Dunque, ci siamo. Ad occupare il centro della scena della ricostruzione post terremoto torna un ingombrante convitato di pietra. Ora oggetto di attenzioni investigative. Ma del resto capace, da qualche tempo, di agitare gli ambienti della maggioranza parlamentare e i tecnici più vicini a Guido Bertolaso. Parliamo del progetto "C.a.s.e.", acronimo di Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili. Dei 185 edifici (per un totale di circa 4.500 appartamenti) in cui oggi vivono 15 mila sfollati, costruiti tra il settembre 2009 e il febbraio scorso su piastre e isolatori sismici in diciannove aree della periferia aquilana. Il «fiore all´occhiello» della Protezione Civile. Un fiume di denaro su cui pure in questi mesi si era cominciato a fare domande. Ottenendone ora indignate repliche. Ora curiosi silenzi.
I dati forniti dalla Protezione civile documentano che, al 24 maggio scorso, la realizzazione dei 4 mila e 500 appartamenti del Progetto è costata complessivamente 803 milioni e 857 mila euro. Comprendendo in questa cifra, non solo le spese di fondazione ed edificazione, ma anche il costo degli allestimenti, degli arredi, delle opere di urbanizzazione e di sistemazione del verde. Mentre un calcolo standard dei costi di semplice costruzione – almeno a voler stare alle indicazioni fornite in questi mesi in Parlamento e alla Regione Abruzzo dall´Idv di Antonio Di Pietro - indica il prezzo a metro quadro degli appartamenti più o meno in 2 mila e 600 euro. Vale a dire, quattro volte quello delle casette in legno prefabbricate. Comunque più del doppio del costo medio di mercato che oscilla intorno ai mille e cento euro a metro quadro. A rendere importanti i costi, come sempre, una rigogliosa fioritura di subappalti (sono state 931 le imprese che hanno lavorato nei cantieri a fronte delle 121 che si sono aggiudicate le gare), i cui criteri restano nella piena discrezionalità delle imprese. E la singolare esosità di alcuni voci di spesa. Come i 14 milioni e mezzo per la sistemazione del verde, la posa di aiuole e alberi. O i 66 milioni di euro pagati per la fornitura, il trasporto e il montaggio degli arredi. Più o meno 15 mila euro ad appartamento (una fortuna, se si pensa che un arredamento completo da "Ikea" per una casa di circa 50 metri quadri può arrivare a 7-8 mila euro).
Gian Michele Calvi, direttore dell´Eucentre di Pavia, braccio operativo di Bertolaso a L´Aquila e, soprattutto, padre e direttore dei lavori del Progetto "C.a.s.e", non più tardi di qualche settimana fa ha chiesto 2 milioni di euro di risarcimento danni per diffamazione all´Idv (che la questione ha sollevato per prima), obiettando che i costi del Progetto sono «assolutamente in linea con i prezzi di mercato». Non 2 mila e 600 euro a metro quadro, dunque, ma 1.300, perché nel calcolo della superficie di riferimento andrebbero considerati non solo i 1.800 metri quadri mediamente sviluppati dagli appartamenti di ciascun edificio, ma gli ulteriori 500 metri quadri sviluppati dai parcheggi auto, dagli spazi comuni, dai ballatoi e dalle scale.
È un fatto, però, che ad assediare il giovane ingegnere di Pavia oggi ci sia anche dell´altro. E parliamo del mistero che avvolge i 7.300 isolatori sismici «a pendolo scorrevole» su cui sono poggiate le piastre degli edifici. Le "molle" che li dovrebbero rendere impermeabili a una futura catastrofe, assorbendo le oscillazioni della terra. Insomma, l´anima del Progetto. Quella che ne ha giustificato la realizzazione (una prima volta nel nostro Paese).
La fornitura degli isolatori è costata 13 milioni e mezzo di euro. E ad aggiudicarsi la gara sono state la società "Alga" di Milano (per i due terzi dei pezzi necessari) e la "Fip industriale" di Selvazzano Dentro (Padova). Ebbene, il materiale fornito dalle due società ha conosciuto storie diverse. Si scopre infatti – e ne chiede conto già nel gennaio scorso un´interrogazione parlamentare del senatore del gruppo misto Giuseppe Astore, che resterà senza alcuna risposta – che mentre un campione degli isolatori della "Fip" è stato sottoposto a simulazioni avanzate in laboratori qualificati quali quelli dell´Università della California di San Diego (gli addetti chiamano queste prove "eccitazioni bidirezionali"), con costi modesti (20 mila euro), tempi celeri ed esiti positivi, non altrettanto è avvenuto per quelli dell´ "Alga". Questi isolatori hanno infatti superato un unico test. Quello previsto dalla nostra normativa antisismica (è il test definito di "eccitazione monodirezionale"). E per giunta nei laboratori di quello stesso Eucentre diretto da Calvi che, oltre ad essere padre del progetto C.a.s.e è stato anche, nel 2003, tra i padri della nostra nuova legge antisismica.
Insomma, per qualche motivo – di cui né i tecnici della Protezione civile, né il governo hanno sin qui voluto dare spiegazioni - gli isolatori "Alga" vengono sottoposti a una sola simulazione "domestica". E per qualche motivo, soltanto nella scorsa primavera, quando ormai sono stati già tutti montati in cantiere, si "scopre" che quegli stessi isolatori hanno un problema. E che problema. Non possiedono, al contrario di quelli della "Fip", un meccanismo interno che li protegga dalla polvere, un agente atmosferico in grado di gripparne e annullarne il funzionamento. Ebbene, la Protezione civile, in marzo, corre ai ripari bandendo una nuova gara per «la progettazione e la realizzazione di elementi di protezione per basamenti, colonne e dispositivi di isolamento sismico». Ma perché il problema è stato ignorato per mesi?
Sembra incredibile. Sei mesi fa eravamo quasi soli, e comunque controcorrente, nel criticare la politica del dopoterremot di Berlusconi e Bertolaso, per ragioni di fondo, documentate nel lavoro L’Aquila. Non si uccide così anche una città? Adesso giorno per giorno si scopre che i piazzisti delle New Towns all’italiana non solo hanno scelto il peggio nell’impostazione generale e nelle scelte di fondo (quelle che distruggono la città e disgregano la società) ma che anche all’interno della loro stessa logica aziendalistica e mercantile hannop commesso errori non marginali. Questa volta il tempo è stato rapido a dar ragione alla ragione.
La battuta dell’architetto è intrigante. Con i capannoni del Nord Est sta succedendo qualcosa di analogo ai film di Totò, prima sono stati derisi e trent’anni dopo tutti li rivalutano. Anche in questo caso la rivisitazione è tardiva visto che ormai lungo la Pontebbana, la Valsugana e la Strada del Santo campeggiano le scritte «Vendesi» e «Affittasi». L’epicentro è nella provincia di Treviso con un 20% di capannoni inutilizzati ma dati analoghi interessano tutto il Veneto e il Friuli, con le sole eccezioni di Belluno e Rovigo. Una dimostrazione di come la storia (che sarebbe dovuta morire) sia arzilla e corra velocissima. Ci stiamo ancora interrogando sul riuso dell’archeologia industriale del Novecento, quella «nobile» alla Marzotto/Valdagno, con mattoni a vista, merletti e decorazioni di stampo storicista, e già siamo costretti a fare i conti con i resti materiali del post-fordismo, con le vestigia dell’industrializzazione diffusa.
Il prezzo (alto) allo sviluppo
I capannoni standard, a campata unica e volta a botte, quelli che gli americani chiamano shoe box, scatola di scarpe, sono quasi sempre di cemento grigio. Ottocento-mille metri quadri spesso attaccati all’abitazione dell’artigiano e a due passi dal bar Sport del paese. Negli anni del miracolo nord-estino ne sono nati dappertutto, quasi sempre lungo le strade come accadeva nel Far West e sono stati unanimemente giudicati il prezzo (alto) pagato allo sviluppo, la causa prima del degrado del paesaggio veneto. Nella Marca trevigiana su 95 comuni le zone industriali previste erano 313. In realtà le isole produttive con capannoni e carrozzerie arrivano almeno a quota mille, tutte sviluppatesi in maniera anarchica per colpa di sindaci, imprenditori, immobiliaristi e parroci che mentre i muratori tiravano su le pareti si giravano dall’altra parte. Il giudizio formulato dal grande geografo e paesaggista veronese Eugenio Turri in proposito era netto: «Architettura banale, spesso orribile e di forte visibilità, la cui tristezza si coglie soprattutto nei giorni festivi quando le aree industriali si svuotano».
Giuseppe Milan, direttore dell’Unione Industriali di Treviso, pensa però che sia utile riavvolgere il nastro: «Da noi il modello è stato quello della subfornitura. I Benetton, i De Longhi e gli Zanussi avevano segmentato il processo produttivo e ai piccoli imprenditori è stato chiesto di specializzarsi in una sola lavorazione. Questa divisione di compiti ha garantito per anni lo sviluppo, ha fatto la fortuna di tanti e quindi forse oggi non ha senso sputare nel piatto». Del resto ai tempi della crescita facile non c’era piano regolatore comunale che non prevedesse una zona industriale, una artigianale e una commerciale. Non partiva nemmeno la concorrenza tra i Comuni, tanto ce n’era per tutti, le aree nel giro di qualche anno raddoppiavano il loro prezzo e gli uffici urbanistica delle Unioni Industriali erano presi d’assalto dai Piccoli per le pratiche edilizie.
Usati come leva finanziaria
Gli stessi artigiani usavano poi il capannone come leva finanziaria per avere udienza e credito dalle banche. Ma il troppo stroppia e anche in casa leghista oggi ci si pone il problema del paesaggio da tutelare. I maligni sostengono che in questo modo il Carroccio vuole evitare che i capannoni diventino grandi abitazioni zeppe di immigrati, ma più probabilmente è maturata una nuova intransigenza verso il consumo indiscriminato del suolo.
Un vero censimento dei capannoni sfitti o in vendita nell’intero Nord-Est non c’è. È troppo presto. Alla mancanza di numeri certi viene in soccorso il colpo d’occhio. C’è chi per evocare un paragone tira in ballo gli scenari alla Philip K. Dick e il suo algido pessimismo post-moderno. Per operare, invece, un raffronto più prosaico e vicino a noi, il Nord-est dei capannoni vuoti è assai differente dalla cintura della ruggine attorno a Brescia, con le grandi cattedrali della siderurgia ormai svuotate che fanno mostra di sé a mo’ di dinosauri. L’industria veneta è più giovane, ha meno problemi di smaltimento dell’amianto perché, tutto sommato, chi cuciva vestiti non inquinava. Comunque quale che sia il paragone giusto, la prima ipotesi per i capannoni è rottamarli. «È quella che anche solo istintivamente piace di più» sostiene Ezio Micelli, architetto e assessore al Comune di Venezia. Qualche esperienza è stata fatta - racconta - e cita Montebelluna, la città del sindaco Laura Puppato che ha demolito alcuni impianti "che rappresentavano una ferita", ma anche San Donà di Piave ha operato in senso analogo. Buttarli giù non può essere però una ricetta da adottare e replicare all’infinito. Certo si potrebbe sostituire semplicemente verde a cemento, ma ciò presuppone un intervento finanziario di natura pubblica che di questi tempi è difficile anche sognare. Una strada più realistica porta a convincere e incentivare i proprietari privati di capannoni vuoti perché accettino uno scambio.
Esiste una legge regionale veneta che introduce il principio del credito edilizio, tu rottami da una parte a tue spese e hai diritto a una pari volumetria da costruire in un’altra. Dirlo è facile, realizzarlo un po’ meno. Intanto perché secondo un famoso studio dell’università di Padova (professor Tiziano Tempesta) in Veneto negli anni del mattone facile si è già costruito oltre ogni misura, ma anche non volendo prendere in considerazione i dettami dell ’urbanisticamente corretto, è difficile che in piena recessione un artigiano chiuda a Schio e avvii contemporaneamente un’altra attività a Belluno. L’idea dello scambio comunque è assai presente nel dibattito locale e la rivista Nordesteuropa, che organizza ogni anno in primavera il Festival Città-Impresa, sta studiando il tema per mettere a punto una nuova proposta. Anche l’idea cara all’ex governatore Giancarlo Galan di liberare il territorio costruendo grattacieli non sembra in realtà così attraente. Secondo Flavio Albanese, architetto e ex direttore di Domus, «per valutare i grattacieli bisogna capire cosa trovano sotto, che contesto e che accoglienza c’è, costruire in alto non può essere un mero espediente tecnico».
Revisionismo urbanistico
Se la rottamazione è una strada difficile, l’idea del riuso comincia a contare molti supporter della serie «i film di Totò non eran tremendi». È il revisionismo urbanistico che fa di necessità virtù. «Non ha senso rifiutare quello che abbiamo fatto per 40 anni - spiega Claudio Bertorelli, direttore del Festival Comoda/mente di Vittorio Veneto -. Lavorare sui capannoni non è un incubo ma una fantastica occasione. E poi il capannone è uno strumento molto flessibile». Aggiunge Flavio Albanese: «Brutti? È l’architettura dei condomini anni ’70 è forse bella? Vi sembrerà strano ma i capannoni sono assai pertinenti al modo di vivere di oggi. Guardate gli annunci di ricerca di case». Fino a 6-7 anni fa si cercava un appartamento da 140 metri quadri con un grande soggiorno, oggi invece tutti scrivono nelle primissime righe «ampio, spazioso e luminoso». L’idea che circola tra gli addetti ai lavori è di replicare in Veneto quanto fatto a Milano in Porta Genova o a Lambrate, un intelligente lavoro di riconversione urbanistica che deve far nascere occasioni di lavoro e loft da abitare, perché, «non è tempo di soldi pubblici, non siamo negli anni ’70, i capannoni vanno rimessi in commercio». Bertorelli giura che di esperimenti di questo tipo ormai ce ne sono in giro per il Nord-Est alcune decine. I casi più conosciuti sono quelli di Mario Brunello, che insediato il suo laboratorio musicale Antiruggine in un capannone nel centro di Castelfranco e di Cristiano Seganfreddo per l’arte contemporanea in piena Vicenza. Tutti laboratori di terziario, tutti esperimenti di un’economia nella quale si dà per scontato che viaggino campioni e idee al posto delle merci. Tutti test di maturità per la classe creativa veneta che adora il sociologo americano Richard Florida.
Tra manifatturiero e terziario
Ma quale sarà veramente l’economia del dopo-crisi? Ci sarà davvero una staffetta più o meno virtuosa tra manifatturiero «povero» e terziario creativo? Gli industriali di Treviso per risolvere il rebus dei capannoni partono da queste domande. Il direttore Milan sostiene che dalle informazioni raccolte è vero che i capannoni inutilizzati sono più frequenti nelle aree industriali più piccole e meno attrezzate ma la sorpresa è che in parallelo vi sono numerose imprese che hanno comunque esigenza di spazi più grandi rispetto al passato. Servono a creare un’organizzazione più efficiente del loro ciclo industriale e logistico. I nomi sono importanti come gli investimenti che hanno messo in cantiere: infatti Geox, Benetton, Breton, Texa e Polyglass negli ultimi mesi hanno, in controtendenza, accresciuto le loro superfici. Ma accanto alla logistica che ha bisogno di grandi spazi si intravede un ruolo anche per le matite. L'idea che circola tra i confindustriali è quella di assecondare una sorta di via trevigiana al design. Si è partiti ristrutturando una vecchissima fornace ad Asolo e lanciando Treviso Design ma l’idea è che un giorno o l’altro verranno buoni anche quei famigerati capannoni. A meno che nel frattempo non si siano trasformati tutti in discoteche.
