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«La legge regionale lombarda n.31/2014 così come recentemente modificata, sembra avviata, paradossalmente, ad accelerare l’attuazione delle aree programmate rimettendo in gioco anche quelle ferme da tempo». millenniourbano, 4 luglio 2017 (c.m.c.)

Il Consiglio della Regione Lombardia nella seduta del 23 maggio 2017 ha approvato una significativa modifica alla LR 31/2014 e ha contemporaneamente adottato la variante del PTR (Piano Territoriale Regionale) in attuazione di quanto previsto a fine 2014 dalla medesima legge approvata nell’autunno di quello stesso anno. La legge prevede di fissare attraverso il PTR soglie per una progressiva riduzione dell’elevato quantitativo di aree programmate e non attuate esistente nei piani comunali, e definisce a tale fine un periodo transitorio di moratoria, di circa 2 anni, entro il quale i comuni possono fare unicamente varianti di riorganizzazione dei piani, ma non possono prevedere il consumo di nuovo suolo agricolo (1).

I contenuti della prima bozza degli elaborati del PTR erano stati commentati su questo sito ad aprile 2016 (2), manifestando molte perplessità sulla loro possibile efficacia ai fini del contenimento del consumo di suolo. Gli elaborati del PTR adottato a maggio sono stati alleggeriti e resi più leggibili rispetto alla prima bozza, ma l’impostazione attuativa è rimasta invariata. In ogni caso quel poco di utile che il PTR poteva portare alla pianificazione di area vasta rischia di essere neutralizzato dai sorprendenti contenuti della contemporanea modifica alla LR 31/2014. Il tema è molto tecnico e complesso. Provo qui a sviluppare qualche considerazione preliminare attraverso un’esposizione semplificata dei contenuti della modifica, senza addentrarmi nei dettagli, per dare un’idea degli effetti che ne deriveranno.

La LR 31/2014 nel suo testo originario aveva previsto un percorso attuativo lineare, attraverso un PTR che dettasse gli indirizzi, da declinare successivamente nei PTCP/PTM (Piani Territoriali di Coordinamento Porivnciale / Piano Territoriale Metropolitano) secondo le specificità delle singole province e della Città metropolitana, e infine da attuare operativamente nei piani comunali secondo le disposizioni dei piani provinciali e metropolitano. Il tutto era calendarizzato secondo tempi stringenti, e fino all’approvazione dei PTCP/PTM le possibilità di modificare la pianificazione comunale venivano molto limitate. Il percorso è entrato in crisi quando ANCI ha fatto notare che i tempi si stavano allungando troppo: l’adeguamento del PTR ha infatti già oggi accumulato un ritardo di quasi due anni, e i PTCP probabilmente richiederanno molto più dei 12 mesi originariamente previsti.

La Regione ha così adottato una variante alla legge che ha di fatto eliminato l’obbligo per i comuni di attendere l’approvazione delle varianti dei PTCP/PTM, permettendo da subito di attuare direttamente quanto previsto dalla LR 31/2014 attraverso una sorta di autocertificazione dei comuni stessi. Gli effetti negativi della modifica normativa non si fermano qui, ve ne sono altri, che rischiano di portare al risultato esattamente opposto a quel contenimento di consumo di suolo che è fin dal titolo dichiarato come obiettivo principale della legge.

Per tutto il periodo fino all’adeguamento dei PTCP i comuni possono modificare il PGT (Piano di Governo del Territorio) a patto di realizzare un “Bilancio ecologico sostenibile” (così definito dalla legge) pari a zero. In parole semplici nel PGT per prevedere nuovi ambiti di trasformazione che impegnano suolo agricolo si deve contemporaneamente ridestinare ad uso agricolo almeno una pari quantità di superficie programmata ma non ancora attuata. Accade così che previsioni insediative che fino ad oggi non sono state attuate perché poco appetibili per il mercato si trovano improvvisamente ad assumere un valore, potendo essere scambiate per rendere edificabile una zona agricola più appetibile collocata in un’altra parte del territorio comunale.

Di fatto la modifica alla legge ha attivato un plusvalore, una sorta di rendita fondiaria, un regalo per i fortunati proprietari delle aree programmate, comprese tutte quelle società e banche che nel periodo di crescita immobiliare, prima del 2007, avevano acquisito e inserito nei loro bilanci ampie aree con prospettive edificatorie. Inoltre, a quantitativo complessivo bloccato i proprietari delle aree oggi programmate si trovano in pratica ad operare in una situazione di quasi monopolio.

Fino a ieri il mercato immobiliare fermo spingeva molti proprietari ad accettare nel PGT il ritorno a destinazione agricola delle aree programmate per evitare di continuare a pagare le salate tasse collegate con la previsione edificatoria. In questi due anni dopo l’entrata in vigore della L 31/2014 i pochi comuni che si sono avventurati nella variazione del proprio PGT hanno potuto ridurre in modo consistente le aree programmate, anche oltre il 50%, in generale senza resistenze da parte dei proprietari, con qualche eccezione. Ora, la prospettiva di potere rimettere in gioco in altri settori comunali i diritti edificatori, anche mediante permute, restituisce interesse ai proprietari. Qualche primo segnale in tale senso si vede già a un solo mese dall’approvazione della variante normativa. La legge sul contenimento del consumo di suolo così modificata sembra avviata, paradossalmente, ad accelerare l’attuazione delle aree programmate rimettendo in gioco anche quelle ferme da tempo e meno appetibili per il mercato.

Il fatto che l’approvazione dei PTCP non sia più condizione preliminare necessaria per variare i PGT allontanerà probabilmente nel tempo la redazione delle varianti dei PTCP, almeno fino a quando non si arriverà vicini all’esaurimento del quantitativo di aree programmate attraverso permute e riprogrammazioni in zone più favorevoli. Teniamo presente che oggi negli organi delle province ci sono gli amministratori comunali, e a loro spetta la decisione di quando avviare le modifiche al PTCP.

Unica via d’uscita, almeno per il periodo di transizione fino all’approvazione dei PTCP, è di rafforzare le verifiche di compatibilità delle province sui piani comunali, anche utilizzando gli importanti principi sul ruolo dei piani provinciali affermati dal Consiglio di Stato a giugno 2016 (3). La modifica alla LR 31/2014 attribuisce alle province, questo è un aspetto positivo, il compito di verificare i PGT rispetto ai criteri generali del PTR. Considerando che già oggi molti dei PTCP vigenti contengono indicazioni dettagliate che in parte si sovrappongono ai criteri generali del PTR, basterebbe raccoglierle e creare un quadro di corrispondenze rispetto a ciascuno dei criteri regionali per fornire un utile riferimento ai tecnici provinciali che hanno il compito di verificare i PGT. Tutto questo potrebbe essere fatto a normativa invariata, in attesa delle varianti dei PTCP, semplicemente riorganizzando quanto le province hanno già fatto fino ad oggi.

(1) Sulla LR 31/2014 vedere intervento su Arcipelago Milano 3 dicembre 2016.
(2) Sulla proposta di PTR vedere serie di 3 articoli su Millennio Urbano del 27 , 30 marzo , 4 aprile 2016.
(3) Sentenza del Consiglio di Stato n.2921/2016 nella quale viene definita la funzione di coordinamento territoriale sui temi di area vasta; vedere articolo su Arcipelago Milano del 13 luglio 2016.

Trascrizione dell’intervento all’assemblea della ReTe dei comitati per la difesa del territorio, tenutasi a Firenze il 1° luglio, sui temi del centro storico: espulsione dei cittadini ed estrazione di profitti a vantaggio di pochi. La Città invisibile online, 4 luglio 2017 (p.d.)
Nel presente contributo vorrei offrire alcune chiavi di lettura utili alla comprensione del fenomeno dell’estrattivismo e della monocoltura del lusso in atto nelle città d’arte mercificate e desertificate, ed enucleare alcune prospettive operative di resistenza [1].
Estrattivismo e monocoltura
Con il termine “estrattivismo” si intende il sistema di accaparramento di risorse naturali, loro commercializzazione ed esportazione, contro il volere delle comunità locali e contro gli equilibri dell’ambiente. L’«accaparramento tramite spossessamento» (Harvey) e l’estrazione di rendite monopolistiche perpetrati da imprese multinazionali rientrano nel quadro delle dinamiche coloniali e neocoloniali cui si confanno la militarizzazione del territorio, la violazione di principi di convivenza democratica, la violenza e la repressione. Fondato sulla monocoltura (agro-industriale, industriale e delle megaminiere), il modello estrattivista impoverisce e isterilisce vaste aree geografiche e intere nazioni del sud del mondo. Impoverisce socialmente, poiché, come è stato scritto, depriva, spossessa le popolazioni di progettualità sul proprio ambiente di vita (Zibechi) [2].

Traslato sull’ambiente urbano, l’estrattivismo assume i tratti di accumulazione di capitale a spese della città, che è, per definizione, costruzione collettiva e bene comune, nonché giacimento limitato. Tale modello si manifesta nelle alienazioni degli edifici pubblici, nella privatizzazione delle imprese pubbliche, dei servizi e delle risorse primarie (acqua etc.), nella chiusura di parti di città (si ricordi la cena Ferrari sul Ponte Vecchio), nella locazione di sale monumentali e musei, nella brandizzazione, ossia nella collocazione del marchio cittadino (il brand) sui mercati immobiliari e finanziari globali. Nella creazione del brand, l’Unesco ha un ruolo non secondario (Choay). Si tratta, insomma, di un meccanismo di produzione di denaro attraverso l’acquisizione privata (indebita e sotto costo) di patrimonio pubblico. Senza neanche la contropartita di lavoro dignitoso e impiego di lunga durata che pure era offerta dal capitalismo temperato dalla socialdemocrazia.


Estrattivismo e città d’arte
Nelle città d’arte il fenomeno estrattivo si manifesta drammaticamente, poiché la pressione economica agisce su un’area ristretta, di carattere storico e monumentale. Nel nucleo centrale, la popolazione residente è espropriata dello spazio di vita civica (il quale ha carattere memoriale, antropogenetico, identitario), espropriata dell’agibilità e dei servizi. È letteralmente espulsa a causa dell’innalzamento dei valori immobiliari. La monocoltura turistica non è in grado di mettere in moto spinte riproduttrici di patrimonio, anzi lo consuma irreversibilmente, e tantomeno è in grado – lo si è accennato – di redistribuire efficacemente reddito. È emblematico il fatto che, anche quando la monocoltura turistica opera sotto le spoglie della sharing economy, essa riesce a canalizzare nelle mani di pochi i profitti estratti dalla città di tutti, a concentrare il potere e a far espatriare i proventi.

È il caso del colosso statunitense Airbnb[3]. A dispetto delle premesse (in nome dell’economia della condivisione) Airbnb crea diseguaglianze tra piccoli locatori e grandi agenzie che gestiscono per conto terzi centinaia di appartamenti. Il fenomeno è pervasivo: a Firenze oltre il 18% dell’intero patrimonio immobiliare del centro storico è un b&b promosso dalla piattaforma americana[4]. La massima parte è costituita da interi appartamenti in affitto gestiti da terzi, poche invece le singole stanze presso famiglie. È un dato che dimostra peraltro l’internità dei cittadini alle dinamiche estrattive. Ricordo che a Firenze, nel 2016, si sono registrate 9 milioni e 391.000 presenze (fonte: Città metropolitana di Firenze, Centro Studi Turistici) che hanno insistito principalmente sull’area centrale abitata da 52.527 persone[5].


Turismo
Nel suo ultimo libro – Il selfie del mondo (Feltrinelli, 2017) – Marco d’Eramo ci rassicura: l’età del turismo di massa sta tramontando. Il turismo di massa – in quanto messa in valore delle ferie pagate – è espressione di una società fondata sul lavoro salariato. Oggi, al tempo dell’autoimprenditorialità, dell’erosione dei diritti e del declino delle forme di lavoro tutelato, il turismo di massa non è più in grado di offrire agli investitori una prospettiva luminosa di profitti crescenti. Per queste ragioni l’industria turistica cerca nuove strade e nuove configurazioni. Essa sta infatti indirizzando i propri interessi di mercato verso il nomadismo – un po’ bobó – per studio e lavoro e verso il turismo di lusso (studentati a cinque stelle, resort, “luxury hotel”, spa etc.). Quanto al nomadismo per fame e guerre, è un capitolo che poco interessa all’industria turistica e quindi agli amministratori locali. A Firenze questa mutazione verso il turismo e il consumo di lusso è nell’aria già da tempo.

Lusso
Risultato di diseguaglianze sociali evidenti, espressione della canalizzazione delle ricchezze (sempre più concentrate) verso consumi esclusivi e non raramente predatòri, simbolo di avvenuta ascesa sociale, il lusso è connesso con il mondo della moda, dell’industrial design, delle cure e del benessere, del turismo, dell’immobiliare, etc. Le città d’arte risultano particolarmente indicate per fornire gli scenari di pregio utili a localizzare i consumi di lusso e la propaganda.

Gigantismo
Non è possibile affrontare i temi dell’estrattivismo urbano e della monocoltura turistica senza richiamare le profonde mutazioni territoriali legate alla delocalizzazione della produzione, e alle nuove forme di commercio (e di turismo) online[6]. Il sistema della logistica mondiale mette in atto una drastica semplificazione insediativa, a scala ciclopica. Un nuovo modernissimo gigantismo fondato sulle grandi distanze, sui grandi centri di produzione e di smistamento, colossali sistemi organizzativi di vendita (gli “scaffali elettronici” o le piattaforme turistiche elettroniche, come la citata Airbnb), grandi porti, “grandi navi” e città monocolturali. Fasci di velocissime vie di comunicazione – i “corridoi” – collegano con fluidità produzione e consumatore, le metropoli alle città d’arte. Le aree interne diventano sempre più distanti; il treno si riduce a «metropolitana d’Italia»[7] che taglia i territori, li scarta e li trasforma in puro ostacolo geospaziale.

Le grandi trasformazioni
A queste brame di gigantismo sono riconducibili, a Firenze, il TAV e – in maniera ancor più evidente – il nuovo (progettato) aeroporto che unisce mirabilmente i desideri di sviluppo dell’e-commerce e dell’e-tourism. In linea coi peggiori esempi di accaparramento sudamericano, un imprenditore argentino nei mesi scorsi ha tentato un’operazione di land grabbing al fine di garantirsi le terre su cui costruire l’agognato aeroporto. Le grandi trasformazioni minano alla base lo spazio della convivenza civile. Ma anziché rappresentare un’emergenza per la vivibilità su cui far confluire le attenzioni di governo, gli effetti cantieristici delle grandi opere diventano motivo d’orgoglio per gli amministratori: in una città paralizzata dai cantieri di TAV e tramvie, Nardella – nella relazione sui suoi primi mille giorni da sindaco – affermava trionfale: «governiamo la più grande trasformazione della città degli ultimi 150 anni in termini di riqualificazione e grandi infrastrutture». Grandi opere, enormi ambizioni.

La svendita del patrimonio immobiliare pubblico
Come abbiamo più volte denunciato, gli amministratori, mettendo all’incanto il patrimonio pubblico, e facilitando gli appetiti predatòri degli immobiliaristi, si sono zelantente trasformati in curatori fallimentari dell’ente pubblico. La trasformazione privatistica della Cassa Depositi e Prestiti e del Demanio è stata peraltro congeniale alla metamorfosi della gestione urbana in mera ragioneria. L’arte di attrarre le speculazioni straniere sulla città storica si chiama ora Cultural Real Estate Development. Estrattivismo sedicente “culturale” nel quale i developers si devono muovere senza ostacoli che gli amministratori pubblici si prodigano ad abbattere.
Un esempio. Nelle scorse settimane, una sentenza della Corte di Cassazione ha bloccato i lavori in varie decine di grandi cantieri nel centro città: “se c’è cambio di destinazione d’uso non è restauro”. Cioè: i lavori negli edifici monumentali, se non condotti con i metodi del restauro, sono abusivi. Nessun problema: le pressioni da palazzo Vecchio su palazzo Chigi hanno prodotto un emendamento alla manovra economica che, a sua volta, è andata a modificare il Testo Unico dell’Edilizia[8] e ha spianato il campo. Procedono quindi senza impedimenti: le trasformazioni private sull’ex Borsa Merci, sulla Manifattura Tabacchi, e sulle ex caserme e conventi di San Gallo, il Maglio, Sant’Orsola etc.; l’insediamento della “esclusiva” Fondazione Zeffirelli nell’ex Tribunale in piazza San Firenze; l’hotel a cinque stelle nella ex caserma di Costa San Giorgio, nel Monte di Pietà etc.; i due «ostelli di lusso» (Casa del Sonno ed ex Fiat-Belfiore); la riduzione in appartamenti del Teatro Comunale etc. etc.[9]

Eugenetica urbana
La svendita produce effetti di «eugenetica urbana». Ogni anno mille residenti abbandonano (espulsi) il centro storico. E il Comune ci mette del suo proponendo all’imprenditoria immobiliarista sessanta appartamenti pubblici nella città storica. L’amministrazione comunale giustifica la vendita: “le case all’incanto non hanno i requisiti per divenire case popolari”. Eppure secondo la legge regionale le case sono già classificabili come ERP. Viene il sospetto che non siano tanto le case ad essere inadeguate ad ospitare classi popolari, quanto le classi popolari inadeguate per il quadro urbano prefigurato da Nardella & Co[10]. Sindaco che, ricordiamo, gioiva per i poteri conferitigli dal Daspo urbano – uno «stato di eccezione permanente» (Benjamin) nel governo della città –, affermando che era finalmente «Finita la stagione delle pistole ad acqua» (“Corriere fiorentino”, 11 febbraio 2017); la stagione però pare non essersi ancora conclusa, visto il recente provvedimento (lavaggio dei sagrati per impedirvi lo stazionamento dei turisti) in città già definito “pompa magna”.

Prospettive
Provo ad enucleare tre assi progettuali utili a risollevare le sorti della città: la leva dei beni comuni e il loro uso collettivo; il progetto locale sullo spazio pubblico; l’accoglimento della forza viva dei migranti.

Con l’esperienza della delibera Filangieri, a Napoli è stata messa in campo una possibilità concreta da perfezionare ed estendere alle altre città italiane. La delibera fa leva sulla categoria giuridica di “bene comune” e riconosce ad alcune esperienze autogestite di riappropriazione di edifici dismessi il «valore sociale di ambienti di sviluppo civico», e come tali le ritiene strategiche garantendo le condizioni di sopravvivenza alle microresistenze urbane.

Proprio mentre stiamo parlando, a Mondeggi si festeggiano i tre anni di presidio della tenuta messa in vendita dalla Città metropolitana, tre anni di custodia popolare delle terre e di sperimentazione collettiva di autogoverno. Si tratta di un progetto a scala locale che potrebbe essere declinato in chiave urbana, ad esempio alla scala rionale. Sul modello dell’autonomia municipalista, di rione, teorizzata da Murray Bookchin.

Esempi interessanti, tra gli altri, provengono da: “Facciamocispazio”, laboratorio rionale “dal basso”promosso da comitati e associazioni (Giardino San Jacopino, Leopolda Viva, ex FIAT Belfiore-Marcello, e Tutela dell’ex Manifattura Tabacchi); da inKiostro, luogo di «agibilità sociale» a disposizione per le realtà di movimento attive in un centro storico deprivato di spazi per momenti di incontro, confronto e lotta; o da La Polveriera Spazio Comune che, nell’ambito delle proprie attività in un ambiente dismesso dal DSU (agenzia per il diritto allo studio universitario), mette in relazione un quartiere del centro storico con le produzioni “genuine e clandestine” del contado e lavora per rafforzare l’alleanza città-campagna.

Poiché lo spazio pubblico è testimonianza e garanzia di vita civica, e ne rappresenta la possibilità di riproduzione nel futuro, l’alienazione degli immobili pubblici spossessa la cittadinanza di progettualità sul proprio ambiente di vita. Il progetto locale, urbano e rionale, farà leva dunque sulla presenza – ancora in mano pubblica – di grandi “contenitori storici” che, per localizzazione centrale, qualità architettonica e superficie, costituiscono l’importante occasione per un’intrapresa collettiva che dia vita ad alternative d’uso risolutive dei mali urbani sopra velocemente descritti. Tali immobili rappresentano inoltre la possibilità concreta di restituire all’uso cittadino edifici un tempo luogo del potere e dei soprusi: il palazzo, la caserma, il convento, il carcere, il manicomio. Molti dei quali, essendo edifici nati per la residenza collettiva, possono oggi essere convertiti in luoghi di accoglienza dei migranti e delle migliaia di persone che vivono il disagio abitativo. I rioni trarrebbero forza dalla presenza di questo nuovo afflusso di vita urbana.

Restituire disponibilità e funzioni collettive ai contenitori storici intra moenia contribuisce a restituire ai quartieri centrali quel carattere di promiscuità d’usi e di vissuti, che è il primo presidio contro la mercificazione e la desertificazione degli spazi urbani. Contro la monocoltura del lusso.

[1] Le relazioni tra estrattivismo e turismo nelle città d’arte sono state al centro di un nostro recente proficuo colloquio con Giacomo M. Salerno, svoltosi nell’ambito del dottorato di ricerca in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica (La Sapienza, Roma).

[2] Raúl Zibechi, L’estrattivismo come cultura, “comune.info”, 31 ottobre 2016; Id., La nuova corsa all’oro Società estrattiviste e rapina, camminardomandando/Re:Common, 2016.

[3] Molto ne è stato scritto recentemente su quotidiani e riviste anche a seguito della pubblicazione di uno studio di ricercatori dell’Università di Siena (S. Picascia, A. Romano, M. Teobaldi, The airification of cities: making sense of the impact of peer to peer short term letting on urban functions and economy, “Proceedings of the Annual Congress of the Association of European Schools of Planning”, Lisbon 11-14 July 2017).

[4] Ernesto Ferrara, Case in centro ma ricavi per pochi. Così Airbnb ha invaso l’Italia, “la Repubblica”, 12 giugno 2017, che riprende i dati del succitato saggio di Picascia et al.

[5] Firenze “invasa” dai turisti, la fuga dei fiorentini: via in 20mila dal centro, “Corriere fiorentino”, 13 ottobre 2016.

[6] Su questi temi si veda la riflessione di carattere generale: Giorgio Grappi, Logistica, Ediesse, Roma, 2016. Qui il video della presentazione del libro, a cura di perUnaltracittà.

[7] Così in un filmato pubblicitario delle ferrovie statali, risalente al 2013.

[8] e.f., Avanti con lo “sblocca-edilizia”, “la Repubblica Firenze”, 1 giugno 2017.

[9] Rimando al mio Alienazioni a Firenze. O la metamorfosi dell’urbanistica in ragioneria, “La Città invisibile”, 17 febbraio 2017.

[10] Sempre in tema di alloggi popolari, il 2 marzo 2017 Nardella affermava ai microfoni di una radio locale che «Il vincolo dei 5 anni di residenza è troppo poco, bisogna aumentarlo. […] Vuoi avere un alloggio popolare? Bene, devi essere residente da almeno 10 anni in Italia». Avviandosi verso la sublime conclusione: «Tu, famiglia rom, non mandi il figlio a scuola, allora devi esseri punito e tra la punizione ti levo anche la casa. Non è una questione di razzismo, io combatto il razzismo, ma di civiltà» (cfr. Alessandro De Angeli, Le case impopolari/2 – I numeri di Nardella, ovvero Nardella dà i numeri, “La Città invisibile”, 10 aprile 2017; ma anche Nardella: «Troppi immigrati nelle case popolari. Il rischio è che si creino dei ghetti», “La Nazione”, 3 marzo 2017).

Il tunnel per collegare la M3 alla futura M4: un commento F. Bottini, La Città Conquistatrice; due opinioni contrapposte, la Repubblica Milano; e una descrizione di Ilaria Carra, la Repubblica Milano. 5 luglio 2017 (p.d.)

La Città Conquistatrice, 4 luglio 2017
MILANO: DALL'IDEA DI CITTA'
ALL'IDEA DI PROGETTONE
di Fabrizio Bottini

Una volta si parlava correntemente di urbanistica come idea di città complessiva, ma forse già covava qualcosa di sbagliato, e lo si doveva capire guardando certi «progetti ideali» cavati dal cappellino di prestidigitazione degli ubiqui studi di architettura. Non per discutere la qualità di quei progetti, nessuno vuol contestare nulla in quel senso, ma proprio il metodo. Ricordo di averne usato uno (uno fra i tanti che però aveva il vantaggio, non da poco, di essere integralmente disponibile, e orgogliosamente pubblicato da Urbanistica, organo ufficiale e istituzionale) per cercare di spiegare un pochino alle menti aperte degli studenti di pianificazione del territorio, cosa avrebbe dovuto in teoria distinguere il loro approccio da quello dei progettisti tout court. Si trattava di uno di quei «quartieri autosufficienti», ideologicamente concepiti come tali e cacciati nella più bieca estrema periferia extraurbana, nella fase matura e discendente di quel genere di trasformazioni, dopo che dal punto di vista simbolico erano già girate in tutto il mondo le riprese della morte dell’architettura-urbanistica moderna, con le cariche di dinamite a tirar giù gli stecconi del Pruitt-Igoe di Minoru Yamasaki. Il fatto più significativo e abbastanza spudorato, di quel progetto, era la vera e propria cancellazione dell’urbanistica, ridotta a puro fatto tecnico e autoreferenziale, in cui i retini e le norme arrivavano a valle del progetto, anziché precederlo immediatamente alla fine di tutt’altro percorso logico. Metafora illuminante, quei retini già sgocciolanti di rendering (anche se allora non si usava la pratica, pudicamente contenuta in qualche schizzo prospettico a china e matita «per dare l’idea»).


