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l Piano paesaggistico sardo approvato nel 2006, è oggi preso a modello in Italia e all’estero da chi pensa che tutelare il territorio sia fondamentale. Ora la giunta che governa la Sardegna propone una serie di norme che cancellerebbero quella riforma». il manifesto, 4 agosto 2017 (c.m.c.)

SARDEGNA,
«NELLA LEGGE URBANISTICA
C'È UNO SCEMPIO»

di Costantino Cossu


«A rischio quel 50% delle coste ancora intatte, l’ex governatore Renato Soru contro l’articolo 43 del piano della giunta Pigliaru: "Per quella parte dove non si è costruito la tutela garantita dal Ppr deve rimanere, le regole devono valere per tutti"»

C’è un articolo della legge urbanistica preparata dalla giunta sarda del presidente Pigliaru (Pd), al centro in queste settimane di molte polemiche, che a Renato Soru proprio non piace. L’uomo che guidava l’esecutivo quando nel 2006 fu approvato il Piano urbanistico regionale (Ppr) che ha messo al sicuro le coste della Sardegna dall’edilizia di rapina spara a zero contro l’articolo 43. Su tutto il resto è disponibile a trattare, ma su quella parte del testo darà battaglia.

Cos’ha l’articolo 43 che non va?
Non va perché dice che per “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”, questa è la formula indicata nel testo, possono essere stipulati accordi di programma in deroga al Ppr. È inaccettabile. Significa che in base a un accordo del tutto discrezionale con la giunta regionale, questo o quell’altro imprenditore privato può non rispettare le regole del Piano urbanistico regionale. Quindi, ad esempio, costruire alberghi o villaggi turistici nelle zone costiere ancora libere da costruzioni. Su questo non è possibile alcuna mediazione.

Sarebbe di fatto uno svuotamento del Ppr?
Sì. E su questo punto davvero non è possibile accettare alcuna discussione. Vede, le destre hanno costruito una specie di leggenda secondo la quale il Ppr impedisce di costruire, dà un colpo mortale all’industria edilizia e danneggia il turismo. Non è così. Il piano fissa invece dei criteri generali di tutela nell’interesse collettivo. Nei decenni passati sulle coste sarde si è costruito molto e soprattutto male. Sono trecentomila le seconde case disseminate da nord a sud, da est a ovest. Il cinquanta per cento del suolo è stato consumato in questo modo: ville, villette e villaggi a schiera che per gran parte dell’anno restano disabitati. Resta un altro cinquanta per cento che invece è incontaminato. Per ciò che riguarda il già fatto, il suolo già occupato dal cemento, il Ppr detta regole che insistono sul concetto di recupero e di riqualificazione. Per ciò che invece ancora non è stato toccato, indica criteri generali di tutela assoluta.

E se passasse l’articolo 43? Il cemento potrebbe arrivare nel 50 per cento vergine?
Per “progetti di particolare rilevanza economica e sociale” il vincolo potrebbe cadere. Una deroga inaccettabile. Per quella parte delle coste dove non si è costruito la tutela garantita dal Ppr deve rimanere, le regole devono valere per tutti. Chi è che stabilisce che un progetto, presentato magari da un grande gruppo nazionale o internazionale, ha “particolare rilevanza economica e sociale”? In base a quali criteri verrebbe presa la decisione di dare il via libera? Basta un po’ di buon senso per capire quali sono i rischi.

Il progetto della giunta Pigliaru prevede anche un aumento di cubature per gli alberghi che già esistono, sino al 25% del volume in essere. Su questo punto cosa pensa?
Con il “Piano casa” approvato dalla giunta di centrodestra (guidata da Cappellacci, ndr) che ha preceduto il governo Pigliaru, già quasi tutti gli alberghi, in Sardegna, hanno aumento le cubature. Solo in pochi non ne hanno approfittato. Per chi già è stato “premiato” dalle norme della giunta di centrodestra, un secondo “premio” deve essere escluso. Per gli altri, quelli che ancora non hanno aumentato le cubature, si può vedere. Ma devono essere ammessi soltanto interventi di riqualificazione finalizzati ad adeguare la domanda a una richiesta turistica che nel tempo è mutata. E poi va fissato un tetto massimo differenziato caso per caso. Perché se un albergo è già molto grande, è impensabile che gli si possa concedere di ampliarsi del 25%.

Se la giunta porta in aula un testo che prevede l’articolo 43 così come oggi è formulato?
Se fossi un consigliere regionale, voterei no. Ripeto, quell’articolo è inaccettabile.

La giunta ha presentato anche un testo unico sul turismo che per i campeggi prevede un aumento di cubature per casette di legno e bungalow. Lei che ne pensa?
Tutto il male possibile. Nei campeggi ci devono stare le tende e poche strutture removibili. D’inverno le zone occupate dai campeggi, che spesso sono zone di pregio a due passi dal mare, devono tornare vuote. Cosa facciamo, autorizziamo sulle spiagge villaggi turistici mascherati da campeggi?

Eduardo Salzano, il grande urbanista che lei ha voluto come consulente per redigere il Ppr, ha scritto sul suo sito Eddyburg: “La giunta Pigliaru fa strame del Ppr, cede la sovranità dell’isola agli sceicchi del Qatar”… Gli sceicchi non sono soltanto quelli in ghutrah e kandura. Ci sono anche “sceicchi” in abito scuro e cravatta. Dico, però, all’amico Salzano, che ancora, per fortuna, non è così. O meglio, bisogna impegnarsi perché non diventi così.

È BATTAGLIA CONTRO
IL TESTO DELLA GIUNTA PIGLIARU,
PD DIVISO

di Costantino Cossu
«Salvacoste a rischio. Fronte ambientalista unito, democratici in lite e la maggioranza scricchiola»

La legge urbanistica scritta dalla giunta regionale guidata da Francesco Pigliaru è al centro di un’aspra polemica. Le norme che dovrebbero regolare lo sviluppo urbanistico dell’isola per i prossimi decenni sono entrate nell’occhio di un ciclone alimentato dalle proteste di tutto il fonte ambientalista, che accusa la maggioranza di centrosinistra al governo in Sardegna di voler demolire le tutele contro la devastazione edilizia delle coste garantite dal Piano paesaggistico regionale (Ppr) approvato undici anni dalla giunta di Renato Soru.

L’ultima levata di scudi è arrivata da Angelo Bonelli: n Sardegna il Partito democratico propone di cancellare a colpi di cemento la legge salvacoste – ha detto il coordinatore nazionale dei Verdi – ma noi impugneremo la nuova legge sia davanti il governo nazionale sia in Europa». l Piano paesaggistico sardo approvato nel 2006 – dice Bonelli – è oggi preso a modello in Italia e all’estero da chi pensa che tutelare il territorio sia fondamentale. Ora la giunta che governa la Sardegna propone una serie di norme che cancellerebbero quella riforma: via libera a nuove costruzioni turistiche perfino nella fascia costiera finora considerata inviolabile, cioè spiagge, pinete, scogliere e oasi verdi a meno di 300 metri dal mare».

«L’obiettivo della maggioranza – prosegue Bonelli – è di portare in consiglio regionale un testo da approvare in tempi stretti, ma noi ci opporremo con tutte le nostre forze anche davanti alla Commissione europea e con una petizione che partirà nei prossimi giorni».

Nell’isola oltreché dall’area ambientalista (Italia Nostra e Gruppo di intervento giuridico) l’opposizione alle nuove norme urbanistiche arriva dalle sigle a sinistra del Pd (Sinistra italiana e Rifondazione) ma anche dall’interno del partito di Renzi. Su quest’ultimo fronte le riserve più forti provengono dalla componente di cui è leader Renato Soru, “padre” delle norme di tutela che sinora hanno tenuto in scacco i signori del cemento. Sotto attacco dei “soriani” soprattutto l’articolo 43 della proposta di legge Pigliaru, che consentirebbe di costruire anche in aree non toccate dal sacco edilizio precedente il Ppr.

Qualora infatti fossero presentati alla giunta – dice il testo – “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”, sarebbe possibile un accordo tra imprenditori e governo regionale in deroga al Ppr. Di particolare rilevanza economica sono, ad esempio, il progetto presentato da Marina Berlusconi per Costa Turchese in Gallura o quello presentato dal Gruppo Sansedoni (partecipato al 24% dalla famiglia Benetton) a Capo Malfatano nel Sulcis o quello allo studio della Qatar Holding in Costa Smeralda. E poi ci sono le norme che permettono agli alberghi già esistenti di ampliare le volumetrie: secondo gli ambientalisti, è un “Piano casa 2” dopo quelli di Berlusconi e della giunta di centrodestra che ha preceduto quella attuale.

L’assessore all’Urbanistica di Pigliaru, Cristiano Erriu, replica che la legge serve soltanto a semplificare le procedure e a garantire agli alberghi margini di maggiore concorrenzialità. E che niente sarà fatto contro le norme di tutela del Ppr. La battaglia è aperta. Dopo l’estate arriverà in consiglio, con la possibilità che il Pd e la sua maggioranza si spacchino.

Continuano a cincischiare litigando per due soluzioni entrambe devastanti per la Laguna e per la città. L'unica soluzione ragionevole è: via le grandi navi dall'area veneziana. la Nuova Venezia, 3 agosto 2017

Venezia. Botta e risposta tra il presidente dell'Autorità di Sistema Portuale, Pino Musolino e il presidente della Municipalità di Venezia Giovanni Andrea Martini sull'attesa della soluzione scelta dal ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per risolvere il problema dell'accesso delle grandi navi da crociera a Venezia. «Il ministero da noi consultato ci ha risposto» spiega Martini «che la documentazione da noi richiesta e relativa alle analisi comparativa tra alternative progettuali esiste, ma che trattasi di una bozza presentata dal presidente della Autorità di Sistema Portuale di Venezia, non ancora inoltrata ufficialmente al ministero, in quanto non ancora finalizzata e ancora in corso di ultimazione, dove non si è insediato alcun tavolo tecnico». «Tutte le dichiarazioni del sindaco Brugnaro e di Musolino» aggiunge il presidente della Municipalità di Venezia «che da mesi dicono che la soluzione verrà presto annunciata dal ministero non trovano, quindi, alcun fondamento».

Immediata la risposta dello stesso presidente Musolino: «stiamo lavorando alacremente da mesi per dare al Governo tutti gli strumenti per decidere sul futuro della crocieristica veneziana». «La fretta è nemica del meglio» aggiunge Musolino «sono 5 anni che Venezia e l'opinione pubblica attende una soluzione ed è compito di uno Stato e dei suoi uomini e donne sul territorio agire con consapevolezza e determinazione per raggiungere questo obiettivo. È però evidente che, per elaborare studi e soluzioni comparative ci vuole il tempo necessario, queste infatti devono essere complete, sostenibili sia ambientalmente che economicamente, ma soprattutto dettagliate. Solo così non sarà perso altro tempo in progetti inutili e non realizzabili».
E all'impressione espressa da Martini che «la volontà sia quella di lasciar passare il tempo e far sì che le navi continuino a transitare in Bacino San Marco» Musolino risponde: «Se fino a ieri è stata scelta una metodologia diversa che ha visto il proliferare di progetti e idee che hanno solo alimentato polemiche sterili e creato vane speranze, oggi non abbiamo altro tempo da perdere. In questo senso le numerose riunioni tra Governo, Comune, esperti, compagnie di crociera e operatori che si sono svolte in questi mesi, hanno il compito di approfondire tutti gli aspetti di identificare le analisi necessarie per raggiungere una quadra complessiva e sostenibile che sarà poi presentata a tutti, anche al consiglio di Municipalità dove ho avuto già il piacere di partecipare e dove sarò lieto di tornare con proposte concrete».

«I 79 bungalow con piscine di Punta Scifo a Crotone avallati dal funzionario Che ora rischia il processo». la Repubblica, 4 agosto 2017 (c.m.c.)

A Crotone non hanno dubbi. «Altro che Caraibi, andate a Punta Scifo». Per arrivare ci vogliono gambe e pazienza, ma la meta vale la fatica. Alla fine del sentiero c’è una cala di sabbia dorata e mare turchese, incorniciata da rocce arrotondate dal vento, a pochi passi dal tempio di Hera Lacinia, il simbolo di Crotone nel mondo. Un paradiso. Sotto assedio.

A sporcare la spiaggia, proprio sotto una torre cinquecentesca, ci sono 79 piattaforme di cemento. E lo scavo, incompleto, di una grande piscina. È quel che resta della mega lottizzazione abusiva mirata a far sorgere un villaggio turistico mascherato da agriturismo. «Un irreversibile stupro» per il giudice che ha sequestrato il cantiere. È toccato ai magistrati mettere fine a una storia paradossale. Il pm Gaetano Bono ha chiesto il processo per il soprintendente di Crotone, Catanzaro e Cosenza, Mario Pagano, gli imprenditori Salvatore ed Armando Scalise, il loro direttore dei lavori, Gioacchino Buonaccorsi, l’ex dirigente del Comune di Crotone, Elisabetta Dominijanni, e il funzionario Gaetano Stabile, accusati di essere a vario titolo i responsabili dello scempio di Punta Scifo.

Il peccato originale risale al 2003, quando l’ex sindaco Pasquale Senatore ha stravolto il piano regolatore, dando via libera agli agriturismi come «attività collaterale e ausiliaria» alle coltivazioni. Anche a Punta Scifo, zona sottoposta a vincolo paesaggistico dal ’68. Al riguardo, però, nessuno ha avuto da ridire e qualcuno ci ha visto un affare. Si tratta di Armando e Salvatore Scalise, reucci dell’abbigliamento sportivo con interessi nel turismo invernale, ma nel 2006 determinati ad accreditarsi come «imprenditori agricoli professionali », contadini con tanto di patentino, senza però un campo su cui zappare.

Se lo procurano solo nel 2008, grazie a una scrittura privata strappata al legittimo proprietario, Giuseppe Zurlo, all’epoca già defunto, e diversi mesi dopo aver chiesto i permessi necessari per costruire su quel terreno un agriturismo.

In Comune, nessuno trova nulla da eccepire, le richieste degli imprenditori vengono approvate in tempi record e il Marine Park Village inizia a prendere forma, quanto meno sulle carte dei progetti. Nei pressi dell’area archeologica di Capo Colonna, sono previsti 79 bungalow, una grande struttura bar-ristorante, piscine e servizi necessari per soddisfare le esigenze di massimo 237 ospiti. Eppure, il depuratore previsto nel progetto può sopportarne 500. Un mistero che nessuno nota alla Provincia, che in otto giorni concede agli imprenditori l’autorizzazione paesaggistica.

E nemmeno alla Soprintendenza dei beni architettonici. Ma lì i funzionari “dimenticano” di valutare in tempi utili l’incartamento e il loro silenzio diventa assenso. Solo a termini abbondantemente scaduti segnalano alcune pecche veniali – un elaborato fotografico mancante – ma i loro rilievi ormai non hanno più peso. Più puntuali i colleghi della Soprintendenza archeologica, ma ugualmente magnanimi. Si limitano a raccomandare di far seguire i lavori di scavo da personale tecnico- scientifico, mentre il Comune non fa altro che prendere atto dei vari pareri e concede il permesso a costruire. È il 20 dicembre 2011.

Nel 2012 le ruspe iniziano a devastare Punta Scifo. Ma non per molto. I cittadini guardano, gli ambientalisti protestano, gli archeologi insorgono e i carabinieri iniziano a indagare. Così l’amministrazione non può far finta di ignorare le macroscopiche difformità fra i lavori in corso e il progetto, né una serie di «errori» nell’iter autorizzativo. Il cantiere viene bloccato e la battaglia si trasferisce nei tribunali, dove a rappresentare gli Scalise c’è l’avvocato Domenico Grande Aracri, fratello del boss di Cutro, Nicolino. È lui a strappare più volte il dissequestro dell’area Solo dopo anni il Mibact si accorge che qualcosa nei sopralluoghi dei suoi sovrintendenti non ha funzionato.

Nuovi scavi rivelano «fitte concentrazioni di materiali ceramici» di epoca romana, ma ci vogliono quattro interrogazioni parlamentari per convincere il ministro Dario Franceschini a chiedere lumi sul cantiere al “suo” sovrintendente dei beni architettonici Mario Pagano. Che afferma che nulla si può fare perché «ormai i bungalow sono stati realizzati», ma non è così. Da qui parte l’indagine che nel giro di un paio di mesi porta a un nuovo sequestro dell’area e a una raffica di avvisi di garanzia, che per sei persone - incluso il sovrintendente Pagano - si sono trasformate in una richiesta di rinvio a giudizio.

Quel processo potrebbe non essere l’unico. Perché di un villaggio turistico a Capo Colonna sono stati sorpresi a parlare anche Gaetano Blasco, l’uomo che rideva dei crolli a Mirandola oggi in carcere per i legami con il clan Grande Aracri, e il “suo” costruttore di fiducia, Antonio Valerio. «Stanno facendo certi progetti a Capo Colonna – gli confida Blasco - devono fare cinquecento case di legno». Parlavano di punta Scifo? A dirlo potrebbe essere Valerio, che da mesi collabora con i magistrati. E pare che - almeno una volta - abbia incontrato il direttore dei lavori degli Scalise.

