamente saltato il previsto “ampliamento di videosorveglianza territoriale” ovvero l’installazione di un circuito di 700 telecamere di sicurezza dislocate fra Messina, Taormina e Catania, permettendo un ampio monitoraggio delle aree (doveva occuparsene Leonardo-Finmeccanica). Pazienza, ne dovremo fare a meno.
Taormina con due sole vie d’accesso che risalgono la collina sino a 204 metri d’altitudine, verrà chiusa ermeticamente e pochi sanno che l’A18, la Messina-Catania, è considerata la peggiore autostrada non solo siciliana ma italiana, con ampi tratti in cui si procede a doppio senso su un’unica carreggiata a causa della frana del 4 ottobre 2015(!).
Disagi su disagi protratti nel tempo con buona pace di pendolari e turisti. A questo punto è lecito porre una domanda: in base a quali criteri oggettivi, Taormina è stata scelta come sede del G7? Forse per il panorama e il profumo di zagara?

«Da 12 giorni sta facendo lo sciopero della fame e della sete per protestare contro la costruzione del maxi gasdotto Tap in Salento. Altri nove militanti hanno iniziato a imitare il suo esempio». la Repubblica, 8 maggio 2017 (c.m.c)


Dodici giorni senza mangiare né bere per protestare contro la realizzazione del gasdotto Tap a Melendugno: l’oncologo di Casarano Giuseppe Serravezza diventa l’uomo simbolo della resistenza del Salento.

Sessantasei anni, 12 chili in meno da quando ha iniziato lo sciopero della fame e della sete, la sua funzionalità renale è alterata, i medici temono che il cuore ceda ma lui non vuole sentire ragioni. «Dopo cinque anni non c’è altra strada: il governo deve ascoltare la voce del territorio — ripete a coloro che lo pregano di smettere — Il Salento non può permettersi di pagare altro in termini ambientali».

La richiesta è chiara, veicolata nella lettera che il governatore della Regione Puglia, Michele Emiliano, il 5 maggio ha indirizzato al presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni: «Il governo riapra un confronto sulla possibilità di spostare l’approdo dell’opera da Melendugno ». Ancora più accorato l’appello alla politica nazionale della famiglia di Serravezza, i figli Flavia e Antonio e la moglie Enza: «Mettete da parte i veleni, le beghe politiche, i risentimenti personali. C’è un uomo che rischia la vita per dare voce a una terra che vuole decidere il proprio futuro».

Proprio per aiutare la sua gente, Giuseppe Serravezza molti anni fa scelse di mettersi al servizio dei malati di cancro del Basso Salento, fino a diventare primario del Polo oncologico Casarano-Gallipoli, e lì cominciò a rendersi conto che in quei luoghi da cartolina alcune patologie tumorali erano più frequenti che in altre zone della Puglia. Neoplasie al polmone e alla vescica, in particolare, apparivano presenti in maniera preoccupante e per cercare di capirne il motivo, il professore portò avanti una serie di studi insieme alla Lilt (di cui è stato presidente e oggi è responsabile scientifico).

Nel 2014 il medico si diceva convinto che «le emergenze ambientali di alcune zone del Sud, Puglia, Campania e Basilicata, sono la causa del preoccupante incremento della mortalità per cancro ». Il riferimento era alle industrie che da Taranto e Brindisi mandano le emissioni nocive verso Lecce, grazie ai venti che spirano quasi sempre da nord, alle mille discariche abusive, ai rifiuti interrati. Proprio la richiesta di verità sui veleni sepolti nelle campagne del Capo di Leuca è stata una delle battaglie di Serravezza degli ultimi anni, insieme a quella per evitare la realizzazione della centrale a Biomasse a Casarano. «Anche in quella circostanza dicevano che era già tutto deciso — ha ricordato — ma l’opposizione popolare è riuscita a bloccare i progetti».

Poi arrivò la Tap. In Salento e nella vita di tante persone, tra cui l’oncologo, che nel 2012 aiutò il Comune di Melendugno a scrivere le osservazioni per bloccare la Valutazione di impatto ambientale poi concessa dal ministero dell’Ambiente. I suoi dubbi riguardavano le emissioni prodotte dal terminale di ricezione, che sorgerà vicino all’abitato di Melendugno, ovvero la possibilità che vengano introdotti in atmosfera Pm10, monossido di carbonio, ossido e biossido di azoto. Eventualità che Trans Adriatic Pipeline ha smentito carte alla mano e che la viceministra allo Sviluppo Teresa Bellanova ha chiesto all’Istituto superiore di sanità di verificare.

Il problema che Serravezza evidenzia, però, non riguarda le emissioni in sé ma il cumulo di inquinanti in una realtà che già nel 2014 Arpa Puglia definì tale «da non potersi permettere ulteriori pressioni». Per questo ha trasformato il suo corpo nel mezzo della protesta estrema e indotto altri nove attivisti No Tap a seguire il suo esempio, iniziando lo sciopero della fame, mentre i sindaci salentini organizzano una manifestazione sotto Palazzo Chigi per i prossimi giorni.

Ecco perché i veneziani proprietari immobiliari non sono tanto contrari al turismo che sta cancellando la loro città e cacciando i veneziani non proprietari. la Nuova Venezia online, 6 maggio 2017

Il business Biennale Arti Visive di Venezia è un affare da almeno 30 milioni di euro che «plana» sulla laguna nella settimana d’oro per il turismo culturale. Quella che prenderà il via martedì prossimo – con il primo giorno di vernice di «Viva Arte Viva», l’edizione numero 57 della Mostra internazionale - e si chiuderà di fatto tra sabato e domenica con l’inaugurazione e l’apertura al pubblico

Prezzi invariati ma alti. «I prezzi dei servizi legati alle esposizioni del periodo Biennale sono invariati rispetto a due anni fa - spiega - anche per la decisione coraggiosa della curatrice della Biennale di limitare solo a 23, su oltre un centinaio di richieste, le mostre collaterali, rispetto alle oltre 50 del suo predecessore. Chi non riesce a ottenere il prezioso marchio della Biennale ed è una grossa organizzazione internazionale, molto spesso rinuncia alla mostra». Per concedere il marchio del Leone su una mostra la Biennale chiede circa 23 mila euro (+Iva) e dunque il taglio deciso da Macel (con esclusione anche di esposizioni curate da critici illustri) significa per le casse della Fondazione guidata da Paolo Baratta la rinuncia a qualche centinaio di migliaia di euro. Ma l’affare rimane, con oltre un centinaio di mostre che apriranno dalla prossima settimana e i prezzi restano alti.

