Forse un giorno a Venezia non si autorizzeranno altre trasformazioni d'uso alberghiero. Comincia la corsa ad attrezzare il resto del territorio: la terraferma e le isole. la Nuova Venezia on line 22 luglio 2017
Lido. Un Lido a 5 stelle. È questo il futuro - solo turistico - dell’isola secondo il masterplan predisposto dall’Agenzia Sviluppo Venezia (voluta dal sindaco proprio per attrarre nuovi capitali su Venezia) e proposto ieri agli investitori che sono accorsi in massa nella sede del Casinò di Ca’ Vendramin Calergi.
Potenziali investitori.
Una fila di potenziali investitori. Non c’erano solo Marco Sangiorgio, direttore generale di Cassa Depositi e Prestiti - che ha in corso con Club Mediterranée e Th Resorts il progetto per la trasformazione dell’ex Ospedale al Mare in un resort di lusso con area benessere - e Matteo Ravà, manager di Coima, che si sta occupando della prossima ristrutturazione degli hotel Excelsior e Des Bains (ne riferiamo a parte). Ma c’era, ad esempio Paolo Giacobbo, del Gruppo Marzotto di Vicenza, che punta a realizzare un resort di lusso da 120 camere nell’ex Colonia Padova agli Alberoni, anche se non ha ancora ottenuto il via libera per la realizzazione di una piscina al servizio del complesso. E Pietro Mazzi e Marco Recalcati alla guida dei settori Real Estate di due colossi bancari come Banca Intesa e Unicredit. Ma anche Vieri Nissim, advisor italiano del Fondo Yida cinese, che ha già messo gli occhi in Italia su Esselunga. O Mauro Sbroggiò, amministratore delegato della Finint di Enrico Marchi.
L'affare.
Perché tutti hanno fiutato l’affare e capito che il Lido è attualmente sottofinanziato e sottovalutato e con la ripresa immobiliare in arrivo e la vicinanza con la Venezia storica, ormai satura di posti-letto alberghieri, può diventare un’opportunità di investimento per un nuovo turismo alberghiero di fascia alta, quello su cui stanno investendo Cassa Depositi e Prestiti e Coima. Una lista di “contenitori” a uso alberghiero. Più che un piano strategico di sviluppo dell’isola, quello che il presidente dell’Agenzia Sviluppo Venezia Beniamino Piro ha presentato agli investitori - con il prosindaco del Lido Paolo Romor - è stata una visione “a volo d’uccello” dei possibili contenitori a uso alberghiero dell’isola, insieme a un po’ di numeri, impietosi, sulla situazione attuale.
«Il Lido ha circa 540 mila presenze alberghiere annue - ha detto - poco più di quelle di Eraclea e le stesse degli anni Cinquanta quando Cavallino Treporti supera i 6 milioni, Jesolo è oltre i 5 milioni e 300 mila e Caorle un milione più sotto. Offre poco più di 4 mila posti-letto alberghieri - con un solo albergo a cinque stelle oggi funzionante- contro i quasi 9 mila di Eraclea, o gli oltre 60 mila di Jesolo o i 72 mila di Cavallino-Treporti. Per questo bisogna puntare su un nuovo sviluppo alberghiero di qualità, anche per il Lido, che crei nuovi posti di lavoro. Nel masteplan abbiamo reinserito anche la grande darsena di San Nicolò che voleva realizzare EstCapital accanto all’ex Ospedale al Mare. Il progetto c’è già per chi volesse investire. Pensiamo ad esempio che l’area balneare vicino via Klinger potrebbe diventare un grande spazio riservato al divertimento e allo svago giovanile, concentrando qui locali e attività».
Distretto sanitario spostato alla Favorita
La riunione è servita anche ad aggiornare lo stato di avanzamento del masterplan dell’ex Ospedale al Mare che sarà presentato a settembre da Cassa Depositi, con Club Mediterranée e Th Resorts. Presente anche il direttore generale dell’Asl Serenissima Giuseppe Dal Ben, si è ragionato anche di un ridimensionamento o di un possibile spostamento del Distretto sanitario del Lido dal Monoblocco nell’area della Favorita, attualmente libera. I servizi attuali saranno mantenuti ma Dal Ben ha chiarito che, essendo già l’Ospedale Civile di Venezia sottoutilizzato, non è possibile pensare a nuovi investimenti di carattere sanitario.
Nel progetto in corso per l’ex Ospedale al Mare, Club Méd si occuperà in particolare del nuovo resort del lusso, mentre Th Resorts dovrebbe curare anche gli aspetti dell’area benessere, compreso il ritorno delle sabbiature, care al sindaco Luigi Brugnaro. Da capire anche quali degli ex padiglioni sanitari dell’Ospedale al Mare verranno mantenuti e ristrutturati e quali abbattuti, anche perché fatiscenti. Su questo, dopo la presentazione del masterplan, si aprirà la delicata trattativa con la Soprintendenza veneziana, tenendo però anche conto del fatto che esiste già un progetto residenziale-alberghiero per l’area presentato da EstCapital e approvato anche dall’organo di tutela, che può rappresentare un punto di partenza.
«Chiesto il fallimento per l'autostrada più cara d'Italia. Un capriccio politico costato 5 miliardi ai contribuenti. Mentre i finanziatori privati sono svaniti nel nulla». L'Espresso, 23 luglio 2017 (c.m.c)
Le infrastrutture sono un sottogenere della commedia all'italiana. Si ride con l'amaro in bocca da nord a sud. Non si è ancora conclusa la saga ventennale della Salerno-Reggio Calabria che la scena si sposta verso le brume padane con un micidiale trittico di fallimenti: Brebemi, Teem e Pedemontana lombarda, l'autostrada pubblica più cara della storia d'Italia al costo, per ora, di 57,8 milioni di euro al chilometro in un territorio molto urbanizzato ma non particolarmente complesso sotto il profilo ingegneristico.
Per la Pedemontana la parola fallimento va intesa in ogni senso, incluso quello giuridico. La Procura di Milano ha chiesto all'azionista di maggioranza, la Regione, di staccare la spina su un'iniziativa che doveva vedere i privati in prima fila e che è arrivata a un conto da 5 miliardi di euro, tutti a carico del contribuente. Da lunedì 24 luglio, i pedemontani presenteranno le loro controdeduzioni e, s'intende, respingeranno ogni addebito a differenza del contribuente citato sopra che sarà tosato nel più puro stile Roma ladrona dalle addizionali del governatore leghista Roberto Maroni.
Dietro il processo c'è molto di più di una questione contabile. Da Varese alla bergamasca, da Como alla bassa Brianza, la Pedemontana attraversa il cuore e la pancia della Padania. Il varesino Maroni, avviato verso il referendum sull'autonomia del 22 ottobre, ha detto di volersi ricandidare in febbraio per potere inaugurare il tracciato completo nel 2021. Non è colpa sua se i soldi sono finiti, i finanziatori privati sono svaniti nel nulla e l'autostrada non ha aperto per Expo 2015. Non è colpa sua se la gente preferisce ingorgare le vecchie strade pur di non pagare.
In realtà, anche se le previsioni di traffico fossero state corrette, un investitore privato non si sarebbe mai infilato in un tunnel di costi infiniti. Per la Pedemontana si sono fatte le cose in grande. Non solo gallerie, ma anche trincee per fare scorrere il traffico al di sotto del livello della campagna in modo ecocompatibile, 22 mila espropri a prezzi di mercato e tante opere compensative a beneficio dei sindaci nei luoghi di interferenza del tracciato con i centri urbani.
Fin qui c'è poco da ridere, si dirà. Giusto. Allora incominciamo con lo spettacolo. La Pedemontana lombarda è la prima autostrada italiana che applica il sistema free-flow. Niente caselli. Basta il telepass, il conto targa o l'app.
Sulle tangenziali di Varese e di Como non si sarebbe dovuto pagare pedaggio. Non è stato possibile mantenere l'impegno se non nell'anno semigiubilare dell'Expo. Con le elezioni in arrivo a febbraio dell'anno prossimo, Maroni si è impegnato a ripristinare i passaggi gratuiti sulle due tangenziali, non si capisce in base a quale piano di sostenibilità finanziaria.
La cosa certa, per il momento, è che chiunque prenda i 30 chilometri della Pedemontana paga la tariffa più alta del territorio nazionale: 21 centesimi di euro al chilometro per le automobili. La costosissima e desertificata Brebemi ne costa 18, la Teem (tangenziale esterna est Milano) ne chiede 19. Sulla Milano-Roma si paga un terzo (7 centesimi al chilometro).
Questo ha comportato un livello di traffico giornaliero pari a metà del previsto (31 mila veicoli invece di 62 mila). Circa il 25 per cento non paga. Le targhe svizzere guidano la lista degli evasori (2 milioni di veicoli complessivi). Ma niente paura. La Pedemontana ha concluso un accordo con il Touring club del Canton Ticino e, a beneficio di chi scansa la dogana di Ponte Chiasso e preferisce il valico di Gaggiolo, ha piazzato una serie di cartelli per suscitare negli elvetici il desiderio di mettersi in regola. Altrimenti? Altrimenti ci arrabbiamo, avrebbe detto il compianto Bud Spencer. La Pedemontana ha annunciato un'azione di recupero pedaggi con la spedizione di 2 milioni di lettere ai furbetti che hanno tradotto l'espressione free-flow con "scorro gratis". Un quarto circa delle lettere è stato già inviato. Il che non significa che sia arrivato.
Lo scorso inverno poco dopo le ferie natalizie negli acquitrini intorno ad Albairate e a Rosate, paesi della cintura ovest milanese ancora verdi e ricchi di boschi, sono stati trovati 40 chilogrammi di solleciti che la Pedemontana aveva affidato alla società di spedizioni palermitana Smmart post. A 10 grammi a lettera fanno 4000 buste. La Pedemontana ha immediatamente rescisso il contratto con Smmart post e ha annunciato un'azione di risarcimento. Resta il fatto che il recupero crediti appare problematico. La concessionaria ha chiuso il 2016 con 24 milioni di incassi dal free-flow contro 16,4 milioni di costi di gestione, metà dei quali vengono dal costo dei 117 dipendenti (5 per chilometro aperto al traffico), più 10 milioni di oneri finanziari dovuti ai prestiti dei soci di minoranza Intesa e Ubi, per un risultato di bilancio negativo per 7,8 milioni (-22,6 milioni nel 2015).
Se Maroni manterrà la promessa di rendere gratuite le due tangenziali di Varese e Como, dove passano 17 mila veicoli al giorno, rimarranno solo i 14 mila dell'A36, che porta da Lomazzo a Cassano Magnago, il paese di Umberto Bossi.
Questi dati sono la pietra tombale per ogni ipotesi di ingresso da parte di quei capitali privati che, nello schema di project financing iniziale, dovevano farsi carico dei due terzi dell'opera.
La Caporetto di Beniamino Gavio sulla Brebemi è un dissuasore potente ma va detto che nella Pedemontana non ci ha mai creduto nessun imprenditore, salvo le banche garantite dai 450 milioni di euro di fondo di garanzia regionale. L'aumento di capitale da 267 milioni di euro deciso nel 2013, all'inizio della legislatura di Maroni, è stato sottoscritto soltanto dalla Regione (32 milioni). Per i rimanenti 235 milioni di euro si è passati da una proroga all'altra, per un totale di sei. L'ultimo closing ha come limite il 31 gennaio 2018, a ridosso delle regionali dove Maroni potrebbe affrontare il sindaco di Bergamo Giorgio Gori. Al di là degli usi elettorali della nuova autostrada, un tempo concepita proprio per unire l'aeroporto varesotto di Malpensa con quello bergamasco di Orio, la Pedemontana è una coproduzione dell'intero schieramento politico. Fra le poche eccezioni figurano i grillini e Giuliano Pisapia, che, da sindaco di Milano, nel 2014 ebbe il suo momento di rivolta in stile fantozziano («la Pedemontana lombarda è una cagata pazzesca») prima di essere crocifisso in sala mensa dai leghisti, dai formigoniani al crepuscolo e dal segretario regionale democrat, il varesino Alessandro Alfieri, che oggi si concede qualche pacata forma di antagonismo («la Pedemontana è il simbolo del fallimento di Maroni»).
Anche Antonio Di Pietro si è lasciato andare a qualche critica. Il fondatore dell'Idv è presente nella sceneggiatura del cinepanettone pedemontano con un doppio ruolo. Venti anni fa era ministro delle Infrastrutture, entusiasta alla presentazione del progetto a fianco del plenipotenziario formigoniano Raffaele Cattaneo. Più di recente è stato presidente di Pedemontana benché per un solo anno, dal 2016 al 2017 dopo l'ex Poste Massimo Sarmi. Dallo scorso giugno l'ex pm di Mani Pulite ha ceduto il volante definendo l'opera "faraonica" ma ormai inevitabile. Il suo posto è stato preso da un altro presidente che alla Procura di Milano si muove come a casa sua. È Federico Maurizio D'Andrea, ex ufficiale della Guardia di Finanza a fianco di Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, riconvertitosi in manager (Telecom, Olivetti, Sogei, organo di vigilanza del Sole 24 ore) e proprietario di una piccola quota nella Banca Galileo, istituto di credito a diffusione locale finanziato da imprenditori mantovani e bergamaschi.
Di Pietro e D'Andrea sono uniti nel contestare la linea dei magistrati Paolo Filippini, Giovanni Polizzi e Roberto Pellicano (da luglio capo a Cremona), gli stessi che hanno in mano l'inchiesta Infront. Secondo il management della Pedemontana, la continuità aziendale della società concessionaria non si è mai interrotta. Bisogna solo trovare i 3 miliardi circa che servono a completare l'opera. L'eutanasia suggerita dalla Procura sarebbe ad alto rischio. Nelle valutazioni di Di Pietro, uno stop costerebbe 1 miliardo di euro in contenziosi. È un po' quello che si sente dire periodicamente del ponte sullo Stretto.
Come per il ponte fra Sicilia e continente, anche la catastrofe pedemontana è bipartisan. A destra c'è stato un tempo in cui ci si disputava il merito di avere portato a casa l'opera fra la coppia forzista-ciellina Formigoni-Cattaneo e il binomio leghista formato dall'ex viceministro alle Infrastrutture, il lecchese Roberto Castelli, e dallo stesso Maroni.
Ma hanno tifato per l'infrastruttura Antonio Bargone, sottosegretario dalemiano nel 1999 con Nerio Nesi ministro, il bersaniano Filippo Penati e il suo successore berlusconiano Guido Podestà, quando la Provincia di Milano controllava la società prima di cedere alla Regione la Milano-Serravalle. Né bisogna scordare il ruolo giocato dal ministero delle Infrastrutture con Pietro Lunardi e Altero Matteoli. Il ministro in carica, Graziano Delrio, all'inizio di luglio ha perso la pazienza. «Lo Stato non può essere un bancomat», ha detto davanti ai sindaci della provincia di Monza e Brianza. «Se l'opera è stata pensata con dimensioni di traffico sbagliate, noi o i cittadini non possiamo metterci i soldi. Ne abbiamo già stanziati tanti: 1,2 miliardi più 800 milioni di defiscalizzazione. Cerchiamo di andare avanti con quello che c'è».
«È la Lombardia a essere stanca di fare da bancomat allo Stato» ha replicato l'assessore regionale ai trasporti Alessandro Sorte, lo stesso che voleva collegare l'aeroporto di Orio al Serio e il centro di Bergamo con una funivia. La verità è che la Pedemontana è una delle puntate dell'epopea del general contractor e riproduce, in piccolo ma non troppo, lo schema dell'alta velocità ferroviaria con un tocco di federalismo lumbard in più.
Per Delrio, nemico dichiarato del sistema del general contractor, è una nemesi gestire un'opera che non condivide nello schema e che ha all'origine il pasticcio chiamato Cal, l'ente concedente formato 50/50 da Anas e dalla Ilspa durante il regno di Antonio Rognoni, arrestato per gli appalti dell'Expo a marzo del 2014 e condannato in primo grado due anni dopo. Nemico di arbitrati e transazioni, Delrio deve accettare che l'impresa appaltatrice del lotto 2, austriaca Strabag, abbia ottenuto una revisione prezzi da 61 milioni di euro grazie a un accordo bonario fra gli avvocati Paolo Clarizia, Luigi Strano e Domenico Aiello, il legale di fiducia di Maroni. Proprio il professionista calabrese è tornato alle cronache per la parcella da 188 mila euro ottenuta nel processo della Regione contro l'ex governatore Formigoni e per la lombosciatalgia che ha causato una serie di rinvii al processo milanese contro Maroni per le nomine negli organismi dell'Expo. Da questo verdetto dipende il futuro politico del governatore. Il futuro della Pedemontana, invece, sembra già segnato. Un'incompiuta in più.
«I magistrati delle regioni più esposte agli scempi: “Punire gli abusivi fa perdere voti”. E spesso non si trovano ditte disposte a demolire». il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2017 (p.d.)
“Inefficienza”. “Collusioni”. “Inadeguatezza”. Qual è il vero ruolo della politica nel proliferare degli abusi edilizi e nell’incredibile lentezza che contraddistingue le demolizioni? FQ_L’inchiesta in questa quarta e ultima puntata sul fenomeno dell’abusivismo prova a guardare il fenomeno dalla prospettiva della magistratura. Qualche esempio. Se in Calabria, negli ultimi 25-30 anni, l’abusivismo è cresciuto in maniera così esponenziale è colpa dei Comuni. Sindaci, assessori e dirigenti degli uffici: sono loro i primi nemici della lotta all’abusivismo. A spiegarlo è il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Gaetano Paci. Che non ha dubbi: “Questo fenomeno, in realtà, è legato all’inefficienza, alla collusione e all’inadeguatezza degli uffici pubblici che nel corso degli anni non sono stati in grado di imporre il rispetto delle regole”. Insomma, tutto ruota attorno alla relazione tra abusivi e amministratori comunali, ed è proprio nelle pieghe di questo rapporto che si trovano le ragioni di un fenomeno dinanzi al quale, troppo spesso, piuttosto che pretendere il rispetto della legge, la politica e alcune istituzioni fanno spallucce.
Non vedo, non sento, non demolisco. Reggio Calabria, dal 2014 scoperte 700 sentenze mai eseguite
Paci cerca di spiegarlo in maniera semplice: “Diciamo che i Comuni raramente subiscono l’abusivismo edilizio. Il più delle volte semplicemente lo tollerano, non esercitando i controlli che dovrebbero esercitare”. Non si tratta di affermazioni di carattere generale. Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria va nel dettaglio: “Abbiamo verificato - spiega Paci - che immobili abusivi costruiti per fini industriali, a Bagnara Calabra come a Reggio, posti in una posizione visibile a tutti, sono stati utilizzati per anni, senza che nessuno mai svolgesse alcun controllo”. Non stiamo parlando della casetta per l’estate, ma di capannoni industriali, venuti su e utilizzati senza alcuna difficoltà. “È chiaro - continua Paci - che c’è una compiacenza, quantomeno degli uffici tecnici comunali e della polizia municipale, che sul territorio deve fare controlli, verificare e denunziare le situazioni di abuso”.
È da oltre un anno ormai che il procuratore Federico Cafiero De Raho ha affidato all’aggiunto Paci il compito di occuparsi dell’abusivismo in provincia di Reggio Calabria, dove le demolizioni sono praticamente nulle se si escludono, appunto, quelle disposte, negli ultimi mesi, dalla Procura in seguito alle sentenze definitive. Sulla sua scrivania c’è un report dettagliato sulle sentenze del Tribunale che ha disposto l’abbattimento di immobili abusivi: “Abbiamo verificato che, a partire dal settembre 2014, oltre 700 sentenze di demolizione passate in giudicato non erano mai state eseguite”. Mai eseguite. “Eppure, da un punto di vista generale - sottolinea Paci - i comuni non dovrebbero incontrare difficoltà. È vero che questa attività comporta delle spese, ma vengono sostenute da una legge dello Stato, che ha stanziato un fondo di 50 milioni di euro gestito dalla Cassa Depositi e Prestiti. All’amministrazione comunale non rimane altro che accedere a questo fondo, rivalendosi poi sul proprietario abusivo”. Questo però non avviene. E il motivo è semplice. La lotta all’abusivismo è impopolare. E non porta voti. Anzi, rischia di farteli perdere.
