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Sarebbe davvero una brutta notizia avere la conferma che un'amministrazione di grande saggezza, meritevole di avere per la sua città il riconoscimento di Capitale della cultura, fosse costretta a dismettere il vistoso patrimonio culturale perunaltracitta.org, 28 maggio 2017

Sono più di un centinaio gli immobili che il Comune di Pistoia ha messo in vendita con il cosiddetto “Piano delle alienazioni e delle valorizzazioni immobiliari”. È sorprendente notare come, con grande disinvoltura, questa amministrazione si sbarazzi di beni che hanno una straordinaria rilevanza storico architettonica, dall’ex Convento di San Lorenzo a parte del complesso delle ex Crocifissine al fabbricato delle ex Scuole Leopoldine. Per non dimenticare poi Villa Benti in piazza San Lorenzo, Villa Baldi Papini in Via dei Pappagalli e il bell’edificio in Via Desideri, angolo Viale Petrocchi. A queste, vanno aggiunte le alienazioni previste dalla Regione, e approvate dal Comune, dell’ex ospedale psichiatrico delle Ville Sbertoli, del Padiglione Lazzereschi e dell’ex Convento di Santa Maria delle Grazie nell’area dell’ex ospedale del Ceppo.

È una parte cospicua del nostro patrimonio culturale che letteralmente potrebbe andare in fumo se le dissennate previsioni dei nostri amministratori avessero un seguito: fatto decisamente grave, tanto più nell’anno in cui Pistoia è stata designata Capitale italiana della cultura! «Una vera capitale della cultura – dice Tomaso Montanari – deve saper guardare lontano: oltre il pensiero unico del presente, oltre la vetrina del marketing». Non crediamo di esagerare se indichiamo il pericolo di una desertificazione culturale e storica della nostra città, del nostro territorio, visto che la sciatteria amministrativa non riesce ad andare oltre l’orizzonte del solito investimento speculativo formato albergo di lusso, residenze di pregio e via discorrendo. Il patrimonio storico e culturale non è del sindaco, appartiene a ogni cittadino, di oggi e di domani, nato o immigrato in Italia, e non può essere dilapidato proprio da coloro che ne dovrebbero essere gli attenti e consapevoli custodi.

Nel Piano delle alienazioni sono inserite anche numerose aree agricole, aree industriali nella zona di Sant’Agostino oltre a numerosi alloggi (una ventina circa), al Complesso “Abetina” (Ecomuseo del ghiaccio) e numerosi lavatoi, alcuni con terreni annessi, sparsi in tutto il territorio comunale. Scopriamo anche che sono in vendita numerose proprietà con una destinazione pubblica, dallo Stadio comunale al Palazzetto dello sport, alla sede dell’Ufficio Tecnico in Via dei Macelli, ben quattro Scuole elementari e tanto altro. Insomma un ampio repertorio immobiliare che farebbe invidia a qualsiasi fondo speculativo internazionale.

A questo ingente patrimonio il Comune ha affiancato le proprietà trasferite dal Demanio statale in seguito al cosiddetto federalismo fiscale. Tra queste spicca l’area dell’ex Tiro a segno, dello splendido lavatoio con terreno annesso di Ponte di Gello, e altri terreni e alloggi. È bene essere molto vigili su queste proprietà perché, se non dovessero essere attuate entro tre anni le destinazioni con le quali il Comune ha giustificato il trasferimento, potrebbero anch’esse essere vendute, visto che al Comune resterebbe ben il 75% del prezzo di vendita: un’occasione difficile da rifiutare. È un vero e proprio attacco ai beni comuni della città che conferma la resa, di questa amministrazione di centro sinistra, allo sfruttamento speculativo del nostro patrimonio collettivo, dei nostri beni culturali, destinati a trasformarsi in “liquidità” pronta ad evaporare al primo stormir di foglie delle crisi finanziarie.

Allora, cosa fare? Aspettare che si attui l’assalto alla diligenza con la conseguente estinzione delle proprietà e, soprattutto, delle funzioni collettive? Riteniamo che il patrimonio comunale non debba essere venduto e comunque, se proprio fosse necessario, prima di alienarlo debba essere gestito nel migliore dei modi. Attualmente il Comune non possiede un servizio destinato a questo scopo: proponiamo quindi
- la revisione del Piano delle alienazioni,
- la contrattazione con le eventuali controparti di scelte già in essere a partire dalla constatazione che - la decisione ultima relativa alle destinazioni degli immobili spetta al Comune, la cui volontà non è subordinata a nessuna forma di pressione se non a quella di operare nell’interesse della collettività,
l’istituzione di un Ufficio di Gestione del patrimonio disponibile che faccia da filtro e selezioni in maniera rigorosa gli immobili da vendere sulla base di scelte seriamente motivate.

Non siamo ingenui, sappiamo che parte del patrimonio pubblico è malmessa, che servono risorse economiche attualmente non disponibili. Ma sappiamo anche che la gestione di parte di esso può essere affidata, a costi ridotti, sia all’autorecupero, sia al cosiddetto privato sociale e al terzo settore, sia agli stessi privati ai quali si offre un’occasione di giusto profitto, ma non di speculazione e privatizzazione del bene.

Per esempio, l’offerta di aree agricole e industriali non può essere messa a disposizione di start up giovanili, di un’imprenditoria sociale che privilegi le produzioni locali? I numerosi terreni e lavatoi non potrebbero essere affidati, dopo averne verificato lo stato di conservazione, alle comunità locali per creare occasioni di attrazione culturale e turistica proprio sulla base di una riscoperta di una architettura e di una storia minore, ma non per questo meno significativa? Gli alloggi in vendita non potrebbero essere affidati in autorecupero, previsto dalla Regione Toscana, a cooperative sociali o a giovani coppie per affrontare l’emergenza abitativa così tanto grave a Pistoia? Il sito dell’Ecomuseo del ghiaccio deve essere venduto? Non è possibile prevederne forme di recupero? Si tratta solo di avere lo spessore culturale e la volontà politica di affrontare in maniera inclusiva le questioni che si pongono.

A questo proposito Tomaso Montanari sostiene: «La religione del mercato sta imponendo al patrimonio culturale il dogma della privatizzazione. Ma se l’arte e il paesaggio italiani perderanno la loro funzione pubblica, tutti avremo meno libertà, uguaglianza, democrazia. L’alternativa è rendere lo Stato efficiente. Ma non basta: dobbiamo costruire uno Stato giusto».

Noi aggiungiamo: dobbiamo costruire un Comune giusto.

«Dalla Brexit ai voti per Trump e Le Pen: radiografia di un mondo diviso tra chi vive nei grandi centri e chi si sente escluso».  Articoli di Marc Augé , Marino Niola e Joseph Rykwert, Carlo Olmo, Ross Douthat, Fabrice Lardreau, Marco Belpoliti, Richard Burnett. la Repubblica, Robinson, 28 maggio 2017 (c.m.c)

NON SENTIRSI AL CENTRO

di Marc Augé
«Il mondo diventa una città globale e l’accesso non è uguale per tutti. Ecco perché la vera divisione non è geografica: è tra i privilegiati e gli esclusi»

Oggi usiamo i termini“ CENTRO” E “ PERIFERIA” sia per parlare della città che per riferirci al mondo. In entrambi i casi, questi termini sono estremamente problematici. In relazione alla città, nella sua accezione sociale, la periferia può occupare delle parti del “ centro” e, nello stesso tempo, vediamo che, per quanto riguarda il mondo, compaiono dei nuovi “ centri”. Parallelamente, è spesso nelle “ periferie” urbane che si concentrano delle iniziative culturali ed è lì che vanno a risiedere persone che appartengono alla borghesia benestante. Inoltre, bisogna considerare quella forma di privatizzazione degli spazi urbani da parte delle élite che avviene quando queste si chiudono in cittadelle protette o in quartieri separati. E ancora: da un lato aumentano gli spazi di consumo, di circolazione, di comunicazione, dall’altro non tutti possono usufruirne allo stesso modo.

Per questo la definizione di “centro” e “periferia” è sempre più complessa. Politicamente è stata utilizzata in questo ultimo anno per spiegare la vittoria del “Leave” nella Brexit, il successo di Trump e i milioni di voti a Marine Le Pen: siamo colpiti dal fatto che, in questi tre casi, sono le masse popolari quelle che si sono espresse. Proprio per questo si potrebbe ancora fare riferimento allo schema proposto da Paul Virilio tra il globale che rappresenta l’interno del sistema e il locale che è l’esterno: potremmo dire che è l’esterno del sistema a essersi espresso, il locale che protesta contro il sistema globale votando contro le “élite”.

Per tutte queste ragioni oggi sarebbe meglio evitare un linguaggio unicamente “spaziale” o “geografico” e parlare piuttosto di privilegiati ed esclusi, perché sono categorie che si lasciano scomporre: siamo più o meno privilegiati o più o meno esclusi. In questo senso gli esclusi sono poveri in un mondo che celebra la ricchezza: è l’immagine della città nel suo centro glorioso che nutre l’opposizione città/non città.

Non dobbiamo dimenticarci che la grande città è stata il luogo delle utopie ( per esempio, Le Corbusier) e rimane tale nella misura in cui l’intero pianeta si urbanizza. L’ideale però si è scontrato con la realtà e con le incapacità: la crescita demografica ha condannato i progettisti urbani all’improvvisazione e le politiche ( o le non politiche) sociali hanno lasciato che si creassero delle zone di esclusione. Le città europee hanno generalmente un passato urbano monumentale molto ricco e non hanno mai osato liberarsene. I grattacieli parigini non hanno la bellezza e la forza di quelli di New York o Chicago. Gli esperimenti architettonici più innovativi non si realizzano in Europa, ma in Asia o in Medio Oriente.

Tra un secolo o due il mondo sarà diventato come una sola grande città. Per questo ci serve la definizione di città globale: il pianeta si urbanizza molto rapidamente e i pannelli che consultiamo negli aeroporti evocano sempre più quelli delle stazioni ferroviarie o perfino della metropolitana. Per i privilegiati questo è già accaduto: il mondo è un luogo dove si orientano bene e lo considerano come una città in scala planetaria. Ma non tutti hanno lo stesso accesso alle cose. Dunque da un lato si produce omologazione ma dall’altro diversità. Ed è questo a produrre le contraddizioni che stiamo vivendo.

La sfida che dobbiamo affrontare è proprio questa: il mondo si unirà solo se si democratizza nello stesso momento in cui si urbanizza. Ma il mondo si urbanizza riducendo le diseguaglianze. La storia ci mette il suo tempo, ma progressivamente riguarderà tutti gli esseri umani urbanizzati. Il senso della cosa comune non si è perso, ma deve allargarsi. Nel dirlo, so che sto considerando una scala temporale lunga: forse alcuni secoli, ma la storia corre più in fretta!

La METAFORA
DEL GRATTACIELO

di Marino Niola e Joseph Rykwert

«Lloyd Wright ne sognava uno alto un miglio. A Jedda sarà “solo” di mille metri La corsa a costruire i giganti urbani, simbolo dello squilibrio»

Una città non è mai una mera realtà fisica. È sempre una forma simbolica che incarna la visione del mondo di chi l’ha costruita nel tempo e di chi continua incessantemente a ricostruirla. Molte città antiche nascevano a immagine di un ordine celeste che veniva tradotto in disegno politico-religioso. Le metropoli contemporanee, invece, sono l’immagine spaziale della speculazione finanziaria, il business che prende forma urbana. Come dire che gli edifici sparati verso il cielo dalle archistar traducono in edilizia il sogno della crescita infinita.

Già la prima archistar moderna, Frank Lloyd Wright, proponeva nel lontano 1957, un grattacielo alto un miglio, la bellezza di 1600 metri. Il solo disegno era lungo sette metri! Ma c’è voluto più di mezzo secolo perché quest’idea diventasse realtà a opera dei finanziatori sauditi, che hanno deciso di investire a Jedda, punto di sbarco per i pellegrini della Mecca. Gli ingegneri, però, hanno ridimensionato quel sogno, limitando l’altezza della torre che buca il cielo a un solo chilometro. Duecento piani, cinquanta già costruiti. Ma la storia ci insegna che spesso queste ambizioni prometeiche hanno le gambe corte. Come è accaduto nel caso del Burj Khalifa a Dubai, che attualmente guida la hit dell’altezza abitabile. I lavori sono iniziati in un clima di ottimismo ma si sono conclusi in piena crisi finanziaria. E ancora prima il celebre caso dell’Empire State Building e del Chrysler di New York, incappati nel terribile crash del 1929. Viene da chiedersi se la torre di Jedda non finisca come quella di Babele, presagio di un altro disastro.

L’ingombrante struttura di questo colosso ostacola qualsiasi rapporto fisico con l’ambiente circostante. Le stesse presentazioni lo mostrano isolato e circondato, a distanza, da edifici infinitamente più bassi. Il mondo intero è tutto un pullulare di grattacieli ipertrofici: come la Torre Shanghai e il vicinissimo World Financial Centre, o le due torri Petronas a Kuala Lumpur e tante altre. Il risultato di questi enormi investimenti edilizi è una pletora di immensi palazzi di vetro e acciaio che fanno da vetrina lussuosa ed esclusiva ai marchi globali. Un’aura urbana scintillante e noiosamente uguale dappertutto. E nel contempo le politiche di molti Paesi, in particolare quelle cinesi, promuovono un’espansione urbana ipertrofica svuotando le campagne mentre delocalizzano l’agricoltura accaparrandosi immense distese di terra in altri continenti, soprattutto in Africa. Di fatto stiamo assistendo a una nuova forma di colonialismo.

In questo modo le città diventano emblemi di una mondializzazione economica e culturale che ha le sue nuove acropoli nei centri sempre più scintillanti e ostaggio delle multinazionali. Gli scarti vengono nascosti in anomici retrobottega della tarda modernità: che sono le periferie degradate e anche i Paesi-margine, discariche dove si concentra la tossicità planetaria, ecologica e sociologica.

In questo orizzonte oscuro si intravedono però barlumi di speranza. Qualche esempio: in Russia il collasso dell’agricoltura collettiva ha stimolato la crescita di imprese locali, persino familiari, dando vita anche a nuovi sistemi di distribuzione. Nei Paesi dell’Africa orientale, soprattutto in Kenya, cresce un’economia agricola di piccola scala, legata a un efficiente sistema di rifornimento delle città. Mentre in Ghana e in alcuni stati dell’America Latina si stanno affermando movimenti di self- help e di self- build. Sono modelli di sharing life che si diffondono anche in Italia. E vengono insegnati persino in certe scuole di architettura.

Flebili germogli di culture locali, eccezioni in uno scenario caratterizzato da una crescente carenza di risorse alimentari, conseguenza diretta dell’aggiotaggio di terre coltivabili da parte delle superpotenze. Forse l’unico antidoto per scongiurare questa minaccia apocalittica sarebbe di ritrovare, dov’è ancora possibile, un equilibro tra le città e i loro territori, prima che la proliferazione urbana diventi un flagello, una no man’s land dell’umano, una città di Caino. Che, non va mai dimenticato, è stato il primo fondatore di città.

CENTO SFUMATURE
DI PERIFERIA

di Carlo Olmo

«La città non è bipolare: il centro è diventato una scena teatrale allestita per il turismo, ma il resto del tessuto urbano è attraversato da molte identità»

Imbottigliato in un pomeriggio qualunque di un qualunque giorno feriale sul Boulevard Périphérique tra Porte de la Chapelle e Porte de Clignancourt, lo sguardo dal taxi si perde tra sedi di compagnie internazionali, residui di un’edilizia povera e simulacri ancora abbandonati di architettura industriale.

Non c’è in quest’esperienza condivisa con migliaia di parigini neanche la rabbia di Corinne e Richard in uno dei più noti piani sequenza del cinema: quello di Week End di Jean- Luc Godard. C’è solo una rassegnata attesa. In realtà di périphérique quell’anello ha solo il nome. Il paesaggio urbano attorno non porta tracce di quella distanza tra centro e faubourgs che fu la prima matrice di una parola, periferia appunto, ormai diventata un contenitore senza patria e genealogia.

Una parola che è nata in una cultura e a fronte di politiche che disegnavano e raccontavano una metropoli bipolare, costituita da un centro e da quartieri, borghi, faubourgs distanti, unicamente residenziali e quasi autonomi, ha perso quasi di senso. Quella metropoli forse così non è mai esistita, certamente oggi è profondamente diversa.

Convivono fianco a fianco nella stessa periferia parti progettate e realizzate, spesso nei diffamati anni Venti e Trenta, che recuperate e restaurate sono diventate esempi quasi didascalici di gentrification, capannoni un tempo industriali trasformati in loft che ospitano piccole industrie innovative o variegate forme di art publique, nuclei di emarginazione, povertà e segregazione sociale, possibili germi di radicalizzazione religiosa e politica. Oggi gli immaginari e lo stesso statuto scientifico della periferia sono in discussione. Ed è questa profonda diversità che è necessario indagare e rispetto alla quale mobilitare politiche non banali o superate prima ancora di… iniziare.

Si è periferici rispetto a un centro, ma anche il centro ha mutato la sua natura e le sue funzioni. Anne Clerval ha riassunto nel settembre 2013 questa nuova condizione urbana con un titolo brutale: Paris sans le peuple. E la sua analisi può essere, almeno in Europa, estesa a molte città: da Londra a Bruxelles, da Roma a Madrid, da Francoforte a Stoccolma o a Rotterdam. In questo contesto anche alcuni miti della pianificazione degli anni Venti e Trenta del Novecento hanno subìto, nel porto delle nebbie di una trasformazione urbana vagamente indicata come urban sprawl — le Siedlungen a Francoforte, i quartieri funzionalisti di Paul Hedqvist e David Dahl a Stoccolma — un processo di violenza sociale e simbolica.

Collocati volutamente lontani da centri che erano sinonimi di quella possibilità di incontro casuale che è la vera ricchezza della metropoli, negli ultimi quindici- vent’anni questi quartieri, inizialmente in nome di un altro mito delle politiche urbane rifomiste, la mixité sociale e funzionale, hanno subìto una valorizzazione patrimoniale che ha sfruttato il loro ormai acquisito valore simbolico per mutarne funzione e struttura sociale. L’arrivo di popolazioni più ricche, in grado di investire per riabilitare architetture, da espediente per rigenerare quartieri in abbandono è diventato il fine di operazioni non solo immobiliari. Il caso del quartiere Le Corbusieriano di Pessac nell’allora periferia di Bordeaux, testimonia quali conflitti tra associazioni di proprietari si possano attivare sull’appropriazione di architetture simboliche e sul significato stesso della loro originalità.

E questo avviene mentre i centri delle città diventano sempre più scene di rappresentazione ( della storia della città e dei suoi cittadini illustri) per un turismo globalizzato che trasforma la storia in un valore aggiunto di una narrazione necessariamente semplificata e funzionale a un consumismo turistico che ha in Belleville — nella periferia parigina — e in Kreuzberg, a Berlino, due esempi sin troppo iconici. La patrimonializzazione è allora l’ennesima espressione delle Gorgoni dell’urbanistica contemporanea in epoca neoliberale?Oggi in realtà un’altra, storica funzione urbana sta mutando: il processo di continuo filtering che la città opera nei confronti dei ceti sociali più deboli è entrato in crisi, come per altro tutte le forme di mobilità sociale.

La rigidità di questo nuovo funzionalismo di mercato è in realtà reso più estremo dal consumo turistico e di residenza occasionale dei cosiddetti centri storici: oggi persino il Café de Flore, luogo di incontro preferito di Sartre, Camus, Queneau nel Quartiere Latino è entrato nei tour delle più ricercate agenzie turistiche. Tutta l’architettura che ha una storia (antica o novecentesca) entra nell’orbita di una visione mordi e fuggi della città e di una residenza brutalmente distribuita secondo le regole di un mercato tutt’altro che impersonale e che usa simboli, valori storici, persino architetture autoriali, per differenziarne uso e destinazioni.

La periferia che non entra in questo processo di patrimonializzazione esiste: è la periferia che in Francia si chiama pavillonnaire e nei Paesi anglossassoni della residenza back to back.

Quelle strade costruite da case di un piano fuori terra tutte eguali o da case unifamiliari, divise solo da un muro o da un minuscolo cortile. Proprio quell’architettura che era la forma estrema dell’individualismo Hobbesiano o se si vuole una delle figure fondamentali dell’individualità abitativa, con un paradosso quasi blasfemo resta al di fuori dal nuovo funzionalismo di mercato e contemporaneamente offre alle diverse forme di marginalità ospitalità e protezione. Se a Londra esistono quartieri come Enfield e Ponders End, luoghi privilegiati di disordini sociali e etnici sin dal 2011, questi sopravvivono anche perché in quelle architetture si può scomparire come nelle soffitte della Parigi del secondo Settecento raccontate da Daniel Roche in Le peuple de Paris.

Il nuovo funzionalismo ha bisogno di questi spazi in cui le regole informali non creano solo disagio. Studiando Saint- Denis e Aubervilliers (diventati dopo il Bataclan quasi sinonimo di classes étrangères et lieux dangereuses, facendo il verso a un famosissimo testo dello storico francese Louis Chevalier), Marie- Hélène Bacqué e Yves Sintomer avevano offerto, già nel 2001, le chiavi per decifrare quelle che loro chiamavano affiliations et désafilliations: parole che diversamente declinate diventeranno autentiche ossessioni. Quelle che è improprio persino chiamare periferie generano oggi forme di solidarietà e di condivisione, non solo di esclusione: e richiedono, per poter essere raccontate, immaginari molto diversi.

Nel 2015 due studiose di Oxford, Juliet Carpenter e Christina Horvath curano un testo — Regards croisés sur la banlieue — esito di ricerche e di un seminario del 2013. Le tesi che quel libro sostiene riguardano la forza delle narrazioni e l’inesistenza di forme narrative che nascano dagli abitanti delle periferie, in grado di mettere in discussione equazioni ormai quasi ossessive, spesso tradotte in politiche profondamente semplificatrici: periferia e degrado, banlieue e marginalità, suburbia e violenza. Gillian Jein racconta invece l’evoluzione dei quartieri parigini lungo il Canal de l’Ourcq che segna la banlieue nord di Parigi, attraverso i volti delle persone che li hanno abitati dal dopoguerra.

Da dove allora ricominciare per parlare di politiche urbane?
Escono in questi anni libri in ogni lingua su quelle aree urbane che con un’immagine che è restata la più affascinante, Sébastien Mercier già nel 1781 chiamava Jardins du Soubise: quelle aree delle metropoli, residuali e interstiziali in cui le regole sociali che gestivano quegli spazi erano del tutto informali. Oggi con l’ennesimo paradosso quelle aree sono indicate come gli spazi pubblici della città contemporanea da cui ripartire con politiche di ricucitura urbana sociale: le aree del nuovo progetto pubblico, come sottolinea nelle sue conclusioni del recente Spazi che contano Cristina Bianchetti.

Paolo Grossi racconta — vale la pena richiamarlo — già nel 1992 come in realtà privato e pubblico siano una costruzione sociale ottocentesca. Oggi forse ripensare quali siano gli spazi che contano potrebbe almeno evitare di farne un sinonimo di spreco, rischio e spesso di corruzione. La scena della riesumazione delle salme dal vecchio Cimitero Flaminio di Prima Porta in Sacro GRAL forse meglio di tutte aiuta a restituire gli scheletri negli armadi che parole come periferia si portano dietro e a iniziare davvero un’altra narrazione. Su questa base, sulla base cioè di una capacità di non ridurre la realtà a immagini semplici e ovviamente comunicative si possono avviare politiche che valorizzino processi già in atto, come quelli che hanno popolato il porto di Marsiglia e quello di Porto, non più di vent’anni fa impraticabili, di una vita sociale impensata. Quelli che erano luoghi in cui non si poteva entrare, oggi sono laboratori sociali, artistici, scientifici.

COM'È INIQUA
LA CITTÀ LIBERAL

di Ross Douthat

«Le metropoli fanno grande l’America o sono isole di privilegio per l’élite?»

L’era di Trump ha spinto alla riflessione la nostra élite — nottate passate a leggere Elegia americana per lo più, — ma ha anche sollevato un’ondata di orgoglio cosmopolita. Alla promessa elettorale di Trump di fare l’America di nuovo grande, Hillary Clinton rispondeva dicendo che l’ « America è già grande » , intendendo dinamica, multiculturale, tollerante e orientata al futuro, tutte caratteristiche che Trump sembra rifiutare e che paiono spaventare i suoi elettori.

Il concetto che l’America sia già grande è stato ribadito in molte sedi dall’élite e la settimana scorsa Will Wilkinson del Niskanen Center, sul Washington Post, ne ha dato una motivazione precisa: a far grande l’America sono le sue grandi, fiorenti città liberali. Secondo Wilkinson, Trump ama denigrare le metropoli americane, dandone immagini da incubo, stile Il giustiziere della notte o Quel pomeriggio di un giorno da cani perché il nostro presidente sente il bisogno di “diffondere l’idea che la metropoli poliglotta sia un pericoloso fallimento”. In realtà invece le nostre città sono effettivamente già grandi: più sicure che mai, ricche culturalmente, dense di innovazione politica, motori del nostro futuro economico. Sono sempre più luogo di aggregazione di immigrati e laureati che, grazie alla cooperazione e allo scambio, associano le competenze producendo innovazione, mentre l’entroterra trumpiano marcisce nell’astio e nella nostalgia.

Mi permetto di dissentire. È vero che per molti dei loro abitanti, in particolare i giovani e i più abbienti, le nostre città progressiste sono luoghi piacevoli in cui lavorare e divertirsi. Ma pur essendo multiculturali sotto certi aspetti, per altri sono segregate, a partire dalle cosiddette whiteopias (utopie per bianchi), a maggioranza di popolazione bianca, come Portland, fino alle città balcanizzate, come la capitale o Chicago. Se sono dinamiche è pur vero che sono talmente ricche — e rigidamente vincolate sotto il profilo urbanistico — che la classe media non può permettersi di abitarvi e all’interno dei loro confini le nascite sono in calo.