«La zona è sottoposta a vincoli archeologici, ambientali e sismici. Ma le costruzioni abusive non si sono fermate. Ci sono cantieri che sono stati denunciati anche 20 volte». la Repubblica, 3 agosto 2017 (c.m.c.)

Una casa affacciata su Villa dei Misteri. Un manufatto destinato, forse, a diventare un Bed and Breakfast a meno di duecento metri dagli Scavi più famosi del mondo. Un bar che si allarga dove non potrebbe. A Pompei il cemento ha sfregiato il Mito. La zona è sottoposta a vincoli di tutti i tipi: archeologico, ambientale, sismico. Ma questo non ha fermato le costruzioni abusive. L’ultimo sequestro risale a una decina di giorni fa: la polizia municipale ha apposto i sigilli a un cantiere dove si stava ampliando di circa 120 metri quadri un vecchio fabbricato rurale non troppo distante da Porta Vesuvio, uno degli ingressi degli Scavi archeologici.

Gli investigatori non escludono che i proprietari, già impegnati con altre attività nel settore turistico, volessero realizzare un B&B per ospitare i visitatori. Progetto che per adesso dovrà essere accantonato, almeno fino a quando non si sarà definito il procedimento giudiziario. Ma la storia degli abusi edilizi a Pompei parte da lontano. Dal 1986 ad oggi sono stati eseguiti almeno 4500 sequestri. Ci sono cantieri che sono stati denunciati venti volte. Negli scaffali della sezione anti-abusivismo dei vigili giacciono poco meno di tremila pratiche di condono. Risale a una ventina di anni fa l’ampliamento di un vecchio casolare proprio a ridosso della Villa dei Misteri, una delle residenze di epoca romana più affascinanti di tutti gli scavi.

Oggi, chi alza gli occhi dal percorso riservato ai turisti, vede un’abitazione in piena regola. Gli ampliamenti che si sono susseguiti nel corso degli anni sono al centro di un braccio di ferro che potrebbe portare all’abbattimento delle parti aggiunte al nucleo originario dell’immobile. «I nostri uomini sono impegnati continuamente nei controlli anti-abusivismo», spiega il capitano Ferdinando Fontanella, vicecomandante della polizia locale diretta dal colonnello Gaetano Petrocelli.

Un protocollo firmato nel 2005 fra le amministrazioni locali e la Procura di Torre Annunziata prevede che tutti i manufatti superiori ai 50 metri quadri debbano essere sorvegliati. «Oggi abbiamo circa 100 cantieri sotto vigilanza — sottolinea Fontanella — Ogni settimana, per tutto l’anno. A questi si aggiungono quelli vigilati per ordine dell’autorità giudiziaria. Il nostro impegno non si discute, ma vorremmo poterci dedicare di più a migliorare la città nell’interesse dei cittadini e dei turisti».

Il sindaco di Pompei, Pietro Amitrano, del Pd, si è insediato da poco più di un mese e sa che, tra i dossier ai quali dovrà dedicarsi, c’è anche quello sull’abusivismo. «Il problema esiste ed è serio. Come amministrazione siamo pronti ad affrontarlo, ma con serietà e professionalità evitando di fare di tutta un’erba un fascio ». A settembre scatteranno nuovi abbattimenti disposti dalla Procura di Torre Annunziata guidata dal procuratore Sandro Pennasilico con il suo vice, Pierpaolo Filippelli. Altre 70 pratiche di demolizione sono all’esame della Procura generale di Napoli, che con il pg Luigi Riello e l’avvocato generale Antonio Gialanella dedica da sempre grande attenzione al settore degli immobili abusivi. «È nostra intenzione andare avanti su questa strada, applicando la legge», commenta il pg Riello.

Quello degli abbattimenti è un nodo che riguarda tutta la provincia di Napoli. Basti pensare che nell’area del Parco nazionale del Vesuvio, secondo i dati di Legambiente, dal 1997 al 2012 sono state emesse 1778 ordinanze di demolizione di fabbricati illegali, ma per ragioni diverse, legate di volta in volta ad intoppi negli ingranaggi della burocrazia e della macchina giudiziaria, sono andate giù non più di una quarantina di costruzioni. In ogni comune della “zona rossa” del Vesuvio ci sono, in media, circa 5mila pratiche di condono sospese. I numeri fanno riflettere, ma negli occhi restano le immagini: quanto cemento, ai piedi del Vulcano

la Nuova Sardegna, 2 agosto 2017 (m.p.r.)

In giro per la Sardegna vedo vecchie e recenti manomissioni. Fanno penare quelle più brutali, dell'inquinamento con seguito di malattie, e la somma di mille atti devastatori nello sfondo, gli incendi anzitutto. Fanno la loro parte anche le brutte case sparse dappertutto nell'isola. Una marea (ci sono curiose raccolte a tema in FB) e passano per carine/eleganti, la manna per l'isola. Ma credo che ci faranno riflettere passata la ubriacatura. Si capirà, vivendo e riguardandole, che l'edilizia sarda di questo mezzo secolo è tanta e pregiudizievole, come spiegano i rapporti Ispra sullo spreco di terra. Ma non sottovaluterei il messaggio imbarazzante della mascherata, né potrà trascurarlo chi teme lo svilimento della cultura sarda e si appassiona nella difesa della lingua.

C'è di mezzo il deficit di accortezze storico-antropologiche, direbbe Giulio Angioni, nel solco degli equivoci risaputi: la caricatura del sardo con i panni che gli vogliono vedere addosso prontamente indossati: cosa non si fa per piacere ai turisti, e agevolare la vendita della mercanzia. Almeno un po' esecrabile direi: perché la maschera in Sardegna è una cosa seria, nasce da riti arcaici per alleviare paure primordiali, esorcizzare la morte e preparare la rinascita. Le case “in perfetto stile sardo” – leggo in un post – sono ormai la cifra delle riviere, paesaggi camuffati nella linea deformante e omologante della villeggiatura.

Le fogge della città turistica hanno radici lontane e sono ormai percepite come nostrane, in linea con la storia dell'isola, ci spiegano. Invece è un abbaglio collettivo. L' esordio, si sa, con il primo insediamento di Costa Smeralda, scenografia dedotta da cartoline di villaggi vacanze dappertutto. Il modello – reinterpretato negli anni da trovate estemporanee – diventato irresistibile e invadente. Ognuno l'ha declinato nel modo più conveniente, con la propria visione e in base ai propri mezzi.

Protagonista l'arco (pieno centro, ribassato, ogivale) in genere senza valore strutturale in tutte le varianti di audaci correzioni/accostamenti, pretesto per scriteriati revivals stilistici. Archi quanti più ce ne stanno, impilati in modo fumettistico come i cappelli portati dai venditori nelle spiagge in questi giorni. Lo “stile sardo”: se fosse una parlata avrebbe il carattere del grammelot reinventato da Dario Fo. Comprensibilmente pop, e il successo lo capisci dallo sconfinamento: dai litorali alle campagne, alle periferie di città e paesi.

Preoccupa che l' epidemia tentacolare abbia iniziato a colonizzare le parti antiche di molti centri abitati, con contraffazioni di tipologie originarie, senza riguardo per sobri palazzetti, fin troppo compassati per la ritrosia - pensate un po' - ad accogliere gli apparati decorativi modernisti. Così in tanti luoghi autentici si somma temerariamente il vero e il falso, gli interventi in blocchetti in cls e alluminio (ingredienti del non finito sardo) ai trattamenti - apparentemente innocui e amabili - per somigliare ai villaggi turistici. Il florilegio di addobbi distribuiti in modo approssimativo, un successo la simulazione degli acciacchi del tempo con intonaci che mimano quelli d’epoca lasciando parti scrostate.

Si esaltano le imperfezioni costruttive che consentono l'impiego di manodopera mediocre. Il malfatto rustico dilaga pure negli interni, con la esaltazione della pietra del Trentino incollata e la immancabile pittura a spugna. Generando le atmosfere malinconiche di cose che non sono mai state nuove e non potranno invecchiare con dignità. Nel tempo dell'individualismo estremo, la libertà della reinvenzione di sè non ammette appelli alla coerenza, men che meno all'eleganza. Ogni appello a tornare in sé, alla buona buona creanza estetica, rischia di apparire incomprensibile e pedante. E credo non darebbe frutti in tempi brevi.

Sarà però il caso di rifletterci meglio su questa resa di massa ai modi espressivi della vacanza. Di parlarne. Mentre resta ai margini l'architettura che, pure nell'isola si studia nelle università; e magari potrebbe stare al passo con i tempi (gli stili che a suo tempo abbiamo accolto erano quelli all'avanguardia in Europa). Peccato che la Sardegna rinunci al confronto con il mondo - scivolando dal kitsch al trash - proprio quando il mondo sarebbe disposto a guardare con interesse alle sue storie vere.

E infatti mentre molti si interessavano della brutta legge urbanistica, il Consiglio regionale, infilava nella legge sul turismo, oplà, una norma per rimpinzare i campeggi di case mobili(?), maldestra forzatura che produrrà sicuramente altre brutture. Che tristezza.

la Nuova Sardegna, 2 agosto 2017, con postilla

Non perde mai l'aplomb, ma la passione per la Sardegna traspare dalla voce che si fa vibrante. Giulia Maria Crespi, presidente onorario del Fai, ha lo spirito combattivo di una guerriera per l'ambiente. Boccia senza nessun appello la legge urbanistica varata dalla giunta e non ancora arrivata in Consiglio e non ha nessun dubbio. «Le coste sarde sono in pericolo».

Le piace la nuova legge urbanistica?
«Ho sempre difeso quest'isola. Amo questa terra come se fossi nata qui. Sono arrivata in Sardegna nella primavera del 1960 ed è stato amore a prima vista. Nei miei occhi resta questa immagine e mi rattrista leggere le prospettive che si aprono con questa nuova legge urbanistica. Sono convinta che sia in atto una nuova invasione da parte del Qatar e vedo questa legge come una concessione agli interessi di questo investitore. In questo io vedo un pericolo».

Ma la legge urbanistica non riguarda solo la Costa Smeralda, ma tutta l'isola.
«Lo so benissimo. E io dico questo perché la Sardegna va tutta tutelata. È molto triste che la giunta contravvenga al Piano paesaggistico regionale ideato da Renato Soru».

Per lei il Ppr rimane un punto di riferimento?

«Certo. Il Ppr non deve essere toccato. Per anni con il Fai abbiamo spiegato in tutta Italia che la Sardegna è una delle due regioni a essersi dotata di un Piano paesaggistico. Un motivo di orgoglio. Uno strumento che ha salvato la Sardegna dai cementificatori. Vedo in questa giunta un atteggiamento omissivo e ambiguo. Pronto ai compromessi. Si deve essere intransigenti».

Cosa farebbe lei?
«Per prima cosa si deve salvare il Ppr, poi io porterei la linea di inedificabilità da 300 a 500 metri dal mare. Dobbiamo difendere la Sardegna e il suo ambiente che è il suo bene più prezioso. Ho letto in questi mesi delle inchieste delle procure sarde sui casi di possibile inquinamento legato alle attività industriali. Non è quello il futuro dell'isola».

Su cosa si dovrebbe puntare?

«Non ho dubbi: la bellezza e l'integrità del suo territorio, delle sue bellezze naturalistiche e artistiche. La maggior parte delle persone non le conosce. Si deve sfruttare il turismo di alto livello nei mesi di spalla. Si deve portare a conoscere i grandi artisti e le bellezze uniche di quest'isola. Lo si fa ancora troppo poco. In Sardegna c'è un artigianato di grande qualità. Un altro cardine è l'agricoltura. Un tempo l'isola forniva le primizie al resto dell'Italia. Dai carciofi ai fiori. Si deve ritornare là. A quella qualità. L'isola ha dei prodotti agroalimentari insuperabili. Il pecorino è una prelibatezza, la ricotta di pecora qualcosa di inimitabile, non come quella che viene fatta con il latte in polvere arrivato dalla Germania. Per non parlare di carne e prosciutti. Il futuro passa dalla valorizzazione di « prodotti e tradizioni».

La giunta dice di lavorare in questo senso.
«Non fa abbastanza. L'interno della Sardegna si svuota. I paesi si spopolano, si dovrebbe al contrario incentivare i giovani a ritornare nelle campagne e nei paesi dell'interno dell'isola. In questo modo si migliora la qualità della vita della Sardegna e le si dà un futuro. La Regione dovrebbe incentivare il ritorno dei giovani e in particolare il ritorno al lavoro nelle campagne. Le terre dell'isola vanno valorizzate e difese. Non si pensa mai all'agricoltura. In tanti hanno abbandonato le terre che ora sono devastate dai cinghiali. Aiutamo i giovani a riscoprirle. Io ho 94 anni e queste battaglie le faccio per i giovani e per il loro futuro».

Si deve pensare meno al cemento e più all'ambiente?
«Non c'è dubbio, la Sardegna non deve diventare il bersaglio di chi pensa solo a depredarla e a sfregiarla per arricchirsi».

Gli hotel devono poter adeguare i loro standard ricettivi alle esigenze del mercato se si vuole fare turismo.
«Nessuno lo nega. Si possono fare tutte le ristrutturazioni che si vuole all'interno, ma senza aumentare le volumetrie sul mare di un solo metro cubo e senza fare sopraelevazioni. Si deve seguire il Ppr di Soru e non tentare di aggirarlo concedendo possibilità di costruire in aree pregiate».

La nuova legge urbanistica ha come principio filosofico di fondo il concetto del riuso. Del non consumo del suolo.

«Non sono d'accordo. Si deve restare ancorati alle linee dettate dal Ppr di Soru, che è un esempio per tutta l'Italia».

Ma la Sardegna deve avere una legge urbanistica. Lo sostiene anche Soru.

«Certo, ma serve una legge che conservi l'assoluto divieto del consumo del suolo. Esistono delle linee precise. Si deve recuperare l'esistente come ha fatto il Fai con le Saline Conti Vecchi e la batteria di Talmone a Palau, Ho letto in questi giorni che nel Testo unico sul turismo è previsto l'incremento delle case mobili anche nella fascia dei 300 metri. Ecco questo è un esempio di cosa non si deve fare. Questo è un esempio di cosa la giunta Pigliaru dovrebbe combattere e non prevedere». (l.roj)

postilla
Anche a Giulia Crespi sfugge un elemento del Piano paesaggistico di Renato Soru: questo piano non tutela solo i 300 metri più vicini al mare (già vincolati dalla Legge Galasso del 1985, valida per tutta l'Italia), ma anche una fascia costiera di ampiezza variabile, dal minimo dei 300 a quasi 3mila. Naturalmente una tutela differenziata, non l'inedificabilità assoluta.
Forse è utile ricordare le ragioni di tale tutela, riportando un estratto delle norme del siano (art.19):

«La legge Galasso indicava già i territori costieri compresi nella fascia dei 300 m dalla linea di costa come bene paesaggistico meritevole di tutela. Tale limite, meramente geometrico, costituiva una prima “sciabolata” (come tutte le altre indicazioni quantitative, dal decreto del 1983 al Codice del 2006).
«Tra i beni a matrice prevalentemente ambientale gioca quindi, in particolare in Sardegna, un ruolo del tutto particolare il bene costituito dalla fascia costiera nel suo insieme. Questa, pur essendo composta da elementi appartenenti a diverse specifiche categorie di beni (le dune, le falesie, gli stagni, i promontori ecc.) costituisce nel suo insieme una risorsa paesaggistica di rilevantissimo valore: non solo per il pregio (a volte eccezionale) delle sue singole parti, ma per la superiore, eccezionale qualità che la loro composizione determina.
«Essa non può essere artificiosamente suddivisa, se non per scopi amministrativi, ma deve mantenere il suo carattere unitario complessivo soprattutto ai fini del PPR e, pertanto, deve essere considerata come un bene paesaggistico d’insieme, di valenza ambientale strategica ai fini della conservazione della biodiversità e della qualità paesistica e dello sviluppo sostenibile dell’intera regione.
«É anche grazie al suo eccezionale valore, e alla scarsa capacità di governo delle risorse territoriali che dimostrata nei decenni trascorsi dai gruppi dirigenti, che questo incomparabile bene è oggetto di furiose dinamiche di distruzione. È qui che si è esercitata con maggior violenza nei decenni trascorsi, e minaccia di esercitarsi nei prossimi, la tendenza alla trasformazione di un patrimonio comune delle genti sarde in un ammasso di proprietà suddivise, trasformate senza nessun rispetto della cultura e della tradizione locali né dei segni impressi dalla storia nel territorio, svendute come fungibili e generiche merci ad utilizzatori di passaggio, sottratte infine all’uso comune e al godimento delle generazioni presenti e future (ad esclusione dei privilegiati possessori).
«Massima qualità d’insieme e massimo rischio: due circostanze che giustificano la particolare attenzione che si è posta per delimitare, secondo criteri definiti dalla scienza e collaudati dalla pratica, il bene paesaggistico d’insieme di rilevanza regionale costituito dai “territori costieri”, e per disciplinarne le trasformazioni sotto il segno d’una regia regionale attenta sia alla protezione che alla promozione delle azioni suscettibili di orientarne le trasformazioni nel senso di un ulteriore miglioramento della qualità e della fruibilità».