Con gli abbattimenti si perdono voti e consenso. E le imprese convocate dalle procure si rifiutano di demolire
“Demolire l’immobile di una persona che ha commesso un abuso edilizio - aggiunge il magistrato reggino - significa comunque inimicarsi per chi la dispone (soprattutto se è legato al territorio da un mandato di tipo politico-elettorale) quel tipo di elettore o addirittura quel tipo di elettorato”. Ecco perché, per la Procura, piuttosto che con i sindaci, è più facile lavorare con i commissari dei Comuni sciolti per mafia: “Loro non sono legati al territorio da un mandato di tipo politico-elettorale. Devono svolgere un’attività per il ripristino della legalità”.
Ma non si tratta dell’unica difficoltà. Paci descrive un vero e proprio percorso a ostacoli. Il motivo? Non è facile trovare la ditta che dovrà demolire. Non tutte le imprese che si iscrivono nella white-list delle prefetture, infatti, sono poi disposte ad effettuare le demolizioni: “Manifestano delle indisponibilità, talvolta allegando preventivi di spesa particolarmente onerosi. Altre volte ci sono dei rifiuti veri e propri, perché non vogliono impegnarsi nella demolizione di immobili costruiti abusivamente. Ecco - è lo sfogo del procuratore aggiunto - il nostro lavoro, almeno in questo settore, avviene in perfetta solitudine. Ed è osteggiato, neppure tanto velatamente, proprio da parte di chi dovrebbe sostenerlo”. E non esistono soltanto i furbetti convinti di farla franca. A volte c’è anche la criminalità organizzata: “Dentro questo fenomeno, chiaramente anche la ’ndrangheta ha avuto i suoi interessi e il suo tornaconto. Diverse famiglie mafiose, anche di un certo spessore, hanno operato con la compiacenza delle amministrazioni che dovevano controllarne e inibirne le manifestazioni criminali. Hanno realizzato immobili abusivi che poi, comunque, sono stati confiscati e diventati patrimonio dello Stato”. Dalla Calabria spostiamoci in Campania.
L’analisi del procuratore di Napoli. “In Campania amministrazioni compromesse con gli abusi”
Nella provincia di Napoli, dal 1991 al 2016, l’83 per cento dei comuni commissariati lo è anche per il diffuso abuso e la corruzione dell’edilizia: il 77 per cento a Caserta e l’81 per cento in tutta la Campania. Sempre a Napoli, negli ultimi 11 anni, su 16.837 ordinanze di demolizione ne sono state emesse solo il 4 per cento. E non soltanto perché possono compromettere il loro bacino elettorale.
Per il procuratore generale del tribunale di Napoli, Nunzio Fragliasso, la motivazione è che “spesso le amministrazioni comunali sono compromesse con gli abusi e anche per questo le pratiche rimangono inevase”. Il problema, come abbiamo visto, è complesso e riguarda anche le procedure che coinvolgono comuni e procure. I primi sono gli unici interlocutori con la Cassa Depositi e Prestiti per accedere ai fondi necessari per le demolizioni delle strutture abusive, possibilità che non hanno le procure che, anzi, denunciano la mancata presentazione, da parte dei comuni, delle domande di accesso ai fondi. E se non bastasse, la classe politica al Governo, annunciando di volerci mettere una pezza, presenta un decreto legge - presentato dal senatore di Ala, Ciro Falanga - che secondo i Verdi e le associazioni ambientaliste rischia di trasformarsi in un codono permanente.
In attesa di approvazione definitiva alla Camera, la proposta di legge stabilisce per le procure dei criteri di priorità per la demolizione: in cima alla lista ci sono gli immobili costruiti in aree demaniali, o in zone soggette a vincolo ambientale, paesaggistico, idrologico, archeologico o storico artistico. Poi quelli che costituiscono un pericolo per l’incolumità. Infine quelli in uso ai mafiosi. Ma il nodo centrale della questione sono gli “abusi di necessità” e, in questo caso, la legge stabilisce che avranno la priorità gli immobili di titolari appartenenti a nuclei familiari che dispongono di altre abitazioni, escludendo quelli che ne hanno una. Se questo è l’apporto della politica, ecco cosa ne pensa la magistratura che, nel marzo 2016, viene chiamata dal Governo a dire la sua sulla legge.
Durante l’audizione in commissione Giustizia,il procuratore generale della corte di Appello di Napoli, Luigi Riello, spiega: “Passare per i comuni non è producente, perché sono loro i veri dominus e le demolizioni sono iniziate grazie all’autorità giudiziaria”. Per Riello, il ddl Falanga comporterebbe “la proliferazione degli incidenti di esecuzione, mentre un procedimento dovrebbe essere rapido”. E sulla rapidità, il nostro sistema non è di certo un modello, visto che, nella maggior parte dei casi per i reati di abusivismo, non si arriva nemmeno al primo grado di giudizio. Mentre l’abbattimento è previsto solo con la certezza della pena. Anche se si dovesse arrivare alla condanna, subentra il problema dei fondi necessari per la demolizione, quindi la palla ritorna ai comuni, che il ddl lascia come unici interlocutori con la Cassa Depositi e Prestiti. E i comuni, per usare le parole del procuratore Fragliasso, spesso “sono latitanti e di regola non eseguono le ordinanze di demolizione”.
Da Marsala a Terrasini. Quell’emendamento M5S che può invertire la rotta
Leonardo Agate, scrivendo a red.inch.@ilfattoquotidiano.it, segnala il caso di Marsala: “Anche i sindaci siciliani avrebbero dovuto ingiungere la demolizione agli abusivi. A Marsala cominciarono nel 2012, e ne sono state abbattute, dagli stessi privati, o dal Comune per loro inerzia, poche decine su un totale di circa 400. Il ritmo delle demolizioni è di poche unità all’anno. La giustificazione accampata da sindaci e dirigenti comunali è che il bilancio non può sostenere la spesa delle demolizioni, che si aggira sui 10–20 mila euro per ciascuna, salvo abbattere il programma dei servizi essenziali. Giustificazione insostenibile: se il Comune demolisce, anticipa le spese della demolizione, che possono essere recuperate dall’abusivo con aggravio di spese, sanzioni e denuncia all’autorità penale. Se la procura della Repubblica iscrivesse i sindaci e i dirigenti comunali nel registro delle notizie di reato e proseguisse l’azione penale, si avvierebbero i processi nei riguardi degli inadempienti per le omissioni di atti di ufficio. Così si innesterebbe un processo virtuoso, perché gli abusivi demolirebbero dopo l’ingiunzione per non dovere pagare dopo un anno il doppio della spesa, e in ogni altro caso il Comune rientrerebbe in possesso delle spese fatte”. E in effetti, qualcosa si può fare, per obbligare i comuni ad eseguire le demolizioni. Per esempio, come accaduto a Terrasini, in provincia di Palermo, è possibile rimuovere i dirigenti che non adempiono ai loro doveri. E per farlo è sufficiente applicare una norma presentata dalla parlamentare del M5S Claudia Mannino.
Il punto di partenza è semplice: “I funzionari che non adempiono e rispettano i tempi previsti - spiega la deputata siciliana del M5S Claudia Mannino - sono suscettibili di causare un danno erariale”. Un anno dopo l’approvazione della sua norma Mannino è ritornata sul punto: “Ho presentato un esposto a tutte le procure siciliane, e a tutte le sedi regionali della Corte dei Conti, affinché si attivassero per far rispettare la norma e per evitare danni erariali agli enti locali”. E appena 5 giorni fa, nel comune di Terrasini,in provincia di Palermo,un dirigente comunale è stato temporaneamente rimosso dal suo incarico proprio perché - tra le altre contestazioni - ha tenuto “condotte omissive” che, oltre a determinare “un grave ritardo”, nei procedimenti che riguardano i “manufatti abusivi”, hanno provocato “un danno all’ente”.
«Da Brescia a Crotone ecco le bandiere nere su 15 mila siti da bonificare: 7.300 chilometri quadrati di morte». Vedrai che daranno il lavoro agli inquinatori, e pagheremo ancora una volta.il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2017 (p.d.)
Il sequestro degli stabilimenti Esso, Isab Nord e Isab Sud del polo petrolchimico di Siracusa è soltanto un granello di sabbia nei numeri devastanti dell’inquinamento italiano: un mostro da 250 miliardi di euro di danno con 15 mila siti da bonificare per 7.300 chilometri quadrati. La cifra di 250 miliardi è l’ammontare del danno ambientale che si ottiene considerando i costi delle bonifiche e l’ospedalizzazione di persone ammalate per colpa dell’inquinamento, considerando solo le aree in emergenza estrema, non tutte inserite nei Sin (siti d’interesse nazionale). Nelle cosiddette aree Sin, appunto, 44 territori da bandiera nera ambientale, il numero stimato di morti per inquinamento è di 10 mila. Poi c’è la direttiva europea 20 04/ 35/C e che applicherebbe il principio “chi inquina paga” ma che è lettera morta. Le bonifiche, in Italia, costano mediamente tra 450 mila e un milione di euro per ogni ettaro inquinato: dal 2002 al 2013 i fondi stanziati dallo Stato per le bonifiche sono stati 2,3 miliardi di euro, a cui vanno aggiunti 1,8 miliardi dei privati. Perché spesso, oltre alla prescrizione penale – che per reati ambientali ammontano a 80 mila casi tra il 2004 e il 2013 – c’è anche la prescrizione economica, nel senso che il principio “chi inquina paga” si perde nel vento. Un elenco parziale dei siti più inquinati del Paese traccia una profonda ferita al veleno dalla Lombardia alla Sicilia.
Dal Sud al Nord l’elenco nero del Paese
Sin di Taranto. L’area, 125 chilometri quadrati, lungo 17 chilometri di costa, comprendente il mostro dell’Ilva, ma non solo, è un danno che ammonta a 9 miliardi di euro. Oltre all’Ilva e alle sue discariche bisogna considerare la raffineria Eni, le due centrali termoelettriche ex Edison passate all’Ilva, la centrale Enipower, la Cementir, due inceneritori, la discarica Italcave, una delle più grandi basi navali militari del Mediterraneo, l’arsenale militare ed altre piccole e medie aziende.
Discarica di Bussi. Il caso dei veleni riversati nel fiume Pescara è stato considerato dal ministero dell’Ambiente un danno vicino ai 9 miliardi di euro.
Centrale Porto Tolle. L’impianto termoelettrico dell’Enel in provincia di Rovigo è causa di un danno ambientale, stimato dall’ente governativo Ispra, vicino ai 3 miliardi di euro.
Ex Pertusola Sud. L’impianto per la produzione dello zinco costruito nel 1928 e dismesso nel 2000 ha provocato danni per 3 miliardi di euro nell’area di Crotone, in Calabria.
Petrolchimico Priolo. Il polo di Augusta, in Sicilia, è uno dei disastri più grandi d’Italia: per disinquinare l’area occorrono almeno 10 miliardi, i danni sanitari e ambientali superano già altri 12 miliardi di euro.
Chimica Caffaro. A Brescia lo stabilimento ha inquinato ininterrottamente dagli anni Trenta del 900 e l’Ispra stima un danno di almeno 1,5 miliardi di euro.
Carbone pugliese. Le centrali di Brindisi, area Sin, provocano un danno di 3,5 miliardi.
Fiume Toce. La Syndial dell’Eni è stata condannata a pagare quasi 2 miliardi di euro per aver contaminato il Lago Maggiore attraverso il Toce tra il 1990 e il 1996.
Frosinate. L’area a sud di Roma è un’emergenza ambientale nazionale, almeno un miliardo il danno provocato da diverse industrie nella Valle del Sacco, tra cui la Caffaro.
Grado e Marano. Le lagune, nel Friuli Venzia-Giulia, sono state vittime della presenza della chimica Caffaro: il danno stimato è di un miliardo.
Cogoleto. Nella riviera genovese c’è uno dei siti più inquinati d’Italia, dove l’ex stabilimento Stoppani per trattamento del cromo ha provocato danni per quasi un miliardo e mezzo di euro.
Bonelli: “I colpevoli non pagano mai”
“Chi ha inquinato – denuncia Angelo Bonelli, coordinatore dei Verdi e autore di uno degli esposti che hanno portato al sequestro del ptrolchimico di Siracusa – e attentato alla salute degli italiani non ha mai pagato. Rimangono ancora da bonificare almeno 7.300 chilometri quadrati in Italia e la popolazione esposta alla contaminazione di queste aree è almeno il 12% dell’intera popolazione nazionale”.
«Intervista a Maurizio Memoli, professore di Geografia economico-politica all’Università di Cagliari, coautore del webdoc che racconta il quartiere popolare sul mare a sud est di Cagliari». il manifesto, 22 luglio 2017 (c.m.c)
Affacciato sul mare all’estremità meridionale di Cagliari, affollato dai palazzoni grigi dell’edilizia popolare e raccolto intorno allo storico Lazzaretto seicentesco – oggi teatro di attività culturali e «mondane»- il quartiere di Sant’Elia è uno dei luoghi più contraddittori della città. Nato come borgo di pescatori e edificato negli anni Cinquanta per gli sfollati dei paesi dell’entroterra che si erano riversati su Cagliari, ha subìto un profondo mutamento quando alla fine degli anni Settanta sono stati eretti quei palazzoni che oggi lo identificano per metonimia e hanno rivoluzionato l’aspetto, e il tessuto sociale, del borgo.
Le immagini del quartiere e le parole dei suoi abitanti sono i «protagonisti» del webdoc “Sant’Elia – Frammenti di uno spazio quotidiano”, progetto collettivo coordinato da Maurizio Memoli – professore di Geografia economico-politica all’Università di Cagliari, che ce lo ha raccontato – e realizzato insieme al giornalista Claudio Jampaglia, la ricercatrice Silvia Aru e il filmmaker Bruno Chiaravallotti. Vincitore del premio speciale webdoc al Capodarco l’altro Festival, Sant’Elia – Frammenti di uno spazio quotidiano è un lavoro di geo telling, come l’hanno soprannominato i suoi creatori: che fa parlare, e raccontarsi in prima persona, uno spazio urbano. Nei sei episodi che lo compongono (visibili sul sito webdoc.unica.it) la telecamera si sofferma a osservare le strade del quartiere, le sue case e i suoi palazzi, così come la distesa blu del mare che lo circonda e lo avvolge nel suo fascino. Fuori campo, la voce di sette donne di Sant’Elia illustra il loro rapporto con quello spazio: l’orgoglio e le lotte quotidiane, la stigmatizzazione e i pregiudizi di cui sono vittime, i ricordi di ciò che il quartiere è stato nel passato, i suoi miti fondativi e il fantasma dell’innocenza perduta.
Che cos’è il geo telling?
Subito dopo le rivoluzioni tunisine ci siamo trovati a confrontarci sull’idea della narrazione di un territorio. Volevamo raccontare lo spazio tunisino stando al di fuori dalla prassi troppo paludata della ricerca universitaria, geografica, urbana. Siamo quindi partiti per Tunisi per cercare di «intervistare» quello spazio attraverso le persone che lo abitano. Così è nato il webdoc – un prodotto ibrido tra video, interviste, foto e articoli – intitolato Al centro di Tunisi, del 2013. Dopo quest’esperienza siamo partiti con un secondo progetto su Marsiglia e infine con uno sulle periferie: ci siamo chiesti come raccontarle per sfuggire alla logica neoliberale per la quale nelle periferie ci sono «i cattivi», sono brutte e non funzionano. A meno che non abbiano un potenziale economico.
Che è proprio il caso di Sant’Elia.
Sant’Elia è uno spazio tradizionale di «brutti sporchi e cattivi». Ma c’è il mare, il panorama, un affaccio sull’acqua che fa gola al capitale, ostacolato però da una comunità di diecimila abitanti che pongono un problema: come tirarli fuori da lì per fare profitto? Entrare a Sant’Elia per raccontarne lo spazio ha voluto dire innanzitutto trovarsi davanti un esercito di ricercatori, giornalisti, registi, antropologi. Gli abitanti si sentono delle cavie, sono stufi di prendere parte a questo racconto della povertà.
Come avete quindi impostato il lavoro?
Siamo da subito entrati in contatto con le persone più attive di Sant’Elia: come in tutti i quartieri popolari ci sono molte cooperative e associazioni più o meno politiche. Attraverso di loro abbiamo cercato di offrire ai ragazzi un corso fotografico, chiedendogli di rappresentare il loro spazio quotidiano. L’adesione però è venuta principalmente dalle donne dell’associazione «Sant’Elia Viva». Il laboratorio è poi sfociato in una mostra, ma loro ci hanno chiesto di continuare il lavoro insieme e così abbiamo pensato a una narrazione in cui fossero gli abitanti a raccontarci il loro stare nello spazio, senza filmarli, mentre parlano di alcuni temi legati al quartiere. C’è quindi una dissociazione tra audio e video, che ci sembrava un buon modo per ragionare su come raccontiamo le cose non conoscendole, e per stabilire al contempo una distanza e una prossimità.
La prospettiva è esclusivamente femminile.
Come in molti quartieri popolari gli uomini sono molto meno presenti. Basta vedere le percentuali della popolazione del carcere di Uta: il 30% viene da Sant’Elia. Le donne che sentiamo parlare nei sei capitoli del webdoc – Pinella e Rita De Agostini, Rosy Fadda, Deborah Lai, Cenza e Paola Murru e Rosa Sabati – sono quasi tutte tra i 60 e i 70 anni, divorziate o sole per scelta, con figli adulti. Molte stanno studiando per il diploma che non hanno preso da giovani, e soprattutto hanno deciso di essere attive nel quartiere attraverso la loro associazione.
Dal rapporto tra audio e video emerge anche uno scollamento temporale: il racconto nostalgico del passato – i giochi per strada da bambine, il borgo prima dei palazzoni – e le immagini del quartiere come è oggi.
È importante ragionare sui frammenti di questa narrazione in modo emozionale: loro ci hanno parlato del loro amore per Sant’Elia, di quanto nonostante la marginalità e le stigmatizzazione il quartiere fornisca loro un’identità forte, che rivendicano. Portate altrove si disperderebbero, perderebbero la loro capacità di stare insieme. Gli anni Settanta, in cui sono stati costruiti i palazzoni, hanno rappresentato il momento della perdita dell’innocenza, ma anche della presa di coscienza che quello spazio è qualcosa da difendere.
Tra i loro racconti ci sono anche alcune «mitologie cittadine», a riprova del fortissimo legame, benché sofferto, con Cagliari tutta.
Le mitologie hanno però anche un aspetto negativo: ci consentono di creare una sorta di controllo, di incasellamento. Confinare le persone in dei personaggi permette di controllarle. È come la teoria della finestra rotta: trattare gli abitanti di un quartiere difficile come dei personaggi folklorici, nel bene e nel male, equivale a promettere che prima o poi qualcuno interverrà a «sanarli», a portarli in un vago altrove più «decoroso».
Se il mondo non fosse malato basterebbero tre mosse: prima mossa, abolire il packaging, seconda mossa, abolire l'obsolescenza programmata, terza mossa, produrre e consumare solo ciò che davvero serve. Ma bisognerebbe fare preliminarmente la mossa zero: togliere il potere agli sviluppisti. la Repubblica, 21 luglio 2017
Stiamo diventando un pianeta di plastica. Dagli anni ’50 epoca del boom economico e anche di questo materiale – ne abbiamo prodotti 8,3 miliardi di tonnellate e gettati via 6,3 miliardi. Solo acciaio e cemento – fra i materiali artificiali – pesano di più sul nostro pianeta. È come se ognuno di noi ne portasse sulle spalle una tonnellata e passa. Il 79% di questo carico è distribuito nelle discariche o sporca città, campagne e mari. Il 12% è stato incenerito e solo il 9% riciclato. Il calcolo arriva da uno studio su Science Advances – il più completo mai pubblicato su questo materiale – scritto da ambientalisti e ingegneri delle università della Georgia e della California a Santa Barbara.
Tracce di plastica sono state trovate nei ghiacci antartici e nella fossa delle Marianne, a 10 chilometri di profondità.