Spazi in affitto fino a 50 mila euro al mese. «Ormai si affitta tutto se può avere una disposizione espositiva e una discreta collocazione - spiega De Grandis - e si va dai 10 mila euro al mese per l’affitto di un piccolo negozio ai 50 mila euro per un’esposizione che prenda due piani di palazzo magari affacciato sul Canal Grande. Le chiese usate a fini espositivi costano mediamente circa 20 mila euro al mese. A pesare poi ci sono anche i costi di guardianìa. Una persona regolarmente stipendiata come guardasala per tutta la durata di una mostra durante la Biennale può costare circa 125 mila euro lordi, con un costo medio di 30 mila euro, visto che in genere le persone sono almeno due».

Anche 40 mila euro per le cene di gala. Non è finita, perché un Paese con il proprio padiglione o gli organizzatori di una mostra collaterale devono pensare anche al catering per le inaugurazioni. «Si va dai 3 mila euro circa per chi si accontenta di prosecco e patatine per tutti - spiega ancora De Grandis - a chi spende anche 40 mila euro per una cena di gala in un bel palazzo veneziano». Per una cena da inaugurazione il prezzo a commensale varia dai 60 ai 150 euro in base alle ambizioni di chi ospita.

Fino a 100 mila euro per gli allestimenti. Altra voce che incide sul bilancio di una mostra è quella di trasporti e allestimenti. «Per quelli più spartani e in spazi più ristretti - commenta ancora de Grandis - si possono spendere circa 15 mila euro, che possono arrivare sino a 100 mila per una mostra in grande stile in un grande palazzo, magari allestita da un «team» di esperti. Poi c’è l’immagine e la comunicazione e se ne vanno così dai 15 ai 30 mila euro, anche qui in base alle esigenze di «grandeur», con chi prenota anche le fiancate di vaporetto per farsi pubblicità. Una voce aggiuntiva sono i trasporti passeggeri. I taxi per i giorni della vernice sono già introvabili, prenotati da tempo. Ma chi ne vuole uno fisso a propria disposizione deve mettere in preventivo di spendere circa 150 euro all’ora, e non sono pochi quelli che lo fanno.

Fino a 700 mila euro per partecipare. I conti finali sono presto fatti. «Il costo complessivo della partecipazione di un Paese che si dota di un proprio padiglione alla Biennale - conclude De Grandis - va da un minimo di 100 mila a un massimo 700 mila euro. Un investimento in cui alcuni Paesi orientali da cui pensano di rientrare “imparando” come poi organizzare una Biennale a casa propria, come sta avvenendo. E poi c’è il prestigio di essere a Venezia. Il giro di affari complessivo della settimana della vernice della Biennale? Certamente non inferiore ai 30 milioni di euro, senza contare l’indotto per alberghi, ristoranti e affittanze turistiche». Per questo tutte le categorie, a cominciare dagli albergatori, amano «questa» Biennale.

«Siamo sicuri che uno dei principali problemi della nostra crisi democratica non sia proprio questa inesorabile distruzione del “pubblico”, e la conseguente, selvaggia privatizzazione di funzioni vitali?» la Repubblica, 6 maggio 2017 (c.m.c)

La cosiddetta “manovrina”, e cioè le disposizioni urgenti in materia finanziaria decise dal governo, che il parlamento dovrà poi convertire in legge, si dice motivata dalla «straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure finanziarie e per il contenimento della spesa pubblica ». La ricetta è quella che conosciamo ormai da quasi trent’anni: la progressiva autoriduzione dello Stato, sia al centro che negli enti locali.

Come è ben noto, non è un processo solo italiano. Luciano Gallino ha scritto che il primo articolo della «“costituzione” non scritta, ma applicata da decenni con maggior rigore di molte Costituzioni formali», in Europa, prescrive che «lo Stato provvede da sé a eliminare il proprio intervento o quantomeno a ridurlo al minimo, in ogni settore della società: finanza, economia, previdenza sociale, scuola, istruzione superiore, uso del territorio».

Quali siano, in concreto, i frutti di questa lunga dissoluzione lo constatiamo attraverso le cronache più recenti. E sono frutti che non riguardano le nostre economie, ma le nostre democrazie: le Ong (indegnamente bersagliate dagli imprenditori della paura) ci stanno ricordando con forza e fermezza che si trovano in mare a fare il lavoro che dovrebbero fare gli Stati. E in Italia, da una parte priviamo di mezzi le forze dell’ordine, dall’altra armiamo le mani dei cittadini, spingendoli di fatto a difendersi da soli.

Ebbene, siamo sicuri che uno dei principali problemi della nostra crisi democratica non sia proprio questa inesorabile distruzione del “pubblico”, e la conseguente, selvaggia privatizzazione di funzioni vitali?
La domanda diventa stringente quando si leggono le voci della spesa ministeriale che risultano ridotte nelle tabelle accluse alla suddetta manovra del governo Gentiloni. Accanto ai tagli a fronti strategici come le «politiche per il lavoro» o l’«amministrazione penitenziaria», spiccano riduzioni che assomigliano a suicidi: per esempio i 5.996.000 euro tolti al diritto allo studio universitario in un Paese che è penultimo in Europa per numero dei laureati. O i 5.799.000 euro tolti alla «ricerca scientifica e tecnologica applicata e di base».
Lasciano di stucco anche i tagli al ministero per l’Ambiente. Davvero possiamo permetterci di sottrarre anche solo 2.762.000 euro ai pochissimi destinati alla «tutela del territorio»? Proprio là dove dovremmo avere la forza di innescare una grande impresa neokeynesiana che finanzi l’unica opera utile, e cioè la rimessa in sesto del territorio, siamo invece ridotti a sottrarre alla nostra stessa sicurezza qualche spicciolo.

E poi c’è la cultura, tradizionale vittima sacrificale. L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli ha spiegato in un suo libro assai istruttivo ( La lista della spesa. La verità sulla spesa pubblica e su come si può tagliare, 2015) perché «spendiamo troppo in quasi tutti i settori tranne cultura e istruzione». Evidentemente il governo Gentiloni non è d’accordo, e taglia 5,455 milioni alla voce «tutela del patrimonio culturale » (già allo stremo). E non basta: ci si accanisce togliendo 220.000 euro (!) alla tutela archeologica, 599.000 alla tutela e valorizzazione dei beni archivistici, 992.000 alle martoriate biblioteche, 552.000 alla tutela delle belle arti e tutela e valorizzazione del paesaggio. Il ministro Padoan ha dichiarato che non si tratta di tagli lineari, ma selettivi.

Il che pare in effetti innegabile, visto che lo stesso decreto stabilisce (all’art. 22, comma 6) che i supermusei, i cui direttori e consigli scientifici sono stati scelti e nominati direttamente dalla politica, possono «avvalersi, in deroga ai limiti finanziari previsti dalla legislazione vigente, di competenze o servizi professionali nella gestione di beni culturali». In altre parole, mentre la tutela del territorio viene tagliata (così da dare il colpo di grazia alle morenti soprintendenze), si incrementa invece la discutibile attività promozionale di questi musei, dove ormai non si produce più conoscenza, ma si fa solo marketing.