La loro rapida crescita è spesso legata ai finanziamenti pubblici e alle tutele garantite secondo il principio del “troppo grande per fallire”; sono capitali di innovazione ma in una forma che genera meno posti di lavoro rispetto allo sviluppo tecnologico del passato. Se producono un certo fermento intellettuale è anche vero che sono il recinto della nostra intellighenzia progressista e in realtà hanno indebolito il liberalismo, concentrandone i voti.

Davvero l’apogeo di questi agglomerati meritocratici ha fatto più grande l’America? Secondo me no. Nell’era della città liberale — che coincide, si può dire, con la ripresa urbana degli anni Novanta — la crescita economica si è indebolita, l’inadeguatezza politica si è aggravata, e il progresso tecnologico al di fuori del settore online ha subito un rallentamento. Il liberalismo è diventato più tronfio e fuori dalla realtà; il conservatorismo più anti-intellettuale e buffone.

La genialità della coscienza collettiva prodotta dalla concentrazione delle intelligenze migliori ci ha dato fantastiche app e qualche programma televisivo di cui fare indigestione, ma gli anni 2000 e 2010 non sono esattamente paragonabili al rinascimento fiorentino.

Veniamo a una delle mie proposte inverosimili se non addirittura ridicole: dovremmo trattare le città progressiste come i progressisti trattano i grandi monopoli — non come fonte di crescita, ma alla stregua di concentrazioni di ricchezza e potere che cospirano contro il bene pubblico. E invece di tentare di renderle più egualitarie grazie a vincoli urbanistici meno rigidi e a un’edilizia più accessibile, dovremmo seguire l’esempio di Teddy Roosevelt e cercare di farle a pezzi. Partiamo con la cosa più semplice: prendiamo gli uffici del governo federale, oggi concentrati nel vampiresco agglomerato urbano della Greater Washington D.C., e dislochiamoli in stati più poveri e in città più piccole, che hanno bisogno di essere rivitalizzate.

Ma fare a pezzi Washington servirebbe a poco. Per questo andremo oltre, a partire dalle ricche università d’élite. Tasseremo pesantemente le loro donazioni offrendo invece esenzioni agli atenei che espandono il loro corpo studentesco con sedi satellite in aree dal reddito ben inferiore alla media. Il Mit a Flint suona bene. E lo stesso vale per Stanford-Buffalo, o Harvard sul Mississippi. Una tassazione analoga si applicherebbe alle grandi organizzazioni senza scopo di lucro: per ottenere l’esenzione fiscale totale bisogna dar prova di impiegare personale in stati e città a basso reddito. La Federal Trade Commission (Ftc) dovrebbe considerare la concentrazione geografica di un’impresa come indicatore di monopolio, approvando fusioni nell’ottica di disseminare l’occupazione.
Traduzione di Emilia Benghi

NEL VILLAGGIO DEI “RURBANI”
di Fabrice Lardreau

«Bruère-Allichamps è al centro esatto della Francia: qui è possibile capire il sentimento di abbandono di chi vive in provincia. Parigi è a 275 chilometri: ma per chi ci abita è molto più lontana»

Conoscete Bruère- Allichamps? Probabilmente no. Eppure questo comune di seicento abitanti, nel dipartimento dello Cher, è considerato come l’esatto centro geografico della Francia. L’ho scoperto nel 1976 — all’età di dieci anni — grazie a L’argent de poche di François Truffaut. L’incipit del film ha affascinato la mia mente infantile: lo spettatore scopre un bar e poi una piazza piantata nel bel mezzo di una strada statale, ove troneggia una colonna in pietra sormontata da una bandiera tricolore, a simboleggiare il centro del Paese.

A quarant’anni di distanza, quest’immagine continua ad affascinarmi. Attraverso le sue prospettive e il gioco d’insieme dei suoi elementi, mi sembra dotata di una geometria perfetta, come un qualcosa che trovi la sua collocazione. L’immagine di una nazione? Ma quale? Sono venuto qui per incontrare gli abitanti e cercare di comprendere cosa significhi vivere al “ centro esatto” della Francia… E devo dire, senz’ombra di ironia, che per me questo viaggio di duecentosettantacinque chilometri da Parigi a Bruère-Allichamps è stato, in assoluto, il più istruttivo e toccante che abbia fatto finora.

Al tempo di internet, in un’epoca ricca come mai in passato di mezzi d’informazione e comunicazione, è impressionante scoprire quante cose si ignorano del proprio Paese. I miei incontri con gli abitanti mi hanno permesso di tratteggiare, come in un assemblaggio di dati cartografici e umani, un ritratto di quello che si è soliti definire il “francese medio” — ma preferisco il termine di “mediano”. In contrasto con l’immagine di arroganza — a volte giustificata — che i miei connazionali veicolano all’estero, ho incontrato uomini e donne prudenti, di una profonda semplicità. Un po’ chiusi e inizialmente diffidenti, i miei interlocutori hanno dimostrato un’affettuosa, commovente generosità.

Come hanno sottolineato tutti gli abitanti più anziani, Bruère- Allichamps, che pure possiede un ricco patrimonio storico e un tessuto associativo dinamico, è diventata una «città dormitorio». In questo comune rurale prevale ormai l’anonimato delle grandi città. «Le giovani coppie che vengono a vivere qui non cercano più di integrarsi, bastano a se stesse » , mi hanno spiegato. « Non c’è più l’interesse di prima per la vita del villaggio. Non siamo neanche più veramente in campagna… ». Si tratta di un fenomeno specifico della Francia?

Bruère- Allichamps è emblematica di una mutazione fondamentale della nostra società, iniziata una ventina d’anni fa: questo villaggio fa parte di quella che recentemente il geografo Christophe Guilluy ha definito “ la Francia periferica”. Contrariamente alla Bourgogne in cui sono cresciuto negli anni Settanta, popolata di agricoltori e allevatori, le campagne di oggi sono abitate per lo più da famiglie operaie o provenienti dai ceti popolari. Cacciate dalle città dove il costo della vita è divenuto esorbitante, si sono spostate oltre le banlieue, nelle zone “ periurbane”.

Per questi cittadini di tipo nuovo si è coniato il termine rurbain (rurale e urbano). Il rurbain francese vive nel verde ma lavora in città. Da questo punto di vista Bruère-Allichamps è esemplare. Nel 2012 gli operai rappresentavano il quaranta per cento della popolazione attiva, e gli agricoltori… lo zero per cento. Gli abitanti lavorano per lo più nelle città di Bourges, Montluçon o Vierzon, e si fanno anche centocinquanta chilometri al giorno per recarsi al lavoro.

In questi spazi periurbani vive oggi quasi l’ottanta per cento dei ceti popolari. Si è colpiti dal constatare fino a che punto questa nuova cartografia sociologica coincida con quella elettorale. Di fatto, è in questi territori che da una quindicina d’anni l’estrema destra ha registrato un’avanzata spettacolare. Il primo turno delle presidenziali conferma l’immagine — a somiglianza degli Stati Uniti di Trump o dell’Inghilterra della Brexit — di un Paese scisso tra città e campagna. A Bruère-Allichamps, il 23 aprile Marine Le Pen (il cui partito aveva totalizzato il quaranta per cento dei voti alle regionali del 2015) è arrivata in testa col ventinove per cento; mentre nel mio comune di Bourg-la-Reine, alle porte di Parigi, è rimasta al… cinque per cento.

Come siamo arrivati a questo punto? Per molto tempo ho fatto parte di quella popolazione urbana che non comprendeva, o non voleva comprendere questo fenomeno, immaginando la campagna come l’avevo conosciuta trentacinque anni fa: prospera, agreste e ( relativamente) protetta. Oggi quei ceti popolari, colpiti in pieno dalla crisi della deindustrializzazione, privati di trasporti, strutture commerciali e servizi pubblici, vivono una sensazione profonda di abbandono, che l’estrema destra ha saputo canalizzare.

A Bruère-Allichamps non ho percepito risentimento nei riguardi della capitale, ma un’impressione di distanza. «Parigi è lontana», mi hanno detto, «è all’altro capo del mondo». Come se vivessimo in due Paesi diversi, separati da una frontiera, che non comunicano più tra loro. Credo sia tempo di riprendere il dialogo in Francia. Ci si accontenta troppo spesso di stereotipi riduttivi, a tutto vantaggio dei promotori dello scontro: da un lato i “ bobos intellos”, gli intellettuali radical chic, dall’altro i “ ploucs”, gli zotici ignoranti. L’elezione di Macron deve segnare l’inizio di un lavoro urgente e colossale: riconciliare questi due Paesi — il mio Paese.
Traduzione di Elisabetta Horvat

LA PADANIA VISTA DALL'OBLÒ
di Marco Belpoliti

«Centri commerciali, svincoli autostradali, villette a schiera, capannoni, parcheggi, rotatorie, cantieri abbandonati: è la più grande città estesa d’Italia. Racconto di un tour in pullman da Lambrate all’autostrada fantasma, fino a Roncadelle, patria di tutti i megastore: dodicimila metri quadrati ogni mille abitanti. È il record europeo»

Oggi si va a vedere la Padania, conglomerato urbano, città diffusa e metropoli molecolare, composta di centri commerciali, svincoli autostradali, villette a schiera, capannoni, parcheggi, rotatorie, cantieri abbandonati. Il pullman ci attende. Sul fianco la scritta “ Brescia Trasporti”. È fermo sul piazzale posteriore della stazione di Lambrate. Una piccola folla s’è radunata intorno: artisti, fotografi, architetti, giornalisti, scrittori. Tutti con lo zainetto. Siamo una quarantina. Appena aprono le porte dell’autobus saliamo e in breve tutti i posti sono occupati. Sono qui per la “Gita aziendale 2017” dei “ Padania Classic”. Mi sono prenotato via internet rispondendo all’email di Filippo Minelli, fotografo: “ 1 aprile 2017, faremo giro turistico in bus alla ricerca di quello che siamo diventati, una giornata paradossale sull’identità partendo dalla lettura del paesaggio contemporaneo”.

Pesce d’aprile? Ho ricevuto il programma del “ Tour del disastro”, “ricognizione collaborativa sul territorio della MacroRegione”. Si va e in breve entriamo nella tangenziale di Milano. Al microfono Filippo illustra il percorso. Ci hanno distribuito shopper con taccuino, penna sponsorizzata, macchina fotografica usa- e- getta, depliant con il percorso. Vi leggo una poesia, Ode al parcheggio: “Grazie parcheggio per essere così ampio,/ per darci la possibilità di scegliere dove stare/ con la certezza di un approdo sicuro”. Eccetera.

Due anni fa Minelli, Federico D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Emanuele Galesi hanno pubblicato un libro di settecento pagine intitolato Atlante dei Classici Padani ( Krisis Publishing). Contiene un’esplorazione visiva del nuovo paesaggio della Padania, che s’estende dai confini del Piemonte sino alle pendici dei Colli Euganei. Dentro Lombardia, Emilia, Romagna e Veneto.

Uno spazio fotografato palmo a palmo: cantieri, cave, discariche, monumenti, villette, supermercati, cartelloni, insegne, cascine, condomini, giardini, trattorie, bar, paninoteche volanti, luna park, centri sportivi, parchi acquatici, discoteche, centri massaggi, sexy shop, night club, chiese, e altro ancora. Spazio devastato e insieme vitale, dove abita quasi un terzo della popolazione italiana, dove le case monofamigliari s’alternano agli stabilimenti e ai villaggi artigiani, dove abbondano cavalcavia, viadotti, raccordi autostradali, il tutto tra filari di viti e campi di granoturco, mentre intorno appaiono discariche abusive, inceneritori, fabbriche abbandonate, muraglioni di cemento, gru, pannelli antirumore.

Il pullman procede sicuro lungo la colonna portante della Macro Regione: la A4, la Grande Madre della Padania. Fatto qualche chilometro, dopo aver superato il torracchione con i ripetitori di Mediaset, usciamo a Vimercate. La prima tappa è il Centro commercicale Mega degli anni Ottanta, precursore di questa tipologia di sviluppo. Siamo in una zona di condomini e il superstore è in realtà una piccola costruzione intorno a una cupola centrale. Colgo brani della conversazione tra due partecipanti, probabilmente architetti: « Questo è uno dei primi centri commerciali. Sembra minuscolo in confronto a quelli che sono venuti dopo. Hai notato la cupola e le colonne? Tutti questi supermercati hanno qualcosa del tempio classico o della chiesa. Passeggiare e fare acquisti».

Si va a Zingonia, città utopica fondata da Renzo Zingone, imprenditore romano, in provincia di Bergamo. Cinquantamila gli abitanti previsti. Hanno edificato capannoni industriali, torri residenziali, villette, un centro sportivo, cinema, hotel, ospedale, chiesa. Sono arrivate solo poche migliaia di persone. Oggi le torri giacciono in uno stato di degrado, abitate da una popolazione multicolore d’immigrati. A breve saranno demolite. Puntiamo sulla chiesa bunker con lunghi scivoli d’ingresso in cemento. Seguo i due architetti. Commentano: « Non è poi male. Un progetto di Vittorio Sonzogni. Le Corbusier in salsa padana».

Tutti in corriera. Si riparte. Di nuovo imbocchiamo l’autostrada. Siamo nel cuore pulsante del Paese, a destra e a sinistra una fila ininterrotta di fabbriche, impianti industriali, aziende, depositi. Qui si produce. All’improvviso compare la colonna di Giuseppe Gambirasio, torre dell’acqua a forma di colonna dorica che svetta nella campagna di Osio. I due architetti dietro di me: « Conosci la Colonna Desman che stanno per costruire vicino a Mira? Alta trecentodieci metri, quattordici di meno della Torre Eiffel. Un progetto pazzesco. Dovrebbe servire a rilanciare il turismo nella zona » . M’intrometto: « Perché la costruiscono? A cosa serve? » . « Alla gente piace salire in alto», mi risponde quello con la barba.

Il pullman ha raggiunto Orzinuovi e il centro commerciale che visiteremo. L’ingresso al paese è desolante. Sembra vi sia stata un’esplosione. Molti edifici sono abbandonati. La cattedrale è Ocean Park, progetto abortito. Dietro al centro commerciale ancora in funzione, c’è una sorta di gemello colorato: rovina piranesiana in stile neomodernista. Entriamo passando da un varco nella rete e qui, davanti al rudere, risultato di un crac immobiliare, posiamo per la rituale foto di gruppo. Ho perso di vista i due architetti, e non posso ascoltare la loro conversazione. È ora di pranzo e siamo diretti al Sushi Wok, ristorante a gestione orientale, dove ci accomodiamo. La sala non ha alcuna finestra che permetta di guardare fuori. La compagnia è allegra; il cibo mette tutti di buon umore. Mi siedo al tavolo con Filippo e uno studioso catalano, un fotografo, forse un architetto, che a Barcellona sta mappando il territorio. Si mangia e si beve piatti ibridi cucinati nel rituale tegame: cucina padano- cinese.

Ci attende lo Strip di Roncadelle, comune alle porte di Brescia: novemila abitanti con centri commerciali enormi. Annunciano al microfono i dati: dodicimila metri quadrati di megastore ogni mille abitanti. Record europeo. I due architetti si sono seduti in fondo al torpedone. Non riesco a raggiungerli. Converso con un giovane studioso. Riflettiamo su questo territorio. « Sembra un campo subito dopo la battaglia » , mi dice. « Quale? » , chiedo. « Quella che si è combattuta negli anni dell’inarrestabile sviluppo economico veneto- lombardo » . « Cosa resterà di tutto questo? » , chiedo. « Piuttosto: cosa descriverà lo zeitgeist padano di questi anni irripetibili? » , dice lui.

Andiamo dritti verso l’Autostrada Fantasma, com’è chiamata sul depliant del viaggio, un tratto autostradale detto l’Elastico, che doveva raccordare la circonvallazione di Brescia e l’autostrada A4. Scendiamo e abbracciamo ritualmente i piloni di cemento che si ergono solitari nel vuoto di questa campagna.

Mentre il pullman cerca l’imbocco di un’altra autostrada fantasma, la BreBeMi, uno dei viaggiatori, uno sconosciuto seduto proprio dietro di me, racconta la storia della ragazza fantasma. « Nel dicembre del 1999 alle 5.20 del mattino una ragazza bionda fu investita su uno svincolo autostradale dalle parti di San Pelagio, verso Venezia, A13. La stessa ragazza fu vista in altri luoghi autostradali: uno svincolo della A1 vicino a Parma, poi a San Giuseppe nei pressi di Brescia. Le fu dato un nome: Melissa. I guidatori che credevano d’averla travolta, s’incontrarono in una trattoria della zona di Brescia, per parlare dell’apparizione». Di colpo sono dentro le storie dei Narratori delle pianure di Gianni Celati, lo scrittore che negli anni Ottanta ha raccontato quello che oggi appare un luogo comune: le campagne appaiono simili alle periferie urbane delle città, luoghi abbandonati, devastati, sfigurati.

Siamo prossimi alla fine del viaggio. Tardo pomeriggio. Percorriamo la BreBeMi, superstrada che collega la campagna bresciana a quella milanese.
Non c’è nessuno. Solo qualche rara automobile. Non un distributore di benzina, non un punto di ristoro. Siamo nel nulla, un nulla che a forza di percorrere questa landa m’è entrato dentro. Cado preda del sonno. Mi risveglio quando arriviamo nel piazzale della stazione di Lambrate. Sarà stato tutto un brutto sogno?

VIVERE AI CONFINI
DELLE MEGALOPOLI
intervista di Francesco Erbani a Richard Burnett

«Richard Burdett spiega il caso sudamericano: aree vastissime e prive di tutto»

Richard Burdett, urbanista, insegna alla London School of Economics, ha curato i progetti per le Olimpiadi del 2012 e, ancor prima, la Biennale architettura del 2006 che, come l’ultima di Alejandro Aravena, ha raccontato che cosa si fa nelle periferie di tutto il mondo per alleviare disagio, diseguaglianze, esclusione sociale. « Negli ultimi quindici anni è cresciuta la sensibilità di architetti e urbanisti verso questi temi. Parlo, ovviamente, di architetti e urbanisti che non si preoccupano solo di allestire quartieri di villette. Inoltre si è sviluppata una proficua collaborazione con amministratori locali ».

Dove accade tutto questo?
« In molte aree del mondo, da Lagos a Mumbai, dove il fenomeno dell’urbanesimo galoppa. In alcune grandi città africane come Kinshasa si calcola una crescita di 50, 60 persone ogni ora ».
E queste vanno a ingrossare le periferie?
« In gran parte sì. Ma attenzione: sono stato a Nairobi un mese fa e ho visitato Kibera, gigantesca baraccopoli di quasi 200 mila abitanti. Kibera è a dieci minuti dal centro direzionale. Se si allunga lo sguardo si vedono gli alberghi a cinque stelle ».
Vuol dire che le periferie non sono solo le zone ai margini delle città?
«Sì, le periferie sono anche in centro, come sosteneva anni fa il sociologo Guido Martinotti. Non è una storia recente. In diverse città anche europee nelle zone centrali distrutte dai bombardamenti della guerra sono sorti insediamenti popolari che nei decenni sono diventati luoghi di povertà e marginalità. Quindi lo schema centro/periferia può valere ancora in qualche misura per Parigi, ma non più per Londra, dove di centri ce ne sono almeno tre. E dove ci sono periferie povere, ma anche ricche.
In generale direi che la crescita delle città non ha più la dinamica di un tempo, quando dal centro ci si espandeva verso l’esterno. Questo meccanismo lo ritroviamo in parte per le grandi città sudamericane. Ma in ogni caso i temi più scottanti investono la qualità della vita di queste aree ».
Vale a dire?
« Megalopoli come San Paolo, Rio de Janeiro o Città del Messico hanno conosciuto un’espansione quattro o cinque volte superiore alla crescita di popolazione. Questa espansione è sempre più diradata a mano a mano che si va verso l’esterno. Ed è qui che trovano sistemazione gli ultimi arrivati in città, qui dove, a causa della bassa densità, mancano trasporto pubblico, sistemi fognari, scuole: è troppo costoso raggiungere questi brandelli di città con i servizi ».
Quindi la parola periferia può designare tanto le bidonville dove si vive ammassati, quanto i luoghi dove si vive sparpagliati?
«In entrambi i casi la qualità del vivere e dell’abitare è scadente. A San Paolo s’impiegano in media quattro ore al giorno per raggiungere i luoghi di lavoro. E dire che in Sudamerica l’urbanesimo, impetuoso fino ad alcuni decenni fa, ora è più lento. Ma non così in Africa e in Asia. In entrambi i casi, inoltre, queste zone sono invisibili alla politica ».
Eppure in alcuni casi c’è collaborazione fra architetti e amministratori pubblici.
«Sì e ci tengo a sottolinearlo. Sono ormai tanti i casi di città resilienti, in grado cioè di adattarsi e di fronteggiare situazioni drammatiche. Quel che è accaduto in due città colombiane, Bogotà e Medellin, è noto.Lì si è intervenuti soprattutto sul sistema dei trasporti e si è capito che facilitando le connessioni e l’accessibilità si potevano abbattere i tassi di criminalità. Episodi simili per fortuna si moltiplicano. E lì l’architettura dà il meglio di sé».

il Fatto quotidiano, 27 maggio 2017

La gestione Franceschini del prezioso patrimonio paesaggistico e culturale in poco più di tre anni ha provocato una concatenazione di disastri. I modelli, se di modelli si può parlare, dell’iniziativa franceschiniana sono rintracciabili in alcuni apparati scarsamente funzionanti dell’ottocentesco Regno di Sardegna e del fascismo, in quest’ultimo caso addirittura corretti e rinnegati dal ministro dell’Educazione Giuseppe Bottai nel 1939.

Al Capo non piacciono, caccia ai vecchi dirigenti

Dario Franceschini è ministro dei Beni e delle attività culturali e del turismo dal 22 febbraio 2014, giorno in cui Matteo Renzi strappa la campanella di Palazzo Chigi dalle mani di Enrico Letta dando il ben servito anche a Massimo Bray. Qual è il vangelo che definisce l’azione di governo di Franceschini, chiamato a sostituire una figura di prestigio come quella di Bray (ora reduce dal successo senza precedenti del Salone del libro di Torino, edizione 2017)? Ebbene le linee programmatiche franceschiniane sono state anticipate proprio dal libello di Matteo Renzi: Stil novo, la rivoluzione della bellezza da Dante a Twitter (Rizzoli, 2012). Infatti, è dall’esperienza fiorentina di Renzi sindaco - ai tempi in cui definiva Franceschini “vicedisastro” - che nasce il fastidio per la figura del soprintendente. È un soprintendente che non permette di raschiare l’affresco del Vasari a Palazzo Vecchio (improbabile per gli esperti ritrovare là sotto “La battaglia di Anghiari” di Leonardo) e sempre le Soprintendenze contesteranno l’affitto di Ponte Vecchio per la festa della Ferrari di Montezemolo e impediranno il rifacimento dell’incompiuta facciata di San Lorenzo. Quindi i soprintendenti vanno depotenziati, meglio sarebbe cancellarli.

Un primo scorporamento franceschiniano riguarda “valorizzazione” e “tutela” dei beni culturali. La tutela rimane alle soprintendenze ma la valorizzazione viene posta in capo ad altri organismi dello Stato, una sorta di ufficio turistico nazionale. I meccanismi diventano più farraginosi ma il vero colpo di grazia è la scissione dei musei dal proprio territorio, compresi quelli di scavo. Una mole immensa di patrimonio da dividere: sedi, archivi cartacei, fotografici e personale, poco e anziano (età media 55 anni, nessuno nato dopo il 1982).

Caos, paradossi e danni irreparabili

Caos e paradossi, e danni: un esempio sono gli 8.815 Nuraghe in Sardegna, vero museo a cielo aperto, inscindibile dal territorio; erano uno in più ma quello di Tertenia è crollato nell’autunno 2016 dopo anni di inascoltati allarmi e richieste di fondi da parte della Soprintendenza. In Toscana, poi, c’è l’esempio migliore per spiegare il paradosso delle scissioni franceschiniane: Populonia, frazione del comune di Piombino. Qui l’importante area di scavo è gestita dalla Soprintendenza, ma al suo interno c’è il Museo Etrusco, gestito dal Polo museale, riproducendo in piccolo quella che era la situazione di Berlino Ovest isola nel mare della Germania Est. Al Sud d’Italia la maggior parte del patrimonio artistico è culturale si trova nelle chiese, nelle abbazie, nelle cappelle e nelle regge. Al Nord nelle Pinacoteche, statali e civiche dopo le soppressioni degli ordini religiosi prima per mano di Napoleone e poi del nuovo Stato unitario risorgimentale. Va da sé come sia impossibile scindere anche fisicamente i musei archeologici dagli scavi e quindi dal territorio. È da questo aspetto che si capisce la vera ratio della riforma franceschiniana: criteri e compensazioni politico-clientelari così come svelato dalla sentenza del Tar del Lazio rispetto alle nomine bocciate dei cinque supermanager.

Accorpamenti e ritorni al passato

Con una norma sbrigativa Franceschini fa saltare le Soprintendenze archeologiche accorpandole in un solo organismo con Belle arti e paesaggio. Antonio Paolucci, già sovrintendente, già direttore dei Musei Vaticani e ministro nel governo Dini (1995-96), definisce così l’operazione: “Un mostro”. Un accorpamento del genere era già stato approntato nel 1923 dal Partito nazionale fascista. Ma fu lo stesso fascismo ad accorgersi dell’imperdonabile errore nel 1939, quando il ministro Giuseppe Bottai, conscio del valore delle specializzazioni, cancellò gli accorpamenti. Invece, i profeti della Rottamazione hanno deciso di ritornare al pre-Bottai rottamando, in buona sostanza, controlli e procedure tecnico-scientifiche che spesso salvano la vita del patrimonio artistico e culturale.