«Lo studio presentato dai Verdi:sotto attacco seimila chilometri di costa sequestrati 110 stabilimenti alle organizzazioni criminali». la Repubblica, 2 agosto 2017 (c.m.c.)

Su ottomila chilometri di spiagge, ben seimila sono cementificati: di questo passo nel 2060 tutta la costa italiana sarà un’unica barriera di cemento e mattoni.

La denuncia arriva da un dossier dei Verdi,2017 Odissea nella spiaggia, sui litorali italiani. Una morsa di cemento spesso nata nell’illegalità: dalla Romagna alla Sicilia, passando per la Capitale, sono oltre 110, secondo il rapporto, gli stabilimenti balneari sequestrati alla mafia negli ultimi cinque anni, ottenuti con attività intimidatorie e infiltrazioni mafiose nei Comuni e nelle Regioni.

Troppi, infatti, gli interessi che fanno gola alla criminalità organizzata: dal costo irrisorio della concessione demaniale — incide meno dell’1% sul fatturato dello stabilimento — alla facilità con cui è possibile riciclarne i proventi. Secondo il dossier, il fatturato degli stabilimenti balneari si aggira intorno ai 10 miliardi di euro l’anno — dato peraltro sottostimato rispetto ad altre rilevazioni — un business redditizio reso possibile dall’affitto irrisorio dello Stato.

Il rapporto dei Verdi spiega come le tariffe di affitto sulle aree demaniali dipendono dal regolamento che individua tre tipi di area nelle coste italiane: fascia A, alta valenza turistica, fascia B, normale valenza, e fascia C, bassa valenza. Però in tutta Italia, secondo il dossier, i canoni applicati nelle concessioni sono di fascia B. Così, denuncia il rapporto, lo Stato svende un bene pubblico e tollera una colata di cemento che fa dell’Italia uno dei paesi più cementificati nell’Unione europea. Sulla costa Tirrenica, “respirano” infatti, liberi dal cemento, appena 144 chilometri, 200 sulla costa adriatica.

Venti chilometri di costruzione abusive tra le dune sul mare. Un sindaco onesto vuol fifendere la bellezza della sua terra, ma il popolo bue e la politica lo caccianovia la Repubblica, 2 agosto 2017 (c.m.c.)

In contrada Cavaddruzzu, la 67esima villetta nella lista delle costruzioni abusive da abbattere è venuta giù qualche settimana fa sotto l’aggressione delle ruspe in assoluto silenzio. I proprietari, da tempo residenti in Inghilterra, non si sono neanche presentati. In quella villetta a due piani con le pareti color ocra e una bella piscina edificata a 100 metri dal mare sulle dune della costa selvaggia della Sicilia meridionale ci venivano d’estate in vacanza. Di quella seconda casa, come la maggior parte di quelle costruite in spregio di ogni normativa negli ultimi cinquant’anni negli oltre venti chilometri di costa da Gela ad Agrigento fino a Siculiana e Sciacca, oggi restano un paio di materassi ammonticchiati su detriti di ceramica, tubature rotte, lo scavo della piscina. Qualche chilometro più in là, in territorio di Palma di Montechiaro, i proprietari di una villetta che fa bella mostra di sè alla identica distanza dal mare, gongolano: il sindaco Stefano Castellino, come suo primo atto dopo l’insediamento, ha detto: «Qui non si demolisce nulla».

A Licata, dopo mesi di altissima tensione, il “popolo degli abusivi”,che nell’ultimo anno ha alzato le barricate contro il giovane sindaco Angelo Cambiano e la sua “pretesa” di eseguire l’ordine della Procura di Agrigento di demolire le oltre 160 case dichiarate abusive con sentenza passata in giudicato, sembra essersi placato.

Dopo mesi di minacce e aggressioni, dopo due incendi ad altrettante case di familiari del sindaco che nel frattempo è stato costretto a vivere sotto scorta, a “sistemare” Cambiano ci ha pensato la politica. Prima con l’isolamento del giovane “sindaco demolitore” da parte degli stessi colleghi che, con tanto di fascia tricolore al fianco, erano andati a testimoniargli solidarietà e ad applaudirlo, ora con la mozione di sfiducia firmata dalla maggioranza dei consiglieri comunali che mercoledì prossimo dovrebbe decretare la sua deposizione.

Angelo Cambiano, 36enne primo cittadino eletto nel 2015 con il supporto di tre liste civiche di area moderata, pensa già al suo futuro di normale cittadino. «Se in due anni di attività un sindaco viene cacciato solo perché fa il suo dovere, è meglio tornare alla mia vita di insegnante di matematica, deluso dalla politica e con il desiderio di prendere moglie e figlio e andare via da questa terra così bella e ricca di risorse ma anche così poco amata dai suoi cittadini e dalla politica».

Dune di spiaggia selvaggia, chilometri di mare azzurro intenso sempre increspato dalle onde, palme sullo sfondo e una teoria ininterrotte di ville, villette, palazzine di tre piani. Da quelle lussuose con vista strepitosa di professionisti ed esponenti della politica locale (come hanno scoperto i tecnici del Comune di Licata) agli edifici, spesso non finiti e ancora senza intonaco, di emigrati che hanno investito i loro risparmi nella costruzione di case “familiari” per nonni, figli, nipoti di due o tre generazioni. Tutte comunque a prova di sanatoria, ormai con tanto di ordine di demolizione della Procura di Agrigento, edificate entro i 150 metri dal mare in anni in cui tutto, da queste parti, sembrava normale e possibile, tanto prima o poi la Regione siciliana un condono o una sanatoria li avrebbe approvati.

Ma in Sicilia è già campagna elettorale per le prossime elezioni regionali e ai licatesi che si rifiutano di capire perché «dopo quarant’anni arriva un sindaco e si mette in testa di abbattere» sono in tanti a promettere che «una soluzione si troverà, come sempre». Una soluzione che però passa dalla rimozione di un sindaco che in due anni di case abusive ne ha già demolite 67 (un record da queste parti) e ha ancora una lista con un centinaio di prossimi obiettivi per le ruspe.

L’INTERVISTA. ANGELO CAMBIANO
di Alessandra Ziniti
«Faccio il mio dovere per questo la politica vuole mandarmi via».

«Ormai sono alla mia ultima settimana. Le racconto come finisce in Sicilia un amministratore onesto».

Sindaco Cambiano, allora è sicuro della sfiducia. Getta la spugna?
«No, sarò al lavoro fino all’ultimo momento. Spero in uno scatto di orgoglio delle persone perbene, ma so di avere tutti contro. Ho provato a spiegare ma rimango il sindaco cattivo che vuole abbattere le case dei suoi concittadini. E non c’è altra strada che mandarmi a casa velocemente. Perché è ovvio che se dovessi rimanere al mio posto continuerei a fare le demolizioni».

Per questo la sfiduciano?
«Il mondo politico è falso e ipocrita. Le demolizioni delle case abusive non sono neanche citate nella mozione. Hanno trovato motivi pretestuosi, ma tutti sanno che il vero motivo sono le demolizioni e guarda caso dagli ultimi accertamenti è venuto fuori che alcuni dei consiglieri firmatari della sfiducia sono titolari di immobili da abbattere ».

Insomma, alla fine è rimasto solo. E i suoi colleghi che le avevano manifestato solidarietà dopo il primo attentato?
«Sono rimasto solo con la mia famiglia e la scorta, minacce, proiettili davanti al Comune, attacchi violentissimi sui social. E tutto solo perché ho semplicemente fatto il mio dovere di dare esecuzione a delle sentenze definitive di immobili abusivi come ordinatomi dalla Procura di Agrigento. Una cosa che dovrebbe essere ordinaria ma certo diventa pericolosissima se i colleghi dei territori confinanti, con altrettante case da abbattere, annunciano ufficialmente, come ha fatto il sindaco di Palma di Montechiaro, che non demolirà nulla e revocherà il protocollo di legalità con la prefettura. Tutto nel silenzio della politica».

Nessuno più si è fatto vivo degli esponenti delle istituzioni che erano scesi al suo fianco?
«Nessuno. Mi risuonano in testa come una beffa le parole del ministro Alfano, che venne qui l’anno scorso da ministro dell’Interno e disse: «È finito il tempo delle coccole della politica agli abusivi. Chiederò a tutti i consiglieri del mio schieramento di starle vicino». A distanza di un anno i suoi uomini sono tra i firmatari della mozione di sfiducia...»

Facile per Porto e Venezia terminal passeggeri invocare i dati ufficiali dell'Arpav. Come se non sapessero che a Venezia e in tutta la laguna c'è un'unica e inutile centralina. la Nuova Venezia, 1 agosto 2017 (m.p.r.) con riferimenti

«Se vi recate quest'estate a Venezia per una vacanza, non dimenticate di mettere in valigia la vostra mascherina anti-smog. Preoccuparsi dell'aria inquinata può sembrare strano in una città con poche strade e macchine, ma l'aria di Venezia presenta dei rischi nascosti». Il noto quotidiano britannico The Guardian sposa la causa ambientalista sul problema del passaggio delle navi da crociera in Bacino San Marco e dell'inquinamento da loro prodotto, mettendo in guardia i propri connazionali diretti in laguna. Lo ha fatto pubblicando nell'edizione di ieri un articolo di Axel Friedrich, ambientalista tedesco esperto di inquinamento che lavora con l'Ong tedesca Nabu, e che ha già fatto un paio di anni fa con il suo pool rilevazioni sull'inquinamento prodotto a Venezia dalle navi da crociera, in collaborazione anche con il Comitato NoGrandiNavi.


«Inquinamento in laguna 500 volte superiore a quello in mare»
L'articolo si intitola appunto «Diretti a Venezia? Non dimenticate la mascherina anti-smog». «Ogni giorno cinque o sei delle più grandi navi da crociera del mondo avanzano nel cuore della città antica», scrive Fredrich sul Guardian. «Queste navi pubblicizzano i loro lussuosi ristoranti, le loro grandi piscine e il divertimento esotico ma non dicono nulla sulle esalazioni che sprigionano nell'atmosfera». Friedrich aggiunge che «i veneziani hanno ragione ad essere arrabbiati» per l'impatto del turismo e ricorda il referendum lanciato da NoGrandiNavi per chiedere alle navi da crociera di rimanere fuori dalla laguna.
«Gli operatori delle navi affermano che usano combustibili a basse emissioni inquinanti ma le misurazioni che ho effettuato», continua l'autore, «vicino al porto di Venezia raccontano una storia diversa». Secondo Friedrich «mentre le grandi navi navigavano lungo il canale principale, a pochi passi dalla riva, la mia squadra ha registrato fino a 500 particelle ultra-sottili per centimetro cubo, 500 volte superiore rispetto all'aria pulita del mare». L'autore conclude che «le navi da crociera sono un pericolo non solo per gli abitanti della città, ma anche per gli stessi turisti».Trevisanato (Vtp): «Una "bufala" pazzesca».
«Una "bufala" pazzesca»

Questo il pepato commento di Sandro Trevisanato, presidente dimissionario della Venezia terminal passeggeri (Vtp), la società che gestisce lo scalo crocieristico veneziano, su quanto scritto sul Guardian da Axel Friedrich. Per Trevisanato, dopo l'accordo Venice Blue Flag siglato tra Porto, Capitaneria di Porto, Comune e le società crocieristiche che fanno scalo a Venezia «l'inquinamento da navi passeggeri è pari a zero perché vengono utilizzati carburanti "puliti" ma le stesse navi non possono scaricare "rifiuti" nell'aria a 10 miglia dalle bocche di porto della città, mentre vi transitano e stazionano».
«Le cosiddette grandi navi», ricorda Trevisanato, «non passano più per Venezia viste le restrizioni imposte al tonnellaggio, tutto mentre si aspetta il via libera all'ingresso, per evitare San Marco, alla "bocca" degli Alberoni per poi passare lungo il canale dei Petroli e quindi il Vittorio Emanuele, canale che è da ripristinare perché non più in uso da anni. Lo scandalismo ambientalista di certi personaggi non tiene conto del fatto che le navi da crociera sono un passaggio stagionale mentre ad esempio i mezzi pubblici, i vaporetti, inquinano tantissimo e che i picchi di inquinamento si hanno quando il riscaldamento delle case è acceso mentre la città è attraversata da migliaia di barche a motore anche di stazze notevoli che non hanno limiti sui carburanti».

Musolino (Porto): «Guardate i dati Arpav»

«Non portano dati, portano commenti, su questa vicenda è come parlare della nazionale di calcio: siamo tutti commissari tecnici». Lo afferma Pino Musolino, presidente dell'Autorità portuale di Venezia respingendo le affermazioni sull'inquinamento da passaggio delle navi da crociera sostenuti da Axel Friedrich su The Guardian. «Non si sa nulla su come sia stata fatta questa indagine», rileva Musolino, «quando, seguendo le norme di legge, c'è l'Agenzia regionale per l'ambiente del Veneto che monitora costantemente tutto». «Ci sono associazioni ambientaliste che depositano in procura un esposto ogni tre giorni», aggiunge, «ma non ne è passato uno perché se i dati che pubblichiamo sul web fossero falsi e gli esposti credibili, a quest'ora sarei davanti a un Pm con accuse precise». «Noi produciamo dati scientifici», sottolinea Musolino, «non opinioni e mi stupisce una testata giornalistica che invece di sentire noi o guardare il nostro sito, con dati certificati, vada a dar fiato a una persona che non spiega la fonte e modalità delle sue presunte indagini. Se inquinassimo, saremmo già stati convocati in Procura, ma è anche vero che potremmo andarci noi, considerato ciò che ci è stato detto contro».
Inquinamento a settembre nuova denuncia

«Alla fine di settembre abbiamo intenzione di presentare un nuovo dossier-denuncia sull'inquinamento delle grandi navi agli organi competenti e alla Procura della Repubblica di Venezia», annuncia Luciano Mazzolin per l'associazione AmbienteVenezia e per il Comitato NoGrandiNavi. Mazzolin ricorda che Friedrich, che ha scritto l'articolo sul Guardian, ha fatto una campagna di rilievi in città negli ultimi tre anni. «L'ultima campagna», rileva Mazzolin, «si è tenuta nell'aprile scorso ed avrebbe indicato un inquinamento atmosferico lungo le rive del bacino di San Marco e il canale della Giudecca, dove passano le navi passeggeri, con le polveri sottili per 180 mila particelle al centimetro cubo, a fronte di limiti internazionali che oscillano dalle mille alle duemila "parti"». Mazzolin sostiene che secondo Friedrich «l'inquinamento si verificherebbe anche all'interno delle navi, facendo respirare polveri ultra sottili per 320 mila parti a centimetro cubo».

Riferimenti
Sull'inutilità dell'unica centralina dell'Arpav a Venezia, e sulla gravità dell'incontrollato traffico acqueo in laguna, si veda su eddyburg di Silvio Testa Venezia, le “14.000 auto” che inquinano città e laguna

«Innovative, autosufficienti e inaccessibili ecco le nuove città dei giganti della Rete». la Repubblica, 1° agosto 2017 (p.d.)

Gigantesche, distanti, inaccessibili. Ecco le Versailles delle grandi aziende hi-tech, le nuove sedi di quella manciata di multinazionali che per capitalizzazione hanno superato singolarmente il prodotto interno lordo di Stati come Svezia, Norvegia o Svizzera. Apple, Amazon, Facebook, Google, Alibaba, Tencent, Huawei, stanno per gridare al mondo la loro grandezza attraverso l’architettura. Come facevano imperatori e papi, presidenti e dittatori. «Non sono più delle compagnie, ma famiglie reali» aveva scritto qualche tempo fa Bruce Sterling, fra i “padri” della letteratura cyberpunk. «Siamo in pieno feudalesimo digitale ». Abbandonata l’idea del campus universitario, abbracciano quella della fortezza ermetica firmata da un’archistar.

L’astronave della Apple a Cupertino è solo un esempio. Concepita da Steve Jobs, l’ha disegnata sir Norman Foster. Un disco con una circonferenza di un chilometro e mezzo, 260 mila metri quadrati per ospitare 12 mila dipendenti che vi si stanno trasferendo. Città cinta da mura alte quattro piani con un giardino interno ombreggiato da novemila alberi. Il Cerchio del romanziere Dave Eggers fatto costruzione. Sorge in una delle aree più costose del pianeta: 160 milioni di dollari il prezzo del terreno, cinque miliardi quello dell’edificio.