Nota: quasi contemporaneamente a questo articolo, un quotidiano americano ne pubblicava un altro su temi identici, anche se in prospetiva diversa, sul noto caso di deindustrializzazione dell'area di Detroit, che propongo su Mall (f.b.)
IL PARADOSSO DELLA TERZA PISTA
La Giunta regionale ed altri Enti stanno imprimendo un grande movimento ai programmi per la terza pista ed il colpo di scena è l’annuncio del Consiglio regionale a Malpensa: sarà veramente convocato? A volte, come è noto, basta dirlo… vedremo.
Ma siccome l’obiettivo è la terza pista (Bonomi: “non c’è un momento da perdere”) evidenziamo quello che, della terza pista, è il paradosso.
• Quando il traffico di un aeroporto è in aumento può rendersi necessario aggiungere una pista, quando il traffico cala bruscamente (ed è il caso di Malpensa), normalmente non ci pensa nessuno.
• Alcuni dati: Malpensa gestisce, oggi, con 2 piste, 17 milioni di passeggeri/anno ed è noto che, purtroppo, può arrivare con questa configurazione a ca. 30 milioni di passeggeri ma, francamente, dove li potrà trovare 30 milioni di passeggeri, anche fra 5, 10 anni o più? Il “traffico che aumenta” (ancora Bonomi) è il futuro dietro l’angolo (Expo???), è un sogno o è solo propaganda?
• Quindi per l’operatività di Malpensa la terza pista non serve: ma allora a cosa serve?
IL PARADOSSO DELLA REGIONE LOMBARDIA
• La Regione Lombardia, con D.G.R. N°8/5290 del 03/08/2007, ha classificato i Comuni del C.U.V. in zona di risanamento in cui devono essere ridotte le fonti emissive.
• L'elevato rapporto di emissioni prodotte da Malpensa (dati rilevati e pubblicati da ARPA Lombardia) rispetto alle altre attività presenti sul territorio, indica come unica compensazione possibile la riduzione delle attività aeroportuali.
• Quindi il supporto che Regione Lombardia dà ai piani di crescita dell’aeroporto di Malpensa è sorprendentemente in contrasto con:
- il sopracitato D.G.R. N° 8/5290 del 03/08/2007,
- il collocamento dei Comuni attorno all'aeroporto di Malpensa in “zona di risanamento”, e costituisce una PARADOSSALE AMBIGUITA’.
Alla qualità e quantità delle emissioni inquinanti di Malpensa (dati di ARPA Lombardia, causa Quintavalle e relativa sentenza), si correla un rischio reale per la salute umana, rischio ben noto in Medicina che capiremo quando (troppo tardi) avremo i dati dagli ospedali della zona.
CONCLUSIONE
• Ci auguriamo che la squallida offerta di 1 € per passeggero e l’abbaglio di 300.000 posti di lavoro non stimolino l’appetito di Sindaci e Sindacati, visto che stiamo ancora aspettando i 100.000 posti a cui qualcuno aveva creduto 20 anni fa.
• Il vero valore aggiunto per il Territorio non è Malpensa e la cementificazione dei suoli ma è il parco del Ticino, “Riserva della Biosfera dell’UNESCO e Patrimonio dell’Umanità”
Gallarate, 10 giugno 2010
UNI.CO.MAL. Lombardia
Beppe Balzarini
Si allarga il movimento per una nuova tassazione sulle transazioni finanziarie, sostenuta a parole (ma non nei fatti) anche da alcuni governi europei. Una guida in libreria e in rete
Il mondo ha salvato la finanza cocainomane, ora c’è il rischio concreto che la finanza possa uccidere chi l’ha mantenuta in vita. Non tanto i governi, che hanno deciso nel momento dello tsunami di mettere a disposizione del sistema finanziario oltre 13.000 miliardi di dollari (dati del Fondo monetario internazionale), quanto i cittadini dei paesi che hanno visto aggravarsi pesantemente i deficit pubblici, non a causa di un incremento della spesa pubblica per investimenti o welfare, ma per pubblicizzare banche o per costituire società ad hoc dove inserire titoli e immobili tossici.
Una tassa sulle transazioni finanziarie è quindi un’urgenza, una necessità, uno dei primi obiettivi della società civile, che, in tutto il mondo da ormai due decenni, si batte per mettere un argine alla deriva distruttrice, e in alcuni casi criminale, del sistema finanziario globalizzato. Analisi e numeri in materia non mancano, a sostegno di un prelievo fiscale di ridottissime dimensioni (tra lo 0,01 e lo 0,05%), che vada a ridurre la propensione altamente speculativa di alcuni operatori e, nello stesso tempo, a costituire un fondo per la democrazia, la giustizia e la coesione sociale. Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali ogni giorno si effettuano transazioni finanziarie per un controvalore di 7.200 miliardi di dollari tra scambi sulle valute, derivati e opzioni di svariata natura e rischiosità in larga parte su mercati non regolamentati (gli stessi che hanno originato il panico post fallimento Lehman).
Intervenire con una tassa globale è una battaglia di democrazia e trasparenza, la stessa evocata da alcune istituzioni internazionali e da una parte dell’ideologia iper-liberista quando si tratta di mettere le mani sui beni comuni o di contrastare minimi interventi di regolazione. Attraverso un piccolo, quasi insignificante, prelievo fiscale è possibile portare alla luce del sole i protagonisti dell’assalto alle materie prime (che ha lasciato una pesantissima eredità soprattutto sui paesi del sud del mondo dove sono triplicati i prezzi per acquistare il cibo per la sopravvivenza giornaliera), ma anche quelli che, negli ultimi dodici mesi, hanno deciso di sfruttare le difficoltà di alcuni Paesi dell’area euro per attaccare la moneta unica. Mentre la Grecia si dibatteva per ottenere un aiuto da Bruxelles e Fmi, una parte dei suoi cittadini metteva al riparo i capitali rastrellati negli ultimi due decenni per acquistare immobili di prestigio a Londra oppure acquistava Cds (credit default swap, sulla carta assicurazioni contro il fallimento dello stato debitore), senza neppure possedere bond emessi da Atene.
La Tassa sulle transazioni finanziarie non è una panacea, ma rappresenta il primo mattone di nuove fondamenta che possano permettere di invertire una rotta che rischia, altrimenti, di avere effetti realmente drammatici sulle democrazie di tutti i paesi europei e nord americani. Gli introiti della Tassa globale (come viene illustrato in questo opuscolo da Andrea Baranes) possono essere utilizzati per risanare i conti pubblici, ridefinire le politiche per un welfare di cittadinanza, decidere strategie economiche basate sulla sostenibilità sociale e ambientale, perseguire gli obiettivi del Millennium Goal delle Nazioni Unite per sradicare la povertà assoluta. E, con l’istituzione di questo strumento, si può dare un contributo fondamentale al tentativo dei regolatori di mettere le briglia ai mercati fuori controllo.
La stragrande maggioranza dei cittadini è all’oscuro del fatto che gli operatori finanziari si sono costruiti un territorio extralegale, chiamato Otc (Over The Counter), dove, in virtù della deregulation e dell’applicazione del principio ideologico del mercato che si autoregola, possono esporsi a rischi incalcolabili e destabilizzanti. Un terzo del gigantesco Tarp, il fondo per la crisi creato dal Congresso degli Stati Uniti su indicazione del Governo, è finito a una società di assicurazione privata, Aig, che ha utilizzato il danaro pubblico per ripagare alcuni grandi operatori finanziari, Goldman Sachs in testa, che si erano assicurati contro il fallimento della Lehman Brothers.
Ancora oggi, a distanza di quasi due anni da quella vicenda che ha contrassegnato drammaticamente per tutto il mondo l’esistenza di una crisi in atto già da più di un anno, il mercato Otc è fuori controllo e le autorità monetarie non sono in grado di dimensionare la reale esposizione al rischio, che, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali, a fine 2009 ammontava a 614.000 miliardi di dollari! La Ttf serve anche a evitare che il mondo possa essere travolto dalla leva finanziaria di una finanza fuori controllo
È apparsa sul Sole 24 Ore di qualche giorno fa (28 maggio), la notizia che l’Alta velocità tra Milano e Venezia si fermerà a Treviglio (Bergamo) perché non ci sono soldi per proseguire. Questo, si dice, comporterebbe drammatici danni per l’Expo milanese del 2015, perché quella folla di turisti che l’evento attirerà non potrà precipitarsi a Venezia o a Padova con velocità adeguate. Già l’accostamento appare ardito: un’opera da miliardi di Euro, destinata a durare nei secoli, dovrebbe essere costruita in relazione ad un evento che dura sei mesi? È una linea in progetto da almeno un decennio, proposta insieme alla Torino-Milano-Napoli, realizzata, per completare la “grande T” del progetto Alta velocità italiano.
Si tratta però di una linea con caratteristiche e prospettive radicalmente diverse dalla Milano-Napoli. La domanda di traffico qui è caratterizzata da distanze medie molto minori, attorno ai cento km contro distanze ben maggiori della Milano-Napoli. Serve una catena di città, nessuna delle quali “capitale”. Su queste distanze, i benefici della velocità sono ovviamente molto minori: alcune decine di minuti per relazione, spesso meno, ed è necessario che anche i treni più veloci facciano un certo numero di fermate per essere ragionevolmente pieni Non vi è possibilità di togliere traffico all’aereo, come sulla Milano-Napoli. Inutile ricordare poi che per le merci la linea non serve, in primo luogo perché le merci ferroviarie non hanno fretta e le linee Av costano molto di più per gli operatori ferroviari. Tutto fa pensare che tali treni rimarranno sulla vecchia linea, esattamente come oggi accade sulla Milano-Napoli.
I ritorni finanziari saranno comunque tali da pagare praticamente solo i costi di esercizio, cioè l’80-90 per cento dei costi di investimento saranno a carico dei contribuenti. Anche grazie ai costi esorbitanti che si hanno in Italia per opere di questo tipo. Infine, il fatto che non si trovino i soldi la dice lunga sui dubbi che debbono serpeggiare anche nel governo sulla priorità di questo investimento. D’altronde il precedente della Milano-Torino (con caratteristiche funzionali analoghe alle altre tratte tra Milano e Venezia) parla chiaro: traffico esiguo (16 treni su una capacità di 300) e costi al di là di ogni ragionevolezza (7,8 miliardi).
Ma è stata fatta una valutazione adeguata del progetto, del tipo costi-benefici sociali (della redditività finanziaria inesistente abbiamo già detto)? Certo che sì, ma sponsorizzata proprio dai promotori privati del progetto (“Traspadana”), ed eseguita dal prof. Gilardoni dell’Università Bocconi (cfr. La Voce.info del 10/12/2008 per un commento completo). I risultati apparivano davvero molto positivi: diversi miliardi di benefici netti, denominati “I costi del non fare” per sottolineare le perdite che si soffrirebbero nel non realizzare l’opera. Peccato che lo studio, per un banale e certamente involontario errore di calcolo, abbia moltiplicato per 16 alcuni dei benefici. Correggendo questo errore, i risultati divengono fortemente negativi, cioè rappresentano una perdita netta di benessere per la collettività e ciò, si badi, includendovi anche l’ambiente.
Tornando ora all’Expo milanese, l’argomentazione appare grottesca. Se si avranno a motivo della mancata realizzazione dell’Av tempi un po’ più lunghi su una sola delle molte mete in uscita da Milano, e solo per la modalità ferroviaria tra le molte possibili, come si può supporre di avere conseguenze di qualche rilievo sull’evento? Qualcuno crede che un turista americano non andrà a visitare Verona solo perché il treno ci mette 20 minuti in più? O che un padovano interessato all’evento rinunci ad una visita a Milano?
Molto illuminante in proposito è stata l’esperienza dell’Expo di Saragozza di pochi anni fa: quell’evento è stato un clamoroso flop, ma il sindaco ha dichiarato che non se ne lamentava, perché aveva accentuato la pressione per avere dallo stato centrale i soldi per una nuova linea di alta velocità (che evidentemente non è servita a molto per il successo dell’evento stesso). Per concludere sembra necessaria una riflessione sul motivo per cui l’industria italiana, attraverso uno dei suoi maggiori organi di stampa, “Il Sole 24 Ore”, difende con tale convinzione qualsiasi grande opera, senza mai metterne in dubbio la necessità o l’urgenza o neppure l’esigenza di rigorose analisi “terze” per stabilire gerarchie e priorità per la spesa di miliardi di Euro. Il motivo sembra abbastanza semplice e non di per se illegittimo: le grandi opere civili non sono soggette a reale competizione internazionale neppure se messe in gara (ciò accade ovunque, non solo in Italia, per motivi tecnici sui quali qui non è possibile dilungarsi). Quindi la spesa pubblica in questo settore rappresenta uno dei pochi canali rimasti agli stati per finanziare le industrie nazionali. Si pensi all’enorme flusso di denari pubblici rappresentato in questi anni dai costi (meglio, dagli extracosti) delle linee di alta velocità già costruite.
L’azione di lobby conseguente, e molto insistente, appare dunque del tutto spiegabile. C’è solo da sperare che l’azione di promozione prima e la gratitudine poi (sentimento in sé nobile), si mantengano nei limiti della legalità.
Il Fatto Quotidiano
Il pdl si distrae e le demolizioni si bloccano (sic)
di Marco Palombi
Il decreto che fa un favore agli abusivisti campani è decaduto. Forse. A meno che la capigruppo convocata per stamattina da Gianfranco Fini, che però non ha giurisdizione sul merito, o magari l’ufficio di presidenza della Camera decida di annullare la contestata votazione con cui ieri sera l’aula di Montecitorio ha affossato il cosiddetto “dl demolizioni”, quello che bloccava fino al 30 giugno 2011 la demolizione di edifici abusivi nella regione Campania (tranne per quelli costruiti in zone vincolate). Il centro-destra, infatti, incolpa della sua debacle Rosi Bindi, in quel momento presidente di turno, rea di aver chiuso troppo in fretta la votazione impedendo ad alcuni deputati di maggioranza che bivaccavano in Transatlantico o nel cortile interno di raggiungere in tempo il loro scranno. Uno psicodramma in piena regola, con tanto di richiesta di dimissioni da vicepresidente per l’onorevole democratica e “fascista”, secondo la definizione di Nunzia Di Girolamo (PdL) fuori dall’aula, seguita a stretto giro da un più prosaico “tacci sua” di Alessandra Mussolini, per la cronaca entrambe campane. Questi i fatti. Alle 18.50 si vota la cosiddetta pregiudiziale di costituzionalità presentata dall’Italia dei Valori. In 51 secondi votano 480 deputati (64 assenti del PdL e 15 della Lega) col risultato di 249 sì e 231 no. Tradotto: per la Camera quel decreto è incostituzionale.
A quel punto scoppia il casino. Alcuni deputati del PdL stavano rientrando in aula e accusano la Bindi di aver deciso deliberatamente di non farli votare. Il capogruppo Fabrizio Cicchitto accusa la vicepresidente di “prevaricare il Parlamento”, l’ex finiano Amedeo Laboccetta di “offenderlo”, il leghista Luciano Dussin, paonazzo, invoca prima la moviola per controllare quanti deputati stessero entrando in aula e poi chiede le dimissioni di Bindi: “Ne guadagnerà la Camera”.
La maggioranza pretende subito l’annullamento della votazione o, almeno, la convocazione immediata di una riunione dei capigruppo: quest’ultima le viene concessa ma, non essendo presente Gianfranco Fini, viene rinviata a stamattina.