Un salto indietro fino al Regno sabaudo

Laddove Franceschini non arriva poi, ci ha pensato Marianna Madia, ministro della Pubblica amministrazione, con una norma uccidi-Soprintendenze. L’arma fine di mondo, l’applicazione definitiva dello Stil novo renziano, infatti, è stato il depotenziamento dei soprintendenti, che diventeranno gerarchicamente inferiori ai prefetti. Spetterà, infatti, ai prefetti, e non più ai soprintendenti, decidere se inviare un archeologo, un dirigente Asl o un elettricista, a un’importante e delicata Conferenza dei servizi, per esempio. Succedeva la stessa cosa, viaggiando a ritroso nel tempo, nel Regno di Sardegna, considerato arretrato in materia da studiosi e storici. Altro che innovazione e velocità nell’epoca di Internet, il combinato Franceschini-Madia proietta il patrimonio artistico-culturale direttamente nell’Ottocento e non nelle parti d’Italia considerate, invece, più avanzate nel sistema di tutela artistico-museale: Granducato di Toscana e Stato Pontificio.


L’ultimo affronto: l’articolo 68 svendi-arte

È l’articolo 68 della legge sulla concorrenza l’ultimo soccorso alla concezione franceschiniana del patrimonio artistico del Paese: liberalizzazione totale dell’esportazione di opere d’arte di proprietà privata. L’Italia diventa, sotto questo punto di vista, col silenzio assenso di Franceschini, un Paese iper-liberista per la gioia di ricchi antiquari e mercanti d’arte di tutto il mondo.

La Repubblica, 27 maggio 2017

A differenza di Francesco Merlo, trovo che la sentenza del Tar del Lazio sul concorso dei supermusei rientri nella perfetta fisiologia democratica: e, anzi, credo che sia salutare che un potere politico troppo spesso arrogante e arbitrario venga richiamato alla necessità di rispettare leggi e regole.

Il giudice amministrativo rileva che una legge vigente (la 165/2001, art. 38) stabilisce che la cittadinanza italiana è richiesta quando il pubblico dipendente esercita, direttamente o indirettamente, pubblici poteri o quando l’ufficio attenga all’interesse nazionale. E Dario Franceschini, nel decreto ministeriale del 27 novembre 2014 che ha messo a bando i posti dei cosiddetti supermusei, ha definito questi ultimi «di rilevante interesse nazionale ». E dunque: la «figuraccia internazionale dell’Italia» si deve al giudice che fa rispettare limpidamente la legge, o al ministro che, pur avendo i numeri parlamentari per farlo, non cambia la legge, preferendo violarla?
Quanto al merito, il problema esiste: e non solo da noi. Il direttore della National Gallery di Londra è un italiano: ma di cittadinanza britannica. E questo è il punto. Il direttore degli Uffizi, tedesco, ha detto che non aveva letto la sentenza perché non è un giurista, e perché non è italiano: ma il punto è che i funzionari dello Stato italiano che fino ad ora avevano diretto i musei erano chiamati anche a conoscere l’ordinamento giuridico. Perché il loro non è un incarico puramente scientifico (per il quale nessun confine nazionale varrebbe), ma è anche una pesante responsabilità amministrativa. Il Tar è poi intervenuto sull’opacità del concorso. Che è un dato reale.
I responsabili dei maggiori musei del mondo sono stati scelti con colloqui inferiori ai 15 minuti, e i verbali permettono di dedurre che ogni curriculum è stato letto e valutato in 9 minuti medi. Gli standard internazionali per la selezione di direttori di musei prevedono ore, e più spesso giorni interi, di reciproca conoscenza. Franceschini, al contrario, volle fare tutto in fretta, con una commissione di 5 membri che doveva decidere su musei tra loro diversissimi: in un evidente deficit di competenze. Non basta. Nella commissione c’erano solo due tecnici, mentre la maggioranza era controllata dal braccio destro del ministro e autore del testo della riforma, da una manager museale che Franceschini nominerà subito dopo nel cda degli Uffizi e dal presidente della Biennale di Venezia che attendeva che il ministro derogasse ad una norma per confermarlo ancora in quel posto. La verità è che la politica ha steso prepotentemente la sua ombra su un concorso che doveva essere tecnico e indipendente. Del resto, è questo lo spirito della “riforma”: i consigli scientifici dei musei sono ora nominati dal ministro, dal sindaco e dal presidente della Regione, con una lottizzazione politica della storia dell’arte e dell’archeologia che non ha eguali al mondo.
I risultati del concorso non furono entusiasmanti: con poche eccezioni, non risultarono vincitori professionisti che avessero già diretto un qualunque museo, ma che al massimo erano stati conservatori di sezioni in musei minori. Abbiamo affidato delle portaerei a chi aveva diretto solo il ponte di una corvetta. Il risultato è stato una indiscussa fedeltà dei miracolati al ministro autore di un simile miracolo. E la comunità scientifica internazionale ha guardato con enorme perplessità a questa inedita operazione di cosmesi.
Le conseguenze sono state pesanti. Qualcuno ricorderà l’esteso danno alle tavole di Brera, le inaugurazioni “politiche” del Museo di Taranto (che poi tornava a chiudere quelle sale per mancanza di personale), la mercificazione spinta della Galleria Palatina di Pitti, le dimissioni dai consigli scientifici della stessa Brera, e della Gnam a Roma: mentre stenta ad emergere in pubblico l’estesissimo, profondo disagio dei lavoratori di questi musei.
Franceschini rivendica la quantità: citando numeri della bigliettazione che non dipendono, tuttavia, dalla sua riforma, ma dalla congiuntura internazionale legata al terrorismo, che vede i turisti in fuga dalla Francia e da molti paesi del Mediterraneo.
Niente gli cale, invece, della qualità: la commissione Bray aveva pensato l’autonomia dei musei come occasione per creare, o rafforzare, comunità di ricercatori residenti che producessero conoscenza, e la redistribuissero ai cittadini. Invece i super musei (a differenza dei loro omologhi inglesi, francesi, tedeschi o olandesi) non fanno più ricerca, e le figure (monocratiche e isolate) di questi generali senza esercito hanno ricevuto un mandato diverso: far marketing, non conoscenza.
Ma mentre su tutto questo si potrebbe discutere a lungo, il fatto che i giudici debbano far rispettare le leggi dovrebbe essere, invece, pacifico.

«La storia bella (oltreché una lezione di urbanistica sulle aree interne) di un territorio e del suo popolo "traditi", e che, con la sua poetica descrizione dei luoghi, ci invita a tentare di trasformare i sogni in realtà». casadellacultura.it, serie "Città bene comune", 26 maggio 2017

Lidia Decandia, Leonardo Lutzoni, La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana (FrancoAngeli, 2016)

Ho sempre avuto il sospetto che essere sardi volesse dire essere, più di altri, fortemente radicati nella propria tradizione e nella propria storia. Questa particolarità la scorgo non solo nell'amore per la propria terra (che è un fatto comune anche ad altre genti), ma nell'ostinazione a opporre resistenza alle forme della modernità. Non alla modernità in genere, ma a quella specifica modernità fatta di cancellazione della memoria, di velocità, di competizione darwiniana, di sradicamento, di annullamento di ogni identità. Non sarà un caso che il sardo parla contemporaneamente il proprio dialetto e l'italiano come fossero due lingue distinte, cosa unica nel panorama italiano dove la lingua italiana, in ogni regione, si tinge sempre dell'accento dialettale. Grazia Deledda fu osteggiata dai suoi concittadini nuoresi perché, a loro parere, descriveva la Sardegna come una terra rustica, rude; dunque, arretrata, non moderna. Deledda descriveva il fascino della sua isola e della sua gente, le loro storie, tanto che venne definita anche come una scrittrice del paesaggio.

In questo libro - Lidia Decandia, Leonardo Lutzoni, La strada che parla. Dispositivi per ripensare il futuro delle aree interne in una nuova dimensione urbana (FrancoAngeli, 2016) - Decandia ritorna sui temi a lei cari e noti: l'appartenenza sentimentale (seppure vissuta in un quasi-esilio), la memoria, le feste, le cerimonie, la trama fitta degli stazzi che costituivano il territorio. Insomma, si potrebbe dire, sul tema dell'Isola (la Sardegna in questo caso) che non c'è più, quella interna, luogo dei pastori solitari, abbandonata per scivolare sulla costa, che, in passato, era costituita da "pietrarie inospitali", praticamente sconosciute alla vita dei suoi abitanti. Il libro richiama per alcuni versi (ma su questo tornerò in seguito) quello di Marco Revelli, Non ti conosco. Un viaggio eretico nell'Italia che cambia (Einaudi, 2016): un viaggio, quello di Revelli, poco sentimentale attraverso luoghi devastati dalla modernità e ridotti a simulacri; da Torino a Lampedusa, fuori dagli stereotipi comuni e dai falsi ottimismi (e su quest'ultima questione i due libri divergono assai).

Non saprei inquadrare diversamente il lavoro (assai più che una ricerca sullo spopolamento delle aree interne, come modestamente si autodefinisce) di Lidia Decandia e Leonardo Lutzoni dedicato a un'area dell'Alta Gallura in Sardegna, nel quale la passione di ritrovare i significati di una vita contadina premoderna servono a mettere a fuoco l'inganno di questa modernità che ha distrutto antichi vincoli di solidarietà, di sapienze, di custodia della sacralità della vita e delle relazioni con altri esseri umani e con la natura. Per costruire (o forse solo immaginare) un progetto per le aree interne basato sulle potenzialità ancora latenti. È su questa tradizione che il libro confida per elaborare una sorta di guida per l'insegnamento e la pianificazione del territorio in grado di riaprire relazioni significative, vitali e affettive con i territori e i luoghi attraversati nel viaggio dell'Autrice. In questo la differenza con il viaggio di Revelli è forte: "C'è forse più 'verità' in quelle travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell'erba incolta dei vuoti industriali, che nei tronfi piani di sviluppo drogato di ieri", è il commento disincantato del sociologo torinese. Là dove Decandia invece tenta di utilizzare il passato ormai devastato per risvegliare, nei suoi allievi e negli abitanti, un desiderio di cura e di partecipazione, attraverso una prosa che, come ha affermato Piero Bevilacqua, "è in aperto antagonismo con quella dell'utilitarismo economico dominante nella lingua delle scienze sociali" e nell'urbanistica in particolare.

Ma veniamo al libro. Esso prende spunto dal tentativo di riuso di un vecchio tracciato ferroviario, nei pressi di Calangianus (città natale dell'Autrice), che diventa "la strada che parla", immersa ai piedi della montagna del Limbara che è assai di più di un semplice rilievo geografico: costituisce l'elemento dominante del territorio, la sua struttura immanente, il luogo dei pastori: la Montagna. Tutti, afferma l'Autrice, anche i bambini, un tempo, si orientavano attraverso figure di riferimento naturali: Monti di Deu, Monte Limbara, Monti Pinu, Sarra di Monti, Monti di La Signora. Un paesaggio premoderno caratterizzato da boschi di querce, macchie, spogliati, fino agli anni Sessanta, dalle capre e dai carbonai che lo popolavano. Ebbene qui nel giro di poco più di cinquant'anni "il volto di questa terra è mutato forse più di quanto non sia avvenuto nei secoli che ci separano dal Neolitico". Con l'avvento dei processi di modernizzazione, l'antico popolo di pastori che viveva negli spazi organizzati in nuclei interdipendenti, si autonomizza dal territorio abbandonando le campagne, attirato dalle nuove (e ingannevoli) promesse economiche vantate dall'industrializzazione. Così la natura riprende il sopravvento e su quel territorio magico scende - dice Michela Murgia - il silenzio, dove ancora piccole chiese campestri, case disperse abbandonate, rivelano tracce di "una vita finita, di una tradizione abbandonata".

Così, come nel viaggio di Revelli attraverso un'Italia non più riconoscibile, il lavoro dell'Autrice inizia con una passeggiata lungo un vecchio percorso ferroviario dismesso che attraversa il territorio di Calangianus, parte di una vecchia linea a scartamento ridotto Monti-Tempio. Un tracciato in parte recuperato come percorso ciclo-pedonale, ai piedi del Lambara, un territorio ora vuoto e deserto, muto e silenzioso che ha cessato di "parlare" agli uomini e che svela le macerie dello sviluppo disposte ai piedi dell'Angelo della Storia di Benjamin. Come provare a conoscere il nostro tempo fattosi ormai irriconoscibile, sembra la domanda rubata a Revelli? Qui la distanza prospettica tra l'Autrice e il libro di Revelli si fa profonda. Mentre il primo dubita che alla scomposizione possa seguire una ri-composizione, ma solo la decomposizione, perché la distruzione creatrice si limita a distruggere e basta senza creare alcun ordine nuovo, Decandia tenta di ridare voce a quel territorio coinvolgendo, nell'esperienza del racconto, comunità locali, amministratori, studenti, intellettuali di ogni provenienza.

Molti sono i riferimenti e le suggestioni culturali citati dall'Autrice: da Geddes e i suoi viaggi in India alla "via dei Canti" di Chatwin, per tentare di ricostruire la tradizione. E qui mi permetto alcune riflessioni personali. Conosco pochi colleghi capaci, come Decandia, in grado di analizzare così criticamente le forme distruttive di una certa modernità e i danni, direi molecolari, prodotti dal processo di industrializzazione sui territori e sulle comunità. Così come, lungi dal farne una nostalgia paralizzante, l'Autrice mostra sempre una acutissima conoscenza del mondo arcaico della Sardegna. Strumenti che Decandia, docente di urbanistica ad Alghero, utilizza continuamente per tentare di rifondare - nel linguaggio e nelle pratiche - la disciplina urbanistica ormai sbiadita controfigura di un pur, a tratti, glorioso sapere.

Detto a margine, rilevo semmai che s'indaga poco il tema del conflitto. A chi spetterebbe di portare a compimento il progetto così curato dall'Autrice? Agli amministratori tritati dal problema del debito e affaccendati dalla routine dell'eterno presente? Agli abitanti che nonostante la moltiplicazione del disagio e del degrado sociale, sono a pieno nell'ingranaggio del mercato? O ai gruppi, alle cooperative sociali, ai tanti movimenti locali che sono irrilevanti nel campo delle decisioni che contano? Il conflitto, seppure rimosso, è dietro l'angolo.

Ma forse non è corretto chiederne conto all'Autrice che ha voluto raccontarci la storia bella (oltreché una lezione di urbanistica sulle aree interne) di un territorio e del suo popolo "traditi", e che, con la sua poetica descrizione dei luoghi, ci invita a tentare di trasformare i sogni in realtà. "Un viaggio - dice Revelli - si fa o per fuggire da qualcosa o per cercare qualcosa". In questo caso la ricerca è quella di una dimensione perduta di chi "non si sente più a casa", che provoca spaesamento, vertigine, sradicamento, ma che può, forse, svelare il presente, indicare il futuro.

il manifesto , la Repubblica,il Fatto quotidiano. 26 maggio 2017 (c.m.c)

il manifesto
MIBACT, IL TAR BOCCIA I DIRETTORI DEI MUSEI
di Adriana Pollice

«E' l'ennesima stroncatura di un provvedimento simbolo dei mille giorni del governo Renzi: la sentenza accoglie i ricorsi e annulla cinque nomine per vizi di procedura e criteri magmatici nel giudizio. Contestata anche la partecipazione di stranieri»

«Il mondo ha visto cambiare in due anni i musei italiani e ora il Tar Lazio annulla le nomine di cinque direttori. Non ho parole ed è meglio»: il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, ieri mattina ha dato avvio alle ostilità contro i giudici amministrativi via social. Il Tar mercoledì ha depositato due sentenze con cui ha accolto i ricorsi contro le nomine dei direttori del museo di Mantova; degli Archeologici di Napoli, Taranto e Reggio Calabria; le Gallerie Estensi di Modena. Salvo il Parco archeologico di Paestum, grazie a un difetto di notifica. Due i rilievi: la legislazione italiana non consente di affidare ruoli direttivi a stranieri e ci sarebbero state irregolarità durante le selezioni.

Si tratta dell'ennesima bocciatura di un provvedimento simbolo dei mille giorni del governo Renzi: dei venti musei diventati autonomi con la riforma introdotta nel 2015, sette sono stati assegnati a direttori provenienti da oltreconfine. Effetti immediati però ci saranno solo per Peter Assman, alla guida del Palazzo ducale di Mantova, oggetto del ricorso. Con lui lasciano Martina Bagnoli, Eva Degli Innocenti, Paolo Giulierini e Carmelo Malacrino. Eike Schmidt resta agli Uffizi e Cecile Holberg alla Galleria dell’Accademia di Firenze perché il Tar non ha accolto le ragioni contro le rispettive nomine. Schmidt è tra i pochi che ha rilasciato un commento: «Ero molto più scioccato quando i centurioni hanno vinto con l’aiuto del Tar e sono tornati al Colosseo. Sarebbe però disastroso se tutto venisse paralizzato dai meccanismi di tutela di interessi particolari».

Ieri il ministero ha fatto partire il ricorso al Consiglio di stato con la richiesta di sospensiva delle sentenze: «Sono preoccupato per la figura che l’Italia fa nel resto del mondo e per le conseguenze pratiche», ha spiegato Franceschini. I due pronunciamenti hanno effetto immediato: i cinque siti saranno affidati ad interim in attesa di un nuovo grado di giudizio. «Che si faccia riferimento al fatto che i direttori sono stranieri – ha proseguito il ministro – stride con la giurisprudenza della Corte di Giustizia europea e del Consiglio di Stato. La selezione internazionale per i direttori pubblicata sull’Economist ha ricevuto apprezzamenti ovunque».

Il Tar ha accolto il ricorso di Francesco Sirano (che aveva corso per le posizioni di direttore a Napoli, Paestum, Reggio Calabria, Taranto) e di Giovanna Paolozzi Maiorca Strozzi (in corsa a Mantova e Modena). La decisione della sezione presieduta da Leonardo Pasanisis contesta tre aspetti del concorso. La partecipazione di stranieri quando «nessuna norma consentiva al Mibact di reclutare dirigenti al di fuori delle indicazioni della legge sul pubblico impiego del 2001». La norma prevede che i cittadini comunitari possono lavorare nelle amministrazioni pubbliche ma in posizioni che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri.

I giudici hanno anche valutato poco chiari i criteri della commissione (magmatici li hanno definiti): non si comprenderebbe, scrivono, «il reale punteggio attribuito a ciascun candidato» durante la prova orale; inoltre «lo scarto minimo dei punteggi tra i candidati meritava una più puntuale manifestazione espressa di giudizio, piuttosto che motivazioni criptiche e involute». L’orale, poi, si è svolto a porte chiuse quindi non è stato assicurato il libero ingresso ai concorrenti «al fine di verificare il corretto operare della commissione». Almeno in due hanno sostenuto la prova via Skype.

Il MIBACT ha diffuto i dati sul boom di presenze nei musei (più 7 milioni di ingressi, più 50 milioni di incassi dal 2013 al 2016) per poi replicare ai rilievi in una nota: la procedura si sarebbe svolta in conformità al diritto europeo e nazionale, con «una commissione di altissimo profilo scientifico presieduta dal presidente della Biennale di Venezia affiancato dal direttore della National Gallery di Londra, il rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino e l’attuale consigliera culturale del presidente francese Macron». Sulla nomina di stranieri, il ministero si appella al principio di libera circolazione dei lavoratori nella Ue: «Il Tar del Lazio sembra aver applicato in modo restrittivo la legge sul pubblico impiego, ignorando i progressi fatti». Riguardo al concorso, ha fatto sapere il Mibact, ogni passaggio è stato pubblicato sul sito del ministero e i colloqui orali «sono stati registrati su file audio accessibili, come tutti gli altri atti della selezione».

Anche Matteo Renzi è partito all’attacco dei giudici via social: «Nei mille giorni abbiamo fatto molte cose belle. Una delle scelte di cui sono più orgoglioso è aver dato ai più bravi la possibilità di concorrere per la direzione dei musei italiani. Non possiamo più essere una Repubblica fondata sul cavillo e sul ricorso. Abbiamo sbagliato perché non abbiamo provato a cambiare i Tar». Il ministro della Giustizia ed esponente della minoranza Pd, Andrea Orlando, si è allineato al segretario: «I Tar andrebbero certamente cambiati, senza demonizzarli».

Il fronte comune democratico ha offerto il fianco alla replica dei parlamentari 5S: «Renzi ormai si è berlusconizzato. Dal segretario del Pd è arrivata un’intimidazione nei confronti di tutti gli organi giurisdizionali. L’ex premier ha fatto capire che, se arrivano sentenze sgradite dal governo e dalla maggioranza, bisogna cambiare i giudici e non i provvedimenti scritti male o incostituzionali».

Mdp con Miguel Gotor ha invitato Franceschini a rispettare le regole. Anche l’Associazione nazionale magistrati amministrativi ha ribattuto: «Le istituzioni rispettino i magistrati, chiamati semplicemente ad applicare le leggi. La nomina di dirigenti pubblici stranieri è vietata nel nostro ordinamento. Se si vogliono aprire la porte all’Europa, e noi siamo d’accordo, bisogna cambiare le norme, non i Tar». Ma secondo il giudice emerito della Corte Costituzionale, Sabino Cassese, il Tar avrebbe ignorato «che il diritto europeo consente la nomina di cittadini stranieri come direttori di Musei anche statali».

il manifesto
IL MINISTRO FAI DAI TE
ARROGANTE E PASTICCIONE
di Tomaso Montanari«Beni culturali. La nomina dei superdirettori oggetto dei ricorsi esaminati ha due gravi difetti. Il primo è che viola una legge del 2001 che impone che la dirigenza pubblica sia riservata ai cittadini italiani. Il secondo è che le modalità della selezione sono state così opache da non garantire i diritti di tutti i concorrenti»

Mercoledì il ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini ha detto di aver licenziato i volontari che mandano avanti la Biblioteca Nazionale di Roma perché è «tenuto a rispettare la legge». Giovedì, invece, ha detto che il Tar del Lazio ha fatto fare una «figuraccia all’Italia».

Perché ha cassato un suo atto che non ha rispettato la legge. Se ne ricava che il governo rispetta la legge quando coincide con le sue idee.

E ieri Matteo Renzi e Andrea Orlando sono intervenuti, in magnifica armonia (tra loro, e con il miglior Silvio Berlusconi), per dire che siccome un Tar ha dato torto al governo, ebbene bisogna riformare i Tar. Insomma: «Il Comitato centrale ha deciso: poiché il popolo non è d’accordo, bisogna nominare un nuovo popolo».

È il degno epilogo di un triennio di sommo disprezzo delle regole e delle persone che costituiscono l’amministrazione pubblica. Il renzismo procede a spallate, e quando un giudice (come la Corte Costituzionale con la Legge Madia) o il popolo italiano (con la riforma costituzionale) resiste alla spallata, la reazione non è un bagno di umiltà, ma un rigurgito di arroganza.

Se la reazione svela l’analfabetismo democratico, il merito delle due sentenze appare interessante. Esse affermano che la nomina dei superdirettori oggetto dei ricorsi esaminati ha due gravi difetti. Il primo è che viola una legge del 2001 che impone che la dirigenza pubblica sia riservata ai cittadini italiani. Il secondo è che le modalità della selezione sono state così opache da non garantire i diritti di tutti i concorrenti.

Sarà il Consiglio di Stato a dire l’ultima parola sul piano giuridico. Ma sul piano politico e culturale va detto che il Tar mette il dito in una piaga purulenta.

La commissione che ha scelto i direttori era politicamente condizionata, anzi strettamente controllata, dal ministro Franceschini. Il suo presidente (l’eterno Paolo Baratta) attendeva nelle stesse settimane che il ministro derogasse alla legge che gli impediva di rimanere alla guida della Biennale. Altri due membri erano Lorenzo Casini (braccio destro del ministro e autore della riforma oggi censurata dal Tar) e Claudia Ferrazzi (che Franceschini subito dopo nominerà nel cda degli Uffizi e nel Consiglio superiore dei Beni culturali): una maggioranza sufficiente a rendere superfluo il voto degli unici due tecnici indipendenti.

Il mandato era chiaro, quasi esplicito: tener fuori tutti i funzionari del Mibact (gli odiati soprintendenti, che Renzi e Boschi avevano annunciato di voler estinguere) e scegliere sconosciuti dal profilo più basso possibile, che fossero poi naturalmente grati al ministro che li aveva scelti. Già, perché la commissione doveva solo allestire una terna, mentre a scegliere era sempre lui, il ministro. Le modalità della selezione (9 minuti per leggere i curricula e meno di 15 per i colloqui) era coerente con questa impostazione.

E il risultato finale fu sconcertante: i maggiori musei del mondo finivano nelle mani di persone che (in quasi tutti i casi) non avevano mai diretto nemmeno un piccolo museo di provincia, ma erano stati solo conservatori di sezioni di musei. È in questo senso che si deve leggere l’ostentata preferenza per direttori ‘stranieri’, cioè per figure di ‘sradicati’, nuovi capitani di ventura messi in condizione di render conto solo al potere che li ha nominati. Naturalmente non si tratta di un problema di nazionalismo.