La nuova sede di Amazon, dello studio Nbbj, è invece un grattacielo da quattro miliardi di dollari che verrà terminato nel 2018 a Seattle. Oltre 306 mila metri quadrati su 37 piani. E tre grandi sfere trasparenti alla base accessibili solo ai dipendenti: conterranno una foresta equatoriale in omaggio al nome della compagnia di Jeff Bezos, diventato l’uomo più ricco del mondo. Un altro edificio è stato invece dedicato ai senza tetto e ong. Mentre a Shenzen, sempre la Nbbj che ha già all’attivo le sedi di Alibaba a Hangzhou, sta ultimando due torri da 250 metri per la Tencent, terzo colosso del Web.

«Nessuno di questi edifici vuole davvero avere un rapporto con la città » commenta lo storico dell’architettura Carlo Olmo. «E pensare che la città per secoli è stata il centro dell’innovazione e che queste compagnie sono figlie delle contaminazioni tra università e aree urbane».

Facebook, dopo il quartier generale disegnato da Frank Gehry, vorrebbe ora un villaggio. Il Willow Campus, progettato da Rem Koolhaas, avrà per la prima volta anche mille e cinquecento abitazioni e parte di queste dovrebbero essere a basso costo. Oltre a negozi, farmacie, hotel, bar, alimentari e un milione e mezzo di metri quadrati di uffici. Niente mura né torri insomma. Di villaggi la Huawei ne ha in mente 12 da un miliardo e mezzo di dollari in costruzione a Shenzen. Scimmiottano lo stile europeo da Verona a Oxford. Qui però più che di reggia si tratta di semplice pessimo gusto. Meglio, anche dal punto di vista simbolico, il Googleplex a Mountain View immaginato dall’architetto danese Bjarke Ingels: spazi coperti da un enorme tenda di vetro sotto la quale gli edifici modulari potranno esser mossi secondo le esigenze dei dipendenti.

«Molti imperi sono caduti subito dopo che i loro governanti avevano finito di costruire una sontuosa capitale» scriveva Deyan Sudjic, curatore della Biennale 2002 e direttore del Design Museum di Londra alla fine di Architettura e potere (Laterza). «E ciò mostra come l’architettura non sia sempre uno strumento politico efficace». Ma si vede che nella Silicon Valley non è un saggio che è andato per la maggiore.

Splendidi paesaggi deturpati dal cubature abusive e da poteri arroganti . la Repubblica, 1 agosto 2017 (c.m.c.)

«Mi dia retta, si goda il paesaggio e volti le spalle al resto ». L’uomo col volto solcato di rughe è seduto su una panchina del centro storico di Sperlonga, uno dei borghi più belli d’Italia, poco più di tremila anime a metà strada fra Roma e Napoli, proprio di fianco all’edificio comunale chiuso di lunedì, «ma il martedì lo trova aperto tutto il giorno».

Godersi il paesaggio è la regola da queste parti. Dicono che se si vuole continuare a sognare, a Sperlonga non bisogna mai dare le spalle al mare. Ma da qualche tempo la magia dello sperone di roccia che si tuffa nelle acque limpide e in una distesa di sabbia dorata, si spezza su un maleficio di cubature abusive che hanno trasformato quel luogo dalla vista mozzafiato in un paradiso abitato da diavoli.

«La natura è stata tanto generosa con questo posto e l’uomo l’ha ripagata così», sussurra Anna Dicorio, che qui è nata e cresciuta. Il dito indica un mostro di impalcature che sembra appeso alla montagna, alle spalle del mare appunto. «Un idraulico di qui ha vinto il superenalotto e ha deciso di costruirsi quella villa. Poi, come vede, si è allargato... Ora la casa è sotto sequestro, ma intanto tutto resta dov’è. Qui si allargano tutti...».

A cominciare dal sindaco. Armando Cusani, classe 1963, esponente di punta della coalizione di centrodestra, è al suo terzo incarico da primo cittadino a Sperlonga. Prima, per due mandati, era stato presidente della Provincia di Latina. Malgrado sia agli arresti domiciliari per corruzione e turbativa d’asta, non si è dimesso e, da quasi un ventennio, comanda lui. Il “sindaco padrone”, così lo chiamano, fu il primo in Italia a subire gli effetti della legge Severino: fu sospeso dalle funzioni nel 2013 per una condanna penale di primo grado a due anni per abuso d’ufficio, con l’interdizione dai pubblici uffici.

Nel giugno 2016 col 58% dei voti indossò per la terza volta la fascia tricolore del comune in provincia di Latina e proseguì ciò che aveva interrotto da presidente della Provincia. L’hotel Grotte di Tiberio è uno dei suoi capolavori abusivi, con tanto di semaforo fatto mettere a spese dei contribuiti sulla via Flacca, una strada statale, che non ha mai regolato il traffico ma serviva per dare riferimenti ai turisti: «Lei percorre la Flacca e a un certo punto trova un semaforo e lì sulla destra c’è il mio hotel, diceva tra un caffè e una riunione in consiglio», racconta un funzionario comunale ormai in pensione ma ancora in soggezione quando sente il nome del sindaco.

Di episodi ne racconta tanti. C’è una delibera, la numero 61 del 2013 con cui Cusani istituì una nuova figura professionale: il querelatore del Comune. In pratica affidò a un suo fedelissimo la funzione di querelare chiunque parlasse male di lui: dalla stampa al cittadino. «Una volta presentò un esposto al Csm contro l’allora presidente del Tar Franco Bianchi perché dispose accertamenti su una società a partecipazione comunale, la “Acqua Latina”. Ancora: definì “atto eversivo” la decisione del prefetto Frattasi di sciogliere il vicino comune di Fondi e non esitò a rimuovere seduta stante la comandante dei vigili quando venne a sapere che sarebbero cominciati una serie di controlli anti-abusivismo ».

Cusani insieme al suocero acquistò l’hotel Grotte di Tiberio, una struttura bellissima che costeggia la Flacca (altezza semaforo per l’appunto). E poi, come raccontano a Sperlonga, si allargò. Piscine, cubature nuove, ristoranti, pergolati da 90 metri quadrati, saune, spogliatoi, in barba a vincoli paesaggistici, oltre che urbanistici. Insomma un abuso coperto per tanto tempo, fino a quando una denuncia anonima non ha fatto scoppiare il caso. Quindi il sequestro dell’intera struttura nel 2016 e nel maggio di quest’anno l’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi con 90 giorni di tempo per buttare giù tutto “a spese proprie”. Era l’8 maggio e a ieri l’albergo bianco vista mare, avvolto dai nastri rossi con tanto di cartello “immobile sotto sequestro” appeso all’ingresso, troneggia integro.

Così come l’hotel Ganimede di via Ulisse, di cui Armando Cusani è socio a metà col suo vicesindaco Francescantonio Faiola. Qui il primo cittadino oltre ad aumentare le volumetrie ha violato il piano regolatore. Una lottizzazione abusiva in un’area che avrebbe dovuto ospitare edilizia popolare. Al suo posto centri termali in costruzione con parcheggio annesso proprio davanti alla nuova caserma dei carabinieri, hotel, villette, residence. Oltre 4100 metri cubi a fronte dei 2.500 autorizzate. Il sequestro di tutta l’area e un nuovo avviso di garanzia per il primo cittadino e il suo vice è del 18 maggio scorso, pochi giorni dopo la concessione dei domiciliari al sindaco che fu accolto dai suoi concittadini con applausi e uno striscione: «Bentornato a casa sindaco». Una casa nel centro storico di Sperlonga con l’incantevole vista sul mare e le spalle agli abusi.

». Il Fatto Quotidiano online, blog di Salvatore Settis, 30 luglio 2017 (c.m.c.)

Il diavolo fa la pentola, ma non il coperchio. La retorica governativa insiste sui successi e i traguardi di un’Italia che (si annuncia) è uscita dalla crisi, o sta per farlo, e marcia verso un radioso futuro. Poi però c’è la doccia fredda dei dati, gli indici di sviluppo corretti al ribasso, i rating severi, gli ammonimenti da Francoforte o da Bruxelles; segue una qualche correzione di rotta mescolata a rivendicazioni e proteste, come se chiunque sollevi dubbi sull’azione di governo sia complice di losche congiure. E, ciliegina sulla torta, la periodica esibizione di muscoli: Italia, patria della bellezza! della cultura! dell’ingegno! Grandi investimenti, straordinari progressi, miracolosi risultati.

Guai a chi dice che il ministero dei Beni culturali, o quello dell’Istruzione, disinvestono in tutela o in ricerca: qualcuno prontamente ricorderà che ci sono anche Regioni ed enti locali, a compensare; e insomma la spesa pubblica nel suo complesso, si predica, gareggia col resto d’Europa.

I soldi messi sul sapere continuano a calare

Ma stavolta la doccia fredda viene da Palazzo Chigi: l’Agenzia per la Coesione Territoriale, che dipende direttamente dal Presidente del Consiglio, ha diffuso il 24 luglio la sua relazione annuale, che analizza i flussi di spesa 2015-16 del settore pubblico allargato, disaggregandoli per aree geografiche e per settori. Per esempio, appunto, la cultura. È uno dei rari esercizi di riflessione sulle politiche pubbliche d’investimento e di spesa, ancor più interessante perché contiene un confronto inesorabile fra la spesa italiana e quella degli altri Paesi europei, e ricostruisce la serie storica degli interventi finalizzati allo sviluppo del Mezzogiorno in un periodo molto lungo (1951-2015). Dati nudi e crudi, raccolti con impeccabile professionalità da un osservatorio privilegiato. E la pentola del diavolo mostra tutte le sue crepe.

Scopriamo così che «nel settore cultura, nonostante alcuni recenti interventi volti ad affermare la centralità della cultura come motore per il rilancio socio-economico dei territori, gli effetti sui livelli di spesa continuano ad essere inesistenti», anzi «la spesa pro capite complessiva rimane invariata con tendenza al decremento», e nulla indica che «qualcosa è cambiato», come viceversa si pretende. «Quello in cultura rimane il più grande disinvestimento settoriale che si sia avuto in Italia negli anni 2000, certamente influenzato dalle politiche di contrazione della spesa pubblica, che tuttavia nella cultura hanno pesato più che in tutti gli altri comparti». Nel contesto europeo, «il confronto internazionale risulta impietoso: la spesa primaria per attività culturali e ricreative in rapporto al Pil risulta in Italia – nonostante lo straordinario patrimonio artistico e la ricchissima eredità culturale – decisamente inferiore a quella media dei Paesi Ue».

Già nel 2008, dopo la cura dimagrante firmata Tremonti-Bondi, l’Italia era il fanalino di coda, con lo 0,8% del Pil; nel 2015 abbiamo gloriosamente raggiunto lo 0,7%, penultimi in classifica (dopo di noi, solo l’Irlanda). E pensare che non solo la Danimarca e la Finlandia, ma anche Slovenia, Lettonia e Bulgaria registrano una spesa superiore al 2% del Pil, e quasi tutti gli altri Paesi europei sono comunque sopra l’1%. Anche la quota spese delle famiglie italiane in attività culturali e ricreative (6,6%) non è in linea con l’Europa (media 8,5%, con picchi oltre il 10% in Svezia, Olanda, Danimarca, ma anche Malta); meno che in Italia si spende solo in Romania, Portogallo, Grecia e Irlanda.

Queste cifre scoraggianti diventano ancor più deprimenti se andiamo a guardare le differenze fra Centro-Nord (71,2 % della spesa totale) e Mezzogiorno (28,8 %): quote significativamente sbilanciate in rapporto alla popolazione residente, sei punti-percentuale a sfavore del Sud. Eppure ci vien detto che asse delle politiche pubbliche è «il raggiungimento di una quota spesa nel Mezziogiorno superiore o almeno pari alla rispettiva quota di popolazione». Viceversa, «il crollo di tutta la spesa pubblica a finalità strutturale dal 2008 in avanti» ha pesantemente colpito il Sud, accentuandone il divario dal resto d’Italia.

È un divario che si è ormai radicato profondamente, fino all’attuale “disparità strutturale di dotazioni effettive e di servizi nel Mezzogiorno: i treni sono più vecchi e più lenti, la rete ad alta velocità costituisce solo il 5,6% della rete complessiva, la presenza turistica per abitante è pari a 3,7 contro i 7,9 del Centro-Nord, la distribuzione dell’acqua è irregolare per il 18,3% delle famiglie a fronte del 4,9% del Centro-Nord, i Comuni che dispongono di strutture per l’infanzia sono meno della metà che nel Centro-Nord”. In questo quadro desolante, si salva forse la spesa in cultura? No. «Il crollo è comune alle varie Regioni, ma nel Centronord si passa da 65 euro pro capite a 24, mentre nel Sud si passa da 43 a 18», e quanto alle decantate «risorse aggiuntive», i dati implacabilmente confermano che «le risorse aggiuntive sono risultate sostitutive della spesa ordinaria e settoriale».

Il disastro vero c’è da Roma in giù

Se possibile ancor più drammatico è il generale declino di ogni investimento nel Mezzogiorno, qui analizzato nella sequenza cronologica 1951-2015. I dati di spesa non lasciano spazio al dubbio: dallo 0,68% del Pil nel decennio 1951-60 si passa allo 0,85% negli anni Settanta, fino al crollo del quinquennio 2011-2015, quando gli investimenti calano allo 0,15%, anzi «negli ultimi anni raggiungono un peso inferiore allo 0,1 % rispetto al Pil». In altri termini, i nostri governi sembrano aver rinunciato a qualsiasi obiettivo di riequilibrio fra le diverse aree del Paese. Eppure, nelle previsioni del DPEF 2007-2011 si era stabilito su questo fronte un livello di investimenti ideale di almeno lo 0,6% del Pil, e comunque non inferiore allo 0,4%.

Sarebbe bello, in mezzo a tante discussioni su come ricomporre una sinistra di governo degna di tal nome, che dati come questi venissero discussi per costruire una piattaforma programmatica. E messi in tensione con altri dati, per esempio l’immensa evasione fiscale (la terza al mondo dopo Messico e Turchia) o la disoccupazione giovanile che ha il suo record europeo in Calabria (58,7%), superata solo dalle enclaves spagnole in terra d’Africa. O, per parlare di cultura, la carenza di politiche pubbliche indirizzate alle attività culturali degli immigrati: anche qui l’Italia brilla per un terrificante 55,5% di immigrati che nell’intero 2016 non ha partecipato a nessuna forma di attività culturale (dati Istat). Verrà mai il momento in cui il pulviscolo delle sinistre anziché discutere solo di alleanze e collegi elettorali vorrà accorgersi di quel che accade in Italia?

«Nel 1948 l'Architectural Association – sino a quel momento nota soprattutto per essere la fonte di qualunque fantasticheria megalomane di stampo corbusieriano in Gran Bretagna – fece qualcosa di davvero inatteso (segue)

«Nel 1948 l'Architectural Association – sino a quel momento nota soprattutto per essere la fonte di qualunque fantasticheria megalomane di stampo corbusieriano in Gran Bretagna – fece qualcosa di davvero inatteso: invitò per una conferenza l'architetto anarchico italiano Giancarlo De Carlo. De Carlo era rimasto molto colpito dalla situazione abitativa dei poveri nel suo paese, una situazione, spiegava “non molto diversa da quella degli schiavi del terzo secolo avanti Cristo, o dei plebei nella Roma Imperiale”. Le abitazioni di iniziativa comunale non si erano rivelate una soluzione adeguata, dato che si trattava di “squallide baracche come quelle che oggi si allineano monotone ai margini delle nostre città”. E dunque, sosteneva, “Il problema delle abitazioni non si può risolvere dall'alto: si tratta di un problema delle persone, che non può trovare soluzione, e nemmeno provare ad essere avvicinato in alcun modo efficace, salvo attraverso la concreta volontà e azione delle persone stesse. La pianificazione urbanistica poteva contribuire, nella misura in cui era concepita in quanto “manifestazione di collaborazione comune” e se diventava “impegno a liberare davvero l'esistenza umana, il tentativo di stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana”».

Su questo breve passaggio, o se volete lunga ragionata citazione, Peter Hall nel suo classico Cities of Tomorrow (p. 271) innesta la nascita moderna del movimento partecipativo di base nella costruzione della città. Dobbiamo subito aggiungerci che, trattandosi del 1948, solo un paio d'anni scarsi dopo l'approvazione del New Towns Act, è la stessa lettura dell'intuizione di De Carlo (perché di intuizione si tratta) a meritare qualche inquadramento storico in più, che ne illumina meglio il senso, probabilmente ben oltre le intenzioni originali. È infatti proprio nel dipanarsi del gigantesco programma attuativo delle nuove città, che si ripropone l'equivoco mai risolto sin dai tempi di Ebenezer Howard e del suo braccio secolare Raymond Unwin: chi decide le forme dei contenitori sociali, e neppure troppo implicitamente il modello di relazioni che finiranno per plasmare? Ma soprattutto, in base a quali principi, forme di comunicazione e interazione, avviene la decisione del modo in cui «stabilire un armonioso contatto fra natura, economia, ed ogni altro genere di attività umana»? Secondo la coppia fondatrice del modello spaziale città giardino, la lettura della tradizione identitaria nazionale (il villaggio ancestrale), filtrata dalla cultura critica dell'architetto-urbanista, era già anni luce più avanti di quella sterile «risposta del mercato» che aveva prodotto sino a quel momento i tuguri speculativi in affitto. De Carlo a ben vedere pare ancora fermo a quella dicotomia, salvo appunto individuare la risposta nella partecipazione attiva degli abitanti, per evitare che qualche architetto pur benintenzionato finisca per riprodurre alveari di alloggi «come quelli che oggi si allineano monotoni ai margini delle nostre città». Già: ma quali bisogni e quali progettualità vanno lette? E interpretate da chi?