Si stima che una tonnellata sia incorporata nel permafrost artico. Alle Hawaii nel 2014 è stato descritto un nuovo tipo di roccia: il plastiglomerato, in cui le alte temperature di un fuoco hanno fuso insieme pietra vulcanica, sabbia e plastica. Sull’isola di Henderson, Pacifico del sud, 40 abitanti in tutto, il punto più lontano da ogni altra terraferma, le onde portano 3.750 frammenti di spazzatura al giorno, per la maggior parte buste e contenitori.
Chi sostiene che l’antropocene – l’epoca dell’uomo – sia una vera e propria era geologica, usa proprio l’argomento della plastica: fra milioni di anni, se mai qualcuno sarà in grado di scavare sottoterra, ne troverà quantità massicce.
I ricercatori americani si sono “divertiti” a tradurre questa cifra al di là dell’immaginabile (gli 8,3 miliardi di tonnellate) in termini più intuitivi. Il nostro mondo di plastica pesa come 1 miliardo di elefanti, 80 milioni di balenottere azzurre, 25mila Empire State Building e 822mila torri Eiffel. Se lo spalmassimo su tutta l’Argentina, ci affonderemmo dentro fino alle caviglie. La quota gettata via come rifiuto potrebbe seppellire Manhattan sotto due miglia di spazzatura.
Il pianeta di plastica è stato creato, per metà, negli ultimi 13 anni. E se l’andamento della produzione proseguirà in maniera esponenziale come ha fatto finora, la massa raggiungerà i 34 miliardi di tonnellate nel 2050, di cui 12 sotto forma di rifiuti. Se nel 1960 questo materiale riempiva solo l’1% del nostro sacchetto della spazzatura, oggi siamo arrivati al 10%. La produzione che nel 1950 era limitata a 2 milioni di tonnellate oggi è schizzata a oltre 400, più di 300 delle quali viene buttata via nello stesso anno in cui è stata fabbricata. Il ritmo con cui sforniamo plastica è cresciuto due volte e mezzo più rapidamente del Pil mondiale.
In mare, ha calcolato sempre lo stesso gruppo di scienziati due anni fa, finiscono attualmente 8 milioni di tonnellate, macerate dal sole, ridotte in microplastiche, ingerite dai pesci.
Uno studio su Plos nel 2014 stima che il numero di frammenti galleggianti in tutti gli oceani del mondo raggiunga i 5 trilioni.
«La stragrande maggioranza di questi materiali in realtà non si biodegrada in modo significativo » spiega Jenna Jambeck, ingegnere dell’università della Georgia, fra gli autori dell’impressionante studio, evidentemente poco convinta della bontà delle plastiche ecologiche. «I rifiuti che abbiamo prodotto ci accompagneranno con tutta probabilità per centinaia o migliaia di anni». Pochi uomini ormai ricordano com’era il mondo prima della diffusione ubiqua di questo materiale.
La facilità di produzione e l’indistruttibilità (solo un trattamento termico particolare riesce a eliminarla davvero) sono state le molle del successo della plastica, dal punto di vista industriale. E del disastro, dal punto di vista ambientale. E se è vero che acciaio e cemento ancora la surclassano in termini di tonnellate prodotte, il coordinatore dello studio Roland Geyer, ecologista industriale, professore dell’ateneo californiano, precisa: «Metà dell’acciaio che fabbrichiamo serve a costruire edifici e resta utile per decenni. Per la plastica è il contrario. Metà di quella creata diventa scarto dopo meno di quattro anni di utilizzo”.
Il 42% della produzione mondiale finisce in packaging e viene buttata via subito dopo il consumo. Il riciclo potrebbe essere una soluzione. Ma i tassi di riutilizzo arrivano al 30% e al 25% rispettivamente in Europa e in Cina. E non superano il 9% negli Stati Uniti. Questo accade da anni, ben prima che alla Casa Bianca arrivasse Donald Trump.
Un appassionato riepilogo della lunga e tormentata storia dell'area di Bagnoli e del suo piano ora, finalmente, «pare sia giunto il momento di tornare a discutere nel merito dei problemi. Per dirla in altri termini, è tempo si passare dalla farsa alla politica.»
Nella discussione su Bagnoli occorrerebbe far prevalere il merito delle questioni piuttosto che un misero interesse di bottega, contingente e transeunte. Gli attori politici passano, velocemente, Bagnoli invece è sempre lì, nella sua desolazione, a testimoniarci il fallimento di un'intera classe dirigente, nazionale e locale, della politica come dell'imprenditoria, pubblica e privata.
Se Governo, Regione e Comune riconoscono che gli indirizzi generali contenuti nella variante del 1996 sono la soluzione per Bagnoli, chi ha sempre combattuto, in solitudine, per la sua attuazione, non può che manifestare soddisfazione. Che la decisione provenga dal Governo Renzi, Gentiloni, De Luca o De Magistris, è questione di secondaria importanza. Prima di ogni cosa viene il merito delle questioni.
Non dobbiamo, infatti, mai dimenticare il degrado del dibattito pubblico che da due decenni accompagna la questione.
La variante per Bagnoli del 1996, approvata quando Bassolino era Sindaco e Vezio De Lucia assessore all'urbanistica, è stata osteggiata da tutta la città, compresa la classe politica che la aveva votata, sin dal giorno dopo la sua approvazione. De Lucia pagò il prezzo più alto, con la sua estromissione dalla giunta. La classe dirigente locale, priva di cultura e di visione politica, la ha addirittura additata come la causa dello stallo in cui si trova Bagnoli, finendo per farla diventare il capro espiatorio della propria incapacità amministrativa, quando non della mala amministrazione, svelata dalle inchieste della magistratura.
Non c'era occasione in cui gli esponenti della classe dirigente cittadina dimenticassero di affermare che il piano era «troppo ambientalista», che un parco di 120 ettari era «un'enormità» per una città come Napoli e che la colmata andava conservata perché rappresentava una magnifica «terrazza a mare», per alcuni, la sede ideale per un immenso porto, per altri. A cominciare, incredibilmente, dagli stessi amministratori del comune e della Bagnoli Futura, che di quel piano avrebbero dovuto essere fieri custodi. Ricordo, ultimo in ordine di tempo, un esponente dell'ambientalismo cittadino, nominato nel 2012 a presidente della Bagnoli Futura, che poneva in dubbio la rimozione della colmata, con cui ho dovuto polemizzare, sempre nell’isolamento generale, da presidente della commissione urbanistica del comune.
E ricordo anche che, nel corso degli anni, più volte il governo centrale ha sollecitato i governi cittadini a stipulare accordi di programma con il preciso intento di scardinare la pianificazione urbanistica per Bagnoli. Sempre la politica locale, comunale e regionale, si è lasciata lusingare dalle emergenze e dai grandi eventi, per scardinare la pianificazione urbanistica.
Accadde nel 2003, con la Jervolino al Comune e Bassolino alla Regione, che stipularono col governo un accordo di programma per fare svolgere la Coppa America a Bagnoli e realizzare nella colmata un grande porto. Accordo poi andato in fumo perché, nonostante gli scongiuri della Jervolino (chi ricorda la foto che la ritraeva con il corno nell’attesa della nomination?) Napoli non fu fortunatamente scelta come sede dell’evento.
Allo stesso modo, dopo il cambio di amministrazioni, nel 2011, con De Magistris al Comune e Caldoro alla Regione, si è pervicamente tentato di fare svolgere la Coppa America a Bagnoli, sempre per legittimare la colmata, addirittura progettando la realizzazione sulla colmata dei veleni degli hangar per ospitare le barche della Coppa America, prima che la magistratura e il ministero ne vietassero, di nuovo fortunatamente, l’utilizzo (chi ricorda, inoltre, quando un assessore comunale ne voleva fare la surreale sede per lo svolgimento del forum delle culture, motivo per cui il comune scrisse al ministero di posticipare l’esecuzione dell’accordo di programma che ne prevedeva la rimozione? era il 2009).
Nel 2014, per concludere, un accordo di programma firmato da Comune, Regione e Governo voleva ricostruire la città della scienza sulla spiaggia, in contrasto col PRG e, per concludere, nel 2015, la Giunta comunale presentò al Consiglio delle linee guida che prevedevano la costruzione di volumetrie all’interno di collinette realizzate nel parco urbano («sottocubature», come dissi in Consiglio Comunale), senza dire una parola chiara sulla rimozione della colmata.
Insomma, Governo nazionale, regione e comune sono sempre stati alleati nel tentativo di scardinare la pianificazione urbanistica, e di derogare alla chiarissima norma contenuta nella legge 582 del 1996, con il consenso dell’impresa, delle accademie, delle professioni e della stampa, cioè di quel blocco sociale cittadino che è stato una cappa per lo sviluppo economico e civile del Mezzogiorno, instancabilmente denunciato da Gerardo Marotta.
Dopo il commissariamento del 2014 (che, nella sua versione originaria, era eversivo dei più elementari principi liberal-democrartici, come ho più volte sostenuto più volte da consigliere comunale), tutti si aspettavano quindi un intervento altamente speculativo, con la proprietà fondiaria autorizzata per legge a scrivere essa stessa le norme urbanistiche.
Per questo motivo destò vero stupore il progetto del soggetto gestore e del commissario del 2016, che prevedeva la rimozione della colmata, la creazione della spiaggia e lasciava la previsione del parco, sebbene in forma ridotta rispetto a quella del piano comunale. Le linee fondamentali del piano napoletano erano accolte, paradossalmente proprio da parte di quel governo nazionale che fino a qualche mese prima aveva interpretato il ruolo di co-protagonista per la sua demolizione. Si disse che era propaganda elettorale. Forse era così (valeva per tutti, le elezioni comunali erano alle porte), ma questo argomento serviva solo a evitare di entrare nel merito delle proposte.
Per lo stesso motivo, continua a destare meraviglia l'attuale perfezionamento della proposta contenuta nell'intesa interistituzionale, firmata da Governo, Regione e Comune, che riprende le linee del piano del 1996. Proposta, questa, che, per alcuni versi, migliora la precedente (indubbiamente per quanto riguarda la parte a terra, nel senso che il parco torna alla dimensione originaria prevista dal piano), mentre per altri motivi, relativi alla parte a mare, invece, la peggiora (perché conserva due insediamenti che per il piano del 1996, per la legge n. 582 del 1996 e per il vincolo paesistico del 1999 dovrebbero andare via: il borgo di Coroglio e le vecchie fabbriche ottocentesche che nel 1993 si tentò di vincolare senza successo perché prive di ogni valore).
Questo piano contiene dunque criticità (ce ne sono altre, infatti: si pensi a quella relativa al porto, al sistema della viabilità, all’eccessivo dimensionamento dell’attività alberghiera, che viene inspiegabilmente collocata anche sotto il costone di Posillipo, in prossimità dell’incrocio fra via Leonardi Cattolica e via Coroglio, «lungo il tratto della nuova via di Nisida, fronte spiaggia»).
Ma, occorre riconoscere, gli indirizzi sono quelli del 1996, quindi quelli giusti. È giunto pertanto il tempo che si sviluppi in città dibattito di ampio respiro, relativo al merito delle questioni, e che la si finisca sia con il confondere le scelte di merito con i pregiudizi che si nutrono nei confronti di chi le avanza, sia di offrire una rappresentazione farsesca e sbraitante della politica, da un lato, sia con gli annunci inattuati, dall’altro.
Per il momento possiamo constatare due cose.
Innanzitutto, che questo buon risultato è il frutto paradossale di uno dei più criticabili commissariamenti che il Paese ricordi (corretto in extremis dal governo in prossimità del più che opportuno ricorso del comune, eliminando l’incredibile potestà pianificatoria conferita ai privati), segno che Bagnoli, oltre che una maledizione, ha anche uno stellone che la protegge.
Le reazioni scomposte di queste ore che provengono da larga parte della classe dirigente cittadina contro quest’intesa è, del resto, la dimostrazione più evidente che solo l’assunzione di una chiara responsabilità dello Stato centrale può superare la visione asfittica e rozza della borghesia cittadina, che ha sempre considerato Bagnoli come un territorio da sfruttare e mai come un valore (innanzitutto estetico e culturale) da ripristinare e salvaguardare. Più volte, infatti, è dovuto intervenire lo Stato centrale per guidare verso le giuste direzioni il processo di trasformazione urbana di Bagnoli. La prima volta con la legge del 1996, che impose la ricostituzione della morfologia naturale della linea di costa (che diede forza alla linea portata avanti da De Lucia in comune); poi nel 1999, con l’apposizione del vincolo paesistico sull’area, fatta dal Ministro Melandri; oggi nella forma (per certi versi paradossale) del commissariamento (criticabile soprattutto nella sua prima formulazione). Era da anni più che evidente che occorresse una regia nazionale non solo perché Bagnoli è questione nazionale, ma anche perché la classe dirigente cittadina aveva ridotto Bagnoli a un inestricabile groviglio economico-giuridico-finanziario (con il fallimento di Bagnoli Futura, i suoli e le opere ivi costruite, che avrebbero dovuto appartenere alla città, diventati possibile preda dei creditori del fallimento, l’area della trasformazione sotto sequestro della magistratura, un processo in corso per omessa bonifica, opere demenziali realizzate, come la porta del parco, un ettaro di cemento armati, secondo alcuni persino di dubbia compatibilità con il piano comunale).
In secondo luogo, che solo se si riuscirà a fare massa critica sulle questioni di merito si potrà garantire che questo equilibrio (sempre precario, come la storia di Bagnoli dimostra), raggiunto oggi, possa essere effettivamente attuato e che l’attuazione vada avanti, con le opportune correzioni per garantire il pieno rispetto della legge del 1996 e del vincolo paesistico del 1999 (che blindano, di fatto, non solo le scelte strategiche della pianificazione comunale, ma che rappresentano un limite anche per i poteri dei commissari, in forza della supremazia dell’interesse paesistico, riconosciuto dalla costante giurisprudenza costituzionale).
Insomma, pare sia giunto il momento di tornare a discutere nel merito dei problemi. Per dirla in altri termini, è tempo si passare dalla farsa alla politica.
I molti buchi dell'accordo per Bagnoli. Il punto di vista di un movimento popolare che con tenacia, rigore e continuità si è battuto per anni, e continua a battersi per "Una spiaggia per tutti". La discussione è aperta
Ho letto
l'articolo di Vezio DeLucia sull'accordo raggiunto per Bagnoli tra Governo e Comune di Napoli, econfesso di non riuscire a condividere il suo pur temperato ottimismo. Malgradoil Comune abbia ottenuto sul piano del disegno urbano alcune modifiche delProgramma di rigenerazione urbana presentato da Invitalia il 6 aprile 2016, insé positive (sostanzialmente, quelle indicate da De Lucia nel suo articolo),l'insieme delle scelte contenute nell'accordo mi preoccupa fortemente. Vorreiquindi provare ad esporre sinteticamente alla riflessione collettiva quelle checonsidero le principali criticità.
1) Chiudendo un accordo con Governo eRegione, il Comune depotenzia pesantemente il ricorso pendente alla CorteCostituzionale sul "mancato coinvolgimento dell'ente comunale"determinato dall'art. 33 dello SbloccaItalia: è difficile pensare che ilgiudizio della Corte sulle obiezioni del Comune, peraltro già circoscritte dacome l'Avvocatura comunale le ha formulate ed il Consiglio di Statoparzialmente accolte, non risentirà dell'accordo raggiunto tra i due enti. Conquesta mossa, si rinuncia a difendere fino in fondo le proprie ragioni e siaccetta il nefasto impalcato istituzionale dell'articolo 33, quindi ilcontrollo del Governo e della sua longa manus Invitalia, che detieneanche la proprietà dei suoli ex IRI, su tutte le fasi di definizione edattuazione degli interventi urbanistici.
2) L'accordo non contiene alcuna garanziasostanziale sui finanziamenti pubblici per realizzare la bonifica e leattrezzature collettive; viceversa, a fronte di vaghi impegni governativi adallocare progressivamente nella legge di stabilità le risorse necessarie, siprecisa fin dalle prime pagine che questo è un punto critico da cui dipendel'attuabilità, in tutto o in parte, delle azioni previste. Restano inoltre inpiedi i Bagnoli Bonds, ossia l'emissione di titoli finanziari a valeresulla proprietà delle aree ex IRI per reperire sul mercato privato dei capitalile risorse necessarie a ripagare i creditori di Bagnoli Futura (lasocietà comunale di trasformazione urbana fallita nel 2014), nonché parte dellespese per gli interventi urbanistici; con tutto quanto ne deriva sul piano delcondizionamento economico delle scelte attuative.
3) Tutta la trattativa è stata svoltasotterraneamente, senza concordare con la città i punti di lavoro (su cosa nonsi tratta; su cosa si tratta ed in che misura) né aggiornarla sugli sviluppi,informandola sbrigativamente degli esiti all'ultimo momento. I riferimenti alcoinvolgimento che dovrebbe avvenire nei passi successivi (definizione delpiano di rigenerazione urbana ed approvazione delle relative variantiurbanistiche in consiglio comunale) ben difficilmente potrà recuperare il gapdeterminato da questa procedura, che sovraimpone i contenuti fondamentalidell'accordo; il piano di rigenerazione urbana verrà approvato in cabina diregia con le modalità previste dallo SbloccaItalia, costituendo varianteautomatica agli strumenti urbanistici vigenti e relegando il consiglio comunalead un ruolo consultivo;
4) E' stato effettuato un sostanziale scambiopolitico tra l'insediamento alberghiero/portuale di lusso a Nisida e laspiaggia pubblica, che costituisce il principale nodo critico sul piano dellescelte insediative. Il primo intervento è di rapida ed agevole realizzazione:non si richiedono azioni di bonifica né nuove edificazioni, trattandosisostanzialmente di ristrutturare le strutture esistenti. Il secondo appare piùdistanziato ed incerto nel tempo, richiedendo complesse ed onerose opereattuative (bonifica del mare, rimozione della colmata, opere di ripascimento edifesa dell'arenile dall'erosione marina). Il previsto porto di 20 ettari, paria 30 campi da calcio ossia a quasi mille posti barca, difficilmente non avràpesanti ricadute sulla balneazione, sia per la produzione di inquinanti che peril confinamento dei bagnanti in una fascia di sicurezza a 150/200 metri dallariva. Si preordina così la privatizzazione della riserva naturale di Nisida,finora salvaguardata dalla presenza del riformatorio, da sempre obiettivo dellapeggiore classe politica ed imprenditoriale napoletana: già prefigurato l'annoscorso da Invitalia ed oggi agevolmente realizzabile, dato l'impiantocentralistico determinato dal commissariamento, tramite accordo di vertice colMinistero di Giustizia). Verrebbe insomma minato sia il valore sociale chequello ambientale della proposta sostenuta con la delibera "Una spiaggiaper tutti" del 2012. A questo proposito rileviamo sia l'assenza di unriferimento esplicito nell'accordo della delibera in questione, rispetto alledimensioni della spiaggia ed al suo carattere pubblico (riferimento che invececi era stato garantito dal Comune), sia il mantenimento di una consistentevolumetria ad uso commerciale, ricettivo e residenziale sul lungomare, che ivigenti strumenti urbanistici viceversa azzeravano.
5) La formulazione dell'accordo è piena dirinvii a successivi studi, formulazioni ambigue, clausole di flessibilità, chenon paiono garantire nemmeno gran parte degli obiettivi pure definibili come'positivi'; inoltre il dimensionamento delle funzioni non viene localizzato,neppure a livello di massima, e resta, come segnalava De Lucia, un incognitapesante sulle infrastrutture di trasporto.
Ci sono altri punti critici, da approfondire nelcorso della discussione che spero animerà sia la città che queste pagine, maquelli esposti credo costituiscano l'essenziale. Ciò che appare, almeno a me,superata una prima, superficiale impressione favorevole, è che con questoaccordo l'amministrazione comunale abbia concesso molto per ricavare poco,assumendo il ruolo di vittima consenziente in un clima di ricatto operato dalGoverno sul complesso della sua azione. E' da vedere se la città, a partire daimovimenti, saprà reagire o si adagerà nella illusione di una "vittoriaparziale". Da parte nostra, abbiamo chiesto al Sindaco di restituire laparola ai cittadini ed indire un referendum consultivo sui contenutidell'accordo; richiesta sulla quale da settembre avvieremo una campagnaincentrata sui nodi di metodo e merito stigmatizzati, che speriamo veda ancheil contributo di Eddyburg, dei suoi redattori e lettori.