In un capitolo de La ribellione delle élite, Christopher Lasch analizza la «visione essenzialmente turistica» di una classe dirigente internazionale che non ha nulla a che fare con le comunità che governa: «non esattamente una prospettiva che possa incoraggiare un’ardente devozione per la democrazia». Una prospettiva che compromette in modo ancora più radicale quella funzione civile del patrimonio culturale, basata sull’indipendenza della conoscenza, che era tipica della tradizione italiana, e che solo la nostra carta costituzionale mette tra i principi fondamentali della comunità nazionale. D’altra parte, la mercificazione dei musei e la nomina dei fedelissimi superdirettori è solo un pezzo di quel vasto smontaggio dell’articolo 9 che Renzi ha disposto, e Franceschini eseguito. Non è certo un progetto che si possa battere per via giudiziaria, ma è confortante sapere che c’è un giudice, a Berlino.

la Repubblica
«SONO STRANIERI NOMINE NULLE»
DECAPITATA LA RIFORMA DEI MUSEI

di Francesco Erbani

«Il Tribunale amministrativo boccia 5 nuovi direttori. Franceschini: “Non ho parole”»

Saltano i direttori di cinque musei, ma è tutta la riforma dei Beni culturali voluta da Dario Franceschini che vacilla sotto i colpi di due sentenze del Tar del Lazio. Sentenze contro le quali il ministro ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato: «Lo faremo oggi stesso», dice, aggiungendo un rammarico: «Che figura faremo in tutto il mondo?». Intanto sono da ieri vacanti i posti di direttore al Mann, il museo nazionale archeologico di Napoli, fra i più pregati al mondo, a quello di Reggio Calabria, dove sono ospitati i Bronzi di Riace, poi al museo di Taranto, scrigno dell’archeologia magnogreca, quindi alle Gallerie Estensi di Modena e al Palazzo ducale di Mantova, gioielli del nostro patrimonio storico-artistico.

Nel mirino dei giudici amministrativi è finito uno dei punti chiave della riforma, fin da subito bersagliato dalle critiche: le procedure dei concorsi che hanno portato alla nomina di cinque dei trenta nuovi direttori di musei, siti monumentali e archeologici insediati con la riforma (in particolare il sistema di valutazione dei curricola e le modalità dei colloqui). E, per Mantova, anche il fatto che il direttore sia l’austriaco Peter Assmann, non un italiano. Il che, stando ai giudici, non è possibile sulla base delle norme vigenti.

Sulle sentenze è un batti e ribatti di dichiarazioni. Il segretario del Pd, Matteo Renzi si rimprovera «di non aver provato a cambiare i Tar». A lui e ad altri replica il presidente dell’Anma, il sindacato dei giudici amministrativi: «Reazioni scomposte, i giudici fanno solo rispettare la legge». Ma il terremoto scuote soprattutto l’edificio di una riforma apprezzata da molti, per l’autonomia garantita ai musei, che ne hanno in diversi casi guadagnato in dinamismo e in apertura al territorio e hanno conquistato visitatori. Ma avversata da tanti altri, perché si sarebbe concentrata sui musei trascurando le patologie di cui soffrono i beni culturali e il paesaggio – dagli scarsi finanziamenti all’esiguità del personale, sempre più anziano – e producendo scompensi e caos in molti uffici. I ricorsi sono la spia di un malessere assai diffuso fra chi è impegnato nella tutela in Italia.

I giudici amministrativi laziali hanno accolto le istanze di due candidati, la storica dell’arte Giovanna Paolozzi Strozzi e l’archeologo Francesco Sirano. La prima aveva fatto domanda per le Gallerie Estensi e il Palazzo ducale di Mantova. Il secondo per Napoli, Taranto, Reggio Calabria e Paestum. Nella successiva tornata di concorsi, però, Sirano si è candidato, peraltro con le stesse modalità contro cui ha fatto ricorso, per dirigere il sito di Ercolano ed ha vinto.

Un’altra sezione dello stesso Tar del Lazio, qualche settimana fa, aveva respinto i ricorsi contro la nomina di Mauro Felicori, designato alla guida della Reggia di Caserta. E anche Eike Schmidt, direttore degli Uffizi, e Cecile Holberg, della Galleria dell’Accademia avevano visto confermati i propri incarichi. Ma nel caso di Assmann i giudici hanno riscontrato un’illegittimità: le norme che regolano il lavoro nel pubblico impiego non ammettono la possibilità di aprire i ranghi della nostra amministrazione anche ai non italiani. Al ministero ribattono citando sentenze della Corte di giustizia europea, riprese dal Consiglio di Stato, che restringerebbero l’esclusione ai prefetti, agli ambasciatori ed altre figure di questo tipo. Non ai direttori di museo. A favore di tale ipotesi si è schierato un illustre amministrativista come Sabino Cassese. Assmann è sospeso dall’incarico, come gli altri quattro colleghi: Paolo Giulierini, che dirige l’Archeologico di Napoli, Martina Bagnoli delle Gallerie Estensi di Modena, Carmelo Malacrino dell’Archeologico di Reggio Calabria ed Eva Degl’Innocenti del museo tarantino.

Lo stesso rischio ha corso il direttore di Paestum, il tedesco Gabriel Zuchtriegel, anche lui bersaglio di un ricorso: ma per un difetto di notifica il procedimento si è arenato. Per riempire questi vuoti, il ministero procederà con incarichi ad interim. Ma l’interrogativo che si diffonde è: che cosa succederà agli altri direttori e al sistema nel suo complesso dei beni culturali, già così provato? E se venissero presentati altri ricorsi?

Oltre al motivo dell’italianità, i giudici contestano il modo in cui si è svolto il concorso, a cominciare dalla formulazione del bando. Per arrivare ai criteri di valutazione, al modo in sono stati assegnati i punteggi - poco motivati, insistono i giudici. In un primo tempo sono stati selezionati dieci candidati per ogni sito, sulla base dei curricola e di una lettera di motivazioni. Con ognuno di loro si è svolto un colloquio della durata, racconta chi l’ha sostenuto, di venti minuti (al termine dei quali suonava una specie di sveglia), in cui occorreva illustrare un progetto di gestione del museo. A quel punto si costituiva una terna senza graduatoria all’interno della quale il ministro e il direttore generale dei Musei, Ugo Soragni, designava il prescelto, conservando ampia discrezionalità. Secondo i ricorsi, i colloqui non si sarebbero svolti in maniera corretta. Non erano cioè pubblici (uno si è svolto via Skype) né potevano accedervi gli altri candidati. Questo rilievo è stato accolto dai giudici.

«La selezione dei direttori è stata effettuata da una commissione di altissimo profilo scientifico», ribatte il ministero. La presiedeva Paolo Baratta, presidente della Biennale di Venezia, e in essa figuravano il direttore della National Gallery di Londra, il rettore del Wissenschaftskolleg di Berlino e Claudia Ferrazzi, appena scelta da Emmanuel Macron come consigliere culturale. «I colloqui non sono avvenuti a “porte chiuse”», insiste il ministero, «e sono stati registrati su file audio accessibili come tutti gli altri atti della selezione».

Ora la parola passa al Consiglio di Stato. Ma quelli inferti dal Tar non sono gli unici colpi alla riforma Franceschini. Due mesi fa il ministero ha revocato l’incarico al direttore degli scavi di Ostia antica, Fabrizio Delussu, nominato dopo il concorso. Il motivo? Il suo curriculum, pur esaminato dalla commissione, presentava una serie di requisiti che si sono poi rivelati infondati e «hanno fatto venir meno i presupposti per la nomina».

Il Fatto quotidiano
"VICE-DISASTRO":
RIFORMA DEI MUSEI DA RIFARE
di Vittorio Emiliani

«Il Tar del Lazio accoglie i ricorsi e manda a casa 5 direttori: demolite le trovate di Franceschini»

La “bomba” giuridica con la quale il Tar del Lazio ha annullato le nomine volute dal ministro Dario Franceschini per Musei italiani di eccellenza era attesa. Fragile e opaco l’impianto della selezione pubblica (non concorso) voluta dal ministro. Difatti il Tar rileva “criteri di natura magmatica” e cioè presentazione dei curriculum e della bibliografia, colloqui di 10-15 minuti, non di ore, coi candidati selezionati “a porte chiuse” (alcuni, si apprende, via Skype) e poi individuazione di una “decina” e quindi di una “terna” di nomi fra i quali il ministro e il direttore generale avrebbero scelto il vincente. Nomi delle decine e delle terne così scaturite (e relativi punteggi assegnati) rimasti ignoti, nonostante ora il Ministero parli di “procedura trasparente e pubblica”. In più per il Tar, secondo la legge in vigore, “il bando della selezione non poteva ammettere la partecipazione al concorso di cittadini non italiani”.

Mentre Franceschini se la prende con la sentenza: “Figuraccia davanti al mondo”, Matteo Renzi commenta, piccato: “Bisognava riformare i Tar” e non solo i Musei, confermando la propria allergia per i controlli di garanzia. Del resto l’allora ministra Maria Elena Boschi concordò, una sera in tv, con Matteo Salvini, grande intellettuale lombardo, che sulla abolizione delle Soprintendenze si poteva ben discutere.

Per i primi venti Musei uno solo dei direttori in carica, Anna Coliva alla Galleria Borghese, era stato confermato da Franceschini. Via tutti gli altri, con alcune nomine a dir poco sorprendenti, di cui adesso cinque bocciate dal Tar del Lazio: un etruscologo dal curriculum proprio miserello, Paolo Giulierini, al più grande Museo greco-romano del mondo, quello di Napoli; una medievista, Eva Degli Innocenti, al superbo Museo della Magna Grecia a Taranto. Bocciati dal Tar anche l’austriaco Peter Assman, della cui discussa gestione del Palazzo Ducale di Mantova si è occupato Giampiero Calapà sul Fatto del 14 maggio; Carmelo Malacrino al Museo archeologico di Reggio Calabria e Martina Bagnoli alla Galleria Estense di Modena. Restano in carica, non colpiti dalla sentenza del Tar, tra gli altri, un esperto di cimiteri e di marketing (non cimiteriale) Mauro Felicori alla Reggia di Caserta; il direttore del Museo di arti tessili del Minnesota, Eike Schmidt, agli Uffizi; lo svizzero Gabriel Zuchfriegel, segretario a Pompei di Massimo Osanna, senza esperienze gestionali, a Paestum e così via. Dall’estero erano forse arrivati direttori-manager di grande valore? Francamente no. Nonostante stipendi cospicui (favolosi per il Mibact): 145.000 euro più bonus. Fino a 195.000. Sei volte più dei direttori precedenti.

Il ministro Dario Franceschini si dice “stupefatto che la sentenza del Tar” si esprima in quel modo, dal momento che “la commissione era assolutamente imparziale composta” da personaggi del più alto livello, garanzia “di neutralità e trasparenza”. Già ma il Tar mette il dito non sulla commissione, ma più a fondo: sui criteri “magmatici e poco chiari”. Il ministro deve prendersela con se stesso e col suo ufficio giuridico che ha scelto la strada della selezione (curriculum e colloquio privato) anzichè quella di un vero bando concorsuale europeo e non ha tenuto conto della legge del 2001 la quale prevede che soltanto cittadini italiani possano essere nominati dirigenti dello Stato italiano. Un’altra norma malfatta e malscritta? Vedremo cosa dirà il Consiglio di Stato.

Franceschini lamenta che così si interrompe un ciclo positivo per i musei italiani vivacizzati dai super-direttori stranieri. È innegabile che i musei e le aree archeologiche italiane hanno segnato buoni incrementi dovuti, però, ad una non meno innegabile congiuntura turistica favorevole. Il terrorismo ha prodotto crolli di arrivi in Francia, a Parigi in specie, Tunisia, Libia, Egitto, Turchia, ecc. Ne hanno beneficiato Portogallo, Spagna, Grecia e Italia. Poi c’è l’invenzione delle domeniche gratuite che porta milioni (di italiani soprattutto) ad assalire musei e siti. Quanti sono? Gli arrivi dall’estero sono aumentati del 9% e gli ingressi dei musei di meno della metà. C’è da suonare le trombe? Quanto alle straordinarie iniziative dei neo-direttori, abbiamo assistito alla promozione di introiti grazie a matrimoni (Paestum), a feste di laurea (Pitti), ad altre iniziative purchessia culminate nel compleanno con disco dance di Emma Marcegaglia al Palazzo Ducale di Mantova (febbraio 2016). Ma sì, divertiamoci, e se qualcuno si lamenta venga mandato a casa. Come i precari “scontrinisti” della Biblioteca Nazionale di Roma a 400 euro al mese, che hanno osato denunciare lo sfruttamento.

Un estremo appello alla ragione rivolto ai decisori da alcune personalità che affidano la forza della loro richiesta ad argomenti e non a lunghe liste di adesione e neppure miraggi di consensi elettorali

Al presidente del consiglio, on. Paolo Gentiloni, alla presidente della Camera dei Deputati, on. Laura Boldrini, ai presidenti dei gruppi parlamentari

Nei prossimi giorni andrà in discussione, in seconda lettura, alla Camera dei Deputati il disegno di legge Falanga così intitolato: “Disposizioni in materia di criteri per l’esecuzione di procedure di demolizione di manufatti abusivi”. In realtà questo provvedimento è di una gravità inaudita perché rischia di legalizzare in modo permanente l’abusivismo con effetti futuri permanenti. Gli immobili abusivi, indipendentemente dalla loro destinazione d’uso, purché abitati o utilizzati, saranno salvi a partire anche dalle aree sottoposte a vincolo ambientale ed archeologico.

Gli edifici che si trovano nelle aree sottoposte a vincolo ambientale, archeologico, idrogeologico, del demanio, che costituiscono un pericolo per la pubblica e privata incolumità o che sono nella disponibilità di soggetti condannati per reati di associazione mafiosa, saranno demoliti secondo questo ordine:
1 - prima quelli in corso di costruzione o non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado
2 - poi quelli non stabilmente abitati.

La legge prevede una somma di 10 milioni di euro annui per gli abbattimenti.

Le demolizioni con questa futura legge saranno fermate per due ordini di motivi:
1) perché la cifra stanziata per le demolizioni è sufficiente per eseguirne 130-140 all’anno
2) perché buona parte delle case sono abitate e quindi saranno in coda alle priorità stabilite dalla legge e perciò mai demolite.

Ma l’aspetto più grave della legge è che la sua applicazione non ha un limite di tempo. Questo significa che tra tre mesi, un anno o due chiunque potrà edificare una villa sulla costa, in una vallata o in qualunque altro luogo avendo i requisiti di necessità.

Altro aspetto grave è che si fermeranno le demolizioni gli immobili abusivi stabilmente abitati, indipendentemente dalla loro destinazione d’uso, anche nelle aree protette, con vincolo ambientale e idrogeologico perché la legge prevede di mettere per ultimi questi casi.

Invece di approvare norme più stringenti per demolire sul nascere l’abuso e per commissariare quei comuni, anche con lo scioglimento dei consigli comunali, che non sono rigorosi o nell'adottare strumenti urbanistici o nell’eseguire le demolizioni, si è scelta una strada assurda come quella di fermare le ruspe dietro l’alibi delle priorità e dell’inesistente abuso di necessità.

I sottoscritti e le sottoscritte firmatari/e dell’appello chiedono:

1) ai presidenti dei gruppi parlamentari e alla presidente della Camera dei Deputati di non procedere alla calendarizzazione in aula del disegno di legge Falanga, ed in ogni caso a non concedere la legislativa.
2) al presidente del consiglio on. Paolo Gentiloni di trasformare il disegno di legge in oggetto in Decreto Legge con l’eliminazione del comma 6 bis) dell’art. 1 che è la norma che consente il blocco delle demolizioni degli immobili nelle aree vincolate e prevedendo in aggiunta che la norma di acquisizione al patrimonio pubblico degli immobili abusivamente realizzati sia resa efficace.

Tomaso Montanari, Angelo Bonelli, Paolo Berdini, Vittorio Emiliani, Gianfranco Amendola, Giovanni Losavio, Edoardo Salzano, Sauro Turroni, Vezio De Lucia, Fabio Balocco, Luana Zanella, Domenico Finiguerra, Giuseppe Civati, Loredana De Petris, Felice Casson, Filiberto Zaratti, Annamaria Bianchi, Marco Furfaro.

La prefazione all’instant book "Consumo di luogo - Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna" . ilmanifestobologna.it, 25 maggio 2017 (p.d.)

Nelle pagine dell’instant book Consumo di luogo è Cassandra che parla. Nel ciclo dei poemi omerici, la principessa troiana ha un terribile dono: vede in anticipo i disastri futuri, e ha la forza di descriverli a tutti. Cassandra dice la verità: è lei che prova, inutilmente, a convincere i suoi concittadini a non portare dentro le mura di Troia il cavallo di legno lasciato dai greci sulla spiaggia.

Per questo Cassandra è un archetipo dell’intellettuale fedele alla propria missione: «Be’, sai, Cassandra ha una certa fama. Non è poi così male soccombere combattendo come l’ultima persona che dice una verità spiacevole. La verità spiacevole, nella maggior parte dei luoghi, è di solito che ti stanno mentendo. E il ruolo dell’intellettuale è tirar fuori la verità. Tirar fuori la verità, e poi spiegare perché è proprio la verità» (Tony Judt, intervistato da Timothy Snyder, Novecento, 2012).
In questo caso la menzogna è molto semplice: la regione Emilia-Romagna presenta il suo progetto di legge sulla «tutela e l’uso del territorio» come uno «stop all’espansione urbanistica, in nome della rigenerazione urbana e della riqualificazione degli edifici»: ma in questo libro un cospicuo numero di autorevoli cassandre dimostrano che non è vero. Tirano fuori la verità, e spiegano perché è proprio la verità.
Che è questa. Non solo la legge non diminuirà affatto il consumo di suolo, ma essa consente, e anzi facilita, una doppia, drammatica distruzione: quella del passato e quella del futuro, simultaneamente divorati da un presente senza speranza. Con una drammatica inversione di marcia che porterebbe l’Emilia-Romagna dalla testa alla coda della civiltà, i centri storici non saranno più considerati organismi da tutelare nella loro organicità, ma mosaici nei quali alcune tessere potranno essere «rigenerate»: vocabolo ambiguo e pericoloso, sospeso tra il miracolistico e l’eugenetica. Di fatto vuol dire: porte aperte alle speculazioni sullo spazio pregiato, magari affidate alle archistar e certamente senza alcun profitto sociale.
E, cosa se possibile ancor più grave, i comuni verrebbero programmaticamente espropriati della facoltà di decidere il futuro del loro territorio: una possibilità interamente conferita ai privati. Dalla (pessima) urbanistica contrattata si passerebbe così alla (esiziale) urbanistica privatizzata: esattamente il contrario di ogni idea di piano.
Non solo: il contrario di ogni idea di democrazia. Perché dichiarando, di fatto, la sovranità del mercato sulla città delle pietre si stronca ogni possibile futuro della civitas, la città dei cittadini sovrani, gli attori indispensabili della democrazia. Questa perversa legge emiliana si iscrive in un contesto più ampio: perché sono innumerevoli i tentativi recenti di recidere il nesso tra volontà popolare e pianificazione territoriale e urbanistica.
Basti qua ricordare la riforma Madia (che ha espulso ciò che resta del sapere tecnico delle soprintendenze dal meccanismo della conferenza dei servizi) e la riforma costituzionale felicemente affondata il 4 dicembre del 2016 (che accentrava a Roma decisioni cruciali per il futuro di territori che venivano espropriati della loro autodeterminazione). Ora a provarci non è il governo centrale, ma un governo regionale: e non quello di una regione qualunque, ma di quella che un tempo fu lume e guida di tutto il resto del Paese.
Prima che la legge emiliana venga approvata e inizi a devastare il territorio, i massimi esperti di territorio e di città stanno dando l’allarme: e lo fanno con queste pagine. Un grande storico dell’arte, Erwin Panofsky, ha scritto che chi ha il privilegio di abitare nella torre d’avorio degli studi deve rammentare che «la torre dell’isolamento, la torre della “beatitudine egoistica”, la torre della meditazione – questa torre è anche una torre di guardia. Ogni qualvolta l’occupante avverta un pericolo per la vita o la libertà, ha l’opportunità, o anche il dovere, non solo di segnalare “lungo la linea da cima a cima”, ma anche di gridare, nella flebile speranza di essere ascoltato, a quelli che stanno a terra».
Di fronte all’enormità della posta in gioco – la nostra sopravvivenza fisica in territori devastati dal cemento, e la sopravvivenza della nostra democrazia – si potrà ritenere che la parola sia una difesa trascurabile. Si sbaglierebbe: perché questo libro dice la verità, e lo fa in modo documentato e autorevole. E il messaggio è chiaro: non portate il cavallo di legno di questa legge dentro le mura della città. O la città sarà messa a ferro e a fuoco.
Come ha scritto Hannah Arendt, «La verità, anche se priva di potere, e sempre sconfitta nel caso di uno scontro frontale con l’autorità costituita, possiede una forza intrinseca: qualsiasi cosa possano escogitare coloro che sono al potere, essi sono incapaci di scoprire o inventare un suo valido sostituto. Persuasione e violenza possono distruggere la verità, ma non possono rimpiazzarla».
Tomaso Montanari, sarà a Bologna il prossimo 16 giugno (a breve maggiori informazioni) per presentare il libro, curato da Ilaria Agostni, e a discutere di legislazione urbanistica regionale e nazionale.

«Un’abbondanza seriale ha cancellato la sapienza del vocabolario agricolo. Anticipiamo il testo di una delle relazioni previste per il Festival dei sensi ( Valle d’Itria, in Puglia)». il manifesto, 25 maggio 2017 (c.m.c.)

Viviamo certamente e da spettatori spesso impotenti, nell’epoca dei paradossi. Se ne potrebbe stilare un elenco esemplare. Uno di questi, davvero clamoroso, è la foga di accumulazione di nuovi beni da parte dei contemporanei. Una bulimia consumistica che crede di acquisire, di impossessarsi, di conquistare, e invece non si accorge di quante perdite va accumulando nel suo vorace avanzare.

L’agricoltura del nostro tempo è un ambito eccellente per scorgere il vasto continente di beni perduti mentre ci si schiude al presente un’abbondanza da sovrapproduzione. Ricade nell’esperienza di tutti. Mai, in nessuna epoca del passato, i banchi dei mercati, al chiuso e all’aperto, erano stati così traboccanti di verdure, di legumi, di frutta. Un’abbondanza abbagliante. Eppure essa maschera un grave processo di impoverimento generale. L’abbondanza in bella mostra è solo di quantità, non di qualità e soprattutto non di varietà. Pensiamo alla frutta, che è il bene agricolo più familiare ai consumatori.

Certo, oggi la velocità dei vettori di trasporto e la rete del commercio internazionale ci mettono a disposizione anche i frutti tropicali che non crescono nei climi delle nostre campagne. Ma le mele e le pere che mangiamo correntemente, quelle che dominano il mercato, si esauriscono in quattro, cinque varietà, come le Golden, le Gala, l’Annurca, le Renette e, per le pere, l’Abate Fetel, le Decane, le William, le Kaiser e poche altre. Da tempo vivaisti e amatori hanno rimesso in circolazione un po’ di varietà antiche.

Quel che qui si vuol ricordare è che fino a poco più di mezzo secolo fa, le varietà sia di mele che di pere, susine, ciliegie, ecc, erano centinaia e centinaia, non solo sui banchi del mercato, ma nel paesaggio delle nostre campagne. Costituivano il frutto secolare della straordinaria produttività biologica della natura modellata dalla creatività e dal genio di infinite generazioni di contadini.

La perdita, però, non è solo di ordine materiale. Non è solo un vasto patrimonio genetico, accumulato in millenni di storia, che è stato rovinosamente intaccato per far posto a un’abbondanza seriale e senza qualità. Non meno grave è la mutilazione estetica e culturale che abbiamo subito. La varietà della piante coltivate costituiva anche la condizione della varietà e ricchezza del nostro territorio.

Sotto il profilo del paesaggio agrario il Bel paese – quello oggi in gran parte cancellato dalle uniformi e monotone piantagioni industriali – si identificava con l’agricoltura promiscua della società contadina. Un paesaggio vario e multiforme, in cui si alternavano i seminativi al frutteto, il pascolo all’uliveto, l’orto alla macchia. La varietà era componente intrinseca della bellezza.
In Italia la fuoriuscita dalla penuria e dalle fatiche della società contadina – mai abbastanza lodata per le sue componenti di umana liberazione – ha reso tuttavia insensibili i contemporanei di fronte alle gravi perdite di beni immateriali che si andavano nel frattempo accumulando.

Chi non ricorda la solitaria lamentazione di Pier Paolo Pasolini per la «scomparsa delle lucciole»? Oggi la rammentiamo soprattutto perché quella scomparsa era un segnale dell’inquinamento provocato dall’avanzare della chimica nelle nostre campagne. Ma Pasolini recriminava però una perdita più grande e struggente: la scomparsa di una visione del mondo notturno, il buio formicolante di migliaia di lumi che parlava alla fantasia di chi osservava, che aveva popolato per millenni l’immaginario delle popolazioni contadine.

Non costituiva una perdita rilevante la privazione di quella umana esperienza fatta di fascino, fantasticheria, incanto, poesia, che si dileguava per sempre?
Ma l’avanzare dell’agricoltura industriale ha prodotto una perdita culturale gigantesca e assai meno visibile di quella del paesaggio. Nel 1983 un autorevole storico inglese, Keith Thomas nel suo Man and the natural world (Einaudi, 1994) rivelò , e forse fu il primo storico a farlo, la mirabolante conoscenza che i contadini inglesi ed europei avevano della infinita varietà delle piante presenti nelle campagne in età moderna.

Prima della classificazione tassonomica operata da Linneo nel XVIII secolo, che esemplificava l’intricata foresta di nomi di piante e animali, designati con nomi locali, gli agricoltori possedevano una sapienza vernacolare delle piante che noi oggi stentiamo a percepire. Col tempo la riduzione della biodiversità naturale e di quella agricola si è accompagnata alla perdita del patrimonio di cognizioni e di parole che l’accompagnava e l’aveva trasmesso nel corso di millenni.

Insieme alle varietà della flora e della fauna si sono a poco a poco estinte anche le parole, il ricchissimo dizionario che aveva tessuto la lingua geniale che le aveva catalogate e che le faceva quotidianamente vivere nelle comunità. Un processo di perdita giunto fino ai nostri giorni, che non è stato solo di parole, ma come al solito anche di immaginario, di senso, di emozioni, di rapporto della mente con le cose, di relazione tra il corpo umano e le altre creature viventi.