Quando Barack Obama si rifiutò di tagliare la spesa per la ricerca e l’istruzione, spiegò che non si poteva sperare di far ridecollare un aereo buttandone fuori bordo il motore. Il punto è che forse noi non abbiamo ben chiaro quale sia, il nostro motore.

Una riflessione critica sul modello negoziale milanese relativo ai grandi progetti di trasformazione urbana: un modello condizionato dal capitalismo finanziario immobiliare. Sintetica analisi comparativa sull’esperienza francese dove è la regia pubblica che detta le condizioni al privato


Come ha efficacemente sottolineato Giancarlo Consonni in un articolo pubblicato su la Repubblica del 13 aprile scorso dal titolo Tutti i rischi di eventopoli:la Milano da bere, il capoluogo lombardo sta subendo un bombardamento di messaggi trionfalistici sulle sue magnifiche sorti che meriterebbe una quotidiana azione di disvelamento. Fra i cittadini attenti sono comunque in molti a non cadere nella trappola mediatica, anche se il messaggio ridondante che arriva, anche dai quotidiani di diffusione nazionale e dalla televisione, continua a prediligere un racconto incantatore.

Quali sono gli attori che supportano questa narrazione effimera, accattivante e per molti aspetti lontana dalla realtà? Quale strategia è sottesa all’enfasi, davvero stucchevole, sul rango europeo o addirittura mondiale del capoluogo lombardo (un déjà vu inquietante rispetto alla “Milano da bere” degli anni ’80 che tutti sappiamo come si è conclusa)? In ultima istanza: chi comanda (o meglio, continua a comandare) a Milano grazie anche al supporto di questo stile argomentativo? Chi sono i suoi principali, e spesso entusiasti, supporter?

Chi comanda a Milano senza discontinuità l’abbiamo già capito da molto tempo: la finanza immobiliare. È attorno a questo indomabile impero che ruota il sistema decisionale milanese. E sono numerosi i complici, ben identificabili e davvero censurabili. Fra questi, spiccano alcuni attori che, in teoria, dovrebbero avere a cuore il bene comune della città (e di tutti i suoi cittadini).

Il primo, e principale, è rappresentato dall’amministrazione municipale. È dagli anni ‘90 che, malgrado il mutare delle maggioranze, il governo locale condivide, e facilita, una trasformazione della città che asseconda gli obiettivi e le strategie dei grandi gruppi privati e del settore finanziario/immobiliare. Questa strategia è contrabbandata, e questo appare davvero inaccettabile, per ‘rigenerazione urbana’ con un promesso benefico effetto sui consumi di suolo, ampiamente contraddetto in realtà dalle dinamiche attuali e prevedibili nell’hinterland.

Le cose non sono cambiate con i governi di ‘sinistra’. Lo ha immediatamente dimostrato, nella disillusione di molti suoi elettori, la giunta Pisapia approvando in gran fretta nel 2012 un Piano di Governo del Territorio affollato di interminabili chiacchiere retoriche, già compilate da Masseroli/Moratti - nel loro PGT adottato ma non approvato -, e attuato attraverso regole iperflessibili (ricordiamo, in particolare, il principio di ‘indifferenza funzionale’ e il modello della ‘perequazione estesa’’) che hanno rappresentato un vero e proprio regalo alla speculazione immobiliare.

Lo sta dimostrando la giunta attuale. Giuseppe Sala, un personaggio apparentemente gioviale e talora anticonformista(1) sta assecondando, con il suo profilo basso, tutti i progetti di trasformazione attualmente proposti dai privati. Chi invece si espone in prima linea è il suo assessore all’urbanistica, Pierfrancesco Maran il quale, anziché adoperarsi, forte delle deleghe che gli sono state affidate, per arginare le mire speculative degli attori privati, sta di fatto ripercorrendo un modello di mero marketing urbano, ormai più che obsoleto e abbandonato da decenni nelle grandi città europee: un modello attento solo alla immagine esterna della città, agli annunci pubblicitari, alla continua evocazione dei grandi progetti in cantiere - qualsiasi ne sia il contenuto -, a una modalità di comunicazione sui media enfatica e ridondante, alla sponsorizzazione di manifestazioni culturali effimere ma di garantito successo mediatico.

Continua comunque a mancare, dopo decenni di deregolazione urbanistica, una valutazione degli effetti a scala municipale – e a scala metropolitana – dei grandi progetti già realizzati; e, a maggior ragione, di quelli prevedibili con la realizzazione dell’accozzaglia di progetti di rigenerazione urbana oggi in discussione. Manca insomma totalmente, in attesa che partano i lavori per il nuovo PGT, una valutazione complessiva degli effetti prodotti sul territorio milanese (e metropolitano) dal PGT approvato dalla giunta Pisapia, da misurare, come si fa nelle migliori pratiche internazionali, attraverso indicatori di prestazione di efficacia, sostenibilità, equità, vivibilità e, oggi più che mai, accoglienza.

Considero dunque le attuali iniziative urbanistiche del Comune di Milano più che desuete, perché improntate a un modello di marketing urbano che ha goduto di un transeunte fascino nelle città europee soltanto negli ormai lontani anni ’80.

Come giudicare altrimenti il questionario enfaticamente somministrato ai cittadini sul sito dell’Assessorato all’Urbanistica e contrabbandato come iniziativa partecipativa preliminare all’elaborazione del nuovo PGT (2)? Il questionario (3) appare incomprensibile ai più per il linguaggio che utilizza - anche se familiare a chi ha insegnato al Politecnico…. Il suo obiettivo è meramente retorico, sia per i quesiti complessi somministrati all’incauto cittadino volonteroso, sia perché si configura come un episodio una tantum che non prelude all’avvio di procedure formalizzate e continue di ascolto.

Sarebbe stato molto più utile per coinvolgere i cittadini presentare una disamina attenta dei risultati ottenuti con il ‘vecchio’ PGT, evidenziandone successi e limiti, e individuando possibili alternative qualitative e scenariali per il nuovo PGT, sulle quali invitare i cittadini ad esprimere le loro valutazioni e le loro priorità.

E ancora: come giustificare l’artificio di aver sbandierato come un grande evento partecipativo la presenza di migliaia di visitatori alla mostra dei progetti per gli scali ferroviari? L’evento, intitolato con la consueta enfasi “Gli scenari per immaginare il futuro della città”, ha in realtà presentato i progetti per il riuso degli scali elaborati da cinque affermati studi di architettura (su incarico non del Comune ma di FS Sistemi Urbani).

Sulla scelta ampiamente discutibile della giunta Pisapia di porre ai voti un Accordo di Programma per gli scali ferroviari quando era ormai in scadenza di mandato – un accordo clamorosamente bocciato dal consiglio comunale nel dicembre 2015 - è stato già scritto molto, soprattutto su Arcipelago Milano (e i contributi più interessanti sono stati pubblicati su eddyburg).