“Dimissioni? Ma non scherziamo. E poi Dussin farebbe meglio a pensare al suo doppio incarico (è anche sindaco di Castelfranco Veneto, ndr)”, sbotta Bindi parlando col Fatto: “Ho tenuto la votazione aperta quasi un minuto, un tempo normale, il cicalino che avvisa i deputati che si sta per votare suonava da 10 minuti, ho sempre consentito a chiunque fosse seduto di votare quando c’era qualche difficoltà, che dovevo fare di più?”. La vicepresidente della Camera non sente di avere nulla di cui pentirsi: “Respingo qualunque ricostruzione malevola di quanto accaduto, sono sempre stata imparziale nel mio ruolo. E’ chiaro che esiste una discrezionalità di chi presiede l’aula per la chiusura delle votazioni, ma ricordo che il vicepresidente Lupi venne messo sotto accusa perché l’aveva tenuta aperta troppo a lungo. Che vogliamo fare?
Esiste il diritto, anzi il dovere, di votare, non quello di prendersi tempi di pausa più lunghi del necessario”. Quanto al merito, sostiene il democratico Realacci, “grazie ad una debacle e alle assenze tra i banchi della maggioranza, il Parlamento ha almeno fermato uno scempio ai danni del paese e degli italiani onesti”. Secondo i tecnici infatti, anche se manca ancora l’ufficialità, non c’è possibilità di ripetere la votazione: “Non esiste il diritto ad andarsi a fumare una sigaretta invece di stare in aula”, sintetizza pittorescamente uno. Il decreto demolizioni, insomma, è defunto. Riposi in pace.
il manifesto
Campania agli abusivi ma il governo va sotto
di Andrea Fabozzi
Seduta lunga, maggioranza stanca. E alle sette di sera il governo va sotto sul decreto che blocca gli abbattimenti delle case abusive in Campania. Con 249 sì e 231 no viene approvata la questione pregiudiziale presentata dall'Italia dei valori. Di conseguenza non si passa alla votazione della legge di conversione e il decreto decade. E non sarà riproponibile, il governo dovrà pasticciare qualche soluzione incollando la norma altrove. Ma intanto la maggioranza parte all'assalto della vice presidente di turno dell'assemblea, Rosy Bindi, accusata di aver chiuso troppo presto la votazione.
Il decreto è quello promesso in campagna elettorale per le regionali da Stefano Caldoro. Promessa mantenuta: nonostante gli allarmi e le ripetute frane che affliggono la Campania, il 23 aprile scorso il governo ha approvato un provvedimento di urgenza per sospendere fino al giugno 2011 gli abbattimenti delle costruzioni abusive. All'inizio doveva essere fino alla fine di quest'anno e solo a Napoli, ma poi si sono allargate le maglie in modo da offrire agli abusivi campani (la regione è maglia nera in Italia) una proroga dell'ultimo condono berlusconiano. Il precedente governatore Bassolino ne aveva escluso l'applicazione alla regione, ma la Consulta gli aveva dato torto. Con il decreto di aprile, passato senza problemi al senato il 26 maggio, il governo pagava il suo debito con gli elettori campani. Ma il voto di ieri sera cambia tutto.
Giusto ieri mattina, discutendo della legge sulle intercettazioni, Berlusconi aveva preteso un'accordo con tutte le componenti della maggioranza per garantire al provvedimento un percorso sicuro alla camera (lì dove sono numerosi i deputati vicini a Gianfranco Fini). «Blindato». Ma a Montecitorio le cose non vanno bene: poco più di un mese fa l'ultimo rovescio sulla legge sull'arbitrato. Con conseguente ira di Berlusconi, minacce ai deputati assenti e promessa di una maggiore attenzione. Ieri sera erano 64 i deputati del Pdl assenti e 15 quelli della Lega (molto meno appassionata al condono in Campania dei colleghi di maggioranza). Un paio di deputati del Pdl hanno fatto presente di aver votato ma di non essere stati registrati dal dispositivo elettronico. Tutti gli altri, capogruppo Cicchitto in testa, hanno scatenato una gazzarra verso la presidente di turno. Colpevole di non aver rispettato, a loro dire, la prassi di attendere che tutti i deputati presenti in aula avessero raggiunto i loro posti nei banchi. «Ho tenuto aperta la votazione 51 secondi», la replica di Rosy Bindi, tabulato elettronico alla mano.
Ma la consapevolezza di aver combinato un brutto guaio al governo e la certezza che il presidente del Consiglio la prenderà molto male hanno gonfiato la rabbia del Pdl. Sono stati numerosi gli interventi dei deputati fragorosamente polemici con Bindi, dal furioso capogruppo Cicchitto al più sorvegliato Lupi, dal rauco Laboccetta all'intimidatorio Consolo e tutti si sono conclusi con la richiesta di ripetere il voto. Impossibile secondo il Pd che ha difeso il comportamento della vice presidente Bindi. Che ha provato a portare avanti la seduta ma poi ha dovuto sospendere per interpellare il presidente titolare. Gianfranco Fini ha deciso per un gesto di attenzione alle richieste del Pdl: accolta la richiesta di convocare - stamattina alle 8.30 - la conferenza dei capigruppo. Che difficilmente però potrà concedere la ripetizione del voto, a meno che la presidente ammetta un errore, ipotesi improbabile.
Il ministro leghista Calderoli non sembrava stracciarsi le vesti ieri sera mentre spiegava che «caduto il decreto cadranno un bel po' di case» in Campania. Anche se ricordava che la sanatoria escludeva i casi di pericolo per la pubblica incolumità e le costruzioni nelle aree vincolate. Ma una promessa è una promessa, come ha subito fatto notare il capogruppo Pdl in regione Martusciello evocando «l'incubo delle ruspe». E se il decreto non potrà essere reiterato - come ha ammesso lo stesso Calderoli - toccherà imbrogliare un po' le carte per recuperare il condono in qualche altra legge. Il governo conosce il sistema.
Che cosa fare per salvare la campagna romana dalle colate di cemento, dall’assedio delle periferie (che l’etichetta ipocrita di «centralità» non salva dallo squallore e dal degrado)?
Il Sindaco Alemanno ha una sua ricetta: per «fermare la crescita a macchia d’olio» occorre «rompere i tabù», abolire l’antico vincolo per cui nulla nel territorio comunale può superare l’altezza della cupola di San Pietro.
«Densificare la periferia», costruendo grattacieli «come l’Eurosky dell´Eur, che sarà l’edificio residenziale più alto d’Italia». Anzi, «demolire le periferie e ricostruirle», «densificando»: una Roma di grattacieli «accanto al centro storico più importante al mondo».
Diagnosi giusta, ricetta sbagliata. L’orrido urban sprawl che assedia non solo Roma, ma tutte le nostre città, va contrastato mediante nuove politiche dell’abitare, con una gestione del paesaggio conforme alla tradizione (e alla Costituzione), abbattendo e riqualificando. Rivoluzione che non si compie in una notte, ma presupporrebbe il diffondersi di una cultura urbanistica e architettonica meno sgangherata di quella che sta divorando un Bel Paese sempre meno meritevole di tal nome.
Richiederebbe il rispetto delle regole, a cominciare da un Codice dei Beni Culturali che è quanto di più bipartisan si possa immaginare (portando le firme dei ministri Urbani, Buttiglione, Rutelli), ma che tutti s’industriano a dilazionare, modificare, aggirare con deroghe, o francamente a ignorare.
Esigerebbe legioni di architetti meglio attrezzati, di assessori meno proni al volere d’ogni palazzinaro, di cittadini capaci d’indignarsi. Nell’orizzonte italiano (e non solo di Roma) io non vedo l’alba di questa nuova consapevolezza, né il tentativo di crearla, agendo (per esempio) nelle scuole, facendo di questi temi uno dei centri della discussione politica, coinvolgendo nella discussione i cittadini, le associazioni per la tutela e per l’ambiente.
Vi fu un tempo, specialmente in Italia, in cui la costruzione della città implicava, per scelta civile ma anche per tensione etica e politica, un atto consapevole di auto-limitazione. Il principio era uno e uno solo: il bene comune, con l’intesa (che non ebbe mai bisogno di argomenti, perché non aveva avversari che osassero fiatare) che esso doveva coincidere con la bellezza e l’ornamento della città. Il Costituto di Siena del 1309 dice espressamente che «intra li studii et solicitudini è quali procurare si debiano per coloro, che hanno ad intendere al governamento de la città, è quello massimamente che s’intenda a la bellezza della città», perchè la città --continua—dev’essere «onorevolmente dotata et guernita», tanto «per cagione di diletto et allegrezza» ai forestieri quanto «per onore, prosperità et accrescimento de la città et de’ cittadini di Siena».
Gli Statuti comunali (ma anche quelli delle città regie, per esempio di Sicilia) prescrissero per secoli gli stessi principi in tutta quella che oggi si chiama Italia, e con buona pace della Lega si chiamava così anche allora: bellezza, decoro, ornamento, dignità, onore pubblico sono le parole martellate dalle Alpi alla Sicilia, alla Sardegna. Per secoli.
Al privato che rivendicava i propri diritti di proprietà, sempre si rispose che ogni interesse del singolo dev’esser sovrastato dal pubblico bene, e si ricorse alla nozione giuridica di publica utilitas fondandola sopra la tradizione del diritto romano. A Roma Gregorio XIII, nella costituzione apostolica Quae publice utilia et decora (1574), proclamò sin dalle prime righe l’assoluta priorità del bene e del decoro pubblico sulle cupiditates e sui commoda [interessi, profitti] dei privati, e sottopose a rigoroso controllo l’attività edilizia di tutti i privati (anche gli ecclesiastici, anche i cardinali).
Non vi fu, allora, un Berlusconi che al grido di «padroni in casa propria!» accusasse quel Pontefice di cripto-comunismo. Ma l’urban sprawl che ci affligge, e che giustamente Alemanno denuncia e vuole arrestare, è figlio del tramonto del pubblico bene, e del trionfo degli interessi del singolo.
Le periferie-centralità che si sono insediate fra gli acquedotti dell’antica Roma, fra le tombe e le ville dei Cesari, da questo nacquero: dietro ogni orrore c’è un cedimento (per non dir complicità) delle amministrazioni capitoline, una genuflessione davanti ai vantati diritti del privato, un’offesa a due millenni di priorità del bene pubblico sulla cupiditas privata.
Di quelle scelte Alemanno non ha colpa: ma i suoi grattacieli, che pretendono di essere l’opposto dell’urban sprawl, sono più probabilmente il rilancio e la legittimazione di una crescita periurbana tanto più disordinata quanto più «densificata».
In molte città d’Italia si scelse per secoli il monumento-simbolo che servisse da esaltazione dello skyline: a Siena fu la Torre del Mangia, a Modena la Ghirlandina, a Roma la cupola di San Pietro. Misure convenzionali, certo, ma altamente simboliche di un’etica del self-restraint, di un’idea della città unitaria, compatta, dotata di memoria, di un’anima. Capace di pensare se stessa. Quello che Alemanno chiama «tabù» fu in verità proprio il contrario: una scelta meditata, misurata, consapevole, ricca non solo di storia o di memoria, ma di quella che potrebbe chiamarsi la modellazione del futuro. L’idea era semplice: conservare lo spirito della forma urbis imperniandola su moduli-base di crescita. Costringere l’architetto (anche il più grande) entro regole di rispetto della memoria storica, così come il poeta (anche il più grande) deve comporre i suoi versi secondo misure prestabilite. Creare per i nostri figli un’armonia che somigli a quella che abbiamo ricevuto dai nostri padri.
Vedremo a che cosa somiglieranno i grattacieli proposti da Alemanno, e in che cosa sapranno distinguersi dalle architetture in genere scellerate che infestano quello che fu l’agro romano. Vedremo se essi tracceranno una nuova forma urbana, o saranno una corona di spine che assedia, o crocifigge, il centro storico «più importante al mondo». Vedremo se sapranno rimediare a quella indeterminata e incessante espansione delle periferie ai danni dell’ambiente naturale e storico, sempre più marcatamente dissolto nella confusione di una disordinata megalopoli; o se, al contrario, ne aggraveranno i problemi proprio col «densificarla». Lo vedranno, prima di tutto, i romani, se –come Alemanno promette - saranno chiamati a una consultazione popolare. Ma con quali informazioni? Con quale cultura urbanistica e architettonica? Con quale senso del bene comune?
Grattacieli in periferia, che superino in altezza persino la cupola di San Pietro e siano perciò in grado di riqualificare e ridisegnare porzioni di città lontane dal centro storico, troppo spesso trascurate. Parla della Roma del futuro il sindaco Gianni Alemanno, a Milano in occasione dell´apertura dell´Eire, l´Expo Italia Real Estate: «La città storica - sottolinea - deve mantenere l´antico vincolo di non superare il Cupolone, ma nella periferia dobbiamo poter costruire in altezza, perché è necessario trasformare le periferie, demolirle e ricostruirle». A volerne fare una questione teorica, si può dire che si mira a infrangere il tabù per realizzare il totem, abbandonare la morbida orizzontalità del paesaggio (i sette colli) per cedere alla più topica delle sfide umane, dalla torre di Babele allo skyline di Hong Kong, il migliore del mondo. È la tendenza, insomma, a toccare il cielo con un dito, ora anche nella città del papa.
E date le polemiche intorno agli interventi di architettura dell´ultimo decennio, dall´Ara Pacis di Richard Meier all´Auditorium di Renzo Piano al più recente Maxxi di Zaha Hadid, Alemanno (ri)annuncia di voler consultare i romani con un referendum che ponga un quesito come "volete voi palazzi più alti della cupola di San Pietro?". Intanto la Città Eterna il "tabù" sta provando ad infrangerlo da un po´, e qualcosa sta nascendo. «La tua casa, nel punto più alto da cui guardare il mondo» è lo slogan con cui si presenta Eurosky, progettato dall´architetto Franco Purini «ispirata alle torri medievali che troneggiano al centro della città», in lavorazione. Mentre l´architetto spagnolo Santiago Calatrava ha di recente (in occasione di un summit di urbanistica organizzato dal Campidoglio in aprile) fatto il suo ultimo sopralluogo alla Città dello Sport che sta sorgendo a Tor Vergata: non è una torre degna di Chicago, lo skyline più griffato del pianeta, ma i suoi 90 metri li raggiunge. Cresce in altezza, e fino a 80 metri, anche la cosiddetta Lama di Fuksas, l´albergo annesso al centro congressi, noto come Nuvola anch´esso in costruzione nella zona dell´Eur piacentiniano e mussoliniano.
La crescita verticale della città trova in netto disaccordo l´urbanista che forse, fra tanti, ha più ragionato e scritto su Roma e sul suo sviluppo architettonico, Italo Insolera. Che ragiona così: «In tutto il mondo i grattacieli sono nati per accogliere servizi. A Roma dovrebbero servire come abitazioni. Mi sembra una scelta infelice. Difendo al contrario un modello di palazzine più contenute, come è la Garbatella. Al tempo stesso credo che luoghi come Corviale, il palazzone di periferia costruito negli anni Settanta e ribattezzato "il chilometro", andrebbero conservati, e fatti funzionare meglio dal punto di vista sociale. Perché bisogna ragionare sempre sui contesti: alle città non servono le "archistar" che arrivano e piantano astronavi firmate in mezzo al nulla». Francesco Garofalo, curatore del padiglione italiano alla Biennale di Venezia e della Festa dell´Architettura che apre oggi a Roma con la lectio magistralis di Alvaro Siza, sottolinea: «La questione dei grattacieli mi sembra astratta. Credo che serva una buona committenza. Se ci accapigliamo su certi simboli, è finita e, d´altra parte, dire a priori che le torri sono sbagliate è pura petizione ideologica».