Una vicenda di desertificazione del sopramondo fantastico che accompagnava la vita quotidiana che oggi possiamo certificare in tutta la sua ampiezza. Gian Luigi Beccaria, in un libro prezioso, un archivio della nostra memoria linguistica (I nomi del mondo. Santi, demoni folletti e le parole perdute, Einaudi 1995) ha ricordato che «Il mondo totalmente profano, il Cosmo completamente desacralizzato è una invenzione recente dello spirito umano. Sono cadute da pochissimo dalla memoria collettiva, insieme alle parole, le leggende di un ieri non lontano, radicate in una Europa cristiana fittamente gremita di racconti, con ogni momento della giornata, ogni data dell’anno che traeva con sé una folla di credenze e di parole che vi alludevano».

Di fronte alla sbornia consumistica, che fa da battistrada al nichilismo contemporaneo, non è oggi tempo di guardare, non con nostalgia a un passato non tutto da rimpiangere, ma alla ricchezza dello spettro dell’umana spiritualità, di cui dobbiamo sempre più tener conto in un’epoca unidimensionale di abbondanza e di sperpero? Se pensiamo che l’uomo possa tornare a essere non il centro o il padrone ma «la misura di tutte le cose».

«Le diverse crisi in corso costringono ad abbandonare certezze, immaginari, linguaggi e schemi cognitivi, a ripensare l’insieme delle relazioni sociali». comune-info, 22 maggio 2017 (c.m.c.)

«L’utopia oggi non consiste affatto nel preconizzare il benessere attraverso la decrescita e il sovvertimento dell’attuale modo di vita; l’utopia consiste nel credere che la crescita della produzione sociale possa ancora condurre a un miglioramento del benessere, che essa sia materialmente possibile»[1].

Queste parole di André Gorz, scritte nel lontano 1977, oggi suonano ancora più attuali e azzeccate di allora. Per diverso tempo gli scienziati e gli studiosi che hanno evidenziato e discusso attorno ai danni e ai limiti della crescita sono stati bollati assieme di catastrofismo e di mancanza di realismo. Dopo anni di crisi economica, di aumento delle diseguaglianze, di precarizzazione del lavoro, di indebitamento, di indebolimento delle forme di garanzia sociale, con l’aggravarsi delle problematiche dell’inquinamento, del cambiamento climatico, dei conflitti per le risorse, con la forsennata ricerca di nuovi territori di profitto attraverso la capitalizzazione della natura, dei corpi e della vita stessa, il paesaggio è almeno in parte cambiato.

Il sospetto che i paradigmi interpretativi e gli orizzonti valoriali emersi con la rivoluzione industriale e che si sono cristallizzati nel secondo dopo guerra nell’ideale della crescita economica siano ormai utensili inutilizzabili è un pensiero che inizia a diffondersi anche negli ambienti più convenzionali. Ma l’invenzione e la ricostruzione di paradigmi interpretativi differenti, richiede di accettare di abbandonare certezze e sicurezze che si appoggiano non solo a canoni disciplinari codificati ma anche a immaginari, linguaggi e schemi cognitivi depositati nell’esperienza comune.

Ciò di cui discutiamo non è semplicemente una revisione dei modelli o delle politiche economiche ma piuttosto un ripensamento radicale del nostro modo di concepire la modernità, l’insieme delle relazioni sociali, l’idea di benessere e di benvivere, le logiche di fondo alla base dell’evoluzione tecnica e organizzativa e della costruzione di una democrazia politica.

La decrescita non è una soluzione o una facile ricetta, ma è piuttosto un orientamento di fondo e un orizzonte di ricerca e sperimentazione pratico e teorico[2]. Nel dibattito sulla decrescita convergono in effetti riflessioni maturate attorno a diversi ambiti e a relative crisi che si delineano nel nostro tempo: una crisi economica, una crisi ecologica, una crisi energetica, una crisi politica, una crisi sociale e culturale.

Interconnessioni

Le diverse crisi e problematiche sia di tipo ambientale che economico e sociale, sono fra loro interconnesse e si influenzano a vicenda ponendo tutta una serie di questioni e sfide alla politica. Quella che chiamiamo crisi ecologica ha profonde implicazioni politiche ed economiche perché altera e spesso compromette gli ambienti ecologici e sociali sui quali si fonda la vita e il benessere delle comunità.

Vediamo tre scene diverse, che riguardano l’estrattivismo, la crisi alimentare e il cambiamento climatico.

L’economia legata all’estrattivismo pone problemi non solo a valle, nel consumo e nelle emissioni ma anche a monte, nel prelievo di risorse. Quando pensiamo al petrolio noi sul piano ambientale siamo concentrati soprattutto sui danni che derivano dal consumo, per esempio della benzina e quindi dalle emissioni di CO2 e dall’effetto serra. Ma questo è solo una parte del problema. Il resto riguarda l’estrazione, lo sfruttamento, nonché la distribuzione. Le stesse attività di estrazione intatti determinano una distruzione dell’ambiente circostante, esplorazioni sismiche con dinamite, deforestazione, la contaminazione del terreno, delle acque superficiali, estinzione delle sorgenti d’acqua, danni alla flora e alla fauna che spesso fugge spaventata.

Anche il trasporto del petrolio che richiede la costruzione di oleodotti determina un forte impatto ambientale. Sul piano sociale poi i danni sono ancora più immediati e visibili. Lo sfruttamento petrolifero, quando avviene in territori abitati, può determinare tutta una serie di violenze sulla popolazione locale. Le popolazioni locali possono essere deportate e represse, le comunità spesso sono distrutte nella loro organizzazione sociale, ecologica ed economica. Spesso ne nascono dei conflitti violenti tra governi, multinazionali e popolazioni indigene. Va anche notato che man mano che la pressione sulle risorse aumenta ed esse iniziano a scarseggiare, comincia una sempre più disperata ricerca di risorse in condizioni e con processi sempre più difficili, costosi e inquinanti che producono conseguenze sociali e politiche ancora più gravi[3].

Il petrolio non è peraltro l’unica risorsa chiave. Lo è e lo diventerà sempre di più anche l’acqua. Persino nei conflitti che affliggono attualmente Iraq e Siria, il tema dell’acqua sta diventando sempre più centrale, e gli osservatori politici sottolineano che il controllo delle fonti idriche finirà col divenire più importante del controllo delle raffinerie di petrolio[4].

Cambiando scenario, il collasso del patrimonio biologico sta avendo fra l’altra conseguenze visibili per esempio sulla disponibilità e sul costo del cibo (frumento, granturco, riso, mais, pesce ecc.). Negli ultimi anni si sono registrate sempre più spesso delle proteste e delle rivolte per questioni alimentari. Per esempio l’aumento del costo di riso, latticini, carne, zucchero e cereali è stato alla base di una forte ondata di proteste verificatasi tra il 2007 e il 2008, in paesi come Haiti, Messico, Nicaragua, Guatemala, Thailandia, Indonesia, Filippine, India, Bangladesh, Egitto, Yemen, Pakistan, Uzbekistan, Costa d’Avorio, Etiopia e gran parte dell’Africa subsahariana. In alcuni paesi come Haiti i prezzi dei prodotti alimentari sono saliti mediamente del 40 per cento in meno di un anno. Il riso è raddoppiato di prezzo. In Bangladesh tra il 2007 e il 2008 il prezzo del riso è raddoppiato a fronte di uno stipendio medio mensile di soli 25 dollari. Nello stesso periodo in Egitto i prezzi dei prodotti alimentari sono aumentati del 40 per cento.

Ma anche la scintilla delle diverse delle rivolte nel Maghreb e in altre zone del 2011, è venuta da una rivolta contro il peggioramento delle condizioni economiche, una crescita dei costi dei beni primari, in particolare alimentari, a fronte di un reddito piuttosto basso (7.100 euro lordi all’anno è il reddito medio in Tunisia, 4.665 euro lordi è il reddito medio in Egitto). Quello che è successo in questi ultimi anni nel Maghreb, in Africa e nel Medio oriente – mi riferisco alle rivolte in Algeria, Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein, Siria, Libia, Marocco, Arabia Saudita, Oman, Iraq, Sudan, Mauritania, Uganda – ci racconta ancora una volta della centralità delle risorse e del legame tra beni fondamentali nel nord e nel sud del mondo.

L’aumento fortissimo dei costi dei cereali e del pane e di altri beni alimentari tra il 2007 e il 2011 è il risultato di diversi fattori tra loro intrecciati:
– la crescita della popolazione mondiale e della domanda di questi beni. In particolare occorre tener conto del mutamento dei rapporti tra la popolazione urbana e quella rurale, nonché della trasformazione delle abitudini alimentari;
– il cambiamento climatico che produce un aumento della temperatura globale ma anche una estrema variabilità del clima stagionale con la produzione di fenomeni estremi;
– fenomeni locali come picchi di siccità o l’esaurimento degli acquiferi; per esempio nel 2012 una terribile siccità ha colpito Usa, Russia e Kazakhstan, riducendo del 3% il raccolto globale dei cereali;
– la diminuzione di suoli fertili sia per il fenomeno dell’erosione e della desertificazione che per l’espandersi dell’urbanizzazione e della cementificazione unito all’impossibilità in molte aree di estendere ulteriormente l’estensione delle terre coltivate;
– la crescita dei costi di investimento dovuti alla diffusione dell’agricoltura industriale e al fenomeno dei “brevetti” dei semi.
– fenomeni economici come l’aumento del prezzo del petrolio. In effetti la meccanizzazione dell’agricoltura (l’uso di macchinari agricoli a motore), l’uso di pesticidi, erbicidi e fertilizzanti (derivati dal petrolio) e il costo della distribuzione dei cereali verso i mercati ha determinato una situazione in cui un qualsiasi aumento dei costi del petrolio fa scattare un aumento dei beni alimentari di base. Si creano dunque dei circoli viziosi, con degli anelli di feedback negativo. Come ha scritto Michael Klare, «il prezzo del petrolio fa salire quello dei generi alimentari; a sua volta il rincaro del cibo provoca disordini politici nei paesi produttori di petrolio, che di conseguenza spingono ancora più in alto i prezzi del greggio e quindi quelli dei generi alimentari».[5]
– Il tentativo di alcuni governi di diminuire la dipendenza dal petrolio e le emissioni di CO2 che contribuiscono al riscaldamento globale indirizzandosi verso le coltivazioni di biocarburante piuttosto che di cibo. Questo a sua volta, diminuendo le disponibilità, ha contribuito ad alzare i prezzi dei beni alimentari.
– Infine un ulteriore elemento da tenere in considerazione è stata la speculazione finanziaria alimentare. Negli ultimi anni con la liberalizzazione del mercato le banche, le finanziarie e i fondi di investimento, quindi gli investitori internazionali hanno fatto grandi speculazioni sui beni alimentari attraverso la compravendita di titoli (futures). Si stima che oramai oltre un 70 per cento degli scambi in questo mercato sia di tipo speculativo, ovvero fatto da persone che sono di fatto totalmente estranee alla produzione agricola.

Questo aumento dei costi dei beni alimentari primari come i cereali provoca a sua volta alcuni effetti a catena. In primo luogo accade che i paesi esportatori comincino a limitare le esportazioni per tenere più bassi i prezzi dei beni alimentari al proprio interno e questo produce una diminuzione della disponibilità di cibo e un problema di improvvisa scarsità nei paesi importatori con un più basso reddito.

Di fatto i rincari dei generi alimentari hanno spinto sull’orlo della denutrizione oltre 75 milioni di persone. Attualmente si calcola che circa 799 milioni di persone al mondo (il 18 per cento della popolazione mondiale) soffrano la fame. Cina a parte, la percentuale di persone in condizioni di insicurezza alimentare sulla popolazione è aumentata in diverse zone del mondo, dal Sud America dove nell’ultimo decennio è cresciuta del 19 per cento all’Asia dove è cresciuta del 9 per cento. Nella sola Africa il problema della fame investe fino al 35 per cento della popolazione.

L’aumento dei costi, la diminuzione delle esportazioni, la scarsità di cibo, l’aumento della fame, il sorgere delle proteste fa si che alcune nazioni cerchino di tutelarsi appropriandosi di terre in altri paesi, dando luogo così al fenomeno noto come land grabbing. Questo naturalmente può creare nuovi conflitti e nuovi problemi di giustizia ambientale e sociale.

Secondo uno studio accurato di tre ricercatori[6] è possibile notare che quando il Food Price Index[7] della FAO raggiunge o supera l’indice di 210 è probabile lo scoppio di rivolte per il cibo. Non è un caso che un attento commentatore di questioni politiche e di conflitti Nafeez Mosaddeq Ahmed ha sottolineato che nel prossimo futuro le rivolte per il cibo potrebbero diventare la normalità della nostra vita.[8]

Tutto questo ci ricorda comunque la centralità del problema del cibo nei decenni a venire. Nei paesi occidentali gli effetti di questi cambiamenti generalmente si vedono in ritardo perché in una prima fase quello che viene intaccato sono le scorte, gli stock di riserva, ovvero il surplus della produzione per esempio cerealitica. Negli ultimi due decenni negli Usa come in Europa sono stati via via erosi i margini di sicurezza in questo campo. Come ha scritto Lester R. Brown, «Il mondo sta passando da un’epoca caratterizzata da una grande abbondanza di cibo a una di scarsità. Nel corso degli ultimi dieci anni, le riserve globali di cereali sono diminuite di un terzo. A livello mondiale i prezzi degli alimenti sono più che raddoppiati, stimolando una corsa planetaria ai terreni agricoli e ridisegnando la geopolitica del cibo. In questo nuovo periodo storico, il cibo è importante come il petrolio e il terreno agricolo è prezioso come l’oro».[9]

Ora torniamo al tema del cambiamento climatico per sottolineare questa volta, che esso avrà numerose conseguenze sociopolitiche legate a questioni quali la carenze di scorte alimentari, l’acidificazione degli oceani, la diminuzione di disponibilità di acqua potabile, l’aumento della desertificazione e della salinità dei terreni, inondazioni causate da eventi climatici estremi, migrazioni di massa e profughi climatici, aumento dei conflitti per le risorse e infine moltiplicazione di occasioni di violenza in direzione di quelle che sono già state ribattezzate “guerre climatiche”. In sostanza i mutamenti climatici si tradurranno in un vistoso aumento delle catastrofi sociali che colpiranno fra l’altro in modo disuguale i paesi più ricchi e responsabili di questo stato di fatto e i paesi meno responsabili ma anche meno attrezzati a fare fronte ai disastri climatici.

Noi non siamo abituati a pensare che queste emergenze possano colpire anche noi, ma uno studioso come Harald Welzer ci mette sull’avviso: «una fase di prosperità che ormai dura nei paesi occidentali da due generazioni fa si che si ritenga la stabilità ciò che è lecito attendersi e l’instabilità ciò che è da escludere. Se si è cresciuti in un mondo in cui non ha mai avuto luogo una guerra, non sono mai state distrutte delle infrastrutture a causa di terremoti, non c’è mai stata fame, si ritengono la violenza di massa, il caos e la povertà problemi che riguardano gli altri»[10].

In realtà quanto più governi e popolazioni dei paesi più inquinanti rimanderanno interventi e azioni volte all’autocorrezione e autolimitazione, tanto più le condizioni peggioreranno e la pressione per soluzioni rapide e drastiche si farà più intensa. Questo potrebbe stimolare l’uso della violenza. Uno studioso di diversa impostazione come Gwynne Dyer[11] ricorda come gli scenari legati al cambiamento climatico giocano un ruolo sempre più importante nella pianificazione militare delle grandi potenze. In altre parole sono le agenzie militari e di sicurezza le prime a basarsi su scenari realistici di tensioni o conflitti dovuti a mutamenti climatici.

Dunque su questo sfondo emergono i conflitti ambientali e i rifugiati ambientali, le guerre per le risorse, le guerre del cibo e dell’acqua, nonché le prime guerre climatiche. Insomma c’è un evidente correlazione tra questioni ecologiche, questioni energetiche, questioni economiche, questioni sociali e questioni politiche.

La crisi della politica non è solamente legata ad una semplice mala gestione delle risorse ma mette in evidenza quanto il tradizionale nazionalismo politico si scontri con un contesto ambientale che il più delle volte non corrisponde ai confini statali e che rappresenta un possibile ostacolo nell’affrontare problematiche ecologiche ampie e complesse. La crisi politica è anche una crisi che riguarda i rapporti tra generi e generazioni. I regimi democratici si rivelano incapaci nel loro funzionamento ordinario, costituito da scadenze elettorali, dalla competizione nello spazio pubblico, e dalla costruzione del consenso nel brevissimo periodo di incorporare una responsabilità intergenerazionale di più ampio respiro. Idee e prospettive di azione e rinnovamento relative e a risorse, clima, inquinamento si misurano anche con i limiti culturali dei nostri sistemi e delle nostre istituzioni politiche. È chiaro che oggi non possiamo più permetterci il lusso di affrontare un problema in maniera isolata non tenendo conto del contesto più ampio.

Oggi siamo chiamati a leggere e interpretare le interdipendenze tra fenomeni diversi e complessi quali le dinamiche del commercio internazionale, la disponibilità e il costo economico e sociale delle risorse, l’organizzazione del sistema agroalimentare globale, il consumo energetico, il problema delle emissioni di CO2, il riscaldamento climatico, l’erosione della biodiversità, i conflitti ambientali e le lotte per i beni comuni. Tutto questo chiama in causa il nostro stile di vita, le nostre abitudini quotidiane, il nostro rapporto con altri paesi e culture, e un sempre più inevitabile ripensamento delle relazioni sociali fondamentali tra uomini e donne di differenti generazioni.

In questo stesso potremmo dire che l’idea stessa di “crisi”, pur rimanendo imprescindibile, si rivela per molti aspetti inadeguata. In primo luogo perché come abbiamo visto queste crisi non si sommano semplicemente l’una all’altra ma si intrecciano e si rafforzano vicendevolmente fino a gettare le basi di una riconfigurazione complessiva. In secondo luogo perché non stiamo parlando di qualcosa di reversibile ma di qualcosa che segna un profondo momento critico, e probabilmente un punto di non ritorno. Certo possono essere possibili parziali rilanci, magari favoriti dalla scoperta di nuovi giacimenti di petrolio, da nuove tecnologie, da nuove forme di sfruttamento o da speculazioni sempre più sofisticate.

Questo potrà dilazionare i tempi ma non modificherà il senso della parabola che stiamo vivendo. Non sarà l’uscita dalla crisi che molti ancora sognano. In questa prospettiva il discorso sulla decrescita rappresenta un richiamo a rileggere quello che stiamo vivendo in termini più complessivi di Passaggio di civiltà. «La convinzione secondo cui tutte le società prima o poi seguiranno i modelli di sviluppo dei paesi della OECD si è rivelata nient’altro che un’illusione, e per giunta antistorica – ha notato Harald Welzer – : l’esperimento occidentale è in corso da duecentocinquanta anni e la fine di questo esperimento non segnerà certo la fine della storia»[12].

La questione è allora come ci poniamo di fronte a sfide di questo livello che richiedono non un diverso governo o una differente maggioranza politica, ma un ripensamento complessivo della nostra visione ecologica, sociale, economica e politica del mondo.

Tra paure e desideri di cambiamento

Come ha scritto Robert Engelman, presidente del Worldwatch Institute, «A meno che gli scienziati siano completamente fuori strada nella loro comprensione del mondo biofisico, sarebbe saggio oggi pensare a un “contenimento drastico” e rapido della domanda – che si voglia chiamare decrescita o semplicemente risposta adattativa a un pianeta ipersfruttato – per dirigersi verso un mondo davvero sostenibile che soddisfi i bisogni umani»[13]

La riflessione sulla decrescita si offre dunque come una discussione differente nella percezione della portata e della natura dei cambiamenti che dobbiamo affrontare. La proposta della decrescita è nata in opposizione a teorie ingannatrici come quelle dello sviluppo sostenibile. L’idea di sviluppo sostenibile ha avuto tanto successo perché va bene a tutti. Perché in fondo ci da l’illusione che possiamo continuare sulla stessa strada di sempre con qualche attenzione e cautela in più. Molti dei nostri discorsi, dei nostri saperi producono la stessa consolante illusione.

La parola decrescita è urtante, da fastidio. Ed è questo che la rende potente. Perché ci ricorda che non un sistema ma un’intera era è finita. Che la civilizzazione che l’ha caratterizzata è al collasso e che l’unica possibilità di immaginare un futuro vitale sta in un profondo cambiamento riflessivo. L’idea di decrescita contiene un richiamo ad elaborare questo lutto e a riconoscere la necessità di una radicale discontinuità. Qui ci scontriamo con i limiti della nostra immaginazione, ma la nostra ricerca sociale e politica dovrebbe focalizzare l’attenzione su questo.

Qualche tempo fa Ulrich Beck ha notato che «Le questioni principali delle teorie della società si riferiscono perlopiù alla stabilità e alla creazione dell’ordine e non a ciò di cui ci tocca di fare esperienza e che perciò dobbiamo comprendere: un mutamento epocale e discontinuo della società nella modernità»[14].

Mi sembra una buona intuizione che dobbiamo assolutamente sviluppare. In termini di ricerca occorre studiare e immaginare le forme di una discontinuità radicale e il possibile disordine tenendo conto insieme delle possibili o probabili dimensioni negative (conflitti per le risorse, guerre climatiche, rifugiati ambientali) ma anche creative (fantasia e reinvenzione, movimenti emergenti, economia solidale, iniziative di transizione, ecc). C’è un enorme possibilità di ricerca se solo apriamo le nostre menti alla consapevolezza riflessiva della estrema fragilità della nostra civiltà consumistica e se allarghiamo la nostra capacità di immaginazione.

Come ha notato Andrè Gorz «La decrescita è dunque un imperativo di sopravvivenza. Ma essa suppone un’altra economia, un altro stile di vita, un’altra civiltà, altri rapporti sociali. In assenza di questi, il crollo non potrebbe essere evitato se non a forza di restrizioni, razionamenti, allocazioni autoritarie di risorse, caratteristiche di un’economia di guerra. L’uscita dal capitalismo dunque avrà luogo in un modo o nell’altro, sarà civilizzata o barbara. La questione riguarda soltanto la forma che questa uscita prenderà e la cadenza secondo la quale andrà a realizzarsi»[15].

Da un punto di vista sociale ed educativo dovremmo concentrare i nostri sforzi su due aspetti, il disapprendimento (lavoro riflessivo di decostruzione e destrutturazione) e il pensiero creativo capace non solo di scarti ed invenzioni ma anche di nuove sintesi. Sono necessari entrambi.

Credo che l’aspetto più difficile di fronte a questa sfida sia come tener insieme il senso di urgenza e l’avvertito timore per le prove che ci aspettano, con il desiderio e la fiducia nella possibilità di cambiamento nonché la riscoperta di un rapporto diverso con noi stessi, con le nostre alterità, e con tutto il vivente.

La consapevolezza di un pericolo non coincide infatti con la motivazione al cambiamento. Come hanno notato Miguel Beanasayag, Gérard Schmit, «Se gli adulti si esprimono in termini di minaccia o di prevenzione-predizione, è senza dubbio perché pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. E poi, si dicono, “per quel che riguarda il desiderio e la vita, si vedrà dopo, quanto tutto andrà meglio”. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo da produrre qualcosa di diverso dal disastro.

La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio, al massimo sono desideri formattati e normalizzati. […] La grande sfida lanciata alla nostra civiltà è quindi quella di promuovere spazi e forme di socializzazione animati dal desiderio, pratiche concrete che riescono ad avere la meglio sugli appetiti individualistici e sulle minacce che ne derivano. Educare alla cultura e alla civiltà significava – e significa ancora – creare legami sociali e legami di pensiero»[16]. I due autori richiamano quelle che Spinoza chiamava le passioni gioiose. Occorre mostrare pratiche ed esperienze di relazione e di condivisione più potenti, ricche e desiderabili di quelle offerte dal consumo privato e dalla competizione.

Il successo crescente di manifestazioni come le Conferenze internazionali sulla decrescita (Parigi, Barcellona, Venezia, Lipsia, Budapest) dove si ritrovano persone da tutto il mondo per discutere delle strade di un cambiamento epocale costituisce uno dei tanti segnali di incoraggiamento. Dimostra che dentro le società ricche e sviluppate si sta facendo largo un movimento profondamente consapevole che la civiltà dell’accumulazione, del consumismo e della crescita si rivela oggi per quel che realmente è: una parentesi nella storia umana, un vicolo cieco evolutivo. L’idea della ricerca di una qualità della vita differente fondata sulla frugalità, sul fare con meno, non è più il patrimonio di una nicchia ma sta pian piano attraversando l’intero corpo sociale e diventando un patrimonio diffuso.

Nel cuore delle società opulente ci sono persone che si impegnano in una riduzione dei consumi, in una trasformazione degli stili di vita, nella riscoperta di saperi artigianali e nella sperimentazione di nuove forme di riciclo e riuso; in un contesto di crisi del lavoro c’è un crescente ritorno all’agricoltura contadina e ci sono persone che inventano modelli di scambio, di condivisione, e forme di economia solidale; in un contesto di crisi energetica e di mutamento climatico comincia un ripensamento delle forme di mobilità tanto che negli ultimi anni in Italia come in altri paesi europei le vendite delle biciclette superano quelle delle auto. Nel 2012 per la prima volta in 26 dei 28 paesi dell’Unione Europea sono state vendute più biciclette che automobili.