Unwin e De Carlo, lontanissimi su ogni fronte, condividono però l'approccio caratteristicamente architettonico del piano-progetto, che ne inquina loro malgrado in vari passaggi, la lucidità dell'analisi e della proposta. Un tema non vagamente intuito, ma assai trattato, sistematicamente, proprio nel citato successivo svolgersi del programma New Town, le cui «polemiche urbanistiche» più interessanti, dal nostro punto di vista, non sono certo quelle tra i fautori del modello razionalista-modernista-corbusieriano e i sostenitori del vernacolo popolare (tema presente anche nelle nostre coeve discussioni interne al Fanfani-Case), ma tra progettisti e sociologi-operatori sociali. Riassunto in poche battute, tutto si riduce a: come leggiamo i bisogni e le aspirazioni di quelle persone? In cosa esattamente coinvolgiamo la loro partecipazione? Per gli architetti risulta quasi automatico, immaginare quelle sessioni di co-progettazione, in cui i futuri residenti esprimono gusti e preferenze sulle qualità spaziali più desiderate. Ma per il sociologo, giustamente, si tratterebbe di guardare un po' più in là della disposizione dei locali, degli edifici nel verde, della dislocazione dei servizi. E chiedere invece: che modello sociale, familiare, economico quotidiano, volete? Da quelle risposte, adeguatamente filtrate e interpretate, e non dall'improvvisarsi progettista dilettante allo sbaraglio, dovrebbe discendere poi tutto il resto, inclusa magari anche la sessione coi foglietti appesi in bacheca così di moda, o la campagna stampa, o i corsi divulgativi nello stile dell'antico Wacker's Manual concepito a Chicago nel lontano 1913.

Il Naviglio Pavese in periferia. Foto F. Bottini
E se vale per le forme dei quartieri e il loro rapporto coi servizi, i posti di lavoro, i trasporti locali, perché non dovrebbe valere, a maggior ragione, sul futuro prossimo e non prossimo della società locale? Questa lunghissima premessa che pare guardare molto all'indietro e poco all'oggi, ha invece un preciso obiettivo di metodo, e un legame diretto con la cronaca contemporanea: il Progetto Navigli a Milano, di cui molto recentemente è stato presentato e in parte discusso il piano di fattibilità. Con una serie di limiti di metodo e trasparenza che proprio quella lunga introduzione prova a sottolineare: sia il referendum originario, sia la discussione mainstream, sia gli approfondimenti tecnici ed economici, paiono sorvolare abbondantemente su un aspetto molto sociale e molto di per sé visibile, che riguarda la vera e propria «ricostruzione artificiale del centro storico» che Milano di fatto non ha mai avuto, perlomeno da quando esiste quel concetto. Anzi è addirittura l'identità locale popolare a far propria a modo suo l'antica invettiva di Marinetti contro il folklorismo decadente tanto manifesto a Venezia, centro storico paradigmatico dell'immaginario turistico, già parco a tema della nostalgia prima che il concetto si manifestasse esplicito.

S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. la notissima canzoncina sul testo di Luciano Ramo musicato da Vittorio Mascheroni, esce nel 1928, ovvero quasi contemporaneamente alla tombatura della fossa dei Navigli, e nel quadro delle grandi trasformazioni prospettate dalle prospettive di Piero Portaluppi e sviluppate nel piano di Cesare Albertini per la «Manhattan tascabile» dal Duomo alle lontane periferie dei Comuni appena aggregati, e idealmente alla regione metropolitana (per la prima volta introdotta ufficialmente dall'assessore Cesare Chiodi come requisito per il concorso di piano regolatore nel 1925-27). «Ogni vicolo Fu. Strade non ce n'è più. Con lo sfondar, son tutti boulevard. Ti smollan qua, ti sgonfian là. StraMilano, S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. Piano piano, Monte Merlo confondi col Pincio, e il Naviglio col Po». Da più di un punto di vista, mai autoironia fu più illuminante di questo breve estratto, una specie di riverniciatura in allegro e ottimista dei quadri periferici di Boccioni, dove anche i simboli cittadini, come l'amata collinetta del passeggio ai Giardini Pubblici (il Monte Merlo, col gazebo per la banda) o gli storici canali, entrano nel turbine della sarabanda. Ovviamente, di come poi debba e possa svilupparsi questa sarabanda, che lascia come ogni mutamento le sue vittime e i suoi vincitori, c'è sempre molto da dire. Ma la vera domanda a cui risponde è di sicuro: volete la «città che sale» o quella sonnacchiosa chiusa nelle sue mura che aspetta i viandanti di passaggio per vendergli vino annacquato nelle osterie?

A suo modo illuminante, un titolo di giornale locale di questi giorni parla del centro di Milano dopo il ripristino dei Navigli e dei quadretti paesaggistici, come di «Una promenade per la movida», illuminandoci a modo suo su quale sia l'idea di città inconsapevolmente (almeno inconsapevolmente per molti) inseguita da operatori e tanti cittadini: una sorta di centro storico posticcio, privo di storia degna di questo nome, file di locali in cui si spilla birra e si esibiscono orchestrine più o meno improvvisate, locale milanese e autentico come certe sagre paesane decise a tavolino da una pro-loco molto attiva, con prodotti made in China spacciati come frutto del territorio. Certo, nulla in contrario a qualche progetto di abbellimento, e ri-arredo, dell'ex Manhattan tascabile e incompiuta malamente improvvisata negli anni '20, ma sulla base di quale idea di città, localizzazione delle attività economiche, mix sociale di residenti, servizi e immaginario? Forse questo, sarebbe stato un quesito più coerente e trasparente da porre ai cittadini, invece dell'ovvio «volete una città più brutta o più carina?» a cui ci hanno sottoposto, con una logica che continua a permeare un dibattito che non è tale. L'alternativa tra la popolare e amata S.T.R.A.M.I.L.A.N.O. e l'ennesimo dozzinale S.T.R.A.P.U.N.T.I.N.O del turismo alcolico di massa, magari coi medesimi gravissimi problemi delle città d'arte, non pare un tema di secondaria importanza.

Su questioni analoghe, ho già espresso altre perplessità di lungo periodo in Arcipelago Milano, più di recente nel mio blog del lunedì su Today o in generale le riflessioni su Milano

La situazione del trasporto pubblico a Roma è catastrofica. Che si intende fare per rimediare al disastro? La giunta cinquestelle sfugge al confronto sul merito, caccia chi dissente e non informa i cittadini. (m.b)

La situazione di ATAC, l'azienda dei trasporti partecipata al 100 % dal Comune di Roma, è catastrofica. Ma non da ora. Da anni. Per molti motivi e con molte responsabilità, dalla lunga serie di cambiamenti ai vertici, con emolumenti stratosferici e buone uscite incredibili - soprattutto a fronte degli inesistenti risultati raggiunti - alle assunzioni clientelari, da ascrivere non solo alla parentopoli più famosa della Giunta Alemanno, ma alla levitazione costante del personale (dirigenti e impiegati), al sistematico spoil system e alle solite mangiatoie elettorali che hanno accomunato destra e sinistra. Per non parlare dei molti casi di mala amministrazione finiti nelle aule giudiziarie. E dell'alto tasso di assenteismo dei dipendenti e - va detto - del corporativismo di una categoria dove proliferano le sigle sindacali. E dell'evasione tariffaria record degli utenti. E del lungo braccio di ferro Comune - Regione per i fondi per il trasporto pubblico della Capitale. E di molto altro ancora.

Non è un mistero che l'ATAC sia arrivata alla frutta da un pezzo. Lo racconta anche l'ex Sindaco Ignazio Marino nel suo libro, dove descrive assai bene come spesso l'interesse per l'azienda da parte di pezzi della politica di destra e di sinistra si attivasse «più per il salario o il posto di lavoro di un dirigente», che «per la necessità di ridimensionare e rendere più produttiva l'azienda»; e già allora, racconta Marino, «secondo alcuni osservatori avrei dovuto portare i libri contabili in tribunale e dichiararne il fallimento».

Oggi la situazione non è migliorata, anzi. Le parole dell'ex direttore generale dell'ATAC, Bruno Rota (il manager milanese nominato dalla Sindaca Raggi, a cui sono state affidate le deleghe operative poco più di un mese fa) non lasciano spazio all'interpretazione: «L’azienda è in stato di dissesto conclamato. Oltretutto in queste condizioni ci sono anche chiari obblighi di legge: se non riesce a far fronte ai propri impegni, noi abbiamo l’obbligo di ufficializzare questa situazione(...) Bisogna ristrutturare il debito».

Rota parla chiaro anche sulle motivazioni che lo hanno spinto a lasciare l'incarico: «Come dico nella lettera di dimissioni, [lascio] per la gravissima situazione di tensione finanziaria della società. Una situazione che può essere risolta soltanto con un intervento drastico e con il pieno riconoscimento di quanto accaduto. Avrei dovuto sentire attorno a me un clima di totale fiducia. E così non è stato».

Parole inequivocabili che come altre dichiarazioni rilasciate alla stampa in questi giorni, tirano in ballo il tentennamento della Sindaca e della Giunta nell'affrontare con serietà e coraggio un’emergenza non più rinviabile. E appare orwellianamente inquietante l'interpretazione della vicenda pubblicata sulla pagina facebook della Sindaca Virginia Raggi (forse opera dei suoi spin doctor), in cui ribalta la situazione e attribuisce il passo indietro del direttore generale non alla mancanza di sostegno al suo piano da parte dell’Amministrazione capitolina, ma a personali preoccupazioni sulle possibili conseguenze legali. E che quello della Sindaca sia un maldestro gioco di prestigio verbale, simile a quelli dei politici navigati invisi ai Cinque Stelle, ci sembra evidenziato dal fatto che non vengano date spiegazioni ai cittadini, a cui ci si rivolge solo con brevi post pubblicati in rete.

Perché il vero punto è: che cosa intende fare questa Amministrazione - facendolo rapidamente - per affrontare una situazione del trasporto pubblico ormai abbondantemente oltre il punto di non ritorno, che a quanto pare sta per implodere definitivamente? Quali sono state le vere cause della rottura (tra l'altro annunciata) e perché il Piano di Rota non andava (più) bene? Quali piani alternativi esistono, a parte tirare a campare aspettando l'ennesimo uomo della provvidenza?

Più in generale, perché, in un anno di permanenza nella stanza dei bottoni, questa amministrazione non è ancora stata capace di aprire le porte del Campidoglio e mostrare gli scheletri nell'armadio dei conti che non tornano? Dove sono finiti gli ardimentosi consiglieri M5S che dall'opposizione promettevano sfracelli sui cosiddetti "derivati" e che avrebbero fatto chiarezza una volta per tutte sul debito monstre della Capitale e sulle mangiatoie bipartisan delle partecipate? E per quanto ancora le mancanze e le devianze di - alcune - Giunte precedenti saranno usate dalla Giunta Raggi come scudo spaziale per proteggersi dalle critiche? Dopo più di un anno bisogna cominciare a rispondere ai cittadini di quello che si è fatto e non fatto. In modo chiaro e trasparente, con la serietà dovuta verso chi ti ha eletto per cambiare le cose.

Invece la Sindaca chiude il suo post invitando i suoi consiglieri e e i suoi assessori a «non distrarsi dal lavoro alimentando sterili polemiche» avvertendo «chi preferisce polemizzare" che «si mette da solo fuori dalla squadra.» Un ulteriore segnale della debolezza di questa maggioranza pentastellata, che si preoccupa di silenziare la critica e il dissenso, e sfugge dal confronto sul piano delle idee e dei fatti. Ma ma anche un vizio con cui dovrebbe fare i conti fino in fondo il MoVimento, se ambisce davvero a fare un salto di qualità.

Perché a Roma - e non solo - i Cinque Stelle hanno due possibilità.

Vivere alla giornata, gloriandosi di iniziative secondarie e titubando di fronte a scelte strutturali e improcrastinabili. Cercando di farsi meno nemici e inimicandosi tanti, amici e non amici. Estromettendo le voci critiche e ritrovandosi circondati dagli yes men e dagli adulatori. Affidandosi alle tecniche di distrazione di massa degli esperti di comunicazione anziché dire ai cittadini come stanno le cose. Pensando alle elezioni nazionali e non alla drammatica quotidianità dei cittadini romani.

Oppure andare dritti per la propria strada, scegliendo la trasparenza, il confronto democratico e la partecipazione della cittadinanza, senza temere il conflitto, né l'impopolarità. La strada di chi cerca di fare la cosa giusta e che per questo è sicuro di sé, anche se è disposto a mettere in discussione le proprie scelte quando è necessario.

Noi ci auguriamo che nel Movimento prevalgano le teste pensanti e non gli esperti di marketing.

«Mansarde, villette e seminterrati regione che vai, sanatoria che trovi. La motivazione è sempre la stessa: “Contenere il consumo del suolo” ». la Repubblica, 31 luglio 2017 (c.m.c.)

La foglia di fico è sempre la stessa, e quando la mettono si aspettano persino l’applauso: «Contenere il consumo del suolo». C’è scritto questo nella sanatoria delle mansarde, che la Regione Lazio sta prorogando da otto anni a questa parte, e c’è scritto questo pure nella sanatoria delle cantine, fresca di pubblicazione sul bollettino ufficiale della Regione Abruzzo. Avete capito bene: le cantine. Chi non sottoscriverebbe una legge regionale sul «Contenimento del consumo del suolo attraverso il recupero dei vani e locali del patrimonio edilizio esistente»?

Leggendo il titolo si potrebbe immaginare un provvedimento per favorire il riuso degli immobili abbandonati, spesso così belli da lasciare senza fiato, dei quali l’Italia è piena. Prima però di aver scorso il testo, scoprendo che delimita invece quel recupero ai «vani e locali seminterrati » da destinare «a uso residenziale, direzionale, commerciale o artigianale ». Ma non religioso: sia chiaro. Perché la sanatoria delle cantine decretata dalla Regione Abruzzo esclude invece espressamente, all’articolo 3, la possibilità di cambiare la destinazione d’uso dei seminterrati «per la trasformazione in luoghi di culto».

Insomma, fateci tutto, anche un bed & breakfast (non è forse attività residenziale?). Tranne che una moschea. Certo, per ottenere questo curioso condono (termine che di sicuro i proponenti rigetteranno sdegnati) bisognerà pagare gli «oneri concessori”. Se però l’intervento riguarda la prima casa è previsto uno sconto del 30 per cento. Va pure da sé che i locali debbano avere determinate caratteristiche. Per farci abitare gli esseri umani sono necessari impianti di “aero- illuminazione” (testuale nella legge) e l’altezza dei locali non può essere inferiore a due metri e quaranta. Ma a trovarle, cantine così alte… Niente paura. Anche in questo caso la legge della Regione Abruzzo offre una elegante scappatoia. Eccola: «Ai fini del raggiungimento dell’altezza minima è consentito effettuare la rimozione di eventuali controsoffittature, l’abbassamento del pavimento o l’innalzamento del solaio sovrastante ».

Il vostro scantinato tocca a malapena uno e novanta? Niente paura: scavate un altro mezzo metro o alzate il solaio di cinquanta centimetri. Sempre rispettando «le norme antisismiche », però. Dopo quello che è successo in Abruzzo, è il minimo. Già… Ma colpisce che nemmeno il terremoto sia stato capace di frenare lo stillicidio delle sanatorie. Anzi. Qualche mese fa c’è stato chi ha rivelato che i contributi pubblici per il sisma non avrebbero discriminato le case abusive. Suscitando la reazione risentita delle strutture commissariali, anche se nessuna smentita ha potuto cambiare la realtà dei fatti: per ottenere i denari statali è sufficiente autocertificare che l’abitazione andata distrutta non era interamente abusiva. E poi presentare domanda di sanatoria. La prova, se ce ne fosse ancora il bisogno, che abusivismo e condoni se ne infischiano anche delle scosse telluriche del settimo grado.

Il vecchio caro condono edilizio ha così pian piano cambiato pelle. Sbarrata la strada in parlamento, si è aperto la via nelle pieghe delle leggi regionali assumendo le forme più subdole e creative. Non soltanto per i sottotetti, come nel Lazio e in Lombardia (Regione che ha deliberato anch’essa il salvataggio delle mansarde), o per le cantine, come in Abruzzo. Emblematico è il caso della Campania, dove il consiglio regionale ha appena sfornato una legge per l’adozione di «linee guida per supportare gli enti locali che intendono azionare misure alternative alla demolizione degli immobili abusivi».