Si concedevano a FS Sistemi Urbani indici volumetrici elevatissimi e spalmabili indiscriminatamente su aree che rappresentano l’ultima occasione per realizzare progetti di vera mixité: progetti di intensificazione e non di mera densificazione. Stupisce però che la esposizione dei progetti, con i loro rendering mistificatorî, sia stata ampiamente pubblicizzata sul sito del Comune, anche incorrendo in un imbarazzante ‘lapsus freudiano’(4).

Tutto ciò dà l’impressione di una decisione ormai presa, di un accordo lieto fra l’amministrazione e una azienda pubblica che agisce da privato, nel quale il ruolo di regolatore e di decisore ultimo, che dovrebbe essere in capo al governo locale, si è, come ormai da decenni avviene, completamente affievolito. Ancora più inquietante è il sospetto che, nella più totale mancanza di trasparenza e di procedure di evidenza pubblica, ai cinque studi di architettura incaricati da FS Sistemi Urbani per suggerire visioni progettuali per il complesso degli scali sia già stata garantita la progettazione di singoli scali, come si scopre da un articolo pubblicato dal Journal of the American Institute of Architects che dà per scontato l’incarico a MAD Architects per la progettazione esecutiva dello scalo di Porta Genova (5).

Ma vi è un secondo attore sul cui comportamento vorrei avanzare una perentoria riflessione critica, perché pare a me sommamente censurabile il ruolo che, da qualche anno a questa parte, sta giocando sul tavolo delle decisioni che contano nella trasformazione di Milano: il sistema universitario milanese. Ne sono protagonisti soprattutto alcuni atenei e, in particolare, alcuni accademici in posizione apicale. È una pratica, quella del coinvolgimento degli atenei milanesi, che non esito a definire, in taluni casi, come ‘collusiva’, sottolineando al proposito che agli accademici spetterebbe il compito precipuo di elaborare il pensiero critico più avanzato sulla società e sulla città e, soprattutto, spetterebbe loro il compito eminente di ‘guardiano culturale dei beni comuni’.

Invece, a Milano non vi è strumento urbanistico, progetto di rigenerazione, ma anche occasione speculativa promossa dal capitalismo finanziario/immobiliare (6)che, soprattutto negli anni recenti (quelli della ‘sinistra al governo’), non siano stati legittimati anche ricorrendo a esimi consulenti del Politecnico di Milano; in particolare, al suo ex rettore (Giovanni Azzone) e relativo prorettore (Alessandro Balducci), e a docenti appartenenti all’area urbanistica /progettuale: dal supporto tecnico-scientifico al PGT adottato dalla giunta Pisapia (un piano fotocopia di quello approvato dalla Giunta Moratti), al coinvolgimento diretto nel progetto per il riuso dell’area exEXPO, alla presidenza della società titolare dell’area(7), al progetto per ridefinire il futuro di Città Studi, colpita dalla decisione, dissennata e comprensibile solo in termini immobiliari, di trasloco della facoltà scientifiche della Università Statale.

In questo caso è intervenuto il rettore della Statale Gianluca Vago intenzionato a deportare tutte le facoltà scientifiche di Città Studi nelle aree exEXPO, grazie anche al sostegno dei contributi finanziari erogati dal governo centrale (8). Anche se la decisione sembra ormai presa, il progetto sta incontrando, a differenza degli scali ferroviari che sono costituiti da siti prevalentemente in abbandono, l’opposizione dei residenti e degli studenti di Città Studi; un movimento nato dal basso che ha già dato luogo a un comitato preparato, agguerrito e in rapida crescita: il Comitato “Salviamo Città Studi”).

Il terzo soggetto, sempre più influente nella capitale della moda e del design, è ovviamente rappresentato dalle archistar, abilissime nel catturare il supporto osannante e martellante dei media. Quante volte abbiamo letto e visto, sui quotidiani più diffusi e in televisione, le meraviglie del Bosco Verticale dello studio Boeri e associati? Dal 12 al 17 giugno prossimi, è in programma a Milano la “Prima settimana dell’architettura”: una manifestazione ‘diffusa’ - come è d’obbligo oggi dichiarare, in ossequio al principio, più evocato che agìto, del rilancio delle periferie - guidata da Stefano Boeri, il quale ha dichiarato al Sole 24Ore: «C’è stato un cambiamento spettacolare della città – Prada, Feltrinelli, City Life (sic!), Porta Nuova (sic!) – ed è avvenuto con qualità elevate e in un periodo molto breve»(9).

E gli ‘urbanisti’? Salvo rare e qualificate eccezioni, sembrano una ‘specie in estinzione’, sempre al seguito del potere, e persino un po’ patetica nel rimpiangere, nel caso rarissimo in cui ciò rischi di verificarsi, le occasioni perdute: per la finanza immobiliare naturalmente(10).

Ciò che conta, insomma, per tutti gli attori sinteticamente evocati qui sopra, non è interrogarsi davvero sul futuro della metropoli lombarda, ma assecondare, sempre e comunque, decisioni prese altrove: nelle segrete stanze di chi decide della città col mero scopo di incrementare rendite e profitti privati.

Che cosa hanno guadagnato e possono guadagnare la città e la cittadinanza da tutte queste violente trasformazioni, al di là di uno skyline più ‘moderno’? Come si comportano in altri paesi più attenti ai beni collettivi? Può forse essere utile rammentare a tutti noi urbanisti, e soprattutto a chi decide del destino della città (perché di questo si tratta, considerando la rilevanza dei progetti di trasformazione in discussione), come si articola il processo decisionale relativo ai progetti negoziati di trasformazione urbana in Francia: un processo normato da leggi nazionali e periodicamente aggiornato sulla base delle trasformazioni economiche e politiche e di un costante affinamento critico.

Concluderò quindi questa mia riflessione con un cenno, sia pure sintetico e schematico, alle procedure, rigidamente strutturate, adottate in quel paese, per la realizzazione dei progetti di trasformazione urbana qualora si realizzino in deroga agli strumenti urbanistici vigenti e attraverso il partenariato pubblico/privato: attraverso le Zones d’Aménagement Concerté (ZAC).

Cosa è una ZAC. La procedura di Zac si applica a 3 categorie di interventi: viabilità primaria e secondaria; servizi pubblici di rilevanza locale e sopralocale; interventi del privato da immettere sul mercato (abitazioni, terziario,…); ma si prevede sempre anche una quota rilevante di HLM (abitazioni in affitto per gruppi a basso reddito).

I plusvalori fondiari e immobiliari devono essere ripartiti equamente fra pubblico e privato; mentre i costi delle infrastrutture e dei servizi pubblici sono completamente a carico del privato.

I vantaggi pubblici ottenuti con la procedura di ZAC, rispetto a quelli ricavati dalla fiscalità urbanistica ordinaria, sono elevati perché garantisce un recupero molto più significativo dei costi relativi alla realizzazione di servizi e infrastrutture grazie agli accordi su misura realizzati da un attore pubblico in posizione di forza (nella SEM, la società di economia mista che presiede a ogni ZAC, la partecipazione pubblica - fra il 51% e l’85% del capitale - garantisce che in seno al consiglio di amministrazione, di cui fanno parte anche gli amministratori locali, vi sia uno stretto controllo della corrispondenza del progetto agli interessi della collettività).