Stando ai fatti, il piano regolatore della città di Roma, varato dalla giunta Veltroni, definisce limiti e proporzioni della crescita delle cosiddette "centralità metropolitane" (leggi: periferie). Ma non si spinge fino a chiarire se ciò debba verificarsi, per esempio, in dieci palazzine da tre piani o in una da trenta. Carta bianca, dunque, a contrastare quella consuetudine a non superare in direzione del cielo la "santità del Cupolone" (e nemmeno la "maestà del Colosseo") sancita all´epoca dei Patti Lateranensi. Una sfida che nessuno ha finora osato intraprendere.
Sull'eolico in Sardegna si discute molto in questi giorni. Ma non si spiega che il danno non è quello di acchiappare il vento (il maestrale soffierà sempre forte) ma prendersi l'orizzonte, occupare il paesaggio bene comune e limitato, e quando lo deturpi è per sempre. Le mosse, sotto osservazione degli inquirenti, pare servissero per addomesticare le regole utili a frenare la diffusione delle torri eoliche nel mare e nelle campagne.
Nessuna novità. Le politiche della destra non hanno a cuore il bene comune. Il programma è prendere da ogni territorio senza restituire nulla. Dalla Sardegna per lungo tempo si è portato via gratis. Non servivano grandi investimenti per trasferire legname o corallo o selvaggina. Qualche attrezzo indispensabile - per la pesca del tonno o per l'estrazione di minerali- non ha impoverito le imprese che poi hanno abbandonato tutto lì (sembra di vederle le torri eoliche arrugginite ai piedi di qualche altura).
Da mezzo secolo in Sardegna restano i segni di cangianti scorrerie che si adeguano ai tempi. Si sono fatti buoni affari nell'isola. Basta guardare la distruzione delle coste - per compiacere speculatori più che turisti-, le dune e le scogliere diventate piedistalli di brutte case. E se non bastano le proprietà private, terre e immobili pubblici saranno a disposizione nel girone del federalismo demaniale.
Il programma era/è chiarissimo e i sardi hanno deciso di favorirlo, così dopo la parentesi del governo Soru, nuova corsa.
Piano-casa: i primi effetti. Tutto ampiamente previsto in quell'idea bizzarra di piano-casa: evidente che avrebbe premiato le case grandi come villa Certosa. Chi più ha più gli tocca. Altro che un posto letto per il figlio che cresce. Poteva ritrarsi Berlusconi, esibire il bel gesto di rinunciare all'incremento? “La legge è uguale per tutti” - pronta risposta del portavoce di turno.
La legge appunto. La decisione di impugnare di fronte alla Consulta qualunque provvedimento autorizzativo del piano-casa - assicurano gli esponenti dell'opposizione- è una bella notizia. Sarà divertente: in giudizio l'ampliamento del villone dell'ispiratore del piano-casa sardo (ricordate Cappellacci convocato a Roma per questo?). L'ennesima prova del tentacolare conflitto di interessi del premier nel surreale dibattimento sulla deroga regionale ai vincoli prevalenti (quelli del Piano Paesaggistico secondo una legge dello Stato). Lo spettacolo servirà ai cittadini di destra per rendersi conto ? Solo se si evidenzieranno bene le notevoli contraddizioni nelle politiche di annunci reiterati e noiosi. O meglio delle politiche dei gusci vuoti che restano vuoti, pure perché c'è chi è sempre pronto a prendersi il contenuto.
«Tutti sono molto affezionati alla nota ditta Martini&Rossi, che produce un vermouth internazionalmente conosciuto, ma adesso il presidente della Regione è Enrico Rossi e bisognerà farsene una ragione». La polemica scoppiata tra il neo assessore Anna Marson da una parte e una bella fetta di sindaci della Costa, con il rinforzo del Pd, non riscalda il cuore del presidente, che anzi liquida con una battuta l’ammutinamento dei primi cittadini, insoddisfatti per il cambio di rotta in materia di urbanistica. Uno a zero, e con un gol pesante, per la Marson. Ma un attimo prima, lo stesso Enrico Rossi aveva chiuso a doppia mandata ogni possibilità di rimettere in discussione la realizzazione della Tirrenica, dopo il pesante giudizio espresso del suo assessore all’Urbanistica che quindi da una parte esce rafforzata e dall’altra ridimensionata.
Dopo giorni di polemiche, alla fine Enrico Rossi ha insomma sciolto, con un taglio netto, la questione.
A far divampare le fiamme, una serie di affermazioni della titolare dell’Urbanistica che avevano, di fatto, ribaltato la filosofia del suo predecessore Riccardo Conti.
«L’errore più grande - aveva dichiarato al Tirreno Anna Marson - è di aver dato autonomia ai Comuni senza accompagnarla con un adeguato sostegno. Non bisogna tornare al centralismo regionale, ma creare ai poteri dei Comuni dei contropoteri».
Marson aveva inoltre criticato la «Villettopoli» versiliese, l’eccessiva cementificazione di zone di grande pregio come l’Arcipelago e sostenuto l’idea che «c’è un limite allo sviluppo urbanistico». Al posto della vecchia filosofia, la Marson ne ha proposta un’altra, all’insegna del recupero degli edifici esistenti, di centri storici da riqualificare, di «interi quartieri da rottamare».
Queste parole hanno provocato la reazione di una serie di sindaci, con in testa il livornese Cosimi e il piombinese Anselmi. Il primo cittadino di Piombino ha parlato di «un approccio ideologico al non consumo di territorio che rischia di alimentare la rendita, anziché contrastarla», bollando l’impostazione della Marson come il frutto di una posizione elitaria e conservatrice.
Alessandro Cosimi, che è anche il presidente dell’Anci toscana, è andato oltre chiamando in causa direttamente Enrico Rossi.
«Mi pare incredibile - aveva dichiarato Cosimi - che si possano dare dei giudizi su dieci anni di governo regionale e aprire una nuova fase senza un’adeguata riflessione».
La posizione di Rossi, al riguardo, è stata chiara: «Una legislatura è finita e ne è iniziata un’altra, è normale che ci sia un cambiamento nelle politiche, senza che questo significhi rinnegare e contestare le scelte effettuate in precedenza».
Rossi ha ricordato che la scelta di limitare il consumo di territorio e di incentivare il riuso «è scritta nel mio programma» ed ha aggiunto che «stiamo lavorando all’elaborazione di proposte concrete che possano incentivare, in accordo con i Comuni e con i privati, delle esperienze importanti in grado di tutelare le città toscane e i centri storici, piuttosto che consumare il territorio, oltretutto adesso che c’è un elevato livello di invenduto».
Sul fronte della Tirrenica, porte chiuse, invece, alla Marson che aveva criticato l’opera per il suo «impatto pesante sul paesaggio rurale storico» e perché «introduce un elemento di frattura forte tra area costiera e centri retrostanti». Anche su questo, Rossi è netto: nessuna marcia indietro e anzi la volontà di andare in tempi brevi «a un punto complessivo con il ministro Matteoli». Sulla Tirrenica, ha aggiunto, si andrà alla piena «attuazione dell’accordo Martini-Conti sulle infrastrutture».
Bene, benissimo la pensione delle donne all’età di 65 anni! Ecco cosa rispondo alle tante persone che in questi giorni chiedono un mio parere a proposito. No, non è un paradosso, né ironia, ma solo speranza. Infatti noi donne dovremo affrontare una vita che si fa sempre più impossibile e, chissà, forse necessità farà finalmente virtù. Questa è la mia speranza, lo confesso. Perché dovremo affrontare concretamente il vuoto pressoché assoluto di servizi, di strutture di sostegno. Dovremo fare i conti con una scuola che sta andando in rovina, con i tempi e i modi della politica spesso proibitivi per la nostra partecipazione. Dovremo fare i conti anche con l’organizzazione della città, i suoi tempi, i suoi orari, e con la progettazione delle case e dei nuovi quartieri dove vivere. Insomma proprio perché la vita si fa sempre più impossibile per noi, che siamo le donne che lavorano più ore giornaliere al mondo - così dicono le statistiche-, finalmente ci dovremo porre il problema del governo di questa società. Ecco perché sono contenta.
Stavolta non si scappa. Non ci resta che governare, e per questo bisogna abbandonare l’idea che il governare sia un’azione neutrale. Dovremo agire invece politicamente quello che abbiamo sempre saputo, che uomini e donne hanno moltissimi interessi contrastanti e che non sono complementari, come ci hanno raccontato da secoli. L’esperienza ci dice che i due sessi possono essersi utili, di tanto in tanto anche piacevoli, ma spesso si ritrovano ad essere pericolosi nemici. Insomma dovremo agire con la certezza che per chi governa essere uomo o essere donna conta non poco. Tutti o quasi in Italia riconoscono che la pensione a 65 anni è una batosta per le donne.
All’estero si stupiscono. Ma come mai? Chiedono. Semplice la risposta: perché non sanno come non funziona il nostro paese, paese dove né destra né sinistra si sono mai preoccupate veramente della famiglia. Parole tante ma fatti niente. La stessa risposta potrebbe valere anche per altre domande: perché in Italia c’è una così bassa natalità? perche le donne in Italia fanno difficilmente carriera? Ci sarebbe proprio da dire che da noi la famiglia è sacra e le donne, per esserne all’altezza, devono fare miracoli. Ma la cosa più strabiliante del nostro paese è che proprio noi donne ci siamo occupate poco e male di noi e abbiamo intascato e detto pure grazie a scelte politiche che ci riguardavano che, al contrario di quello che sembrava, ci mettevano in un angolo o ci facevano fuori del tutto.
Una di queste scelte è per l’appunto il falso e ipocrita privilegio di andare in pensione prima. Davvero non sembra che nel nostro paese ci sia stato un femminismo tanto forte, un femminismo che ha fatto della “differenza” una categoria politica centrale. Se l’idea della parità e l’idea dell’uguaglianza alludono ad un semplice accesso a certi benefici, condizioni e luoghi, la differenza è un’idea da grande rivoluzione, è quella che, se agìta politicamente, ha la forza di far cambiare l’assetto di una società. Ma così non è stato. Pensavamo, noi femministe, che bastasse l’idea? Ma quando mai per una rivoluzione sono bastate solo le idee? In questa nostra società c’è ancora da registrare la presenza vera e intera delle donne, le loro necessità, le loro esigenze, i loro desideri.
E allora che batosta sia! Chissà se in questo modo, riusciremo a terminare la nostra rivoluzione? Infatti diventerà sempre più impossibile arrangiarci, non basterà più quel reticolo di nonne, di zie, di vicine di casa che abbiamo messo a salvaguardia della nostra vita. La piccola politica del vicinato non basterà più. No, non basterà più, anche se una certa teoria femminista, per me irresponsabile, la chiama politica prima, e le concede dignità assoluta rispetto al discredito di “mettere le mani in pasta” in quella merda della politica istituzionale chiamata invece politica seconda. E poco importa se la politica seconda decide della vita di tutti. Insomma quella sorta di antistato muto e non belligerante che le donne, acrobatiche, funambole, futuriste hanno messo in piedi per sopravvivere e per far sopravvivere la propria famiglia, no, non basterà più. O meglio mi auguro che non debba bastare e che le donne la smettano, una volta per tutte, di arrangiarsi. Di fronte alle condizioni miserevoli, non solo economiche, del nostro paese, discutiamo e ci vogliamo convincere che noi donne siamo eccellenti. «L’eccellenza femminile» è l’ultimo tema lanciato sul tappeto della riflessione femminista. Ma quale sarebbe questa eccellenza? Quella di farsi spremere come limoni, quella di sopportare, di rimediare, di rabberciare, di non protestare, di pazientare, di farsi sfruttare, di accettare elemosine, pensando che siamo eccellenti? Da dove esce fuori quest’idea dell’eccellenza femminile? Dalla storia oscura del passato? Dal grande silenzio delle donne? Dal fatto che abbiamo curato e pulito incessantemente questo mondo, nonostante gli orrori della storia? Eccellenti perché sopravvissute? Oppure è il far male di tanti uomini che ci rende eccellenti, il loro annaspare tra potere, denaro, sessualità incontrollata, capacità di rubare, di ingannare, di mentire, di delinquere, di violare. Sarebbe poca cosa... Personalmente, sento che mi devo difendere dall’idea dell’eccellenza femminile come in gioventù sono stata costretta a difendermi dall’idea dell’inferiorità femminile. Statene alla larga, giovani donne! Mi viene da dire. Tra di noi c’è chi è buona e chi è cattiva, chi è intelligente, chi stupida, chi è eccellente e chi è inetta. Insomma siamo umane ed è questo ciò che conta. E questo deve bastare per autorizzarci a costruire per noi una vita possibile e dignitosa Non serve altro. Perché Luisa Muraro approva commossa la proposta del Nobel alle donne africane? Mi ha sorpreso, almeno in questo pensavo che andassimo ancora d’accordo. Questa proposta, buona certamente nelle intenzioni, a me femminista sembra invece indecente. Cosa hanno in più le donne africane per meritarsi il Nobel: forse perché, in aggiunta all’elenco sopracitato, sono le donne più violentate dei cinque continenti e che a molte di loro le cuciono il sesso da bambine? Forse perché sono martiri? Sono eroine?
Non ho mai potuto soffrire chi ha la pretesa di costruire la propria identità nel dolore e nel vittimismo, ho in sospetto perfino il sentimento del coraggio come terreno identitario, e della pazienza e sopportazione nemmeno se ne parli. Da tempo penso che si possa costruire solo nella gioia e nella consapevolezza. Il grande risultato del nostro femminismo è stato quello di far pensare a tutte le donne necessaria e lecita la ricerca della propria felicità. Perché proprio in nome dell’eccellenza femminile premiare un indistinto? Un corpo unico? quando in Africa ci sono tante donne, scienziate e politiche, con nome e cognome che meriterebbero il Nobel, per delle imprese concretissime come la lotta contro la fame e la sete. Loro sì donne eccellenti, portatrici di gioia.
Per terminare la nostra rivoluzione non dobbiamo fare «le donne in politica» dobbiamo fare «la politica delle donne». Ma per questo ci vogliono tante donne in politica e tante donne fuori, per ripristinare quel circolo virtuoso appena intravisto negli anni ‘80 e subito sparito. Oggi ci sono tantissime donne forti, tante imprenditrici, giornaliste, direttore di quotidiani, avvocate, professioniste, scienziate, pubblicitarie, filosofe, registe tutte pronte a fare ciascuna la propria parte. Perché non dovremmo farcela? E chissà se la sinistra, la nostra sinistra che abbiamo dovuto sempre trascinare, quasi come un peso morto, alle grandi battaglie di civiltà come il divorzio, l’aborto, quella sinistra che ci ha tradito con la legge oscena della maternità assistita, questa volta capirà che una lotta per gli interessi delle donne è una lotta per una società migliore, più giusta, più equilibrata. Chissà se, una volta per tutte, capiranno che non servono politiche protettive per le donne, ma servono, come piace tanto dire, «cambiamenti strutturali».
Chissà anche se capiranno che questa è per loro l’ultima spiaggia, l’ultimo treno da prendere in corsa. Questa sinistra che ha promesso sempre alle donne e che non ha dato mai, questa sinistra con troppe poche donne per governare, così malata di realpolitik da rendersi irriconoscibile. Ma per quanto riguarda noi... via, fuori dai condomini, dai conventini, dai convegnucci, dalle famigliole, dai giardinetti. Facciamoci una società migliore. Animo!