Forse qui c’è un insegnamento da trarre. Quando pensiamo al cambiamento pensiamo alla sostituzione di una struttura con un’altra, ma fatichiamo a vedere la propensione, la tensione, la modificazione che stira e deforma il mondo di cui facciamo parte. Fatichiamo a parlare di decrescita nel momento in cui la crescita declina in decrescita. O del lavoro nel momento in cui il lavoro salariato muta verso forme di lavoro ibride e plurali. Dobbiamo invece vedere quello che sta emergendo di nuovo dentro il deperimento del vecchio. Attraverso tutte quelle forme di autorganizzazione, di autoproduzione, di scambio e condivisione si riduce pian piano la propria dipendenza dal mercato e si va lentamente ricostituendo una forma di “sussistenza moderna”[17]. Al momento si tratta di movimenti silenziosi, ma che presto – sotto la spinta di pressioni esterne – subiranno una forte accelerazione e il miraggio della crescita perderà rapidamente tutta la sua credibilità. Insomma ciò in cui siamo imbarcati con tutte le difficoltà e le sfide del caso non è il fatto di risolvere una crisi economica ma l’affrontare un vero e proprio passaggio di civiltà.

Il futuro non è ovvio

La prospettiva che si è delineata nelle ultime Conferenze internazionali sulla Decrescita (Parigi 2008, Barcellona 2010, Venezia 2012, Lipsia 2014, Budapest 2016) è quella di un movimento non solo capace di integrare percorsi e sensibilità differenti ma di offrire un orizzonte di pensiero culturalmente ampio e complesso da diversi punti di vista.

In primo luogo si tratta di mettere in relazione culture formali e istituzionalizzate tramite la ricerca teorica e scientifica e culture informali e autoprodotte in una miriade di esperienze dal basso. In questa prospettiva studiosi e studiose del mondo universitario, degli istituti di ricerca, o di realtà indipendenti, si incontrano e si confrontano con attivisti e attiviste, persone impegnate a costruire ogni giorno progetti, esperienze e pratiche concrete di cambiamento sociale, economico e politico. Riteniamo infatti che la ricerca teorica e le pratiche concrete debbano procedere attraverso uno scambio e un confronto continuo poiché linguaggi, saperi e immaginari producono cambiamenti profondi e pratici nelle nostre vite, mentre le esperienze, le prassi e le sperimentazioni sono di per sé impregnate di assunti teorici e producono continuamente nuove forme di riflessione e di conoscenza che vanno nominate e organizzate.

In secondo luogo l’orizzonte della decrescita si caratterizza per una pronunciata transdisciplinarietà. Quella della decrescita non è infatti una proposta semplicemente o principalmente economica. Anzi riteniamo che rinunciare al pensiero unico, o alle forme di riduzionismo significa anzitutto rinunciare a pensare per ambiti separati. Il mondo, la natura, le nostre vite non sono fatti di pezzi separati o di conoscenze separate e sconnesse. Abbiamo bisogno di un sapere plurale e polivalente che tagli, attraversi e intrecci discipline della vita e della terra, con discipline umane, culturali e sociali; discipline politiche ed economiche, con discipline del corpo, dell’arte e della comunicazione per realizzare quella che Gregory Bateson chiamava ecologia della mente o ecologia dei saperi[18] o che Roger Callois chiamava scienze diagonali[19]. Per affrontare le sfide che ci attendono abbiamo cioè bisogno di un sapere delle relazioni e delle interconnessioni.

La stessa parola “decrescita” non è una categoria che si può utilizzare ovunque ed essere spacciata come nuovo paradigma universalista. Questa parola nasce dalla storia dell’Occidente e parla in primo luogo del passaggio di civiltà che occorre fare in questa parte del mondo per ritrovare le forme di una vita buona, conviviale e soddisfacente. Ma la ricerca della buona vita si nutre di percorsi plurali. Ha bisogno di parole e visioni diverse a seconda dei territori, delle culture, delle condizioni di vita: a seconda dei luoghi si può chiamare decrescita, buen vivir, rigenerazione, sussistenza, ecc. Come ha scritto Serge Latouche: «Si potrà chiamare umran (realizzazione) come in Ibn Khaldun, swadeshi-sarvodaya (miglioramento delle condizioni sociali di tutti) come in Gandhi, botaare (star bene insieme) come tra i toucouleur, o fidnaa/gabbina (dispiegamento di una persona ben nutrita e libera da ogni preoccupazione) come tra i borana d’Etiopia, o semplicemente sumak kausai (vivere bene) come tra i quechua dell’Equador»[20].

Per questo motivo dobbiamo pensare al percorso da compiere nei termini di un incontro di soggetti, reti, movimenti e filoni di pensiero differenti e plurali che propongono un’idea di transizione, di trasformazione, di giustizia, solidarietà e sostenibilità che a nostro avviso si possono incontrare e confrontare anche criticamente con le idee della decrescita: le prospettive della sussistenza e del dopo sviluppo, i movimenti per la transizione, i movimenti ambientalisti, il femminismo e l’ecofemminismo, l’associazionismo culturale e sociale, i centri sociali, l’economia ecologica, il pensiero della complessità, le reti dell’Economia solidale, i movimenti per il consumo critico e il cambiamento di stili di vita, le esperienze dei Forum Sociali, i movimenti per l’Acqua pubblica, per i beni comuni, i movimenti contro il consumo di suolo, i movimenti per la riduzione dei rifiuti e per la salute ambientale, i movimenti per la sovranità alimentare, Slow Food, I movimenti per la giustizia ambientale, la Teologia della Liberazione e movimenti di impegno religioso, i movimenti per la democrazia partecipativa, i movimenti per il ripensamento del lavoro ecc.

Ci auguriamo che tutte queste esperienze possano contaminare e arricchire la riflessione sulla decrescita e che la proposta della decrescita possa contaminare e arricchire queste esperienze. Se vogliamo riuscire a dar vita a un movimento capace di cambiare davvero il mondo in cui viviamo, di realizzare una grande transizione verso una società più equa, solidale e sostenibile, abbiamo assolutamente bisogno di confrontarci con questa pluralità e più in generale con le differenze che abitano tra noi: differenze sessuali e di genere, di generazioni, di culture, di storie. Lo spirito che ci deve muovere non è quello di chi cerca di incontrare l’identico ma di chi vuole ascoltare e dialogare ricercando relazioni, connessioni e convergenze a partire da una comune tensione per un mondo migliore. Il futuro non è ovvio. In verità stiamo partecipando ad un movimento di trasformazione più grande e più profondo, che ora possiamo solamente intuire e che infine ci cambierà tutti.

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NOTE
[1]André Gorz, Ecologia e libertà, Éditions Galilée, Paris, 1977; trad. it., Ecologia e libertà, a cura di Emanuele Leonardi, Orthotes, Napoli, 2015, p. 40.
[2]La letteratura internazionale sulla decrescita è molto vasta e impossibile da riassumere. In lingua italiana si possono vedere fra l’altro: Jean-Louis Aillon, La decrescita, i giovani e l’utopia. Comprendere le origini del disagio per riappropiarci del nostro futuro, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2013; Denis Bayon, Fabrice Flipo, Francois Schneider, La decrescita. 10 domande per capire e dibattere, Asterios, Trieste, 2012; Marino Badiale, Massimo Bontempelli, Marx e la decrescita. Perché la decrescita ha bisogno di Marx, Asterios, Trieste, 2010; Emiliano Bazzanella, Oltre la decrescita. Il tapis roulant e la società dei consumi, Asterios, Trieste, 2011; Jean-Claude Besson-Girard, Decrescendo cantabile. Piccolo manuale per una decrescita armonica, Jaca Book, Milano, 2007; Bruna Bianchi, Paolo Cacciari, Adriano Fragrano, Paolo Scroccaro, Immaginare la società della decrescita, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2012; Mauro Bonaiuti (a cura di), Obiettivo decrescita, Emi, Bologna, 2006; Mauro Bonaiuti, La grande transizione. Dal declino alla società della decrescita, Bollati Boringhieri, Torino, 2013; Paolo Cacciari, Pensare la decrescita. Sostenibilità ed equità, Carta/Edizioni IntraMoenia, Napoli, 2005; Paolo Cacciari, Decrescita o barbarie, Edizioni Carta, Roma, 2008; Alain De Benoist, Comunità e Decrescita. Critica della ragion mercantile, Arianna Editrice, Bologna, 2006; Paolo Ermani, Valerio Pignatta, Pensare come le montagne. Manuale teorico pratico di decrescita per salvare il Pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terra Nuova Edizioni, Firenze, 2012; Giuseppe Giaccio, La decrescita. Un mito post-capitalista, Diana, Frattamaggiore, 2013; Angela Giustino Vitolo e Nicola Russo, Pensare la crisi. Crescita e decrescita per l’avvenire della società planetaria, Carocci, Roma, 2013; Anselme Jappe, Serge Latouche, Uscire dall’economia. Un dialogo fra decrescita e critica del valore: letture della crisi e percorsi di liberazione, Mimesis, 2014; Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2007; Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008; Serge Latouche, Mondializzazione e decrescita, Dedalo, Bari, 2009; Serge Latouche, Come si esce dalla società dei consumi, Bollati Boringhieri, Torino, 2011; Giovanni Mazzetti, Critica della decrescita, Edizioni Il Punto Rosso, Milano, 2014; Maurizio Pallante, La decrescita felice, Editori Riuniti, Roma, 2005; Maurizio Pallante (a cura di), Un programma politico per la decrescita, Edizioni per la decrescita felice, Roma, 2008; Maurizio Pallante, Meno è meglio. Decrescere per progredire, Bruno Mondadori, Milano, 2011; Valerio Pignatta, L’insostenibile leggerezza dell’avere. Dalla decrescita alla pratica: la decrescita nella vita quotidiana, Emi, Bologna, 2009; Nicolas Ridoux, La Decrescita per tutti, Jaca Book, Milano, 2008; Filippo Schillaci, 2013, Un pianeta a tavola. Decrescita e transizione alimentare, Edizioni per la decrescita felice, Roma; Fabrizio M. Sirignano, Pedagogia della decrescita. L’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano, 2012; Gianni Tamino, Paolo Cacciari, Adriano Fragrano, Lucia Tamai, Paolo Scroccaro, Silvano Meneghel, Decrescita. Idee per una civiltà post-sviluppista, Sismondi Editore, 2009.
[3]Fra le altre cose si pensi anche al tema emergente dei terremoti stimolati dalle nuove tecniche di estrazione degli idrocarburi, come il fracking.
[4]Cfr. John Vidal, “La guerra per l’acqua”, (The Guardian)Internazionale, n. 1059, 11 luglio 2014, p. 18-19.
[5]Michael Klare “Il circolo vizioso”, Internazionale n. 891, 1 aprile 2011, p. 39.
[6]Marco Lagi, Karla Z. Bertrand, Yaneer Bar-Yam, “The Food Crises and Political Instability in North Africa and the Middel Est”, New England Complex Systems Institute, http://necsi.edu/research/social/food_crises.pdf
[7]L’indice FAO è una media dei prezzi globali di cereali, olii, carne, latticini e zucchero,
[8]Nafeez Mosaddeq Ahmed, “Why food riots are likely to become the new normal“, The Guardian, march 6, 2013, http://www.theguardian.com/environment/blog/2013/mar/06/food-riots-new-normal
[9]Lester R. Brown, 9 miliardi di posti a tavola. La nuova geopolitica della scarsità di cibo, Edizioni Ambiente, Milano, 2012, p. 35.
[10]Harald Welzer, Guerre climatiche, Asterios, Trieste, 2011, p. 207.
[11]Gwynne Dyer, Le guerre del clima, Tropea, Milano, 2012.
[12]Welzer, op. cit, p. 239.
[13]Robert Engelman, “Oltre la sosteniblablablà”, in Worldwatch Institute, State of the World 2013. È ancora possibile la sostenibilità?, Edizioni Ambiente, Milano, 2013, p. 49.
[14]Ulrich Beck, Disuguaglianze senza confini, Laterza, Roma-Bari, 2011, pp. 31-32.
[15]André Gorz, “L’uscita dal capitalismo è già cominciata” in Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009, p. 33.
[16]Miguel Beanasayag, Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 63.
[17]Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Boroli Editore, 2005, p. 78.
[18]Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 2000.
[19]Roger Caillois, L’occhio di Medusa. L’uomo, l’animale, la maschera, Raffaello Cortina, Milano, 1988.
[20]Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale. Malintesi e controversie sulla decrescita, Bollati Boringhieri, 2011, p. 122.
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Anche Italia Nostra reagisce allo scandaloso tentativo dell'Università Iuav e del Mit di far risparmiare alle imprese del Consorzio Venezia nuova i soldi dovuti per il ripristino dell'ambiente deturpato. La Nuova Venezia, 23 maggio 2017

Venezia. Un esposto alla Corte dei Conti perché gli 11 ettari di cemento armato dell’enorme piattaforma “temporanea” realizzata a Santa Maria del Mare, a Pellestrina, siano effettivamente smantellati - come previsto - dopo la realizzazione del Mose e non vengano spesi altri soldi pubblici per riconvertirli in mini porto off-shore, né tantomeno ospitino per tre anni gli studenti di Iuav e Mit di Boston per un progetto sul riuso dei luoghi, come invece prevede un recente accordo tra il commissario del Consorzio Venezia Nuova Ossola e lo Iuav.

A firmare l’ennesima denuncia “attorno” al Mose è Italia Nostra, nelle settimane in cui il presidente del Porto, Pino Musolino, ha annunciato la progettazione di un nuovo scalo per grandi navi porta-container nell’area della conca di navigazione in bocca di porto di Malamocco, e lo Iuav ha siglato con il Consorzio il progetto “Reinventing places, Venice Mose. Studio in un sito temporaneo tra mare e Laguna”, per trasformare la piattaforma in un villaggio dove gli studenti possano progettare in loco il recupero del “dopo cantiere”.
«Progetti che ci sorprendono», commenta Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra Venezia, «ricordando che lo stesso presidente del Provveditorato alle opere pubbliche, Linetti, ha preso posizione per dire come “in quell’area già problematica per la navigazione, vista la presenza delle paratoie del Mose e della conca, aggiungere altre navi potrebbe aumentare i problemi”». «Questa enorme piattaforma di cemento è stata costruita in un ambiente oggetto di vincoli paesaggistici e ambientali, priva di tutte le autorizzazioni», prosegue Fersuoch, «La Commissione europea aprì una procedura d’infrazione contro lo Stato, risoltasi nel 2009 con un’archiviazione “per ragioni di opportunità” perché lo Stato si era impegnato a fare delle opere di compensazione ambientale. Nella lettera di messa in mora si ribadiva che si trattava di un’opera temporanea, e che sarebbe stata rimossa conclusisi i lavori. Dieci anni dopo il Mose è ancora in fieri e se andrà bene sarà consegnato nel 2022. Il cantiere però è già in dismissione e i luoghi devono essere ripristinati da ora».
«Quello era l’impegno solennemente preso con i cittadini dal presidente della Regione, dal presidente del Magistrato alle acque, dal concessionario unico dello Stato: poco importa che tutti tre siano stati poi arrestati, rappresentavano lo Stato», conclude Italia Nostra, «le garanzie che i luoghi sarebbero stati ripristinati costituiva un formale impegno con Venezia, il sindaco, gli abitanti di Pellestrina, defraudati della bellezza della loro isola. Erano opere non autorizzate in aree vincolate, imposte al territorio con la forza in virtù della loro temporaneità».

Riferimenti

Vedi su eddyburg: Summer school Iuav nel villaggio MoSE

«Venezia non è dei veneziani, è del mondo» Lo ricordi l'Unesco, che dovrà decidere se lasciare i veneziani della città insulare e della Terraferma arbitri unici del destino della città. È questione di grande rilievo, ma l'arbitro invocato ha il potere di rappresentare il mondo?La Nuova Venezia, 23 Maggio 2017

Si sta avvicinando la data (sarà tra il 2 e il 12 luglio) in cui un’Assemblea generale dell’Unesco dovrà decidere se i propositi del governo italiano e delle amministrazioni locali riguardo al futuro di Venezia sono tali da garantire un’accettabile tutela dei valori storici, culturali e ambientali di Venezia e laguna. Nel frattempo si avvicina la data di un referendum (il quinto) sulla separazione amministrativa dei comuni di Venezia e di Mestre. Le due scadenze ripropongono un problema serio che tocca la gestione dei beni privati o pubblici che possono avere un interesse comune: fino a che punto gli abitanti di un luogo hanno il diritto di farne l’uso che vogliono? Fino a che punto il resto della nazione (o dell’intero pianeta) hanno il diritto di interferire con la volontà e gli interessi di chi in un luogo abita e lavora?

Una giornalista del Guardian inglese mi ha posto pochi giorni fa una domanda che mi viene spesso rivolta: ritengo io che sia giusto separare le amministrazioni di Venezia e Mestre? Naturalmente il problema vero è se sia corretto che gli abitanti della terraferma possano, con la loro maggioranza, interferire sulla gestione della Venezia insulare. Non dovrebbero essere i veneziani che ci vivono a decidere sul numero degli alberghi in città? Ma i veneziani usufruiscono ormai quasi tutti dei proventi del turismo, anche di quello di massa. Se fosse per loro, tutte le case potrebbero diventare di affitto turistico, perché rendono molto, e i loro negozi potrebbero vendere ricordini e maschere da carnevale.
Al Guardian ho detto: Venezia non è dei veneziani, è del mondo. Se io possiedo un quadro di Tiziano, questo non mi autorizza a cambiare le sfumature di un colore o a rimuovere un pezzo della tela: io sono solo il custode di un bene comune. Per la stessa ragione non ho il diritto di mettere un tetto al Fontego dei Tedeschi, che è un edificio del Cinquecento costruito a copia di un caravanserraglio orientale. Ma i veneziani, come si comporterebbero? Sarebbero capaci di andare contro i loro interessi pecuniari immediati in favore di un interesse culturale mondiale? Ne dubito molto. Senza citare gli spropositi del sindaco Brugnaro, basta dare un’occhiata alle delibere del sindaco precedente, Giorgio Orsoni, residente sul Canal Grande: vendite continue di palazzi per uso alberghiero, tolleranza di moto ondoso, proliferare di B&B reali e finti.
Per la tutela dei valori culturali, storici e ambientali sarebbe azzardato rivolgersi ai residenti. I residenti sceglieranno sempre, salvo una minoranza altruistica, le risposte che portano più quattrini nelle loro profondissime tasche. I pretesti e le scuse non mancano, anche fintamente democratici: “Tutto il mondo ha diritto a venire a Venezia, e poi non si saprebbe dove mettere i tornelli, e poi se la casa è mia io l’affitto a chi voglio, e le navi da crociera creano posti di lavoro”.
Allora? Esiste una via per impedire che ignoranza e cupidigia trasformino un patrimonio di bellezza infinita e irripetibile in un ammasso di bancarelle e cartelloni pubblicitari? La risposta: non si può togliere agli abitanti il diritto di legiferare sul territorio, ma si può creare un organismo mondiale che valuti il loro comportamento, che suggerisca soluzioni ai problemi moderni e incoraggi scelte corrette, che metta in primo piano i valori della storia, della bellezza. Un organismo simile, in verità, esiste già ed è l’Unesco, con la sua lista dei beni Patrimonio dell’Umanità. Occorre potenziarlo e farne un vero guardiano dei patrimoni mondiali. Nessuna delibera dovrebbe diventare attiva se non dopo l’approvazione di quell’organismo (pensiamo per esempio all’Arsenale...). Si tratterebbe certamente di una diminuzione di autonomia per gli enti locali. Ma forse l’autonomia bisogna sapersela meritare, e il resto del mondo non può assistere passivamente alla distruzione di una delle testimonianze più alte della sua storia. *

Paolo Lanapoppi è Vicepresidente Italia Nostra, sezione di Venezia

I componenti del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, in che modo hanno potuto razionalizzare un attentato del genere alla storicità del paesaggio del Palatino»? Emergenza Cultura, 22 maggio 2017 (c.m.c)

Nerone è tornato sul Palatino a Roma, non con il fuoco del famigerato incendio, ma con un’occupazione che si vorrebbe precaria che ingenera però consistenti dubbi sulla sua liceità. Non tanto nei riguardi degli scaltri organizzatori dell’annunciata opera rock: quanto di coloro che, ricoprendo diverse funzioni pubbliche, hanno autorizzato ed avallato l’occupazione del colle che, da Romolo in giù, ha ospitato i potenti di Roma antica.

Quel pubblico ufficiale, pagato dai contribuenti, che avrebbe dovuto assicurare la tutela di un luogo del genere (addirittura recentemente promosso a parco archeologico speciale), tutelato dall’UNESCO, come ha fatto a non rendersi conto che l’impianto da lui stesso autorizzato incombe incongruamente, con il suo intreccio di tubi e la volgarità della sua copertura in lamiera, sul paesaggio archeologico del colle? E quei pubblici ufficiali, ugualmente pagati dai contribuenti, che avrebbero dovuto vigilare sul comportamento del responsabile periferico non hanno avuto nulla da osservare? E i componenti del Consiglio Nazionale dei Beni Culturali, fra i quali siedono sagaci e profondi indagatori del paesaggio storico, in che modo hanno potuto razionalizzare un attentato del genere alla storicità del paesaggio del Palatino?

Neppure di fronte a quest’ennesimo oltraggio si può sperare in un contrasto alle disposizioni emanate dal pro tempore titolare della responsabilità politica del Ministero per i Beni Culturali ed il Turismo? Disposizioni che, semplificando ma non tanto, si riducono a prescrivere la totale libertà d’uso delle aree e dei monumenti d’interesse culturale e a richiedere (in cambio?) modeste elargizioni in denaro.

La ratio di simili provvedimenti pare ricadere nella faciloneria dell’improvvisazione (non vorremmo dire nell’opaco settore della mediazione): non risulta che sia stato elaborato uno studio economico che abbia realisticamente quotato il valore in denaro dell’impiego, a fini diversi da quello della conoscenza e della fruizione pubblica, delle aree e dei monumenti d’interesse culturale. Così che ogni cifra in denaro che viene elemosinata dal Ministero grazie a tali (precarie) concessioni d’uso non risponde a parametri scientificamente definiti.

A tale argomento se ne aggiunge uno ancor più decisivo, già messo in luce in precedenti occasioni, relativo ai possibili danni al patrimonio archeologico che l’impianto (precario) costruito, con il necessario concorso di mezzi d’opera e di cantiere, e il passaggio degli spettatori potrebbero provocare. Ci auguriamo sia stata predisposta una dettagliata e completa analisi dello status quo ante da confrontare con quella risultante una volta che sia stato tolto l’incomodo (e che sia stata richiesta ed ottenuta una congrua fideiussione sulla quale eventualmente rivalersi per i danni subiti).

Di fronte a questo rovinoso ritorno degli epigoni di Nerone sul Palatino i promotori che sottoscrivono questa denuncia hanno deciso di avviare formale richiesta per l’esclusione del Centro storico di Roma dal World Heritage List UNESCO, al contempo denunciando, in tutte le sedi opportune, coloro che si sono resi responsabili dell’ennesimo oltraggio al nostro patrimonio culturale.

«Mantovani, Fincosit e Condotte contrari al salvataggio per avere più spazio nei futuri (e costosissimi) lavori di mantenimento al sistema di dighe mobili. Stanno tornando i "soliti nomi". la Repubblica, 23 maggio 2017, con postilla

Con il nuovo Piano industriale di Thetis che dovrà essere predisposto per il rilancio della società in base a quanto deciso pochi giorni fa dall’Assemblea dei soci, si riaprono i giochi anche per i lavori e le manutenzioni del dopo-Mose all’Arsenale. Se infatti, sotto la spinta determinante del commissario del Consorzio Venezia Nuova Giuseppe Fiengo - con l’appoggio indiretto anche del provveditore alle opere pubbliche Roberto Linetti e del Comune, presente con l’assessore alle aziende Michele Zuin, visto che la partecipata Actv è in Thetis con circa il 6 per cento del capitale - si è fermato lo smantellamento della società di ingegneria e tecnologia ambientale e la deriva dai licenziamenti, l’opposizione arriva dall’interno.

A opporsi infatti all’approvazione del bilancio consuntivo 2016 e soprattutto alla predisposizione del nuovo Piano industriale in assemblee sono state le imprese private storiche del Consorzio, come Mantovani soprattutto, ma anche Condotte e Fincosit che detengono circa il 25 per cento delle quote. Tra i soci, con una quota di minoranza, c’è anche la stessa società dell’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. Ma è soprattutto la Mantovani la più ostile al “salvataggio” di Thetis perché la vede - se rilanciata - come una possibile concorrente nella partita ancora tutta da giocare dei lavori di manutenzione e infrastrutturazione che seguiranno l’entrata in funzione effettiva del Mose.

Per essere in pista, infatti, la Mantovani ha creato da pochi mesi una nuova società: la Sereco (acronimo di Serenissima Costruzioni). Il percorso che ha portato alla nascita della Sereco attraverso il conferimento del ramo d’azienda da parte di Mantovani prevede il trasferimento di 172 lavoratori, più almeno altri 22 tra quelli oggi in Cigs e che hanno sottoscritto il verbale di conciliazione.

Come si ricorderà alla fine dell’anno scorso l’azienda aveva chiesto il licenziamento per 170 lavoratori che poi invece, con mediazione di sindacati e governo erano stati ammessi alla Cassa integrazione straordinaria. La Mantovani ha dunque tutto l’interesse a tirarsi fuori da Thetis avviandola alla messa in liquidazione, per poi candidarsi con la “sua” Sereco ad un nuovo ruolo da protagonista all’Arsenale.

Come la genovese D’Appolonia - che ha avuto tra l’altro l’incarico per la predisposizione del nuovo Piano regolatore del Porto di Venezia, con uno staff di circa 700 tra ingegneri e professionisti, distribuiti in 20 uffici operativi in tutto il mondo - che si era già fatta avanti informalmente per acquistare Thetis, quando la volontà era quella di mettere in vendita la società portata all’Arsenale dalla Tecnomare e poi passata sotto il controllo del Consorzio Venezia Nuova.

postilla


Non si sa quanto questa macchina infernale costerà per essere completata. Non si sa se funzionerà, non si sa quanto costerà per la sua manutenzione. Non si riesce a capire perché nonostante tutto continui a succhiare quattrini. Non sarebbe giunta l'ora di fare un lungo e argomentato elenco di quanti hanno promosso, sostenuto, propagandato questa ignobile truffa, nonostante le reiterate, argomentate, documentate denunce? possibile che nessuno sia mai punito, o almeno additato al pubblico ludibrio, per questa gigantesca truffa?