L’evoluzione della ZAC. Nel corso del tempo, la procedura della ZAC è più volte stata riformata in coerenza con le riforme urbanistiche nazionali.

1967: le ZAC vengono istituite con la «Loi d'orientation foncière» del 30 dicembre1967 (strumenti cardine della pianificazione urbanistica sono il POS - il nostro PRG- e lo SDAU - Schema direttore intercomunale). Le ZAC devono essere inquadrate dallo SDAU : devono cioè essere compatibili con le strategie indicate dal piano di area vasta.

1982/83: si approva la legge sul decentramento che conferisce ampia autonomia decisionale ai comuni anche in materia urbanistica. Lo SDAU diventa opzionale e, come conseguenza, le ZAC vengono ‘municipalizzate’. I Comuni ne faranno un uso disinvolto: grande fortuna dei progetti in deroga - più del 50% dei progetti realizzati negli anni ‘80 nelle maggiori agglomerazioni urbane; proliferazione eccessiva di ZAC di piccola dimensione promosse dalle amministrazioni locali che interpretano il decentramento in chiave deregolativa; spreco di risorse pubbliche dedicate al marketing territoriale, specialmente nei comuni di corona metropolitana afflitti dalla deindustrializzazione.

2000: con la riforma della legge urbanistica approvata dal governo Jospin (Solidarité et Renouvellement Urbain/ SRU del 13 dicembre 2000), vengono corrette alcune distorsioni verificatesi negli anni ’80/’90. La procedura di ZAC torna a essere subordinata a un quadro di coerenza territoriale complessivo predisposto dal piano direttore intercomunale (SCOT: Schéma de la Cohérence Territoriale), riformato in termini più cogenti rispetto allo SDAU; e agli obiettivi di fondo del riformato piano urbanistico comunale (PLU/Plan Locale d’Urbanisme).

La procedura di ZAC oggi. La realizzazione di una ZAC prevede due passaggi obbligatori attraverso i quali devono emergere con chiarezza e trasparenza i vantaggi pubblici offerti dal progetto: dossier de création; dossier de réalisation; inoltre, è fatto obbligo di realizzare in primo luogo i servizi e le infrastrutture pubbliche; successivamente si può procedere al completamento del progetto; la ZAC, una volta approvata, viene incorporata nel piano urbanistico comunale: il progetto, il suo mix funzionale non saranno più modificabili.

Dossier de Création. La legge SRU ha soppresso il PAZ (Plan d’aménagement de zone) sostituendolo con il PADD: Projet d’aménagement et de développement durable. Nel PADD il dossier de création deve essere costituito da: una relazione di presentazione del progetto; una valutazione di impatto ambientale corredata da una sintesi accessibile al più ampio pubblico; un piano particolareggiato con la precisa delimitazione dell’area; il modello finanziario e di attribuzione di competenze per la realizzazione delle opere; il regime fiscale prescelto (Taxe Locale d'Equipement – i nostri oneri di urbanizzazione - o regime di partecipazione negoziata: quasi sempre preferito); il cronoprogramma dei lavori. E’ inoltre obbligatorio attivare procedure di coinvolgimento pubblico (abitanti, associazioni, interessi organizzati). Quanto al perimetro: una ZAC può costituirsi in qualsiasi porzione del tessuto consolidato di un comune, se dotato di un POS o un PLU. Il dossier de création è approvato dall’organo deliberante dell’ente pubblico che ha preso l’iniziativa del progetto.

Dopo il dossier de création, si passa alla fase realizzativa. E’ necessaria la acquisizione al pubblico dei terreni, dato che il progetto richiede una ricomposizione delle parcelle e la realizzazione in primis di servizi e infrastrutture. L’«acte de création» ha dunque affetti sul regime fondiario, anche in assenza di un diritto di prelazione. I proprietari di suoli nelle aree sottoposte alla ZAC beneficiano di un «droit de délaissement» per la cessione delle loro proprietà (entro 1 anno). Se non si perviene a un accordo di cessione amichevole con la proprietà, si può ricorrere all’esproprio.

Dossier de réalisation. Definisce le condizioni economiche, tecniche e finanziarie necessarie per la progettazione e l’infrastrutturazione della ZAC. Approvato dall’organo deliberante della collettività locale, o dal Prefetto, deve essere sottoposto a procedure di evidenza pubblica, così come il dossier de création. Con la SRU, il dossier de réalisation ha assunto un peso rilevante. Deve infatti includere: il progetto dettagliato dei servizi pubblici da realizzare; il programma complessivo delle nuove costruzioni; la previsione delle modalità di finanziamento. Queste ultime sono indicative, devono essere spalmate nel tempo, devono essere basate su una realistica ipotesi previsionale di entrate e spese.
Le spese di acquisizione e aménagement dei terreni devono in linea di principio essere compensate dalle entrate ottenute dalla vendita dei lotti costruiti. Si devono evidenziare gli impegni rispettivi degli operatori privati e quelli a carico della amministrazione locale, oltre che i rischi eventuali per quest’ultima. Quanto alle modalità di realizzazione di una ZAC, l’amministrazione locale può realizzare direttamente il progetto, assumendosene i rischi finanziari; oppure ricorrere alla Concession d’Aménagement, che è il modello preferito: chi realizza possono essere delle agenzie pubbliche, delle strutture ibride come le SEM o delle imprese private

In estrema sintesi, tutti i grandi progetti di rigenerazione urbana sono in Francia affidati a una salda e inaggirabile (incontournable) regia pubblica e a processi di coinvolgimento civico strutturati e continui. Niente dunque hanno a che vedere con le effimere, pubblicitarie e opache iniziative milanesi che vengono promosse per legittimare (e velocizzare) le decisioni in merito ai progetti di trasformazione/rigenerazione urbana.