Dalla piccola escamotage alla grande rinuncia
E veniamo ai nostri giorni, parecchi decenni più tardi, ad avvenuta evaporazione di fatto anche di quei preliminari retini, che ormai arrivano talmente dopo il progettone da essere diventati inutili, eventuali, pura sanzione di ciò che si è già deciso in base a criteri a ben vedere del tutto estranei, di solito tecnico-finanziari, un po’ l’uno un po’ l’altro, ma di solito non si capisce bene neppure con quanto peso relativo. Ultimissimo esempio l’idea piuttosto tardiva, anche se obbligatoriamente tale per motivi politici (un cambio di maggioranza comunque dal peggio al meglio) di collegare in rete le linee delle metropolitane milanesi, anziché lasciarle assurdamente scorrere una accanto all’altra, miliardi buttati inutilmente in una idea di «mobilità collettiva» surreale, perché sganciata dai luoghi e dalle funzioni, e pensata soltanto come opera a finanziamento pubblico, e travaso di risorse dalle tasche di qualcuno a quelle di qualcun altro, con la scusa della pubblica utilità. Due delle linee più nuove, la M3 e la M4, scorrono in centro e nei pressi di un fondamentale polo di servizi, appunto ignorandosi, perché progettate malissimo e senza riferimento alla città, come un gruviera sotterraneo autoreferenziale, che deve risolvere solo «problemi ingegneristici», mica quelli dei cittadini, dell’ambiente, dell’abitabilità eccetera. Anche la soluzione viene concepita sostanzialmente col medesimo stile T.I.N.A. There Is No Alternative da specialista indiscutibile: per collegare due buchi ci vuole un altro buco. Ma la cosa più stupefacente (uso l’aggettivo in senso sarcastico, per chi non avesse ancora colto) è il «dibattito» che ne esce, lo «scontro» fra posizioni diverse.
Tertium Non Datur, proprio proprio?
Su un quotidiano locale, il classico paginone dedicato al tema vede la contrapposizione dialettica tra due posizioni che si vorrebbero antitetiche: un trasportista e un urbanista (sic), tra l’altro entrambi da sempre impegnati in politica locale, con cariche di rilievo. Assai schematicamente, l’esperto di trasporti ex assessore comunale, è favorevole al tunnel tra i due tunnel: «c’è da fare un corridoio di collegamento tra due stazioni dove dentro passa chi ha pagato, non si può prendere e uscire e quindi il collegamento andrebbe protetto. E poi incrocerebbe le strade, interferendo con il traffico»; dall’altra parte l’urbanista ex assessore regionale ritiene invece che « Una persona normale non fa un percorso così lungo sotto terra […] sarebbe troppo lungo e i costi non si giustificherebbero […] io lascerei tutto così com’è oggi». La cosa da sottolineare, qui, è il fatto che ancora una volta, come nei casi eclatanti e recenti degli scali ferroviari, o dello scoperchiamento dei Navigli, seppur su scala più piccola ma forse più evidente, non si scontri proprio nulla se non una lettura diversa della tabellina costi-benefici, ma dove alla voce «benefici» non si esce di un millimetro dal progetto, considerandolo evidentemente imprescindibile in sé, chiuso e chiavi in mano. E l’idea di città, dove la mettiamo? Poniamo, l’occasione di partire da un’idea di spazio di massima, estesa all’intero corridoio teorico tra i due ormai fissati poli delle stazioni, e ragionare a scala di porzione urbana? Quel posto non è una fila di formichine dal buco al mucchietto di zucchero e viceversa, ma incrocia una quantità di flussi, e per inciso proprio per quel motivo si sono fatti passare da lì quei copiosi investimenti. Tenerne conto, mai? O tenere conto, che so, del biglietto del tram «smaterializzato», che rende ridicolo il concetto di tunnel sotterraneo continuo e dedicato, perché «entrare e uscire» si sgancia dalle tariffe? In pratica, siamo tornati, o restati, a quella reazionaria idea secondo cui «noi non sappiamo che farcene, del piano regolatore, ci regoliamo benissimo da soli». Alla faccia dei cittadini, della sventolata partecipazione, della sostenibilità e compagnia bella.
la Repubblica Milano, 4 luglio 2017

IL DIBATTITO SUL
TUNNEL A MISSORI
di a.m. e i.c.

Perché no. “Costi non giustificati non sarebbe usato”Roberto Biscardini, ex assessore regionale ai Trasporti e già docente al Politecnico di Teorie urbanistiche e Qualità urbana, che cosa ne pensa del collegamento pedonale per unire la linea gialla e blu del metrò?
«Mi sembra che fare un tunnel sotterraneo lungo ottocento metri partendo da Missori, ma anche di seicento se si partisse da Crocetta per raggiungere la fermata Sforza Policlinico della linea M4 sarebbe troppo lungo e i costi non si giustificherebbero ».
Perché?
«Oggi se un milanese che ha viaggiato sulla linea 3 del metrò volesse andare davanti al Policlinico, cosa farebbe? Uscirebbe alla stazione Crocetta andrebbe a piedi o al massimo prenderebbe il tram».
Non sarebbe scomodo?
«Io che sono una persona normale lo farei. Molto meglio che camminare sottoterra per troppo tempo».
Da anni, c’è un sottopassaggio tra Cordusio e Duomo che collega le linee 1 e 3 del metrò.
«È lungo solo trecento metri e di solito i passeggeri lo usano solo se piove».
Quindi non le piace questo progetto.
«Capisco che c’è un peccato originale. La mancanza di una fermata di corrispondenza tra la linea 3 e la futura M4. Il nuovo sottopassaggio dovrebbe tagliar via Pantano, via Larga, passare sotto l’università, cosa, peraltro, molto complicata, per arrivare al Policlinico. Una persona normale non fa un percorso così lungo sotto terra».
Lei cosa propone?
«Lascerei tutto così come è oggi. È vero che a Parigi ci sono i passaggi sotterranei tra una linea e l’altra. Per esempio, a Concorde e a place de la Republique, ma non sono così lunghi».
Perché sì. “Non c’è alternativa a scavare sottoterra”
Giorgio Goggi, ex assessore comunale ai Trasporti della giunta Albertini e uno dei saggi che sta studiando la riapertura dei Navigli, è d’accordo con l’idea di un tunnel tra la M4 e la M3 a Missori?
«Farlo sotterraneo mi pare una strada obbligata. L’importante è capire bene i flussi di viaggiatori che si stima utilizzeranno l’interscambio, se ne vale la pena. Anche perché mezzo chilometro almeno a piedi non è poco. Ma immagino abbiano già valutato che c’è bisogno di farlo».
Perché deve essere per forza un passaggio sotterraneo?
«Un normale camminamento pedonale in superficie, cosiddetto a raso, ha due controindicazioni: il sistema del metrò è chiuso, c’è da fare un corridoio di collegamento tra due stazioni dove dentro passa chi ha pagato, non si può prendere e uscire e quindi il collegamento andrebbe protetto. E poi incrocerebbe le strade, interferendo con il traffico».
Perché scarta una passerella sopraelevata?
«Tecnicamente si può fare tutto ma una passerella aerea oltre che esteticamente discutibile potrebbe creare interferenze con le case. Insomma sarebbe una soluzione più problematica, vista anche la necessità di ascensori per scendere e salire».
Lei era assessore quando si iniziò a progettare la linea, come mai non avete inserito questo interscambio?
«Io ho finito il mio mandato nel 2006, siamo riusciti ad arrivare alla delibera Cipe e a ottenere i finanziamenti. Allora non ci avevamo pensato, era stato escluso. Ora avranno valutato con uno studio che c’è bisogno e una forte richiesta di un tale collegamento».




la Repubblica Milano, 3 luglio 2017

MILANO, IN MISSORI UN TUNNEL PEDONALE
PER UNIRE LA LINEA GIALLA E LA BLU
DELLA METROPOLITANA
di Ilaria Carra
Troppo complicato chiudere corso di Porta Romana per mesi e mesi: è lo scenario che tutti vorrebbero scongiurare. È anche per evitare un cantiere con un impatto ritenuto eccessivo, che il collegamento pedonale tra la futura linea metropolitana Blu e la Gialla già esistente avverrà in piazza Missori e non a Crocetta. Una fermata che sarà anche un po' più lontana dalla stazione della M4 Sforza Policlinico che verrà, ma che comunque rappresenta la strada più semplice per chi deve realizzarla. È una delle decisioni che la giunta Sala sta prendendo. Perché poi serviranno mesi per mettere a punto il progetto. Che è una variante rispetto a quello iniziale e che probabilmente potrebbe aver bisogno di un ulteriore via libera dal Cipe, il Comitato interministeriale per la programmazione economica.
La linea sembra comunque dettata. E sono stati tecnici e costruttori a farlo. La cordata guidata da Impregilo ha consegnato di recente a Palazzo Marino un dossier aggiornato sui lavori per la quarta linea della città, che entro il 2022 aggancerà San Cristoforo a Linate. Una tabella di marcia in cui sono inseriti anche gli scenari possibili per l'interscambio tra la 4 e la 3. E legare la stazione di Sforza Policlinico a Missori è proprio la strada suggerita: per i costruttori è questa la via meno problematica rispetto all'altra ipotesi, quella di collegare la M4 con Crocetta. Un conto è chiudere un pezzo di via Pantano e un altro è bloccare tutto corso di Porta Romana, è il ragionamento che si sta facendo in Comune in questi giorni e che fa propendere verso l'opzione B, quella di Missori.
Che le due linee metropolitane sarebbero state collegate era assicurato, soprattutto per evitare di far pagare un biglietto doppio. Nei mesi scorsi il Municipio 1 aveva insistito molto sulla necessità di avere questo tunnel pedonale sotterraneo, che potrebbe essere lungo dai 200 ai (più probabili) 500 metri a seconda del tracciato. Nelle valutazioni in corso c'è da tenere presente tutto: la fermata della Gialla più vicina a quella di Sforza Policlinico della linea blu è Crocetta, ma è anche quella dal potenziale archeologico sotterraneo più elevato. Per questo nei mesi scorsi si è studiata anche l'ipotesi di aggiungere decine di metri al tunnel fino a Missori, passando sotto via Pantano e scavando poi anche sotto al Policlinico, già coinvolto dai lavori per costruire l'omonima stazione. Si vedrà poi se utilizzare una talpa meccanica o il metodo di scavo tradizionale.
Il collegamento dovrebbe costare intorno ai 35 milioni: si pescherà dai 70 milioni già messi in conto nel Patto per Milano firmato col governo: fondi in parte in arrivo da Roma che serviranno anche a garantire l'anticipo delle cosiddette "tratte funzionali" e a recuperare i ritardi accumulati su tutte le altre. Perché nel dossier e ci sono soprattutto le scadenze aggiornate sulla consegna dei lavori, assieme a quelle dei costi. L'assessore alla Mobilità Marco Granelli e il sindaco Sala l'hanno studiato e hanno chiesto ai costruttori alcuni approfondimenti sui tempi e garanzie di apertura. Come, tassativa, è la richiesta di far viaggiare i treni lungo la linea da Linate e Forlanini, pronta praticamente dai tempi di Expo, entro giugno 2021.

Analisi del malessere crescente che porta in piazza migliaia di persone di provenienza diversa. Articoli di Claudia Fornasier e Alon Altaras. Corriere del Veneto online e il Fatto Quotidiano, 3-4 luglio 2017 (m.p.r.)


la Nuova Venezia, 4 luglio 2017
GLI SQUILLI DELL'ALTRA VENEZIA
di Claudia Fornasier

La prima volta è stato il funerale di Venezia, nel 2009, un po’ protesta, un po’ goliardia, con qualche decina di persone. Sette anni dopo, alla protesta dei carrelli della spesa (organizzata dai giovani di Generazione 90), i veneziani in manifestazione erano 500 e altri 500 al corteo dei trolley e a quello delle lenzuola appese alle finestre dei palazzi, con lo slogan «Venezia è il mio futuro». Domenica i cittadini che sono sfilati tra le calli al grido di «mi no vado via» erano quadruplicati. In mezzo c’è stato il contestato referendum sulle navi fuori dalla laguna, organizzato dai No Nav, con i suoi 18 mila partecipanti. Per qualcuno sono i «nemici» della giunta Brugnaro, per altri la sinistra nostalgica, i reduci del movimento ambientalista. Loro si definiscono la città che resiste. Può darsi non siano rappresentativi di tutti i veneziani, ma sono il segnale di un malumore crescente e insieme di una spinta civica che non può essere liquidata con il timbro di «opposizione».

Domenica in corteo c’era la sinistra ma anche la destra, proprietari di immobili, architetti, professionisti, dipendenti pubblici e gente che lavora nel turismo, pensionati, separatisti, anti separatisti, partigiani, artigiani, accomunati dal sentirsi ogni giorno più orfani di un tessuto sociale ed economico che possa definirsi «cittadino». Venezia non è l’unica città a soffrirne. Tutte le capitali dell’arte, soprattutto con centri storici piccoli, devono affrontare il paradosso di vivere e di «morire» di turismo. La città d’acqua ne è l’avanguardia, per i suoi numeri micro (l’estensione) e macro (29 milioni di turisti l’anno), per la rapidità con cui il fenomeno si espande alle isole e a Mestre, dove già scarseggiano le case in affitto a favore di Airbnb. E i proprietari non sono certo stranieri. Mille a protestare, gli altri 49 mila a fare il check-in del b&b ha titolato Lo Schitto, giornale satirico popolare nei social network. Alla velocità di espansione del turismo non corrisponde la velocità delle idee e degli atti amministrativi adatti a gestire i nuovi fenomeni, per trovare un equilibrio tra l’immensa ricchezza che porta a tutta la Città metropolitana e gli effetti da tornado su attività storiche, affitti, prezzi, artigianato.

Il governo non ha ancora indicato una strategia complessiva per le città d’arte e le loro specificità. La Regione ha votato una legge sul turismo adatta al Veneto ma non a Venezia. Il Comune ha mosso i primi passi con la delibera sul blocco dei cambi d’uso, ma con una lista di eccezioni così ampia da renderla meno coraggiosa di quanto poteva essere. Perfino l’Unesco di fronte alla complessità del problema e alla realizzabilità delle ipotesi in campo ha preso tempo... due anni. Ma tempo rischia di essercene poco. Perché rispetto ai grandi dibattiti del passato, oggi non c’è un progetto di Città metropolitana e c’è il quinto referendum per la separazione di Venezia e Mestre alle porte, a cui sempre più cittadini guardano come tentativo in extremis (qualcuno sì di interrompere l’esperienza Brugnaro) di risolvere il problema del turismo, con una sorta di autogestione.

Sottovalutare o ridurre a «dissidio politico» i segnali di malessere crescente che arrivano da una parte di cittadinanza, è rischiare che la città dei «ponti», la più pluralista del Veneto, il capoluogo con ambizioni di metropoli del Nordest si ritrovi divisa in due, ridotta nel peso politico e delle possibilità, a causa dell’esasperazione. Urge fare sintesi politicoamministrativa. La aspettiamo da tempo. Ma il tempo sta per scadere.


il Fatto Quotidiano, 3 luglio 2017
VENEZIA,
ANNI FA HO LASCIATO TEL AVIV
PER VIVERE IN UNA CITTÀ D'ARTE
E ORA DOV'È FINITA?
di Alon Altaras
In questo inizio d’estate una cosa è certa: le città d’arte italiane, e anche europee, soffrono. Le foto dei turisti che si bagnano nelle fontane romane hanno fatto il giro del mondo: i “nuovi barbari”, intitolava il quotidiano israeliano Haaretz. E anche Venezia, la città probabilmente più unica e fragile dell’Occidente, viene assediata da un turismo di massa che porta soprattutto degrado – e non tanti soldi come qualcuno vorrebbe far credere. I politici, in questo caso Virginia Raggi e Luigi Brugnaro, sono due esempi della mancata preparazione ad amministrare città d’arte da parte di chi decide di intraprendere una carriera politica.

Venezia, Pisa, Napoli, Palermo sono, nella maggior parte dei casi, patrimonio dell’Umanità e non mi riferisco tanto a un’etichetta formale, a uno statuto dato da un’organizzazione mondiale, ma a una realtà tangibile e visibile che tutti i visitatori, istruiti o meno, sentono.

Venezia non è di Brugnaro. Una vittoria politica è un fenomeno passeggero, di breve durata, mentre il danno che fa l’entrata in laguna delle grandi navi (una visione inquietante, poiché sono alte quasi quanto il campanile di San Marco) è permanente, colpisce le rive, erode le fondamenta dei palazzi, dei monumenti che sono la ragione per cui il mondo viene a vedere Venezia.

Negli ultimi due anni, da quando si è insediato il sindaco attuale, 1.600 persone hanno lasciato la città, proprio quel Brugnaro che aveva promesso di riportarne 30mila: una fake promessa, la chiamerebbe Donald Trump nei suoi tweet notturni.

Sei anni fa ho lasciato Tel Aviv per vivere a Venezia. Già dai primi giorni mi aveva colpito vedere, nella vetrina di una farmacia a pochi metri dal monumento di Goldoni in campo San Bartolomeo, le cifre che indicavano il numero degli abitanti di Venezia. Mi pare fossero 60mila. Oggi quella vetrina segnala che ce ne sono meno di 55mila. Ma duemila dei suoi cittadini, domenica 2 luglio hanno deciso di ribellarsi ad una visione della città che di fatto li vuole allontanare.

Una cinquantina di associazioni: Fai, Italia Nostra e Confartigianato, coordinate da Venezia mio futuro, è partita dall’Arsenale (sì, quell’Arsenale da cui uscivano le galee e galeazze della Serenissima) per arrivare non lontano dal Palazzo Ducale. Duemila cittadini che hanno gridato “non vogliamo andare via”, “basta alberghi a Venezia”, “più residenti meno turisti”. Si è trattato di una manifestazione pacifica con un chiaro messaggio all’autorità politica: fermatevi! guardate bene ciò che amministrate: non è un casinò, né un cantiere edile o una squadra di pallacanestro!

Espropriazione dei beni comuni in Polonia, la destra populista autorizza il disboscamento dell’ultima foresta vergine Europea, il Manifesto, 4 Luglio, (i.b.)

Una parte della Polonia piange i suoi alberi e lancia un appello alla comunità internazionale. La speranza è quella che la Conferenza del Patrimonio mondiale, in programma a Cracovia fino al prossimo 12 luglio, possa sensibilizzare l’Unesco sul disboscamento di Bialowieza, l’unica foresta vergine rimasta sul continente europeo, vittima di un piccolo coleottero, il bostrico e del governo.

Negli ultimi mesi la mobilitazione ha portato diversi attivisti, alcuni dei quali giunti da Romania e Repubblica Ceca, a incatenarsi agli alberi, mentre altri hanno provato a ostacolare le cesoie forestali al lavoro. Adesso sono arrivati anche i primi fermi e multe. C’è ancora una parte del paese capace di indignarsi e che spera in un «Rospuda-bis», quando nel 2009 dopo otto anni di battaglie, il governo fu costretto a deviare il percorso di un’autostrada che sarebbe dovuta passare attraverso l’omonima valle. Le proteste cracoviane culmineranno in un happening previsto nella giornata di oggi. Una mobilitazione che porterà in strada numerose sigle e Ong: Greenpeace, Wwf, ma anche Fundacja Dzika Polska, Greenmind e Pracownia na rzecz Wszystkich Istot.

Il ministro dell’ambiente polacco Jan Szyszko ha dichiarato che l’argomento non è finito in agenda a Cracovia. Ma l’Unesco starebbe valutando proprio in questi giorni l’invio di un’altra missione di monitoraggio a Varsavia.

Quasi la metà della foresta, che si estende per oltre 3.000 km² tra Polonia e Bielorussia, è protetta come parco nazionale. La presenza di zone cuscinetto e di oasi protette all’interno di Bialowieza, contribuisce a disegnare una mappa amministrativa complessa del parco, dove lo sfruttamento per uso commerciale dei boschi, ai margini dell’aree strettamente protette, è comunque consentito. E lì che il governo della destra populista Diritto e giustizia (PiS) ha deciso l’anno scorso di triplicare il limite al volume di legno recuperabile da Bialowieza. Un’iniziativa, che con buona pace anche degli entomologi, mette a repentaglio tutta la biosfera della foresta. La decisione è stata giustificata dalla diffusione incontrollata del bostrico o tipografo dell’abete rosso, che continua a lasciare il segno in tutti i boschi europei. Abbattere gli alberi di Bialowieza «è il male minore», secondo il ministro Szyszko.

A fare il gioco del partito fondato dai fratelli Kaczynski, c’è anche l’allarmismo di una certa stampa locale che tende a presentare la diffusione del bostrico alla stregua di un’epidemia incontrollabile. Eppure, uno studio del 2008 sull’impatto del bostrico nel parco nazionale di Sumava in Repubblica ceca, ha mostrato un maggior impoverimento del sottobosco nelle aree sottoposte a un abbattimento preventivo. Più in generale, buona parte della comunità scientifica concorda sul fatto che gli alberi vittime del bostrico e il legno morto dovrebbero restare al proprio posto: i tronchi vecchi o caduti attaccati dal tipografo infatti trasformano il legno in humus. Ed è proprio questo a preoccupare maggiormente il governo che non intende rinunciare allo sfruttamento della legna. Che finisca nei camini o venga venduta ai mobilifici poco importa.

La strategia perseguita dal PiS a Bialowieza è solo uno dei tasselli nella disastrosa politica ambientale del governo. Un esempio, la cosiddetta lex Szyszko approvata in sordina dalla maggioranza a dicembre scorso. Il provvedimento in vigore nel 2017 ha autorizzato l’abbattimento degli alberi su un suolo privato senza il via libera della autorità locali. Mettendo insieme i dati raccolti sul territorio polacco si stima che le motoseghe abbiamo fatto fuori almeno 300.000 alberi dall’inizio di quest’anno. Una sorta di condono ecologico «a tempo» durato cinque mesi prima che il governo ponesse nuovamente alcune restrizioni in materia. Il maggior beneficiario delle politiche di Szysko è l’Azienda delle foreste statali polacche, Lasy Panstwowe, che gestisce per conto del governo una superficie pari quasi al 30% del paese. L’amministrazione forestale da lavoro a oltre 26.000 persone e garantisce salari di oltre 6.000 zlotych al mese (circa 1.500 euro) ai suoi dipendenti, oltre il doppio dello stipendio medio in Polonia. Compensi lauti paragonabili soltanto a quelli del settore minerario: legno e carbone, appunto. Da un punto di vista giuridico si tratta di un’azienda statale ibrida che autofinanzia le proprie attività, versa alcune tasse agli enti locali ma senza beneficiare del gettito fiscale dei contribuenti. Un giocattolo difficile da smontare, insomma, anche a medio termine. Il direttore dell’azienda, Konrad Tomaszewski, cugino del numero uno del PiS Lech Kaczynski, continua a paragonare in pubblico l’ecologia a una forma di «nazismo verde». Trasportare, piantare nuovi alberi e tagliare tronchi per conto degli enti locali: un circolo vizioso che permette all’autorità forestale di fare e disfare la tela a piacimento per generare profitti.

«Bialowieza è prima di tutto il risultato dell’intervento dell’uomo nel corso della storia», ha ripetuto come un mantra negli ultimi mesi Szyszko. La natura ridotta a merce è fatta per l’uomo e non il contrario: è questo il messaggio che vuole lanciare la Polonia «orbanizzata» ai tempi del PiS. Ma la foresta primaria di Bialowieza non è un hortus conclusus da potare con le cesoie. E con questi argomenti Szyszko non è riuscito a scongiurare l’intervento di Bruxelles visto che la foresta fa parte anche del programma Ue Rete Natura 2000. Intanto la battaglia per un’altra Rospuda è appena cominciata.

Per alleviare la pressione demografica di Pechino si progetta una nuova citta', si prospettano speculazioni immobiliari, sfratti e dismissione delle attività' agricole, Internazionale, 30 Giugno 2017, (i.b.)

Il vecchio Yuantou non aveva mai visto tanti forestieri a Dawang, la cittadina della contea di Anxin, nello Hebei, dove vive. Era il 4 aprile: in città è arrivata una ila di automobili targate “Pechino, Tianjin, Shandong, Gansu... era la prima volta che ne vedevo tante”. Passando, hanno messo in agitazione il migliaio di anatre che Yuantou alleva nel cortile.

La costruzione del nuovo distretto di Xiongan, nello Hebei, che unisce le contee di Xiaxiong, Rong cheng e Anxin: “Insieme alla zona economica speciale di Shenzhen e al distretto di Pudong a Shanghai, Xiongan rappresenta un importante passo in avanti per tutto il paese”. Nei tre giorni successivi all’annuncio, la contea di Anxin è stata invasa da decine di migliaia di persone in cerca di nuove possibilità di investimento nella zona. Da un lato Yuantou è contento perché se da giovane, quand’era lontano da casa, per spiegare da dove veniva doveva dire “vicino al lago Baiyang”, ora basta che risponda “il nuovo distretto di Xiongan”. Dall’altro, però, Yuantou è preoccupato per le sue anatre, che alleva da 33 anni. Tra gli abitanti della cittadina è quello che lo fa da più tempo. Stando alle stime del 2014, il 12 per cento della produzione nazionale di uova d’anatra proviene dallo Hebei, e più del 60 per cento di quelle salate che si mangiano a Pechino è prodotto nella contea di Anxin. Ogni anno le anatre di Yuantou producono decine di migliaia di uova, che da Anxin si vendono in tutta la Cina.