Guido Bertolaso resisterà fino alla fine: il terremoto che la notte del 6 aprile 2009 rase al suolo L'Aquila e uccise 300 persone, non era prevedibile. Gli allarmi, le 400 scosse registrate nei quattro mesi precedenti, il verbale della rapidissima riunione degli esperti fatto firmare la sera stessa del sisma, le relazioni di Giuliani, valgono poco, l'inchiesta della procura de L'Aquila ha un unico obiettivo: distruggere la Protezione civile. La "sua" Protezione civile, quella che insieme con Silvio Berlusconi ha modellato nel corso degli anni. Non più organismo che cerca di prevedere col concorso di esperti e tecnici le catastrofi naturali e di mitigarne i disastrosi effetti, ma ente con poteri smisurati che si sovrappongono alle competenze di ministeri, Regioni e Comuni, che agisce al di fuori e al di sopra delle leggi correnti, delle normative sugli appalti, insofferente alle lentezze delle burocrazia e ai controlli. Tutto in nome dell'emergenza.
Le grandi catastrofi hanno distrutto tante carriere politiche nel corso della storia italiana, per Silvio Berlusconi non è stato mai così. Dal terremoto di San Giuliano di Puglia a L'Aquila. La ricetta è sempre la stessa: trasformare una tragedia in grande occasione mediatica, alle telecamere che inquadrano lutti e macerie, gente infreddolita e donne in lacrime, vanno subito affiancati i microfoni che trasmettono il verbo dell'efficienza e del fare. San Giuliano avrà la sua scuola, sarà moderna e bellissima e con le lavagne luminose, i terremotati aquilani avranno subito una casa, bella e sicura. Tutti dimenticheranno lutti, sofferenze e responsabilità. È il governo del miracolo. A L'Aquila si sta ancora scavando quando, e sono le 21:40 del 6 aprile, nel salotto di Porta a Porta, Silvio Berlusconi annuncia che costruirà le "new town". Se la ricostruzione ha tempi lunghi, una ventina d'anni nell'Irpinia del terremoto del 1980, almeno una decina in Abruzzo, è il calcolo ottimistico degli esperti, noi faremo nuove città. Un'idea che Berlusconi e il governo avevano già nel cassetto e che Bertolaso e la sua Protezione civile sposano subito. È costosa, 710 milioni, 2.500 euro a metro quadro per ogni appartamento, tanto è costato il Progetto Case a L'Aquila e dintorni, devasta il territorio (venti aree nel capoluogo abruzzese e nei comuni limitrofi, 100 ettari occupati per le abitazioni più 30 per le infrastrutture), ma assicura tempi di realizzazione rapidissimi e folgoranti inaugurazioni.
Al progetto delle new town il premier stava lavorando da mesi, ben prima del terremoto. In Italia ne vorrebbe costruire un centinaio, come ci racconta "Progetti e concorsi del 2 maggio 2009". "Il piano delle 100 New Town partirà da L'Aquila. Il progetto caro al presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha trovato – proprio nel terremoto – una inaspettata occasione. Solo pochi giorni prima del sisma, il premier ha chiesto a un imprenditore veneziano una ipotesi di nuova città, sulla base di alcune indicazioni. L'idea, supportata dall'avvocato Niccolò Ghedini, è stata trasmessa personalmente dal premier all'imprenditore Andrea Mevorach, il quale ne ha recepito i contenuti e ha trasferito al suo team la filosofia del progetto".
Mevorach è un imprenditore veneziano attivo nei settori dell'occhialeria, della meccanica e dell'immobiliare, si occupa anche di sviluppo per conto di fondi immobiliari riservati ed è da anni socio dello Yacht Club Costa Smeralda. La sua idea viene subito adattata all'"inaspettata occasione" del terremoto, venti new town, inaugurate dal premier con grande dispiego di telecamere compiacenti, case tutte uguali e con gli appartamenti già arredati. Quartieri dormitori senza servizi che hanno già compromesso il futuro urbanistico della città, denunciano gli aquilani. Ma per realizzare il progetto serviva anche altro: espropriare i comuni delle proprie prerogative in materia di uso del territorio, e militarizzare le tendopoli. Una sorta di modello "choc economy", anche se più paternalistico e televisivo. Oggi Naomi Klein lo chiama "capitalismo dei disastri", vent'anni fa l'economista Ada Becchi Collidà, che studiò a lungo il dopo-terremoto in Irpinia, lo chiamò "economia della catastrofe". Il risultato è lo stesso: imprenditori pronti all'assalto della ricostruzione. Un "male" che Ignazio Silone aveva visto dopo il terremoto di Avezzano. "Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformerà in occasione di più larghe ingiustizie, e la ricostruzione edilizia per opera dello Stato una calamità assai più penosa del cataclisma naturale". Era il 13 gennaio 1915.
Ieri Letizia Moratti non è scesa nell’aula del Consiglio comunale per raccontare e spiegare alla città la vicenda delle presunte molestie di uno dei suoi assessori. Appena qualche giorno fa, viceversa, si era precipitata, sorriso sulle labbra, per festeggiare l’accordo sul Piano del territorio con l’opposizione. L’intesa ha lasciato nello stupore tutto il popolo della sinistra che si aspettava quantomeno la barricata degli emendamenti, invece prontamente ridotti per consentire che i tempi non costringessero la maggioranza probabilmente a rinviare l’approvazione a dopo la nuova tornata elettorale ormai alle porte. Perché l’ha fatto? Siamo in molti a domandarcelo. Detto brutalmente: perché la sinistra ormai ha preso l’abitudine, su certi temi, e in particolare quelli di contenuto urbanistico, a calare le braghe.
Gli interessi edilizi sono trasversali ed è inutile che quando lo si dice qualche pezzo dell’opposizione gridi alla lesa maestà. Ricapitoliamo. Quali sono le "ragioni" dell’operazione Pgt per chi l’ha promossa? La rimozione della rigidità del vecchio strumento rispetto alla richiesta di cambiamenti di destinazione d’uso sotto la spinta di una società in continua mutazione; questa rigidità era un freno all’attività edilizia (a dire dei promotori pronta a esplodere se solo avesse potuto); la necessità di uno strumento che consentisse di riequilibrare alcuni comparti della città sottodotati di strutture di servizio e di verde; la necessità di dare un alloggio a chi non può permetterselo andando direttamente sul mercato.
Questo strumento aveva anche il pregio, dicevano, di autofinanziarsi con il meccanismo delle convenzioni, con la perequazione (lo scambio di volumetrie tra aree a destinazione diversa), ovviamente con il nuovo gettito degli oneri di urbanizzazione. Condizione essenziale era che lo scenario del mercato immobiliare restasse immutato. Da quando l’assessore al territorio Carlo Masseroli si è insediato è cambiato tutto nell’economia mondiale, nell’economia locale e nel mercato immobiliare. Ma l’idea primigenia è rimasta tale e quale e quindi se l’intento era la tanto conclamata flessibilità, primo motore immobile e apoteosi del liberismo ciellino, di un aspetto di questa flessibilità non si è tenuto conto: la flessibilità dello strumento ai cambiamenti economici e di conseguenza ai cambiamenti del mercato.
Nel nostro caso se la domanda solvibile di case non riprende vigorosamente (forse in anni a venire) avremo uno strumento urbanistico da buttare: dopo tante discussioni. Ma non sarà facile farlo, checché ne dica la sinistra, perché saranno scattati meccanismi di diritti acquisiti. Resta comunque un documento non emendabile per l’intreccio d’interessi che lo rendono di difficile decrittazione, tra finanziari (bancari) e politici (anche apparentemente assai lontani dallo specifico del Pgt) e un insieme di trappole tutte tese all’aumento della densità edilizia.
Quanto poi alla discussione in Consiglio e in particolare sul tunnel, possiamo archiviare l’argomento secondo le idee di ciascuno di noi o nell’armadio degli incubi o nell’armadio dei sogni: egualmente ben chiusi né per merito né per colpa ma per fortuna. Io mi domando solo se vale la pena di andare avanti, tra l’altro, ad affrontare il meccanismo della perequazione e del mercato delle volumetrie: lasciamolo solo oggetto di dotte discussioni per accademici, un circolo Pickwik per intendersi, quello descritto da Charles Dickens col titolo originale The Posthumous Papers of the Pickwick Club, dove il Posthumous Paper è il Pgt. Rassegnamoci, comunque vadano le cose: la battaglia per il mattone sostenibile con questa sinistra a Milano è persa tra ambiguità, ammiccamenti e poteri forti.
Foto choc, dossier ai magistrati: guardate lo scempio di Pompei
Vincenzo Esposito
Fosse biologiche per i bagni, scavate a pochi metri dalle mura innalzate oltre duemila anni fa. Massetti e colate di cemento tra le colonne delle antiche dimore. Prefabbricati incastrati nei locali che furono la palestra dei gladiatori. Il Peristilio del quadriportico invaso da trapani elettrici, martelli pneumatici e levigatrici. Colonnati corinzi e archi in reticolato romano che diventano appendipanni per giacche e giubbotti, magari con qualche chiodo inserito all’occorrenza dagli operai. Nessuno controlla, nessuno sa, nessuno vede. Eppure è lo scempio di Pompei, degli Scavi archeologici. Unici al mondo. Guardare le foto e ricevere un pugno nello stomaco della propria sensibilità, è un tutt’uno.
Le opere vengono definite ufficialmente come il restauro del teatro antico. Omeglio «Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei scavi». Più che una sistemazione, però, è un rifacimento ex novo. Le gradinate, che esistevano solo in parte, sono state integrate con pietre di tufo giallo. Sostituiti i supporti di ferro sui quali venivano poste assi di legno rimovibili per far sedere gli spettatori. «Il teatro antico non è più il teatro antico, è una nuova struttura - spiegano all’Osservatorio del patrimonio culturale - che lascia più che perplessi. E intorno l’invadenza di questi lavori selvaggi lascia sgomenti». Dieci giorni fa l’Osservatorio ha scritto al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi. Ora quelle foto choc fanno parte di un corposo dossier inviato alla Procura della Repubblica. L’inchiesta, spiegano, dovrebbe scattare immediatamente perché su quello che è stato fatto non ci sono dubbi. E i magistrati dovranno capire chi ha autorizzato quei lavori e chi doveva soprintenderli.
Come è Il Teatro oggi: mattoni di tufo per formare le gradinate. La struttura è stata ricostruita con materiali anomali
Questo, infatti, è un giallo. Il commissario straordinario di Pompei, Marcello Fiori, ha spiegato: «Quello è un progetto redatto dal precedente soprintendente Pietro Giovanni Guzzo e approvato dal ministero generale per l’Archeologia, dal segretario generale, dal capo gabinetto del ministero, dal capo gabinetto della Regione Campania. Nel teatro così restaurato suonerà il 10 giugno il maestro Riccardo Muti». Come dire: non chiedete a me. Va bene, ma allora? Chi deve controllare quali ditte entrano e mettono le mani in uno dei tesori dell’umanità. Secondo i sindacati le gare per l’aggiudicazione dei lavori hanno subito ribassi fino al 40 per cento.
«L’evidenza della gravità degli interventi - ha scritto al ministro Bondi l’Osservatorio del patrimonio culturale - è facilmente e banalmente dimostrabile attraverso una rapida ricognizione dell’attuale consistenza del teatro, in particolare della cavea, che, rispetto ad una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura. L’intervento sul teatro è un vero e proprio inconcepibile scempio compiuto all’interno del monumento archeologico tra i più significativi dell’umanità». E non si chiede solo ai magistrati di intervenire, ma al mondo intero di condannare lo scempio di Pompei. Per gli archeologi, infatti, gli interventi compiuti sono in evidente contrasto con i principi internazionali sulla conservazione del patrimonio storico artistico e con le norme che regolano e tutelano il patrimonio archeologico italiano e mondiale. Gli esperti del pianeta si mobilitano, su internet nascono gruppi che protestano con corpose petizioni. L’ultimo è «Stop killing Pompei ruins», su Facebook che lievita ogni giorno di adesioni. E di sdegno.
Appello degli archeologi a Muti: difendiamo l’antica città
Antonio Irlando - Osservatorio Patrimonio culturale
opcitalia@gmail.com
Caro direttore,
gli scavi di Pompei sono ancora sotto la scure del vandalismo di lavori di edilizia civile, spacciati per interventi di restauro del Teatro Grande e della Palestra dei Gladiatori. Stanno facendo in fretta e male per inaugurare il «Nuovo Teatro degli scavi di Pompei», con un concerto di Riccardo Muti. Si, è proprio un «Nuovo Teatro», sorto sull’area di quello romano. Quello antico, originale, autentico, non c'è più. Chi ha visto lo scempio è sbigottito. Quasi nessuno crede a ciò che vede, perché è tutto ferocemente assurdo. Hanno selvaggiamente sostituito molto di quello che c’era (e soprattutto che non c’era) con una cavea quasi completamente nuova, con materiale in tufo di moderna fattura. Il Corriere della Sera in un’inchiesta pubblicata il 25 maggio scorso spiegava molto bene, quanto è in corso al teatro romano di Pompei. E non è servita ad arrestare la barbarie (autorizzata?) una dettagliata relazione al ministro per i Beni culturali da parte dell’Osservatorio Patrimonio culturale, con un elenco dettagliato degli scempi (quello al teatro non è l’unico) perché si lavora cementificando superfici archeologiche per realizzare le infrastrutture del nuovo teatro con pale meccaniche, martelli pneumatici, levigatrici ed altro ancora.
Inizia, però, a crescere l’indignazione (ovviamente con i tempi di reazione all’italiana) tra chi è informato su quanto si consuma ai danni del patrimonio archeologico di Pompei e, soprattutto, nella comunità internazionale che spesso ama Pompei più degli italiani. Il 10 giugno il maestro Riccardo Muti è in calendario per inaugurare la stagione dei concerti a Pompei. Viene da chiedersi, ma il maestro Riccardo Muti è a conoscenza dello scempio compiuto al Teatro Grande di Pompei? È a conoscenza il maestro Muti che non inaugurerà il «restaurato Teatro Grande», ma un «Nuovo Teatro» edificato negli scavi di Pompei? Certamente non sa nulla, impegnato com’è in giro per il mondo o forse ha letto il Corriere della Sera. Dal grande artista internazionale, dall’icona della cultura e dell’arte italiana nel mondo, sarebbe utile per l’intero Paese se arrivasse un forte segnale di sintonia tra la conservazione del patrimonio archeologico e il patrimonio musicale italiano, magari evitando di inaugurare proprio lo scempio agli scavi di Pompei.
Trivelle e cemento a Pompei Questa non è «valorizzazione»
Tomaso Montanari
Cosa possono aggiungere le parole all'immagine pubblicata qui sopra e a quelle della pagina interna? Verrebbe da dire che nessun ragionamento può rendere più chiara la situazione, più tangibile la devastazione, più terribile la barbarie. Come sempre, invece, le immagini sono ambigue: e anche le più evidenti hanno bisogno di essere tradotte. Prendiamo le fotografie del martello pneumatico in azione, per esempio quello brandito dall'operaio col casco azzurro, che fa le tracce per i tubi squarciando la colata di cemento appena gettata tra il muro e la colonna antichi. Quello non è un martello pneumatico, ma una trivella petrolifera. E’ la trivella che cerca il «petrolio d'Italia»: quei giacimenti culturali che da quasi trent'anni vengono magnificati (a sinistra quanto a destra) come la grande risorsa che il nostro Paese dovrebbe imparare finalmente a «sfruttare».