Quanto succede a Bagnoli esula infatti ilpiano locale (basti pensare a Roma con la vicenda del nuovo stadio aTordivalle) e ridimensiona alcune retoriche correnti sul"neomunicipalismo", aprendo interrogativi pesanti su quantoamministrazioni locali "non allineate" ai dogmi neoliberisti possano,senza effettuare radicali rotture politiche, attuare politiche urbanistichealternative.
Parafrasando Nanni Moretti, il problemanon è "dire" qualcosa di sinistra, ma farlo.
Napoli, 20 luglio 2017 Massimo Di Dato
Assise Cittadina per Bagnoli/
comitato Una spiaggia per tutti
«Esiste a livello globale una guerra del potere contro la società civile, contro i cittadini e cittadine che si organizzano, si attivano, chiedono libertà e giustizia, rispetto dei diritti e protezione della terra». comune-info.net, 19 luglio 2017 (p.d.)
Tra le molte guerre che si stanno combattendo nel mondo, ce n’è una che cresce giorno dopo giorno, inesorabile quanto occultata, grazie al complice disinteresse e allo scarso rilievo con cui ne danno notizia i grandi media e i governi del mondo. Si tratta di quella segnalata – con massima preoccupazione – dall’ultimo Rapporto di Global Witness, una Ong che si occupa dei legami tra lo sfruttamento delle risorse naturali, i conflitti ambientali, la povertà, la corruzione e le violazioni dei diritti umani. Il rapporto è dedicato proprio alle vittime di quella guerra, unilaterale, alle persone che difendono la terra e l’ambiente dall’insaziabile sete di chi li aggredisce e rapina per ricavarne fiumi di denaro. Il settore più insanguinato è quello minerario, 4 persone su 6, tra quelle assassinate, sono indigene, 6 su 10 sono state uccise in América Latina. Le responsabilità vanno attribuite, direttamente o indirettamente, agli apparati dello Stato o della sicurezza e a formazioni non statali, pistoleros, o forze di sicurezza collegate alle imprese. Una strage che chiama in causa in modo evidente i modelli di sviluppo e di consumo e l’ossessione per l’estrazione di valore dalla terra.
In un suo splendido editoriale sull’ultimo numero della rivista
“liberal” statunitense
Harper’s la scrittrice ed attivista Rebecca Solnit si cimenta con il tema dello spazio. Spazio fisico di agibilità, e spazio immateriale di compressione dei diritti. Tutto il potere, dice, “può essere inteso in termini di spazi. Spazi fisici, come anche le economie, le conversazioni, la politica – tutto può essere inteso come aree occupate inegualmente. Una mappa di questi territori costituirebbe una mappa del potere e dello status. Chi ha di più e chi ha di meno”, ed il “dominio dello spazio e del territorio da parte di chi ha potere può essere chiamato violenza strutturale”. La teoria basagliana definiva questa violenza strutturale come “crimine di pace”, altri la chiamano semplicemente, “necropolitica” termine coniato dal sociologo africano Achille Mbembe assieme a quello di “biopotere” . Spazi che si chiudono nella tenaglia tra “necropolitica” e “biopotere”. In gergo il termine usato è
“shrinking space” un termine che però rischia di rielaborare un’urgenza ed un’emergenza politica globale in maniera asettica e per questo “depoliticizzata”. Chi è responsabile del restringimento di questi spazi di agibilità? Chi li occupa e popola quegli spazi? Solo quella che si può considerare secondo norma la società civile? In realtà anche la scelta delle terminologie ormai diventate ricorrenti anche tra fondazioni e agenzie di cooperazione, rischia – come sottolineato in un dossier del Transnational Institute – di invisibilizzare ancor di più quello che già di per sé è invisibile, chi quotidianamente lotta e resiste per i propri diritti e quelli della collettività.
A darci qualche importante e drammatico indizio della guerra nascosta che si combatte, a armi impari, contro chi con la nonviolenza si mobilita per difendere la propria terra, l’ambiente dalle ricadute nefaste del modello di sviluppo estrattivista è l’ultimo rapporto a cura di Global Witness, intitolato “Difensori della terra. Omicidi di difensori della terra e dell’ambiente nel 2016”. Le cifre sono impressionanti: almeno 200 difensori (uomini e donne) sono stati uccisi lo scorso anno, in 24 paesi. Una scia di sangue che si allarga a macchia d’olio, i paesi dove Global Witness aveva registrato omicidi nel 2015 erano 16. Oggi in testa è il Brasile, seguito dall’Honduras, dal Nicaragua, dalle Filippine, la Colombia, l’India, e la Repubblica Democratica del Congo. Il Brasile del grande latifondo e dei mega-progetti di sviluppo del governo Temer, l’Honduras di Berta Caceres e del COPINH – la figlia Bertita di recente oggetto di minacce di morte mentre il governo annunciava la chiusura del contestatissimo progetto idroelettrico di Agua Zarca. Le Filippine di Duterte, o la Colombia dove dopo la firma dell’accordo di pace tra governo e FARC, e lo smantellamento della presenza delle FARC nei territori da loro controllati, si è scatenata una caccia agli attivisti e leader comunitari da parte di formazioni “neo-paramilitari”. Una maniera di “ripulire” il territorio per permettere poi alle imprese del settore estrattivo di fare i loro affari sporchi.
Il rapporto di Global Witness ci dice che il settore minerario è quello più macchiato del sangue degli attivisti uccisi lo scorso anno, 40% dei quali erano uomini e donne indigene. Il 60% dei 200 omicidi è stato registrato proprio in America Latina. E le responsabilità vanno attribuite direttamente o indirettamente agli apparati dello stato o della sicurezza, a formazioni non statali, pistoleros, o forze di sicurezza collegate alle imprese. Il numero però potrebbe essere assai maggiore, visto che secondo quanto registrato dall’Atlante per i Conflitti Ambientali (EJAtlas) almeno 2000 sono i conflitti sulla terra nel mondo. E poi molti di questi omicidi non sono stati denunciati o semplicemente derubricati a fatti di criminalità comune. Per non parlare poi della crescente criminalizzazione dei movimenti sociali e ambientali, non solo nel cosiddetto “Mondo di Maggioranza” ma anche in quello di “Minoranza” il ricco ed opulento “Nord”. Uno su tutti il caso della resistenza contro la Dakota Access Pipeline a Standing Rock. Allora risulta evidente che questo spazio che si restringe ha a che vedere con il modello di sviluppo, con i modelli di consumo e estrazione di valore dalla terra. È pertanto uno spazio “politico” di rivendicazione e di conflitto, dove chi ha il monopolio dell’uso della forza, armata o non, prevarica, comprime, marginalizza, uccide.
Questo nel cosiddetto “Sud”. E a parte il caso di Standing Rock che accade altrove, nel nostro “Nord” che si erge a paladino dei diritti umani e della democrazia? Turchia, Egitto ma anche Polonia, Ungheria per fare qualche esempio? Non ci si faccia illusioni: esiste a livello globale una guerra del potere contro la società civile, contro i cittadini e cittadine che si organizzano, si attivano, chiedono libertà e giustizia, rispetto dei diritti e protezione della terra. Ad aprile di quest’anno CIVICUS ha reso noti i dati raccolti nel corso del 2016. La loro pubblicazione ha un titolo eloquente “People Power under Attack” (il potere del popolo sotto attacco). Secondo CIVICUS, solo il tre percento della popolazione mondiale vive in paesi dove lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” può considerarsi “aperto”. Sono ben 106 i paesi dove chi si mobilita pacificamente rischia la galera, la morte o la repressione. Dei 195 paesi monitorati da CIVICUS in 20 lo spazio di agibilità è chiuso, represso in 35, ristretto in 63, ed “aperto” in solo 26. Oltre sei miliardi di persone vivono in paesi dove l’agibilità politica e civica è chiusa, repressa o ostruita. I dati di CIVICUS rivelano con chiarezza la responsabilità degli apparati di stato nell’assalto sistematico a chi, individui o movimenti, critichi l’autorità, svolga attività di monitoraggio dei diritti umani, o rivendichi i proprio diritti sociali ed economici. Il più recente rapporto sullo stato della società civile nel mondo sempre a cura di CIVICUS, va oltre ed identifica nella crescita del populismo e dell’estremismo sciovinista una delle cause dell’aumento della sfiducia verso la società civile, pretesto per attacchi allo spazio di agibilità civica.
E l’Italia? Secondo il rapporto di CIVICUS lo spazio di agibilità ed iniziativa “civica” in Italia si è “ristretto” e tende verso il livello di “ostruzione”, ben lontano dagli standard di “spazio civico aperto” di altri paesi membri della Unione Europea. Altri paesi dove si registra una “restrizione” dello spazio di agibilità sono gli Stati Uniti, il Canada, Cile, Argentina, Spagna, Francia, Corea del Sud, Giappone, Sudafrica, Australia, Zimbabwe oltre ad altri paesi africani. In realtà, la recente campagna di criminalizzazione delle organizzazioni non governative e della società civile che fanno soccorso in mare, o solidarietà con migranti e rifugiati sarebbe solo una manifestazione parossistica di un “trend” che si sta insinuando anche nel nostro paese. Dalla criminalizzazione delle proteste dei comitati per la protezione dell’ambiente, alle minacce a giornalisti o avvocati da parte della criminalità organizzata, anche nel nostro paese iniziano a palesarsi i sintomi di una dinamica preoccupante.
Sempre CIVICUS, che assieme a Civil Society Europe pubblicherà in autunno uno studio dettagliato paese per paese, Italia inclusa, nel nostro paese nella prima metà del 2016 le principali libertà civili di associazione, riunione ed espressioni sono generalmente rispettate, ma sussistono alcune problematiche. Dalla discrezionalità nelle operazioni di ordine pubblico, all’uso eccessivo della forza in occasione di proteste di piazza. Occasionalmente difensori e difensore dei diritti umani soffrono minacce e intimidazioni. Nella prima metà del 2016 inoltre sono state registrate ben 221 violazioni del diritto alla libertà di espressione, una situazione ulteriormente aggravata da casi di intimidazione verso giornalisti.
Per tutto questo oggi proteggere i difensori della terra, dell’ambiente, dei diritti umani è un compito urgente, una sfida essenziale anche per la politica e per il settore privato, oltre che per la società civile nel nostro paese, già impegnata nella rete In Difesa Di, per i diritti umani e chi li difende, e più di recente con la campagna “Coraggio” di Amnesty International. Il prossimo anno l’Italia presiederà l’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea) che attribuisce grande rilevanza al tema dei difensori dei diritti umani nei suoi paesi membri, tra cui vanno annoverati seppur con modalità diverse, paesi come la Turchia, l’Egitto, la Polonia, o l’Ungheria. E non solo, il 2018 marcherà il 20esimo anniversario della Dichiarazione ONU sui Difensori dei Diritti Umani occasione imperdibile per rilanciare con forza il tema della difesa dei difensori dei diritti umani e della tutela degli spazi di agibilità “civica” chiedendo al governo, al Parlamento ed agli enti locali uno sforzo collettivo per questa importante campagna di civiltà politica e sociale.
Articolo pubblicato anche sull’huffingtonpost.it
«Se certe Regioni rimangono inerti, lo Stato deve poter subentrare nei piani di prevenzione e intervento e nei piani paesaggistici. Dove sono quelli della Sardegna decisi da Soru?» La Nuova Sardegna, 19 luglio 2017
Il clima si surriscalda, la siccità e la desertificazione avanzano e il Belpaese abbassa le difese della prevenzione e dell'intervento immediato. Addirittura non mette in atto, a livello regionale, i piani di prevenzione per gli incendi. E' il capo della Protezione Civile che punta il dito su alcune Regioni inadempienti, a partire dalla Campania dove i roghi hanno assunto, sul Vesuvio ma non solo, dimensioni epocali, da tragedia di massa. La Regione ha pensato bene - in un anno che già dalla primavera si annunciava caldissimo - di non stipulare coi Vigili del Fuoco la convenzione per il 2017 per lo spegnimento dei roghi boschivi.
Per di più alla presidenza del Parco Nazionale del Vesuvio il più antropizzato, abusivamente, d'Italia (come altri 8 Parchi Nazionali esso è da tempo privo di un direttore), è stato posto, in luogo di un autentico esperto quale il professor Ugo Leone, Agostino Casillo, manager aziendale, giovane brillante nel suo campo e però digiuno di questioni ambientali e forestali. Tant'è che già nel 2016 il territorio del Parco vesuviano - seminato di migliaia di case abusive - ha subito un incendio disastroso. "Non si ripeterà", è stata la solenne promessa. Parole, soltanto parole.
Si dirà: la situazione vesuviana, campana è molto particolare, si sa. Particolare allora è anche la situazione siciliana, per esempio del Parco regionale dei Nebrodi, pure largamente a fuoco, il cui presidente è stato minacciato a fucilate dalla "mafia dei pascoli". In altre zone agiscono incendiari prezzolati - per lo più disperati, manovali della malavita - incaricati di incenerire aree a bosco sulle quali, senza fretta, i vari racket hanno puntato gli occhi per future lottizzazioni turistiche. Neppure sapendo in molti casi che su quei terreni "cotti" e quindi resi instabili non si potrà costruire nulla per decenni o che lo vieta una legge-quadro nazionale spesso, purtroppo, da applicare.
A livello nazionale poi si è aggiunto, da quest'anno, un altro clamoroso elemento di confusione e di disorganizzazione nella lotta a quanto minaccia la vita del grandioso manto boschivo nazionale e regionale e cioè la cancellazione del Corpo Forestale fuso, grazie alla criticatissima riforma Madia, coi Carabinieri dei Nuclei Ecologici. Pur con la massima stima verso questi ultimi, è stata dispersa una esperienza specifica di cento anni, è stata manomessa una secolare collaborazione coi Vigili del Fuoco attribuendo alla Protezione Civile una serie di funzioni o disfunzioni.
Le Regioni che non predispongono in modo cialtronesco i piani di prevenzione di legge vanno commissariate dal governo centrale. Analogamente i molti Comuni che non redigono l'indispensabile catasto dei terreni andati a fuoco preparando, anche senza volerlo, l'ingresso del racket su quelle stesse aree sulle quali la legge n. 353/2000 proibisce per almeno quindici anni ogni edificazione.
In Sardegna la Regione a statuto speciale ha potuto salvare l'autonomia storica e tecnica della Forestale e quindi preservarne il ruolo. Ma c'è altro da fare. Perché, ad esempio, la Regione non ha sviluppato quanto era già stato fatto, con qualità e incisività, dalla Giunta Soru col decreto salvacoste e coi piani paesaggistici validamente coordinati da Edoardo Salzano nel 2004? Perché, in tredici anni, non si è messo mano alla co-pianificazione prescritta dal Codice Rutelli/Settis in una regione che nella bellezza paesistica e nell'integrità ambientale ha la prima risorsa anche economica da tutelare? Inutile o ipocrita poi piangere sul verde incenerito.
La siccità e il surriscaldamento del clima non sono più una emergenza, sono la nuova "normalità" per la quale ci dobbiamo attrezzare, da subito. Tanto più che la manomissione speculativa sistematica, in varie forme, del paesaggio e dell'ambiente - oggi attraverso incendi mirati di vasta entità - fa ormai parte in Italia del "fatturato della criminalità organizzata" e anche di una diffusa illegalità. Se le Regioni rimangono inerti, lo Stato deve poterle sostituire. Non possiamo veder bruciare il Belpaese in una generale impotenza. Non possiamo vederlo, in autunno, sprofondare nelle alluvioni e nelle colate di fango rese più facili da questi roghi.
«Pressioni alla politica e affari dei clan ecco perché l’Italia sta bruciando. Da cittadino non accetto che mi si raccontino fandonie, ma la realtà è che il fuoco è strumento economico di “bonifica criminale”. Ogni zona ha i suoi gruppi criminali che bruciano». la Repubblica, 19 luglio 2017
Quindi nonostante la notizia attiri molti click, e tutti i media possibili l’abbiano riportata, non esistono gattini infiammati che correndo devastano intere aree boschive, niente autocombustione o sigarette accese, ma inneschi chimici preparati ad arte e posizionati laddove è più difficile arrivare. E posizionati a favore di vento (come fatto sul Vesuvio). I luoghi comuni sugli incendi sono moltissimi. Il credere anche che sia facile poterli spegnere. Ma come? Il Vesuvio brucia e non si può spegnere il fuoco conl’acqua del mare? Be’, l’acqua spegne le fiamme, ma nulla può contro il combustibile, quello solo la schiuma può neutralizzarlo. Ma con il mare così vicino perché non usare quell’acqua a disposizione? L’acqua marina, poiché salata, può causare desertificazione, quindi non è possibile utilizzarla in aree su cui si prevede un lavoro di riqualificazione boschiva. Per paradosso la cenere concima e l’acqua marina che spegne le fiamme rende sterile il terreno.
Ho provato a sfatare solo alcune delle bufale più diffuse sull’origine dei roghi perché da cittadino non accetto che mi si raccontino fandonie, ma la realtà è che il fuoco è strumento economico di “bonifica criminale”. Ogni zona ha i suoi gruppi criminali che bruciano. Bande che vogliono otte
nere appalti in cambio della sicurezza delle zone boschive (o mi dai l’appalto o brucio tutto); clan che attraverso il fuoco rendono inedificabili i terreni da cui vogliono ottenere percentuali sulle concessioni edilizie e i lavori di costruzione; e ancora con il fuoco le organizzazioni trasformano parchi nazionali in spazi ideali per le discariche abusive (da materiale plastico a stoffe, rifiuti speciali il cui smaltimento comporta oneri che le aziende aggirano appaltando alla camorra).
Dal Vesuvio alla riserva degli Astroni, ormai distrutta per oltre un terzo, da Roma alla Maremma, alla Costiera Amalfitana, l’Italia brucia come ogni estate con la differenza, significativa, di un dato allarmante che dovrebbe imporre alla politica una seria autocritica: in un solo mese, da metà giugno a oggi, in Italia è andato in fumo tutto quel che è bruciato nell’intero 2016. Quindi nessuna regia unica o piano eversivo, ma solo ciò di cui non si vuole parlare, mai: il fuoco come declinazione – l’ennesima – dell’economia criminale che può esistere perché il territorio è in balia di se stesso senza alcuna seria possibilità di prevenzione, previsione, monitoraggio e intervento. E poi c’è chi, sempre per evitare di affrontare il problema dalla prospettiva più razionale, tira in ballo il tema della militarizzazione del corpo forestale, mostrando il camaleontismo tipico della politica che prima denuncia gli sprechi e poi, quando si prova ad arginarli, trova che il metodo è sbagliato solo perché sotto quel decreto non c’è la propria firma ma quella della forza politica antagonista. Meglio dire «sbagliato aver militarizzato la Forestale» (nonostante le competenze non si siano perse), che impegnarsi per concedere ai Carabinieri Forestali maggiori strumenti per la prevenzione e ragionare sui mezzi mancanti per far fronte alle fiamme.
Ora, in un Paese come l’Italia, dove i grandi ambiti di investimento e riciclaggio delle mafie sono oltre al narcotraffico proprio edilizia e rifiuti, trattare gli incendi alla stregua di calamità naturali è da dilettanti della politica. Già immagino chi dirà: ma come non vedi quanto l’Italia sia colma di turisti? Perché non dai alla politica e alla gestione del territorio il merito di aver fatto da pull factor per il turismo internazionale. Come è possibile – mi domando io, invece – che chi parla di turismo non abbia capito che l’Italia è meta residuale? Che non potendo andare altrove per timore di attacchi terroristici si viene in Italia dove peraltro, causa incendi, in Sicilia e in Toscana sono state evacuate strutture turistiche? L’assalto turistico non avviene perché è migliorata l’accoglienza, perché sono migliorati i trasporti (provate a raggiungere Puglia o Calabria in treno…), ma perché altrove per paura non si va più.