Lavoro concreto
Yuantou vive in una casupola di fango e mattoni di neanche trenta metri quadrati, che ha costruito con le sue mani. L’ingresso dà sul recinto delle anatre, costruito con i mattoni e grande un centinaio di metri quadrati. Il terreno è di proprietà dell’ufficio per la gestione delle risorse idriche, ma ormai sono molti anni che Yuantou vive lì in affitto.
Ogni giorno l’uomo si carica sulle spalle quaranta chili di mangime da distribuire “con calma” ai volatili, mentre di notte si alza alle due per raccogliere le uova appena deposte: alleva più di un migliaio di anatre e raccoglie le uova a mano, una per una, prima dell’alba, per poi tornare a letto. Quelle che alleva Yuantou sono anatre da riproduzione, le loro uova non sono destinate al settore alimentare. Agli occhi dei più, Yuantou fa un lavoro logorante, e molto spesso i nipoti si lamentano dell’“odore di anatra” che lui ha addosso. A Yuantou però piace fare il contadino: “È un lavoro molto concreto, ti dà soddisfazioni ogni giorno ripagandoti di tutta la fatica che fai”. Poco prima dell’annuncio della costruzione del nuovo distretto, l’uomo ha ricevuto la visita dei delegati del comune: “A breve cominceranno i lavori, tutte le costruzioni della zona saranno demolite. Devi trovare una soluzione per queste anatre al più presto”. Yuantou è stato preso alla sprovvista: “Se rinunciassi alla mia parte di risarcimento, potrei ricevere in cambio un pezzo di terra dove continuare ad allevarle?”. I delegati lo hanno guardato stupiti: “Tutto questo diventerà parte della nuova zona economica speciale, e tu vorresti continuare ad allevare anatre?”
Una carpa al giorno
Le associazioni di lavoratori della zona si sono riunite nella contea di Rongcheng in un’assemblea informale per discutere la questione delle demolizioni e dell’assegnazione di nuovi alloggi. Anche se non era stato ancora difuso alcun piano uiciale, a Daiwang le voci di trasferimenti imminenti erano sulla bocca di tutti. Da dove venissero queste voci non era chiaro, eppure sembrava che tutti sapessero di cosa stavano parlando. Alcuni dicevano che gli abitanti della zona sarebbero stati trasferiti in questo o quell’altro villaggio; altri che tutte le abitazioni sarebbero state lottizzate; altri ancora che avrebbero costruito delle palazzine dove trasferire gli abitanti dei vari paesi e città.
Il vecchio Yuantou, e come lui anche gli altri allevatori di anatre della zona, era preoccupato: “E una volta trasferiti nelle palazzine, come faremo con le nostre anatre?”. Anche se la prospettiva di trasferirsi in case moderne, “con l’acqua corrente, l’elettricità e il riscaldamento” era allettante, l’idea di non poter continuare ad allevare le anatre per il resto della vita li affliggeva. “E cosa faremo ogni giorno? Finirà che moriremo di noia”. In mezzo al cortile delle anatre, Yuantou ha messo una grande giara di ceramica alta più di un metro, l’ha riempita con l’acqua del pozzo e ci ha messo delle carpe. Ogni tanto, quando è dell’umore giusto, ne pesca una col retino, l’arrostisce sul fuoco e la mangia. Quando si mette a cucinare il pesce, il suo coinquilino, un gatto di quindici anni, si unisce a lui. Yuantou mangia pesce sempre più spesso, quasi ogni giorno: “Dato che non so ancora per quanto tempo mi lasceranno vivere qui, ho paura che non mi rimarranno ancora molte occasioni per farlo”.
In realtà prima ancora che gli impiegati dell’ufficio per la gestione delle risorse idriche venissero a reclamare il terreno, lui aveva già notato dei cambiamenti. A febbraio era arrivato l’ordine di fermare ogni nuova costruzione nel villaggio. Poco dopo, nel capoluogo della contea di Anxin, diversi edifici avevano cambiato proprietà, e a un certo punto il catasto era stato congelato. A Daiwang gli ingressi agli appartamenti di una nuova palazzina di tre piani che si affacciava sulla strada principale del centro da un giorno all’altro erano stati murati. Il proprietario dell’edificio, tale signor Zhang, si era trovato di punto in bianco senza un posto dove stare ed era stato costretto a chiedere ospitalità al fratello. Le strade di Daiwang erano state ripavimentate l’anno prima sulla base di un piano di rinnovamento della città e molti ne avevano approffittato per riammodernare le abitazioni. Tra questi, anche il fratello di Zhang, che “ha sborsato 800mila yuan per tirar su una casa nuova”. Oggi tutte le località di cui è stata programmata la demolizione sono sorvegliate da sentinelle che devono impedire agli abitanti di costruire nuove case bloccando l’ingresso in città di nuovi materiali da costruzione. Non si possono nemmeno più piantare alberi.
Dall’alto in basso

Quando ha cominciato a circolare la voce sulle demolizioni e i trasferimenti, Li Fei, un compaesano di Yuantou, ha pensato di piantare alberi da frutto sul suo terreno così da far aumentare il suo valore. Ma i coltivatori della zona gli hanno consigliato di lasciar perdere: “Non pensarci nemmeno, tempo fa abbiamo aiutato una famiglia a fare lo stesso e il giorno dopo, le piante sono state sradicate”. Gli abitanti preoccupati devono trovare altri modi per cavarsela. Quando hanno sentito che gli indennizzi sarebbero stati assegnati su base individuale, due abitanti di Santai, un villaggio vicino a Daiwang, hanno chiamato i figli: “Sbrigatevi a fare un bambino, non si sa quanto tempo rimane ancora!”. Altrove si è sparsa la notizia che anche i condizionatori e gli scaldabagno alimentati a energia solare sarebbero stati rimborsati, e una famiglia, che aveva già installato un impianto, è corsa a comprarne un altro. Da un po’ Yuantou trascorre più tempo nel cortile o seduto alla finestra a guardare le anatre razzolare. I tanti anni passati all’aperto s’intuiscono dalla sua pelle color rame, come quella dei pescatori. Ormai è anziano, e sapeva che prima o poi sarebbe arrivato il momento di lasciare la sua casa, ma non pensava che sarebbe successo così all’improvviso.

Gli abitanti del villaggio più giovani, invece, sembrano aver accolto il cambiamento improvviso con un atteggiamento molto diverso. Quando nelle contee di Xiaxiong, Rongcheng e Anxin ne discutono, si sentono già dei “cittadini di Xiongan”. Si tratta per lo più di persone che si sono trasferite ad Anxin e nelle zone limitrofe dopo gli anni novanta. Quando è stata annunciata la costruzione del nuovo distretto, hanno creato chat di gruppo per discuterne.
La frase più ricorrente è “ora i pechinesi non si permetteranno più di guardarci dall’alto in basso”. Passano il tempo a scambiarsi messaggi sui rimborsi, i trasferimenti, le esperienze passate e le incertezze per il futuro. Uno del gruppo condivide una foto del suo appartamento, 136 metri quadrati nella piccola area residenziale di Mingzhu, nella contea di Anxin, provocando l’invidia degli altri: “Quel posto varrà più di tre milioni di yuan!”, scrive qualcuno. Un altro risponde postando un video in cui Wang Jianlin, il fondatore del Dalian Wanda Group e re dell’edilizia cinese, annuncia che, dopo aver ispezionato il nuovo distretto, ha deciso di costruirci un Wanda Plaza. A uno sguardo più attento si scopre che il video non parla di Xiongan, bensì di Tianjin, ma questo non sembra scoraggiare i giovani entusiasti: “Che Wang sia davvero venuto da queste parti o meno, poco importa”, dice uno. “È vero”, aggiunge un altro, “di personaggi come lui ce ne sono tanti”.
Un pezzo di cuore
Al vecchio Yuantou queste discussioni non importano molto, dato che il suo argomento di conversazione preferito rimangono le sue anatre. Fino ai primi anni duemila nella contea di Anxin c’erano molti piccoli criminali che andavano di casa in casa a chiedere soldi in cambio di “protezione”. Se uno si riiutava di pagare, veniva picchiato. Un giorno bussarono a casa di Yuantou, chiedendo denaro. Yuantou rispose, con voce dimessa, che non ne aveva. “Se non paghi”, si fece avanti uno con tono minaccioso, “entro e ti prendo le anatre”. E poi scavalcò il recinto. Yuantou andò su tutte le furie, afferrò una vanga e lo rincorse cacciandolo. Anni fa il suo allevamento fu colpito da una malattia, al punto che quasi ottocento anatre si ammalarono e smisero di mangiare. Yuantou si mise a nutrirle una a una con una siringa, salvandone seicento. Caricò le anatre morte sul triciclo a motore per seppellirle lontano dal centro abitato. “Dovetti scavare una buca profonda più di un metro, è stata una delle esperienze più dure della mia vita”. Sa ancora individuare il punto preciso. Dall’interno della sua casetta di mattoni e terra, Yuantou si volta verso la finestrella che dà sul cortile. Fuori, più di mille anatre mangiano, nuotano, riposano e starnazzano. Il chiasso del cortile è un suono rilassante per le sue orecchie. “Quando non lo sentirò più”, dice aspirando una sigaretta, “mi mancherà un pezzo di cuore”.
Da sapere: I limiti della metropoli
A cura della redazione dell’Internazionale
All’inizio di aprile il governo cinese ha annunciato a sorpresa il piano per la creazione di Xiongan, un’enorme area urbana a circa cento chilometri da Pechino. I dettagli del progetto non sono ancor noti ma si sa che coprirà una superficie tre volte più grande di New York e che accoglierà università, sedi istituzionali e una parte della popolazione della capitale. L’area farà parte di Jingjinji, una megaregione urbana da 110 milioni di abitanti dove sono già stati trasferiti molti poli manifatturieri. Jingjinji è un cosiddetto cluster urbano: un’aggregazione, dentro un’area urbana che riunisce città di varie dimensioni, imprese e altri soggetti che fanno parte dello stesso settore produttivo.
Il piano nazionale per l’urbanizzazione 2014-2020 prevede il finanziamento di undici cluster urbani per alleviare la pressione demografica in città come Pechino e Shanghai, in modo da non fargli superare rispettivamente i 23 e i 25 milioni di abitanti. Ma secondo gli esperti, scrive il Guardian, mettendo un limite alla popolazione di Pechino si colpirebbero soprattutto gli immigranti dalle campagne, che sono i più poveri. Più di trecento mercati all’ingrosso della capitale sono già stati spostati nel nuovo distretto per attirare i lavoratori.
Ci sono dubbi anche sull’efficienza e sulle “credenziali verdi” delle nuove politiche di urbanizzazione del governo cinese, soprattutto perché alcune ricerche dimostrano che le città densamente popolate sono le più ecologiche. Il New York Times riporta che subito dopo l’annuncio del piano per Xiongan gli speculatori sono entrati in azione puntando sul mercato immobiliare e facendo rincarare le azioni delle imprese di costruzione. I prezzi sono saliti alle stelle e il caos generato è stato tale che le autorità locali hanno dovuto congelare gli acquisti e chiudere temporaneamente le agenzie immobiliari, assediate dai potenziali investitori.
Ogni pianificazione territoriale, registrazione di residenza, transazione immobiliare e costruzione è stata bloccata e i villaggi sono presidiati da guardiani che non fanno entrare materiali edili. Il 18 aprile la Liangjiang Huanbao, una ONG dello Hebei, ha pubblicato un rapporto secondo cui nella regione ci sarebbero circa venti enormi stagni tossici: un’area totale equivalente a 42 campi da calcio piena di acque di scarico non trattate. Poco dopo, il ministero per la protezione ambientale ha confermato la notizia, dicendo che gli stagni erano stati creati dagli scavi fatti in passato e si erano contaminati nel 2013 dopo lo sversamento illegale di acido solforico. Le autorità locali conoscevano da anni la situazione e diversi funzionari di basso livello sono stati puniti. Ma, dicono gli esperti, bonificare gli stagni costerebbe troppo denaro e troppo tempo. Lo scandalo, continua The Diplomat, è solo un nuovo episodio di un vecchio problema. Lo Hebei soffre da molti anni di inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo. È una delle regioni cinesi dove si respira peggio: secondo il ministero della protezione ambientale, nel primo trimestre del 2017 contava sei delle dieci città con i valori di inquinamento dell’aria più alti del paese. Anche l’inquinamento dell’acqua è un problema di lunga data. Nel 2006 un’inchiesta del settimanale Caixin rivelò che il lago Baiyang, al centro della nuova area urbana, è un lago morto, incapace di autopurificarsi. Nel 2014 un servizio della tv di stato CCTV denunciava che le falde acquifere della zona erano gravemente inquinate e che gli abitanti non avevano acqua potabile a disposizione. Quanto all’inquinamento del suolo, i piani lanciati dalla regione nel 2011 e nel 2017 per far fronte all’inquinamento da metalli pesanti non hanno avuto nessun effetto.
«Secondo gli esperti, siamo sul punto di giungere ad un punto di svolta sociale, con la produzione di energia eolica e solare in grande espansione». RegionieAmbiente, 4 luglio 2017 (c.m.c.)
Alla vigilia del G20 di Amburgo un gruppo di scienziati, imprenditori, dirigenti politici, economisti, analisti e opinionisti scrivono e sottoscrivono un articolo in cui affermano che solo un'azione immediata di riduzione nell'uso dei combustibili fossili potrà evitare le devastanti ondate di calore e l'ingestibile aumento del livello dei mari, proponendo delle misure in 6 tappe fondamentali da implementare entro il 2020.

Il mondo ha bisogno di un'azione climatica estremamente veloce per far scendere la curva delle emissioni globali di gas ad effetto serra, che comporta una drastica riduzione dell'utilizzo di combustibili fossili se si vuole evitare effetti non gestibili come ondate di calore devastanti e l'aumento del livello dei mari.

È quanto scrivono e sottoscrivono 60 scienziati, imprenditori, dirigenti politici, economisti, analisti e opinionisti (tra i più noti: Johan Rockström della Stockhom University; Jochim Schellnhuber e Stefan Rahmstorf del PIK; Anthony Hobley, Direttore esecutivo di Carbon Tracker; Jonathan Bamber, Presidente dell'Unione Europea delle Geoscienze) nell'articolo "Three years to safeguard our climate" pubblicato il 28 giugno 2017 su Nature.

«Noi siamo nella possibilità di piegare verso il basso la curva delle emissioni di gas serra entro il 2020, come richiede la scienza, a protezione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile dell'ONU e, in particolare all'eradicazione della povertà estrema - ha affermatola co-autrice e prima firmataria Christiana Figueres, l'ex Segretaria esecutiva dell'UNFCCC e attuale coordinatrice di Mission 2020, una campagna di ampio respiro che richiede un'azione urgente per assicurare che le emissioni di carbonio inizino una caduta inesorabile entro il 2020 - Questa sfida monumentale coincide con l'apertura senza precedenti di autodisciplina da parte dei Governi subnazionali all'interno degli Stati Uniti, dei Governi a tutti i livelli al di fuori degli Stati Uniti, e del settore privato in generale. L'opportunità che ci viene data nei prossimi tre anni è unica nella storia».

Alla vigilia del G20 di Amburgo (6-7 luglio 2017), gli autori sono sicuri che sia il progresso tecnologico che lo slancio politico hanno raggiunto un punto che permette di avviare la "grande trasformazione della sostenibilità" e che il 2020 è una data fondamentale perché solo in quell'anno gli Stati Uniti potranno legalmente ritirarsi dall'Accordo di Parigi (vedi L'uscita dall'Accordo di Parigi conferma l'isolazionismo degli USA).

Ancora più convincenti sono le considerazioni basate sulla fisica: le recenti ricerche hanno dimostrato che il mantenimento del riscaldamento globale al di sotto dei +2 °C diventa quasi impossibile se si ritarda l'azione climatica oltre il 2020 e il superamento di quel limite sarebbe pericoloso E la violazione della linea a 2 ° C sarebbe pericolosa, poiché il numero dei fenomeni destabilizzanti del sistema Terra, come lo scioglimento delle grandi masse di ghiaccio, potrebbero risultare irreversibili.

«Finora siamo stati beneficati dalla notevole resilienza del Pianeta negli ultimi 100 anni, che ha assorbito la maggior parte dei nostri abusi sul clima - ha dichiarato a sua volta Rockström, riconosciuto a livello internazionale come uno dei massimi esperti sulle questioni legate alla sostenibilità globale per la teoria dei "Planetary boundaries" ovvero dei 9 confini planetari, oltrepassati i quali, gli effetti a cascata che ne derivano possono essere assolutamente fuori delle nostre capacità di controllo e devastanti per l'umanità - Ora abbiamo raggiunto la fine di questa epoca e abbiamo bisogno di piegare immediatamente la curva globale delle emissioni, per evitare risultati ingestibili per il nostro mondo moderno».

Secondo gli esperti, siamo sul punto di giungere ad un punto di svolta sociale, con la produzione di energia eolica e solare in grande espansione. In Europa, ad esempio, più di tre quarti delle nuove capacità energetiche installate si basano su tali fonti rinnovabili. La Cina sta rapidamente istituendo un sistema nazionale di scambio delle emissioni. Gli investitori finanziari negli Stati Uniti sono sempre più preoccupati per i rischi da carbonio.

Sono 6 le tappe che gli autori indicano accelerare la trasformazione in atto entro il 2020.

Energia. Le energie rinnovabili dovranno costituire almeno il 30% dell'approvvigionamento elettrico mondiale, dal 23,7% che era nel 2015. Non dovranno essere più approvate centrali elettriche a carbone dopo il 2020 e quelle in funzione dovranno essere progressivamente chiuse.
Infrastrutture. Le città e gli Stati avvieranno piani di azione per decarbonizzare completamente gli edifici e le infrastrutture entro il 2050, con un finanziamento di 300 miliardi di dollari l'anno, migliorando ogni anno di almeno il 3% il proprio parco immobiliare e infrastrutturale ad emissioni zero o quasi zero.
Trasporti. I veicoli elettrici dovranno rappresentare almeno il 15% delle vendite di auto nuove in tutto il mondo, un aumento significativo rispetto alla quota di mercato attuale di quasi l'1% che i veicoli ibridi a batteria e plug-in. Sono inoltre necessari impegni per un raddoppio l'utilizzo dei trasporti pubblici nelle città, un aumento del 20% , un aumento del 20% ddi efficienza dei carburanti per veicoli pesanti e una riduzione del 20% delle emissioni di gas serra dell'aviazione civile per ogni chilometro percorso.
Suoli. Dovranno essere adottate politiche di utilizzo dei suoli che riducano la distruzione delle foreste e indirizzino gli sforzi per il rimboschimento e l'afforestamento. Le emissioni nette attuali derivanti dalla deforestazione e dalle modifiche all'uso del suolo rappresentano circa il 12% del totale globale. Se fossero ridotti a zero nel prossimo decennio, rimboschimento e afforestamento potrebbero essere utilizzati, invece, per creare un dissipatore di carbonio entro il 2030, contribuendo a spingere le emissioni globali nette totali a zero, a sostenere l'approvvigionamento idrico e a produrre altri vantaggi. Le pratiche agricole sostenibili possono ridurre le emissioni e aumentare il sequestro del CO 2 nei suoli sani e ben gestiti.
Industrie. L'industria pesante adotterà e svilupperà piani per aumentare l'efficienza e ridurre le emissioni, con l'obiettivo di dimezzare le emissioni ben prima del 2050. Le industrie ad alto tenore di carbonio - quali quelle del ferro e dei metalli, del cemento, dei prodotti chimici, del petrolio e gas - attualmente costituiscono il 20% delle emissioni globali di escludendo le loro esigenze di elettricità e calore.
Finanza. Il settore finanziario dovrà ridefinire gli investimenti mobilitando almeno 1.000 miliardi di dollari l'anno per l'azione climatica. La maggior parte dei finanziamenti deriverà dal settore, ma Governi, Banche e Istituti di Credito come la Banca Mondiale dovranno emettere "obbligazioni verdi" per finanziare gli sforzi di mitigazione del clima. Ciò creerebbe un mercato annuale che, entro il 2020, gestirà obbligazioni 10 volte superiori agli 81 miliardi di dollari emesse nel 2016.

«La matematica del clima è brutalmente chiara: mentre il mondo non può essere guarito in pochi anni, può essere tuttavia ferito fa morte se la negligenza continua fino al 2020 - ha concluso Schellnhuber, Climatologo di fama mondiale e conosciuto per i suoi studi sui cosiddetti "tipping points" del sistema Terra ovvero il livello oltre il quale un cambiamento diviene inarrestabile - È necessario agire entro il 2020, ma non è chiaramente sufficiente: occorre impostare il percorso per dimezzare le emissioni di CO2 ad ogni decennio. Analogamente, alla leggendaria 'Legge di Moore' che afferma che i processori per computer raddoppiano di potenza ogni due anni, la 'Legge del Carbonio' può diventare una profezia che si autoadempie, mobilitando le innovazioni e le forze di mercato. Ciò diventerà inarrestabile, ma solo se spingiamo ora il mondo ad agire».

I punti di forza della Venezia del Quattrocento. Traduzione dalla rivista francese Futuribles n° 414, settembre-ottobre 2016 a cura degli autori e di Mario Santi».Ytali, 2 luglio 2017 (c.m.c)

Nei prossimi anni, certi paesi riusciranno a svilupparsi nel lungo termine per il Bene comune, appoggiandosi su valori umanisti. Saranno dei territori creativi che avranno voluto e saputo sfruttare la creatività dei talenti locali e stranieri per produrre nuovi lavori e una migliore qualità di vita; non per un piccolo numero di privilegiati ma per tutti. La Venezia del Quattrocento ci dimostra quali sono le quattro principali condizioni per riuscire questa sfida.

Da un mezzo secolo, la Silicon Valley e la Route 128 sono prese come modelli dei territori creativi: li, le attività economiche e i posti di lavoro sono generati da sinergie tra ricercatori, imprenditori e finanzieri. Molti hanno cercato di copiarli, spesso invano. Per capire come una terra diventa creativa, aldilà delle specificità della mutazione digitale, trasferiamoci al XV esimo secolo. La nascita della stampa e dell’editoria moderne è stata ancora più fondatrice che l’arrivo, sette decenni fa, dell’informatica e delle tecniche digitale: la diffusione dei libri ha modellato le evoluzioni del mondo, al punto che il declino dell’Impero ottomano ha cominciato nello XVIesimo secolo col rifiuto della stampa.

Un’orchestrazione di tecniche antiche

In terra tedesca, Gutenberg ha innovato, come farà più tardi Steve Jobs, adattando armoniosamente tecniche esistenti. Produsse dal 1455 a Magonza 180 copie della Bibbia quarantadue, “quarantadue righe per pagina.” Ma gli mancò l’ambiente necessario per passare dall’invenzione all’innovazione capace di diffonderla. Il creativo fu spogliato, rovinato dal suo socio, il banchiere Johann Fust diventato suo rivale. L’Arcivescovo Adolf von Nassau, che salvò Gutenberg dalla miseria, ha anche, paradossalmente, assicurato la continuità del suo lavoro saccheggiando Magonza nel 1462: i dipendenti di Gutenberg e Fust fuggirono e fondarono stamperie a Bologna, Basilea, Roma … e infine a Venezia verso il 1470. Ma di tutte le città che in questo modo ebbero a disposizione le tecniche della stampa, una sola è stata capace di trarne una delle poche innovazioni rivoluzionarie che, pur basate sulla tecnica, esigono assai più che la sola tecnica. Venezia offriva un contesto in grado di attrarre e valorizzare i talenti necessari, in particolare quello di un orchestratore eccezionale, Aldo Manuzio.

Le condizioni dell’esplosione creativa
Alessandro Marzo Magno (1) descrive i punti di forza di Venezia, capitale di quasi centomila abitanti. Il Veneto era il territorio più urbanizzato e più industrializzato d’Europa, dinanzi alle Fiandre. Aveva, come la Lombardia, in gran parte peraltro conquistata dalla Repubblica di Venezia, l’energia idraulica e l’acqua pulita necessarie per produrre della carta di qualità. (2) Ma secondo Marzo Magno, i quattro atout essenziali erano immateriali. C’era una concentrazione di pensatori umanisti, letterari, filosofi, scienziati, e la vicina Università di Padova giocava un ruolo prefigurando quello di Stanford nella Silicon Valley. Ricchi mercanti volevano diversificare i lori investimenti. Disponevano d’un’alta competenza commerciale e di reti internazionali. L’ultimo atout, l’eccezionale libertà di pensiero, si è rivelato determinante. Religioni e lingue coesistevano nella città più cosmopolita del mondo, accogliente per gli stranieri. Per questo, dopo la caduta di Costantinopoli, gli studiosi bizantini si rifugiarono a Venezia e a Padova, nella Repubblica che allora difendeva ancora, tenacemente, la sua indipendenza, perfino contro il Vaticano, mantenendo una laicità relativa; l’ateismo era tollerato.

Dirigenti più colti e meno corrotti
Altri due punti di forza rinvigorivano i precedenti: il livello culturale dei dirigenti e un eccezionale rigore dello Stato contro la corruzione. Molti patrizi si formavano all’Università di Padova, diventata città veneziana nel 1405. Era un focolaio culturale di filosofia e scienza greca e araba. Contro la scolastica della chiesa, l’aristotelismo padovano difendeva le conoscenze sperimentali, chiavi del progresso scientifico. Inoltre, la Serenissima si dotò di due scuole dedicate alla formazione delle sue élite. Fondata nel 1408 da un “straniero”, un mercante fiorentino, la Scuola di Rialto (3) divenne la prima scuola pubblica e laica della Repubblica. Insegnava la logica, le scienze naturali, e le matematiche contabili. Uno dei suoi professori fu l’umanista Luca Pacioli, fondatore della contabilità moderna. Dal 1443, un’altra scuola pubblica, la Scuola di San Marco, attraeva i figli dei nobili col suo insegnamento umanistico e i suoi insegnanti in maggioranza non veneziani. Per questo, “la classe dirigente veneziana era forse la più coltivata d’Europa” (4). Un’élite, interessata alle arti, alle scienze e alle lettere, che rispettava i creativi e si metteva in valore finanziando i loro lavori. L’altra eccezione veneziana era il rigore contro la corruzione. Funzionari e patrizi erano fortemente incoraggiati a non confondere interessi privati ​​e bene pubblico. Jean-Claude Barreau (5) osserva una qualità unica, allora: l’onestà finanziaria. I funzionari statali non erano corrotti, in un’epoca in cui grandi servitori dello Stato francese, Richelieu e Mazzarino, riempivano i loro forzieri personali attingendo nelle casse riempite dal contribuente.

Realtà osservata o rivelata?
Questo contesto ha attirato Aldo Manuzio. Nulla predestinava quell’insegnante in latino e greco, nato vicino a Roma intorno al 1449, a diventare un imprenditore innovativo, salvo il suo impegno nelle reti umanistiche. Era amico di Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494), l’autore d’un Discorso sulla dignità dell’uomo difendendo il libero arbitrio in quanto “creatore di se stesso.” Questo tema, allora ricorrente della dignità, doveva far fronte a violente resistenze. Pico, morto a 31 anni, probabilmente avvelenato, ha influenzato umanisti e utopici, tra cui Thomas More. Nel 1504, Thomas More tradusse in inglese una biografia di Pico. Il Movimento umanista promuoveva una visione del mondo basata sulla Ragione e, seguendo Aristotele, sull’osservazione individuale della realtà. S’opponeva alla visione dogmatica dominante che imponeva una verità rivelata da Dio e dai suoi rappresentanti, sacerdoti o sovrani. Aldo Manuzio decise di partecipare alla liberazione della Ragione grazie alla diffusione degli scritti di Aristotele e di altri pensatori antichi. Capì che la stampa sarebbe potuta diventare un formidabile promotore d’idee. Il professore si trasformò in imprenditore, tipografo ed editore, non per il denaro, ma per ideale. E divenne il più importante editore della storia e anche un esempio di capitalismo di lungo termine rispettoso dei stakeholder, delle parti interessate. Manuzio si stabilì nel 1489 a Venezia. Questo pensatore idealista si trasformò in un uomo d’azione realista, moltiplicando i contatti con intellettuali umanisti influenti e notabili colti vicini al potere. S’avvalse un tipografo importante, Andrea Torresano, prima di stabilirsi come tipografo-editore e di pubblicare un primo libro, nel novembre 1494. Lo stesso mese in cui il re francese Carlo VIII saccheggiava a Firenze la biblioteca di Lorenzo de’Medici. Una coincidenza che spiega perché Manuzio volle scrivere all’ingresso della sua bottega:Se si maneggiassero di più i libri che le armi, non si vedrebbero tante stragi, tanti misfatti e tante brutture. Per Aldo, la cultura greco-romana era essenziale allorché guerre immani (…) devastano tutta l’Italia e tra breve par che sommoveranno il mondo intero fin dalle fondamenta. Di qui la sua determinazione a rinunciare a “una vita tranquilla” per “dedicare la vita al vantaggio dell’umanità,” spiega Tiziana Plebani: egli credeva che si potesse far argine alle armi con le idee e offrire così agli uomini «la speranza di tempi migliori grazie ai molti buoni libri che usciranno stampati, e dai quali, ci auguriamo sarà spazzata via una buona volta ogni barbarie (Aristotele Opere logiche 1495).