Tradotto dal burocratese, sono le direttive alle quali si devono attenere i Comuni per evitare di buttare giù le costruzioni illegali. Per esempio, si deve valutare «il prevalente interesse pubblico rispetto alla demolizione». Come pure tenere debitamente conto dei «criteri per la valutazione del non contrasto dell’opera con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico ». E che dire dei «criteri di determinazione del requisito soggettivo di ‘occupante per necessità»? Ecco dunque gli abusivi per bisogno, quella figura mitica capace di spazzare via ogni tabù ambientale con relativo senso di colpa. In Campania sono il corpo elettorale fra i più consistenti e la tentazione di grattargli la pancia, tipica di certa destra, ha ormai fatto breccia anche presso certa sinistra.

I Verdi hanno adesso chiesto al governo di Paolo Gentiloni di impugnare la legge votata dalla Regione governata dal suo compagno di partito Vincenzo De Luca e di stroncare insieme anche la sanatoria delle cantine che ha fatto breccia nel cuore dell’Abruzzo presieduto da un altro dem: Luciano D’Alfonso. Arduo prevedere con quali speranze di successo. Probabilmente non più di quante ne abbiano gli oppositori di una recentissima leggina della Regione Sardegna, ora governata dal centrosinistra di Francesco Pigliaru, per bloccare la possibile invasione delle coste dell’isola con bungalow e casette di legno.

Nel provvedimento sul turismo è spuntata infatti la possibilità per i camping isolani di piazzare costruzioni mobili (ma nella versione iniziale erano ammesse anche nella versione non amovibile) al fine di «soddisfare esigenze di carattere turistico». Le quali, precisa il disegno di legge, «non costituiscono attività rilevante ai fini urbanistici ed edilizi».

Sono quindi case vere e proprie, ma è come se non lo fossero. Bisogna ricordare che questa non è una novità assoluta. Anche in precedenza le leggi regionali consentivano di impiantare strutture del genere nei camping. Ma all’inizio non si poteva superare il 25 per cento della capacità ricettiva di un campeggio. Poi si è saliti al 40. E ora al 45. Arrivare al 100, di questo passo, sarà uno scherzo…

«Per eliminare i controlli, di fatto si elimina una parte dal patrimonio culturale nazionale». la Repubblica, articolo9, blogautore, 29 luglio 2017 (c.m.c)

In questo Paese parlare di politica non vuol dire parlare di cose, ma di formule. Non di vita reale, ma di logiche astratte. Non di giusto e sbagliato, ma di tattico e conveniente.

Per esempio: martedì prossimo ci sarà al Senato il voto definitivo sul famoso ddl sulla concorrenza. E siccome con ogni probabilità il governo porrà la questione di fiducia (abusandone ancora una volta) tutto coloro che sostengono il governo voteranno sì, salvo poi venire a spiegare che hanno 'dovuto' votare una legge in parte sbagliata. Dannosa, distruttiva. E scritta sotto dettatura della lobby dei grandi mercanti d'arte.

Alcuni senatori di Articolo 1 - Mdp hanno provato a presentare un ordine del giorno che impegnava il governo a rivedere l'articolo relativo all'esportazione dei patrimonio culturale, perché reca «evidente pregiudizio per la certezza del diritto, la parità di trattamento fra i cittadini, la tutela del nostro patrimonio culturale». Con un discutibile cavillo procedurale si è loro impedito di farlo, ma la sostanza resta. E la sostanza è che il ddl Concorrenza non rimuove alcun ostacolo al libero mercato dell'arte, ma invece elimina i controlli che lo Stato esercita su antiquari, galleristi e case d'aste in funzione dei compiti di tutela del patrimonio culturale demandatigli dall'articolo 9 della Costituzione.

Per eliminare i controlli, di fatto si elimina una parte dal patrimonio culturale nazionale stabilendo che alcuni beni che oggi ne fanno parte, domani non vi rientreranno più e dunque non dovranno più, fra l'altro, passare al vaglio degli uffici esportazione del Ministero per lasciare il territorio del Paese. Per esempio lo fa innalzando da 50 a 70 anni la soglia in cui un'opera d'arte è tutelata: la norma, di carattere generale, impatta sull'intero patrimonio culturale, non solo su quello che interessa galleristi, antiquari e case d’aste, visto che coinvolge anche i beni degli enti pubblici, delle fondazioni, degli enti ecclesiastici e gli immobili e che, soprattutto, non riguarda solo l'esportazione, ma tutte le attività di tutela.

Dopo che il ddl sarà approvato tutte le migliori opere di architettura, design, pittura, grafica, scultura, realizzate fra il 1947 e il 1967 da maestri quali Luigi Caccia Dominioni, Gio Ponti, Ignazio Gardella, Figini e Pollini, BBPR, Vico Magistretti, Marco Zanuso, Luigi Moretti, Carlo Mollino, Achille Castiglioni, Bruno Munari e perfino da Balla, Carrà, Fontana, Burri, Melotti, Morandi, De Chirico, Guttuso e molti altri saranno libere di essere demolite, distrutte, danneggiate, vendute, alterate, adibite a usi non consoni, restaurate e trasformate senza controllo, perché non più protette dal Codice dei Beni culturali.

E tutto questo solo per consentire che le opere d'arte realizzate fra il 1947 e il 1967 escano liberamente dal Paese! E poi c'è la famosa autocertificazione: basta che chiunque autocertifichi che un'opera che possiede vale meno di 13.500 euro e potrà esportarla. Cioè la volpe potrà autocertificare che la gallina che sta per mangiarsi è una gallina piccola piccola, davvero irrilevante per l'integrità del pollaio.

Uscirà davvero qualunque cosa: senza rischi per nessuno, visto che le autocertificazioni false non sono sostanzialmente punite. E l’uscita automatica riguarderà non solo le opere con meno di 70 anni ma anche tutte quelle che, indipendentemente da età e autore (che potrebbe anche essere Michelangelo, o Caravaggio) siano ritenute di valore economico inferiore ai 13.500 euro. Il valore sarà autodichiarato direttamente dal richiedente l'uscita, vale a dire da chi ha un interesse concreto e diretto a sottostimare il bene.

L'uscita automatica di beni in regime di autodichiarazione favorirà la circolazione internazionale di beni rubati, contraffatti, falsi, inalienabili perché appartenenti a enti pubblici o parapubblici che necessitano di permessi previ alla commercializzazione, staccati da monumenti, complessi architettonici e collezioni senza le dovute autorizzazioni, posseduti illecitamente perché scavati o rinvenuti sottacqua dopo il 1909, oggetto di frode fiscale, riciclaggio, operazioni finanziarie gestite dalla criminalità organizzata sempre più spesso adusa a investire nel mercato dell’arte del ‘900 e contemporanea. Insomma, rispetto a Dario Franceschini, Sandro Bondi ci sembrerà un eroe della tutela del patrimonio culturale, un paladino della Costituzione!

Bisogna dare atto a Claudia Mannino (ex 5 stelle) alla Camera e a Michela Montevecchi (5 stelle) al Senato di essere state le più coerenti e forti oppositrici di questa grave umiliazione dell'articolo 9 della Costituzione. Sarebbe bello che anche tutti i politici che si richiamano alla sinistra (come i senatori di Mdp) fossero altrettano forti e coerenti nella loro battaglia parlamentare.

Perché i cittadini non sono più disposti ad accettare la logica autoreferenziale del gioco politico: e credono che se un governo mette la fiducia su una legge che vìola platealmente la Costituzione non si possa in coscienza votare quella fiducia. Perché la Costituzione vale più di un governo. E perché sono Paolo Gentiloni e Dario Franceschini ad essere al servizio del patrimonio culturale della nazione: non il contrario.

la Repubblica, 31 luglio 2017 con postilla

L’emirato del Qatar detta le norme per la gestione delle coste e chiede vincoli più leggeri, la Regione sarda targata Pd obbedisce. Nella scorsa primavera, Mario Ferraro, l’amministratore delegato di Sardegna Resorts e di Qatar Holding, proprietaria di Porto Cervo e dei blasonatissimi hotel della Costa Smeralda, si è presentato davanti alla commissione urbanistica regionale con in pugno un documento di quattordici cartelle firmate una per una, come si fa nei contratti civili, dove il manager propone un’ampia revisione della legge per l’edilizia, il piano casa del centrosinistra varato nel 2015 tra le proteste delle associazioni ecologiste.

Ferraro mette in chiaro una cosa, suggerendo parole, incisi e parametri: serve più cemento, più cubature vicino al mare, anzi vicinissimo. Persino là, nella fascia dei trecento metri dalla battigia vincolata dal piano paesaggistico di Renato Soru, dove non ha osato neppure l’amministrazione regionale berlusconiana, quella guidata da Ugo Cappellacci. La dettagliatissima proposta qatariota parte da un punto fermo: cari amici sardi, a chiedercelo è il mercato.

I turisti che contano, quelli che hanno le tasche piene, vogliono il frontespiaggia e noi, causa i divieti imposti dal Ppr, giochiamo una partita in perdita. «Le aree interessate da insediamenti turistici — scrive Ferraro — non possono essere considerate alla stessa stregua delle aree incontaminate, meritevoli invece di tutela integrale. Escludere la possibilità di riqualificare ed accrescere la potenzialità delle strutture che insistono in tali aree significa condannare le stesse a divenire inadeguate agli standard internazionali ».

In altri tempi la politica sarda, sempre gelosa della propria autonomia, sarebbe saltata sulla sedia e avrebbe gridato all’intrusione indebita nell’attività legislativa. Niente di tutto questo: i rapporti con il Qatar sono molto collaborativi, specie da quando l’emirato ha deciso di finanziare la realizzazione del mega ospedale Mater Olbia, nella città gallurese, un’incompiuta del San Raffaele per la quale si è speso di persona l’ex premier Matteo Renzi. Se qualcosa prendi — sembra aver ragionato il Pd sardo — qualcosa devi dare. Così nella legge urbanistica che sta per essere portata in consiglio regionale dalla maggioranza è sparito il vincolo dei trecento metri.

Resort e alberghi potranno allargarsi fino al 25 per cento «anche in deroga agli strumenti urbanistici». Le imprese avranno licenza di costruire nuovi corpi di fabbrica, spa e piscine aggravando un impatto che già oggi preoccupa il mondo ambientalista sardo. Come una città che diventa più grande di un quarto, con tutto il peso dei servizi, degli impianti idrici, delle strade, dell’illuminazione. Un impatto che in Sardegna sarà concentrato tutto nella fascia costiera, l’area più delicata e preziosa.

Un regalo miliardario che Sardegna Resort ha chiesto con forza e che i costruttori dell’isola attendevano da anni, contenuto in un sistema di norme che anziché rafforzare le tutele le riduce, in aperto contrasto con lo spirito del Codice Urbani. Poco male se a leggere il rapporto Ispra del 2016 la Sardegna occupa il quarto posto in Italia per consumo di suolo, dietro Sicilia, Campania e Liguria. L’addio al vincolo di inedificabilità — a sentire la Regione — servirà a semplificare il sistema di norme e a mettere ordine in un settore finora molto confuso. Insomma, un toccasana a base di mattoni e cemento.

E Soru? Uscito da un lungo letargo dovuto a complicazioni giudiziarie, quasi tutte risolte, il padre politico del Ppr sembra aver ritrovato lo smalto del 2004, quando si iscrisse al registro degli ecologisti duri e puri. In un documentato servizio uscito sull’Espresso parla della prossima legge urbanistica e manifesta preoccupazione «per la cecità di una classe dirigente che sta mettendo in pericolo il futuro della Sardegna ».

Gli ha risposto con una lettera indirizzata al settimanale il neosegretario del Pd sardo, Giuseppe Luigi Cucca, che nel tentativo di spegnere il nascente scontro interno nel partito annuncia un emendamento alla legge per “contemperare l’impatto” degli interventi sulla costa. In altre parole: il 25% di nuova volumetria non verrebbe calcolato sul totale dell’immobile, sarà previsto un tetto massimo per limitare i danni. Ma ora i senatori dem chiedono che Pigliaru venga sentito in commissione ambiente sui contenuti della legge. Il Pd chiama il Pd a render conto di se stesso.

postilla

E, utile precisare che l'inedificabilità nella fascia di 300 metri non è disposta al piano paesaggistico, ma da una legge nazionale tuttora valida in tute le regioni italiane (la legge Galasso, legge n. 431 dell'8 agosto 1985). Il piano paesaggistico regionale della Sardegna, formato sotto la guida di Renato Soru e in vigore fin dal 5 settembre 2006, sottopone a tutela una fascia litoranea ben più ampia, variabile dal minimo ex lege dei 300 metri fino a circa 3mila metri, definita sulla base di studi multidisciplinari in relazione alle diverse caratteristiche oggettive e alle qualità ambientali e paesaggistiche da tutelare. Di tutto ciò la Giunta Pigliaru, sta facendo strame, avendo ceduto la sovranità dell'Isola - una volta gelosa della sua autonomia - agli sceicchi immobiliari di alcune regioni dell'Arabia .

Una posizione e una proposta diametralmente opposte a quelle di progettisti, costruttori, immobiliaristi e via cementando, e perciò ragionevole. Arcipelagomilano.org online, 26 luglio 2017, con postilla (m.c.g.)

Cosa fare degli ex scali ferroviari di Milano? Con l’Accordo di Programma recentemente approvato si sono definite molte delle future funzioni, nonché le vocazioni delle singole aree, e a partire da lì architetti, tecnici e politici si stanno garantendo almeno un decennio pieno di dibattiti sul cosa, perché e come fare. E, per i più fortunati di costoro, anche un decennio di parcelle e incarichi.

Vorrei presentare una visione che sicuramente dispiacerà a quanti sono interessati a pilotare quel qualcosa che si dovrà muovere, non importa in quale direzione. Partiamo da una banale considerazione: è giusto investire delle risorse laddove queste servono a soddisfare i nostri bisogni. Bisogni ormai piuttosto complessi che richiedono trasformazioni del territorio, con la destinazione di parti di questo alla produzione di cibo, o a parco, o la costruzione di edifici, di strade e di altre infrastrutture che riteniamo indispensabili per la nostra sopravvivenza.

Sopravvivenza che per attuarsi pienamente deve trascendere il nostro tempo della nostra vita e proiettarsi verso le generazioni future, alle quali dovremmo lasciare un territorio che, pur trasformato secondo i nostri bisogni, lasci anche a loro lo spazio per soddisfarvi bisogni probabilmente diversi dai nostri. Se mi trovo costretto a enunciare tali banalità, è perché tutto ciò non sta avvenendo.
Perché per una sorta di horror vacui se c’è un pezzo di terra che si libera dauna funzione precedente subito bisogna destinarlo a qualcosa, che nella bipolarità grossolana della cultura corrente significa o costruirci sopra edifici o farci parchi, come di sicuro accadrà per gli ex scali ferroviari.

Bipolarità di comodo, che consente ad ambedue le parti (l’avrete capito, da una parte l’amministrazione pubblica per i parchi, dall’altra le imprese per gli edifici) di non guardare in faccia i veri problemi della città. Che non sono quelli di riusare gli ex scali ferroviari.

Innanzitutto, per quanto estese siano le aree degli ex scali, la superficie occupata da edifici pubblici e privati abbandonati, sparsi su tutto il territorio milanese, è meno appariscente ma ampia (guardate la mappa dell’edilizia abbandonata fatta dal Comune ) quanto quella degli scali in questione. Centinaia di ettari occupati da milioni di metri cubi in stato di degrado e abbandono (palazzi per uffici vuoti, cantieri lasciati a metà, abitazioni, fabbriche) quasi tutti in aree già densamente edificate. Di questi, molti recuperabili a nuovi usi, con un buon risanamento e le necessarie trasformazioni anche ad uso residenziale.

postilla

“L'horror vacui del pensiero urbanistico milanese” sottotitola l’autore, ed ha ragione: sembrerebbe puro buon senso, ma non lo è. E infatti non l’ha scritta un urbanista mainstream milanese questa riflessione, ma uno studioso che traduce grandi opere letterarie e di poesia dal polacco.