Forse gli amministratori pubblici di ‘eventopoli’, della sedicente ‘metropoli globale milanese’, dovrebbero guardarsi un po’ attorno, anziché continuare ad assecondare, con il supporto dei loro corifei, la privatizzazione delle politiche urbanistiche e, quindi, della città.

note

1) E’ del 21 aprile il suo sostegno alla manifestazione in favore del consumo libero di marjuana!
2) Si veda a questo proposito la critica ironica e puntuale di Marianella Sclavi, “Piano di Governo del Territorio: casalinga di Voghera dove sei? L’apprendista stregone nel castello dei questionari”, arcipelagomilano.org, 4 aprile 2017.
3) Il questionario è stato pubblicato sul sito del Comune di Milano il 27 marzo; termine ultimo per le risposte il 14 aprile!
4) Una gaffe dell’ufficio stampa del Comune di Milano, il quale il 3 aprile pubblica un post in cui si scrive che è l’amministrazione ad “aver selezionato” i cinque studi di architettura che stanno propinando ai milanesi le visioni progettuali per gli scali ferroviari. Subito dopo, alla domanda di un lettore attento (“ma i progetti non sono stati elaborati per un committente esterno, vale a dire la FS Sistemi Urbani?”), l’ufficio stampa censura la frase incauta, con tante scuse!
5)“MAD architects will construct Scalo Porta Genova for events, performances, and markets to encourage social interaction”. Si veda Carodine V. (2017), “Scali Milano, MAD Architects”, Architects, Journal of the American Institute of Architects, 12 aprile.
6) Perché di questo oggettivamente si tratta: anche quando sono gli attori pubblici i proprietari delle aree, è la logica speculativa che prevale – esempio paradigmatico l’uso e il riuso delle aree dedicate all’EXPO.
7) Arexpo s.p.a. è partecipata da Fondazione Fiera Milano con una quota del 27,66%, Comune di Milano e Regione Lombardia, che detengono ciascuno il 34,67%. Quote minori sono possedute dalla Città Metropolitana di Milano (2%) e dal Comune di Rho (1%).
8) Vago gode inoltre del pieno sostegno del governo regionale; infatti, ha nominato nell’aprile 2016 come direttore amministrativo dell’Università Statale, Walter Bergamaschi, già direttore generale dell’assessorato alla Sanità.
9) Luca De Biase, “La città del futuro possibile”, Il Sole24Ore, 16 aprile 2017.
10) Si veda al proposito la riflessione preoccupata e volutamente banale di Federico Oliva su arcipelagomilano.org del 20 settembre 2016 dal titolo “Scali ferroviari: il meglio è nemico del bene. Non buttare via il lavoro fatto”. Si tratta di una riflessione critica in merito all’intenzione espressa dalla giunta Sala appena insediata di rivedere l’ADP sugli scali ferroviari bocciato dal consiglio comunale precedente, che termina con questa frase a dir poco di ovvia saggezza e sconfinata furbizia: “Concludendo, non vorrei che alla fine di un lungo e faticoso percorso, il presunto meglio (tutto ancora da definire) fosse nemico del bene, come spesso accade nelle vicende urbanistiche nostrane”.





















il Sole24ore, 4 maggio 2017 (p.s.)

Il ddl Concorrenza approvato ieri dal Senato della Repubblica con il voto favorevole dell'aula (158 favorevoli contro 110 contrari) sulla questione di fiducia posta sul maxi-emendamento presentato dal Governo ha introdotto con gli articoli 176 e 177 la modifica all'articolo 68 del Codice dei Beni culturali (Codice Urbani 2004) sulla circolazione internazionale delle opere d'arte.

L'articolato ai commi 176 e 177 recepisce l'emendamento Marcucci 3, che modifica la temporalità del vincolo cioè della dichiarazione di interesse culturale da parte del Ministero dei Beni culturali, attraverso il Direttore Regionale e la Sovrintendenza. Per favorire la circolazione dell'arte contemporanea, la soglia temporale per il vincolo delle opere in possesso di privati, infatti, viene spostata da 50 a 70 anni dalla data della creazione dell'opera in caso di artista defunto (nelle norme Ue sono 100 anni e la Germania ha appena introdotto i 70 anni), pur garantendo la possibilità al Ministero di vincolare anche le opere di oltre 50 anni e di autore non più vivente, se d'interesse culturale eccezionale per il patrimonio italiano. Infatti in caso di autocertificazione finalizzata all'esportazione di un'opera, il competente Ufficio Esportazione può dichiarare l'interesse culturale nel termine perentorio di 60 giorni dalla presentazione della dichiarazione.

Il valore dell’arte. La riforma introduce le soglie di valore, pari a 13.500 euro, anche in Italia come in Europa al di sotto delle quali i beni culturali e anche le opere con più di 70 anni e di autore non più vivente potranno uscire dall'Italia liberamente, sulla base di una autocertificazione: questo significa che gli uffici esportazione e i collegati uffici delle soprintendenze dovranno sapere valutare la congruità del valore delle opere dichiarato in uscita dal nostro paese.

Sebbene i promotori abbiano insistito per l'adeguamento alle soglie già previste dal Regolamento (CE) n. 116/2009, il Ministero, cautamente, ha propeso per l'introduzione di una soglia unica per le diverse categorie di beni culturali di € 13.500, di molto inferiore alle soglie previste dal Regolamento (CE) n. 116/2009. Infatti la soglia dei 13.500 euro rappresenta il valore più basso in Europa: in Francia per i dipinti è di 150mila euro, 180mila sterline nel Regno Unito e 300mila euro in Germania, naturalmente dall'applicazione della soglia restano esclusi reperti archeologici, archivi, incunaboli e manoscritti.

I criteri. La riforma assegna al Mibact entro 60 giorni dall'entrata in vigore del ddl la revisione con decreto dei criteri previsti dalla Circolare del 1974 per le esportazioni ed estensione degli stessi criteri per le dichiarazioni di interesse culturale (c.d. notifica); e introduce un “passaporto” per le opere su modello francese, di durata quinquennale, per agevolare l'uscita e il rientro delle stesse nel e dal territorio nazionale.
«La norma favorisce la circolazione all'estero delle opere non vincolate nel pieno rispetto della tutela del nostro patrimonio e introduce misure come il passaporto e il registro informatico» aveva scritto giorni fa il ministro della cultura Dario Franceschini. «La nuova disciplina lascia inalterato il sistema di tutela del patrimonio culturale di proprietà privata che continuerà a richiedere, per poter vincolare un'opera, la sussistenza di un interesse culturale particolarmente importante e la piena autonomia tecnico scientifica dell'amministrazione nel riconoscerlo».

I promotori. La proposta di riforma sulla disciplina della circolazione dei beni culturali promossa dal Progetto Apollo è stata approvata l’8 giugno 2016 dalla Commissione Industria del Senato e inserita nell'emendamento n. 52.0.46, testo 3, a firma di Marcucci, Scalia, Fabbri, Lanzillotta, Valentini, (c.d. emendamento “Marcucci-ter”) al disegno di legge n. 2085/2016 (Legge annuale per il mercato e la concorrenza), discusso e approvato ieri in aula al Senato.

Il testo dell'emendamento è il risultato di un lungo confronto (e mediazione) tra i promotori del Progetto Apollo e numerosi esponenti delle principali forze politiche, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nonché il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo (MiBACT).

Le critiche. Ma non tutti son d'accordo sul nuovo articolato: durante la discussione in aula ci sono stati interventi critici sulla riforma della circolazione dei beni culturali da parte dei senatori Michela Montevecchi (M5S), Miguel Gotor (MDP, i “fuoriusciti dal PD”) e Walter Tocci (PD).
«Gravi profili di criticità, favoriscono i mercanti d'arte e le case d'asta, ma diminuiscono le tutele e le protezioni dei beni culturali di origine privata che sono ridotti al loro solo valore di mercato» ha dichiarato in una nota Miguel Gotor (Mdp), auspicando che la Camera «possa correggere e migliorare quanto deliberato dal Senato sotto il vincolo della fiducia».