In una prefazione ancora oggi d’attualità, affermava che la conoscenza della letteratura greca era una “necessità” per i giovani e per gli adulti in “tempi tumultuosi e tristi in cui è più comune l’uso delle armi che quello dei libri” (6). Aldo fondò nel 1495 la sua impresa con due azionisti, Andrea Torresano, che contribuì come professionista e finanziatore, e l’imprenditore Pierfrancesco Barbarigo, figlio e nipote di due dogi, che assicurò il sostegno finanziario e politico. Attirò i migliori collaboratori, una dozzina, dagli operai agli eruditi, che preparavano i testi appoggiandosi sui rari manoscritti esistenti. Dava importanza alla qualità della carta, acquistata a Fabriano, e dell’inchiostro fabbricato nel suo laboratorio. Primo tipografo-editore, capace di essere allo stesso tempo erudito, pedagogo, tecnico, uomo di marketing, manager, inventò, passo passo, il mestiere dell’editore moderno. Nel suo laboratorio, luogo di cultura dove si parlava greco, Aldo installò l’Accademia Aldina, che riuniva una trentina di umanisti, senatori veneziani, medici, futuri cardinali, intellettuali europei. Uno degli accademici, Giambattista Cipelli detto Egnazio, aveva scritto nel 1505 che era vitale per Venezia rispettare le acque della sua Laguna, una necessità sbeffeggiata, violata oggi da mezzo secolo.

Un’impresa incentrata sul cliente

Dato che il suo scopo non era di vendere, ma di fare leggere, Manuzio organizzò quello che oggi è chiamata l’impresa incentrata sul cliente e il libro di agevole uso. Curava l’impaginazione, introdusse l’uso dei paragrafi, della numerazione delle pagine, organizzò la punteggiatura, creò il punto e virgola, il carattere corsivo (per questo chiamato in francese italique) per condensare il testo, ridurre i prezzi e rendere i libri più accessibili. Curava la creazione di bei caratteri grechi, romani, ebraici. Il suo incisore Francesco Griffo immaginò per un libro di Pietro Bembo, futuro cardinale e amico di Manuzio, un carattere romano che influenzò Claude Garamond, padre del carattere omonimo, e il tipografo Stanley Morison, che introdusse nel 1932 il Times. Manuzio fu nel 1501, il primo a utilizzare il formato in-ottavo per pubblicare testi letterari. Questo formato, facilmente portabile, era fino allora riservato soprattutto ai libri dei religiosi. I viaggiatori che percorrevano l’Europa potevano finalmente partire con i loro libri. Il passaggio dalla lettura di libri molto pesanti a quella di libri più piccoli e spesso tascabili ripresenta una rottura paragonabile alla rivoluzione del digitale portatile, dai computer agli smartphone. Da allora, personaggi importanti si sarebbero fatti ritrarre tenendo in mano un libro tascabile, come i nostri contemporanei esibiscano il loro smartphone. Aldo dedicava prefazioni per annunciare le prossime edizioni e spiegare il suo progetto editoriale. Fu anche il primo a pubblicare cataloghi. Per differenziare le sue opere dalle imitazioni, in particolare eseguite a Lione, stampò nei suoi libri il suo logo, un’ancora e un delfino.

Una biblioteca senza limiti
Un’altra innovazione aldina fu il frequente inserimento d’immagini nei testi grazie alla nuova tecnica di xilografia sviluppata da Ugo de Carpi. L’Hypnerotomachia Poliphili, I sogni di lotte amorose di Poliphile, pubblicato nel 1499 con 172 xilografie sfruttò largamente questa tecnica. Questa opera erotica, di autore e illustratore sconosciuti, uno dei più bei libri illustrati del Rinascimento, è diventato un bestseller internazionale a partire delle sue riedizione dal 1545. Ha ispirato Rabelais, Gérard de Nerval e Roman Polanski (“Nona porta-2,1999). Le sue illustrazioni sono servite da modelli ai giardini europei nel corso di tre secoli. Aldo Manuzio morì il 6 febbraio 1515, esausto dal lavoro. Aveva pubblicato circa 130 libri in greco, latino, italiano, stampandone anche tremila copie. E’ stato riconosciuto da tutta l’Europa umanista. Erasmo, venuto nel 1507 ad abitare da lui nei nove mesi della ristampa dei suoi Adagia, ne divenne amico. Scrisse che Aldo aveva voluto “costruire una biblioteca senza altri limiti se non quelli del mondo.” Prima di Wikipedia… Nel 1516, Thomas More, amico d’Erasmo, a sua volta rese omaggio all’editore nell’Utopia. Di fatto, Manuzio ha definito norme rigorose che hanno creato le condizioni di una diffusione massiccia dei libri. Ha influenzato le abitudini, la cultura, l’arte. Le sue pubblicazioni hanno contribuito alla moltiplicazione di quadri non più religiosi ma ispirati dalla mitologia. Questo ha indotto un altro sguardo, quasi ecologico, sulla natura; cosi sono apparsi i primi paesaggi nella storia della pittura, come la Tempesta del Giorgione (circa 1503).

Censura e declino industriale
Aldo Manuzio è morto prima di vedere la sconfitta dei suoi valori a Venezia. Uno degli uomini che più hanno nuociuto alla Serenissima, Gian Pietro Carafa, aveva vissuto a Venezia, osservando con disgusto la tolleranza veneziana che consentiva lo sviluppo di movimenti favorevoli alla Riforma. Carafa fu nominato nel 1542 capo della Congregazione del Sant’Uffizio, direzione centralizzata dell’Inquisizione fino ad allora gestita a livello locale. Lanciò un’azione repressiva contro gli eretici e, diventato Paolo IV nel 1555, la perseguì. Aveva impedito, a forza di maldicenze, l’elezione a Papa di Reginald Pole, l’ultimo Arcivescovo cattolico di Canterbury, umanista amico di Bembo. Questo provocò una biforcazione storica e l’avvento della Controriforma. Dal 1548, l’Inquisizione poté imporre a Venezia la distruzione pubblica di decine di migliaia di libri “protestanti” e, nel 1553, in tutta la Repubblica, di centinaia di migliaia di libri ebraici. (7) Venezia fu costretta ad applicare in1558 l’Index vietando seicento autori tra cui Erasmo, Machiavelli e l’Aretino. Ironia crudele della storia, Paolo Manuzio, figlio d’Aldo, fu costretto a pubblicare nel 1564, l’Index Librorum Prohibitorum… L’arrivo della censura del Vaticano segnò l’inizio del declino dell’editoria a Venezia. La proporzione di libri religiosi, meno del quindici per cento delle pubblicazioni veneziane nel 1550, raddoppiò alla fine del secolo. Questo non salvò la supremazia dell’editoria veneziana. Fin dall’inizio del XVII secolo… Venezia e l’Italia cedono il passo ad Anversa, nella parte cattolica dell’Europa. Le Provincie Unite (8) stavano vivendo uno sviluppo particolarmente spettacolare [grazie al fatto che] la giovane Repubblica è un faro di tolleranza … autori e librai di diverse religioni convivono senza scontri. [Le condizioni che avevano fatto il successo di Venezia si trasferirono ad Amsterdam che sviluppò] un’industria del libro di qualità in grande parte per l’esportazione. Il veneziano, fin allora lingua a internazionale, dovette cedere il passo al francese e lo sviluppo della scienza italiana fu spezzato dal processo a Galileo Galilei.

Battaglie di visioni e valori
Se Aldo potesse ritornare, vedrebbe che Venezia non è diventata l’"archetipo" della città aperta all’utopia sperata da Italo Calvino, ma quello di un’Europa agonizzante nonostante gli eccezionali punti di forza che non osa sfruttare per ridiventare una terra creativa. Il futuro rimane aperto. Dipende dai conflitti tra visioni, valori degli attori e dalla loro volontà. Le terre creative saranno quelle dove prevarrà una visione umanistica di un mondo che si può esplorare e dove si può agire liberando la Ragione di ciascuno. Questa visione razionale e libera è attaccata, oggi come ieri, da sostenitori di una realtà rivelata e indiscutibile. Tra questi integralisti, gli islamisti operano nella scia dell’Inquisizione e dell’integrismo cristiano di Savonarola, anch’esso nutrito dall’indignazione di fronte alle disuguaglianze. I creazionisti americani, accaniti contro Darwin, distruggerebbero lo sviluppo scientifico, tecnico e, finalmente, umano delle aree là semmai si potessero impadronire delle scuole. Tutti i razionalisti che portano all’estremo l’importanza dei principi, delle osservazioni, perdendo di vista il Senso, l’Umano, aggrediscono anche la Ragione e ci conducono alla burocrazia, ai totalitarismi e alle derive transumaniste sostenute da miliardari dell’industria digitale americana. Attualmente le visioni dell’Altro come nemico progrediscono con la xenofobia e i neo-fascismi, chiudendo le menti e i territori. Questa tendenza va contro la creatività dei territori che dipende dall’attrattiva per tutti i talenti e dall’accoglienza di personalità forti, spesso disturbanti, capaci di diventare catalizzatori, come Manuzio.

Al funerale di Aldo Manuzio, la sua bara era circondata da tutti suoi libri. Lui avrebbe trovato simbolico che il suo laboratorio e la chiesa del IX secolo dove fu sepolto fossero rasati al suolo, per costruire il mediocre edificio di una banca. Saccheggio autorizzato per compiacenza. Simbolo del (temporaneo?) trionfo della rapacità (9), di fronte al capitalismo sostenibile, incarnato da Manuzio. Egli osserverebbe che Venezia sta spopolandosi, saccheggiata da molti dei suoi notabili che dimostrano come sia possibile sterilizzare e distruggere un territorio. Già nel 1887, il senatore Pompeo Molmenti denunciava la politica del delendae Venetiae. Oggi, è necessario un libro per ricordare che, ancora, “Venezia è una città”, malgrado gli sforzi dei numerosi corrotti e corruttori che vogliano trasformarla in Disneyland senza abitanti. Dalle grandi navi, che distruggono la Laguna al Fontego dei Tedeschi (10) degradato in negozi di lusso, al Mose che ha permesso di rubare un miliardo e mezzo, ci sono tanti scandali cui l’editrice Marina Zanazzo ha potuto, con grande coraggio, dedicare più di quaranta piccoli ma fondamentali libri nella collana Corte del Fontego. Purtroppo, in questo, Venezia è simbolica del nostro mondo. La tendenza lunga mondiale delle compromissioni tra politici e imprenditori ha provocato un hold-up dei finanziari di breve-termine sull’economia reale e la costruzione di plutocrazie totalitarie. Certo, gli Stati Uniti rimangono molto creativi. Ma va notato che ciò avviene perché le major del digitale mantengono ambizioni a lungo termine e riescono a sedurre i finanziatori malgrado introiti per molti anni mediocri o nulli, come quelli di Amazon e Tesla. E questi territori sono (ancora) creativi, ma negli interessi di chi? E sostenibile uno sviluppo economico basato sull’impoverimento della maggioranza? No, risponde anche il Financial Times.

I partigiani dei valori umanistici non sono condannati. Possono costruire territori creativi nel lungo termine sfruttando, anche loro, le proprietà delle reti digitali: potrebbero allora ricreare condizioni globali capaci di generare innovazione sull’esempio di quelle che consentirono il passaggio dall’umanesimo al Rinascimento: bisognerebbe creare una nuova Accademia Aldina! Ma le reti possono anche essere mafiose e gli effetti rete sono anche utilizzati oggi per dominare, spiare, imbrogliare. Esattamente come i modelli rinascimentali della Città ideale sono stati fuorviati dal Panopticon per costruire penitenziari, imprese e uffici tayloriani o manicomi come a Vienna… Oggi la nostra libertà e lo stato di diritto sono minacciati da un Panopticon digitale al servizio di qualche impresa gigantesca. Ancora una volta, tutto dipende dai valori prevalenti e dall’azione dei cittadini desiderosi di difendere la libertà. Manuzio concluderebbe sull’urgenza di fare assimilare ancora molto di più “buoni libri per sbarrare la strada a tutte le barbarie”. La battaglia delle visioni e dei valori inizia a scuola. Subiremo ancora a lungo l’insegnamento di un pensiero cartesiano che fraziona la realtà e impedisce di percepirla? O, finalmente, diffonderemo un pensiero della complessità mettendo in evidenza le interdipendenze, incoraggiando per questo la solidarietà con gli altri e con l’ambiente? La comprensione della complessità fa ammettere l’imperfezione dei nostri atti, umiltà indispensabile per il progresso tecnico. Le nostre scuole, in particolare quelle che formano i nostri dirigenti, continueranno a formare al disprezzo degli altri o stimoleranno alla fine la cooperazione e l’apertura? Persevereremo a selezionare anche i medici, secondo le loro capacita in matematica o secondo la loro empatia, le loro qualità umane? Avremo, come nella Venezia del Quattrocento, dirigenti colti ​​e aperti alla modernità, o subiremo troppi politici altrettanto ignoranti della tecnica moderna che della storia e della cultura classica? Pronti a farsi beffa del nostro patrimonio letterario ed artistico, e a sacrificare la cultura classica? Dipende da noi.

(1) Alessandro Marzo Magno, “L’alba dei Libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo”, Garzanti 2012
(2) Brian Richarson, “Printing, Writers and Readers in Renaissance Italy”, Cambridge University Press, Cambridge, 1999
(3) Premio Luca Pacioli , Senato Accademico del 24 novembre 2010, Università Ca’ Foscari, Venezia
(4) Gino Benzoni, “Il Rinascimento. Politica e cultura. La cultura: le accademie e l’istruzione”, “Storia di Venezia”, Vol. 4, Enciclopedia Treccani,1996.
(5) Jean-Claude Barreau, “Un capitalisme à visage humain, le modèle vénitien”, Fayard, 2011
(6) Gino Benzoni, cit.
(7) Giovanni Di Stefano, “Venezia e il Ghetto”, Il Gazzettino, 2016.
(8) Il regno dei Paesi Bassi
(9) Italo Calvino, “Venezia archetipo e utopia della città acquatica”, (1974), Mondadori, 1995
(10) Joseph Stiglitz, “Le triomphe de la cupidité”, Ed. Les liens qui libèrent, 2010
(11) Paola Somma, “Benettown”, 2011, e Lidia Fersuoch, “Nostro Fontego dei Tedeschi”, 2015. Corte del Fontego

Una grande manifestazione a Venezia per la difesa di una citta' da vivere e non da consumare. la Nuova Venezia, 3 luglio 2017 (m.p.r.)

Più ostinati del sole, più uniti di sempre, persino più numerosi dei turisti, ai quali - per una volta - tolgono i masegni e l'aria, riprendendo possesso di quella riva che fino a qualche anno era la passeggiata dei veneziani, da Piazza San Marco ai Giardini della Biennale e ritorno, con il gelato in mano. Hanno dai 6 ai 76 anni, la maglietta sudata, il cappello calato sulla fronte, chi il megafono, chi uno striscione, chi il gonfalone di San Marco; rappresentano associazioni, gruppi, piccoli comitati, o non appartengono a nessun circolo ma sono lì a titolo personale, famigliare o in rappresentanza del proprio condominio. Soprattutto, sono tantissimi. In oltre duemila, secondo alcuni fino a 2.500, ieri mattina, hanno gonfiato le file della manifestazione - promossa dal Gruppo 25 Aprile - dal titolo che è l'insegna della resilienza veneziana: "Mi no vado via"; cioè io resto, sono qui, nessuno mi farà sloggiare.

Così tanti, che per una volta organizzatori e vigili urbani sembravano essere quasi d'accordo sui numeri. «Un anno fa eravamo in trecento, e avevamo fatto un fash mob; questo significa che la città ha risposto all'appello, anche in una domenica di luglio - dice Marco Gasparinetti del Gruppo 25 Aprile - Se il sindaco è leggermente sordo, noi alzeremo la voce». Avanza, dietro uno striscione con la scritta "Il mio futuro è Venezia" (tradotto anche in inglese), la città di oltre quaranta associazioni - da Italia Nostra a Fortum Futuro Arsenale, dagli scout della Giudecca all'Assemblea per la Casa, dai separatisti al Sindacato Unione Inquilini, da Generazione 90 a Venezia Cambia a No Grandi Navi - ma anche degli artigiani di Confartigianato, dei sindacati, dei separatisti; si mescolano molti voti noti - Roberto Ellero, Tiziana Agostini, Giantonio Bellati, Andreina Zitelli, Piero Bortoluzzi, Nicola Pellicani, Sara Visman, Giovanni Pelizzato; volano bottigliette d'acqua minerale, fazzolettini di carta, barrette energetiche e tocca sempre ai Pitura Freska, sparati a palla, dare il ritmo al corteo.
Da campo dell'Arsenale al monumento a Vittorio Emanuele II, sui quei pochi metri quadrati di Riva degli Schiavoni normalmente occupati da ambulanti e orde di turisti sbarcate dalla motonavi, il sole di luglio rende quasi festosa una manifestazione che, su ogni ponte, Stazione di una moderna via Crucis, svela invece la rovina che sta consumando la città. Senza ombra di paracadute, toccano picchi impensabili lo spopolamento, il fiorire incontrollato di alberghi e bed & breakfast, la cessione di palazzi per interessi turistici come Ca' di Dio destinata a diventare hotel di lusso, i prezzi degli affitti alle stelle che fanno scappare residenti e artigiani; ma soprattutto covano la spoliazione lenta e costante di servizi, uffici, scuole; lo svuotamento di interi complessi, di porzioni di città, iniziato ormai vent'anni e fa e poi accelerato negli ultimi.
La difesa di "diritti" elementari, la conta ossessiva dei sopravvissuti, le gioia nel ritrovare qua e là un esule di rientro, o nel vedere un'altra associazione che alza la testa, rivelano quanto la città stessa si consideri una riserva. «Questo è il grande cuore di Venezia, una Venezia che resiste» si sgola Tommaso Cacciari dal ponte della Pietà «tutti stanno mettendo da parte il proprio io per costruire il grande noi. Giù le mani dalla città, guai a chi vuole trasformarla in una Dubai». Duemila anime unite nel tirare fuori le unghie, come Giampietro Pizzo di Venezia Cambia. «Chiediamo - dice - che il Comune discuta il Piano degli interventi in un Consiglio comunale straordinario; dobbiamo stare attenti che non passi la logica che chi porta i soldi si possa prendere la città». Prossima mossa, la Misericordia: come fa notare Gasparinetti, appartiene alla città e la Sala Leonardo non basta più.

«Un tempo si poteva vivere di pesca, oggi l'habitat è stravolto». la Nuova Venezia, 3 luglio 2017 (m.p.r.)


DA NOVENTA ALLA FOCE/3 fine
Treviso. Chiare, fresche e dolci? Torbide, calde e salate, altrochè. Le acque della Piave che vanno da Ponte di Piave fino a Noventa e Fossalta e giù fino al mare sono tutto fuorché degne dei poeti. Pagano il prezzo dei "furti" e delle "ferite" patiti a monte e precedono di poco un fenomeno, quello del "cuneo di sale", che crea gravi problemi all'habitat vegetale e animale del fiume sacro alla Patria. Ne sa qualcosa l'oasi naturalistica "Codibugnolo", nata per autoalimentarsi con piante e animali, ma già in sofferenza e costretta a rifornirsi di varietà e specie provenienti da altre aree protette. Ci è capitato personalmente di trovare una delle sue "anime", nella selva del Parco dello Storga a caccia di erbe, piccole querce e rari salici bianchi con cui integrare la flora autoctona.

Il fatto è che la Piave è snaturata nelle sue acque, che, prive di vita, continuano a perdere biosalubrità. Lo dice anche il nostro giovane "barcaro", Christian, che ci accompagna verso il mare, nel viaggio finale su questo povero Piave desolato. Lui ti porta, con calma, nei luoghi giusti per farti un'idea su quanto accade. Buche dominate dalle mucillagini, calde come un brodo primordiale e non certo animate da vita ittica e capaci di filtrare l'acqua. La colpa non è nemmeno di quelli "lassù": quelli del Bellunese che piantano centraline elettriche come piovesse; o di quelli del medio corso che cavano a piene ruspe e pescano l'acqua dalle falde impoverendole e distruggendo l'equilibrio idrogeologico.

«Qui dovrebbero essere fatti i laminatoi - dice Marco Zanetti, biologo-imprenditore - Non certo nell'alto corso del Piave. Si fanno dove c'è acqua, non dove non ce n'è. E si prova a far ripartire il circolo virtuoso che purtroppo è già saltato o sta saltando. Non stupiamoci se il mare risale il fiume e rende tutto brullo. Se dal fiume non scende niente, c'è il caso, a seconda delle maree, di vedere la stessa bottiglia di plastica navigare prima verso sud, poi verso nord nell'arco della stessa giornata. e allora non stupiamoci se l'acqua non si depura».

Già, l'acqua: tanta, pulita. Dice ancora il biologo Zanetti: «L'acqua ha bisogno di scorrere in superficie per ripulirsi. I nostri nonni, che avevano quasi sempre ragione, dicono che l'acqua "se neta co la gà passà tre sassi". Il mantenimento della qualità dell'acqua è un punto d'arrivo della battaglia che associazioni e comuni devono fare insieme. Ma una larga fetta della Piave circola in tubature parallele e il sole e i sassi non li vede nemmeno. E allora ecco che senza acqua depurata non ci sono nemmeno biodiversità, che creano un circolo virtuoso la cui presenza, un tempo, rendeva vivo il basso corso del Piave».

L'attacco passa per l'alveo ma anche per le rive. Ci fu un momento in cui fu deciso, nel tratto che scende a San Donà, di fare interamente piazza pulita della vegetazione sulle rive (s'intende per non dare riferimenti a chi volesse capire quanto l'erosione che il fiume patisce sia naturale e quanto.... forzata e voluta). «La popolazione si ribellò e fu fiancheggiata dalle associazioni di tutela ambientale - racconta Maurizio Billotto vicepresidente di Legambiente veneta - e ottenemmo lo stop, quindi uno studio di tutto ciò che viveva lungo le rive e un piano molto dettagliato di ciò che si poteva disboscare». E scendendo il Piave ci viene in mente quella sentita al convegno di qualche giorno fa a Maserada: «Come dice Michele Zanetti, dell'Associazione naturalistica sandonatese,- nel letto del fiume abbandonato all'incuria, ti puoi aspettare da un minuto all'altro di veder spuntare una tigre, ma non certo la flora e la fauna che ci furono quarant'anni fa».

«Non chiedete un commento ai pescatori, che ormai non sanno nemmeno più perchè escono la mattina, di buonora, con canna, reti e nasse in mano», dice Christian, che sul fiume, in barca, dove ci ospita, vive. Ci fu anche un tempo in cui si viveva di pesca fluviale, qui, e lo diceva Felice Gazzelli di Ceggia: «Ho sei generazioni di pescatori alle spalle. Io ho pescato fino a che c'è stato mio padre, scomparso 20 anni fa» racconta, «Allora c'era acqua pulita che scendeva da nord e si poteva vivere di pesca. Non è più così, perché qui arriva dal mare l'acqua salata. I pescatori sono gente che ama il fiume e vanno ascoltati. Non c'è più acqua da pesce, qui». E allora al capezzale richiamiamo il biologo Marco Zanetti, della società di ricerche e analisi ecobiologiche Bioprogramm. «I traumi sono molteplici, come abbiamo visto dalle centrali idroelettriche al deflusso minimo imbroglione, dai cavatori che cambiano le caratteristiche del letto del fiume fino a chi depaupera senza controllo le falde, togliendo lo zoccolo liquido alle acque che dovrebbero scorrere in superficie».

Scrive in una relazione: «Il fiume quando viene colpito da un input, un inquinamento, qualcosa che lo modifica al suo interno, ha il potere di assorbirlo e di tornare nelle sue condizioni di equilibrio iniziale. Con la diminuzione della portata, il Piave, degradato nelle sue componenti strutturali, diminuisce il suo potere omeostatico e non è più capace di sopportare piccoli fenomeni di inquinamento che sarebbe stato in grado di sopportare se fosse nelle sue condizioni naturali. Abbiamo alvei che rimangono asciutti per lunghi periodi dell'anno e quindi si impermeabilizzano al ritorno delle acque. Il contatto con la falda comunque viene a mancare e non si ha il processo di filtrazione naturale. Il risultato dell'impermeabilizzazione è che le acque scorrono solo in superficie e producono danni.

«Aggiungeteci le piene improvvise che provocano il "drift" ossia l'asporto di materiali verso valle ed ecco il quadro. Nei periodi di riduzione della portata si ha invece la messa a secco e la scomparsa delle uova e degli avannotti di pesce e la riduzione delle popolazioni biologiche per cambiamenti strutturali dell'habitat. Come tutto questo non possa non ripercuotersi nella vita del Basso Piave è lampante. Ribadisco che dagli sbarramenti servono rilasci d'acqua modulari delle acque, un rilascio costante o limitato a certi periodi non ha senso. I produttori di energia idroelettrica, ad esempio, devono rilasciare dei picchi di magra e di morbida che siano quelli naturali, che ci sono sempre stati nei nostri fiumi. E gli enti captatori dell'acqua devono essere obbligati a smaltirsi anche i picchi di piena: non è possibile che quando l'acqua non c'è, loro possano prelevarsela tutta, mentre quando c'è l'ondata di piena utilizzino il fiume come canale scolmatore. E' inammissibile dal punto di vista biologico, ma anche dal punto di vista etico, perché a rischiare è la vita umana, che conta un po' più di quella del fiume».