Oggi di fuoco si parla perché non è possibile ignorare quello che sta accadendo, ma non un politico che abbia descritto la situazione in maniera realistica. Anche il fuoco è usato per scopi elettorali, ma dopo aver cavalcato il disagio e l’indignazione non sarà più un argomento spendibile perché non porta voti: gli eco-reati sono percepiti come secondari rispetto alla disoccupazione, salvo poi non fare mai i conti con l’impossibilità di avere una economia florida in un Paese in cui l’economia criminale è in continua espansione. E se oggi la colpa è dei piromani, della militarizzazione del Corpo forestale, se oggi c’è un piano eversivo, se c’è una regia unica, domani in mancanza di bufale, fake news, pre e post verità, resterà solo puzza di bruciato, devastazione e silenzio. E dove c’è silenzio crescono i clan. Alla prossima estate, ai prossimi incendi.
Non ci posso credere, spero di non sbagliarmi, ma l’accordo su Bagnoli sottoscritto oggi a Napoli fra il ministro De Vincenti e il sindaco de Magistris sembra un buon accordo...(segue)
Non ci posso credere, spero di non sbagliarmi, ma l’accordo su Bagnoli sottoscritto oggi a Napoli fra il ministro De Vincenti e il sindaco de Magistris sembra un buon accordo. Conferma le scelte di fondo del piano regolatore e del piano attuativo formati negli anni ormai lontani di Bassolino e rimaste impantanate per successivi errori e ripensamenti. Se davvero si smantellano i 20 ettari della colmata a mare (formata da loppe d’altoforno e altri materiali) che nell’ultimo mezzo secolo hanno deformato la linea di costa; se davvero non c’è nessuna riduzione della superficie del parco e nessun aumento di cubatura rispetto alle previsioni comunali; se davvero i tre chilometri della spiaggia di Coroglio sono restituiti alla balneazione; se davvero è stata recuperata la continuità fra il parco e la spiaggia; se finalmente si arretrano a monte di via Coroglio i volumi della Città della scienza da riscostruire dopo l’incendio del 2013: se queste cose sono vere, allora penso di poter tranquillamente dichiarare che siamo di fronte a un esito più che soddisfacente. Aggiungo subito che secondo me non tutto è risolto, a partire dalla localizzazione del porto a Nisida – ci torno in seguito – ma nel complesso un risultato importante è stato raggiunto e penso di poter dire che sono stati decisivi le opposizioni, le preoccupazioni e gli allarmi espressi negli ultimi tre anni per far capire al governo (prima Renzi, poi Gentiloni) che non c’erano le condizioni per mettere le mani su Bagnoli.
Resta ovviamente ferma la mia più netta opposizione al fatto che il governo nazionale s’intrometta nelle scelte urbanistiche dei comuni, un precedente pericolosissimo. E tanto più grave se si ricorda che la decisione di sottrarre al comune di Napoli la competenza urbanistica fa parte dell’orribile decreto Sblocca Italia voluto da Matteo Renzi nel 2014: “una minaccia per la democrazia e per il nostro futuro”, si legge sulla copertina di Rottama Italia, un librino a più mani di altraeconomia del 2015. L’art. 33 del decreto riguarda la bonifica e la rigenerazione urbana di Bagnoli. Ottima cosa che il governo decida di occuparsi direttamente della bonifica, materia di sua competenza, fino a quel momento condotta in modo pasticciato e poco trasparente. Ma la bonifica è solo un pretesto per estendere i poteri commissariali anche alla “rigenerazione urbana”, cioè all’urbanistica, un boccone prelibato per palazzinari e speculatori di ogni risma.
Il governo e i suoi ispiratori locali (il quotidiano Il Mattino, di proprietà Caltagirone, e gran parte del mondo degli affari) avevano però sottovalutato la forza e la capacità contestativa di Napoli. Cominciarono subito le proteste di movimenti radicati in particolare a Bagnoli (la manifestazione del 7 novembre 2014 fu violentemente attaccata dalla polizia). Dissentì Italia Nostra. Fiorirono comitati e associazioni contro il commissariamento, fu fondata una Costituente cittadina per Bagnoli verde, popolare, produttiva. Il sindaco de Magistris interruppe i rapporti con il governo e mise mano ai ricorsi, in parte accolti, per far dichiarare l’illegittimità, anche costituzionale, dello Sblocca Italia. Poi ha deciso di trattare, e mi pare che abbia saputo farlo.
Tutto ciò ha evidentemente indotto Renzi e Gentiloni a fare marcia indietro e spero che serva anche a far capire che è urgente indirizzare altrove l’azione governativa: imponendo finalmente un vero stop al consumo del territorio, varando energici provvedimenti per la difesa del suolo e del paesaggio (devastati prima dagli incendi, poi dalle alluvioni) e contro l’abusivismo (giustificato invece dalla regione Campania).
Torniamo all’accordo firmato oggi. Dicevo che non mi convince il porto turistico a Nisida, luogo favoloso che non può continuare a essere snaturato dal turismo nautico, pianificato o abusivo che sia. Se Bagnoli è il posto più bello del mondo (è una recente definizione di Romano Prodi), Nisida è il nocciolo di quella bellezza. Infine, manca negli accordi l’importante capitolo delle infrastrutture, in particolare dell’accessibilità su ferro, di cui il presidente De Luca ha chiesto lo stralcio e l’argomento è rinviato a un prossimo incontro. Questo perciò è solo un primo parziale commento, ci sarà tempo e modo di sviluppare un’sviluppareun’approfondita discussione di merito nelle prossime settimane.
(19 luglio 2017)
Si, proprio nello spettacolare paesaggio della Piana di Castelluccio di Norcia , che molti vorrebbero vedere riconosciuto come patrimonio dell'umanità.qualcosadisinistra, 18 luglio 2017 (c.m.c.)
Come da copione. La ricostruzione che non ricostruisce ma spende soldi per progetti totalmente campati in aria. Un film già visto dai tempi del Belice e passato per il Terremoto dell’Irpinia, vera prova generale di un sistema poi andato a regime nei 30 anni successivi.
Succede a Castelluccio di Norcia, il borgo famoso in tutto il mondo per la fioritura di lenticchie; ne hanno parlato per mesi i giornali, anche di recente, dato che i lavori di rimozione delle macerie (nemmeno di ricostruzione del borgo) vanno a singhiozzo. Basti pensare che la strada che lo collegava al resto del mondo è stata riaperta solo una settimana fa.
Eppure, la priorità sembra essere altro, a giudicare da questa notizia, passata sotto silenzio e rilanciata sui social da alcuni comitati locali.
La Regione Umbria, per bocca del suo vicepresidente Fabio Paparelli (PD) ha annunciato la costruzione di un centro commerciale nella Piana di Castelluccio, in pieno Parco Nazionale dei Monti Sibillini, nonché in mezzo a quello spettacolo che è ancora la fioritura delle lenticchie. L’opera, sarà prevalentemente a carico della Protezione Civile e costerà tra i 2 e i 2,5 milioni di euro.
La domanda che sorge spontanea è: ma sono diventati tutti matti? E’ quello che si sono chiesti anche i cittadini umbri di questa petizione su change.org, che appoggiamo in pieno. Con quei 2 milioni di euro si possono fare tante cose per Castelluccio. L’obbrobrio qui sotto in una valle di bellezza rara, benché spacciata per “ambientalista”, anche no: ne abbiamo avute fin troppe in Italia di cattedrali nel deserto (perché questo rischia di diventare Castelluccio se le istituzioni non si muovono a renderlo nuovamente un centro abitabile).
Altro che centro commerciale: servono LE CASE.
L'Espresso, 18 luglio 2017
«Maxi aumenti di volume per hotel e lottizzazioni sul mare: il centrosinistra copia il piano casa di Berlusconi. Renato Soru insorge: "Il Pd ha tradito"»
Il Pd di Berlusconi, pardon, il Pdl ha varato
nel 2009 il famoso piano casa: più cemento per tutti,senza regole e senza piani urbanistici, sfruttando un sistema di aumentiautomatici di volume per la massa dei fabbricati esistenti. Ora la giunta delPd che governa la Sardegna progetta un inatteso bis, sotto forma di pianoalberghi: via libera con un’apposita legge a nuove costruzioni turistiche,ecomostri compresi, perfino nella fascia costiera finora considerata inviolabile,cioè spiagge, pinete, scogliere e oasi verdi a meno di trecento metri dal mare.
Il programma di questo presunto centrosinistra sardo è di applicare proprio ilsistema berlusconiano degli aumenti di volume in percentuale fissa (che premiacon maggiori quantità di cemento i fabbricati più ingombranti) a tutte lestrutture ricettive, belle o brutte, piccole o enormi, presenti o future,compresi ipotetici hotel non ancora esistenti. Unaderegulation edilizia in aperto contrasto con la legge salva-coste approvatadieci anni fa dall’allora governatore Renato Soru e dal suoassessore all’urbanistica Gianvalerio Sanna, cioè con una riforma targata Pdche nel frattempo è stata presa a modello da una generazione di studiosi,architetti, urbanisti e amministratori pubblici non solo italiani.
La contro-riformaodierna è nascosta tra i cavilli del disegno di legge approvato il 14 marzoscorso dalla giunta regionale presieduta da Francesco Pigliaru, il professoredi economia eletto nel 2014 alla testa del Pd. La normativa ora è all’esamefinale della commissione per il territorio: l’obiettivo della maggioranza è diportare in consiglio regionale un testo blindato, da approvare in tempistretti, senza modifiche, subito dopo l’estate.
Sulla carta avrebbe dovuto trattarsi della nuovalegge urbanistica che la Sardegna attendeva da un decennio per completare lariforma di Soru, con impegni precisi: stop all’edilizia speculativa, obbligoper tutti i comuni di rispettare limiti chiari anche fuori dalla fasciacostiera, per difendere tutto il territorio, fermare il consumo di suolo efavorire il recupero o la ristrutturazione dei fabbricati già esistenti.All’articolo 31, però, spunta il colpo di spugna:«al fine di migliorare qualitativamente l’offerta ricettiva», siauto-giustifica il testo di legge, «sono consentiti interventi diristrutturazione, anche con incremento volumetrico, delle strutture destinateall’esercizio di attività turistico-ricettive».
Il concetto chiave è l’incremento volumetrico: la norma approvatadall’attuale giunta di centrosinistra, proprio come il piano-casa del governoBerlusconi, autorizza aumenti di cubatura del 25 cento «anche in deroga aglistrumenti urbanistici» in vigore, compresa la legge salvacoste. Insomma, sesiete in vacanza in una spiaggia immacolata della Sardegna, fatevi un belbagno: potrebbe essere l’ultimo.
Hotel, alberghi, pensioni, residence,multiproprietà e lottizzazioni turistiche di ogni tipo vengono infattiautorizzati non solo a gonfiarsi di un quarto, cementificando nuovi pezzi dicosta, ma anche a sdoppiarsi, spostando gli aumenti di volume in «corpi difabbrica separati». «In pratica si può costruire un secondo hotel o residencein aggiunta al primo anche nella fascia costiera in teoria totalmenteinedificabile», denuncia l’avvocato Stefano Deliperi, presidente del Gruppod’intervento giuridico (Grig), che per primo ha lanciato l’allarme. «Ma nonbasta: i nuovi aumenti di volume si possono anche sommare agli incrementiautorizzati in passato, ad esempio con il piano casa o con le famigerate 235deroghe urbanistiche che furono approvate tra il 1990 e il 1992 dall’alloragiunta sarda», sottolinea il legale, che esemplifica: «Un hotel di 30 milametri cubi che deturpa una spiaggia, per effetto dei due aumenti cumulativi del25 per cento ciascuno, sale quasi a quota 50 mila: per l’esattezza, si arriva a46.875 metri cubi di cemento».
L’ex presidente della Regione, Renato Soru, spiega all’Espresso di essere «molto preoccupato per la cecità di una classe dirigente che sta mettendo in pericolo il futuro della Sardegna». «Con l’assessore Sanna eravamo partiti da una constatazione pratica», ricorda Soru: «Grazie ad anni di studi e ricerche abbiamo potuto far vedere e dimostrare che più di metà delle coste della Sardegna, parlo di circa 1.100 chilometri di spiagge, erano già state urbanizzate e cementificate. Di fronte a una situazione del genere, in una regione come la nostra, qualsiasi persona di buonsenso dovrebbe capire che i disastri edilizi del passato non devono più ripetersi. Oggi tutti noi abbiamo il dovere morale e civile di difendere un territorio straordinario che è la nostra più grande risorsa e la prima attrattiva turistica: le bellissime spiagge della Sardegna sono la nostra vera ricchezza, che va conservata e protetta per le generazioni future. Per questo la nostra legge prevede una cosa molto semplice e logica: nella fascia costiera non si costruisce più niente. Zero cemento, senza deroghe e senza eccezioni per nessuno. E in tutta la Sardegna bisogna invece favorire la riqualificazione dell’edilizia esistente, il rifacimento con nuovi criteri di troppe costruzioni orrende o malfatte. Quindi via libera alle ristrutturazioni, alle demolizioni e ricostruzioni, al risparmio energetico. Con regole certe e uguali per tutti, perché l’edilizia in Italia può uscire veramente dalla crisi solo se viene tolta dalle mani della burocrazia e della politica».
A questo punto Soru confessa di essere uscito dai palazzi della regione, alla fine della sua presidenza, proprio «a causa dei continui scontri sull’urbanistica». E dall’altra parte della barricata, a tifare per il cemento, non c’era solo il centrodestra, ma anche «quella parte del Pd che ora è al potere». Da notare che Soru, per eleganza o per imbarazzo, evita di fare il nome dell’attuale presidente, anche se sarebbe legittimato ad accusarlo di tradimento politico, visto che Pigliaru era stato suo assessore ai tempi della legge salva-coste.
Oggi però lo stop al cemento sulle spiagge più belle d’Italia rischia di trasformarsi in un bel ricordo. Gli avvocati del Grig hanno già catalogato «ben 495 strutture turistico-ricettive della fascia costiera che potrebbero approfittare dell’articolo 31. Stiamo parlando di milioni di metri cubi di cemento in arrivo», rimarca Deliperi, evidenziando che il disegno di legge ha una portata generale, per cui si applica anche, anzi soprattutto alle strutture più contestate, quelle che si sono meritate l’epiteto di ecomostri. Come il residence-alveare “Marmorata” di Santa Teresa di Gallura, l’albergone “Rocce Rosse” a picco sugli scogli di Teulada, la fallimentare maxi-lottizzazione turistica “Bagaglino” a ridosso delle spiagge di Stintino, i turbo-hotel “Capo Caccia” e “Baia di Conte” ad Alghero e troppi altri. Il premio percentuale infatti non dipende dalla qualità del fabbricato, ma dalla cubatura: più l’ecomostro è grande, più è autorizzato a occupare terreno vergine con nuove colate di cemento.
Il progetto di legge, per giunta, equipara agli alberghi da allargare, e quindi trasforma in volumi gonfiabili di cemento, addirittura le «residenze per vacanze», sia «esistenti» che ancora «da realizzare», cioè quelle montagne di seconde case che restano vuote quasi tutto l’anno, arricchiscono solo gli speculatori edilizi, ma deturpano per sempre il paesaggio. Con la nuova dirigenza del Pd, insomma, il vecchio piano casa è diventato un piano seconde case, secondi alberghi e seconde lottizzazioni. E tutto questo in Sardegna, la regione-gioiello che tra il 2004 e il 2006 aveva saputo cambiare il clima politico e culturale sull’urbanistica, spingendo decine di amministrazioni locali di mezza Italia a imitare la legge Soru, fermare il consumo di suolo e limitare finalmente uno sviluppo edilizio nocivo e insensato.
Gianvalerio Sanna, l’ex assessore regionale oggi relegato a fare politica nel suo comune d’origine, ama parlar chiaro: «Questo disegno di legge è una vera porcata. La giunta del Pd sta facendo quello che non era riuscito a fare il governo di centrodestra. Le nostre norme, ancora in vigore, favoriscono con incentivi e aumenti di volume solo la demolizione e lo spostamento dei fabbricati fuori dalla fascia costiera dei 300 metri. Questo vale già adesso anche per gli alberghi e i campeggi. Per allargarli e rimodernarli con criterio non c’è nessun bisogno di cementificare le spiagge».
I dati sono allarmanti già oggi. «Le coste della Sardegna sono invase da oltre 210 mila seconde case: appartamenti sfitti, che mediamente restano disabitati per 350 giorni all’anno», enumera Sanna: «Il nostro obiettivo, condiviso da migliaia di cittadini che proprio per questo hanno votato Pd alle elezioni regionali, era di liberare dal cemento, gradualmente e armonicamente, tutta la zona a mare, che è la più preziosa. La nuova giunta sta facendo il contrario. L’edilizia è tornata merce di scambio: il piano casa, che fu giustificato da Berlusconi come rimedio eccezionale contro la crisi dell’edilizia, diventa la norma. La deroga diventa la regola. Così la politica si mette al servizio delle grandi lobby, degli interessi di pochi, a danno della cittadinanza e di tutte le persone che amano la Sardegna».
Quando allude a scambi, Sanna non usa parole a caso. Nella minoranza del Pd rimasta fedele a Soru sono in molti a evidenziare una singolare coincidenza: la controriforma urbanistica sta nascendo proprio mentre gli sceicchi del Qatar, i nuovi padroni miliardari della Costa Smeralda, annunciano l’ennesima ondata di progetti edilizi per super ricchi, per ora bloccati proprio dalla legge Soru. Per ingraziarsi la classe politica sarda, lo stesso gruppo arabo ha comprato dal crac del San Raffaele anche il cantiere fallimentare del nuovo ospedale di Olbia. E ora gli sceicchi sembrano aspettarsi che i politici, in cambio, aboliscano proprio i vincoli ambientali sulla costa.
«Con questa legge vergognosa il presidente Pigliaru sta contraddicendo anche se stesso», commenta amaramente Maria Paola Morittu, la combattiva avvocata di Cagliari che oggi è vicepresidente nazionale di Italia Nostra: «Per smentire la sua giunta, al professor Pigliaru basterebbe rileggere le proprie pubblicazioni accademiche, in cui scriveva e dimostrava che il consumo di suolo è disastroso non solo per l’ambiente, per il paesaggio, ma anche per lo sviluppo economico».
Carte alla mano, l’avvocata di Italia Nostra e il suo collega Deliperi passano in rassegna la successione di leggi edilizie della Sardegna, per concludere che oggi il Pd sardo sta facendo indietro tutta. La buona urbanistica insegna come e dove costruire case sicure in luoghi vivibili senza distruggere il territorio. In Italia se ne parla solo quando si contano le vittime evitabili di alluvioni, frane, valanghe, terremoti e altri disastri che di naturale hanno solo le cause immediate. In Sardegna, dopo decenni di edilizia selvaggia, la legge Soru e il conseguente piano paesaggistico regionale – studiato da un comitato tecnico-scientifico presieduto da Edoardo Salzano, un gigante dell’urbanistica – hanno fissato per la prima volta due principi fondamentali: basta cemento a meno di 300 metri dal mare; solo edilizia regolata e limitata in tutta la restante fascia geografica costiera, che di norma si estende fino a tre chilometri dalle spiagge. «In campagna elettorale il Pd guidato da Pigliaru aveva promesso di estendere la legge Soru a tutta la Sardegna, obbligando anche i comuni interni ad applicare i piani paesaggistici», osservano desolati i due avvocati. Passate le elezioni, il vento è cambiato.
In Italia, prima della recessione, venivano cementificati a norma di legge oltre 45 milioni di metri quadrati di terra all’anno. Nel 2015, nonostante la crisi, si è continuato a costruire nuovi appartamenti e capannoni per oltre 12 milioni di metri quadrati (dati Istat). «Con la legge salvacoste la Sardegna ha saputo lanciare un nuovo modello di sviluppo sostenibile», rivendica Soru. Ora la grande retromarcia della giunta seduce le lobby dei grandi albergatori, che organizzano convegni esultanti contro «l’ambientalismo che danneggia il turismo». Resta però da capire se, alle prossime elezioni, la maggioranza dei cittadini sardi si fiderà ancora di un Pd che imita il berlusconismo, col rischio di riabilitarlo.