Secondo il nuovo promotore immobiliare scelto dal sindaco Brugnaro per "sviluppare" Venezia la sfida è alta: «Il competitor dell’isola veneziana è l’intero litorale adriatico, dove Caorle conta 4,2 milioni di presenze turistiche e Jesolo 5,3». il Sole 24Ore, 28 luglio 2017

«Il Lido di Venezia come Saint Tropez, non solo alberghi ma una rigenerazione in chiave green e glamour». Beniamino Piro, presidente della nuova Agenzia Sviluppo Venezia voluta dal sindaco Luigi Brugnaro, ha descritto così il futuro possibile della storica località con un domani tutto da ripensare. Lungo 12 chilometri, con una larghezza media di 150-200 metri, il Lido, raggiungibile in 10 minuti da Piazza San Marco, oggi è abitato da poco più di 17mila residenti. «Il competitor dell’isola veneziana – secondo Piro – è l’intero litorale adriatico, dove Caorle conta 4,2 milioni di presenze turistiche e Jesolo 5,3. Il Cavallino che nel 1950 contava 200mila presenze ha raggiunto i 6 milioni, mentre il Lido è fermo a 540mila turisti l’anno, stessa cifra di 70 anni fa». L’Agenzia Sviluppo Venezia è stata istituita appositamente per curare la valorizzazione di tutte le iniziative di investimento nel Comune, con l’obiettivo di attirare capitali e progetti. Ecco che a Ca' Vendramin, nella sede del Casinò, si sono dati appuntamento la scorsa settimana alcune decine di investitori, con lo scopo di creare una task force pubblico-privata.

uun buon modello:Jesolo

La Cassa Depositi e Prestiti, con Marco Sangiorgio, direttore generale Cdpi Sgr, ha confermato l’impegno per la conversione dell’ex Ospedale al Mare in un resort di lusso con area benessere. Coima, rappresentata dal manager Matteo Ravà, ha ribadito invece l’attività per la ristrutturazione degli hotel Excelsior e Des Bains con un investimento da 250 milioni. Si partirà con il primo, prevedendo la completa ristrutturazione entro un paio d’anni e a seguire partiranno i lavori per il secondo. Per questa operazione Manfredi Catella aveva annunciato qualche mese fa la partnership con un alleato di settore, London & Regional Properties, e con Unicredit e Banca Intesa. L’amministrazione prova ad arginare l’onda turistica che sta invadendo il centro storico, ma per il Lido non c’è altra via che lo sviluppo e sarà un’isola del lusso: in linea con le scelte di Cdp che ha portato Club Mediterranée e Th Resorts, si cercano investitori per un turismo di fascia alta. All’Agenzia è arrivata peò anche la domanda da parte della società Merlin Entertainments di replicare a Venezia (come farà a Dubai) la ruota di Londra, ma anche l’offerta di un investitore per realizzare una sorta di Camden Market. Quello che conta di più per Brugnaro, rappresentato dal prosindaco del Lido Paolo Romor, è fare presto e creare posti di lavoro.

Per il Lido di domani oggi c’è un elenco di possibili contenitori e aree, pubbliche e private, da convertire e valorizzare. È in vendita il Golf Club agli Alberoni (all’asta per 2 milioni) che confina con due colonie da convertire: una dell’Inpdap e una, l’ex Colonia Padova, dove c’è il progetto di un grande resort con 120 camere, sviluppato dal Gruppo Marzotto di Vicenza. Quest’ultima operazione è al momento in stand by per la mancata autorizzazione di una piscina a servizio del complesso di lusso: un caso che fa accendere un faro sulle difficoltà autorizzative di chi vuole investire. Tra gli altri tasselli del puzzle messo a punto dall’Agenzia c'è anche il centro soggiorno Morosini, di proprietà del Comune, pronto per una possibile valorizzazione; ancora, c’è il Forte di Malamocco che è in gestione a Coima; c’è l’Area del Moro, privata ma su cui è possibile ipotizzare una valorizzazione per un eventuale villaggio turistico o un campeggio; c’è l’ex liceo scientifico Severi in vendita da parte della Fondazione La Fenice di Venezia; e anche l’area ex Sky di proprietà di Ive (partecipata del Comune) di interesse per eventuali residenze da abbinare al posto barca. Oggetto di attenzione è anche l’isola del Lazzaretto Vecchio e spiagge come quella del Blue Moon, «per le quali alcuni brand internazionali si sono già fatti avanti», ha sottolineato il presidente dell'Agenzia. C’è poi l’area della Favorita, la caserma Pepe, il sito Ferry Boats con un ampio spazio verde adiacente. E ancora, «in un'ampia area libera a ridosso dell'aeroporto Nicelli – ha commentato Piro – ipotizziamo uno spazio per la movida pensata per i giovani, anche locali. Oltre, c’è una darsena vicino al faro, già approvata, che potrebbe interessare per chi cerca opportunità di attracco direttamente sulla spiaggia».

E a non essere troppo schizzinosi, anche Castelvolturno va bene

Con questo corposo elenco di opportunità, l'Agenzia ha aperto le porte ai privati, mettendo sul tavolo le trattative avanzate con Cdp e Coima, e ricordando il lavoro fatto per la chiusura dello scavo di quello che doveva essere il nuovo Palacinema, e di un investimento sul Casinò che sarà pronto entro i prossimi tre anni, utilizzabile anche per congressi. In generale banche e imprenditori hanno chiesto all’amministrazione un investimento pubblico sulle infrastrutture e sui servizi, la collaborazione per destagionalizzare l’offerta, la semplificazione degli inter autorizzativi e ancora una concreta azione che tiene insieme «visione, capacità di decisione e di execution» come ha sintetizzato Marco Recalcati, head real estate di Unicredit.

«Organizzazioni come Il Piccolo Cinema America Occupato, e artisti come Carl Brave e Franco126 sono l'ultima difesa all' identità storica degli storici rioni capitolino, rimpiazzando la politica (che da tempo manca)». Linkiesta online, 27 luglio 2017 (c.m.c.)


«Prima era un paesone, ci conoscevamo tutti, ognuno con il suo mestiere. Oggi i figli dei miei amici artigiani non portano più avanti quelle attività. Non sono business che portano soldi». Ecco, i soldi. L’espressione amareggiata del tassista che parla della “sua” Trastevere anni ’70 potrebbe diventare il simbolo di quel fenomeno globale che prende il nome di gentrificazione. Un fenomeno che, per restare a Roma, sta da tempo trasformando - non senza polemiche - quartieri storici come Testaccio, Pigneto o la stessa Trastevere. Il primo effetto di questo processo è autoevidente: sovente gli abitanti originari di questi quartieri ormai imborghesiti sono costretti a trasferirsi nelle periferie, a causa dei prezzi immobiliari e canoni di locazione che schizzano alle stelle, insostenibili per chi in quei posti ci è nato e cresciuto.

La politica ci prova, a difendere l’identità di quartiere: soprattutto, attraverso norme anti-sfratto, per mantenere vivo lo spazio urbano in questi quartieri. Funziona? Non esattamente. A Trastevere, al posto delle storiche botteghe artigiani, hanno iniziato ad aprire toasterie, paninerie, baretti per turisti. Nel frattempo, si sono moltiplicate le case in affitto ad americani, che di Testaccio e Trastevere hanno sentito parlare solo in un recente film di Woody Allen.

Al netto della politica, però, la lotta vera è soprattutto sociale. A Berlino, Londra , New York sono attivi diversi gruppi organizzati anti-gentrification. In Italia, al solito, siamo un po’ in ritardo, ma qualcosa si sta muovendo. Ne dà testimonianza il workshop tenuto all’Univerisità Roma Tre dello scorso ottobre, riguardante il tentativo di elaborare una comprensione comune su come identificare il processo di gentrificazione e come applicare politicamente le teorie “anti-gentrification” con partecipazione di attivisti provenienti da città dell’Europa del sud.

A Trastevere, però, senza riferimenti politici a cui aggrapparsi, la lotta alla gentrificazione è un affare per giovani. Rapper, ad esempio, come il duo trasteverino Carl Brave e Franco126, con l’album indie hip hop intitolato Polaroid, che in realtà più che una lotta dichiarata alla gentrificazione di Trastevere, raccontano per immagini un’identità romana che solo chi è nato nel posto riesce a comprendere. Dimostrazione del senso di appartanenza che i ragazzi del quartiere ancora sentono.

Lo stesso si vede anche nel cinema. Piazza San Cosimato, cuore e anima della vecchia Trastevere, è ormai protagonista di una lotta culturale incominciata e promossa dai Ragazzi del Cinema America, in Via Natale del Grande, storico cinema Trasteverino. Frequentato da gente come Carlo Verdone, che racconta di aver coltivato lì le sue prime passioni per la cinematografia, è stato poi abbandonato per diversi anni e solo nel 2012 è stato occupato da alcuni ragazzi in protesta contro il piano di rimpiazzare le sale storiche per farne appartamenti. L’occupazione, durata più o meno due anni è stata appoggiata da moltissime figure storiche del quartiere, felici di ritrovare nei ragazzi una voglia di mantenere viva la memoria e l’anima di un posto come Trastevere. Alla fine, dopo una lunga serie di battaglie legali, i ragazzi sono riusciti a bloccare il piano di abbattere il cinema.

Da quel momento, da strumento di occupazione, Il Piccolo Cinema America Occupato si è trasformato in un’associazione. Nelle ultime due estati, l’organizzazione, per riportare la cultura nelle piazze ha promosso, ogni sera, una proiezione “free entry” (a ingresso libero) per chiunque. Spesso accompagnata da presentazioni condotte da personaggi celebri: si pensi solo a Carlo Verdone, a Roberto Benigni, Ennio Morricone e Francesco Bruni. L’intento è chiaro: riportare la cultura nelle piazze, spesso ricreando il significato che aveva il cinema per i veterani del rione.

È, insomma, un vero e proprio movimento sociale, prima ancora che politico. L’organizzazione del Piccolo Cinema America Occupato ricorda che per ricostruire l’autenticità di questi posti bastano due elementi: la cultura e i giovani, gli unici (per ora) capaci di arrivare a tutti. Dimostrando che la musica e la cultura funzionano, forse meglio di qualsiasi politica perché si aprono a un pubblico e a una coscienza civica che – almeno nella Capitale – sono merce più rara dell’acqua potabile.

Dialoghetto sull'azione congiunta di due importanti attori delle politiche urbane: Regione e università. Jobnotizie.it online


Cosa è venuto fin qui daRegione Lombardia in fatto di pianificazione urbanistica? Governo dellatendenza insediativa in coerenza con interventi mirati sul sistema deitrasporti? Non scherziamo. Il respiro strategico non è andato oltre il recuperodi sottotetti e cantine. E, naturalmente, l’approvazione e il sostegno ainterventi infrastrutturali nati altrove e tesi a privilegiare ancora una voltail trasporto su gomma (Brebemi, Pedemontana). Niente male per un contesto untempo all’avanguardia per i trasporti su ferro.
- Ma come – misento tirare per la giacca –: non hai visto la messa in campo di una cittànuova?
- E dove?
- Non fare lognorri: è la prospettiva finalmente definita per l’area ex-Expo: un fattoeccezionale che, per una volta, vede concordi Stato, Regione, Comune di Milanoe Città Metropolitana.
- Ma guarda: unanuova città nell’area più densamente costruita e abitata d’Europa! Occorreavere una grande intelligenza strategica, oltre che una considerevole riservadi risorse economiche, per mettere in campo una cosa simile. Sono sbalorditodalla lungimiranza dei nostri governanti…
- Siccome ilrischio di aggiungere un nuovo capitolo alla vicenda delle cattedrali neldeserto è dietro l’angolo, si è deciso di fare sul serio: non singolicontenitori, ma una vera e propria città…
- E come concepita?
- La piastrasupertecnologica c’è già: basta attaccarvi gli edifici in modo dar vita a unpolo di rilevanza metropolitana.
- Prima leinfrastrutture primarie e poi il disegno urbano: un caso curioso dirovesciamento della logica.
- È il contesto chelo richiede…
- Un esperimentoche potrebbe fare scuola: da utilizzare, per esempio, nella colonizzazione diMarte.
- Intanto su quellapiastra occorre portare la giusta massa critica. Che in questo caso viene dallospostamento delle facoltà scientifiche dell’Università Statale da Città Studi…
- Curioso: in questiultimi decenni sul fronte dell’Università non si è fatto che tagliare ifinanziamenti pubblici e ora si trovano soldi freschi per questo intervento…
- È un premio alladisponibilità ad assecondare operazioni strategiche che hanno un consensobipartisan…
- L’università-Cenerentolaritrova appeal entrando nel risiko immobiliare. Vedo i padri fondatoririvoltarsi nella tomba…
- Chi non risicanon rosica…
- Diciamopiuttosto: chiodo schiaccia chiodo.
- ???
- Dapprima si èandati in soccorso di Cabassi (primo chiodo), ora si va in soccorso di Arexpo(secondo chiodo). Sempre a spese del contribuente.
- Ma sull’areaex-Expo le facoltà scientifiche della Statale troveranno una straordinariaoccasione di rilancio…
- Si gioca sullapelle degli studenti che dovranno fare due chilometri a piedi per raggiungerele aule dalla stazione della metropolitana…
- Una soluzione sitroverà…
- C’è pur semprel’esempio di Bicocca (altra operazione dove il pubblico è corso in soccorso delprivato). Con in più che ora non siamo in una fase espansiva dell’università(vedi il numero chiuso adottato per le facoltà umanistiche) e ci viene servito sulpiatto un trasferimento di cui non si sentiva proprio il bisogno. E che nessunpiano, regionale o comunale, aveva previsto: il classico coniglio dal cappello…
- Un coniglio èsempre meglio che la morta gora. L’operazione metterà comunque in moto nuoviinvestimenti su Città Studi…
- Dove, perchél’Università Statale trovi la parte rimanente delle risorse necessarie altrasferimento, si dovranno fare concessioni agli operatori immobiliari da partedel Comune…

- Di cosa tiscandalizzi: se si è fatto per CityLife, perché non si può trovare una modalitàanaloga per un’operazione di ben altra portata strategica?

Breve replica a conclusione di in animato dibattito sull'avvio del piano per Bagnoli (la discussione può proseguire anche su eddyburg nello spazio apposito in calce)

L’intesa dei giorni scorsi fra il governo, la regione e il comune di Napoli relativa all’assetto urbanistico di Bagnoli ha scatenato un intenso dibattito per ora – con l’eccezione di eddyburg – limitato alla stampa napoletana, ma l’importanza dei temi penso che porterà a un’inevitabile estensione a scala almeno nazionale. Intanto poche righe di replica.
La maggior parte degli interventi riguardano questioni di natura politica e istituzionale (chiamando in causa addirittura la corte costituzionale), preoccupazioni economico finanziarie (che fine fanno i Bagnoli Bonds), procedure amministrative, partecipazione e coinvolgimento dei cittadini, oltre agli eterni e irrisolti problemi della bonifica. Questioni tutte di grandissima rilevanza che nessuno può permettersi di sottovalutare, ma in larga misura altra cosa riguardo ai contenuti specifici dell’accordo, quelli del disegno urbano, dell’uso del suolo, spesso trattati con poche battute dando per scontato che le soluzioni previste ripropongono quelle decise vent’anni fa.
È verissimo. Il punto è che negli ultimi vent’anni quelle soluzioni sono state politicamente e culturalmente obliterate, svalutate, schernite, bollate come economicamente insostenibili, il parco di 120 ettari una follia che Napoli non può permettersi, i volumi stabiliti dal piano regolatore inadeguati a far cassa, il ripristino della linea di costa un’utopia. Solo comitati e associazioni culturali difendevano il piano, e Marco Demarco sul Corriere del Mezzogiorno è stato il solo a ricordare questi fatti. Non dimenticherò mai che in occasione di una trasmissione di Ambiente Italia all’inizio degli anni Duemila fui scongiurato di rilasciare un’intervista in difesa del piano di Bagnoli che nessuno degli amministratori di allora era disposto a difendere. Perciò, l’attuale unanimità senza una parola di autocritica un po’ deve fra riflettere, nessuno comunque è più felice di me di questo cambio di rotta.

Nel merito delle scelte ho già scritto che il porto turistico a Nisida è per me una soluzione non meditata e spero che gli organi di tutela dei beni paesaggistici e culturali agiscano opportunamente in difesa di un sito sublime. Inadeguate sono anche le soluzioni proposte per l’accessibilità, con una linea metropolitana non di attraversamento ma che non so perché fa capolinea all’istmo di Nisida. Un’ipotesi troppo esile che finisce con il favorire il trasporto privato a favore del quale sono anche previsti straripanti parcheggi in prossimità dell’Acciaieria recuperata. Era molto più efficace il progetto originario di servire l’area interrando e deviando la Cumana dall’abitato di Bagnoli (selvaggiamente spaccato in due dalla ferrovia a livello) fino alla stazione Campi Flegrei. Anche su questo punto decisivo spero che sia possibile rivedere le proposte in discussione.

«Il laboratorio sotterraneo ospita milioni di reperti. Ecco come un team di studiosi ricompone un puzzle che può rivelare nuovi scenari storici». la Repubblica, 25 luglio 2017 (c.m.c.)

La storia di Roma antica s’interpreta e, per qualche aspetto, ne viene rivisto il profilo economico e sociale in uno spazioso magazzino con i soffitti ribassati. È un deposito seminterrato, i tubi a vista, grande quasi mille metri quadrati sotto uno dei più chiassosi centri commerciali della capitale. Da un parcheggio si scende lungo una rampa, in fondo spuntano gli accessi per lo scarico merci, sulla destra, invece, ci sono una porta in ferro e accanto una saracinesca. Niente targhette, niente loghi. Anonimato.