Nel frattempo si registra la notizia della prossima chiusura dell'Ispra, Istituto per la Protezione e Ricerca Ambientale. Come a dire che gli americani con Trump fanno solo le cose più in grande di noi, ma l'andazzo è quello. Chi può pagare, ha sempre ragione e a chi importa il destino del Piave dopo che il Veneto ha già assistito allo scippo di Adige e Brenta? Ma il caso Piave è ancora aperto, anche culturalmente. Non esisterebbe la civiltà del fiume e non esisterebbe, almeno in parte, Venezia così com'è, se il Piave non fosse stato una via d'acqua (allora l'acqua c'era) percorsa dagli zattieri con merci e carbone diretti alla foce e quindi alla Laguna.

A proposito di Laguna: su quella del Mort, vicino a Eraclea, dove un tempo terminava il fiume, incombe una minaccia: quella di un affare da mezzo miliardo di euro, chiamato Valle Ossi, fatto di posti barca e villette su 250 mila ettari. I naturalisti vi si oppongono e credono che l'area dovrebbe diventare un parco. I politici si confessano impotenti di fronte a un affare privato. Già l'area è di proprietà degli speculatori. Ma questa è un'altra storia.

Riferimenti

Su eddyburg le due precedenti puntate del viaggio il Piave: Le centrali-bancomat che si bevono il Piave e Tra cave e prosecco, così il Piave affonda.

«I furbetti del mattoncino. Un caso ogni tre giorni. Gli effetti di 30 anni di condoni: un furto impunito di 21 miliardi. Dobbiamo ancora regolarizzare 5,3 milioni di condoni dal 1985». il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2017 (p.d.)

Una denuncia ogni tre giorni. Una sanzione amministrativa ogni 30 ore. Un intervento della Finanza ogni 600 minuti. È a questo ritmo che viaggia l’abusivismo edilizio in Italia. E il dato riguarda soltanto la costa e il demanio marittimo. La Guardia di Finanza – che ha il compito di sorvolare le aree demaniali e denunciare gli abusi – nei primi cinque mesi dell’anno ha già realizzato 348 interventi, 54 denunce, 122 sanzioni amministrative, sequestrando beni per ben 4,5 milioni. L’anno scorso si viaggiava al ritmo di una denuncia ogni 18 ore: nel bilancio 2016 si contano 491 denunce, 1.068 interventi, sequestri per 6,1 milioni. È un paradosso, ma il 2017 sembra quasi l’anno della redenzione. E chi associa all'abuso edilizio sulla costa la “semplice”costruzione d’una villa con accesso diretto sul mare, dia un'occhiata a questi esempi. Dovrà ricredersi.
Turisti sotto sequestro .Rimessaggi nei fiumi, anfiteatri sul mare
Il 9 giugno a Sperlonga viene sequestrato un intero hotel: il “Grotte di Tiberio”. La Procura dispone che, entro tre giorni, i malcapitati turisti debbano sloggiare. Il proprietario - l’ex presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani - deve invece attivarsi per mettere in sicurezza la struttura. A Salerno, nell'alveo del fiume Tusciano, c’è chi insedia immobili, depositi, uliveti. E l’immancabile discarica abusiva. Sul litorale di Fano la Gdf sequestra un'intera struttura ricettiva: 12 case mobili, 24 bungalow e un anfiteatro. Sulla storica foce del Rubicone – quella che Giulio Cesare varcò, con una legione di 5000 fanti, avviando la guerra civile al grido di alea jacta est – qualcuno ha pensato di attrezzare 15 pontili. Li ha destinati al rimessaggio e all’alaggio dei natanti. Turismo, agricoltura, edilizia popolare: l’abuso edilizio sviluppa una fetta d’economia. Ed è un implacabile specchio del Paese.
Quelle pratiche del 1985. In 5 milioni aspettano una risposta da 32 anni
Torniamo al 1985, l'anno del primo condono edilizio, e poniamoci una domanda: qual è il vantaggio per lo Stato di varare un condono? La risposta è semplice ma nient’affatto scontata: fare cassa. Il 28 febbraio 1985, con Bettino Craxi al governo, furono ammessi alla possibilità di condono tutti gli abusi – non solo quelli sulla costa – realizzati fino all'ottobre 1983. Oltre a far cassa, l’utilità del condono, era quella di tracciare una linea netta con il passato, per impedire nuovi abusi. Che invece procedono – solo sulla costa – al ritmo di una denuncia ogni tre giorni. Non a caso la legge sul condono varata nel 1985 prevede una relazione annuale al Parlamento sul fenomeno dell’abusivismo. Com’è andata a finire? Di condoni ne abbiamo avuti altri due (entrambi targati Berlusconi, nel 1994 e nel 2003). E in Parlamento, di relazioni annuali, in 32 anni, ne sono state pubblicate solo due. Pochine per monitorare l’evoluzione del fenomeno. Nel frattempo, con i tre condoni, negli uffici comunali italiani sono giunte 15.431.707 richieste. Oltre 15 milioni di pratiche da smaltire che, nei fatti, significano soldi da incassare. Se lo Stato non è interessato a studiare il fenomeno, sarà almeno interessato a far cassa? Il Centro studi Sogeea, nell'aprile del 2016, rivela che su 15,4 milioni di pratiche, ben 5,3 milioni risultano inevase. Tra queste, 3,5 milioni risalgono alla sanatoria del 1985: c'è gente che a 32 anni aspetta di sapere se il proprio immobile abusivo può essere sanato. Trentadue anni di stallo. Soldi che lo Stato avrebbe potuto incassare. E che non ha mai visto. Quanti?
L’intero PIL dell'Estonia. Due terzi della legge di Stabilità varata nel 2015
“Si può stimare –si legge nello studio Sogeea –che i mancati introiti per le casse del nostro Paese sono pari a 21,7 miliardi. Il dato si ottiene sommando il denaro non incassato per oneri concessori, oblazioni, diritti di istruttoria e segreteria, sanzioni da danno ambientale. Stiamo parlando di denaro equivalente a 1,4 punti del nostro Prodotto interno lordo pari a due terzi della legge di Stabilità 2015, superiore al Pil di una nazione come l'Estonia”. Soltanto Roma, per intendersi, potrebbe incassare 800 milioni dalle pratiche ancora inevase. E se questo è lo stallo sulle possibili sanatorie, che accade invece quando si deve demolire?
Qui Reggio Calabria. “Siamo soltanto in tre per 33 mila pratiche”
Abbiamo chiesto ad alcuni Comuni di fornirci i dati sull'abusivismo edilizio. “Il Settore Pianificazione – ci risponde il dirigente di Reggio Calabria – è sottodimensionato come tutti gli altri settori”. L’ufficio – ci spiega – è composto da appena “tre unità” oltre il personale amministrativo e la mole di lavoro è immensa: “Le 33.866 pratiche di condono edilizio sono state tutte istruite. Per quelle non completate, sono state richieste integrazioni. Se i proprietari presentassero tutto quello che è stato richiesto, potrebbero essere tutte chiuse, positivamente o negativamente, in un arco di tempo ragionevole, anche con l'esiguità del personale assegnato”. E sul fronte demolizioni che accade? Nei fatti siamo a quota zero. “I procedimenti – continua – non sono in carico al settore, che si limita a emettere le relative ordinanze”. La legge prevede che se il proprietario non demolisce, il Comune interviene anticipando le spese, usufruendo del fondo di rotazione istituito presso la Cassa Depositi e Prestiti, con successivo recupero coatto delle somme. “Le risorse economiche per gli enti sono merce rara – continua il dirigente – E Reggio Calabria, che ha sottoscritto un piano di rientro, non ha l’accesso ai fondi di rotazione”. Sullo Stretto, insomma, sventola bandiera bianca. Eppure, attraverso una norma del 2014, che porta il nome della deputata M5S Claudia Mannino, ai proprietari che non ottemperano alla demolizione è possibile erogare sanzioni dai 2 mila ai 20 mila euro.
Qui Altofonte. “Abbiamo incassato 300 mila euro. In teoria”
Ad Altofonte,in provincia di Palermo, il sindaco Antonino Di Matteo,nel maggio 2016, inizia ad approntare gli atti ingiuntivi per i proprietari che non hanno demolito. È un passo avanti, senza dubbio. Ma fino a un certo punto: “La procedura del recupero coattivo risulta complessa e di non facile gestione”, scrive Di Matteo in una lettera alla Camera. Poi aggiunge un dettaglio. Aveva già provato a farsi pagare dagli abusivi chiedendo un canone per l’occupazione. E con quei soldi intendeva finanziare le demolizioni. Ma pare che non stia andando come sperava. “Le difficoltà riscontrate con le ingiunzioni al pagamento del canone per l’occupazione degli immobili abusivi, per un totale contestato di 302 mila euro, rischiano di procurare nocumento alla finalità ultima della sua proposta: ovvero autofinanziare le demolizioni con i proventi delle sanzioni...”. Una partita persa? Di certo nella gran parte dei casi, la palla finisce alla magistratura. D’altronde, un sindaco che demolisce si gioca una bella fetta di elettorato. E in qualche caso, come Angelo Cambiano a Licata l’anno scorso, finisce persino sotto scorta. Non è un caso che la Corte dei Conti siciliana abbia dichiarato che per le mancate demolizioni siamo dinanzi a un veroe proprio danno erariale. E quindi: quando possiamo far cassa, non incassiamo; quando dobbiamo evitare danni erariali, non li evitiamo.
Un oceano di scartoffie. Una banca dati? Con il prossimo governo, forse
Dinanzi a una tale mole di scartoffie - oltre 5 milioni di pratiche per i soli condoni, senza contare il numero di abusi edilizi che si moltiplicano di ora in ora - dovremmo immaginare un’efficace organizzazione del lavoro. Anche perché siamo dinanzi a miliardi da incassare. E invece Sogeea ha verificato che il 90% degli enti locali si arrabattano con archivi cartacei, solo il 2% ha un archivio digitale, l’8% un archivio misto. Ma andiamo oltre. La Regione Campania, nel 2010, avvia due progetti. Il Conabed (Contrasto abusivismo edilizio) prevede l’immissione in una banca dati pubblica di ogni abuso segnalato dai comuni. Il Mistral prevede invece un monitoraggio da immagini satellitari, entrambi tramontati nel giro di pochi anni. Il Mistral viene soppresso nel 2012 perché con il suo milione di euro l’anno, costa troppo. È preferibile tenersi i danni erariali. E i mancati incassi delle vecchie sanatorie. Senza contare che negli ultimi anni la Campania ha registrato in media 1.500 segnalazioni di abusi edilizi al mese. E che, dal 1991 a oggi, il 91% dei Comuni sciolti per infiltrazioni camorristiche vede nelle motivazioni del decreto che fa decadere l’amministrazione un diffuso abusivismo edilizio. E una banca dati nazionale? L’idea è stata proposta soltanto pochi mesi fa con un emendamento della parlamentare Mannino al progetto di legge Falanga. L’unica nota positiva di una legge accusata dalle associazioni ambientaliste di voler riproporre un condono mascherato. Anzi: di legalizzare l’abusivismo in modo permanente, affogando lo Stato più di quanto abbiamo già visto in un diluvio di ricorsi.
Condono permanente. Ddl Falanga: la classifica delle demolizioni
La legge – approvata in maggio al Senato e rinviata alla Camera – disciplina le demolizioni secondo una classifica di priorità. Non potrà essere demolito l'edificio di chi non ha un’altra casa da abitare. In cima alla classifica delle demolizioni troviamo gli immobili di rilevante impatto ambientale, costruiti su area demaniale soggetta a vincoli. Seguono gli immobili che costituiscono un pericolo per l’incolumità dei cittadini e quelli riconducibili ai mafiosi. Non si tratta dell’unico assist all’abusivismo. In Sicilia, il deputato regionale Mimmo Fazio ha tentato invano, nel 2016, di sanare gli immobili costruiti (prima del 1991) entro la fascia costiera di 150 metri. Il presidente Crocetta invece di urlare allo scandalo, ha commentato: “Alcune strutture vicine al mare, piuttosto che abbatterle, potrebbero essere trasformate in attività ricettive, spingendo i Comuni a predisporre i piani di recupero, abbattendo solo ciò che deturpa l’ambiente. Se dovessimo demolire tutto, saremmo costretti a portare in discarica milioni di metri cubi di cemento”. Stessa posizione per il presidente campano De Luca: “Esistono poveri cristi che si trovano in questo problema per ignoranza. Consentiamo ai Comuni di approvare piani di recupero, facendo pagare a chi ha costruito abusivamente, ma regolarizzando, perché 70 mila alloggi abusivi, che non possono allacciarsi a luce e rete fognaria, portano a disastri ambientali”. A una soluzione simile pensa anche il sindaco di Casal di Principe, Franco Natale, che nel suo territorio conta 1.500 abusi. Per demolirli tutti – secondo uno studio del suo Comune – sarebbe necessario spendere 210 milioni, allestire una tendopoli da 6 mila sfollati, smaltire 300 mila metri cubi di detriti: tre volte il volume del Colosseo. Oltre l’abusivismo dei “poveri cristi”, però, c’è anche quello dei vip. Quali?
Lo racconteremo nella prossima puntata.

Si affilano le armi per determinare le scelte del governo. Brugnaro "annuncia l'annuncio del governo", 34 associazioni sfileranno domani contro la monocultura del turismo. Il Comitato No Grandi Navi, dopo il referendum popolare, rilancia con richieste di trasparenza a ministro, governo e porto. Articoli di Enrico Tantucci, Vera Mantengoli e Manuela Pivato. la Nuova Venezia, 1 luglio 2017 (m.p.r.)


IL GOVERNO HA DECISO

GRANDI NAVI A MARGHERA
di Enrico Tantucci

Il Governo sceglierà Porto Marghera come nuovo terminal di attracco delle grandi navi da crociera, prevedendo già dal 2019 due banchine provvisorie nel canale industriale Nord, nell'area che fa riferimento alla Fincantieri. Ma resta in piedi formalmente - come soluzione primaria - anche lo scavo del Canale Vittorio Emanuele, anche se, visti i problemi ambientali e logistici e di sicurezza che l'intervento comporterebbe, sembra al momento più una «candidatura di bandiera», per non sconfessare anche il sindaco Luigi Brugnaro e lo stesso presidente dell'Autorità Portuale di Venezia Pino Musolino - dopo Paolo Costa - che l'hanno inizialmente sostenuta, più che un decisivo via libera, data anche la probabile necessità di sottoporre il progetto alla Valutazione d'impatto ambientale del Ministero dell'Ambiente.
La novità è arrivata ieri per bocca del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro intervenuto al convegno «Invest in Venice» organizzato nella sede della Camera di Commercio da Regione Veneto, Veneto Promozione e Confindustria di Venezia e dedicato agli investimenti su Venezia.Se il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio negli ultimi giorni ha dichiarato più volte come prossima la decisione del Governo sul problema grandi navi, senza però entrare volutamente nel merito, è stato Brugnaro ieri a rompere gli indugi, svelando le intenzioni del ministro, evidentemente concordate anche con lui.
«Due accosti a Marghera per le grandi navi dal 2019».
«Posso annunciare che prima dell'estate il Governo annuncerà la soluzione per il problema delle Grandi Navi e penso e auspico che il progetto alternativo scelto sarà quello dello scavo del canale Vittorio Emanuele, aumentandone la profondità con la rimozione dei fanghi per il passaggio delle Grandi navi. Ma in contemporanea si attrezzerà anche un primo terminal crocieristico a Marghera, per le navi superiori alle 96 mila tonnellate di stazza, che ora non possono entrare in laguna. Sono previsti entro il 2019 due accosti sul canale Nord nelle banchine adiacenti alla Fincantieri. Una terza nave da crociera potrà attraccare a Marghera entro il 2021 in adiacenza al canale Brentelle. In un momento successivo sarà realizzato anche il "dente" già previsto dal progetto dell'architetto Roberto D'Agostino.
Il canale Vittorio Emanuele dunque, resta sullo sfondo - in attesa di valutarne la reale fattibilità tecnica - ma intanto già tra due anni circa il 40% del traffico crocieristico attuale dovrebbe spostarsi su Marghera, lasciando intravedere questo come il vero terminal crocieristico del futuro, mantenendo la Marittima in prospettiva per le navi da crociera più piccole, fino a 40 mila tonnellate e per gli yacht.
L'attacco di Musolino.
Ma sul problema grandi navi è stato duro anche l'intervento del presidente dell'Autorità Portuale di Venezia Pino Musolino, che ha parlato della «puzzetta sotto il naso» di chi ne critica il passaggio in laguna. «C'è chi dice che sono brutte da vedere - ha insistito - ma la bellezza è nell'occhio di chi guarda. Per me brutto sarebbe vedere 4500 persone impegnate a Venezia nel settore crocieristico perdere il lavoro perché la città ha deciso di rinunciare a oltre il 3 % del suo prodotto interno lordo. Il no e basta non è una soluzione. Ci sono invece soluzioni tecniche fattibili, che consentiranno di mantenere e sviluppare il polo crocieristico veneziano».
Zoppas: «La conca di navigazione del Mose è sbagliata».
È stato poi il presidente di Confindustria Venezia Matteo Zoppas a toccare un altro tasto dolente sul piano portuale: quello della conca di navigazione che dovrebbe ospitare le navi quando il Mose è chiuso e non possono entrare subito in porto, che risulta essere largamente insufficiente.«La conca di navigazione già costruita a Malamocco è chiaramente inadeguata a ospitare le navi - ha detto Zoppas - eppure si continua ad andare avanti con i lavori del Mose come se il problema non esistesse. Quand'è che ci decideremo ad affrontarlo?». Anche Brugnaro ha parlato della conca come di «una feritoia in cui nessuno vuole entrare».
Ma il più duro è stato ancora una volta Musolino. «Qui ci sono 653 milioni di euro di fondi pubblici sprecati per un progetto sbagliato - ha detto il presidente del Porto - di cui qualcuno dovrà rendere conto. Non si offenda il provveditore alle opere pubbliche Linetti, perché l'opera è tecnicamente stata realizzata in modo corretto, il problema è la progettazione che l'ha preceduta e che non ha tenuto delle reali esigenze del Porto di Venezia». Fatti incontestabili. Ma va ricordato - per dovere di cronaca - che al tempo, quando si chiese la realizzazione della conca di navigazione, a fornire le indicazioni progettuali per dimensioni e caratteristiche al Magistrato alle Acque e al Consorzio Venezia Nuova fu proprio l'Autorità Portuale di Venezia di allora.
CORTEO PER VENEZIA
SCENDONO IN CAMPO

ANCHE GLI ARTIGIANI
di Vera Mantengoli e Manuela Pivato
«L'Unesco ci ha traditi e ha perso i cittadini veneziani». Ieri mattina vicino a Palazzo Zorzi, sede veneziana dell'Unesco, Marco Gasparinetti, portavoce del Gruppo 25Aprile e del movimento #Veneziaèilmiofuturo, Lidia Fersuoch, presidente di Italia Nostra Venezia e Gianpietro Gagliardi per Generazione'90, hanno spiegato i motivi che hanno spinto 34 associazioni, Confartigianato e Fai a partecipare alla manifestazione #minomenevado, in programma domani con ritrovo dalle 10.30 alle 11.30 in campo dell'Arsenale e successiva partenza del corteo che si snoderà lungo la Riva Ca'Di Dio per poi proseguire lungo la Riva degli Schiavoni con direzione Palazzo Ducale. La manifestazione si concluderà quindi nell'area antistante alla statua di Vittorio Emanuele II°, dove verrà sciolta intorno alle 13. Numerose le adesioni all'iniziativa, tra le quali si è aggiunta ieri anche quella di Confartigianato.
«La deriva che spinge la città storica verso la monocultura turistica» spiega il neo presidente Andrea Bertoldini, architetto e titolare della storica officina fabbrile Bertoldini Torre della Giudecca «sta inesorabilmente mettendo fuori gioco residenti e attività artigianali e di vicinato, accomunati in un destino apparentemente ineluttabile che sta passando tra l'indifferenza. Di fronte a questa situazione, il cui peso non esitiamo a definire drammatico, non vediamo da parte della politica e della amministrazione della città alcuna presa di coscienza concreta e reale». Di qui la decisione di unirsi ad associazioni, gruppi, movimenti che da settimane stanno organizzando la manifestazione di domani.
«Pensiamo» aggiunge il segretario Gianni De Checchi «che gli scatti di orgoglio dei cittadini e lavoratori che vedono ancora un futuro diverso dalla monocultura turistica per la nostra città servano a far sentire che a Venezia esiste ancora una voglia viva e vitale di "normalità"». In sintesi si chiede che si portino avanti quelle politiche a favore della residenzialità e della città che «non si sono ancora viste», ponendo fine «alla svendita di palazzi» e alla «monocultura turistica».
Nel corso della presentazione usate parole molto dure nei confronti dell'Unesco che aveva minacciato lo scorso luglio di mettere Venezia nella black list se non avesse risolto velocemente alcuni questioni come le grandi navi, il turismo e la residenzialità. Ora, proprio l'Unesco che negli scorsi mesi aveva rappresentato per molte associazioni una speranza, è sotto accusa per aver messo da parte i cittadini. «Anche ponendo il caso che l'Unesco abbia abboccato a Governo e Comune» spiegano gli organizzatori «non possiamo accettare il compromesso sulle grandi navi e il fatto che non abbiano considerato le richieste esplicite di molti veneziani».
Il riferimento critico è al documento che Icomos, braccio destro dell'Unesco, presenterà a Cracovia, in occasione dell'incontro mondiale annuale che inizierà proprio il 2 luglio, mentre il corteo veneziano a gran voce si farà sentire sfilando lungo riva degli Schiavoni. «Prima l'Unesco ha detto che non voleva assolutamente le grandi navi» spiega Fersuoch «Adesso scrive che ci sono miglioramenti perché si sta cercando di far passare le navi senza scavare. Questo è un compromesso che non si può accettare».
La domanda di tutte le associazioni è: «A cosa serve allora l'Unesco se non è in grado di affermare le sue posizioni e rimanderà il caso Venezia al 2018?». Conclude Gasparinetti: «Proponiamo che Palazzo Zorzi, anziché continuare a essere una sede inutile e pagata da noi cittadini, diventi sede di appartamenti per veneziani». Ottomila i volantini distribuiti: si attendono oltre un migliaio di persone.

NO GRANDI NAVI

16 ATTIVISTI MULTATI
Vera Mantengoli
Duecentomila euro di sanzioni amministrative e denunce penali. È il prezzo totale delle multe arrivate a 16 attivisti del movimento No Grandi Navi per essersi tuffati nel canale della Giudecca nel corso della manifestazione del 12 giugno 2016. Dopo l'arrivo immediato delle sanzioni amministrative (2.500 euro a testa) per divieto di balneazione, ora è arrivata per ognuno di loro la multa per un secondo tuffo, in questo caso accompagnato dalla denuncia penale. La denuncia, forse per pericolo alla navigazione, verrà impugnata dall'avvocato Giuseppe Romano che farà ricorso.
«È una forma di intimidazione» ha commentato Tommaso Cacciari che, con un altro ragazzo, ha ricevuto 7.500 euro di multa per aver coordinato l'iniziativa «che arriva, guarda caso, proprio subito dopo il grande successo del Referendum che ha fatto il giro del mondo con i 18.105 sì alle navi fuori dalla laguna, arrivando perfino in Australia». L'anno scorso 16 manifestanti si erano tuffati nel canale aggrappandosi a tre boe e ritardando la partenza di tre colossi, senza comunque creare scompiglio a vaporetti o ad altre imbarcazioni che non avevano subito rallentamenti o deviazioni. «Abbiamo subìto un processo anni fa e siamo stati assolti» ha proseguito Cacciari riferendosi alla manifestazione del 16 settembre 2012 «e siamo stati accusati noi e non chi guidava l'elicottero (forze dell'ordine, ndr) che volava basso sulle nostre teste. Anche questa volta affronteremo il tutto, senza mollare la nostra battaglia».
Ieri pomeriggio la notizia della denuncia è stata dato in apertura dell'assemblea No Grandi Navi a San Lorenzo dove è stata confermata la presenza alla manifestazione #minomenevado di domenica e ribaditi alcuni punti. Il movimento ha fatto sapere che distribuirà un documento con il risultato del referendum popolare a tutte le istituzioni, dal sindaco Luigi Brugnaro al premier Paolo Gentiloni. «Nel 2015 al ballottaggio a Venezia centro storico» hanno detto Cacciari, Armando Danella, Luciano Mazzolin e Andreina Zitelli, leggendo il documento «Brugnaro ha ricevuto 15.970 voti e noi, nelle stesse zone, con la metà dei seggi e organizzando in due mesi, 15.406».
Il Comitato No Grandi Navi ha cinque richieste. La prima è che vengano immediatamente rese pubbliche le istruttorie in corso a Roma tra le compagnie da crociera e gli uffici di diretta collaborazione del ministro Graziano Delrio. La seconda è che il presidente dell'Autorità Portuale Pino Musolino mostri pubblicamente quello che ha inviato a Roma sulle soluzioni grandi navi. La terza è la richiesta di spiegare perché il ministro Delrio non si attivi per il progetto Duferco De Piccoli inviandolo al consiglio superiore lavori pubblici e al Cipe dato che è l'unico che ha ricevuto il parere positivo dalla Via. Quarta: il governo spieghi perché non si applichi il decreto Clini Passera ora che il progetto Contorta è tramontato. Quinta, che il governo renda note le aree interessate di Porto Marghera. Il comitato ha inoltre rilanciato i tre giorni di eventi il 23, 24 e 25 settembre.

«Dalla gestione privatizzata a dieci esempi di progetti che incombono sul patrimonio idrico italiano, la gestione pubblica e partecipata è l'unica strada». acquabenecomune.org, 30 giugno 2017 (p.d.)

La cosiddetta “emergenza idrica” è provocata dalla cattiva gestione e dalla privatizzazione ma si continua a far finta di nulla e a insistere su progetti che rischiano di devastare quanto rimane del residuo patrimonio idrico italiano. I dati che stanno circolando sui media in questi giorni (diminuzione della disponibilità d'acqua, crollo delle precipitazioni e delle portate di fiumi e sorgenti, aumento delle temperature medie) fanno emergere in tutta la sua drammatica realtà l'acuirsi di una crisi idrica che viene da lontano.