«Appuntamento il 18 giugno, quando i NoGrandiNavi allestiranno 60 seggi, ambientalisti contro lo scavo del Vittorio Emanuele: “Impatto devastante”». La Nuova Venezia, 21 maggio 2017 (m.p.r.)

«Sarà un mese di “campagna elettorale” serrata: saremo in tutti i mercati, i campi, le feste, le sagre perché non solo il 18 giugno vogliamo vincere, ma vogliamo che la partecipazione sia altissima, per non dare a alibi a nessuno». A parlare è Tommaso Cacciari, portavoce del Comitato NoGrandiNavi, nell’annunciare - nel corso di un’assemblea pubblica in sala San Leonardo - l’appuntamento con il referendum fai-da-te che gli ambientalisti hanno organizzato per domenica 18 giugno.

Il quesito è chiaro: «Vuoi che le grandi navi da crociera restino fuori dalla laguna di Venezia e che non vengano effettuati nuovi scavi all’interno della laguna stessa? ». Tradotto: “No” allo scavo del canale Vittorio Emanuele per portare le grandi navi in Marittima, via Canale dei Petroli e Marghera, al quale stanno lavorando Porto e ministero Infrastrutture, con il sostegno del sindaco Brugnaro, dopo l’arrivo alla presidenza del Porto di Pino Musolino, l’abbandono dello scavo del Contorta prima e del progetto Tresse poi. “Sì”, invece, al progetto firmato da Duferco e Cesare De Piccoli (ieri a San Leonardo), per uno scalo in bocca di porto al Lido, l’unico sinora ad aver ottenuto il via libera dalla commissione Valutazione di impatto ambientale, ma che vede contrario il Porto e il vicino comune di Cavallino Treporti.
«Allestiremo 60 seggi tra Venezia e Mestre e naturalmente lo scrutinio delle schede sarà pubblico, a partire dalle 20, in campo Santa Margherita», prosegue Cacciari, «poi il 24 settembre, ci sarà a Venezia una grande manifestazione nazionale, alla quale hanno già aderito No Tav della Val di Susa e Terra dei fuochi. Sarà una grande festa, se non insisteranno su un progetto deleterio come il Vittorio Emanuele, altrimenti sarà più… incisiva». «Bloccheremo le navi», chiosa Luciano Mazzolin.
Sessantamila euro di multa.

Il Comitato lancia al contempo anche una campagna di raccolta fondi, per pagare le spese legali dei ricorsi contro i 60 mila euro di multa che la Capitaneria di porto ha fatto arrivare ai 30 manifestanti che due anni fa si tuffarono nel canale della Giudecca, bloccando il transito delle navi lungo il canale marittimo. Duemila euro a testa di sanzione già all’incasso, mentre altrettanti sono attesi per una seconda protesta in acqua.
Le ragioni del “no”.

Ieri in sala San Leonardo, il Comitato No Grandi Navi ha poi messo in fila i perché dell’opposizione allo scavo del Vittorio Emanuele, contro il quale è già stato presentato un esposto, chiedendo che il progetto Duferco-De Piccoli vada al Cipe per il finanziamento e la realizzazione. Se il Porto considera lo scavo, la semplice manutenzione di un canale portuale già esistente, gli ambientalisti replicano che risale al 1925, quando le navi erano più piccole e che oggi bisognerebbe scavare sei milioni di metri cubi di fanghi, «con effetti devastanti per la morfologia della laguna per l’erosione dei fondali prodotta dal dislocamento delle navi». Sotto accusa anche la commistione tra navi passeggeri e merci nel canale dei Petroli, il rischio chimico per la vicinanza con la zona industriale interessata dal’impianto Cracking Versalis. Infine, le interferenze con il Mose.

«Sono oltre 40 le “aree di trasformazione” che il sindaco Nardella vuole approvare in questi 5 anni di mandato». la CittàInvisibile online, 20 maggio 2017 (c.m.c.)

Nella relazione sui suoi primi 1000 giorni durante il Consiglio Comunale del 15 maggio Nardella ha detto con orgoglio: «governiamo la più grande trasformazione della città degli ultimi 150 anni in termini di riqualificazione e grandi infrastrutture».

E si riferiva non solo alla TAV e alle tramvie, ma anche agli interventi urbanistici strategici già approvati e quelli futuri. E’ la concretizzazione dell’idea dei “volumi zero”, di renziana memoria e “rubata”, mistificandola, all’allora opposizione dezordiana. Ma secondo il sindaco è «riqualificazione urbanistica e immobiliare senza cedere alle speculazioni», perché è un “mix di funzioni” (sic).

Ed è lo sviluppo del concetto della “compensazione” e monetizzazione degli impatti delle opere, che ricorda i tempi della TAV del Mugello con le compensazioni ai Comuni e quelli attuali della TAV di Firenze con i 76 milioni di trasferimenti da RFI al Comune, di cui quasi 28 ml già incassati dal 2013, anche senza l’avvio del cantiere di Campo di Marte.

La riqualificazione urbanistica prevede le “compensazioni” tramite le convenzioni consentite con il Regolamento Urbanistico per “gli impatti generati dall’incremento/modifica del carico urbanistico generato dalla trasformazione” della singola area: è l’art. 16, comma 2 punto 4 delle Norme Tecniche di Attuazione, sulla cui legittimità può sorgere il dubbio.

In Consiglio il sindaco ha accennato a 13 interventi già “convenzionati”, poi altri 19 in via di convenzione e ancora altri 13 già “attenzionati”. Infatti dall’approvazione il 2 aprile 2015 del Regolamento Urbanistico sono già passate dal Consiglio Comunale “riqualificazioni” come il campus della olandese Student Hotel nel palazzo delle ex Ferrovie di viale Belfiore (il “Palazzo del Sonno”), il negozio della Apple nella ex BNL di piazza della Repubblica e l’altra ex BNL di via Cerretani, il Campeggio di Rovezzano, la Metro nell’ex deposito Lazzi di via Mercadante, l’ex Enel Campofiore, l’ex magazzino già affittato al Comune in via Erbosa 89, i complessi immobiliari Inarcassa ex Inpdap in Viale Matteotti 15 ed ex Inps in via Foggini 2, quelli in via della Piazzuola 4,e in via dell’Erta Canina 26/a. Con le convenzioni l’amministrazione monetizza gli impatti delle opere tramite «la realizzazione di opere e attrezzature pubbliche, oppure di servizi di manutenzione urbana straordinaria…o in un corrispettivo economico sulla base della stima fornita dal Comune».

Ad esempio per l’impatto del campus al Palazzo del Sonno (con investimento di 40.milioni di Student Hotel, che starebbe acquistando anche l’area di Belfiore) sono stati stabiliti oltre 2 milioni di euro in opere, come il rifacimento di piazza della Vittoria e della Costituzione (più marciapiedi e piste ciclabili), mentre per il negozio Apple in piazza della Repubblica il Comune ha incassato direttamente 986 mila euro. Ma la maggiore compensazione potrebbe avvenire nel prossimo futuro con l’area ex Officine Grandi Riparazioni e la dismissione dei binari ferroviari della Leopolda trasformati in linea tramviaria 4 con meno vincoli edilizi: i giornali hanno indicato in oltre 30 milioni di euro il possibile incasso dalla vendita dell’area da parte di RFI e con il successivo piano di recupero sarebbero previsti 14 milioni di euro nelle casse comunali.

Continueremo ad opporci in Consiglio Comunale a queste presunte riqualificazioni, nonostante il PD abbia i numeri per approvare gli atti e nonostante la discussione, anche da parte dei gruppi di opposizione, sia limitata al merito delle compensazioni. Criticare i progetti significa farsi definire contrari allo sviluppo della città a “volumi zero” e agli investimenti che generano posti di lavoro.

Un’ultima considerazione, ispirata da Paolo Maddalena: in questo modo di amministrare è radicato il concetto che il proprietario è assoluto padrone dei suoi beni, non tenendo conto del fatto che il fenomeno dell’edificazione produce effetti non solo sui beni in proprietà del privato, ma anche sui beni che sono in proprietà collettiva , come il paesaggio, che, essendo un aspetto del territorio, è in proprietà collettiva del popolo, a titolo di sovranità.

«Commento all'ultimo libro di Giancarlo Consonni "Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà". Amministratori, urbanisti, architetti hanno rinunciato a interrogarsi e a discutere di questi concetti». casadellacultura.it 18 maggio 2017 (p.d.)

Un libro smilzo, ma denso e prezioso - l'ultimo di Giancarlo Consonni, Urbanità e bellezza. Una crisi di civiltà (Solfanelli, 2016) -, che raccoglie tre saggi, diversi per contenuto, apparentati dal malessere per il declino della condizione urbana nel nostro Paese. "Urbanità" e "bellezza" definiscono l'oggetto della ricerca, due valori complementari: la bellezza "vista come componente primaria della cultura delle città e come fatto inscindibile dall'urbanità che - scrive l'autore - di quella cultura è il condensato, un punto di forza irrinunciabile dell'incivilimento".
All'inizio Consonni affronta questioni irrisolte, e forse irrisolvibili, di definizione. Città-regione, area metropolitana, città metropolitana, e poi città diffusa, città contemporanea, città infinita, urbanizzazione, conurbazione e via di seguito. Contesta subito la legge che prende il nome dall'attuale ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, "precipitosamente" istitutiva delle Città metropolitane destinate a sostituire le Province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e Reggio Calabria. Una legge affetta da ambiguità terminologiche e incertezze programmatiche, con ipotesi alternative e improbabili per i modelli di governo, i cui amministratori sono scelti - aggiungo io - con elezioni di secondo grado, al riparo dal coinvolgimento dei cittadini. Poi dicono il populismo.
Nella città metropolitana - sostiene Consonni - si fa uso improprio del termine città. Città e metropoli sono realtà in conflitto, la differenza non sta solo nella dimensione ma nei caratteri costitutivi. La città non è più tale quando perde suoi attributi comunitari, quando non sta più "dentro a una misura e a relazioni vitali" e non le rende manifeste. Pare scritto per Roma, dove negli ultimi quarant'anni, più o meno con lo stesso numero di abitanti, si è quadruplicata la superficie urbanizzata e non è più riconoscibile alcuna appartenenza comunitaria. Roma non è più una città, ma non è neanche una metropoli, non essendo quel "campo di forze in cui le relazioni a distanza assumono una rilevanza (economica, ma non solo) decisamente superiore alle relazioni di prossimità".
Il secondo saggio tratta di diritto prendendo le mosse dal libro di Paolo Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani (Donzelli, 2014), in particolare dalla contestazione di Maddalena a Carl Schmitt sull'origine degli istituti giuridici che regolano lo spazio urbano. Lo studioso tedesco vede nell'occupazione della terra "l'origine di ogni ulteriore ordinamento concreto e di ogni ulteriore diritto". Maddalena a "occupazione" propone di sostituire "stanziarsi" o "insediarsi", evitando in tal modo che l'atto fondativo degli insediamenti sia registrato "sotto il segno della violenza e del dominio". Il che negherebbe l'affermazione del "popolo" e del "territorio" come parti costitutive della civitas. È evidente che non si discute di espressioni terminologiche più o meno politicamente corrette, ma dei connotati del diritto di proprietà che si conforma a partire dalla originaria proprietà della terra. Questione da sempre oggetto delle riflessioni disciplinari di Maddalena che insiste sul fatto che il diritto di proprietà, secondo gli articoli 41 e 42 della Costituzione italiana, debba pienamente rispondere a principi di "utilità sociale" e, quindi, svolgere una "funzione sociale".
Il libro di Consonni sarebbe solo un'indagine storica e un'astratta e amara rassegna di concetti se non planasse su circostanziate pagine di denuncia delle recenti trasformazioni di Milano. Prende infatti in esame l'area Garibaldi-Repubblica e piazza Gae Aulenti dove "ogni organismo edilizio è chiuso in una totale solitudine, incapace com'è di istituire un legame con gli altri edifici e con l'intorno, verso cui si proietta disperatamente in un'esibizione narcisistica". È la stessa lingua usata da Antonio Cederna all'inizio degli anni Cinquanta quando raccontava di una Milano che stava facendo tabula rasa del suo centro storico. Un modo di fare che incombe come un sinistro modello anche sulla prossima stagione urbanistica, quella del riuso dei sette scali ferroviari che, come una corona di spine, cingono il centro di Milano. FS Sistemi urbani, d'accordo con l'amministrazione Sala, stanno procedendo senza regole, a cominciare dalla nomina di progettisti di fiducia. L'eterno rito ambrosiano che neutralizza la cultura urbanistica.
Concludo ritornando a "urbanità" e "bellezza". Amministratori, urbanisti, architetti hanno rinunciato a interrogarsi e a discutere di questi concetti. La città, "o meglio la non città, la fanno gli operatori privati. La Pubblica amministrazione in Italia - sostiene Consonni - si limita a svolgere il compito di guardiana di regole che poco o nulla hanno a che vedere con i problemi della convivenza civile e con l'urbanità: l'urbanistica per gli Enti locali si va sempre più riducendo a un capitolo della fiscalità generale". C'è addirittura dell'ottimismo nel riconoscere il ruolo di "guardiana di regole" alla Pubblica amministrazione. Soprattutto dalla mia latitudine capitolina.

L'Università IUAV di Venezia e il MIT di Boston d'accordo con il condono permanente della legge Falanga e per la sanatoria dell'abusivismo del MoSE.«Accordo tra università di Architettura e Mit di Boston per riconvertire la distesa di cemento a S. Maria del Mare a Malamocco». La Nuova Venezia, 19 maggio 2017

Venezia. Una distesa di cemento sulla spiaggia di Santa Maria del Mare per costruire gli enormi cassoni del Mose. E un villaggio per gli operai che ci hanno lavorato. Opere impattanti, che dovevano essere smantellate. «È tutto provvisorio, alla fine dei lavori sarà tolto», prometteva allora il padre-padrone del Consorzio Venezia Nuova Giovanni Mazzacurati. Al contrario, la grande gettata in cemento è sempre lì – costa troppo smantellarla – e il villaggio diventare qualche altra cosa. Qualcuno già pensava a un possibile villaggio turistico, il primo nell’isola. Dieci anni dopo la costruzione e le polemiche, il commissario del Consorzio Venezia Nuova che si occupa della parte tecnica, l’ingegnere torinese Francesco Ossola, ha firmato una convenzione della durata di tre anni con l’Università Iuav per il riuso di quei luoghi.

Il protocollo d’intesa riguarda una collaborazione tra Iuav e una parte della prestigiosa università di Boston, Il Mit. Una Summer school aperta a studenti e docenti dal titolo «Reinventing places, Venice Mose. Studio in un sito temporaneo tra mare e laguna». Una specie di concorso di idee sul «che fare» di quell’area un tempo tra le più belle della laguna, da quasi dieci anni trasformata in grande cantiere. Prima per la costruzione dei cassoni di fondo, poi per la posa delle paratoie e il montaggio delle cerniere. Adesso adocchiata da Porto e Comune per farci una sorta di «mini off-shore», cioè una banchina per il porto dagli alti fondali. Un nuovo porto commerciale in mare a Malamocco, dunque.
Ma perché la convenzione con Iuav? L’Università di Architettura è stata negli anni tra i consulenti e i collaboratori del Consorzio. Dal Daest di Francesco Indovina ai progetti richiesti agli esperti, alle collaborazioni degli ex rettori Marino Folin e Carlo Magnani, a cui era stato commissionato uno studio per l’«abbellimento» delle opere già realizzate in laguna. Lo scandalo e gli arresti avevano bloccato tutto. E i commissari del Consorzio avevano messo nero su bianco che le spese sarebbero state ridotte e tagliati i costi non direttamente legati alla salvaguardia. Decine di milioni di euro nell’èra Mazzacurati.
Adesso invece si legge nella Convenzione che «il Consorzio Venezia Nuova intende «applicare e sviluppare metodologìe di ricerca nell’analisi delle trasformazioni urbane, con particolare riguardo ai luoghi interessati da cantieri provvisori». Un workshop che dovrebbe servire per pensare, sia pure con anni di ritardo, a come «rimediare» ai danni provocati dai cantieri della grande opera, sanzionati anche dall’Unione europea. Danni che il Consorzio avrebbe dovuto pagare con le opere di compensazione, il cui costo però (circa 500 milioni) è stato messo a carico dello Stato.
«Ma i tempi sono cambiati, questo seminario costerà poco e noi ci proponiamo di parlare con gli abitanti di Pellestrina e di cercare possibili soluzioni progettuali per il futuro di questi luoghi», dice Laura Fregolent, docente Iuav che insieme al rettore Alberto Ferlenga si occupa del progetto. I corsi prenderanno il via il 29 maggio e per ospitare docenti e studenti saranno rimesse a nuovo le casette usate in questi dieci anni per ospitare gli operai dei cassoni del Mose. Ma qualcuno storce il naso. Perché del progetto fanno parte anche esperti del Mit, che vent’anni fa aveva contribuito all’approvazione del progetto Mose con un «panel» di esperti di cui facevano parte anche i veneziani Andrea Rinaldo e Paola Malanotte.
Le ragioni per le quali la legge per il condono perpetuo dell'abusivismo edilizio è nefasta e distruttiva del territorio e della legalità. In calce nelle dichiarazioni di voto il mare di ipocrisia che ha contraddistinto gli altri interventi espressi il 17 maggio. CarteInRegola online


SignorPresidente, colleghi senatori, questo è un provvedimento molto strano che,partito dal Senato in una certa maniera e poi trasmesso alla Camera deideputati, é ritornato qui in tutt’altra maniera. È strano perché lacollocazione che si è voluta dare a questo insieme di norme si inserisceall’interno di un decreto legislativo che nulla ha a che fare con la materia,ma che ci dà la certezza, o quantomeno il sentore, di quanto importante sia percoloro che hanno problemi di abusivismo e che difendono situazioni diabusivismo, fare in modo che diventino norme di carattere generale.

Strano perché all’inizio, nella primafase, si parlava di «priorità» e ora, quasi con una tautologia, si sostituiscela parola «priorità» con la parola «criteri» (che etimologicamente risale alverbo greco krìno); poi però il tutto viene ammorbidito quando sidice che bisogna tenere in adeguata considerazione questa situazione e, quindi,si consiglia una formulazione diversa. Strana è anche la formulazione che vienedata a questi criteri da tenere in adeguata considerazione, perché si richiedeal pubblico ministero un surplus d’indagine, unapprofondimento e una verifica dei criteri che allungherà notevolmente i tempi,portando alle calende greche qualsiasi possibilità di intervenire, come diròanche tra poco.

Strano perché questo disegno di leggecontiene al suo interno un trojan horse, per mutuare un terminedell’informatica, e cioè un cavallo di Troia, perché la priorità vieneattribuita di regola agli immobili in corso di costruzione, o comunque nonultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado, e agli immobilinon stabilmente abitati. È facilmente pensabile l’escamotage cheverrà utilizzato da chi vorrà far saltare qualsiasi abbattimento: tuttitroveranno un figlio o un parente, più o meno lontano, per fare in modo che nonsi dia esecuzione all’abbattimento, perché l’immobile abusivo verrà consideratostabilmente abitato. Si diceva e si dice: fatta la legge, trovato l’inganno.Qui, addirittura, l’inganno è stato suggerito e scritto nella legge: vi doquesti criteri, ma potete anche aggirarli in questa maniera.

Strano anche perché ci sono indicazioni daparte di tutti i procuratori della Repubblica, ordinari e generali, che sonointervenuti, secondo cui tali criteri apriranno la via a un contenzioso enormee infinito, perché giustamente gli avvocati faranno valere il diritto didifesa, faranno incidenti di esecuzione a non finire che dureranno anni, anchedieci anni, e tutto verrà sospeso per moltissimo tempo.

Assieme a queste stranezze c’è ancheun’aberrazione. Basti pensare che per le case abusive costruite in areeprotette (è un aspetto molto grave) queste demolizioni verranno fermate. Miriferisco alle costruzioni abusive nelle aree protette con vincolo ambientale eidrogeologico, perché il disegno di legge prevede di mettere per ultimi questicasi. Questa è una vera e propria aberrazione.

Aggiungo che se mai il disegno di legge inesame dovesse entrare in vigore, sarebbe di una gravità particolare e nonaccettabile, perché nella sostanza legalizza in modo permanente l’abusivismo,con effetti futuri che hanno il carattere della permanenza. Le case abusive,purché abitate in qualsiasi maniera, con quegli escamotage econ quegli imbrogli, saranno comunque salvate. Non è accettabile che questodisegno di legge si basi sulla ben nota distinzione di comodo tra quello cheviene considerato l’abusivismo di speculazione e l’abusivismo di necessità,cioè quello costituito dalle case abitate, che verrà messo in coda al fine dievitare le demolizioni.

Quali saranno, allora, gli effetti delpresente disegno di legge? Se esso entrerà in vigore darà certezza del fattoche le demolizioni verranno fermate per alcuni motivi che ho già indicato, maanche per i prossimi che sto per indicare. Innanzitutto la cifra che è statastanziata e che si prevede di stanziare comunque al termine del lavorolegislativo è bassissima ed è sufficiente – secondo un calcolo materiale che èstato fatto – a consentire nel corso di un anno 130-140 demolizioni e questo, afronte di decine di migliaia di casi, è davvero risibile. Inoltre non vengonodate forze, strutture né personale per poter intervenire. Vi è poi un altrofattore: buona parte delle case è abitata, quindi sarà messa in coda allepriorità, con dispregio di tutte le considerazioni che ho fatto poco fa.

Tuttavia, l’aspetto ancora più grave delpresente disegno di legge è che la sua applicazione non ha alcun limite ditempo, a differenza ad esempio dei tanto vituperati condoni. Ciò significa che nelprossimo futuro, tra qualche mese e tra qualche anno, o comunque in qualsiasisituazione fino all’abolizione della norma, chiunque potrà edificarematerialmente una villa o una casa in una vallata, su una costa, in una zona dipregio, in qualunque zona, anche sottoposta a vincoli; in questo modo ilParlamento italiano si sta accingendo a legalizzare in modo permanentel’abusivismo edilizio, invece di bloccarlo.

Su questo aspetto aggiungiamo un’altraconsiderazione. Non è che ci sia semplicemente il rischio che questa normapossa essere utilizzata dalla criminalità organizzata; è certo che la normaverrà utilizzata dal crimine, diventerà uno strumento importante nelle suemani. Infatti, con vari sistemi, attraverso i cavalli di Troia di cui si dicevaprima, con i prestanome, con l’indicazione di criteri di necessità previstidalla legge, si potrà continuare a costruire case abusive in dispregio allalegge fondamentale che riguarda questa materia. Questa, sostanzialmente, è larealtà.
Invece di approvare norme più rigide estringenti per abbattere ed eliminare in partenza l’abuso ed eventualmentearrivare anche al commissariamento dei Comuni che non siano rigorosi e chedimostrino di non rispettare le norme sulla lotta all’abusivismo edilizio, siadottano norme di questo tipo che certamente non sono accettabili e neanchepresentabili.

Questo è un po’ un vizio italico che, difronte a determinate situazioni e tragedie, come quelle causate da dissestoidrogeologico, a volte piange lacrime di coccodrillo, perché si nasconde dietroalle norme che approva e, dopo aver versato lacrime di coccodrillo per letragedie gravissime che si verificano continuamente nel nostro Paese, il giornoseguente torna a chiudere gli occhi e invece di combattere l’abusivismoedilizio riprende a favorirlo.

Concludo ricordando a questo proposito unpasso fondamentale della nostra Costituzione, che tra l’altro getta anche unaluce in termini di profili di illegittimità costituzionale su alcune di questenorme. All’articolo 9, secondo comma, della nostra Costituzione si dicetestualmente che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico eartistico della Nazione». Il disegno di legge che ci apprestiamo a votare nontutela assolutamente questo bene primario, tanto primario che è stato inseritonella parte fondamentale e primaria della nostra Carta costituzionale.

Qualcuno ha definito questo provvedimentoun condono mascherato, ma in realtà è peggio, perché non è mascherato: è uncondono vero e proprio, palese, chiaro e soprattutto permanente. Per questomotivo, il Gruppo Articolo 1-MDP esprimerà un voto contrario.

I testi delle dichiarazioni di voto

Un autorevole e rispettato amministratore, iscritto al partito di Renzi e Franceschini (il partito preferito nelle parole e nei fatti, dal sindaco Brugnaro), sembra decidere che in un partito così lui non ci sta. La città guadagna una speranza. La Nuova Venezia, 18 maggio 2017

«Se le cose in città vanno avanti così, non rinnoverò la tessera Pd». L’annuncio, accompagnato da una lunga nota polemica e accorata, è del presidente della Municipalità di Venezia Giovanni Andrea Martini e il “cuore” del disagio è per lui la vicenda Grandi Navi a cominciare «dall’accordo annunciato, in occasione della visita del ministro Franceschini, tra Governo, Comune e Autorità portuale per la soluzione del Canale Vittorio Emanuele come scelta risolutiva per il problema delle grandi navi». Ricorda tra l’altro Martini: «Il programma con il quale ci siamo presentati alle elezioni per il Consiglio di municipalità nel 2015 riportava “no agli scavi e fuori le grandi navi dalla laguna”. Lo stesso programma con cui è stata eletta la nostra segretaria comunale nel 2016 parla chiaramente di “niente nuovi scavi in laguna”. Siamo la Municipalità di Venezia, un’istituzione che dal partito deve essere riconosciuta e ascoltata».