È dietro quella porta che alloggia un laboratorio allestito dalla Soprintendenza Speciale di Roma. Sono ospitati oltre quattro milioni di reperti archeologici sistemati e catalogati in seimila cassette (si prediligono quelle dei pescivendoli, ma vanno bene anche quelle per le olive e per i pomodori). In uno stanzone una parte di oltre ottantamila frammenti d’intonaco color rosso cinabro, il rosso pompeiano, e blu egizio sono sistemati su un letto di polistirolo. Qui, recuperati gli attacchi fra un frammento e l’altro, si ricompongono i riquadri con paesaggi marittimi e i fregi di un affresco che decorava la parete lunga sessanta metri di una residenza aristocratica. L’affresco è databile al 40 d.C., ma la sua struttura architettonica non esiste più e in questo modo rinasce.

Questi pezzi, oltre alle anfore, i lucernari, il vasellame, i gioielli e le pietre dure, ognuno alloggiato su un supporto con il numero che lo identifica, e poi gli altri frammenti custoditi nelle cassette ordinatamente impilate l’una sull’altra e addossate alle pareti, tutto questo immenso lascito della Roma repubblicana e poi imperiale proviene da scavi in due piazze del quartiere Esquilino, piazza Vittorio Emanuele e piazza Dante. Lo scavo, compiuto fra il 2006 e il 2011, riprende quello realizzato da Rodolfo Lanciani a fine Ottocento, quando appunto fu costruito il quartiere Esquilino. Allora vennero identificati gli Horti Lamiani, una grande proprietà con costruzioni, un magnifico giardino e un frutteto appartenuta al console Lucio Elio Lamia (I secolo d.C.) e poi posseduta dagli imperatori, prima Tiberio, quindi Caligola.

Il deposito sotto il centro commerciale è ora la casa di quei milioni di reperti, in grandissima parte oggetti umili, recuperati in diversi strati archeologici, quindi appartenenti a un’epoca compresa fra il IV secolo a.C. e il IV d.C.. È forse il più grande deposito-laboratorio in Italia, un ambiente costantemente vigilato e dotato di sensibili allarmi. E di cui naturalmente non si può dare l’indirizzo. Al piano di sopra si riempiono le piazze dello shopping, qui lavora senza orari una pattuglia di archeologi che tutti i giorni scivola giù dal parcheggio senza dare nell’occhio. Tenuti alla riservatezza, si muovono discretamente, salgono a prendere il caffè al centro commerciale entrando da un ingresso laterale. Sono donne in prevalenza. Sono giovani per come si può essere giovani se si è precarie fra i trenta e i quarant’anni, tutte con laurea magistrale e dottorati di ricerca, master ed esperienze internazionali.

Contratti a progetto, compensi bassi e la tentazione ricorrente di mollare tutto e di dedicarsi ad altro, nonostante gli occhi brillino quando parlano di quel che fanno. I loro nomi: Donato Alagia, Simona Bellezza, Giulia Bison, Viviana Cardarelli, Marta Casalini, Silvia Fortunati, Diana Greco, Serena Guglielmi, Giordano Iacomelli, Barbara Lepri, Alessia Masi, Rosita Oriolo, Giacomo Pardini, Alessandra Pegurri, Nicoletta Saviane, Giulia Schwarz, Gabriele Soranna, Alessandra Vivona. Li coordina Antonio Ferrandes, un piede all’università l’altro anche lui nel precariato.

Non c’è niente di simile a questo deposito, spiega Mirella Serlorenzi, l’archeologa che per conto della Soprintendenza è responsabile di un lavoro che non si è concluso con lo scavo, come spesso accade in regime di archeologia preventiva (l’archeologia che si pratica non perché ci sia, a monte, un progetto scientifico, ma perché si realizzano trincee per una linea ferroviaria o per un’autostrada o fondazioni per un edificio).

Il cantiere edilizio che ha prodotto la scoperta di questi materiali è, a piazza Vittorio Emanuele, quello per la nuova sede dell’Enpam, l’ente previdenziale dei medici che sta anche finanziando, con quasi un milione, il lavoro archeologico. Serlorenzi e gli altri dell’équipe sono impegnati affinché questi reperti, gran parte dei quali sono scarti di distruzioni o di demolizioni, diventino parlanti e raccontino oltre a quella artistica una vicenda economica e sociale. Non è l’archeologia delle spettacolari scoperte (anche se viene la pelle d’oca davanti all’affresco ricostruito), ma della cura certosina per dare un senso a quel che il passato trasmette.

Si recuperano pezzi pregiati e si restaurano, una parte verrà musealizzata nell’edificio dell’Enpam, ma poi si restituisce alla città la conoscenza di come e perché si importassero certe ceramiche oppure si prediligessero produzioni locali, dei traffici commerciali con le province e poi con il nord Africa o con il sud della Francia. E si illustra che cosa volesse dire, per l’economia e la vita quotidiana, l’uso di certi materiali e di certe tecniche costruttive.

L’affresco che viene ricomposto, spiega Serlorenzi, è un modello pittorico al quale poi ci si ispirerà a Pompei. Ma di esso si studia anche il retro, per capire com’è fatta la malta, come viene preparata, se c’è o meno l’impronta di un’incannucciata. Quindi si indaga sui sistemi produttivi e sul loro retroterra. Ferrandes prende in mano il frammento di una ceramica: «Possediamo una base statistica eccezionale per le sue dimensioni che consente di illuminare la storia commerciale di Roma, di disegnare il raggio delle importazioni e di riempire alcuni vuoti, come quelli relativi alla fine del II secolo o all’inizio del IV, l’epoca di Massenzio e di Costantino». O anche, aggiunge Serlorenzi, di sfatare qualche vulgata che vorrebbe interrotta al IV secolo, con l’approssimarsi della caduta dell’Impero, l’effervescenza dei traffici commerciali, di cui invece questi frammenti attestano la sopravvivenza.

Nel deposito, poco più in là dell’ingresso, sono adagiate una serie di anfore. Servivano in parte per ospitare le radici degli arbusti che poi venivano interrate nel giardino evitando che crescessero oltre misura affinché le piantumazioni potessero comporre un disegno geometrico. Ma soprattutto servivano per trasportare vino anche pregiato e olio. Le anfore sono importanti per avanzare un’ipotesi di revisione della storia economica e sociale di Roma. «Non avevamo quasi attestazione di anfore prima dell’età augustea», dice Ferrandes. «Si riteneva che Roma si rifornisse dal suburbio utilizzando contenitori deperibili. Era considerato il segnale di una certa sobrietà di consumi e dunque di costumi. Ma ora, sotto piazza Vittorio Emanuele, ne abbiamo recuperate tante risalenti agli anni fra l’80 e il 60 a.C. Mostrano che anche allora si faceva uso di vini importati dall’Africa e dall’Oriente.

E che dunque al cives romano impermeabile alle seduzioni consumistiche si affiancavano anche personaggi appartenenti ai ceti aristocratici che a quelle seduzioni cedevano». Il lavoro nel magazzino prosegue. Le ipotesi di studio si accavallano. Ma il metodo resta ancorato all’idea che si debbano ricostruire non solo pezzi, anche storie. Sempre che il peso del precariato non si faccia troppo sentire.

Interessi economici e ostilità verso la prevenzione. E dabbenaggine. Articoli di Marco Bersani da il manifesto e Luca Mercalli da il Fatto Quotidiano, 25 luglio 2017 (p.d.)


il manifesto

IL FALLIMENTO
DELL'ACQUA PRIVATIZZATA
di Marco Bersani

Dentro l’Italia che brucia, dentro l’agricoltura sfiancata dalla siccità, nel disastro ambientale del lago di Bracciano e del possibile razionamento dell’acqua a Roma Capitale, spiace dover dire ancora una volta «i movimenti l’avevano detto». Ma, per quanto frustrante, è la pura verità. Le dichiarazioni dei politici ai telegiornali, le dissertazioni degli opinionisti nei talk show, le roboanti tabelle degli amministratori delegati delle società privatizzate di gestione dell’acqua si inseguono tra loro, compiendo una consapevole rimozione su un nodo di fondo: l’acqua, bene comune naturale, essenziale alla sopravvivenza delle persone, non può essere gestito, se non tenendo conto dell’interesse generale e della conservazione del bene per le generazioni future.

Siamo da tempo immersi nella drammaticità di cambiamenti climatici in corso, le cui conseguenze peseranno per decenni a venire, eppure periodicamente ci si stupisce del fatto che le stagioni non siano più quelle di una volta e il binomio siccità/alluvioni non sia più un evento straordinario, bensì una nuova normalità con cui dover fare i conti e che solo con adeguata prevenzione può essere affrontata. Con buona pace degli sviluppisti, l’acqua è una risorsa limitata e la natura ha tempi di rigenerazione che non possono essere accelerati: per questo, quando i nodi vengono al pettine, non è possibile affidarne la soluzione al libero conflitto degli interessi particolari e meno che mai agli interessi privatistici di chi dell’acqua ha fatto il nuovo business su cui riprendere l’accumulazione finanziaria. Il fatto è che il modello liberista ha modificato i concetti di spazio e tempo: allargando esponenzialmente il primo, fino a voler fare del pianeta un unico grande mercato, e riducendo esponenzialmente il secondo, fino a farlo coincidere con gli indici di Borsa del giorno successivo.

Occorre aver chiaro come su queste basi nessuna soluzione sia possibile. L’acqua non può essere gestita dal mercato e il mercato dev’essere escluso dall’acqua: questo hanno detto oltre 27 milioni di cittadini nel referendum del giugno 2011 e la mancata attuazione di quella decisione sovrana pesa come un macigno tanto sui drammatici accadimenti di questi giorni, quanto sulla crisi della democrazia, oggi segnata da una crescente disaffezione popolare. In venti anni di privatizzazioni della gestione dell’acqua, gli investimenti sono crollati a un terzo di quelli fatti dalle precedenti società municipalizzate, la qualità del lavoro e dei servizi offerti é nettamente peggiorata e le tariffe sono aumentate senza soluzione di continuità. In compenso, sono saliti esponenzialmente i dividendi degli azionisti, cui tutti gli utili vengono destinati, anziché essere reinvestiti nel miglioramento di infrastrutture a dir poco obsolete.

E’ possibile invertire la rotta? Certo che sì, a patto che tornino al centro l’interesse generale e il diritto al futuro per tutte e tutti. Un intervento pubblico sul dissesto idrogeologico dei nostri territori e un piano per il riammodernamento delle reti idriche costerebbero complessivamente 15 miliardi e produrrebbero 200.000 posti di lavoro pulito e socialmente utile. «Non ci sono i soldi», ripete il mantra liberista, ma intanto sono 17 i miliardi messi a disposizione per regalare Banca Popolare di Vicenza e Veneto Banca al colosso IntesaSampaolo, che produrrà 4000 esuberi. Da qualsiasi punto la si voglia affrontare, è un problema di volontà politica: possiamo continuare a tollerare che siano i vincoli finanziari dell’Unione Europea e la trappola del debito a determinare le scelte politiche collettive o vogliamo mettere finalmente il diritto alla vita, alla dignità e al futuro al primo posto?

Nello specifico: cosa aspetta il Parlamento a legiferare contro il consumo di suolo, per un grande piano di intervento sul dissesto idrogeologico e di intervento sulle infrastrutture idriche? Cosa aspetta per rendere operativa la volontà popolare espressa nei referendum per l’acqua del giugno 2011, sottraendo la gestione dell’acqua e dei beni comuni dalle leggi del mercato? E ancora: quanto tempo dovrà passare prima che la sindaca di Roma avvii in forma partecipativa la ripubblicizzazione del servizio idrico, togliendolo dagli interessi dei Caltagirone e di Suez? O che la Regione Lazio approvi i decreti attuativi di una legge d’iniziativa popolare approvata ormai tre anni or sono? Questi sono i fatti che possono determinare la necessaria inversione di rotta, il resto sono lacrime di coccodrillo o l’ennesima attestazione di complicità con gli interessi finanziari in gioco.


il Fatto Quotidiano
OGGI C’È LA SICCITÀ,
DOMANI LE ALLUVIONI
di Luca Mercalli

Siamo un Paese ostile alla prevenzione. Solo quando l’emergenza ci mette con le spalle al muro affrontiamo la realtà, spesso pure con solidarietà e fantasia, ma appena passato il dolore acuto torniamo in uno stato di indifferente apatia di indolente fatalismo fino alla crisi successiva. E che con l’acqua di crisi ci sia da attendersene continuamente lo si sa almeno dall’epoca degli antichi egizi: siccità e alluvioni costellano le cronache di ogni civiltà. Solo che per millenni si è preso ciò che il cielo dispensava, subendolo e attribuendolo a castigo divino, mentre da un paio di secoli la scienza ha compreso le dinamiche idrologiche e con l’aiuto di meteorologia, climatologia, geomorfologia e idraulica oggi dispone di una capacità previsionale utile a prepararsi al futuro. Ammesso che questo sapere venga utilizzato e non messo in un cassetto, limitandosi a predare i beni comuni con improvvisazione, pigrizia, sovrasfruttamento. Ed è così che in Italia vuoi quando si contano i morti nel fango delle inondazioni, vuoi quando si cercano affannose soluzioni alla penuria d’acqua, il copione è sempre lo stesso: un po’ di cronaca vera “ha avuto paura?”, “rinuncerà all’idromassaggio?”, “mai successo a memoria d’uomo!”, seguita da banali polemiche, ricerca del responsabile diretto da additare alla magistratura (nel tentativo di trovare cause semplici a problemi complessi), e qualche analisi più vasta del problema. Tre giorni, poi tutto finisce e si torna al solito chiacchiericcio politico di fondo che spesso poco ha a che fare con le questioni davvero strategiche per il nostro futuro.

E invece è proprio sulle analisi più ampie dei problemi che tocca soffermarsi, approfondire, pianificare, legiferare, agire. Quando parliamo di acqua, risolta l’emergenza dei soccorsi, tutto si basa su un’accurata preparazione in tempo di pace: formazione della cittadinanza, che ignora completamente tanto i manuali di protezione civile quanto le basi del ciclo dell’acqua, più importante delle oscillazioni del Pil, e lavoro capillare sulle infrastrutture idriche. Sappiamo bene che gli acquedotti d’Italia fanno acqua da tutti i tubi: 38 per cento sono le perdite medie nazionali secondo Istat, ma a Milano sono il 16 per cento, a Roma il 43, a Bari il 50, a Potenza il 64 per cento. E copiare da chi fa meglio, no eh? Ci sono società di servizi idrici come quella di Torino che da anni si preoccupano dei cambiamenti climatici e investono in infrastrutture idrauliche di accumulo,ben sapendo che dovranno servirsene nei prossimi anni, via via che la temperatura e le siccità aumenteranno. Sono tutte cose scritte anche nella Strategia di Adattamento ai Cambiamenti Climatici del Ministero dell’Ambiente, abbiamo i dati, abbiamo le competenze, abbiamo anche esempi di eccellenza già funzionanti, dobbiamo solo applicarli in un quadro coerente e univoco su tutto il territorio nazionale. Invece ciò non avviene, anche perché molti servizi tecnici nazionali di antica data, che avevano doveri e capacità per armonizzare la gestione dell’acqua sono stati sistematicamente smantellati, riaperti sotto altro nome, richiusi, frammentati, a colpi di leggi e decreti sempre più ravvicinati che hanno generato una giungla burocratica, una polverizzazione di responsabilità e spesso una valanga di deresponsabilizzazione, nonché un’oggettiva difficoltà a mettere insieme monitoraggio e previsione meteoidrologica, pianificazione degli usi a scala di bacino, protezione civile, urbanistica e uso del suolo. Un terreno però fertilissimo per l’appalto e il subappalto esterno, che non viene più seguito direttamente dal tecnico governativo con una visione a lungo termine, ma delegato a un esecutore che non ha certo a cuore il futuro dell’umanità, bensì la massimizzazione del suo profitto immediato.

Abbiamo bisogo di tornare alla concretezza delle azioni e al buon senso della pianificazione di lungo periodo, visto che gli scenari climatici impongono una rivisitazione dell’esistente: manutenzione delle reti idriche, adeguamento degli invasi, che sono in gran parte vecchi di un secolo, costruzione di nuove dighe laddove sia possibile, uscendo dalla logica della grande opera colonizzatrice imposta dall’esterno ma entrando nel campo della negoziazione condivisa con il territorio, semplificazione burocratica, diffusione dei contratti di fiume, alfabetizzazione dei cittadini sull’uso prudente e parsimonioso dell’acqua, almeno nei periodi di scarsità. Non sono originale, lo so. Tutte cose già dette e scritte in mille occasioni. Ma forse un po’ di sete in capitale potrà essere utile per occuparsi con lungimiranza di quel bene liquido che tutti diamo per scontato ma che quando manca fa precipitare la qualità della vita a livelli intollerabili. Ci risentiamo in autunno, sicuramente pioverà, la siccità sarà un ricordo e commenteremo l’alluvione!

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