Abbiamo cessato di parlare di «opere d'arte» o di «belle arti», per celebrare invece i «beni culturali», il «patrimonio», la «valorizzazione»: e tutto questo ha finito con lo spostare insensibilmente, ma fatalmente, il discorso dalla dimensione culturale, gratuita, a quella economica. Sotto il ministero di Sandro Bondi la retorica della valorizzazione ha raggiunto il suo apice: se da una parte si sottrae al bilancio del ministero dei Beni culturali l'enorme cifra di un miliardo e trecento milioni di euro, dall'altra si istituisce la nuova Direzione generale per la valorizzazione, e la si affida all'amministratore delegato di McDonald's Italia. Il disegno è chiarissimo: lo Stato non vuole più investire sul «patrimonio artistico», ma vuole invece metterlo a reddito. Come? Per esempio sostituendo i soprintendenti archeologi o storici dell'arte con commissari che provengono dalla Protezione civile, e che sono abituati a gestire i grandi eventi con il disinvolto efficientismo ormai noto alle cronache.
Se il fine è fare soldi, e farli in fretta, le cautele, le competenze e il senso storico degli studiosi non sono che un intralcio. I politici «del fare» non possono perdere tempo a guardare, a leggere o a pensare. E questa non è forse la mentalità che conduce alla rovina l'ambiente naturale e culturale di un Paese al cui orizzonte c'è sempre un condono che, proprio come la confessione, lava via tutte le colpe? Dunque, ciò che succede al Teatro di Pompei non è un incidente, o un caso: è l'esemplare applicazione della dottrina del petrolio d'Italia. E quel martello pneumatico è una delle mille trivelle che stanno devastando il nostro tessuto culturale. La marea nera che sgorgherà da quei pozzi non rischia di cancellare solo il Teatro di Pompei e gli altri mille monumenti violati, ma minaccia di sommergere la nostra stessa identità. Stiamo sacrificando Pompei sull'altare del marketing di Pompei. Le prossime generazioni potranno perdonarci?
L’errore più grande? «Aver dato autonomia ai comuni senza accompagnarla con adeguato sostegno. Non bisogna tornare al centralismo regionale ma creare ai poteri dei comuni i corrispettivi contropoteri», risponde il neo assessore all’urbanistica Anna Marson dalla sua casa a Mercatale, un borgo vicino a Firenze, che negli ultimi mesi è entrato nell’occhio del ciclone per alcuni presunti scandali edilizi. Da qui, dal suo buen retiro toscano, Anna Marson, veneta, docente di urbanistica a Venezia, dove è stata assessore alla Provincia, ha inviato ieri una lettera di apertura alla Rete dei comitati per la difesa del territorio.
L’assessore Marson ha promesso la revisione del Pit, il piano integrato del territorio, del suo predecessore Riccardo Conti. Sull’urbanistica si volta pagina.
Torniamo all’autonomia dei sindaci. Cosa intende per contropoteri?
«Dobbiamo sottoporre gli esiti delle pratiche di autonomia a una effettiva valutazione pubblica e se questi sono insoddisfacenti devono poter scattare dei poteri sostitutivi».
Proprio in questi giorni i sindaci dell’Elba si sono scagliati contro il presidente del parco Mario Tozzi che li ha accusati di voler cementificare. E’ d’accordo con il grido di Tozzi?
«Nel mio ruolo di assessore non sta a me gridare, ma migliorare le pratiche. Posso solo far mia l’osservazione di un famoso economista politico secondo cui è vero che tutti vorrebbero avere la casa nel bosco. Ma se tutti costruiscono una casa nel bosco, il bosco inevitabilmente sparisce. E’ chiaro che sull’Elba, sulla costa tirrenica e sulle zone più pregiate della Toscana dovremo fare una riflessione per affermare che c’è un limite allo sviluppo urbanistico e che se non lo si rispetta la bellezza del territorio è gravemente a rischio».
Che fare?
«Credo che si imponga, anche per la crisi economica del Paese, una politica di recupero degli edifici esistenti. La costruzione di nuove case in aree agricole comporta opere di urbanizzazione, che i comuni, anche per la crisi economica, non sono in grado di fare».
Troppo cemento?
«Io penso che di cemento non ce ne sia troppo in assoluto ma è male distribuito. Se ragioniamo sullo sfilacciamento di molti tessuti urbanizzati ritengo che ci sia spazio ancora per costruire nuovi volumi. Altra cosa è secondo me andare ad aggredire nuovo territorio».
Troppe seconde case?
«Dovremo riqualificare i centri esistenti e portarci i turisti. Anche all’Elba la domanda delle seconde case è più forte lungo la costa e meno all’interno dell’isola. La costa toscana è abbastanza differenziata. La Versilia sembra un pezzetto di Padania per il modello insediativo nel senso che c’è una dispersione insediativa molto elevata, quella che Pier Luigi Cervellati chiama Villettopoli. A sud di Pisa ci sono ancora porzioni di territorio rurale che è importante salvaguardare, portando i turisti nei centri all’interno».
San Vincenzo e Val di Cornia: ha letto la polemica sulle troppe case?
«Sono intervenuta solo per notare che in quelle zone, come anche in altre in Toscana, è stato esaurito il dimensionamento previsto dal piano strutturale. Ci sono comuni che con il primo regolamento urbanistico hanno bruciato le previsioni del piano strutturale. Il mercato rispetto a questo eccesso di offerta non è che l’assorbe tutta. Realizzare le previsioni un po’ qui e un po’ là è un disastro economico nel medio lungo termine per i comuni, che deve fornire i servizi».
Stop all’attività edilizia?
«Occorre indirizzare l’attività edilizia a intervenire sul tessuto già urbanizzato. Puntare soprattutto al recupero edilizio. Sia attraverso una maggiore chiarezza normativa che con procedure più snelle per promuovere il recupero e la ristrutturazione. Ci sono quartieri da rottamare. C’è un problema rilevante di edifici energivori da riqualificare o sostituire. Di centri storici da restituire allo splendore di un tempo. Occorre una maggiore qualità urbana. Ma, dentro questo obiettivo, c’è spazio anche per nuovi volumi».
Dalle case alla Tirrenica: superstrada o autostrada?
«Non c’è dubbio che l’autostrada, rispetto alla superstrada, soprattutto nel tratto da Grosseto a Civitavecchia, ha un impatto molto pesante sul paesaggio rurale e storico e introduce un elemento di frattura forte tra area costiera e centri retrostanti. Oltre a questo mi sembra che ci siano problemi per il project financing nel senso che scarica costi consistenti sulla collettività sia per i pedaggi che per il finanziamento chiesto alle istituzioni pubbliche».
Si potrà rivedere il progetto autostradale?
«Questa non è mia competenza. C’è una cosa che mi sta a cuore: le trasformazioni dell’uso dei suoli contermini all’opera prevista. Il problema è quello delle attese di valorizzazione dei terreni vicino all’autostrada, ai suoi svincoli e alle opere complementari».
In quelle zone i terreni non dovranno passare da agricoli a edificativi?
«Se qualche trasformazione è utile e necessaria andrebbe pianificata. Però nell’interesse collettivo e non di pochi soggetti...».
Raccontano che la crisi rifiuti è risolta. Che l´emergenza non c´è più. Gli elenchi dei soldati di camorra e ´ndrangheta arrestati dovrebbero rassicurare che la battaglia è vinta. O almeno, questa è la versione. Molto distante, però, da ciò che realmente accade. Ogni anno Legambiente attraverso il suo Osservatorio ambiente e legalità produce storie e numeri: "Ecomafia".
Quello dei rifiuti è uno dei business più redditizi che negli anni ha foraggiato le altre economie. Come il narcotraffico, il fare affari con i rifiuti, sotterrare scorie tossiche, devastare intere aree, ha permesso alle organizzazioni criminali e a semplici consorterie imprenditoriali di accumulare capitali poi necessari per specializzarli in altri settori. Catene di negozi, imprese di trasporti, proprietà di interi condomini, investimenti nel settore sanitario, campagne elettorali. Sono tutte economie sostenute con i rifiuti. Esempio lampante ne è l´economia campana e i suoi gangli politici che si sono strutturati intorno alla crisi rifiuti.
Il mondo intero non si spiegava come fosse possibile che un territorio in Europa vivesse una piaga tanto purulenta. Come fosse possibile che le dolcissime mele annurche o le pregiate bufale campane, caratteristiche proprio di quelle zone, potessero trasformarsi improvvisamente in prodotti rischiosi per la salute. Possibile che convenga di più avvelenare che concimare e raccogliere?
Evidentemente sì, basta saperne leggere i vantaggi. L´emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l´anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. Di fronte a cifre come questa è comprensibile che nessuno avesse convenienza a porre rimedio all´emergenza. Rapporti di consulenza politica, assunzioni, e persino specializzazione delle ditte nello smaltimento; oggi le imprese campane del settore rifiuti, grazie anche ai soldi dell´emergenza e alla pubblicità - sembra assurdo parlare di pubblicità, no? - che ne hanno ricavato, sono tra le più richieste in Europa. Ma risolvere un´emergenza significa anche non averne più i benefici e gli utili. E in verità, nonostante i proclami, oggi si è risolto poco. Si è tolta la spazzatura dalle strade ma, come afferma chi lavora nel settore, è solo fumo negli occhi, perché sta per tornarci. «Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come molte regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti». Sono parole dell´amministratore delegato dell´Asia (l´azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani.) Come un tempo, quindi, la spazzatura sta di nuovo per essere accumulata. Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese e il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Nel Sud le bonifiche delle terre avvelenate da decenni di sversamenti di veleni sono rare e lente. I rifiuti tossici hanno spalmato cancro prima nei terreni, poi nei frutti della terra, nelle falde acquifere, nell´aria. Poi addosso alla gente, nelle loro ossa e nei tessuti molli. Ogni ciclo di vita è stato compromesso.
La diossina, i metalli pesanti e le sostanze inquinanti vengono ingerite, respirate, assimilate come una qualunque altra sostanza. La pelle di ogni cittadino delle zone ammorbate trasuda sudore e scorie. Il cancro ha raggiunto percentuali molto più alte che negli altri Paesi europei. Gli ultimi dati pubblicati dall´Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica «The Lancet Oncology», già nel settembre 2004, parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Ma l´ecomafia non è un fenomeno che appartiene solo al Sud. Nel Sud assume caratteristiche totalizzanti e più evidenti: nelle strade si inscena il dramma dei cassonetti incendiati, il puzzo accompagna ogni movimento, e il silenzio copre ogni cava, ogni singolo luogo dove è possibile accumulare e nascondere. Ma è sempre più il nord Italia il centro del vero business. E la novità di quest´anno, al di là del noto primato di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, è che il Lazio si posiziona al secondo posto tra le regioni con il più alto numero di reati ambientali. Tra le inchieste più rilevanti del settore, nel 2009, ce ne sono alcune con nomi fantasiosi, talvolta anche vagamente familiari. "Golden Rubbish", "Replay", "Matassa", "Ecoterra", "Serenissima", "Laguna de Cerdos", "Parking Waste". Alcune, già dal nome si riescono anche a localizzare geograficamente, e tutte quelle che ho citato sono inchieste che riguardano il nord Italia. È evidente che il Nord ce la sta mettendo davvero tutta per non essere secondo al Sud in questa gara all´autodistruzione. La "Golden Rubbish" è un´inchiesta che vede coinvolta la provincia di Grosseto, ma ancora conserva legami con Napoli e la Campania perché ha preso le mosse da un´inchiesta che riguardava la movimentazione dei rifiuti prodotti dalla bonifica del sito industriale contaminato di Bagnoli. Si tratta di un traffico spaventoso: un milione di tonnellate di rifiuti e un sistema che ha coinvolto decine e decine di aziende di caratura nazionale. L´inchiesta "Replay" è tutta lombarda e l´organizzazione criminale sgominata operava tra Milano e Varese. Un affiliato al clan calabrese che fa capo a Giuseppe Onorato è finito in manette insieme a un manipolo di colletti bianchi, tra cui funzionari di banche. Lombarda è anche l´inchiesta denominata "Matassa".
È trentina, e precisamente della Valsugana, l´inchiesta "Ecoterra" che ha bloccato un traffico illecito di scorie di acciaierie che venivano riutilizzate, senza alcun trattamento, per coprire discariche o per bonifiche agrarie. Come dimenticare Porto Marghera, dove l´operazione "Serenissima" ha scoperto il traffico illecito di rifiuti diretti in Cina. Ma anche nelle Marche l´"Operazione Appennino" ha intercettato un flusso criminale di scarti derivanti dalle lavorazioni delle industrie agroalimentari e casearie.
È umbra, invece, nonostante il nome spagnoleggiante l´operazione "Laguna de Cerdos" un traffico illecito di rifiuti liquidi di origine suinicola per cui la regione e i singoli comuni si sono a lungo palleggiati le responsabilità. Friulana, invece è l´inchiesta "Parking Waste" che ha smascherato lo smaltimento illecito di medicinali scaduti. In tutte queste inchieste, l´aspetto che più colpisce è il legame strettissimo che si è creato tra gestori delle ditte di smaltimento, politici locali e istituti di credito presenti sul territorio.
Tra le altre cose, vale la pena ricordare che a marzo l´Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell´Unione Europea per come ha gestito l´emergenza rifiuti in Campania. È stata condannata per "non aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l´ambiente". E nella sentenza si legge che l´Italia ha ammesso che "gli impianti esistenti e in funzione nella regione erano ben lontani dal soddisfare le sue esigenze reali".
Come non rimanere colpiti da questo dato: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell´Everest, alto 8850 metri.
Se un cittadino straniero conservava l´illusione delle colline toscane e del buon vino, delle belle donne e della pizza gustata osservando il Vesuvio da lontano mentre il mare luccica cristallino, qualcosa inesorabilmente cambia. Tutto assume una dimensione meno idilliaca e più sconcertante. La domanda più semplice che viene da porsi è come può un Paese che dovrebbe tutto al suo territorio, alla salvaguardia delle sue coste, al suo cielo, ai prodotti tipici, unici nelle loro caratteristiche, permettere uno scempio simile? La risposta è nel business: più di venti miliari di euro è il profitto annuo dell´Ecomafia, circa un quarto dell´intero fatturato delle mafie. Le mafie attraverso gli affari nel settore ambientale ricavano un profitto superiore al profitto annuo della Fiat, che è di circa 200 milioni di euro, e più del profitto annuo di Benetton, che è di circa 120 milioni di euro. Quindi in realtà usare il territorio italiano come un´eterna miniera nella quale nascondere rifiuti è più redditizio che coltivare quelle stesse terre. Tumulare in ogni spazio vuoto disponibile rifiuti di ogni genere costa meno tempo, meno sforzi, meno soldi. E dà profitti decisamente più alti. Bisogna guadagnare il più possibile e subito. Ogni progetto a lungo termine, ogni ipotesi che tenga conto di una declinazione del tempo al futuro viene vista come perdente. Un euro non guadagnato oggi è un euro perso domani. Questo è l´imperativo del nostro Paese che vede coincidere mentalità dell´imprenditoria legale e criminale.
Per difendere il Paese, per continuare a respirare, è necessario comprendere che in molte parti del territorio il cancro non è una sventura ma è causato da una precisa scelta decretata dall´imprenditoria criminale e che molti, troppi, hanno interesse a perpetrare.