E rincara la dose: «Credo che occorra fare chiarezza. Non possiamo che ringraziare la segretaria comunale, attenta e in sintonia su questi temi, ma abbiamo constatato l’assenza al suo fianco dei rappresentanti più vicini a Renzi prima e a Gentiloni adesso. Abbiamo assistito sgomenti all’accordo dichiarato tra Franceschini, Brugnaro e Musolino sul Canale Vittorio Emanuele senza nemmeno un passaggio per il partito locale. Come possiamo riconoscerci nelle posizioni del Pd nazionale che decide senza fare ascolto? È sotto gli occhi di tutti che non c’è alcuna interlocuzione col partito nazionale, che sembra operare senza conoscere, o, peggio, senza essere messo nelle condizioni di conoscere la realtà. A questo punto, un chiarimento è necessario». Manifestando «l’intenzione, se non ci saranno evoluzioni concrete - scrive ancora Martini - di non rinnovare la tessera del partito, di un partito che sembra aver perso o di voler perdere contatto con la realtà locale. Sono certo che tutto si chiarirà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi e questo può accadere se i parlamentari del partito si faranno, cioè, portavoce del malessere della città, se manifesteranno il loro dissenso per la soluzione Canale Vittorio Emanuele e qualsiasi altro canale che possa condurre le navi in laguna».
Getta acqua sul fuoco il segretario comunale del Pd Maria Teresa Menotto: «Comprendo la posizione di Martini, anche se la ritengo un po’ eccessiva. Non c’è dubbio, però, che un maggior dialogo tra Pd veneziano e nazionale, anche con i suoi membri al governo, sia necessario». Più netto il capogruppo del Pd Andrea Ferrazzi: «I tre punti qualificanti del Pd sulla questione Grandi Navi sono sempre stati la difesa dell’home port di Venezia, la tutela della capacità economica e dei posti di lavoro e la sostenibilità ambientale degli interventi che dovranno superare la valutazione d’impatto. Mi sembra che li stiamo rispettando».

«Il povero automobilista, inquinatore e ingombrante sarà ben presto visto come un dinosauro della modernità trionfante. La conquista della città da parte dei ciclisti sarà il tratto dominante di questo secolo». la Repubblica Robinson, 14 maggio 2017 (c.m.c)

Ammiro la determinazione dei giovani che ogni mattina, sotto casa mia, armeggiano intorno al parcheggio dei vélib’ (il bike sharing parigino), prima di lanciarsi nella ressa di automobili che continuano a stiparsi lungo le grandi arterie della capitale francese. Ci vuole costanza e coraggio per navigare in mezzo alle macchine, e per non tremare, nelle corsie riservate a loro ma anche ad autobus e taxi, quando vengono superati dai mastodonti della Ratp, guidati per fortuna da esperti molto qualificati. Forse sperano che gli irriducibili del volante alla lunga finiranno per scoraggiarsi e la smetteranno di prendere l’auto anche per fare spostamenti minimi in città, perfino quando i trasporti pubblici consentirebbero loro di giungere più facilmente a destinazione.

Quando quel giorno verrà, si troveranno in una situazione più invidiabile: quella, per esempio, dei ciclisti berlinesi. A Berlino le automobili sono meno numerose e la città è più grande; i ciclisti la fanno da padroni e a volte lo fanno sentire ai malaugurati pedoni. Regnano sulla carreggiata, ma anche sui marciapiedi, e bisogna sempre stare in guardia quando, umili pedoni, si va in giro a fare compere o una passeggiata all’aria aperta. Anche in questo campo, la presa del potere comporta spesso eccessi e abusi.

Comunque sia, a mio avviso, la conquista della città da parte delle biciclette sarà il tratto dominante del secolo in corso, insieme allo sviluppo dei trasporti pubblici. Il povero automobilista sarà ben presto visto come un dinosauro della modernità trionfante. Inquinatore e ingombrante, egoista e malmenato dalle vessazioni poliziesche, si rassegnerà progressivamente a fare del suo veicolo uno strumento riservato alle vacanze.

Appena comincerà a dare qualche segnale di debolezza, la bicicletta farà un balzo in avanti. Verranno rimarcati i suoi benefici: niente più inquinamento, scomparsa del frastuono dei motori e degli ingorghi che riducono, di fatto, la libertà di circolazione. Verranno sottolineati i suoi progressi tecnici, e in particolare il suo piccolo motore elettrico, invisibile e silenzioso, che le malelingue insinuano abbia aiutato certi ciclisti professionisti a valicare con maggior facilità i colli più impervi. Restituirà ai più anziani le gambe dei vent’anni e verranno aggiunte al mezzo, all’occorrenza, una o due ruote supplementari per garantire equilibrio in ogni istante.

Sono in corso ricerche, a quanto si dice, per fabbricare macchine volanti. Non osiamo immaginare cosa sarebbero gli ingorghi nel cielo urbano, e il ruolo dei vigili dell’aria per regolare la circolazione sopra le nostre teste. È concepibile, in compenso, che la circolazione aerea in città sia riservata a certe funzioni necessarie, di approvvigionamento delle cose essenziali, e che le carreggiate urbane, lo spazio cittadino, diventino il luogo esclusivo della circolazione in bicicletta: i grandi trasporti su in aria e in basso le biciclette!

Tutto concorre alla moda della bicicletta: l’attenzione per l’ecologia, il culto del corpo e la voglia di sembrare giovani. Aggiungerei anche: la centralità dell’individuo. La bicicletta è lo strumento sognato della libertà individuale: permette di reinventare i propri itinerari e di trovare scappatoie luminose nella routine del quotidiano.

Oggi tutto ci invita a riesaminare il concetto di individualismo. La pratica della bicicletta è, in questo senso, una risposta concreta a una domanda politica (la libertà individuale è possibile?) che ha un fondo filosofico (che cos’è la libertà? Che cos’è un individuo?). Inforcare la propria bici è rispondere a questi interrogativi, o riformularli efficacemente. Non dimostrare il movimento camminando, ma sperimentare la libertà pedalando. Libertà relativa allo spazio (vado dove mi pare, mi avventuro dove voglio). E libertà relativa al tempo (chi non rievoca, quando va in bici, la sua infanzia e adolescenza?).

Ma nonostante tutto questo, la pratica della bicicletta non condurrà a un individualismo egoista e sfrenato. Come la pratica dello sport in generale, permette di misurare le proprie forze e rispettare gli altri. Inoltre ha una sua storia e i suoi miti, le sue figure leggendarie (Fausto Coppi fu l’eroe della mia infanzia, ed è merito suo se sono scampato già in tenera età allo sciovinismo), e il successo popolare di competizioni come il Giro d’Italia e il Tour de France testimonia l’attaccamento di molti all’immagine che propongono di qualche minuto di verità umana.

Al di là degli aspetti, commerciali e di altro genere, che tendono a offuscare questa immagine, le persone che si accalcano sulle strade per incoraggiare i corridori rendono omaggio a uno sforzo di cui riconoscono il valore. Permettetemi una confidenza: problemi di equilibrio mi impediscono da qualche tempo di usare la bicicletta, soprattutto in una città come Parigi. Guardo con una punta di invidia i ciclisti che si intrufolano nel traffico: mi ricordano le mie corse folli e solitarie nella Bretagna degli anni Cinquanta. Ho la sensazione che abbiano rappresentato un apprendistato, che mi abbiano insegnato a guardare gli altri, a osservare i paesaggi e a sentirmi solo e al tempo stesso solidale.

Non voglio dire, naturalmente, che facessi queste riflessioni quando avevo quindici anni. Ma sono convinto che esprimono qualcosa del mio stato d’animo di allora. In ogni caso è la ragione per cui oggi parlo di quei giorni lontani senza nostalgia: se un giorno risalirò su una bicicletta, anche solo per un minuto, saprò, per intima convinzione, come i giovani che vedo partire la mattina sulle loro bici a noleggio, e come scoprivo un tempo sulle strade della Bretagna, che la vita è sempre davanti a noi, sempre a venire.

». la Repubblica, 17 maggio 2017 (c.m.c)

C’è chi si mette in fila e, impaziente, aspetta dieci anni prima di essere ammesso. Chi invece, ammesso, denuncia che il farne parte rischia di diventare solo una medaglietta da sfoggiare. Non è il sodalizio di Groucho Marx («Non vorrei mai far parte di un club che accettasse tra i suoi soci uno come me»), ma la lista del Patrimonio mondiale dell’Unesco, dove sfilano oltre mille siti che in tutto il mondo,per la loro eccezionale importanza, godono di uno status speciale attribuito dall’organismo delle Nazioni unite per l’educazione, la scienza e la cultura: quello di appartenere a nessun altro se non all’umanità intera.

L’Italia vanta un record, il maggior numero di siti presenti, 51, insidiata dalla Cina che ne ha uno di meno, record al quale si aggiungono 41 luoghi che ambiscono ad entrarvi, non sempre con unanime consenso. Ma il nostro Paese sconta anche un handicap: per alcuni siti, non tutelati al meglio, si chiede di valutare se il riconoscimento sia ancora meritato.

Far parte del patrimonio Unesco è un’ambizione rilevante. A dispetto del fatto che studi recenti su siti inglesi, francesi e turchi dimostrino che non c’è stretta relazione fra il marchio e la crescita di visitatori. E neanche in Italia dove, stando a una ricerca del 2013 di Ludovico Solima, economista della cultura, «la designazione è condizione necessaria, ma non sufficiente per attivare processi di valorizzazione turistica ».

Restano comunque un forte senso identitario e un effetto immagine. E se si perdesse il marchio il contraccolpo potrebbe essere vistoso. Inoltre il riconoscimento rende più visibile l’arte rupestre della Valcamonica (primo sito italiano a entrare nella lista nel 1979). Influisce molto meno per Pompei o per il centro storico di Roma. La selezione è comunque dura ed elaborare una candidatura è costoso. Occorre superare esami su esami e approdare al vaglio della Commissione nazionale italiana Unesco, presieduta da Franco Bernabè e alla quale aderiscono diversi ministeri, a cominciare da quello dei Beni culturali. Fondamentale è poi la stesura di un accurato piano di gestione. E, una volta accolti, non bisogna pensare che tutto finisca lì, con la medaglietta. L’impegno alla tutela è decisivo.

Lo sanno bene a Venezia, dove si attende con ansia che il Comitato per il patrimonio dell’Unesco, riunito a Cracovia a metà luglio, decida se la città e la laguna, nella lista dal 1987, debbano restarci o essere iscritti nella lista dei beni in pericolo. Una lista nella quale compaiono luoghi minacciati da conflitti (dall’Afghanistan alla Siria all’Iraq, dalla Libia al Mali), ma anche l’antico porto mercantile di Liverpool o il parco nazionale delle Everglades negli Stati uniti, insidiato il primo da un discutibile progetto di riqualificazione, il secondo dal degrado dell’habitat marino. Negli anni scorsi stavano per finire fra i beni in pericolo anche Pompei e Villa Adriana. Ma la retrocessione è stata evitata.

Una retrocessione rischia anche Vicenza che, insieme al paesaggio palladiano, è nella lista dal 1994. In entrambi i casi sono state associazioni come Italia Nostra o comitati di cittadini a chiedere che l’Unesco accerti se a Venezia siano sopportabili le Grandi Navi in bacino San Marco [in Laguna - n.d.r.], i dissennati progetti di scavi in laguna, un turismo fuori controllo, sempre più appartamenti trasformati in bed and breakfast e, a Vicenza, lo scioccante complesso di Borgo Berga, che a poche centinaia di metri dalla Rotonda di Palladio comprende persino il Tribunale, la costruzione di una nuova base militare americana e i progetti per l’alta velocità.

L’Unesco ha preso in seria considerazione entrambe le denunce. Ha stilato un duro rapporto su Vicenza nel giugno 2016 e ha mandato tre ispettori a fine marzo scorso. Si attende il loro responso. È in dirittura d’arrivo, invece, il procedimento per Venezia, dove gli ispettori si sono recati nell’ottobre del 2015 e in un preoccupato dossier hanno fissato un ultimatum: entro febbraio del 2017 il Comune di Venezia avrebbe dovuto eliminare i fattori di rischio, Grandi Navi e tutto il resto. In un primo tempo il sindaco Luigi Brugnaro ha fatto spallucce: a Venezia ci pensano i veneziani, è sbottato. Poi ha cambiato registro, si è precipitato a Parigi e alla direttrice dell’Unesco, Irina Bokova, ha consegnato un rapporto pieno di buone intenzioni. Successivamente ha mandato integrazioni e ha fatto sapere che in luglio andrà a Cracovia.

Ma le assicurazioni basteranno? Le Grandi Navi restano il punto dolente. «Trascorrerà un’altra estate con le navi che faranno su e giù davanti a Palazzo Ducale», dice sconsolata Ilaria Borletti Buitoni, sottosegretaria del Mibact con delega Unesco. Una soluzione non c’è. Sono stati proposti itinerari alternativi con terribili scavi di canali che avrebbero manomesso l’equilibrio della laguna. Tanto terribili da essere bocciati. Al Comune ora si predilige un’altra ipotesi: far passare le navi nel canale dei petroli e poi nel vecchio canale Vittorio Emanuele, che però andrà approfondito scavando, di nuovo, fra i 5 e i 7 milioni di metri cubi di fanghi tossici. Comunque la soluzione incontra forti opposizioni in città e non è ancora un progetto. Invece l’Unesco chiede soluzioni concrete. Come andrà a Cracovia? Venezia non se la caverà con l’assoluzione. Forse neanche con la retrocessione fra i beni in pericolo. Probabile un rinvio al 2018.

Molti consensi ha incassato la candidatura italiana che verrà discussa in luglio: le opere di difesa della Repubblica veneziana fra XV e XVII secolo che si trovano in Italia (Venezia, Bergamo, Peschiera del Garda, Palmanova), in Croazia (Zara e Sebenico) e in Montenegro (Cattaro). Di analogo sostegno gode la candidatura delle architetture di Ivrea, frutto dell’iniziativa di Adriano Olivetti: se ne discuterà nel 2018. Più controversa è la candidatura delle colline trevigiane dove si coltiva il Prosecco. Il procedimento prende l’avvio nel 2008 per iniziativa del Consorzio dei produttori di Conegliano e Valdobbiadene, sostenuto dall’allora ministro dell’agricoltura Luca Zaia che ne resta sponsor da presidente del Veneto. Interessa un’area di 20 mila ettari – si legge nel dossier di 240 pagine – dove si è insediato un paesaggio culturale, natura e opera dell’uomo insieme, caratterizzato dalle ricche produzioni del Prosecco, una vera eccellenza (90 milioni di bottiglie l’anno).

Da tempo, però, associazioni ambientaliste e la Fondazione Benetton contestano l’invasione delle coltivazioni di Prosecco, che, soprattutto nella parte meridionale del trevigiano, «ha fatto scomparire i seminativi arborati », scrive Tiziano Tempesta, professore di Agraria a Padova, in un rapporto dello scorso inverno. Ha omologato e banalizzato il paesaggio. Si è poi intensificato l’impianto a “rittochino”, più rischioso idrogeologicamente, con le viti che scalano la collina dal basso verso l’alto, al posto del tradizionale “giropoggio”, segnala Marco Tamaro, direttore della Fondazione Benetton. Sotto accusa anche l’uso di pesticidi. Tempesta è stato fra gli artefici dell’inserimento nel Registro nazionale dei paesaggi storici della parte di colline trevigiane in cui resistono i caratteri tradizionali delle colture. Studia da anni questa regione. E contesta che, nel dossier per l’Unesco, si lasci intendere che anche i nuovi vigneti conservino caratteri storici.

Altri punti, insiste Tempesta, sono poco convincenti. Nella candidatura si scrive che «il sito non ha subito rilevanti trasformazioni ». «Che dire», replica Tempesta, «del gasdotto e degli impianti di stoccaggio del gas che si trova dietro il Castello di san Salvatore a Collalto?». E ancora: nel dossier si legge che la percentuale delle superfici urbanizzate dal 1960 al 2007 è cresciuta dal 5,3 al 12,9, aggiungendo che la variazione è modesta. Come modesta, insorge Tempesta: «È un dato preoccupante, riguarda 1.500 ettari, una quota che corrisponde alla media del consumo di suolo in Veneto, la seconda regione in Italia per territorio urbanizzato ».

«Una volta bastava sterminarli ma oggi, per togliere di mezzo le popolazioni che vivono nei territori necessari all’avanzata del “progresso”, certi mezzi non usano più». comune-info.net, 17 maggio 2017 (p.d.)

Si può misurare quanto vale la vita di un popolo indigeno o contadino? O quanto vale la sua morte? Le imprese che vogliono sfruttare i loro territori e alle quali molesta la presenza di queste comunità, pensano di sì. Per questo hanno inventato il concetto di “compensazione della biodiversità” (biodiversity offsets). Così, un’impresa mineraria o idroelettrica, una edile, enormi piantagioni di monocolture di alberi, o qualsiasi altra mega-imprenditorialità che implica la devastazione di un territorio, potrebbe “compensare” la distruzione, presumibilmente conservando la biodiversità da un’altra parte. Quelle che stanno maggiormente utilizzando questo perverso concetto sono le miniere; altre, però, come la Cemex [1], non sono da meno.
La proposta che viene discussa al senato [messicano] su una Legge generale della biodiversità, della senatrice Ninfa Salinas del PVEM, sebbene non nomini espressamente questa modalità, la facilita attraverso le lacune e le nuove norme che stabilisce e soprattutto, attraverso l’assenza di riconoscimento, che predomina nella proposta, del ruolo essenziale, storico e attuale, delle comunità indigene e contadine nella cura e nella crescita della biodiversità.
Il concetto di “compensazione della biodiversità” è una miniera d’oro per le imprese, perché permette di aumentare i loro profitti e di apparire come imprese “verdi”. Primo: guadagnano con l’attività contaminante che installano e per uscirne impuni dalla devastazione causata. Secondo: si appropriano o vanno a gestire un’area di biodiversità in un’altra zona, con la quale possono ottenere profitti aggiuntivi sia per l’emergente mercato secondario di “buoni di compensazione della biodiversità”, come per la vendita di servizi ambientali, mercati di carbonio, o per contratti che potrebbero siglare con il fine di brevettare elementi della biodiversità, come piante, insetti o microrganismi che si trovano su quel “fondo”, così come dice la suddetta proposta di legge.
Per facilitare l’operazione, parte della strategia delle imprese è denigrare i popoli che vivono lì, ai quali viene mossa l’accusa che, se l’impresa non se ne fosse occupata, avrebbero devastato il loro territorio: per cui, trasferendoli altrove, si stanno prendendo cura della biodiversità.
L’allontanamento dal territorio, come sanno bene tutti i popoli che lo hanno subito, è una sentenza di morte per le comunità, le loro culture, i loro modi di vivere e lavorare. Quando vengono reinsediati, li spostano in zone che non conoscono, che non sono fertili e dove non possono praticare le loro tradizionali forme di sostentamento. Un esempio di “compensazione della biodiversità”, presentato dalla miniera Rio Tinto come modello, è il caso di una miniera in Madagascar, a partire dalla quale hanno reinsediato altrove una comunità. Non li hanno mai informati che non potevano accedere al bosco e che il luogo che gli veniva assegnato per seminare erano dune di sabbia. Il Movimiento Mundial de Bosques [WRM World Rainforest Movement] era lì e ha pubblicato un rapporto su quanto era realmente successo, che dimostra il significato di questo tipo di “compensazione”. Un modello, certo, ma di come operano le multinazionali.
Queste “compensazioni” partono dalle stesse premesse teoriche dei mercati di carbonio, i pagamenti per servizi ambientali e il concetto di “emissioni nette zero” nel cambiamento climatico. L’assunto di base è che le emissioni di gas, l’inquinamento e la devastazione, possono essere “compensate”. Non si tratta di fermare la devastazione e l’inquinamento ambientale né la distruzione della biodiversità, bensì di fare una contabilità corretta: se il danno prodotto si compensa presumibilmente da un’altra parte, la somma darà zero. Questo è inutile al fine di frenare il cambiamento climatico, aver cura della biodiversità e meno ancora per i popoli trasferiti o per quelli che non possono più bere l’acqua del loro fiume, quelli che perdono il loro bosco, la loro terra e il loro sostentamento. Però, quantificare la distruzione, consente di emettere buoni e crediti negoziabili.
Nel caso del cambiamento climatico, questa operazione elude realtà molto gravi. Non esiste alcuna prova che i mercati di carbonio abbiano migliorato il cambiamento climatico, però ci sono prove dei profitti di quelli che commerciano con le emissioni. In ogni caso, non resta più “spazio climatico” per continuare con le emissioni, perché l’eccesso di gas con effetto serra di alcuni paesi è stato talmente grande che non c’è la possibilità di “compensare” per continuare ad emettere gas; l’unica vera soluzione è ridurre le emissioni. Nel caso della biodiversità, il progetto è assurdo perché la diversità biologica e quella culturale sono processi locali, co-evolutivi e di lunga storia: non si può distruggere uno spazio e pensare che “conservarne” un altro lo compenserà, ancora meno che si possa sradicare una comunità dal suo territorio.
Nel contesto della COP 13 del Convegno della Biodiversità che si è tenuto nel 2016 a Cancún, questa modalità di “compensazione” è stato un argomento entusiasmante nell’ambito del Foro de Negocios y Biodiversidad [ Business and Biodiversity Forum], con imprese di tutto il mondo. Integra anche la prospettiva della Alianza Mexicana de Biodiversidad y Negocios, costituita poco prima della COP13, composta da imprese messicane e multinazionali come Bimbo, Cemex, Grupo México, Nestlé, Basf, Syngenta, Walmart, Banorte, CitiBanamex, Proteak, BioPappel, Televisa, Masisa, Canaco Cdmx, insieme a istituzioni e ONG come Cespedes, Pronatura, The Nature Conservancy, Rainforest Alliance, Conservación Internacional México, Reforestamos México, Fondo Mexicano para la Conservación de la Naturaleza, Biofin, Cemda, COBI e Ecovalores, molte delle quali hanno avuto un ruolo chiave nella mercificazione della biodiversità.
È importante conoscere e non permettere che vengano portate avanti queste nuove trappole che giustificano la distruzione della biodiversità e nuovi attacchi alle comunità contadine e indigene, che sono i suoi veri custodi.

Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo Destrucción neta de biodiversidad

[1] Multinazionale messicana del cemento

la RepubblicaFirenze, 17 maggio 2017

CI sono almeno due aspetti nella incredibile vicenda della colata di cemento porta-cessi che deturpa lo spazio sacro all’ombra del quercione di Barbiana.

Il primo non ha a che fare specificamente con don Lorenzo, ma parla della nostra povera Italia del 2017. Un’Italia che non ha amore per se stessa. Un’Italia ricca e ignorante: inchiodata al presente, senza conoscenza del passato e senza desiderio di futuro. Un’Italia che sacrifica i suoi beni comuni non rinnovabili sull’altare degli eventi, della visibilità mediatica, di un ritorno effimero calcolato su poche ore. Un terreno cementificato ci mette duemila anni per tornare vivo. E un paesaggio sfigurato è un’eredità che toglie ogni scelta a chi viene dopo di noi.

Il paradosso è che l’unica voce davvero forte che si sta battendo contro questo consumismo del creato è proprio quella di Papa Francesco: nel cui nome ora si cementifica Barbiana!

L’Istituto per il Sostentamento del Clero ha agito senza chieder nulla alla Fondazione che custodisce e fa vivere esemplarmente Barbiana. E l’ha fatto perché è ‘padrone’ del terreno. Ma il Papa ha detto a più riprese: «Siamo custodi, non padroni del creato!». Mentre «padroni in casa propria» è stato lo slogan ufficiale (letteralmente) di tutte le ultime leggi del cemento: dalla Legge obiettivo di Berlusconi (2001) allo Sblocca Italia Renzi-Lupi (2014).

E Francesco ha anche scritto (nella enciclica Laudato sii) che non si può modificare l’ambiente senza il consenso di chi ci vive: «Nel dibattito devono avere un posto privilegiato gli abitanti del luogo, i quali si interrogano su ciò che vogliono per sé e per i propri figli, e possono tenere in considerazione le finalità che trascendono l’interesse economico immediato. Bisogna abbandonare l’idea di “interventi” sull’ambiente, per dar luogo a politiche pensate e dibattute da tutte le parti interessate. La partecipazione richiede che tutti siano adeguatamente informati sui diversi aspetti e sui vari rischi e possibilità».

Esiste poi anche lo Stato italiano: e c’è davvero da stupirsi dell’accondinscendenza della Soprintendenza di Firenze, perché mettere lì dei cessi, è – sul piano culturale – come metterli in mezzo al piazzale dei Uffizi, o sull’arengario di Palazzo Vecchio. Forse sarebbe il caso di emettere un provvedimento, in autotutela, che revochi i permessi e ordini la rimessa in pristino dei luoghi. Prima che sia un tribunale, a farlo. E poi c’è un secondo aspetto, tutto milaniano. Diciamocelo chiaro: c’è una parte della gerarchia della Chiesa italiana che non avrebbe proprio nessuna voglia di riabilitare don Milani.

Ora tutti piegano la testa al Papa evangelico, in un nuovo conformismo ipocrita. Ma sotto l’ossequio carrieristico covano sentimenti del tutto contrari: anche a Firenze, come è ben noto. E allora è impossibile non leggere una specie di perfida, subdola rivincita nell’idea di mettere dei cessi esattamente nel luogo dove don Milani faceva scuola.

E di farlo – nel più perfetto stile curiale – coprendo il sapore del veleno col miele della celebrazione postuma. Come avrebbe risposto don Lorenzo? Nessuno lo sa, e nessuno può permettersi di dirlo. Ma sappiamo cosa ha scritto. Per esempio, che alla scuola di Barbiana: «non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio. Ma ogni borghese che capitava a visitarci faceva polemica su questo punto. […]. Lucio che aveva trentasei mucche nella stalla (da sconcimare ogni mattina) disse: ”La scuola sarà sempre meglio della merda”».

Ecco, oggi mettiamo la merda esattamente al posto della scuola. Vorrà dire qualcosa?

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