Purtroppo, anche in questa occasione, il dibattito che si è sviluppato nel paese viene piegato agli interessi delle grandi lobby economico-finanziarie che provano così a rilanciare la strategia volta alla definitiva mercificazione del bene acqua e addirittura a mettere sul banco degli imputati i referendum del 2011. Per l'ennesima volta si prova a cancellare con un tratto di penna e a rimuovere dalla coscienza delle persone le reali cause di una crisi che, come scriveva V. Shiva nel 2003 nel libro "Le guerre dell'acqua", è una crisi ecologica che ha cause commerciali ma non soluzioni di mercato. Addirittura si arriva a prospettare come cura esattamente la causa scatenante della malattia, ossia la sottomissione dell'acqua alle regole del mercato, del profitto e della concorrenza.

E', altresì, evidente come la crisi idrica che si sta palesando in questi giorni in Italia sia il risultato del matrimonio tra il ciclo dell’acqua e il ciclo economico, essa è dovuta principalmente alla scarsità di questa risorsa. Scarsità “man-made”, cioè prodotta dall’uomo, tramite: sovrasfruttamento degli acquiferi, inquinamento delle falde e del reticolo fluviale superficiale, urbanizzazione, con conseguente diminuzione della disponibilità, divisione tra consumo agricolo, industriale, uso civile. E allora l'onestà intellettuale imporrebbe di fare marcia indietro rispetto a una serie di opere e progetti che da una parte tendono a valorizzare economicamente l'acqua e dall'altra considerano il suo depauperamento come un effetto collaterale ineluttabile.

Ne elenchiamo solo dieci delle centinaia in cantiere in Italia:
- pozzo di petrolio ENI di Carpignano Sesia, in area di ricarica della falda idropotabile di Novara, il Min.Ambiente ha appena approvato il progetto mettendo come prescrizione di "prevedere un approvvigionamento alternativo in caso di contaminazione";
-gasdotto Sulmona-Foligno della SNAM, con il tragitto su ben tre crateri sismici con un tunnel appena dietro la più grande sorgente dell'Italia Centrale, quella del Pescara a Popoli, dalla portata di 6000 litri al secondo;
- Centro Oli di Viggiano che incombe sul Lago del Pertusillo, che disseta 4 milioni di italiani in Puglia e Basilicata, sequestrato nel 2016 e oggi protagonista di un ingente sversamento di petrolio;
- Sorgente Pertuso: aumento delle captazioni presso la sorgente del Pertuso che alimenta il fiume Aniene nel Lazio;

- aumento delle captazioni ACEA presso il lago di Bracciano;
- costruzione delle gallerie dell'autostrada Roma-Pescara, un progetto faraonico da 6,5 miliardi di euro che andrebbe a ledere le falde acquifere presenti nelle montagne carbonatiche tra Lazio e Abruzzo;
- l'inquinamento prodotto dalla SOLVAY sulla costa toscana tra Rosignano Marittimo e Vada che si configura come una vera e propria “bomba ecologica” visto che anche l’Agenzia Ambientale Onu ha classificato questo tratto costiero come uno dei 15 più inquinanti d’Italia;
- progetti per uso idroelettrico nel bellunese come sull'intero arco alpino che vanno ad impattare fortemente sugli ecosistemi fluviali;
- costruzione di un impianto idroelettrico sul fiume Frido nel parco del Pollino con un devastante impatto sull'ecosistema fluviale;
- l'inquinamento da PFAS (sostanze perfluoroalchiliche potenzialmente pericolose per la salute umana) delle falde ad uso idropotabile nel Veneto tra le province di Padova, Vicenza e Verona.

D'altra parte si prova ad accreditare la tesi per cui i due referendum per l'acqua pubblica del 2011 siano stati la causa della situazione attuale avendo determinato un crollo degli investimenti per cui non sarebbe stato possibile l'ammodernamento delle reti idriche da parte dei gestori. Una bugia dalle gambe cortissime. Infatti, gli investimenti sono in decisa flessione sin da fine anni novanta (quindi ben prima dei referendum) nonostante le tariffe dell'acqua siano aumentate più di ogni altro servizio pubblico. Allora se le tariffe aumentano, gli investimenti diminuiscono e le perdite delle reti aumentano, appare evidente che c'è qualcosa che non torna.

La questione da porsi, che arbitrariamente viene elusa nel dibattito pubblico, è che il finanziamento del servizio idrico integrato ha dimostrato il suo fallimento dal momento in cui al principio del “full cost recovery”, ossia il costo totale del servizio deve essere interamente coperto dalla tariffa, si è associato l'affidamento a soggetti privati: entrate certe e anticipate a fronte di investimenti sempre più ridotti e dilazionati nel tempo. Con i risultati assolutamente inadeguati rispetto alle ingenti opere di cui il servizio idrico necessita. Superato il concetto del “full cost recovery” ed esautorati i soggetti gestori di natura privatistica, per gli investimenti, occorre progettare, quindi, un sistema di finanziamento sia basato sul ruolo della leva tariffaria, anche su quello della finanza pubblica e della fiscalità generale.

Insomma, il giudizio di fallimento dell'attuale sistema di gestione dell'acqua in Italia è un dato di fatto ben difficilmente contestabile che dovrebbe portare ad un'inversione di rotta immediata soprattutto alla luce della pesante crisi idrica. Diviene in sostanza irrinunciabile e urgente un cambiamento del sistema passando dalla pianificazione dell’offerta, alla pianificazione e gestione della domanda, rimettendo al centro la tutela e gestione partecipativa dell'acqua e dei beni comuni.

Roma, 30 Giugno 2017
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua

N.B.: si rimanda al documento allegato per eventuali approfondimenti

Ada Colau ha scelto di gestire i flussi turistici e contrastare le logiche di profitto di speculatori guardando ad esperienze di cogestione: un esempio importante di recupero dello spazio urbano. MicroMega online, 27 giugno 2017 (c.m.c.)

Un servizio comodo e confortevole. Una manna dal cielo per chi non può permettersi alberghi di lusso. Airbnb è il portale on line che coniuga domanda ed offerta del turismo low cost: una community che dà la possibilità a chi ha una camera libera nella propria abitazione di affittarla. È un modo di viaggiare più economico e "social" della classica sistemazione in hotel. Una rivoluzione, negli ultimi anni, che si è affermata soprattutto tra i giovani.

Ma non è tutto oro quel che luccica perché la politica di Airbnb ci parla infatti di nuova urbanistica e di modelli di città differenti. Per anni siamo stati abituati ad una politica latente che ha dato mano libera ai privati che hanno saccheggiato liberamente gli spazi urbani. Roma, in tal senso, ne è emblema visto lo strapotere di palazzinari e cricche del mattone: nella Capitale si è rotto il legame tra la comunità degli uomini e la città materiale. I Comuni delegano al privato la soluzione dei problemi sociali, come l'emergenza abitativa, con la conseguenza di speculazioni, sperpero di denaro pubblico e mancata soluzione delle questioni (vedi la creazione dei residence). Le nostre città, più in generale, stanno diventando non/luoghi, eppure la cittadinanza è il pieno dei vissuti e il territorio dovrebbe essere inteso come bene comune. È la fine dell'urbanistica, e dunque la fine della città pubblica.

L’impero di Airbnb in Italia
Airbnb si innesca nella stessa logica con un impero da 31 miliardi di dollari incassati dal 2008 ad oggi. Fa profitti imponendo un modello di città sbagliato dove persiste un centro “turistico” e “vetrina” e la contemporanea espulsione degli abitanti verso le periferie. Una ricerca del laboratorio Ladest della facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Siena ha fatto luce proprio sull’altra faccia di Airbnb.

A Firenze quasi il 20% delle case dentro le mura medievali è in affitto sulla piattaforma turistica, a Matera addirittura il 25%, a Roma l’8%, a Venezia il 9 e le percentuali sono in crescita dappertutto, da Catania a Milano. A dispetto del concetto di “sharing economy” però su Airbnb i grossi guadagni sono ben poco “shared”, condivisi. Anzi si concentrano sempre più nelle mani di pochi. A Milano ad esempio un unico soggetto ha accumulato più di 520 mila euro solo nel 2016 mentre il 75% degli host ha guadagnato meno di 5.000 euro in un anno. A Roma il 48% dei proprietari è sotto 5.000 euro e un fortunato 0,6% sta sopra 100 mila euro mentre a Firenze, dove l’incasso medio per gli oltre 8 mila host di Airbnb l’anno scorso è stato di 5.300 euro, uno solo è arrivato a incassare la bellezza di 700 mila euro.

“A Roma come altrove – scrive Sara Gainsforth su DinamoPress – Airbnb è uno strumento di concentrazione della ricchezza proveniente dalla rendita immobiliare. Pochi intermediari gestiscono più case, molte delle quali non abitate stabilmente per più di sei mesi. Nella Capitale gli annunci per turisti si concentrano nelle zone più turistiche, centrali e benestanti della città. I dati raccolti da Inside Airbnb mostrano un aumento delle proprietà destinate a turisti nel centro di Roma con un +8,2% negli ultimi sei mesi in I municipio”.

Intanto la città, il futuro si sposta nelle periferie. Anche a causa di valori immobiliari insostenibili continua l’esodo di residenti dal centro. Si creano i quartieri dormitorio, terreni fertili per la guerra tra poveri. Tra cittadini autoctoni arrabbiati dei disservizi versus i centri di accoglienza dei migranti. La grande assente è sempre la politica che da anni si rifiuta a ripensare le città, a ridisegnare le periferie urbane creando condizioni indispensabili di inclusione sociale, intervenendo sugli spazi pubblici. Le città come elemento di rottura e discontinuità, il neomunicipalismo come antidoto alle crisi attuali per un nuovo protagonismo della cittadinanza: il recupero dello spazio urbano con strumenti di co-partecipazione e co-gestione per contrastare rendite finanziarie ed establishment. Tra mille difficoltà, un po' come Davide contro Golia, ci sta provando a Barcellona l'alcaldessa Ada Colau che ha intrapreso un vero e proprio braccio di ferro contro Airbnb e la gentrification.

Barcellona, invasa dai turisti
A Barcellona, infatti, quello del turismo, con tutte le sue derivate (aumento degli affitti, espulsione dei residenti dal centro, distruzione del piccolo commercio, carenza di case popolari, ecc.) è un problema capitale. Se nel 1991, l’anno precedente alle Olimpiadi che hanno cambiato radicalmente il capoluogo catalano, i turisti superavano di poco il milione, nel 2016 hanno già raggiunto quota 9 milioni in una città di 1,6 milioni di abitanti. Se a questi aggiungiamo i turisti che alloggiano in appartamenti senza licenza o che non dormono in città, ma che la visitano, si stimano oltre 25 milioni di turisti all’anno, la maggior parte dei quali alloggiano e si muovono nel centro storico (il municipio di Ciutat Vella), la cui popolazione è in continuo calo e attualmente supera di poco i 100mila abitanti.

La situazione è davvero preoccupante e il rischio che Barcellona si converta in una nuova Disneyland, come è successo a Venezia, è reale. Non è un fenomeno nuovo, evidentemente, ma l’accelerazione degli ultimi anni è stata notevole. E i dati ci mostrano che la questione degli appartamenti turistici, legali e illegali, e il fenomeno di Airbnb pesano moltissimo in tutta la questione. Alla fine del 2016 l’offerta di appartamenti turistici ha raggiunto infatti quasi quella alberghiera, con una crescita vertiginosa dal 2012 (+ 1.633%): secondo il Comune della Ciudad Condal gli appartamenti turistici sul mercato sono quasi 16mila, di cui solo 9.600 dispongono di una licenza. Gli altri 6.200, ossia il 40%, operano senza.

Ma non si tratta solo di stime comunali. La percezione della cittadinanza è una cartina di tornasole della vicenda: e non è un caso che, per la prima volta, il turismo è, secondo i barcellonesi, il primo problema della città, superando la disoccupazione. E che, anche in questo caso per la prima volta nella storia, sono di più i barcellonesi che credono che si sia arrivati al limite di turisti (48,9%, con punte del 65% nei quartieri del centro storico) rispetto a quelli che considerano che la città ne possa accogliere di più (47,5%). E la cittadinanza si è mobilitata, auto-organizzandosi in piattaforme e associazioni – come Barcelona No Está en Venda (Barcellona Non È In Vendita), Fem Sant Antoni o il Sindicato de Inquilinos (il Sindacato degli Inquilini), tra le tante – che lottano contro i processi di turistificazione e gentrificazione della città. Non ci sono solo manifestazioni di protesta, per quanto siano ormai numerose in molti quartieri, ma anche altre azioni per proteggere chi rischia di essere espulso dalla propria casa, per migliorare le condizioni dei contratti d’affitto – solo nel 2016 gli affitti sono aumentati del 24,5% – o per censire i condomini in vendita per evitare che siano acquistati da fondi speculativi.

Ma la cittadinanza si è mobilitata anche votando nel maggio del 2015 la lista civica neomunicipalista Barcelona en Comú, guidata dall’attivista Ada Colau, che è stata la fondatrice e, per oltre un lustro, la portavoce della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (PAH, Piattaforma delle vittime dei mutui). Nella campagna elettorale la questione di un nuovo modello di città è stata chiave ed era, non a caso, una delle priorità del programma elettorale di Barcelona en Comú, elaborato insieme alla cittadinanza. Non è un caso nemmeno che tra gli undici consiglieri eletti ci sia anche Gala Pin, portavoce del movimento Salvem el Port Vell che ha lottato contro il turismo di massa e l’apertura di un porto di lusso nel quartiere della Barceloneta.

La pressione dei movimenti sociali, da cui provengono la maggior parte dei consiglieri e degli assessori di Barcelona en Comú, facilita in un certo qual modo il lavoro della giunta Colau, per quanto la lotta sia impari e le difficoltà economiche e legali siano enormi. La lobby degli alberghieri, potentissima nel capoluogo catalano, ha sempre visto con preoccupazione la nuova amministrazione comunale e la nuova lobby di Airbnb, che dispone di un potere mediatico incredibile, rifiuta di rispettare le norme e le leggi esistenti, alimentando la compravendita di appartamenti.

Cosa ha fatto la giunta Colau?
Nei primi due anni di governo di Barcelona en Comú si sono fatti importanti passi in avanti. Oltre allo sviluppo di una politica di acquisto e costruzione di nuove case popolari, all’acquisto di interi edifici che stavano per essere comprati da fondi speculativi, alle multe alle banche per non mettere sul mercato gli appartamenti sfitti, ai finanziamenti pubblici per la ristrutturazione degli immobili con l’obbligo di non espellere per almeno un biennio gli inquilini o ai progetti per rendere Barcellona una città sostenibile (limitazione del traffico, creazione di aree verdi, potenziamento del trasporto pubblico, ecc.), la giunta Colau si è spesa notevolmente per regolare gli appartamenti turistici e per limitare lo strapotere di Airbnb.

In primo luogo, è stato approvato un Piano speciale urbanistico di ordinamento degli alloggi turistici (Peuat), elaborato con la partecipazione della cittadinanza e delle associazioni presenti sul territorio, che divide la città in tre zone con l’obiettivo di decongestionare il centro. Nella prima zona, ossia il centro storico, non si concedono nuove licenze per appartamenti turistici e chi cessa l’attività non può essere sostituito; nella seconda zona, si concedono nuove licenze solo se il rapporto degli appartamenti turistici in un’isolato è inferiore all’1,48%; mentre, nella terza zona, la più lontana dal centro storico, si possono ottenere ancora delle licenze. Con il Peuat si è però creata anche un’unità di ispettori – chiamati visualizadores, attualmente formata da 40 persone – che si occupano di localizzare gli appartamenti turistici senza licenza: dal gennaio del 2016 sono state aperte 5.490 pratiche che si sono convertite in quasi 3mila multe – tra i 30 e i 60mila euro – e nella chiusura di 2.015 appartamenti illegali.

In secondo luogo, il Comune ha aumentato la tassa turistica (da 0,65 a 2,25 euro), non solo per chi alloggia in hotel o nelle navi crociera, ma anche per chi lo fa negli appartamenti turistici. Il ricavato – e si parla di oltre 10 milioni di euro all’anno – sarà utilizzato per ampliare il Piano strategico del Turismo 2020 che si propone di rendere sostenibile la città come destino turistico nell’arco dei prossimi quattro anni, ossia rinforzando i trasporti pubblici e ristrutturando la pavimentazione della città.

In terzo luogo, a novembre dello scorso anno si è multato Airbnb con 600mila euro, dopo due precedenti multe di 30mila euro che erano state ignorate dalla compagnia statunitense. Si tratta della prima multa di tale entità di una città contro Airbnb e, come ha dichiarato la sindaca Ada Colau, si faranno “tutte le multe necessarie fino a che Airbnb smetta di annunciare appartamenti illegali. Airbnb deve rispettare la legge!”. Altri portali on line che operano nel turismo, come Homeaway o Nine Flats, anch’essi multati dal Comune di Barcellona, hanno fatto marcia indietro e hanno deciso di rispettare la legge in vigore a Barcellona.

Non così Airbnb che, oltre a fare orecchie da mercante, a proporre accordi farsa – accettati da altre città e rifiutati seccamente dal Comune di Barcellona: l’assessore alla Casa, Josep Maria Muntaner, li ha definiti “una presa in giro” – e a scatenare una campagna mediatica contro la giunta Colau, è stata protagonista di scandali non da poco: Kay Kuehne, ad esempio, ex direttore di Airbnb per la Spagna e il Portogallo e poi per l’America Latina, è stato multato per aver affittato illegalmente un appartamento senza licenza a Barcellona. O, ancora, è notizia della scorsa settimana che Airbnb lascia operare senza controllo reti criminali che affittano appartamenti nel capoluogo catalano per poi trasformarli in appartamenti turistici.

Di casi di questo tipo se ne stanno conoscendo un’infinità negli ultimi tempi, tanto che Janet Sanz, responsabile dell’area di Ecologia, Urbanismo e Mobilità della giunta Colau, ha ribadito l’uso della mano dura contro la compagnia statunitense: «Airbnb ha superato ogni limite. Ha truffato la città. La sua attività sta danneggiando i cittadini perché non rispetta la legge. È ora di dire basta!» E non sono ormai solo voci di corridoio quelle che sostengono che il Comune di Barcellona possa arrivare fino in fondo, obbligando Airbnb a lasciare il capoluogo catalano.

Le difficoltà sono molte per i Comuni, le competenze sono limitate, le lobby, come Airbnb, sono potentissime, ma, come dimostra la giunta Colau, se c’è la volontà politica il turismo si può regolare e fenomeni come quello degli appartamenti illegali possono essere controllati, anche in una città invasa dai turisti come Barcellona.

Quando parliamo di ridefinizione di città, non parliamo solo di urbanistica ma contrasto alle diseguaglianze sociali, di ambiente, di eco-architettura, di modelli di cogestione in antitesi a logiche di profitto di speculatori e establishment, parliamo di tutto questo. La città come bene comune. E se da un lato Airbnb è un servizio agevole, dall'altro va capito che è emblema di una politica urbana sbagliata e escludente. E se imparassimo da Ada Colau?

«Processo veloce. Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi». la Nuova Venezia, 30 giugno 2017 (m.p.r.)

Venezia. La pena più pesante è per l'ex ministro An alle Infrastrutture Altero Matteoli: 6 anni. E poi: 5 per l'imprenditore romano Erasmo Cinque, 4 per l'ex presidente del Magistrato alle Acque Maria Giovanna Piva, 3 per l'imprenditore Nicola Falconi, 2 anni e 6 mesi per l'architetto Danilo Turato, 2 anni e 4 mesi per l'ex presidente di Adria Infrastrutture Corrado Crialese, 2 anni e 3 mesi e 1 milione di multa per l'ex sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, 2 anni e 500 mila euro di multa per l'ex europarlamentare di Forza Italia Lia Sartori. Inoltre: la confisca dello stipendio e delle somme dei collaudi per Piva; del profitto di 33 milioni 960 mila euro oltre alle somme ricevute per Matteoli e Cinque. Queste le richieste di condanna della Procura di Venezia - 27 anni e 1 mese complessivamente per 8 imputati accusati a vario titolo di corruzione e finanziamento illecito - dopo cinque ore di requisitoria nell'ambito del processo per le tangenti del Mose. «Si tratta di fatti gravi perché hanno riguardato una delle opere pubbliche più importanti del nostro Paese e gli episodi sono durati anni», ha spiegato il pm Stefano Ancilotto, «Nel conteggio si è tenuto conto dei fatti e delle pene di chi ha patteggiato».

Processo veloce.
Ancilotto ha esordito con un ringraziamento al presidente Stefano Manduzio e alle difese per l'equilibrio e la velocità del processo scongiurando così i rischi prescrizione. Tutto è stato scandagliato, ha aggiunto il pm Stefano Buccini, «nessun fantasma aleggia sul processo, nulla è rimasto incompiuto». A garantire la velocità ha sottolineato Ancilotto entrando nel merito delle accuse, è la presenza di alcuni punti fermi. Punti fermi che costituiscono l'impianto del "sistema Mose", durato 10 anni. Si tratta delle frodi fiscali, dei fondi neri alimentati dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, della rete di relazioni del presidente del Cvn Giovanni Mazzacurati sia con i politici locali che con quelli nazionali e dai fatti di grave corruzione «che hanno riguardato destra e sinistra, potere centrale e locale». Le divergenze con le difese sono nell'ultimo anello, ha sottolineato Ancilotto: in sostanza i fondi neri c'erano, ma nessuno degli imputati ammette di averli presi.
L'attendibilita degli accusatori.
Ad accusare sono in molti, tutti ritenuti attendibili dalla Procura. «La collaborazione è frutto non di pentimenti, ma di un interesse processuale», ha messo le mani avanti Ancilotto, «vi è una ricostruzione da parte di persone che arrivavano da mondi diversi e che erano portatori di interessi diversi. Eppure si sono trovate d'accordo nel ricostruire un sistema univoco».
Il sistema e il suo padrone.
Al centro del "sistema Mose" c'era il presidente Mazzacurati, padrone assoluto del Consorzio Venezia Nuova che «grazie all'attività di corruttela si è assicurato un flusso di denaro continuo, l'assenza di controlli e di opposizione al progetto», ha affermato Ancilotto. La "filosofia" di Mazzacurati è stata così riassunta dal pm: corrompo a livello nazionale e locale perché non si sa come cambieranno le maggioranze politiche, mentre l'opera rimane. L'ingegnere è per la Procura perfettamente attendibile quando bel 2013 rende i suoi interrogatori. E decide di collaborare «perché capisce che è finita un'epoca, ancora una volta è arrivato prima degli altri». Le rivelazioni che fa non sono dettate dall'astio: «Fa fatica a usare il termine di mazzetta, tutt'al più parla di oliare il meccanismo», ha sostenuto il pm, «questo non è l' atteggiamento di chi vuole ferire». La sua, secondo la Procura, è un'attendibilità intrinseca ed estrinseca visti i patteggiamenti che ci sono stati.
Le pene più pesanti per Matteoli e Cinque.
La richiesta più severa della Procura è per l'ex ministro Altero Matteoli che, secondo l'accusa, subordinò la concessione dei fondi per le bonifiche di Porto Marghera al fatto che nel Consorzio entrasse la Socostramo, società del suo compagno di partito Erasmo Cinque «al quale Matteoli era completamente soggiogato», ha detto Ancilotto. E ancora: «Il ministro era totalmente asservito agli interessi del Cvn». Lo dimostrerebbe in particolare la lettera con la quale autorizzava l'affidamento diretto dei lavori per la bonifica di Porto Marghera (anziché procedere con gara), rispondendo a una lettera di chiarimenti di Piva che aveva dubbi su come assegnare i fondi ottenuti dalla transazione Montedison (versò i soldi per l'inquinamento causato). «Con questa autorizzazione il ministro "si sporca le mani"», ha detto Ancilotto, «E la condotta del ministro va oltre: sollecita fondi a Tremonti e a Berlusconi».
Maxi risarcimento.
Otto milioni di euro, uno per ogni imputato, è la somma a titolo di risarcimento chiesta dall'Avvocatura di Stato, parte civile, avvocato Simone Cardin, per grave danno d'immagine, danno alla collettività e danno da sviamento. Si tratta della provvisionale, quindi della somma da versare subito: quella complessiva andrà quantificata dal tribunale.

articolo9.blogautore.repubblica.it. 29 giugno 2017 (c.m.c)

Se l'approssimazione conta più della Costituzione. È sotto questo titolo che si potrebbe rubricare il finale tragicomico dell'iter parlamentare del famigerato articolo del ddl sulla concorrenza che avrebbe aperto le porte ad una esportazione selvaggia dei beni culturali privati, di fatto la fine di una politica di tutela iniziata in Italia fin dai primi anni del XVII secolo.

La storia è nota. Un gruppo lobbistico costituito dai grandi antiquari e dalle case d'asta internazionali riesce ad aprirsi un tale varco nel ministero di Dario Franceschini da vedere formalmente nominato un suo rappresentante nel gruppo di lavoro chiamato a riscrivere le norme sull'esportazione. Ne scaturisce un vero capolavoro: tutto può uscire, fa fede l'autocertificazione e il sistema delle soglie di valore. Se autocertifico che quel certo quadro in mia proprietà vale meno di 13.500 euro lo posso portare dove mi pare: tradotto in italiano, bomba libera tutti. Non serve la mobilitazione della comunità scientifica della storia dell'arte, non serve l'indignazione di Italia Nostra, non serve un articolo in cui Gian Antonio Stella smonta pezzo a pezzo l'affidabilità dell'autocertificazione. Niente, il Pd e Franceschini non sentono ragione e oggi, alla Camera, passa definitivamente questa legge-truffa del patrimonio culturale.

Ma c'è un ma. Il comma 176 del provvedimento appena approvato, infatti, subordina tutta la nuova procedura alla tenuta del registro delle cose oggetto di commercio, in forma elettronica, in due sezioni a seconda del valore. Peccato che la legge 222/2016 abbia abrogato l'articolo 126 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (un Regio Decreto del 1931) che istituiva quel registro. Come ha fatto notare, di fronte ad una assemblea incredula, la deputata Claudia Mannino, non essendoci il registro, la nuova normativa sulle esportazioni è inapplicabile. La maggioranza ci potrà riprovare, ma dovrà farlo con una nuova legge ad hoc, sulla quale sarà dura mettere la fiducia come ha fatto sul ddl concorrenza che (del tutto impropriamente) ha provato a smontare un cardine del Codice dei Beni culturali.