Il 13 luglio il Consiglio Comunale ha approvato a grande maggioranza l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari. Milano ha “venduto”(segue)
Il 13 luglio il Consiglio Comunale ha approvato a grande maggioranza l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari. Milano ha “venduto”, come ha amaramente commentato Luca Beltrami Gadola (secondo altre autorevoli opinioni, addirittura ‘svenduto’) alle Ferrovie dello Stato le aree che, per localizzazione e superficie, costituivano una cruciale risorsa strategica per la rigenerazione e la riqualificazione urbana. Non si trattava infatti di friches (aree dismesse periferiche, inaccessibili, di modesto valore), ma di vere jachères: suoli preziosi da rigenerare attraverso un piano e una regia pubblica ferma, ‘lasciandoli a riposo’ tutto il tempo necessario per definirne una coerente e precisa destinazione funzionale in un quadro di strategie lungimiranti per Milano e la sua regione urbana. D’altra parte il PGT è in revisione: quale occasione migliore si sarebbe potuta cogliere per ripensare il discutibilissimo modello negoziale con il quale negli ultimi decenni si è realizzata a Milano la trasformazione urbana?
Grazie al silenzio acquiscente del sindaco (assente alla votazione!) e alla determinazione dell’assessore all’urbanistica Maran che aveva già deciso a favore del proprietario sin dall’inizio del suo mandato; grazie al supporto ‘tecnico-scientifico’ dei corifei zelanti del mondo delle professioni e dell’accademia, tutti uniti appassionatamente nelle chiacchiere sulla “occasione storica” e “sulla partecipazione entusiastica dei cittadini”; grazie alla sudditanza della stampa che racconta sempre quello che gli operatori immobiliari si aspettano che venga propinato ai cittadini, si apre ora una fase di drammatica incertezza. Perché questo accordo, così squilibrato e sleale, darà luogo sicuramente a ricorsi contro il Comune e la Regione.
Come è stato sottolineato su Arcipelago Milano da molti - giuristi, economisti e urbanisti come ad esempio Roccella, Camagni, Battisti – l’ADP ha dei punti di debolezza gravissimi: ampia sottovalutazione, peraltro condivisa da tutti gli attori, delle plusvalenze che secondo il rinnovato art.16.4 del Testo Unico sull’edilizia dovrebbero essere attribuite almeno al 50% al Comune; vantaggi minimi per la collettività e, soprattutto, per le fasce più deboli; realizzazione, con le poche plusvalenze riconosciute al Comune, di infrastrutture ferroviarie che dovrebbero essere di competenza finanziaria delle FS; nessun impegno esplicito in capo a FS a realizzare la Circle-line sull’anello ferroviario. E tutto ciò, come dicevo, in barba alla nuova legge nazionale che impone un “contributo straordinario” sulle varianti urbanistiche, attraverso sconti non giustificabili e, soprattutto, non giustificati sulle prevedibili plusvalenze: un regalo al proprietario privato (o meglio: che agisce come privato) che potrebbe configurare un danno erariale da parte degli amministratori e dei consiglieri comunali nei confronti della cittadinanza.
L’unico grande assente in questa ennesima vicenda di totale asservimento agli interessi privati (perché di questo si tratta, malgrado i terreni siano di proprietà delle Ferrovie dello Stato) è stato l’attore pubblico che avrebbe dovuto svolgere un ruolo strategico fondamentale: la Città Metropolitana. Provate a entrare nel sito del ‘grande assente’ (et pour cause, visto che grazie alla legge Delrio, ormai definitivamente delegittimata dall’esito del referendum sulla riforma della Costituzione, ha poco potere e irrisorie risorse; ma anche perché governano la Città Metropolitana di Milano amministratori inerti, afasici, che sembrano pienamente condividere logiche tutte milanocentriche.
Nel tristissimo portale della città metropolitana (www.cittametropolitana.mi.it) non si trova alcun cenno, e men che meno un link, dedicato agli scali milanesi; come se non esistesse il problema, davvero cruciale, degli effetti prevedibili di ulteriore banalizzazione dell’hinterland una volta che le visioni e i grandi progetti avranno assolto al loro compito precipuo, che non è di garantire più qualità, vivibilità e soprattutto inclusione, ma di attrarre investitori internazionali nel cuore della regione metropolitana.
Ogni paragone con i percorsi partecipati e i processi di autentica integrazione territoriale avviati nelle Métropoles francesi dall’anno della loro istituzione (la legge MATPAM è stata approvata nel 2014, come la Delrio) sarebbe frustrante, e persino un po’ umiliante.
Non è dunque casuale che la “Festa Metropolitana”, già Festa de l’Unità, del PD in corso a Milano dall’8 al 23 luglio nell’ex scalo Farini, abbia scelto quest’anno come tema della auspicata kermesse lo slogan “Oggi Milano, domani Lombardia”, pur trattandosi appunto di una festa metropolitana. Un tema forse incomprensibile ai più, ma certamente non ai due convitati/conniventi dell’ODP sugli Scali ferroviari (il Comune e la Regione appunto). La festa si svolge nell’ex scalo Farini: «una location (sic!) scelta appositamente poiché nei prossimi anni, insieme ad altri scali ferroviari cittadini, sarà al centro di un importante piano di riqualificazione». In effetti, si tratta dell’area dismessa più ampia fra quelle in gioco, sulla quale potrebbero atterrare nel prossimo futuro non uno soltanto, ma un grappolo di Boschi Verticali.
Nel programma sono previsti incontri e dibattiti su una congerie eterogenea di temi, alcuni anche interessanti e con relatori pertinenti. Manca però un momento dedicato a una riflessione sull’urbanistica negoziata ‘alla milanese’, sostituito invece, dulcis in fundo, da un dibattito programmato per il tardo pomeriggio del 23 luglio e con la partecipazione dell’assessore all’urbanistica Maran su “La riqualificazione degli scali ferroviari”.
Per concludere in bellezza la Festa Metropolitana, nelle ultime giornate sono attesi i relatori ‘più prestigiosi’- fra cui Martina, Minniti, Lotti, Pinotti, Boschi e forse (a sorpresa!) Renzi. Ma c’è un problema considerevole: finora la festa non ha attratto i milanesi, come testimoniano le foto scattate domenica 17 luglio alle 19! Un flop colossale che ha anche penalizzato i malcapitati venditori di street food che hanno dovuto pagare un affitto salato e non hanno visto l’ombra di un avventore!
Ma che importa se il popolo della sinistra non partecipa? Il futuro dello scalo Farini e di tutti gli altri scali si annuncia comunque radioso.
L'ennesima invocazione alla saggezza nell'uso degli enormi spazi. Perché continuare a vedere separati gli immensi patrimoni di naturalità vuoti di attività. e le gigantesche risorse di forza lavoro inoccupata. Eppure le risorse finanziarie ci sarebbero. il manifesto, 18 luglio 2017, con postilla
Sono tornato in Sila, la Sila Piccola, nel Catanzarese, percorrendo in auto e a piedi i piccoli villaggi che si snodano lungo la statale, Racise, Villaggio Mancuso, Spineto, e ho fatto una passeggiata lungo il sentiero attrezzato di uno dei tanti immensi boschi.
Ancora una volta, ma in questo caso molto più accentuata che nelle escursioni degli anni precedenti, la stessa amara constatazione: una meraviglia della natura e del lavoro umano, uno tesoro di potenzialità economiche abbandonato a se stesso. In Sila, in pieno luglio, si possono percorrere chilometri di strada e non si incontra anima viva. In compenso, ai bordi della strada, tra le felci che tappezzano il sottobosco, è ancora possibile raccogliere le profumate fragoline, benché più piccole del solito per il gran secco di questa estate, o i lamponi selvatici.
Qui, queste piante sono endemiche. E da decenni mi sono sempre inutilmente chiesto come mai non fosse mai fiorita in queste terre la redditizia agricoltura dei piccoli frutti (fragole, mirtilli, lamponi, ribes, more), così come accade ad esempio in alcune campagne del Piemonte o della Valle d’Aosta. Ma a questa consueta domanda se ne aggiungevano altre: com’era possibile lasciare migliaia e migliaia di ettari di radure senza alcuna coltivazione, senza quasi l’accenno di una qualche forma di allevamento?
La risposta a queste domande si trova andando in giro nei villaggi prima nominati. Per le strade e le piccole piazze pochissimi villeggianti, in grandissima parte anziani, difficilissimo scorgere bambini. I negozi, che vantano prodotti tipici calabresi, hanno in vetrina qualche barattolo di salsa di peperoncino piccante, un po’ di funghi secchi, qualche marmellata e molte cianfrusaglie di quelle che si trovano in tutti i paesi d’Italia. Quasi niente di un territorio potenzialmente così ricco appare sotto forma di prodotto apprezzabile per la sua autenticità e specificità, per il suo legame con una tradizione di rilievo.
Il quadro si completa se ci si mette a girare nei villaggi, come ho fatto a Racisi, allontanandomi un po’ dalla nazionale. Allora si scorgono file di case abbandonate, alcune col tetto sfasciato, altre interamente crollate. Tutto intorno un’area di abbandono, l’ortica che cresce alta ai bordi della strada e qualche pianta di lampone che, a dispetto di tutto, continua a offrire i suoi frutti senza che nessuno li raccolga.
Dunque, se non c’è popolazione, non si produce nulla, le case vanno in rovina, la domanda esterna che potrebbe attivare il circolo non arriva. Così muoiono lentamente le cosiddette aree interne del nostro Paese. Solo che la Sila non è un territorio qualunque. Ed è anche un grande parco nazionale.
Tuttavia, anche qui non manca qualche presidio di resistenza. Ho cenato in quello che è forse rimasto l’unico ristorante di Racisi e ho assaggiato una fetta di lardo che non assaporavo dai tempi della mia infanzia. Un sapore così fine ed intenso – sia detto senza nessuna vanteria campanilistica – che fa impallidire al confronto qualunque Lardo di Colonnata. E che è il risultato semplice dell’allevamento domestico del maiale. Ma in sala c’erano solo 4 clienti ed era sabato.
Ebbene, come mi ha raccontato l’oste-resistente, quel po’ di attività e di economia che si svolge in quei luoghi, sono oggi resi possibili dagli immigrati, dai lavoratori che sono arrivati soprattutto dai Paesi dell’Est. Sono loro che fanno lavori in campagna, riparano case, accudiscono anziani.
E allora com’è possibile che un sindaco – a Castell’Umberto, in Sicilia, paese montano di 3 mila abitanti – faccia le barricate contro un albergo che ospita 50 immigrati, dove ancora non esiste una rete di corrente elettrica?
Come possiamo respingere i giovani che arrivano se le campagne si spopolano? Non costituirebbe oggi la più lungimirante forma di investimento, per l’Italia, attrezzare i comuni, fornirli di risorse finanziarie e di uomini, per metterli in condizione di accogliere e organizzare giovani, donne, bambini in grado di far rifiorire in pochi anni economie languenti, restaurare paesi in rovina, ridare vita a territori spesso dotati di spettacolare bellezza? E’ per questa strada che la sinistra può sconfiggere la propaganda fondata sulla paura, conquistare i ceti popolari a una visione solidale nei confronti dei migranti, senza dovere annacquare principi e valori nell’eterna campagna elettorale in cui si esaurisce la lotta politica.
Si assiste oggi impotenti e col solito chiacchiericcio agli incendi che devastano mezza Italia. Nessuno pensa che se queste aree perderanno ancora popolazione, gli incendi saranno ancora più devastanti e senza rimedio.
postilla
Qualche cifra che è bene ricordare. Le spese militari previste dal bilancio dello Stato per il 2017 ammontano a 23.400 milioni di euro, 64 milioni al giorno. Fonte, articolo de il Fatto Quotidiano del 23 novembre 2016. Proviamo un po' a fare il conto di che cosa ci si potrebbe fare, invece. Quante occasioni di lavoro utile si potrebbero formare, quali beni diversificati (dall'alimentazione, alla conoscenza alla ricreazione) si potrebbero produrre. E' un conto che una volta si dovrebbe cominciare a fare, area per area, a partire dalla ricostruzione del suolo dove è stato disgregato e dissolto, per proseguire con le città soffocate dalla mobilità individuale ecc..
il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2017 (p.d.)
Un jet-set, ma senza jet. Hanno vita grama oggi i vip di Cortina: niente aerei. Tocca arrancare su per la statale Alemagna come i comuni mortali. Ma la soluzione forse sta per arrivare: “L’Enac (Ente Nazionale per l’Aviazione Civile) ha espresso parere favorevole alla ricostruzione dell ’aeroporto chiuso nel 1976”, annuncia la società Cortina Airport. E Luca Zaia, governatore veneto, preme: la pista deve essere pronta per i Mondiali di sci del 2021.
Un simbolo perfetto: l’aeroporto per far ridecollare la Regina delle Dolomiti che conosce l’onta delle stanze d’albergo in saldo a 39 euro! “Una pista per i ricchi a 500 metri dal parco naturale”, dicono gli oppositori. Jet dove ora incontri famiglie di cervi e bambini lanciati in folli corse con la bici. Se ne parla dal 31 maggio 1976 quando l’ultimo volo cadde e uccise sei persone. Per non dire del volo Aeralpi precipitato nel 1967. Una fama non buona. Ma la Regione vuole l’aeroporto. Una cordata di imprenditori scalpita: “Secondo l’Enac potrebbero atterrare aerei fino a 19 posti, a elica o jet”, spiega Fabrizio Carbonera di Cortina Airport. E snocciola dati: “L’investimento può arrivare a 20 milioni. Un’occasione, come è avvenuto in Costa Smeralda”. Ti pare già di vedere arabi e russi. Ma c’è un ostacolo: la pista. Che passerebbe da 1.280 a 1.520 metri. Più 75 metri per lato. Bazzecole a Malpensa, ma qui sei in uno dei posti più preziosi delle Dolomiti. E non sono solo i dubbi dei Cinque Stelle, come la parlamentare Arianna Spessotto, o di Luigi Casanova (MountainWilderness): “L’aeroporto no. Meglio il treno”. Il punto non è essere contrari alle opere, “ma il timore che con i Mondiali si facciano affari sulla pelle della valle e degli ampezzani”.
L’ultimo ostacolo saranno le Regole d’Ampezzo, cioè la gente del paese. Perché i boschi sono degli abitanti. Un caso unico di “comunismo”, proprio a Cortina. Senza il 75% di “sì” non basterebbe il presidente della Repubblica a far vendere il bosco. E gli ampezzani ci tengono alla loro terra. Carbonera ci va giù secco: “Mi sono rotto i coglioni di chi dice che l’aeroporto ha un impatto ambientale, gli studi dimostrano il contrario. Porterà soldi e lavoro: basta fare l’idraulico o il cameriere!”.
Cortina non sta bene. Lo vedi camminando tra i simboli della passata nobiltà: il trampolino di Zuel costruito per le Olimpiadi invernali del 1956 perde i pezzi. Chiusa anche la piscina. La vertiginosa pista di bob è abbandonata dal 2007. Sono passati gli anni che qui trovavi Ernest Hemingway, mentre le corti di Iran o di Giordania sbarcavano al Miramonti o al Cristallo. E incrociavi Brigitte Bardot. Cortina dei ricchi, sì, ma anche di Goffredo Parise che tra le creste trovava odore di roccia, non di mondanità.
La crisi la vedi anche nelle agenzie immobiliari: i prezzi che avevano sfiorato i 25-30mila euro al metro sono quasi dimezzati. Mentre in centro l’hotel Ampezzo attende il restauro e fioriscono bed&breakfast. Sacrilegio! Ora arrivano i mondiali: “Sono previsti 280 milioni di investimenti: 230 per le infrastrutture viarie e 40 per gli impianti”, spiega il sindaco Gianpietro Ghedina. Quanti progetti in vista dei Mondiali... Ma sull’aeroporto anche il sindaco ha dubbi: “Sappiamo poco del progetto e della sostenibilità finanziaria”. Ecco la la paura di uno dei giovani delle Regole: “Decidono tutto a Roma, a Venezia o a Treviso. Decidono politici o imprenditori mai visti. Progetti che non servono. Vogliono comprarci con la scusa della crisi. Ma noi non ci vendiamo i monti”.
Dalle fiamme dell'estate bollente si risveglia, irrefrenabile il cemento degli speculatori che sembrava addormentato per sempre. Fatti l'uno per l'altro. il Fatto quotidiano, online 17 luglio 2017
«In una delle poche aree scampate all'edificazione sorgerà un nuovo quartiere, mentre diverse associazioni chiedevano il recupero del patrimonio edilizio esistente ma inutilizzato. Dopo l'approvazione e l'avvio della discussione l'area, incolta da anni, è andata in fiamme
di Manlio Lilli | 17 luglio 2017»
Migliaia di metri quadri di parcheggi e 165mila metri cubi di cemento. È praticamente un nuovo quartiere quello che sorgerà a Catania, dove lo scorso 10 luglio la giunta del sindaco Enzo Bianco ha approvato la proposta di variante al Piano Regolatore presentata dal Consorzio Centro Direzionale Cibali. Previsti, secondo i progetti gli ingegneri Aldo Palmeri e di Dario Corrado Maria Consoli 66 mila metri quadri di strutture private, ventimila di alberghi e residence, duemila di area commerciale, seimila di area residenziale. A questi vanno aggiunti 16 mila metri cubi destinati alla costruzione di uno studentato universitario e 32mila per la costruzione di unità abitative. Insomma una nuova gigantesca colata di cemento, in una delle poche aree scampate all’edificazione, mentre diverse associazioni chiedevano il recupero del patrimonio edilizio esistente ma inutilizzato.
“Le previsioni contenute nel Prg del 1969 non sono applicabili alla realtà di oggi. Forse richiamare popolazione attraverso l’edilizia avrebbe avuto un senso 50 anni fa, quando Cibali era effettivamente un quartiere periferico. Oggi però è centro cittadino, dovremmo definirlo quasi centro storico. Secondo me al quartiere serve di più un piano particolareggiato, per dare a tutta la zona una vocazione culturale e turistica”, dice il consigliere comunale Sebastiano Anastasi . Non è il solo a pensarla così. “È intollerabile che si proceda con l’approvazione di varianti che hanno l’unico fine di incentivare la speculazione edilizia”, protesta, infatti, anche Catania Bene Comune lista d’opposizione a Bianco.
Lo scontento, insomma, è di molti. Ma non è tutto. Perché dopo l’approvazione e l’avvio della discussione l’intera area, incolta da anni, è andata in fiamme. Una coincidenza sulla quale sempre i consiglieri di Catania Bene Comune hanno chiesto all’autorità giudiziaria di “fare luce” e dunque indagare visto che “l’incendio ha desertificato le aree oggetto di variante”.In ogni caso con l’approvazione della modifica del piano regolatore da parte della giunta la storia del Centro Direzionale Cibali sembra davvero giunta al suo esito finale, dopo quasi cinquanta anni di tentativi . Un iter iniziato nel 1969 con il Prg che destina i quasi 18 ettari nel quartiere dello stadio ad un asse attrezzato e ad un polo di uffici pubblici. Motivo per il quale i più importanti costruttori locali acquistano i terreni di quell’area e costituiscono un Consorzio con lo scopo di condurre la trattativa con il Comune di Catania. Ma l’operazione non decolla perché il Consiglio comunale non concede l’autorizzazione. Così il Consorzio è costretto a cedere le sue proprietà a Sicilcassa, banca che aveva erogato il mutuo per l’acquisto dei terreni. Lo stallo prosegue e alla fine degli anni Novanta un nuovo passaggio, a Bankitalia, che nel 2013 tenta la vendita. Inutilmente. Anche per questo nel 2016 si decide di avviare una consultazione pubblica aperta a tutte le proposte di utilizzo dell’area. Detto fatto. Il Consorzio sceglie di inserire nel proprio progetto tutte e sei le proposte arrivate. Ma intanto chiede ed ottiene dall’amministrazione la variazione urbanistica per realizzare le proposte di Palmeri e Consoli. Per il resto, ovvero i progetti presentati da Università, Legambiente, associazione Le Cave di Rosso Malpelo, si vedrà.
Il problema che il “resto” non è un elemento trascurabile. Si tratta dei quasi 11 ettari di Parco urbano dei quali dovrebbe occuparsi direttamente il Comune.