Critico anche il Movimento 5 Stelle che scrive sul sito: «Il PD ha usato il ddl Concorrenza per indebolire i vincoli che sino ad oggi hanno permesso di tutelare le nostre opere d'arte, in particolare quelle del Novecento, e di non svenderle all'estero». Anche Italia Nostra il mese scorso aveva lanciato un appello « per non svendere la cultura italiana».

Resta ora l'ultima lettura, di mera ratifica, da parte della Camera dei Deputati, che ha già inserito il ddl nel calendario di massima dell'aula a partire dal 29 maggio prossimo.

Demolire la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa mussoliniana capace di risolvere i problemi di traffico in alternativa alla via dei Fori imperiali, impedisce di smontare quest'ultima e perciò di realizzare il progetto Fori.

Stanno demolendo la via Alessandrina. È il colpo di grazia al Progetto Fori, la più straordinaria proposta di rinnovamento dell’urbanistica romana messa a punto fra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta del secolo scorso. Il progetto consiste, in primo luogo, nell’eliminazione della via dei Fori Imperiali, la strada voluta da Benito Mussolini, “dritta come la spada di un legionario”, per collegare piazza Venezia al Colosseo e, sul piano retorico, per collegare l’impero romano al nascente impero fascista.

La prima idea di eliminare la strada era stata di Leonardo Benevolo che, in un libro del 1971, aveva suggerito di cancellare tutte le manomissioni operate ai danni del centro storico di Roma dopo l’unità d’Italia. Fu poi l’allora soprintendente archeologico Adriano La Regina che, nel denunciare i danni prodotti dal traffico ai monumenti romani, propose prima di eliminare le auto dalla via dei Fori Imperiali e subito dopo di demolire la stessa strada. La proposta fu raccolta dal sindaco Giulio Carlo Argan, da Antonio Cederna, Italo Insolera e da un grande numero di studiosi e intellettuali non solo italiani.

Ma a imporre il Progetto Fori al centro del dibattito politico, urbanistico e culturale fu l’elezione a sindaco nel settembre 1979 di Luigi Petroselli, quando Argan si dimise. L’esordio di Petroselli sui problemi dell’archeologia fu lo smantellamento di via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il Comune eliminò il piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. L’azione di Petroselli era collocata in uno spazio politico-concettuale più ampio di quello urbanistico e cioè di accorciare le distanze fra il mondo marginale delle periferie e la città riconosciuta come tale, e perciò voleva che anche la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi e dei ceti borghesi ma di tutto il popolo di Roma, anche quello più sfavorito. Perciò l’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore nel febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stesso clima festoso dell’Estate romana.

Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciarono a morire il Progetto Fori e l’immaginazione al potere. Con la scomparsa del sindaco, veli sottili di opportunismo e di circospezione avvolsero lentamente il progetto, i tempi si prolungarono all’infinito. Il parco archeologico centrale a mano a mano ha perso senso. In verità tutti gli amministratori degli ultimi trent’anni hanno continuato a evocare il Progetto Fori, che non aveva però più niente a che fare con l’idea geniale e originaria di Adriano La Regina, Antonio Cederna e Luigi Petroselli di demolire la strada fascista e ricostituire l’unitarietà dell’area archeologica (Foro Romano e Fori Imperiali), non più intesa come monumento né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come spazio pedonale nel cuore della città moderna.

Non è possibile adesso – in questo momento di emergenza determinato dallo smantellamento della via Alessandrina, mentre è in corso una mobilitazione di intellettuali – riprendere il dibattito sui necessari aggiornamenti all’originario Progetto Fori. Interessa solo ricordare che negli ultimi anni si è realizzata un’ampia convergenza sul fatto che nulla impedisce di mettere mano allo smontaggio della via dei Fori Imperiali, sapendo che per le esigenze transitorie di ordine logistico fra piazza Venezia e largo Corrado Ricci si può utilizzare la via Alessandrina, la via Alessandrina, l’unica strada storica sopravvissuta alla tabula rasa voluta da Benito Mussolini. Che oggi la sindaca Raggi e il ministro Franceschini stanno cancellando. Definitivamente cancellando il Progetto Fori e la più bella idea per l’urbanistica di Roma da quando è capitale d’Italia.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto


Dalla miseria intellettuale dei ricchi mercanti costosi schiaffi alla miseria materiale del mondo. «Mostre, installazioni e performance nell’intensissima settimana della vernice Dalla gigantografia di 135 metri quadrati sui migranti al breakfast alla A Plus A». la Nuova Venezia online, 4 maggio 2017

VENEZIA. All’ombra generosa della Biennale arriverà il diamante più raro del mondo, di colore lilla e del valore di due milioni di euro, montato su un anello dal nome che pare quello di un sommergibile - LILAC TI22 - pezzo fortissimo della mostra “Antipode” alla Fondazione Querini Stampalia per soli cinque giorni, dal 9 al 13 maggio.
All’ombra (anche) godereccia della Biennale, l’arte sarà cucinata, servita e mangiata direttamente in galleria, alla A plus A, dove, dal 10 al 12 maggio, dalle 10 alle 12, “The Breakfast Pavillon” offrirà la prima colazione insieme agli artisti Olaf Nicolai, Anne Sophie Berger e Nicole Wermers.
Ogni scusa sarà buona per imbastire mostre, inventare happening, creare eventi, suggerire performance, esibire artisti, invitare gente e sperare di essere invitati, nel delirio che accompagnerà l’apertura della 57 esima Esposizione Internazionale d’Arte (10, 11 e 12 maggio la vernice, cerimonia di premiazione e inaugurazione sabato 13), massima rappresentazione di cultura che si fa salotto, estro e futuro, tutto insieme.
Fioriranno così cose curiose come “Univers” di Flavio Favelli, dall’8 al 14 maggio, un negozio metafisico in Fondamenta Sant’Anna, a Castello; o rassegne che hanno titoli da romanzo, come “Sono stato rapito centinaia di volte” dell’artista Gosha Ostretsov che evidentemente nel frattempo è stato rilasciato visto che lunedì 8 sarà nel giardino di Palazzo Nani Bernardo a ricevere i suoi ospiti.

All’ombra (anche) godereccia della Biennale, l’arte sarà cucinata, servita e mangiata direttamente in galleria, alla A plus A, dove, dal 10 al 12 maggio, dalle 10 alle 12, “The Breakfast Pavillon” offrirà la prima colazione insieme agli artisti Olaf Nicolai, Anne Sophie Berger e Nicole Wermers.
Ogni scusa sarà buona per imbastire mostre, inventare happening, creare eventi, suggerire performance, esibire artisti, invitare gente e sperare di essere invitati, nel delirio che accompagnerà l’apertura della 57 esima Esposizione Internazionale d’Arte (10, 11 e 12 maggio la vernice, cerimonia di premiazione e inaugurazione sabato 13), massima rappresentazione di cultura che si fa salotto, estro e futuro, tutto insieme.