Morale: la cialtroneria arriva laddove non arriva il rispetto per l'articolo 9 della Costituzione. Amen.





Pare si stia sviluppando a Milano una interessante discussione sull'invisibilità mediatica del «plinto di Porta Nuova» assediato dai veicoli (segue)
Pare si stia sviluppando a Milano una interessante discussione sull'invisibilità del «plinto di Porta Nuova» assediato dai veicoli. Invisibile nella solita, patinata pubblicistica decantatoria, sulla stampa di informazione, e nella coscienza collettiva in generale, tranne in quella degli utenti di quel luogo, naturalmente. Per chi non lo sapesse, nella terminologia un pochino gergale dei progettisti dicesi plinto urbano (Cfr. Jouke van der Werf, Kim Zweerink, Jan van Teeffelen, History of the City, Street and Plinth, in AA.VV. The City at Eye Level, 2016) l'interfaccia al pianterreno o comunque ai livelli inferiori, tra edificio e città, quello che da un lato sarebbe la vera misura dell'equilibrio prestazionale fra spazio pubblico e privato, ma dall'altro più di ogni altro dettaglio subisce il devastante impatto della coatta eterna «intermodalità», consistente nell'imperfetto passaggio da un veicolo qualsivoglia, alla naturale condizione di nudo pedone.

Non è forse un caso se, sul lungo arco vagamente positivista di vero e proprio trionfo del veicolo a motore nel determinare le forme urbane, si afferma l'utopia dell'ubiquità di quel plinto cavo costituito dall'obliterazione dei piani bassi, trasformati vuoi in varchi cavernosi di accesso ad autorimesse interne, vuoi in muraglioni ciechi concepiti per schermarsi militarmente dall'assedio del rumore e dell'inquinamento. Poi vennero la cosiddetta architettura post-modernista e i suoi epigoni, a ripensare la città secondo criteri pedonali, sostenibili, ambientalisti, ma con un piccolo dettaglio per nulla insignificante: la città che pensavano loro, stava solo negli sfondi dei rendering, quella vera continuando ad essere non molto diversa da quanto intravisto nel cartone automobilistico Futurama del 1939, o nei disegni di Victor Gruen per la pedonalizzazione di Fort Worth del 1954.

Oggi iniziano a vedere la luce e a entrare a regime i progettoni privatistici della T Rovesciata di Ricostruire la Grande Milano, variamente concepiti dalle archistar di turno e soprattutto dagli «sviluppatori» di riferimento proprio secondo quel criterio da superblocco, già stigmatizzato sul nascere a suo tempo da William Whyte, secondo cui qualunque obiettivo è da perseguirsi e comunque intendersi internamente alla trasformazione, non certo nel rapporto con la città e men che meno nell'interfaccia del plinto urbano. Il quale viene così a ridursi a incrocio piuttosto casuale fra la città dei rendering tutta pedonale, o addirittura guarnita di tricicli da consegne, deltaplani, droni, danze folk multietniche di passaggio in variopinti costumi tradizionali, e la triste grigia realtà di un sistema di flussi, pendolari o casuali, ancora in gran parte caratterizzato dall'automobile, e di cui i pur progettati interfaccia interni di box sotterranei o autosilo sono solo caricature della soluzione (esattamente come i dettagli folkloristici high tech o di socialità posticcia elencati prima). Accade che poi il solito fai-da-te riempie i buchi vuoti di senso lasciati dalla non urbanistica, ma li riempie a modo proprio, e nel caso specifico di Porta Nuova ammucchiando ferraglia assediante, sotto forma di centinaia di motorini, scooterini e motoroni sparsi sul marciapiede dalla parte del «vicolo di servizio» su cui si aprono alcuni degli scaloni di accesso alla mitica Piazza Aulenti e ai luoghi di lavoro e svago trendy.

L'area di Porta Nuova in uno dei progetti integrati del PUMS
Perché appunto, a recitare il ruolo del figurante più o meno hipster che si aggira tra torri e vetrine griffate, ci si deve arrivare in qualche modo, e tanti (praticamente tutti) di quelli che compaiono nelle foto patinate non abitano esattamente a un tiro di sasso da lì, e devono arrangiarsi.

Quei racconti di gente che scende dall'aereo e magari trascinandosi appresso un trolley da venti chili scorazza serena da un mezzo di trasporto pubblico sostenibile all'altro, senza neppure smettere di spolliciare sul tablet, come ben si sa appartengono alla narrativa ufficiale, come le promozioni che un paio d'anni fa proponevano improbabili fuori-Expo food-oriented in città al turista internazionale. La realtà più prosaica è quella di chi è almeno tanto fortunato da potersi muovere qualche decina di chilometri in scooter, per poi mollarlo sotto le scale e salire come in un episodio di Star Trek dentro la realtà parallela della post modernità autoindotta. E quanto detto per il caso del quartiere modello, vale ovviamente in termini anche assai peggiori per tanta parte della città e dell'area metropolitana, quella stessa città metropolitana coperta dalla buona novella del nuovo Piano Urbano per la Mobilità Sostenibile, in questo momento nella fase delle osservazioni. Piano che a sfogliarlo, e a osservarlo anche nei dettagli, parrebbe promettere parecchie soluzioni anche al grosso problema descritto sopra, nonché a tanti altri.

Ci sono anche minuscole cadute di stile, dentro al complesso documento di piano del PUMS proposto ai cittadini, di cui val la pena forse ricordare almeno quei passaggi dove si afferma addirittura che «La linea M4, attualmente in costruzione, rivoluzionerà la mobilità [...] connetterà l’aeroporto di Linate, aumentando l’accessibilità internazionale». Prefigurando magari un utente che parte fiducioso dalla sua villetta di Willow Springs, Montana, con già salvato sullo smartphone il biglietto della linea blu che lo porterà dritto dritto davanti al bar del Cerutti Gino al Giambellino, agognata meta finale.

Sul medesimo registro, stavolta probabilmente per dare ai cittadini quel senso di atmosfera accogliente-futuribile già visto nella pubblicistica dei vari Eventi e Fuori-Eventi, la promessa di «realizzare High Line» sul modello dell'imitatissimo progetto newyorchese, anche se a ben vedere si tratta di cose con un rapporto inverso rispetto alla mobilità vera e propria, riuso di infrastrutture di trasporto dismesse ri-adibite al passeggio, ma appunto si tratta di dettagli di poco conto in sé. L'impressione è che anche nel caso del PUMS, esattamente come osservato per i plinti urbani dei progettoni pubblico-privati di riqualificazione, si tratti di qualcosa molto cresciuto su sé stesso e su una (assai organica e interconnessa, per carità) logica interna.

Da un lato il piano degli spazi che pare considerare i flussi qualcosa di indefinito, a cui certamente adeguarsi, ma fino ad un certo punto. Dall'altro il piano dei flussi, dove le funzioni, la loro ubicazione, le dinamiche e tendenze sociali, le innovazioni prevedibili o auspicabili, hanno certo uno spazio anche importante, ma stanno lì senza davvero interagire. Eppure, si tratta in ogni caso esattamente dei motivi per cui ci si muove verso quel posto e non verso altri, la ragione che induce a investire molto in infrastrutture pesanti e complesse in alcuni casi, e al massimo a ricucire un po' al risparmio in altri meno prioritari, vuoi per lo sviluppo socioeconomico, vuoi per lo specifico ruolo strategico generale. Ma già: quale strategia? Dentro il cervello dei cittadini, spesso leggendo questi grandi progetti di trasformazione urbanistica, o di rivoluzione trasportistica, o di innovazione immateriale del tipo smart city, si formano dei vuoti di senso colmabili solo con un briciolo di immaginazione.
Una immaginazione che deve però trovare punti fermi nella realtà tangibile: navigo sulle onde della smart city ancorato alla trasportistica di oggi, ai problemi di parcheggio e shopping di oggi, dentro i contenitori e le polarità di oggi, mentre invece tutto sta cambiando sotto i nostri piedi, e lo sta facendo secondo altri piani e programmi di settore. I quali a ben vedere si rivelano poco più che grandi complessi e coordinati patchwork di progetti, avendo rinunciato in partenza alla natura sostanzialmente olistica e comprensiva che dovrebbe avere un piano, nonché alla autentica trasparenza delle intenzioni rispetto ai cittadini. Quella piazza così trendy e pedonale assediata dalla ferraglia assai poco postmoderna delle moto e delle auto dei suoi frequentatori hipster, era un piccolo ma assai rivelatore sintomo di un male peggiore. Magari rifletterci aiuta, sempre che non ci accontentiamo di sognare una passeggiata sulla futura High Line, tra le fioriere.

la Nuova Venezia, 29 giugno 2017 (m.p.r.)

VIAGGIO DAL PERALBA AL MARE/2
Così come nella prima puntata del nostro viaggio sul Piave assetato eravano andati a "monte" per raccontare lo sfruttamento dell'acqua da parte delle centraline elettriche private, nella seconda abbiamo percorso le verdi terre che vanno dal Montello ai vigneti nei pressi di Ponte di Piave, dove spesso il fiume sacro alla Patria esonda nelle campagne. Qui il Piave paga il suo debito all'agricoltura e all'ampliamento della zona del Prosecco doc. Ma contemporaneamente paga pegno anche alle numerose cave disseminate sul territorio. Da qui in un decennio sono stati prelevati 360 milioni di metri cubi di ghiaia.

Treviso. Entrambi le chiamano coltivazioni. Ma, in termini idrici, intendono cose diverse e concorrenziali tra di loro. Stiamo parlando degli agricoltori e dei cavatori. A entrambi il medio corso della Piave (fiume-madre), di cui ci occupiamo in questa seconda puntata (dal Ponte della Priula a Ponte di Piave) del nostro "viaggio", lascia il proprio obolo fino a svenarsi e a presentarsi a valle, senza nemmeno la forza per opporsi al ritorno delle acque salate dell'Alto Adriatico. Acque che devastano le coltivazioni di mais e soia riducendole a brulle, asfittiche e ingiallite lande nelle terre veneziane.

Il nostro Caronte oggi è Fausto Pozzobon, presidente della sezione trevigiana di Legambiente (secondo nome, non a caso, Piavenire), storica vedetta contro le depauperazioni causate dai prelievi a monte della Piave (ai canali e ai corsi d'acqua afferenti) e dalle attività di cava, che (c'è poco da ridere) si chiamano anch'esse "coltivazioni". «Ma anche tra le altre coltivazioni, quelle agricole, c'è una novità che grida vendetta al cospetto di Dio: lo sciagurato, per noi buoni bevitori, allargamento del protocollo del Prosecco doc, fa sì che molti rivieraschi abbiano venduto i terreni "in costa" al Piave, fino a far affacciare le viti direttamente sul fiume. Il bisogno di irrigazione è oggettivo e quindi il salasso per la povera Piave è assicurato. In più le rive, con le viti, non sono più trattenute e quindi qualcuno deve provvedere a sistemarle in modo ricorrente, a totale onere pubblico - dice Pozzobon - Risultato: al fiume rimane sempre meno acqua, pescata da pozzi freatici abusivi disseminati in modo selvaggio.
Tornando sul letto del Piave, le voraci macchine dei cavatori spaccano la rete sotterranea delle falde, facendo sì che non sia più come un tempo, quando, sotto i sassi e la ghiaia delle secche, correva sempre l'acqua che garantiva la vita, anche faunistica, del fiume». E qui Pozzobon svela un nuovo fronte, portandoci a vedere un tratto di Piave che sembra il Meno in Germania. Qui è in atto una mega-coltivazione che si allarga all'interno del letto del fiume fino a fargli perdere le precedenti e naturali rive: «In questo momento stiamo tentando di arginare quest'operazione in corso da parte degli industriali della ghiaia, evidentemente benedetti dalle autorità di controllo e dai loro politici di riferimento», dice il nostro Caronte, reduce da un "saltino" al Genio Civile di Treviso dove ha chiesto lumi sull'operazione senza cavare - verbo appropriato - un ragno dal buco.
Pozzobon sottolinea come proprio da questa autorità arrivi addirittura un invito ad alzare i quantitativi escavabili, indicando come non adeguati quelli autorizzati in origine.«Questo sfondamento del Piave a valle del ponte ferrovia della Priula rappresenta una nuova frontiera che ci lascia esterrefatti - aggiunge il presidente di Legambiente - Mai si era osato tanto dai lontani Anni 70, quando solo il pretore La Valle ebbe il coragggio di denunciare lo scempio operato dai cavatori». E le cifre su quel disastro parlano chiaro. Un testimone diretto, Fiorenzo Scarabel di Candelù, all'epoca dipendente di una ditta di escavazione, squarcia il velo del silenzio: «Sono stati sottratti alla comunità 360 milioni di metri cubi di materiale - dice con cognizione di causa - E questo in un periodo che va dagli anni 70 agli anni 80.
Nessuno controllava. Dove son finiti? Una parte della Laguna è diventata l'aeroporto di Venezia, dunque.... Quel disastro restò ignorato». Detto da uno nato nella zona delle Fontane Bianche, che ha visto partire i camion carichi.... E Scarabel ammmonisce: «Da quando i soldi hanno preso il posto dei valori, la Piave è affondata di 5 metri. Basta ingordigia, lasciatela riposare un po' di anni. Vedrete che si riassesta da sé. Ma fermiamoci adesso, subito». I numeri sono importanti anche per quanto riguarda i consorzi irrigui. Perché si parte da un dato sconvolgente, sottolineato in un documento approvato da consigli comunali di paesi della Marca trevigiana, quello del cosiddetto Dmv, ovvero: deflusso minimo vitale che dovrebbe garantire la vita del fiume ed evitare i disastri ambientali provocati dalle "magre" e dalle "secche".
«Ebbene - dice il Caronte che ci conduce nel rovente Piave - sapete per legge quanto dovrebbe bastare a tenere in vita il fiume? Circa 9 metri cubi al secondo. Mentre il minimo, vero, deflusso biologico, ne richiede almeno il triplo: 30. Tenete conto che nel calcolo dell'acqua del Piave sono comprese anche le acque degli invasi con un equivoco orribile che dura da 50 anni: viene conteggiata anche l'acqua della diga del Vajont, che in realtà, come sanno tutti, è, dopo la "scesa" del monte Toc del 1963, solo roccia».
«Una vergogna - ribadisce Pozzobon - Questo dato falso si riverbera sui quantitativi disponibili per il prelievo da parte dei consorzi di bonifica e, naturalmente, anche sulla portata dichiarata del fiume. Ogni volta che Legambiente lo ricorda, avviene una rimozione colpevole da parte di chi sarebbe chiamato a vigilare. Quando chiediamo che la cifra del Dmv cambi con più severi controlli a nord, i sindaci bellunesi, quelli che, sospinti dai trasferimenti dello Stato al lumicino, avallano le richieste di nuove centraline, accusano quelli di pianura di voler portare via l'acqua alla gente di montagna. Attenzione: le falde distrutte dai cavatori e la mancanza di flusso minimo... mortale, fanno sì che tutta la vita presente all'interno del fiume sia a grande rischio: una volta i pesci si salvavano nelle buche d'acqua tra le secche ma la "vita" del fiume sottostante, quello in falda, faceva sì che continuassero a prolificare e a resistere. Ora che la speranza d'acqua è affidata alle periodiche "bombe" cadute dal cielo, si è innescato un circolo vizioso che compromette anche la vita dei pesci».
Potrà anche sembrare strano, ma non sono passati mille anni da quando qui esisteva il mestiere di "pescatore della Piave", che si manteneva e faceva campare la famiglia pescando e coltivando a mais qualche campo in golena. Oggi la cosa sarebbe impensabile: manca l'elemento fondamentale: il pesce, appunto. Che vuoi mangiare?». Tornando alle cave (ne abbiamo contate almeno 8 lungo questo tratto e nei paraggi, visto che le Bandie e Santa Lucia non sono sull'asta del fiume) va detto che non ci siamo sui quantitativi di scavo. La legge regionale consentirebbe di prelevare al massimo 3 mila metri cubi per coltivazione, giustificati da opere idriche o simili. Ma, fatta la legge gabbato lo santo, dall'Istituto Idrografico Piave Livenza e Sile è arrivata la cosiddetta Benedizione del Signor (il nome dell'ingegnere dirigente) che consente di arrivare a 20 mila metri, che fa testo e sulla quale si attaccano in molti. I cavatori ringraziano, i rivieraschi molto meno.
Ancora Pozzobon: «Aggiungo, a proposito di controllo delle attività di asporto, che i numerosi interventi di difesa delle rive del fiume - anche di ingegneria naturalistica - , in tutto il territorio del Medio Piave, sempre con stanziamenti pubblici, molto spesso, si sono rivelati di nessun effetto positivo: i cittadini di Cimadolmo ricordano bene le strutture lignee, incardinate qualche mese prima, divelte dalla corrente, che si sono riversate proprio sui plinti di cemento armato di fondazione del ponte della provinciale 92 a Cimadolmo. Ci piacerebbe che questa non fosse una nostra battaglia ma che tutti i cittadini si facessero carico della loro piccola percentuale, facendo pressione sui comuni per una presa di posizione coraggiosa in difesa del fiume-madre e dei suoi valori».

«I movimenti ambientalisti si sono appiattiti su valori e «leggi» dell’economia globalizzata. Poi Trump con le sue politiche ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati». il manifesto, 29 giugno 2017 (c.m.c.)

Col suo brutale discorso del 1° giugno di quest’anno il presidente Trump ha dichiarato che gli Stati uniti non intendono più aderire agli impegni presi dal suo predecessore a Parigi nel dicembre 2015 sulle azioni per attenuare le cause dei cambiamenti climatici. Tali azioni, secondo Trump, limiterebbero certe attività importanti per l’economia e i lavoratori del suo paese (l’uso del carbone come combustibile), faciliterebbero le importazioni di autoveicoli meno inquinanti con danno per l’industria automobilistica americana e imporrebbero ai consumatori americani maggiori costi per merci alternative e maggiori tasse per risarcimenti finanziari ai paesi danneggiati.

Come è ben noto, i cambiamenti climatici sono dovuti a varie cause, tutte di carattere economico e merceologico, distribuite diversamente fra i vari paesi, come sono distribuiti diversamente i danni e i relativi costi. La principale causa è costituita dalla modificazione della composizione chimica dell’atmosfera per la crescente immissione di «gas serra»: anidride carbonica proveniente dalla combustione dei combustibili fossili (in ordine decrescente di danno, carbone, prodotti petroliferi, gas naturale), metano proveniente dall’estrazione e trasporto del gas naturale e dalla zootecnia intensiva, e alcuni altri. In secondo luogo i cambiamenti climatici sono dovuti al taglio delle foreste praticato per «liberare» nuovi spazi da dedicare all’agricoltura e all’estrazione di minerali, soprattutto per ricavarne merci destinate all’esportazione, e alle modificazioni della struttura del suolo a causa delle coltivazioni intensive che assicurano maggiori profitti agli agricoltori e per l’espansione degli spazi urbanizzati.

I soggetti coinvolti sono approssimativamente due: gli inquinatori, soprattutto i paesi industriali tradizionali o di nuova industrializzazione (diciamo i ricchi), e gli inquinati, diciamo i poveri, quelli che sono esposti alla siccità, alla desertificazione, e, d’altra parte, ad alluvioni e allagamenti. Con varie contraddizioni: sono danneggiati anche i paesi inquinatori (le alluvioni e la siccità colpiscono anche Europa, Stati uniti e Cina, importanti inquinatori) e d’altra parte anche i paesi poveri, che subiscono maggiormente le conseguenze dei mutamenti climatici, ne sono anch’essi responsabili in parte, soprattutto per la distruzione delle foreste o le attività minerarie.

Gli accordi di Parigi, come è noto, vincolano i paesi inquinatori a limitare le attività responsabili dei mutamenti climatici (usare meno combustibili fossili, soprattutto carbone, ricorrere a energie rinnovabili, produrre merci, soprattutto autoveicoli, che inquinano meno a parità di servizio, per esempio di chilometri percorsi), e a risarcire i paesi poveri che subiscono maggiormente i danni dei mutamenti climatici.

Il più comune strumento è una imposta, pagata dagli inquinatori in proporzione alla quantità di gas serra emessi, destinata ad azioni di rimboschimento, ad aiuti ai popoli alluvionati o resi sterili dalla siccità. Meccanismi da regolare con accordi commerciali – si tratta di un vero e proprio commercio del diritto di inquinare, una specie di commercio delle indulgenze – abbastanza complicati. Per farla breve, si tratta di soldi che gli inquinatori devono tirare fuori, con tasse e perdita di posti di lavoro e modificazioni dei consumi — cose sgradevolissime per la società globalizzata basata sulla legge fondamentale del capitalismo: la crescita del prodotto interno lordo, alla quale devono ubbidire i governanti per compiacere gli elettori che pensano ai soldi e agli affari.

Si capisce bene, quindi, perché il presidente Trump, con la sua abituale brutalità, ha detto che lui «deve» pensare agli interessi dei lavoratori, dei cittadini e dei finanzieri americani e non al futuro del pianeta Terra e alla sorte dei paesi desertificati o alluvionati. A dire la verità, probabilmente tutti i paesi industriali inquinatori pensano la stessa cosa pur dichiarando a gran voce la fedeltà agli accordi di Parigi. In un certo senso coloro a cui stesse a cuore davvero il futuro del pianeta dovrebbero essere riconoscenti a Trump per aver ricordato con chiarezza i veri caratteri dei rapporti fra natura, società ed economia. Ai tempi dei primi movimenti di contestazione «ecologica», all’inizio degli anni settanta, nel nome dell’ecologia sembrava possibile fermare lo sfruttamento della natura, rallentare i consumi superflui e i relativi sprechi e rifiuti, attenuare le disuguaglianze fra ricchi e poveri. Poi, col passare degli anni, i movimenti ambientalisti si sono appiattiti sui valori e le «leggi» dell’economia globalizzata. Molti sono diventati collaboratori dei governi nelle imprese apparentemente verdi, sostenibili, sono diventati sostenitori delle merci biocompatibili, delle fonti di energia rinnovabili (solare e eolico), in realtà occasioni di nuovi affari e commerci.

Trump ci ha ricordato che i problemi ambientali sono un nuovo volto della lotta di classe fra ricchi/inquinatori e poveri/inquinati e la loro soluzione – e la salvezza del pianeta – sono ottenibili soltanto recuperando la voglia di lottare per superare il capitalismo, per una maggiore giustizia sociale, premessa anche per la liberazione dalla violenza fra le persone, i paesi, le generazioni – oltre che verso la natura.

la Nuova Venezia, 28 giugno 2017 (m.p.r.)

Tre tronconi, per tre racconti diversi ma uniti da un solo filo: il fiume malato. Come tutti i fiumi che soffrono la mancanza d'acqua, l'incuria, il disinteresse pubblico e l'interesse privato. Il Piave, dalla sorgente alla foce, ha malattie diverse. A nord il prelievo della sua ricchezza per lo sfruttamento delle centraline. Nel medio Piave le escavazioni, e in generale l'insediamento agricolo poco rispettoso dell'equilibrio biologico. A sud, gli effetti nel mare che risale con il cuneo salino e il fenomeno delle alghe. In questa prima puntata, nella discesa dal Peralba al Montello, fino a Ponte della Priula, raccontiamo come lo sfruttamento delle centraline idroelettriche, che gli ambientalisti non esitano a definire macchine-bancomat per chi le possiede, stia trasformando il fiume e il flusso delle sue acque.


VIAGGIO DAL PERALBA AL MARE/1
Dal Peralba al Piave sono 220 chilometri, un bacino di oltre 4 mila chilometri quadrati. La Piave che nasce al confine tra Bellunese e Austria attraverso un pezzo di Veneto come un libro di storia, aspro e lacerante. Seducente e sacro nella memoria collettiva, riaccesa oggi a cento anni dalla battaglia finale della Grande Guerra. Ma di quel fiume resta poco. La natura e la mano dell'uomo ne ha trasformato l'aspetto e l'economia. La siccità, i mutamenti climatici. Certo. Ma soprattutto la rapacità degli interessi economici. Abbiamo disceso "la" Piave per raccontarla da dentro. Oggi la prima puntata.