O quello delle ecomafie diventa il tema principale della gestione politica del Paese, o questo veleno ci toglierà tutto ciò che aveva permesso di riconoscere il nostro territorio. La speranza è che questo allarme venga ascoltato, e che non si aspetti di sentire la puzza che affiori dalla terra, che tutto perda di luce e bellezza, che il cancro continui a dilagare prima di decidersi a fare qualcosa. Perché a quel punto sarebbe davvero troppo tardi. E coloro che sono stati chiamati i grandi diffamatori del Paese sarebbero rimpianti come Cassandre colpevolmente inascoltate.
©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara
(Il testo pubblicato è la prefazione al volume "Ecomafia" di Legambiente che sarà in libreria mercoledì 9 giugno)
I mercati finanziari sono per loro natura instabili. L'Europa dovrebbe dunque avviare politiche economiche e monetarie per regolamentarli. Gli interventi in soccorso della Grecia dimostrano però che a Bruxelles è prevalsa l'ortodossia che vede nel libero mercato finanziario la soluzione della crisi.
Nelle scorse settimane, le borse hanno avuto un andamento molto altalenante, al punto che molti hanno parlato di mercati «folli»: definizione che non troverebbe d'accordo André Orlean. André Orlean è un economista poco conosciuto in Italia. Nel corso degli ultimi 20 anni, la sua ricerca si è focalizzata sull'analisi e il comportamento dei mercati finanziari. Partendo dalle tesi di John Maynard Keynes, Orléan sostiene che il comportamento degli operatori finanziari non si fonda sull'idea di una razionalità individuale tesa a ottenere il massimo guadagno, bensì sull'interpretazione di quella che può essere definita una razionalità collettiva, intesa come il senso comune espresso da coloro (Banche, operatori finanziari) che sono in grado di condizionare i mercati finanziari.
La metafora del concorso di bellezza di Keynes è al riguardo illuminante: così come un giudice in un concorso di bellezza non deve valutare l'avvenenza dei concorrenti in base al suo individuale senso estetico ma piuttosto in base a quelli che lui ritiene essere i canoni estetici dominanti, così un bravo «speculatore» crea le proprie aspettative sul valore futuro atteso delle attività finanziarie non in base alle proprie aspettative e convinzioni individuali, ma in base a ciò che lui stesso ritiene essere il senso comune presente nei mercati finanziari. Tale comportamento, lungi dall'essere irrazionale, come sostengono gli economisti ancorati alla visione neoliberista dell'homooeconomicus, determina il fatto che nei mercati finanziari le regole della concorrenza, e del pilastro su cui regge, la legge della domanda e dell'offerta, non sono valide. Di conseguenza, i mercati finanziari sono strutturalmente instabili: un andamento ciclico e volatile, che, se non controllato e limitato, rischia di avere ripercussioni deflagranti per il capitalismo contemporaneo, se si considera che i mercati finanziari svolgono oggi il ruolo di governance economica mondiale.
Abbiamo incontrato André Orléan nel corso di una serie di seminari che ha tenuto in Italia, a Milano, Bergamo e Pavia, in occasione della prima edizione italiana di una delle sue opere: Dall'euforia al panico (Ombre Corte).
Quale ripercussione potrebbe avere l'attuale crisi economico-finanziaria sulla teoria dei mercati finanziari e sulle politiche economiche che si dovrebbero adottare per fronteggiarla?
A partire dalla svolta monetarista della Federal Reserve del 1979, la teoria dominante dei mercati finanziari si fonda sull'idea di un mercato finanziario mondiale in grado di espandersi in modo integrato e flessibile, grazie alla crescita del debito pubblico e alle innovazioni finanziarie. È questa la cosiddetta teoria dell'efficienza finanziaria, in base alla quale la concorrenza finanziaria segue le stesse regole di quella dei beni tradizionali. I prezzi che si formano sui mercati finanziari dovrebbero cosi rappresentare la migliore espressione dei valori reali degli scambi economici sottostanti.
Nella realtà, invece, i mercati finanziari non sono né efficienti, né stabili, mentre i prezzi non sono l'esito dell'agire della concorrenza ma semplicemente delle aspettative su ciò che il mercato, nel suo insieme, determinerà. Nei mercati finanziari è invece presente un comportamento che potremmo definire mimetico. Il G20, ad esempio, parte dal presupposto che i mercati finanziari siano efficienti. Nel caso si verifichi un'instabilità, ciò è dovuto al fatto che è venuta meno l'integrità degli stessi mercati finanziari. Per il G20, dunque, la crisi dei subprime non è dovuta alla struttura stessa dei mercati finanziari, ma piuttosto a fattori esogeni: l'«opacità» dei nuovi prodotti finanziari, gli eventuali errori delle agenzie di rating, l'avidità dei manager e delle banche. Sono fattori esistenti, ma non spiegano l'essenza della crisi.
Torniamo alla teoria dell'efficienza finanziaria in base alla quale i mercati sono regolati sulla base della legge della domanda e dell'offerta. Per quanto riguarda i mercati finanziari, ciò non è vero, perché i prezzi delle attività finanziarie seguono una regola opposta: quando un titolo aumenta di valore, la sua domanda, lungi dal ridursi, tende invece a crescere, perché le plusvalenze aumentano all'aumento del valore dei titoli, attirando nuovi investitori e quindi aumentano la domanda di quegli stessi titoli. È un meccanismo produttore di instabilità. Si verificano, così, dei movimenti eccessivi nei prezzi (o verso l'alto nel caso di euforia, o verso il basso nel caso di panico). Tale andamento ciclico, di natura strutturale, viene poi amplificato dalle società di rating. È questa la causa principale della crisi.
In questo quadro analitico, è possibile una regolamentazione dei mercati finanziari?
Se i mercati finanziari sono endemicamente instabili, dovremmo regolarli e limitarli il più possibile. Ne va della sopravvivenza del sistema stesso. Tuttavia, nella situazione attuale è un obiettivo politicamente difficile da perseguire. In ogni caso, si potrebbe intervenire in tre direzioni: arrestare la crescita e il peso dei mercati finanziari, oppure ridurla, limitando il ricorso ad essi; le economie e gli Stati nazionali dovrebbero creare un sistema di valutazione autonoma dei titoli come contrappeso al potere pervasivo e di condizionamento svolto dalle società private di rating. Il caso della Grecia, a questo proposiro, è emblematico: la valutazione del debito greco si basa, infatti, su aspettative future che prefigurano uno scenario tragico creato ad hoc. Una società di valutazione esterna ai mercati finanziari dovrebbe essere in grado di capire fino a che punto è possibile fare una previsione. Inoltre, una valutazione pubblica deve definire il quadro macroeconomico e non lasciare che siano le società di rating a farlo. In tal modo si può limitare il potere discrezionale e l'autonomia del potere della finanza.
La terza direzione verso cui muoversi dovrebbe ridurre la liquidità, aumentando ad esempio i costi di transizione, applicando una sorta di Tobin Tax sulle attività speculative di brevissimo periodo. Nel caso di debito pubblico, gli Stati nazionali potrebbero rendere più rigidi e più trasparenti i tempi e le modalità del rimborso dei titoli e degli interessi.
In Europa è possibile fare qualcosa di simile? Il caso della Grecia sembra dirci l’opposto.
In Europa il rapporto tra debito e Pil è circa l'80%, in Usa del 100%, in Giappone supera il 200%. Ma la pressione speculativa punta sull'Europa. La ragione principale è che il debito pubblico giapponese è detenuto dai giapponesi. Negli Usa e in Europa non è così (con l'eccezione dell'Italia). Ma il debito Usa è generato comunque da una potenza non solo economica, ma anche politico-militare, per la quale le aspettative di crescita sono maggiori rispetto, ad esempio, a quelle dell'Europa o, ancora peggio, dell'Europa mediterranea.
In Europa, la questione della crescita è centrale. Il rischio è accresciuto dal timore di una fase deflazionista che ricorda la situazione degli anni '30. La protezione della moneta - oro in quegli anni - ha comportato effetti negativi sulla crescita degli anni Trenta. Le politiche fiscali restrittive di oggi, con l'effetto di generare una deflazione, rischiano di avere gli stessi effetti che hanno avuto allora le politiche protezionistiche sulla valuta. Viviamo però in un mondo dove non c'è più la «moneta-oro». La politica di svalutazione può avere effetti positivi, i quali rischiano di essere annullati da una politica fiscale restrittiva. Per ridurre il deficit è necessario piuttosto fare politiche di crescita. L'opposto di ciò che vorrebbero i mercati finanziari.
E in ciò vi è la responsabilità dell'Europa che non è in grado di dare una risposta unitaria. L'Europa ha una visione contabile dell'economia (soprattutto la Germania) che non consente di reagire alla pressione dei mercati finanziari. Vi è, così, il rischio di creare il fantasma di un'Europa a due velocità. È il trionfo del nazionalismo. L'Europa si è costruita su una stretta visione economica della moneta, intesa solo come mezzo di scambio che consente l'acquisto dei mercati. Da qui l'enfasi sui vincoli economici posti dai parametri di Maastricht sull'inflazione e sul deficit pubblico. Ciò deriva, ancora una volta, dalla cieca adesione alla visione dell'efficienza dei mercati: una tesi che postual che la tendenza all'equilibrio è la caratteristica fondamentale del mercato e che è quindi inutile qualunque intervento di politica monetaria.
È possibile un ripensamento del ruolo della Bce?
La Bce ha una concezione della moneta inadeguata. Le recenti dichiarazioni di Trichet - «La Bce è orgogliosamente indipendente e autonoma» - è una dichiarazione di impotenza. Ed è falsa. Infatti, è condizionata dai governi europei, come dimostra il fatto che recentemente la Bce ha deciso di riacquistare parte del debito pubblico in cambio di liquidità su pressioni di alcuni Stati dell'Unione europea. È stata la manifestazione di una contraddizione palese tra teoria e prassi. Una contraddizione che evidenzia come il modello della moneta come variabile neutra non funziona, confermando che la moneta è, in realtà, un rapporto sociale gerarchico.
Un economista controcorrente
André Orléan è direttore di ricerca al CNRS e di studi alla «École des Haute Études en Sciences Sociales». Ha fatto parte della Scuola Francese della Regolazione. Attualmente è membro del laboratorio Paris-Jordan-Sciences économiques. I suoi interessi di ricerca si sono sempre concentrati sul ruolo sociale svolto dalla moneta e dai mercati finanziari. Fondamentali al riguardo sono i due testi: «La violence de la monnaie» (con Michel Aglietta) e «Le pouvoir de la finance», mai tradotti in Italia. Tra i suoi scritti recenti, ricordiamo: «La monnaie entre violence et confiance» (ancora con Aglietta) e «Petit dictionnaire des mots de la crise» (con Ph. Frémeaux e G. Mathieu).
Vorrei tornare sulle parole di Piero Grasso a proposito di mafia e politica, dette il 26 maggio a Firenze davanti alle vittime della strage dei Georgofili. L’intervista rilasciata a Francesco La Licata dal Procuratore nazionale Antimafia chiarisce infatti alcuni punti essenziali, e pone quesiti alla classe politica e a tutti noi. La domanda che formula, implicita ma ineludibile, è questa: come funziona la memoria collettiva in Italia? Come vengono sormontati i lutti, e vissuti i fatti tragici, i mancati appuntamenti con la giustizia?
In questo giornale ho cercato prime risposte, evocando la richiesta, formulata il 7-8-98, di archiviazione dell’indagine su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi a Roma, Firenze e Milano nel ’93-’94: richiesta firmata da Grasso assieme a quattro magistrati, e accolta poi dal gip di Firenze. Nella richiesta era chiaro il nesso fra Cosa nostra e il soggetto politico nato dopo Tangentopoli (Forza Italia), ma mancavano prove di un’«intesa preliminare». Quell’atto mi parve più esplicito di quanto detto dal procuratore il 26 maggio, e su tale differenza mi sono interrogata. Ma l’interrogativo, più che Grasso, concerne in realtà i politici, e tramite loro l’Italia intera: giornalisti, elettori, ministri ed ex ministri di destra e sinistra.
Per chiarezza, vorremmo citare i principali passaggi della richiesta di archiviazione e confrontarli con quello che Grasso afferma oggi. Nella richiesta (da me impropriamente chiamata «verbale», domenica scorsa) è scritto: «Molteplici (sono) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa Nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contrasto della criminalità organizzata». E ancora: il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come autore-1 e autore-2 e rappresentanti il nuovo «soggetto politico imprenditoriale» in contatto con Cosa nostra) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale a dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Il testo firmato da Grasso è inedito, ma gli argomenti che esso contiene appaiono in documenti che la classe politica conosce bene: il decreto di archiviazione dell’inchiesta di Firenze, e quello che archivia la successiva inchiesta di Caltanissetta su Berlusconi, Dell’Utri e le stragi di Capaci e via D’Amelio (3-5-02). Il testo è pubblicato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza in un libro, «L’agenda nera», che uscirà il 10 giugno per Chiarelettere.
Ha ragione dunque il procuratore a dire che nella sostanza non c’è nulla di nuovo in quello che ha ricordato giorni fa a Firenze («Cosa nostra ebbe in subappalto una vera e propria strategia della tensione», per creare disordine e dare «la possibilità a una entità esterna di proporsi come soluzione per poter riprendere in pugno l’intera situazione economica, politica, sociale che veniva dalle macerie di Tangentopoli. Certamente Cosa nostra, attraverso questo programma di azioni criminali, che hanno cercato d’incidere gravemente e in profondità sull’ordine pubblico, ha inteso agevolare l’avvento di nuove realtà politiche che potessero poi esaudire le sue richieste»). Secondo alcuni il procuratore avrebbe oggi alzato il tiro, ma non è vero: semmai dice meno cose, su Forza Italia. Ed ecco la conclusione cui giunge nell’intervista: «L’idea che io mi sono fatto di quel terribile momento storico del ‘92 e del ‘93, molto prima dello scorso 26 maggio, era rintracciabile in moltissimi interventi pubblici, oltre che in tre libri pubblicati dal 2001 al 2009. Ritenevo e ritengo ancora quella ricostruzione storica una sorta di patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito».
Proprio qui tuttavia è il punto che duole. L’osceno italiano di cui parla spesso Roberto Scarpinato, procuratore generale di Caltanissetta, e cioè il potere reale esercitato «fuori scena», di nascosto, esclude l’esistenza di un «patrimonio della memoria collettiva definitivamente acquisito». A differenza dell’America, o della Germania che di continuo rivanga il proprio passato nazista, l’Italia non ha una memoria collettiva che archivi stabilmente la verità e la renda a tutti visibile. Da noi la memoria storica si dissipa, frantumando e seppellendo fatti, esperienze, sentenze. E di questo seppellimento sono responsabili i politici, per primi.
Senza voler fare congetture, si può constatare che Grasso forse dice meno di quel che sottoscrisse nel ‘98, anche se dice pur sempre molto. Sono i politici a parlare più forte di quanto parlarono tra il ‘98 e oggi.
Sono i politici ad allarmarsi giustamente per le sue parole, a chiedere più verità, come se non avessero già potuto allarmarsi in occasione dei tanti atti giudiziari riguardanti quello che Grasso chiama «il nostro 11 Settembre: dall’Addaura, a Capaci, a via D’Amelio, fino alle stragi di Roma, Firenze, Milano e a quella mancata dello stadio Olimpico di Roma». Non sono i giudici ad aver dimenticato le deposizioni di Gabriele Chelazzi, il pm fiorentino titolare dell’inchiesta sui «mandanti esterni» delle stragi del ‘93, davanti alla commissione nazionale Antimafia il 2-7-02. Nella lettera ritrovata dopo la sua morte, Chelazzi si lamenta con i suoi uffici e scrive: «Mi chiamate alle riunioni solo per dare conto di ciò che sto facendo, quasi che fosse un dibattito».