L’operazione che il Consiglio comunale del 1969 ha ritenuto di bocciare e che nel 1997 sembrava essere stata stralciata è stata approvata nel 2017. L’attuale amministrazione lascia intendere che non approvando tale variante vi sarebbe stato il rischio di una ancor più grande cementificazione. Il dubbio che si tratti solo di una debole giustificazione rimane, dal momento che a decidere sull’area è esclusivamente il consiglio, come testimonia la lunga e complessa storia del Centro Direzionale.
“Le previsioni contenute nel Prg del 1969 non sono applicabili alla realtà di oggi. Forse richiamare popolazione attraverso l’edilizia avrebbe avuto un senso 50 anni fa, quando Cibali era effettivamente un quartiere periferico. Oggi però è centro cittadino, dovremmo definirlo quasi centro storico. Secondo me al quartiere serve di più un piano particolareggiato, per dare a tutta la zona una vocazione culturale e turistica”, dice il consigliere comunale Sebastiano Anastasi . Non è il solo a pensarla così. “È intollerabile che si proceda con l’approvazione di varianti che hanno l’unico fine di incentivare la speculazione edilizia”, protesta, infatti, anche Catania Bene Comune lista d’opposizione a Bianco. Lo scontento, insomma, è di molti. Ma non è tutto. Perché dopo l’approvazione e l’avvio della discussione l’intera area, incolta da anni, è andata in fiamme. Una coincidenza sulla quale sempre i consiglieri di Catania Bene Comune hanno chiesto all’autorità giudiziaria di “fare luce” e dunque indagare visto che “l’incendio ha desertificato le aree oggetto di variante”.
In ogni caso con l’approvazione della modifica del piano regolatore da parte della giunta la storia del Centro Direzionale Cibali sembra davvero giunta al suo esito finale, dopo quasi cinquanta anni di tentativi . Un iter iniziato nel 1969 con il Prg che destina i quasi 18 ettari nel quartiere dello stadio ad un asse attrezzato e ad un polo di uffici pubblici. Motivo per il quale i più importanti costruttori locali acquistano i terreni di quell’area e costituiscono un Consorzio con lo scopo di condurre la trattativa con il Comune di Catania. Ma l’operazione non decolla perché il Consiglio comunale non concede l’autorizzazione. Così il Consorzio è costretto a cedere le sue proprietà a Sicilcassa, banca che aveva erogato il mutuo per l’acquisto dei terreni. Lo stallo prosegue e alla fine degli anni Novanta un nuovo passaggio, a Bankitalia, che nel 2013 tenta la vendita. Inutilmente. Anche per questo nel 2016 si decide di avviare una consultazione pubblica aperta a tutte le proposte di utilizzo dell’area. Detto fatto. Il Consorzio sceglie di inserire nel proprio progetto tutte e sei le proposte arrivate. Ma intanto chiede ed ottiene dall’amministrazione la variazione urbanistica per realizzare le proposte di Palmeri e Consoli. Per il resto, ovvero i progetti presentati da Università, Legambiente, associazione Le Cave di Rosso Malpelo, si vedrà.
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«Mancano i soldi per garantire servizi essenziali su strade e scuole, mentre è esploso il numero di consorzi, autorità, ambiti territoriali». Come volevasi dimostrare. Il furbacchione di Rignano ha rottamato l'Italia, non D'Alema. la Repubblica, 16 luglio 2017
Una riforma rimasta a metà e impantanata nelle sabbie mobili dopo l’esito del referendum costituzionale. La legge Delrio che doveva semplificare il Paese, riducendo gli organismi intermedi tra Regioni e Comuni e ridisegnando le ex Province, si sta trasformando in un boomerang. Gli organismi intermedi sono cresciuti: la norma ne prevedeva al massimo una novantina, oggi sono quasi cinquecento. Perché da un lato non sono stati aboliti gli ambiti territoriali, dall’altro le Regioni a Statuto speciale invece di applicare la riforma hanno fatto di testa loro: ad esempio Sardegna e Friuli Venezia Giulia hanno sì ridotto le Province, salvo creare e tenere in vita insieme 60 Unioni comunali, mentre la Sicilia sta tornando al passato rimettendo anche i gettoni d’oro. Ma c’è di più. Nel caos adesso sono anche le regioni a statuto ordinario, che rivendicano aiuti perché non riescono a garantire i servizi essenziali su strade e scuole. Dalla semplificazione alla complicazione.
Più di enti e più di burocrazia
In Italia oggi sono in vita 76 Province, 10 città metropolitane e 350 organismi intermedi tra Ato (ossia Ambito territoriale ottimale) rifiuti, Ato idrici, autorità di bacino e consorzi di bonifica. La Delrio prevedeva al massimo una novantina di organismi intermedi, mentre conti alla mano questi enti sono aumentati addirittura a quota 496 considerando le regioni autonome, con costi di milioni di euro tra spese di funzionamento e stipendi per revisori contabili e dipendenti. Ecco così che una riforma nata con buoni intenti ma rimasta inapplicata rischia di aumentare le spese e di andare contro qualsiasi semplificazione: «Chiediamo al governo di applicare subito la parte della legge che dava alle Province le competenze di tutti gli ambiti territoriali e delle stazioni appaltanti – dice il presidente dell’Unione province italiane, Achille Variati – e dobbiamo evitare la proliferazione degli enti come avviene nelle regioni a statuto autonomo».
Le Regioni Speciali sprecone
La bocciatura del referendum costituzionale in Sicilia è stata vista come una grande occasione per tornare al passato e rimettere in piedi le vecchie Province. Così in commissione affari istituzionali è passata una norma che reintroduce l’elezione diretta e lo stipendio per i futuri consiglieri provinciali. «Ma non potevamo fare altrimenti, se prevediamo l’elezione diretta non possiamo poi non pagare gli eletti, lo prevede la legge nazionale», dice il presidente della commissione Salvatore Cascio. Nell’Isola del tesoro dei costi della politica la legge nazionale Delrio non si applica ma per dare i gettoni ci si appella alle norme statali: costo dell’operazione, 10 milioni di euro in più all’anno se sarà votata dall’aula.
In Friuli Venezia Giulia la Delrio nemmeno l’hanno presa in considerazione e hanno colto la palla al balzo per quintuplicare gli organismi intermedi. Da un lato hanno abolito le Province, ma subito hanno istituito 18 unioni comunali: solo per i revisori contabili la spesa è di oltre 26 mila euro all’anno che, moltiplicata per 18, fa 500 mila euro all’anno. La Sardegna dieci anni fa aveva raddoppiato le Province da 4 a 8. Lo scorso anno ha applicato la riforma: le Province sono scese a cinque, con quella di Cagliari che però si è sdoppiata in Città metropolitana e Provincia Sud Sardegna. Tutto bene? Certo, se non si considera che nell’Isola vi sono ben 42 Unioni dei Comuni che ricevono ogni anno 20 milioni di euro per servizi e spese di funzionamento. «Abbiamo un territorio e una cultura molto particolari – dice l’assessore agli Enti locali, Cristiano Erriu – con la riforma abbiamo risparmiato eliminando elezioni e gettoni nelle Province».
Le Province abbandonate
Nel frattempo nel resto del Paese la riforma Delrio è stata applicata e oggi vi sono 76 Province e 10 città metropolitane che rivendicano risorse perché, nonostante abbiano trasferito il 50 per cento del personale a Regioni e Comuni, hanno ancora in gestione 130 mila chilometri di strade e 5.200 scuole nelle quali studiano 2 milioni di ragazzi. Nelle Finanziarie del 2015 e del 2016 hanno subìto un taglio di risorse pari a due miliardi, ma adesso chiedono aiuto: «Abbiamo applicato la riforma ma con questi tagli come possiamo garantire la manutenzione delle strade e delle scuole?», dice Variati. Il governo Gentiloni per il 2017 ha bloccato il taglio e stanziato 350 milioni.
Ma i fondi non bastano: la Provincia di Piacenza sta vendendo gli immobili pur di fare cassa. «Il problema vero è l’applicazione definitiva della legge – ripete Variati – che prevedeva l’accorpamento nelle Province di tutte le funzioni degli ambiti territoriali e anche delle stazioni appaltanti». La riforma a metà della Delrio ha invece aumentato gli enti: oggi abbiamo le Province e centinaia di organismi intermedi che si occupano di rifiuti, acque e bonifiche. Per non parlare dei circa 3 mila enti tra consorzi e partecipate e delle 30 mila stazioni appaltanti. Altro che riduzione della burocrazia e spending review.
«Lo storico impianto di Milano è abbandonato da quattro anni e sull’area si scatenano gli appetiti immobiliari. Braccio di ferro in corso tra Palazzo Marino e Pirellone sulla proposta di vincolo». il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2017 (p.d.)
Una mattina di mezza settimana nel grande piazzale dello stadio Giuseppe Meazza. Caldo, afa, lavori in corso davanti ai cancelli. Il resto è silenzio rarefatto. Poche auto. Il tram che ferma in piazzale Axum. Ci s’infila a destra. Via dei Piccolomini. Ombra e mura ingiallite, murales anche, scritte da ultras. Legno marcio agli infissi. Sono le stalle, viste da fuori. Dieci metri oltre, il cancello. Eccolo laggiù il “tondino” di allenamento. Assalito dalle piante, con il tetto, bellissimo una volta. Casca a pezzi. Il silenzio ora si fa denso. Il tempo non si muove. Giri lo sguardo verso la pista ed eccolo, ancora lo puoi vedere, il lampo sulla terra chiara, il rumore delle ruote, il sudore, il volto teso del driver, corre Varenne. È il 1999, il mito si forgia qua alla Scala milanese del trotto. Gran premio delle nazioni. “Varenne très bien”. Arriverà l'Amerique a Parigi,due volte. Ma ora è qui a Milano, giovane e semi sconosciuto.
Stravince e vola via, questo figlio di Waikiki Beach e Ialmaz. Lo chiameranno il Capitano. Si sente, nel degrado di adesso: c'è ancora l’Enzo Janacci che lo canta, c’è il pubblico di allora, la Milano di allora, che riprende fiato dagli scandali di Mani pulite e dalle bombe mafiose. In comune a palazzo Marino, il fruscio delle tangenti ha soffiato via i socialisti. È passata la Lega nord. È arrivato il Polo delle libertà. Il nuovo mazzettificio meneghino, però, attende sotto il finto sdegno dei politici. Il tempo è elastico. E torni qui ora nel deserto dell’abbandono.
Quattro anni fa nel 2013, battenti chiusi. Snai spa dà l’annuncio. L’Ippodromo del trotto di via dei Piccolomini smette di vivere e oggi soffoca tra sporcizia ed erba secca. C’è la crisi, si disse, basta corse. Addio azzardo, adrenalina da scommessa, vecchi malavitosi e giovani boss. Un pezzo di città è in lutto. Non i palazzinari che su questo tempio del costume e dello sport oggi fanno di calcolo. La burocrazia da carte bollate ha tolto vincoli, rimodellato piani, inanellato varianti, niente più sport o aree verdi, solo 290 mila metri cubi sul tavolo per nuove e golose speculazioni. Snai festeggia. E ci mancherebbe. Ma qualcosa si rischia di perdere, un pezzo di vita reale della città, uno stralcio di Dna unico. Che se, poi, dal tondino si cammina verso la tribuna passando dalla biglietteria, facendo attenzione a non calpestare escrementi e monnezza varia, con il sole di questo luglio che brucia, ancora si ascolta la mitragliata dei seggiolini alzati, scatta in piedi il pubblico, qui nell’ovale ippico che fu mondiale.
Nobili signori e industriali, travet e banditi. Politici, amministratori, mafiosi. Adesso s’intravedono le ombre, che nulla resiste se non il degrado. Sembra cent'anni fa, quando Epaminonda il Tebano, tra una corsa e un Negroni al bar Basso, si prendeva la città e la politica. Erano solo gli Ottanta da bere. Milano che cambia e dimentica la sua storia, cancella i suoi simboli. In via dei Piccolomini, e oltre via dei Rospigliosi: incendi, racket, omicidi, debiti senza rimedi, commedia umana che rischia di svanire per sempre. Milano, trotto, cemento.
Ecco il punto. Che succede adesso? Nell’epoca del post Expo, nella risacca da grandi opere che in città riprendono vigore. Nuovi affari. Con le ruspe che attendono a motori accessi. Ci sono ospedali: il San Paolo e il San Carlo da traslocare. C’è l’università Statale da trascinare a forza sui terreni dell’Expo. Ci sono le aree degli ex scali ferroviari. E c’è l’ippodromo che fa gola e ci mancherebbe. Zona di gran lusso. San Siro, ville, residenze di calciatori superpagati. Poco più in là, l’Ippodromo del galoppo. Verde e liberty ovunque. Salvato per fortuna dal cemento anche se qualcuno, negli anni, ci ha tentato. Ma lì il vincolo è oggi inamovibile.
Il cavallodi Leonardo, dieci tonnellate d’imponenza, sorveglia austero. Fino al 2010 il rischio è stato concreto. Poi il comune ha blindato tutto.Non con il trotto, però. A fine 2016 Italia nostra e i Verdi ci hanno provato. Vincolo anche sull’area del trotto. La proposta è stata portata in Regione Lombardia. Al vaglio della Commissione. Richiesta bocciata e rispedita al mittente. Pazzesco in effetti. Anche perché la richiesta viene portata avanti dal sovrintendete del comune, competente per l'ippodromo, e silurata dal Pirellone. Porte aperte alle ruspe? Non ancora. Si attende l’esito sul rinnovamento della proposta di vincolo. La Regione, in sostanza, boccia la richiesta sul 100% dell’area e chiede di rimodulare. Nell’attesa, però, gli atti di quella decisione ancora non sono accessibili. Enrico Fedrighini, assessore al Verde nel Municipio 8, e storico animatore delle battaglie ambientaliste a Milano, ha richiesto il fascicolo ma le risposte ancora latitano. Snai, che è proprietaria dell’area, non può influenzare la decisione. Sta lì e attende. Dalla sua una determina dirigenziale del comune di Milano, datata 2014. Carta vincente, in effetti. Niente più vincoli per aree sportive. E così Snai si ritrova in mano un tesoro.
Enrico Fedrighini, figuriamoci, mica ci sta. Stuzzicato, sbotta: “Sono rimasto molto sorpreso dal fatto che la Commissione regionale abbia bocciato la prima proposta di vincolo presentata dalla sovrintendente Ranaldi. La bocciatura è un evento non comune anche perché la proposta mi risulta frutto di un’accurata istruttoria e anche perché l’originaria richiesta di vincolo del trotto ricalcava la proposta già presentata nel 2004 per vincolare l’ippodromo del galoppo. Spero che la lettura degli atti, ai quali peraltro non ho ancora avuto accesso, serva a fugare definitivamente i non pochi dubbi sull’intera vicenda”.
La decisione della determina di tre anni fa, motivata in 10 pagine, è legata, tra i vari motivi, anche al fatto che Snai dopo la chiusura della struttura di via dei Piccolomini, all’epoca promise, e in effetti oggi è così, la riapertura del Trotto nella pista Maura. Ma è trotto dimesso, e spettacolo al ribasso. Nel frattempo, Snai ha presentato un’istanza per introdurre una variante al Pgt e rendere edificabili 97 mila metri quadrati equivalenti a 290 mila metri cubi. Per questo i terreni del trotto oggi valgono una fortuna.
Allo sfregio del mattone ci sarebbe una soluzione mediana. Quella di affidare a Inter e Milan il progetto di trasformare la struttura nel cosiddetto “quarto anello”, allestendo all'interno ristoranti e negozi in stile inglese. Le “milanesi” però nicchiano. Il sindaco Beppe Sala, interista conclamato, ha più volte ribadito la volontà di seguire questa strada. Solo parole. Perché, nella realtà, l'assenza del vincolo paesaggistico rende difficoltosa questa opzione. I terreni, così com’è la situazione oggi, sono un tesoro inestimabile. Eppure ancora, da questa parte abusivo, tra la pista e il “tondino”, sembra di risentirle le parole dello speaker di quel 1999, 14 novembre, serata fredda, luci e nebbia. Varenne primo al traguardo. “La gente in pista – sono quelle di allora –, San Siro che salta, le braccia al cielo, e tutta Milano che esplode”. Quattro colpi di escavatore sul piazzale del Meazza bastano a riportati dentro a questo luglio bollente. Di fronte al dissesto di un pezzo di cuore milanese.
«Dai lidi in Sicilia, alle scuole di Locri costruite dalle cosche passando per interi quartieri di Roma: così i “fuorilegge” ridisegnano il piano regolatore del Paese». il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2017 (p.d.)
Lido Bruno, San Vito di Taranto. Passeggiamo sulla baia che si apre alla fine di via Meduse - qui tutte le vie portano il nome di pesci – e lo sguardo viene rapito dall'acqua cristallina che dal turchese sfuma nell'azzurro profondo. E a pochi metri dall'acqua, una recinzione in muratura con “Passo carrabile”. L'area è soggetta a vincolo demaniale: sarebbe già vietato costruire, qui, com’è possibile ottenere dal Comune un passo carrabile? Poi il cartello: “Affittasi appartamenti a 20 metri dal mare solo per periodo estivo”. Telefoniamo. Fingiamo d’essere interessati a un appartamento. “L'unica settimana disponibile”, risponde il proprietario, “è l'ultima di agosto”. Gli affari vanno bene. “Abbiamo letto che si trova a 20 metri dal mare – continuiamo - ma com’è possibile? Non si può costruire così vicino alla riva”. “E io ci sono riuscito - risponde orgoglioso - siamo proprio sul mare: se non sta attenta, uscendo cade in acqua”. Ah. “Abbiamo anche la piscina – aggiunge - può vedere le foto su Booking e TripAdvisor”. E dice il vero: tutto pubblicizzato su Internet. Tranne un dettaglio: non solo la struttura - sei appartamenti da 70 metri quadrati ciascuno più piscina – è abusiva. E’ addirittura sotto sequestro: decreto firmato dal gip Giuseppe Tommasino su richiesta del pm della procura di Taranto Mariano Bucconieri. FQ L'Inchiesta segnala la vicenda in procura. La Guardia di Finanza si presenta nel resort: agli ignari vacanzieri viene concesso il tempo utile per fare le valigie. E i sigilli tornano al loro posto. Un caso isolato? Purtroppo no. Dalla Puglia alla Sicilia, passando per Calabria, Sardegna e Roma, ci si rende conto che negli anni, a comandare sui piani urbanistici - violando norme e violentando paesaggi - sono stati proprio gli abusivi.
Dalla Puglia alle Marche. Villaggi sulla sabbia e porti sconosciuti al catasto
Seda San Vito risaliamo in provincia di Foggia, su una lingua di sabbia che separa il mare Adriatico dal lago di Lesina, per la precisione a Torre Mileto, nel comune di San Nicandro Garganico, troviamo 3mila case abusive su 12 chilometri di costa. Ora, che possa venir su una casa, senza che nessuno se accorga, è già poco credibile. Ma che nessuno, negli anni '70, si sia accorto che nasceva un intero quartiere abusivo, va oltre ogni immaginazione. Case senza fondamenta né allacci alla corrente elettrica. Acqua per uso domestico prelevata da pozzi scavati in modalità “fai da te”. Il tutto nel cuore del Parco Nazionale del Gargano, zona dichiarata dall'Ue “Sito di importanza Comunitaria” e “Protezione Speciale”, meta delle rotte migratorie di uccelli. Divieto d’edificazione? Qui è abusiva la Chiesa, il bar, il negozio degli alimentari. Se non bastasse, trovi delle transenne che impediscono l'accesso al mare. Molte case recano il cartello “vendesi” - con quale rogito notarile, vien da chiedersi, visto che sono abusive. Tredici anni fa un'ordinanza di demolizione ne ha fatte abbattere quattro. Poi le ruspe si sono fermate, nonostante nel 2009, la Regione Puglia abbia varato il piano di recupero ambientale, mai divenuto esecutivo, che prevede l'abbattimento di 900 case. Nel frattempo sono piovute le richieste di condono edilizio e i proprietari pagano regolarmente le tasse. A quel punto, hanno costituito un Comitato delle vittime di ingiustizia (sic!), poiché non ricevono servizi adeguati le istituzioni paventano un grave pericolo sanitario.