Treviso. Ci pensa ogni tanto Giove Pluvio a dare l'impressione che la Piave (così si chiamano i fiumi-madre: al femminile) sia fatta d'acqua. In effetti l'enciclopedia Treccani dice che si tratta di un fiume, il quinto d'Italia, la cui "portata è soggetta a forti variazioni; si hanno infatti magre invernali, seguite da piene primaverili-estive che si esauriscono in agosto-settembre, per riprendere poi col periodo delle piogge autunnali". Sarebbe vero se le piene primaverili-estive non avessero lasciato posto a secche memorabili, l'ultima terminata due giorni fa.
La Piave nasce dal monte Peralba, al confine tra Bellunese e Austria. E di là del confine il Peralba si chiama Hockweissstein, ovvero Pietra Accucciata sull'Acqua, ma meglio sarebbe un'aggiunta riferita al prezioso liquido: "quando c'è...". La Piave viaggia, più o meno visibile, per 220 chilometri e vanta un bacino di 4 mila 100 chilometri quadrati, sbuca a Cortellazzo e da qualche anno è irriconoscibile. Lo pensano un sacco di associazioni di tutela e di comitati locali che si stanno battendo contro i motivi che stanno riducendo il fiume sacro alla Patria a una distesa di sassi sacra... nemmeno a chi lo priva dell'elemento indispensabile per essere chiamato fiume.
Tanto sta a cuore agli ambientalisti, che il circolo trevigiano di Legambiente si fregia, come secondo nome, di un tonante "Piavenire", lo presiede Fausto Pozzobon che, in questa prima puntata di un viaggio che abbiamo deciso di compiere lungo il celebrato confine tra Italia e Austria-Ungheria, ci aiuta a riassumere le malattie della Piave semplificando così: «A Nord ci pensano le centraline idroelettriche, vere e proprie macchinette stampasoldi per chi le pensa, le progetta e le posiziona o ne detiene i "diritti". Poi ci sono i consorzi di bonifica e l'agricoltura, cui importa poco o nulla dell'equilibrio biologico e faunistico del fiume, a vantaggio dei ricavi derivati da coltivazioni di pregio ma anche di basso profilo. La parte bassa del fiume, non godendo della spinta verso il basso della falda, è in balia di un mare che risale con le sue acque fino a impossessarsi del territorio, dettando perfino le colture: le uniche che sopportano l'acqua salsa, ovvero mais e soja. Danni, naturalmente, anche per la popolazione ittica, ridotta di varietà e indebolita nelle caratteristiche».
Parliamo dunque delle tre Piave. Partendo da quella più alta e quindi, in teoria, più incontaminata grazie alla fitta rete di afferenti i cui nomi sono Boite, Ansiei, Maè e Cordevole. La verità è che la prima penuria d'acqua è dovuta innanzitutto alle allora "necessarie" - e quindi già digerite - grandi centrali e oggi a una infinita rete di mini-centraline idroelettriche che fagocitano una parte del fiume e la trasformano in corrente "privata" e quindi appetitissima sul libero mercato. «Il tutto travestito da operazione meritoria e benedetto da un ipocrito finanziamento pubblico, perchè l'acqua dei fiumi è una fonte pulita e rinnovabile di energia».
Per avere smentita di questa giustificazione basta scorrere, passo passo, un cahier de doleance voluto dalle associazioni Acqua Bene Comune, Wwf Terre del Piave Belluno e Treviso, Italia Nostra sezione di Belluno e Comitato Peraltrestrade Dolomiti che s'intitola significamente Centraline, come distruggere l'ambiente per mettere le mani sul pubblico denaro. Il pubblico denaro è rappresentato dagli incentivi. Incentivi che non trovano riscontro nella convenienza, tant'è vero che (dati 2004) i 2034 mini-impianti idroelettrici in Italia producono appena 0,19 mtep rispetto a un consumo finale lordo di 118,6 mtep e un consumo finale di energia elettrica di 26,80.
«Incentivi che arrivano velocemente nelle mani di chi avvia l'apertura delle centraline. Il meccanismo è tale per cui non occorre nemmeno arrivare in fondo: dal progetto ai permessi, tutto regala valore a queste piccole e redditizie "imprese" che, non a caso, hanno tra i loro titolari tycoon dell'edilizia e consorzi pubblici, gruppi bancari e altri potenti economici - svela Lucia Ruffato, ex presidente di Piave Bene Comune, che di mestiere fa l'inferimera, ma ama anche occuparsi della salute della sua "fiuma-mamma" e aggiunge - non a caso noi le chiamiamo centraline-bancomat: a seconda del grado di avanzamento del progetto, crescono di valore in modo esponenziale».
«In genere queste piccole centraline arrivano buone ultime, quando sui fiumi afferenti del Piave sono già piazzate le loro sorelle maggiori e, magari, resta libero il tratto iniziale, più bello a vedersi e più certo e puro nelle acque, nella presenza di animali e di flora e quindi più a rischio di contaminazione o cancellazione. Queste, che tecnicamente si chiamano "derivazioni", consistono in un invaso, una conduttura e una turbina. Oppure è la conduttura stessa, che all'interno nasconde una struttura elicoidale che gira su se stessa e produce energia, a fare la parte "produttiva"».
Lucia e i suoi amici, non si lasciano però trarre in inganno da questa missione ecologica. E snocciolano i nomi e i numeri: Cismon, 100%; Ansiei, 82%; Maé, 84%; Boite, 62%; Cordevole, 91%; Biois, 100%; Pettorina, oltre il 100%. I nomi sono quelli di corsi d'acqua del Bellunese, e fanno parte del bacino del Piave, ne costituiscono insomma le acque al di là della sorgente. I secondi rappresentano un "indice di sfruttamento"; dettagliano, insomma, in che misura la loro portata verrebbe intaccata se venissero realizzate tutte le nuove centrali idroelettriche per le quali è stata richiesta l'autorizzazione.
«Sono 220 i corsi d'acqua censiti in Provincia, e ben 198 sono già 'derivati' - spiega l'infermiera-ecologista di Forni di Zoldo -. Dal 2004 ad oggi sono state presentate ben 200 domande per il rilascio di nuove concessioni -aggiunge-: questo non significa che verranno realizzati duecento impianti idroelettrici. Sul Boite, ad esempio, ci sono ben dieci progetti in concorrenza, e la situazione è fuori controllo. Sono comunque 105 le centraline che potrebbero essere autorizzate».
Sua la "mappa del rischio idroelettrico" che si può scaricare dal sito. «Di fronte alla nostra richiesta, la Regione Veneto ha risposto che non poteva elaborare i dati, e così la mappa l'abbiamo costruita da soli», aggiunge in modo significativo; In quanto presidente del Comitato, è sua anche la firma in calce alla "Denuncia alla Commissione delle Comunità europee" nei confronti dello Stato italiano, della Regione Veneto, della Provincia di Belluno e dell'Autorità di bacino dei fiumi dell'alto Adriatico, inoltrata a Bruxelles nel giugno del 2013 per contestare la violazione di una serie di direttive, tra cui la 2000/60, la "Direttiva quadro acque", la 2011/92, relativa alla valutazione dell'impatto ambientale dei progetti, e la 92/43, quella sulla conservazione degli habitat naturali.
«Le nuove norme sono sempre fatte a concessioni rilasciate e quindi risultano coprire le spalle ai soliti noti che hanno aperto la strada e non vogliono concorrenza». Tutto questo riguarda anche la Marca? «E come no - sono molti coloro che, nei fiumi e nei canali irrigui di pianura, stanno tentando la speculazione delle centraline-bancomat. Lo fanno anche i consorzi irrigui, tanto per essere chiari. La notizia di una centralina (con cementificazione relativa) nella periferia Nord di Treviso è stata scritta da poco, mentre altri mini impianti, ad esempio sul Meschio, sono noti da tempo. Quelle acque "flebili" con cui facciamo i conti d'estate, potrebbero venire usate ulteriormente e disperse nell'aria e nel terreno, anche se l'assessore regionale Bottacin ci tiene a sottolineare che l'acqua non "può essere mangiata" e quindi - a suo giudizio - rimane in circolazione. Di certo non si vede, sennò i torrenti sarebbero rigogliosi e traboccanti e la Piave non avrebbe il problema della difesa del "minimo flusso vitale", che poi è il quantitativo medio d'acqua (in transito al secondo) necessario per tenere in vita il fiume e il suo habitat. Il risultato è un fiume depauperato, rappresentato visivamente, sempre più spesso, da dune di sassi, ghiaia e sabbia, con poche concessioni al verde e all'azzurro.
Siamo scesi fino al Montello e fino al Ponte della Priula. Qui comincia un'altra storia. La seconda Piave, insomma.

Continua il lavoro su due fronti dell'associazione "Poveglia per tutti", con il demanio per definire i termini per la concessione, e sul campo con azioni concrete per rendere fruibile un bene comune per anni in abbandono. la Nuova Venezia, 27 giugno 2017 (m.p.r.) con riferimenti

Venezia. Nonostante il brutto tempo, la "Sagràanomala", la festa organizzata dall'associazione "Poveglia per tutti", con la collaborazione quest'anno di una trentina di altre realtà veneziane, è andata molto bene. Oltre ai laboratori, ai giochi e al momento di convivialità, c'è stata l'assemblea rivolta ai soci dove si è letta la bozza da presentare al Demanio per chiedere l'utilizzo a tempo determinato dell'isola.

«Finalmente il direttore attuale del Demanio Dario Di Girolamo» ha detto Lorenzo Pesola, uno dei portavoce «ha dimostrato avere un atteggiamento più pragmatico rispetto ai suoi due vice e ci sono molte possibilità che finalmente l'associazione possa siglare un accordo al fine di utilizzare i soldi che da anni sono pronti per i primi interventi». Entro l'estate si dovrebbe infatti avere una risposta del demanio e, a quel punto, si potrebbe partire utilizzando i soldi raccolti durante la colletta: «Abbiamo raccolto circa quaranta sacchi di spazzatura» conclude Pesola «ma l'abbiamo trovata meglio dell'anno scorso, forse perché la segnaletica che avevamo messo e i sentieri che avevamo curato, hanno trasmesso il fatto che c'è qualcuno che se ne prende cura». I soldi servirebbero per fare lavori di manutenzione: la realizzazione di un pontone, una passerella e un sistema di accesso anche per i diversamente abili.
La giornata ha visto la partecipazione di circa 400 persone che, quando è piovuto, si sono rifugiate sotto la cavana, attendendo che smettesse. La protezione civile di Pellestrina ha offerto un grande supporto nell'organizzazione, ma tutto è filato per il meglio e, dopo il concerto serale, le persone hanno salutato l'isola e sono tornate a casa. (v.m.)
Riferimenti

Si veda su eddyburg la nota Poveglia per tutti: una ricchezza da non perdere e il dossier realizzato dall'associazione "Poveglia per tutti" per «far conoscere le vicende attuali dell’isola veneziana di Poveglia, che l’Agenzia del Demanio ha inserito tra i beni dello Stato da dismettere per essere dati in concessione o venduti a privati». In questo sito trovate numerosi articoli sulle vicende recenti dell'isola: basta che scriviate "Poveglia" sulla casella sensibile in cima a ogni pagina.

La quantità e la natura dei reati per i quali il discusso personaggio, oggi sindaco di Milano, è indagato richiederebbero una discussione più ampia sulla città giannibarbacetto.it, 24 giugno 2017, con postilla (m.c.g.)

La candelina del primo anno da sindaco di Giuseppe Sala, a palazzo Marino, è stata spenta dal ventaccio soffiato dal palazzo di Giustizia. La Procura generale ha chiuso l’indagine sul più grande appalto Expo, quello della “piastra”, e ha comunicato a Sala di essere indagato non solo per falso ideologico e materiale, ma anche per turbativa d’asta: ha falsificato la data di nomina di due commissari di gara; e ha condotto in modo irregolare l’appalto per gli alberi dell’esposizione universale, alla fine pagati quasi il triplo del loro valore.

C’è voluta la Procura generale per riuscire a riscrivere la storia della “piastra” Expo, un appalto da 272 milioni di euro per preparare la base su cui impiantare tutta l’esposizione. La Procura di Edmondo Bruti Liberati (nel 2014 in guerra con il suo vice Alfredo Robledo) aveva alla fine chiesto di riporre tutto in archivio. Ma ora il sostituto procuratore generale Felice Isnardi, che aveva avocato le indagini sostituendosi alla Procura, avvisa otto persone e due aziende che l’inchiesta è conclusa e si prepara a chiedere i rinvii a giudizio. Scrive una storia che si dipana tra gli uffici Expo sopra il Piccolo Teatro e l’area dell’esposizione a Rho, ma che arriva fino all’abitazione privata a Brera di Sala, allora amministratore delegato e commissario Expo e oggi sindaco di Milano.

Tutto comincia nel 2012 nella sede di Mm, la società d’ingegneria che insieme a Expo spa prepara il progetto esecutivo della “piastra”. Un dipendente di Mm, l’architetto Dario Comini (già condannato in altre indagini Expo e solo omonimo di un grande barman milanese che realizza ottimi cocktail), estrae dai computer dell’ufficio i documenti sul progetto esecutivo, ancora segreti, e li porta a Piergiorgio Baita, il numero uno della Mantovani, l’impresa già coinvolta nelle indagini sul Mose di Venezia.

Poi lo incontra, per spiegargli per bene, punto per punto, come fosse un personal trainer, il progetto e i suoi problemi. Forte di questa formidabile preparazione atletica, Baita partecipa alla gara e nell’agosto 2012 sbaraglia i concorrenti. Presenta un’offerta tecnica che risulta prima per punteggio qualitativo (46,8 punti su 60) e un’offerta economica prima per ribasso (148,9 milioni su 272, il 41,8 per cento). Comini (l’architetto, non il barman) viene premiato con 30 mila euro mascherati da incarico professionale (inesistente).

Ma intanto era scoppiato il caso della commissione giudicatrice della gara: Sala scopre, dopo che la commissione si è già riunita una prima volta il 18 maggio 2012, che due commissari sono incompatibili. Rischia di saltare tutto. Allora fa carte false. Firma tre atti che annullano gli atti precedenti e aggiungono due commissari “supplenti”, che poi sostituiscono i due incompatibili: li firma il 31 maggio 2012, ma la data sugli atti è 17 maggio. Li firma nella sua casa di Brera, dove gli hanno mandato i documenti.

Poi, nel luglio 2012, la commissione proclama il vincitore. Scoppia il finimondo: a vincere l’appalto doveva essere il costruttore Paolo Pizzarotti, ne erano convinti il presidente della Regione Roberto Formigoni e il suo fedelissimo Antonio Rognoni, numero uno di Infrastrutture Lombarde, gran regista degli appalti lombardi (poi sarà arrestato per altre indagini). E invece, grazie a Comini, stravince la Mantovani. Da dove spunta questo Baita? Rognoni e i suoi cercano di convincerlo a farsi da parte lasciando il posto al secondo classificato (Pizzarotti appunto). Cercano di invalidare la gara. Baita non molla. Allora Pizzarotti stringe con lui un accordo: lo convince a non fare ricorso, nel caso risultasse escluso da una “verifica di congruità” della sua offerta; e in cambio offre di fare a metà, tra Pizzarotti spa e Mantovani spa, dei 50 milioni di differenza tra le due offerte. Ma la verifica poi non viene fatta, perché l’offerta della Mantovani è ai limiti, ma regolare.

Allora Baita viene vessato con richieste aggiuntive (e non previste dal bando): raddoppio della fideiussione assicurativa, limitazione dei subappalti. Baita ingoia. Intanto però ha ingaggiato Angelo Paris, braccio destro di Sala a Expo e rup (responsabile unico del procedimento) della “piastra”, che gli racconta in diretta tutto quello che succede nella sala di comando dell’esposizione. Lo aiuta a far approvare un “premio di accelerazione” (30 milioni) e una ristrutturazione del contratto (55 milioni). Ma nel maggio 2014 Paris viene arrestato per un’altra indagine su Expo e il suo “lavoro” s’interrompe.

Intanto Sala è alle prese con un’altra grana: quella degli alberi di Expo. La fornitura delle 6 mila piante è dentro l’appalto della “piastra”. Ma “esponenti politici della Regione Lombardia” (prevedibilmente i ciellini di Formigoni e Rognoni) vogliono coinvolgere l’Associazione lombarda florovivaisti. È già pronta a scattare la ditta Peverelli, con il sostegno di uno sponsor, la Sesto Immobiliare di Davide Bizzi, che era in attesa di realizzare il progetto di “Città della salute” sull’area Falck di Sesto San Giovanni. Sala accetta: “Senza un provvedimento formale, dispone lo stralcio dal bando” della fornitura di alberi, del valore di circa 5 milioni di euro. L’importo non viene scorporato dai 272 milioni della “piastra”, ma viene “artificiosamente spalmato sulle altre lavorazioni allo scopo di mantenere inalterato il valore della base d’asta”. Viene “omesso di predisporre un nuovo bando di prequalifica” a cui avrebbero potuto partecipare altre imprese e “già dal 15 marzo 2012” viene “individuato l’affidatario della fornitura nella ditta Peverelli in associazione con uno sponsor”. Ecco dunque scattare per Sala la nuova accusa di turbativa d’asta. Poi però la triangolazione non riesce, Bizzi si sfila e Peverelli si ritira. Paris allora “concorda con la Mantovani l’affidamento diretto” della fornitura di alberi, per 4,3 milioni di euro (716 euro a pianta). La Mantovani li compra in un vivaio a 1,6 milioni (266 euro a pianta).

Nell’indagine che la Procura di Milano voleva archiviare, la Procura generale ha individuato ben 12 ipotesi di reato. Una corruzione (Comini e Baita), tre turbative d’asta (Sala, Rognoni, Perez, Comini, Baita, Morbiolo), una ricettazione (Baita), tre abusi d’ufficio (Paris), un falso in atto pubblico (Sala e Paris), una intrusione in illecita in sistemi informatici (Comini), una rivelazione di segreti d’ufficio (Comini), una omessa denuncia (Paris). Ora gli indagati potranno replicare. Poi arriveranno le richieste di rinvio a giudizio.

postilla

Al di là delle effettive responsabilità penali che spetterà alla magistratura valutare, molti avevano ritenuto che quella di Sala fosse una candidatura inopportuna. In questo clima di crescente delegittimazione, sarebbe comunque doverosa una pausa di riflessione da parte del governo locale sui sedicenti grandi progetti di rigenerazione in discussione: in primis sugli Scali Ferroviari, ma anche sul riuso delle aree exEXPO e sul futuro di Città degli Studi (m.c.g
.)

la Repubblica, 24 giugno 2017 (m.p.r.)

Sempre meno acqua e sempre più sprechi. I ricercatori del Cnr-Isafom (Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo) prevedono che il caldo di quest’anno non sarà un caso sporadico e potrebbe durare, come accaduto ciclicamente 1000 e 2000 anni fa, per circa 150 anni. «Occorre quindi intervenire al più presto per contrastare gli effetti negativi sulla disponibilità delle risorse idriche», dice la ricercatrice Silvana Pagliuca. In pratica, bisogna migliorare i sistemi di raccolta e distribuzione, e invece in Italia l’acqua si spreca a più non posso.

Secondo i dati di Utilitalia, federazione di 500 imprese dell’acqua, dell’energia e dell’ambiente, la percentuale media di perdita nelle nostre condutture idriche è del 39 per cento, con i picchi del Centro e del Sud (46 e 45 per cento). Principali responsabili di questi sprechi sono i 425 mila chilometri della rete dei nostri acquedotti, strutture vecchie, che per il 60 per cento sono state posate oltre 30 anni fa e per il 25 per cento hanno addirittura oltre mezzo secolo. Vecchie e senza manutenzione, per di più, perché il tasso nazionale di rinnovo è pari a 3,8 metri di condotte per ogni chilometro di rete. Per sostituire, come sarebbe necessario, l’intera rete occorrerebbero oltre 250 anni.
L’Italia non sa trovare i soldi per ristrutturare la sua rete idrica, servirebbero 5 miliardi di investimenti per fare la manutenzione ordinaria e per renderla più moderna. Ma a fronte di una media europea di 80 euro di spesa per abitante, nel nostro Paese si destinano soltanto dai 32 ai 34 euro all’anno per garantire che i rubinetti non restino a secco. E comunque, non è soltanto questione di soldi. «Per gestire le acque manca un sistema integrato tra le varie regioni - sottolinea Pagliuca dell’Isafom - è un problema politico, di governance intelligente».
E c’entrano pure la mentalità e le responsabilità individuali, perché ciascuno di noi continua a pensare all’acqua come a una risorsa illimitata e invece, ammonisce il presidente di Utilitalia, Giovanni Valotti, «occorre pensare l’acqua in modo integrato. Il suo viaggio continua anche dopo l’uscita dai nostri rubinetti e non è un caso che le maggiori novità scientifiche e tecniche riguardino proprio i processi di depurazione e gli usi dell’acqua depurata. Con quello che nelle generazioni precedenti veniva buttato nei fiumi, oggi si producono prodotti per l’agricoltura, plastiche e anche combustibile per le auto». Molto potrebbe essere fatto negli usi quotidiani, suggerisce Utilitalia, usando miscelatori acqua/aria per risparmiare dai 6 agli 8 mila litri anno, riparando subito le perdite da water e rubinetti, usando gli elettrodomestici a pieno carico, o facendo attenzione a non buttare via l’acqua dopo l’uso, se si può ancora utilizzare».
Ma il problema, è il caso di dirlo, va risolto a monte: «Nel nostro Paese ci sono delle zone di primaria importanza per le risorse idriche - spiega Silvana Pagliuca - bisogna istituire dei “santuari” dell’acqua, da proteggere e nei quali sia interdetto qualsiasi tipo di attività che possa metterli in pericolo. E poi è inutile creare grandi invasi a valle per raccogliere le acque, con il problema di dover poi impiegare enormi risorse per riportare l’acqua in punti più elevati. Meglio disseminare i rilievi di piccoli laghetti artificiali, capaci di immagazzinare sia le piogge, sia le acque che scorrono. I piani idrici di alcune regioni conclude la ricercatrice li avevano già previsti, ma poi sono rimasti sulla carta».

Cambiamenti climatici, sprechi e infrastrutture colabrodo: la mancanza d'acqua investe nuove aree del paese ed è sempre più in anticipo. Articoli di Andrea Giambartolomei e Luca Mercalli. il Fatto Quotidiano, 23 giugno 2017 (p.d.)

L’ITALIA ASSETATA
SPRECA E ORA E'
IN EMERGENZA
di Andrea Gianbartolomei
Dopo un inverno con poche precipitazioni c’era da aspettarlo. Fiumi e laghi hanno meno acqua del solito e, come se non bastasse, a mettere in ginocchio alcune aree e l’agricoltura si aggiungono i venti caldi che arrivano dal deserto africano. È allarme siccità in Italia e per questo ieri il Consiglio dei ministri ha dichiarato lo stato di emergenza nelle province di Parma e Piacenza, che riceveranno 8,65 milioni di euro e avranno alcune deroghe alle norme per assicurare la fornitura di acqua potabile alla popolazione. Sulla stessa linea si muove la Regione Sardegna, che ieri ha chiesto al ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina di prendere provvedimenti anche per l’isola.
La siccità sta colpendo soprattutto “i bacini idrografici padano e delle Alpi orientali, nonché il lago di Bracciano nel Lazio e la Sardegna”, riferisce il ministero dell’Ambiente in una nota. Sarà monitorata la situazione del bacino dell’Adige, mentre sul bacino del Po i valori di portata sono nuovamente in calo. Sempre lungo il Po, all’altezza di Alessandria, i dati rivelano una situazione più grave. L’Arpa Piemonte, l’Agenzia regionale per la protezione ambientale, ha calcolato che il volume di acqua che passa ogni secondo all’idrometro di Isola Sant’Antonio (Alessandria) è sotto della media storica, quasi il 65 per cento in meno rispetto la media mensile del periodo 1995-2015. Anche le riserve idriche disponibili invasate risultano essere inferiori del 60 per cento rispetto alla capacità massima teorica complessiva. Di conseguenza, a Est di Alessandria, nella zona di Piacenza (dove il Po è sotto il livello medio di 1,5 metri), e poi di Parma, la situazione suscita una grande preoccupazione al punto di arrivare allo stato di emergenza. Le autobotti stanno già rifornendo di acqua potabile alcune zone, mentre la Coldiretti – che ha già stimato un miliardo di euro di danni a livello nazionale – sottolinea i rischi per questa zona dell’Emilia in cui si realizza il 35 per cento della produzione agricola nazionale, un quarto dei pomodori da conserva e molte eccellenze agroalimentari.
Non è l’unica zona a essere in allerta. Nell’Italia centrale “la situazione più delicata è certamente quella che coinvolge la città di Roma e i Comuni limitrofi, collegata, in particolare, con la condizione del lago di Bracciano”, continua la nota del ministero dell’Ambiente. Così nella Capitale la sindaca Virginia Raggi ha ordinato di limitare l’utilizzo di acqua nei giardini, orti e piscine e nel lavaggio delle auto per evitare sprechi.
Nel Lazio, per far fronte alla sofferenza idrica in alcuni Comuni, la Regione ha autorizzato un maggiore prelievo idrico alle sorgenti Pertuso. In Toscana, invece, è soprattutto il Grossetano a soffrire: nella piana è stata persa quasi la metà del raccolto di grano e senza piogge saranno a rischio pomodori, foraggi, viti e ulivi. Nonostante le difficoltà di molte aree, il ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti si auto-elogia: “La situazione idrica nazionale e la gestione pro attiva che della stessa stanno facendo gli Osservatori distrettuali ci conferma, ancora una volta, la lungimiranza dell’azione intrapresa da questo ministero, che ha creato, in tempi record, su tutta Italia, tali Organismi di gestione partecipata delle risorse idriche”.
Non sono d’accordo molti ambientalisti. Ad esempio il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli ricorda i mancati investimenti nel miglioramento delle reti idriche: “28 milioni di metri cubi di acqua potabile che si perdono quotidianamente a causa principalmente della fatiscenza di acquedotti che, sommati, portano all’incredibile somma di oltre un miliardo di metri cubi all’anno dispersi”. La rete degli acquedotti è un colabrodo: va perso circa il 40 per cento di acqua e le perdite maggiori si hanno al Sud, sostiene l’Istat in un rapporto di poche settimane fa. Per adeguare la rete idrica ci vorrebbero cinque miliardi,stimava nel maggio 2016 Utilitalia, federazione delle imprese di acqua, energia, ambiente. La media di investimento, ha osservato l’organizzazione, è di 34 euro per abitante all’anno, contro una media europea che viaggia tra gli 80 e i 130 euro.

“SERVE UN PATTO MONDIALE,
MA PER TRUMP SONO FROTTOLE”
Andrea Gianbartolomei intervista Luca Mercalli
«I casi di siccità degli ultimi anni sono qualcosa di inedito, mai verificato nel passato”. Il meteorologo Luca Mercalli non è sorpreso ma “la situazione è grave».
Era prevedibile?
Sicuramente perché non c’è stata pioggia e neve durante l’inverno almeno nelle due zone critiche del Nord, che sono il Veneto e l’Emilia. Da un paio di mesi venivano previsti questi problemi.
C’era qualche modo per prevenire i disagi?
L’acqua se non c’è non si può creare. Le autorità del bacino del Po, allertate da tempo, avranno fatto le loro conferenze per decidere gli usi prioritari dell’acqua. Al di là di fogli e carte bollate, se l’acqua non c’è non può essere inventata.
E i ghiacciai montani non possono aiutare?
Di solito ci danno acqua nella seconda metà dell’estate. In genere nella prima parte dell’estate sono coperti da neve, che con queste temperature sta andando via molto rapidamente e mette a repentaglio il contributo dei ghiacciai. Invece sulle Dolomiti non è nevicato nell’inverno e la situazione è peggiore. Lì i ghiacciai cominciano a scoprirsi.
Si ritireranno ancora?
Quello accade tutti gli anni e un’ondata di calore come questa accelera un pochino il fenomeno.
Secondo lei si sta facendo dell’allarmismo sui media?
Penso che manchi un collegamento tra le emergenze come questa e il cambiamento del paradigma economico. Quando passa l’emergenza nessuno si dà da fare per dei cambiamenti strutturali. Bisognerebbe seguire quanto scritto dal Papa nell’enciclica Laudato si’o seguire l’accordo di Parigi, che per Trump sono tutte frottole.
Con questo caldo dovremmo rinunciare a ventilatori e condizionatori per rispettare l’ambiente?
Con questo caldo il condizionatore diventa una necessità. Quello che si può fare è l’isolamento termico alla casa, qualcosa di strutturale.
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