Fioriranno così cose curiose come “Univers” di Flavio Favelli, dall’8 al 14 maggio, un negozio metafisico in Fondamenta Sant’Anna, a Castello; o rassegne che hanno titoli da romanzo, come “Sono stato rapito centinaia di volte” dell’artista Gosha Ostretsov che evidentemente nel frattempo è stato rilasciato visto che lunedì 8 sarà nel giardino di Palazzo Nani Bernardo a ricevere i suStrariperà, esonderà e occuperà un intero campo la più grande immagine mai esposta in laguna - 135 metri quadrati - del fotografo francese Gérard Rancinan, già vincitore di sei World Press Awards e protagonista della mostra “Revolution” negli spazi di Bel Air Fine Art vicino alla Guggenheim. Una fotografia sul tema dei migranti che, sorvolata da un drone, sarà srotolata l’11 alle 11, e si annuncia come pugno nello stomaco.

Tra un padiglione e un invito, s’intrecceranno cose delicate, come la mostra “Veni Etiam, Naturalia e Mirabilia”: il sogno dell’antico sapere - inaugurazione alle 18 del 9 maggio - in parte nello Studio Mirabilia di Gigi Bon, a San Samuele, e in parte in vetrina alla libreria Lineadacqua. O come le sculture fatte con corda di canapa e stoppa dell’artista Laura Rambelli che il 9 maggio, dalle 15 alle 18.30, al Museo Andrich di Torcello, sotto il titolo “Fatalità” si esibirà in una performance con la musica di Naomi Berrill e i costumi di Ilaria Biggi.

E ancora la mostra di Luca Campigotto “Iconic China” a Palazzo Zen, dal 10 maggio; l’installazione “Evocative Surfaces” di Beverly Barkat a Palazzo Grimani, con preview il 9; la mostra “Le Désir” alla Galerie Alberta Pane che inaugura il 12; i tappeti per “Woven Forms” a Palazzo Benzon, dal 9 maggio.

Poi c’è l’arte che si conta: le sette monumentali opere del giapponese Kan Yasuda adagiate sul praticello all’inglese dell’Aman Venice dal 10 maggio; i 650 tubi in alluminio di Emil Lukase e gli 8.500 aquiloni neri di carta e bambù di Jacob Hashimoto dal 12 maggio a Palazzo Flangini, aquilone più aquilone meno.

Strariperà, esonderà e occuperà un intero campo la più grande immagine mai esposta in laguna - 135 metri quadrati - del fotografo francese Gérard Rancinan, già vincitore di sei World Press Awards e protagonista della mostra “Revolution” negli spazi di Bel Air Fine Art vicino alla Guggenheim. Una fotografia sul tema dei migranti che, sorvolata da un drone, sarà srotolata l’11 alle 11, e si annuncia come pugno nello stomaco.
Tra un padiglione e un invito, s’intrecceranno cose delicate, come la mostra “Veni Etiam, Naturalia e Mirabilia”: il sogno dell’antico sapere - inaugurazione alle 18 del 9 maggio - in parte nello Studio Mirabilia di Gigi Bon, a San Samuele, e in parte in vetrina alla libreria Lineadacqua. O come le sculture fatte con corda di canapa e stoppa dell’artista Laura Rambelli che il 9 maggio, dalle 15 alle 18.30, al Museo Andrich di Torcello, sotto il titolo “Fatalità” si esibirà in una performance con la musica di Naomi Berrill e i costumi di Ilaria Biggi.

Questi industriali nostalgici! Per contrastare un'opera dannosa e devastante adoperano contro chi protesta un linguaggio che usavano i nazisti contro i partigiani. Il Sole 24Ore, 27 aprile 2017, con riferimenti

È ormai guerriglia attorno al cantiere del gasdotto Tap a Melendugno, nel Salento. Sebbene non ci siano lavori in corso, nè espianto di ulivi, poiché quest’ultima operazione è stata completata nei giorni scorsi, si susseguono attacchi e azioni vandaliche. Tap ha infatti denunciato che la scorsa notte «per l’ennesima volta si è svelato il volto violento del gruppo che dal cosiddetto presidio NoTap cerca di imporre contro le leggi dello Stato quella della giungla, della prevaricazione, dell’aggressione. Per più di un’ora – denuncia la società – è stato impedito il cambio turno delle guardie giurate che vigilano sul cantiere e quelle rimaste intrappolate nell’area recintata sono state fatte ripetutamente oggetto di lanci di sassi che fortunatamente non hanno colpito le persone causando però danni alle automobili di servizio. Il gruppo di scalmanati – rileva Tap – ha pesantemente insultato e minacciato i lavoratori presenti, mentre altri, con arnesi professionali provvedevano a tagliare ben 35 grate della recinzione, 5 delle quali sono state rimosse e rubate». «Chiediamo alle istituzioni locali di fare il possibile per assicurare un presidio di legalità nel territorio» sollecita Tap.

L’episodio ultimo è l’ennesimo di una serie. Domenica scorsa, infatti, per consentire che un’autobotte innaffiasse gli ulivi espiantati e sistemati nella stessa area di cantiere con una soluzione provvisoria, al contrario degli altri rimessi a dimora a masseria del Capitano, è stata necessaria la scorta dei Carabinieri e della Polizia locale di Melendugno perché il presidio No Tap impediva l’accesso e anche lo svolgimento di una semplice operazione finalizzata ad assicurare il mantenimento degli alberi. E appena qualche giorno prima era stato necessario l’impiego di un centinaio di poliziotti e delle ruspe per effettuare gli ultimi espianti nell’area del microtunnel del gasdotto, tutti lavori per i quali Tap non solo è autorizzata ma s’è vista riconoscere la regolarità anche dal Tar. Ruspe resesi necessarie per abbattere le barricate stradali, parte delle quali fatte anche con le pietre portate vie dai muretti a secco della campagna. Senza trascurare, infine, che lo stesso espianto dei 211 ulivi, anche se provvisorio, nelle scorse settimane è stato possibile solo perché le forze di polizia hanno massicciamente presidiato l’area evitando che le proteste accese degenerassero in scontri

riferimenti
sull'argomento vedi su eddyburg i seguenti articoli: TAP Mafia e soldi sporchi dietro il gasdotto, da l'Espresso, 1 aprile 2017, Montanari: l'Italia del No è la migliore, da Micromega, 15 aprile, La lunga storia dell'opposizione, da Lettera43, 23 aprile 2017, Sul gasdotto l'OK del Consiglio di Stato, da la Repubblica, 28 marzo 2017

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