Proseguiamo per Fano, in provincia di Pesaro, dove la GdF aeronavale di Ancona, comandata dal tenente colonnello Rocco Nicola Savino, ha sequestrato il camping Stella Maris: costruzioni abusive per un valore di 3 milioni su un'area in parte demaniale e in parte privata. Oltre i 24 bungalows hanno eretto anche anfiteatro in muratura. Pochi chilometri a nord, la Gdf ha scoperto che il porticciolo turistico di “Vallugola” è sconosciuto al catasto. Paradossale? Non quanto il seguente dettaglio: risultano comunque versati gli oneri al Comune.
Calabria: snaturato il 65 per cento della costa. Quegli 800 studenti nella scuola inagibile della ‘ndrangheta
Passiamo alle coste calabresi. Legambiente ha certificato che tra il 1988 al 2011 il territorio è stato drasticamente snaturato. “Da Reggio Calabria, fino al confine con la Basilicata, è un susseguirsi di nuove realizzazioni che hanno occupato vuoti, cancellato importanti aree agricole, intaccato paesaggi montuosi di rara bellezza”. Dei 798 chilometri di costa calabrese, ben 523 sono stati “trasformati da interventi antropici legali e abusivi”. L'ennesima prova che è l'abusivismo a disegnare il vero paesaggio del Paese. L’unica commissione d’inchiesta che è riuscita a stilare una relazione sull’abusivismo a Reggio Calabria risale al 2009, guidata Nuccio Barillà, dirigente nazionale di Legambiente. Ha censito 4.191 ecomostri: “Un’offesa al paesaggio ogni 100-150 metri lineari di costa”. Solo tra Bagnara e Africo, nel 2015, si contavano 686 gli ordini di demolizione disposti dal Tribunale. Mai eseguiti. Passeggiando per Reggio - che cont 328 ordini di demolizione non eseguiti t'imbatti nell'“È-hotel”. Albergo in parte sequestrato dalla procura nel 2013 poiché “è integralmente abusivo”. “È evidente – scrive il pm Matteo Centini – che è stato realizzata esclusivamente grazie alla complicità di infedeli funzionari pubblici... L'ennesimo scempio per questo meraviglioso territorio è stato perpetrato con la complicità attiva ... ovvero silenziosa e silente …di ogni singolo pubblico funzionario che aveva responsabilità nella gestione e nella sua tutela”. E se dal lungomare t’inoltri nella periferia, puoi ammirare il “Cos’È-hotel”, la sua struttura “gemella”, costruita in una zona “caratterizzata da vincolo idrogeologico”. Anch'essa sequestrata perché “totalmente abusiva”. A Bagnara, per anni, prima dell’arrivo dei commissari prefettizi - che hanno acquisito la struttura al patrimonio pubblico - il Comune ha pagato al proprietario del residence “Laura”, già considerato abusivo, l’alloggio per gli ospiti del famoso premio Mia Martini.
Se foste nati a Locri, invece, avreste potuto frequentare l’Istituto d’arte “Panetta”o l’Istituto professionale per l’industria. Salvo vedervi sequestrare le scuole, pochi mesi fa, dall’Antimafia perché, come sostiene il procuratore De Raho, è in pericolo “l’incolumità di 800 studenti”. Ebbene sì, a Locri la ‘ndrangheta riesce a costruire persino le scuole. Senza un documento in mano. Senza che un solo agente della polizia municipale se ne accorga. Manca il permesso a costruire, il collaudo, il certificati d’agibilità. Intanto i proprietari incassavano dalla Provincia 130mila euro l’anno d’affitto. Poi l’ente ha acquistato il tutto per 12 milioni di euro. Da soggetti legati alle cosche.
Quartu Sant'Elena, la capitale delle case fai da te. 222 milioni di spesa pubblica per servire gli abusi condonati
La capitale dell’abusivismo in Sardegna è invece Quartu Sant’Elena. Attorno a quel suo mare che ti ci tufferesti già con gli occhi, centinaia di ville cresciute senza alcuno stile, ordine e criterio. Stefano Deliperi, anima della storica associazione ambientalista sarda Gruppo di Intervento Giuridico, la racconta così: “Quartu è una delle capitali dell'abusivismo edilizio in Italia. Negli anni Novanta era al terzo posto dopo Napoli e Gela. Di fatto, però, è anche l'unico Comune sardo ad avere la mappa completa dell'abusivismo edilizio sul proprio territorio: nel 1995, dopo le operazioni di condono, risultavano 10.400 casi di abusivismo – per 70mila abitanti – dei quali 127 insanabili parziali e 486 insanabili totali”. Lungo il mare trovi 2.858 casi di abusivismo, per la bellezza di 739.007 metri cubi realizzati nelle zone turistiche costiere. Ai quali bisogna aggiungere - continua Deliperi - i 490mila metri cubi dei 1.336 abusi nelle zone agricole. Totale: oltre un milione di metri cubi soltanto negli anni Novanta. Allo sfregio ambientale e paesaggistico, bisogna aggiungere la spesa che incombe sulle casse pubbliche, per dotare di servizi le costruzioni abusive. “Per dotare dei necessari servizi (depurazione, acqua, energia elettrica, smaltimento rifiuti, scuole, ecc.) gli ‘abusi condonati’- conclude Deliperi - la spesa ammonta a 222 milioni, a fronte dei 20 milioni entrati con le oblazioni di legge”. E se da Quartu ci spostiamo a Roma, il paradosso diventa lampante: nei fatti,a disegnare un nuovo piano regolatore, sono stati convocati direttamente gli abusivi.
Il paradosso di Roma: chi abusa, delibera. 58mila persone fuori dal piano regolatore
In buona parte delle periferie, oltre il Grande Raccordo Anulare, prima sono state costruite le case, poi sono arrivate le regole urbanistiche. Quartieri senza servizi che hanno ospitato la rapida crescita demografica del secondo dopoguerra: dal ‘51, quando si contavano 1,6 milioni di abitanti, ai 2,8 milioni degli anni 90. Nel 2009, una delibera della giunta guidata da Gianni Alemanno - basata su un piano varato nel ‘97 dal sindaco Rutelli - riconosce 71 nuclei di “edilizia ex abusiva” - i cosiddetti toponimi - abitati da oltre 58 mila persone (pari alla popolazione di Agrigento). L’obiettivo è quello di fornire marciapiedi, strade, parcheggi o reti idriche. Il provvedimento chiede ai residenti “la cessione delle aree pubbliche”, di cui si sono appropriati senza titolo, concedendo in cambio di costituirsi in consorzi e progettare il recupero urbanistico. E così gli abusivi, nei fatti, ridisegnano il piano regolatore. “L’Atac - si legge in una delle schede tecniche che i consorzi hanno presentato per ottenere il risanamento - non svolge servizio all’interno del toponimo per le dimensioni stradali e la mancanza di continuità delle stesse...”. In sostanza, andrebbero costruite strade adeguate e regolamentati i percorsi dei mezzi pubblici. E’ necessario, senza dubbio. Ma c’è un fatto evidente: chi ha violato le norme, ora ridisegna il volto della città. Se non bastasse, gli abusivi possono usufruire di un “aumento della volumetria realizzabile”. E quindi: se da (ormai ex) abusivo, rendi al Comune il suolo pubblico, non solo progetti i servizi, ma ottieni anche nuove cubature. Vista l'assenza di fondi, il piano non è mai decollato. Resta il fatto che il sostegno elettorale dei consorzi edili, ormai, vale una gran fetta del voto delle periferie. E ogni candidato sindaco, a Roma, deve farci i conti.
Sicilia, vista mare con ruspe e sigilli. Nel mirino delle procure lidi e ristoranti
Adesso spostiamoci in Sicilia, a Cefalù, dove lungo l’itinerario arabo normanno i turisti di mezzo mondo si aggirano un po' spaesati fra stabilimenti transennati e col cartello di sequestro in bella vista. Lidi spesso accomunati dall’assenza della necessaria certificazione paesaggistica della Sovrintendenza. Lo scorcio di paradiso in provincia di Palermo, dal 2015 è inserita fra i siti Unesco, ha già subìto a partire dagli anni ‘50 una speculazione - non soltanto edilizia - che ha modificato morfologia e cultura del territorio. E il commissario di polizia Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, ha messo nel mirino le 14 concessioni che occupano i 2 chilometri di lungomare. In questo scorcio di stagione ha sequestrato circa la metà degli stabilimenti con i bagnanti sgomenti. “Per quasi tutti gli stabilimenti - dice Borselllino - non è chiaro come abbiano avuto la concessione e la necessaria certificazione paesaggistica. Nella migliore delle ipotesi, c’è stato il parere auto-assentito della Sovrintendenza, acquisito con la procedura del silenzio assenso. Una procedura assolutamente inapplicabile in questa materia, ancor di più quando si tratta di opere (seppure precarie o rimovibili) realizzate su aree sotto stringenti vincoli paesaggistici e considerate di notevole interesse pubblico. Noi abbiamo agito seguendo l’input dell’Assessorato al Territorio che, ben prima dell’inizio dell’attuale stagione, ha diffidato i gestori dal montare gli stabilimenti”. La madre di tutti i sequestri è stato il Poseidon 2 anni fa. Il forte groviglio d’interessi “balneari”s’attorciglia sempre più fra carte da bollo e ricorsi, con gip e tribunale del Riesame che a volte confermano, altre si smentiscono a vicenda. Permangono i sigilli per 2 lidi, per altri c’è il processo in corso, come per il Malik, costruito su un torrente con grave rischio idrogeologico. Fra il lungomare e il Duomo, dove affiorano le mura megalitiche erette sulla scogliera alla fine del V secolo avanti Cristo, sono sorti invece i ristoranti più alla moda: le terrazze a mare. In particolare una ha un’imponente struttura sostenuta da telai di ferro e pilastri in cemento armato conficcati proprio sotto le mure megalitiche. Borsellino ha da poco inviato una nota al riguardo all’assessorato al Territorio e Ambiente (e per conoscenza alla Sovrintendenza di Palermo e al Procuratore della repubblica di Termini). Il commissario di Cefalù aspetta che l'Assessorato gli risponda, però, dice: “In 8 anni e mezzo che sono a Cefalù non ho mai visto una demolizione".
Le capitali Europee, alle prese con i radicali cambiamenti del clima, adottano sistemi sempre più innovativi. Naturalmente non si propongono di adottare provvrfimrmti che contrastino lo sviluèèismo, causa condistente del surriscaldamento, ma solo queli che incrementano il Pil. Regioneambiente, 15 luglio 2017 (c.m.c.)
Le conseguenze derivate dai cambiamenti climatici stanno apportando modifiche sostanziali al modo in cui l'uomo si approccia alla natura. L'innalzamento del livello dei mari è una delle problematiche più attuali dato che già numerose città costiere del mondo devono fare i conti con la lenta scomparsa di alcune zone abitabili.
Per una nazione come i Paesi Bassi, la cui superficie è posizionata, per una buona parte, sotto il livello del mare, le problematiche sono all'ordine del giorno. E' per questo che la città di Rotterdam, uno dei capoluoghi principali del paese, sta adottando delle contromisure di ingegneria edile molto sofisticate e innovative, tali da attirare a sé l'interesse di numerose comunità scientifiche.
Come riportato nel dossier 2017 di Legambiente dal titolo "Le città alla sfida del clima", la città olandese è considerata come una delle più avanzate nel campo della trasformazione urbana. Tutti i progetti sviluppati, infatti, sono basati sul semplice quanto nobile concetto di resilienza urbana, ovvero l'adattamento ambientale delle strutture cittadine ai nuovi cambiamenti naturali. Non c'è dunque l'intenzione di forzare i percorsi e i comportamenti dell'acqua, bensì di convivere con questi nella maniera più intelligente e sostenibile possibile.
La superficie di Rotterdam è situata per l'80% al centro del delta del fiume Reno, il rapporto città-acqua è un fattore estremamente importante per la vita di tutti giorni. E grazie alle politiche urbanistiche attuate dalla municipalità nel corso degli ultimi 15 anni, tale rapporto è stato capovolto in maniera straordinaria, passando da minaccia ambientale a opportunità economica. Risale al 2001, infatti, il primo atto di un piano d'azione a lungo termine per contrastare gli effetti, anche devastanti, delle alluvioni e delle tempeste. Una programmazione che è stata poi aggiornata sia nel 2005 che nel 2007 e con una pianificazione fino al 2035, sintomo di come la città sia attiva su questo ambito.
Nel dettaglio, tra i provvedimenti presi, c'è l'istituzione dell'Eendragtspolder, una grande landa bonificata e ibrida, composta sia da campi che canali, utilizzata per moltissime attività acquatiche e sviluppata in maniera tale da poter accogliere le esondazioni del fiume Reno e l'eccesso di acqua dovuto alle alluvioni, senza causare nessun danno. Ci sono poi nuove modalità di architettura, che interessano soprattutto il centro di Rotterdam. Tra queste il retrofitting, ovvero la riutilizzazione di spazi sotterranei, come dei garage, convertiti in grandi serbatoi per lo stoccaggio dell'acqua piovana. Ma anche la costruzione di strutture abitative e quartieri galleggianti, soluzioni flessibili che si adattano alla fluttuazione dei livelli dell'acqua.
Il capoluogo olandese non è un unicum nel suo genere; altri centri metropolitani del centro e nord Europa stanno adottando strategie di adattamento innovative per contrastare i cambiamenti climatici. Alcuni esempi:
- La città di Brema, in Svizzera, ha avviato un programma di lavoro, il Sensible Water and Urban Development, con l'obiettivo di gestire in maniera ottimale le piogge intense. Questo consiste nell'uso multifunzionale del terreno, nella creazione di parchi acquatici, nell'utilizzo di strutture sotterranee e di raccolta dell'acqua e nella costruzione di strade di emergenza.
- Copenaghen, nel 2011 ha aggiornato il suo piano urbanistico, denominato "piano delle cinque dita" e risalente al 1949, per far fronte alle inondazioni. Nel dettaglio, si è deciso di allargare il sistema fognario, utilizzare nuove modalità di drenaggio urbano superficiali in grado di gestire localmente l'acqua piovana e di guidare il flusso in caso di alluvioni, dirottandolo verso luoghi non sensibili all'allagamento. Sempre nella capitale danese, alcuni quartieri hanno subito trasformazioni molto interessanti. In quello di St. Kjeld, a seguito del disastroso nubifragio del 2011, la municipalità di Copenaghen ha avviato un ambizioso progetto di ottimizzazione delle vie e delle piazze, con la creazione di zone piantumate, dune verdi, piste ciclabili, sostituzione di pavimentazioni impermeabili con prati e mini parchi urbani, oltre alla sopraelevazione dei marciapiedi per la raccolta e il deflusso delle acque in eccesso verso il porto. In quello di Nørrebro, oggetto tra i principali del Copenhagen Climate Plan, si è adottato un nuovo approccio al tema della presenza dell'acqua in ambito urbano. Essa non viene considerata più come un pericolo, bensì come una risorsa e un'occasione di creazione di nuovi spazi attrattivi che abbiano come scopo la diversità biologica, lo scambio culturale e l'interazione sociale di quartiere.
- Stoccarda, il capoluogo tedesco, rappresenta uno degli esempi più avanzati di integrazione delle misure di mitigazione del calore urbano all'interno di strumenti di pianificazione ordinaria. Nel 2008, nel Land Use Plan, piano di ampliamento della zona residenziale Schelmenäcker, realizzata a ridosso del bosco di Lemberg, è stato concepito un "corridoio verde" di attraversamento del nuovo nucleo abitato in grado di salvaguardare l'esistenza di un "passaggio di ventilazione" tra il centro cittadino e le aree rurali circostanti, migliorare le condizioni microclimatiche ed estetiche del nuovo quartiere, e garantire un nuovo spazio verde a scopi ricreativi e di mobilità, da e verso il centro urbano.
La strada per risolvere le problematiche del climate change è ancora molto lunga e impervia, specie se si valuta quanti pochi sforzi vengano fatti, allo stato attuale, dai governi della comunità mondiale. Ad ogni modo, l'attuazione di queste innovative strategie urbane, volte a salvaguardare la vita nei grandi centri urbani, sono il sintomo che una parte della popolazione si sta muovendo nella direzione giusta.
«Lo Stato e per esso il governo, prima Renzi, poi Gentiloni, si è industriato in autentiche “controriforme” o in vere e proprie latitanze». Il FattoQuotidiano online, 14 luglio 2017 (c.m.c)
Nello spettacolo drammatico del fuoco che divora migliaia di ettari di bosco nel cuore del Parco Nazionale del Vesuvio a vantaggio degli abusivi o del Parco regionale dei Nebrodi da tempo nel mirino della mafia si rispecchia un autentico “smontaggio” dello Stato, ad ogni livello.
Dopo mesi di primavera precoce, le Regioni per la loro parte e il Ministero dell’Ambiente hanno predisposto per tempo i piani di azione e di prevenzione anti-incendio previsti dalla legge e più che mai indispensabili con l’aumento delle temperature? Non sembra proprio. In regioni strategiche – dall’Abruzzo alla Sicilia – non c’erano mezzi aerei di contrasto.
Il cambiamento climatico è un fatto, la desertificazione in Italia avanza da Sud a Nord: a che punto è l’attuazione della legge del 2000 sui catasti comunali dei terreni bruciati dove non si può né si deve costruire? Molto indietro. In compenso in Sicilia si continua ad avere un mega-organico di forestali i quali “hanno bisogno” di incendi da spegnere. Ci siamo capiti.
Nell’“orribile” 2007 furono 308 le richieste di intervento anti-incendio fra aprile e luglio, quest’anno sono già 430 e il fuoco non dà tregua. Nel Lazio, regione fertile per abusi e speculazioni edilizie, i roghi sono aumentati del 400%. Ma il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti continua a parlare di “piromani” e ad “auspicare” più repressione. Già nel 2003 in Sicilia studi seri individuavano soltanto 4 cause naturali o accidentali di incendio, 101 “dubbie”, 25 colpose e ben 488 dolose (79%) su 618. Gli incendi estivi fanno parte del “fatturato” dell’economia criminale? Sì, dov’è lo Stato?
Lo Stato e per esso il governo, prima Renzi, poi Gentiloni, si è industriato in autentiche “controriforme” o in vere e proprie latitanze: 1) la situazione dei Vigili del Fuoco, uno dei corpi pubblici più efficienti, pronti al sacrificio, più vicini alle popolazioni colpite da ogni sorta di calamità, da ultimo il terremoto fra Lazio, Marche, Abruzzo sono da anni sotto organico di 3000 unità, con un’età media sui 50 anni, stipendi fra 1300 e 1500 euro appena e continui pensionamenti che le 2400 assunzioni del 2013 non compensano. Nell’era Berlusconi, loro come altri Corpi specializzati sono stati penalizzati e indeboliti rispetto alla Protezione Civile sacrificando grandi competenze.
2) La criticatissima “riforma Madia” della Pubblica Amministrazione, proprio mentre il cambiamento climatico ne esigeva il potenziamento specifico, ha cancellato dalla scena dei nostri monti la Guardia Forestale che tanti meriti si era conquistata in cento anni assecondando una importante ripresa della forestazione (spesso non pianificata purtroppo) su 3 milioni e mezzo di ettari aumentando notevolmente il miliardo e 24 milioni di tonnellate di carbonio organico sottratto all’atmosfera inquinata. Lo smembramento del Corpo Forestale assorbito nei Carabinieri dei Noe e il passaggio di competenze alla Protezione Civile “ha di fatto derubricato la questione incendi abbandonando le attività essenziali e strategiche di prevenzione”, si legge in una penetrante interrogazione dell’on. Serena Pellegrino (Si) e da altri.
Gli incendi stanno allontanando dalle montagne e persino dalle coste del Sud decine di migliaia di turisti. Un altro boomerang in piena fronte. Ma al Senato riemerge, pur modificata in qualche parte, la legge Caleo (Pd) che indebolisce il governo dei Parchi Nazionali nostra immensa ricchezza igienico-sanitaria, biologica, turistica, da tutelare metro per metro. E intanto bruciano boschi secolari, vengono carbonizzati nidi e covi di uccelli, di animali selvatici, rettili, insetti utili. E da questi terreni montani “cotti” a dovere aspettiamoci altri guasti con le piogge di novembre: frane, colate di fango, alluvioni. Altre tragedie da rincorrere.