È così che la memoria fallisce. Che l’osceno resta fuori scena, ostacolato solo dalle intercettazioni. Atti giudiziari e libri vengono sepolti nei ricordi perché sono trasformati in opinioni, per definizione sempre opinabili. Il vissuto viene trasferito nel mondo del dibattito e le sentenze diventano congetture calunniose. È quello che permette a Giuliano Ferrara, sul Foglio del 31 maggio, di squalificare le parole di Grasso definendole «ipotesi e ragionamenti» dotati di «uno sfondo politico e nessun avallo giudiziario». Il patrimonio della memoria collettiva, lungi dall’esser «definitivamente acquisito», è permanentemente cestinato.
I politici partecipano allo svuotamento della memoria usandola quando torna utile, gettandola quando non conviene più. Lo stesso allarme di oggi, non è detto che durerà. È come se nella mente avessero non un patrimonio, ma un palinsesto: un rotolo di carta su cui si scrive un testo, per poi raschiarlo via e sostituirlo con un altro che lascia, del passato, flebilissime tracce. L’intervista di Violante al Foglio, l’1 giugno, è significativa: in essa si dichiara che è arrivato il momento di «capire senza rimestare», di «mettere ordine» tra fatti forse non legati. Manca ogni polemica con il pesante attacco a Grasso, sferrato il giorno prima dal quotidiano.
Dice Ferrara che «non si convive inerti con un’accusa di stragismo a chi governa». Può darsi, ma l’Italia ha dimestichezze antiche con l’inerzia. Se non le avesse, non dimenticherebbe sistematicamente i drammi vissuti, e come ne è uscita. Non dimenticherebbe che del terrorismo si liberò grazie ai pentiti. Che tanti crimini sono sventati grazie alle intercettazioni. Come ha detto una volta Pietro Ichino a proposito dei ritardi della sinistra sul diritto di lavoro, in Italia «si chiudono le questioni in un cassetto gettando la chiave». È il vizio di tanti suoi responsabili (nella politica, nell’informazione) pronti a convertirsi ripetutamente. Pronti al trasformismo, a voltar gabbana. Chi non sta al gioco, chi nel giornalismo ha memoria lunga e buoni archivi, viene considerato uno sbirro, o un rimestatore, o, come Saviano, un idolo da azzittire e abbattere. Occorre una politica più attiva e meno immemore, se davvero si vuole che i giudici non esercitino quello che vien chiamato potere di supplenza.
Mentre il colosso dell´energia Bp si avvia a gestire nell´Atlantico un'altra settimana del più enorme disastro ecologico della storia, il pozzo petrolifero continua ad espellere greggio e ad immetterlo nell´ambiente. L´operazione Top kill, che avrebbe dovuto soffocare la falla, per ora non ha risolto la situazione.
La Casa Bianca, com´è noto, è intervenuta direttamente nella persona del presidente Barack Obama. Egli, in pesante crisi di consensi, ha assunto un atteggiamento laconico, con cui si è sobbarcato con piglio deciso la responsabilità politica dell´accaduto, prendendo perfino un´aria pensosa, quando si è chinato a raccogliere sulla spiaggia un brandello oleoso, simbolo inquietante di un disastro ambientale che ha ormai sovrastato tutte le cognizioni e le capacità di controllo tollerabili.
Non è difficile immaginare come andrà a finire la cosa. Nonostante le preoccupazioni forse eccessivamente apocalittiche di Carol Browner, responsabile dell´ambiente dell´amministrazione americana, sicuramente il rimedio alla fine in qualche modo arriverà. E anche qualora dovesse essere auspicabilmente prima anziché dopo, il danno all´ecosistema si è già consumato irreparabilmente.
Lasciando un momento sullo sfondo però le soluzioni concrete, è quanto mai utile indugiare a riflettere un momento sulle ragioni che hanno reso possibile non tanto il verificarsi del fenomeno, quanto l´esistenza generale di un sistema economico di tal fatta, il quale inevitabilmente potrebbe portare in futuro qualsiasi Paese a trovarsi in situazioni simili se non peggiori dell´odierna.
Tanto per cominciare, l´accaduto ha qualcosa in sé d´istruttivo e di paradossale. E non si tratta dello scontato valore della retorica ambientalista, ma esattamente del suo contrario. I rischi, in effetti, che possono derivare alla natura dalle imprese industriali rivelano direttamente che l´ecologismo non è che un escamotage per sollevare un problema reale dal lato sbagliato, senza indicare e affrettare alcun tipo di soluzione vera e duratura che non sia il successo politico di qualche romantico venditore di sogni.
Mi spiego. Fermo restando il rispetto che si deve per qualunque idealismo, non mi sembra che le tante campagne fatte da eminenti personagi "verdi" in tutto il mondo siano servite a qualcosa fin ora, quando solo nel Golfo del Messico vi sono più di tremila pozzi attivi, affini, per non dire uguali, a quello danneggiato, che continuano ad estrarre petrolio nelle stesse condizioni di sicurezza assicurate da Bp. La marea nera che si espande, insomma, è il simbolo epocale dell´impotenza della politica, nonché l´emblema di quanto diverso sia il problema ecologico nelle sue cause e nei suoi effetti dalla politica ambientale che si continua ad ostentare.
L´interrogativo da porsi, in altre parole, è se abbia senso collocare solo a livello di consenso pubblico emozionale la questione dell´ambiente, quando la più grande e consolidata democrazia del mondo si trova inerte davanti all´onnipotenza delle multinazionali che lavorano l´olio nero. Il punto in questione, in questo caso, è evidente. La democrazia mostra il suo volto oscuro, incancellabile e disumano che, alle volte almeno, si chiama plutocrazia. Dove, cioè, gli interessi economici hanno un´influenza tanto grande, la democrazia finisce per divenire il ricettacolo degli utili micidiali e spregiudicati di colossali industrie petrolifere. Tanto che l´assunzione di responsabilità di Obama è parsa, in fin dei conti, di una debolezza estrema. Se non esiste a monte la forza di imporre e garantire dei criteri ambientali validi per tutti, certamente è impossibile farlo a valle, quando ormai il disastro si è consumato e la Bp si mostra pronta a pagare, senza batter ciglio, una somma pari al debito pubblico italiano pur di risolvere l´intoppo.
Il problema ecologico, in definitiva, insieme alle molte altre questioni cruciali per la sopravvivenza complessiva del genere umano, non può essere il vessillo di movimenti minoritari che speculano sulla cattiva coscienza di tutti noi, ma deve diventare la parte preminente di una nuova agenda etica dell´umanità.
L´alternativa è quanto mai chiara. O gli organismi internazionali, preposti all´elaborazione di regole valide per tutti, saranno in grado in futuro di stilare una tavola dei principi etici che devono indirizzare ovunque i comportamenti di tutti gli operatori economici, oppure ci troveremo sempre davanti a democrazie fragili che non riescono a vincere la tendenza sovrana degli interessi globalizzati delle grandi corporation.
E non si dica che quanto diciamo sia un´utopia impossibile da realizzare. Gli Stati Uniti per decenni hanno fatto prevalere sul mondo intero i loro obiettivi - quasi sempre giusti, per fortuna - governando le Nazioni Unite con il proprio prestigio e la propria influenza politica e militare. Oggi, purtroppo, è giunto il momento in cui i pericoli ecologici e umanitari impongono la condivisione di criteri antropologici ed etici in grado di garantire la sopravvivenza umana degli ecosistemi del pianeta, ben al di sopra cioè delle rendite economiche di qualche oligarchia.
Ed è proprio questo il nodo che Obama deve sciogliere: cambiare la politica, oppure rassegnarsi ad essere un gracile strumento, trascinato dalle onde del potere. Non è possibile, d´altronde, che il mercato vada avanti ad incrementare interessi e profitti dappertutto, mentre l´etica conti solo durante le campagne elettorali, per poi rimanere relegata nelle soffitte delle cancellerie tra le inutili scartoffie burocratiche.
In ultima istanza, l´ecologia è un valore solo se diviene parte fondamentale di un discorso etico universale, il cui compito è proteggere la qualità intrinseca della vita umana dai falsi ambientalisti di facciata e dagli opulenti egoismi di una planetaria casta di speculatori.
Milano è una città sotto assedio ben prima che i cento milioni di metri cubi di cemento previsti dal Pgt la travolgano definitivamente. Attacchi alla linea del cielo. A sfigurare i tetti spuntano ogni dove abbaini che paiono cucce per cani giganti, antenne dei telefonini che hanno l’aspetto di scheletri rattrappiti, impianti di condizionamento alti uno, due piani: il tutto a mettere in crisi ogni idea di equilibrio e di dignità degli organismi edilizi.
Attacchi al sottosuolo per creare parcheggi e box privati in luoghi centrali e semicentrali con le immancabili rampe e i volumi tecnici che sbucano come funghi a rovinare l’unità di piazze e strade (quando il fallimento della società che ha intrapreso l’opera non lascia vere e proprie voragini, paesaggi di guerra in tempo di pace).
Attacchi all’architettura dei luoghi. Come la svendita della residua decenza di spazi pubblici con operazioni pubblicitarie triviali. Esemplare quella che ha recentemente interessato l’intera cerchia dei Bastioni; o il sequestro ripetuto di monumenti impacchettati per anni in giganteschi teli pubblicitari con la scusa del loro restauro.
Ultimo fronte dell’assedio è la richiesta di soggetti privati di occupare ,con volumi, spazi pubblici prestigiosi. La Apple per il suo cubo di vetro ha puntato nientemeno che su piazza del Duomo. E ora, sulle stesse orme, la mossa di “Cardi black box”, la nuova galleria d’arte contemporanea promossa da facoltosi investitori. Come scriveva Oriana Liso ieri su queste pagine, si vuole piazzare in uno spazio pubblico prestigioso un ottuso e arrogante parallelepipedo nero di almeno tre/quattro piani con base di venti metri per venti (un oggetto per intenderci delle dimensioni di uno dei due caselli costruiti nel 1828 da Rodolfo Vantini a Porta Venezia, senza averne la benché minima grazia). Cosa presuppongono queste proposte? Che lo spazio pubblico sia in vendita. Che luoghi urbani che sono patrimonio di tutti, stelle polari dell’immaginario e della memoria collettiva, possano essere manomessi a piacimento, purché si trovi l’accordo fra privati aggressivi e amministratori spregiudicati e compiacenti. I quali, anche solo per il fatto di giudicare interessanti e ammissibili simili proposte indecenti, danno l’impressione di trattare la cosa pubblica come fosse cosa loro.
La mossa dei proprietari della “Cardi black box” si distingue per un’altra ragione. Oltre a proporsi come ulteriore atto di svendita di prezioso suolo pubblico, punta a rimuovere un monumento come quello di Aldo Rossi in via Croce Rossa. Due piccioni con una fava? Molti di più, perché qui i piccioni sarebbero tutti i cittadini milanesi, ovvero i proprietari di quel monumento (donato alla città dalla Metropolitana Milanese) e di quel sito. Si sa che l’opera di Aldo Rossi è stata oggetto di attacchi, più o meno in buona fede (quel punto fa gola a molti, a cominciare da chi possiede gli immobili che vi si affacciano). Quello che dà fastidio è il suo carattere squisitamente pubblico in un contesto che vede il trionfo dello shopping di lusso. Se mai l’operazione della sua rimozione dovesse andare in porto, Milano si priverebbe di un gioiello. Un organismo che fa da appropriato fondale a via Montenapoleone e allo stesso tempo costituisce un luogo-soglia fra via Manzoni e via Monte di Pietà. Una minuscola piazza-teatro capace di sospendere il “tempo del mercante” in uno spazio civile dove hanno modo di dialogare i marmi del Duomo e i gelsi, a testimonianza di due grandi motori dell’identità lombarda.
Andare a caccia di petrolio tra i vulcani è l'ultima frontiera delle corporation. La missione della San Leon Energy, compagnia irlandese con sede in Italia (in provincia di Lecce e a Roma) punta dritto ai giacimenti del canale di Sicilia, con una concessione ministeriale che lascia carta bianca per una porzione di 482 chilometri quadrati. Che in quei fondali ci siano cospicue riserve di gas e petrolio è noto da almeno 45 anni, quando le ricerche targate Eni individuarono il tesoro sommerso. Quel che allora non si conosceva era la presenza, in quei banchi sottomarini, di un gigantesco vulcano in attività: l'Empedocle, la cui posizione è a poche miglia dalla costa e il cui fermento è certificato dagli studi dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e dalle ricerche di Mimmo Macaluso, partite all'analisi dell'isola Ferdinandea, un piccolo cono di terra che affiora periodicamente per poi scomparire.
L'isolotto è una delle bocche del gigante sommerso. Che qualcuno tentasse di mettere le mani sul petrolio del Canale di Sicilia sembrava impossibile, proprio alla luce della presenza di vulcani in attività. A Sciacca se ne sono accorti quasi per caso. Un foglio di carta appeso all'albo pretorio comunale annunciava per fine maggio il termine utile per presentare le osservazioni contro la richiesta di autorizzazione formulata dalla società irlandese. I documenti presentati dalla San Leon Energy spiegano che le ricerche petrolifere verrebbero effettuate a meno di due chilometri della costa, in un'area dove non solo si trovano straordinari siti archeologici, aree marine protette e riserve naturali, ma soprattutto ci sono i vulcani attivi e un rischio sismico.
Il programma della compagnia irlandese prevede una fase di ricerca e due campagne di trivellazione. La ricerca, secondo i documenti, verrebbe effettuata con uno strumento che si chiama Air Gun, una sonda che spara colpi di aria compressa e crea onde sismo-elastiche. Se i dati relativi alla descrizione dell'area sono grossolani e inadeguati, non migliore l'analisi del rischio relativa al sistema di prospezione sismica. Gli scienziati la chiamano subsidenza antropica ed è il rischio sismico connesso alle campagne di ricerca del petrolio.
Il documento che ha consentito alla San Leon Energy la concessione del ministero dello Sviluppo economico è d'altra parte ricco di incongruità e stranezze. La descrizione delle marinerie costiere del versante sud della Sicilia e delle loro attività è davvero bizzarra. Nelle tabelle tecniche è scritto che a Sciacca, una delle principali sedi della pesca siciliana, esisterebbero solo tre pescherecci attivi nella pesca a circuizione, per poi sostenere che "il traffico marittimo per le motonavi di appoggio e rifornimento sarà limitato a un passaggio giornaliero da e verso il porto di approdo più vicino (presumibilmente Ancona)". Citare Ancona nella relazione dedicata alle ricerche del canale di Sicilia potrebbe significare che la San Leon Energy abbia interessi anche in Adriatico. E in effetti Finbarr Martin Bryant, il legale rappresentante della San Leon Energy, è anche al vertice della Petroceltic Elsa, altra società dublinese. E la Petrolceltic ha le concessioni per le ricerche nell'Adriatico. Entrambe le società, la San Leon e la Petroceltic, hanno sede al numero 6 di Northbrook road a Dublino. Una coincidenza?
Ora la scure per il taglio dei contributi statali agli enti culturali è nelle mani del ministro Bondi. Se seguirà i criteri clientelari utilizzati per i pingui fondi Arcus (molto ai “fedeli”, del clan Ghedini ad esempio, nulla ai meritevoli), saremo alla “bassa macelleria culturale”. Targata MiBAC. Il suo “pupillo” Sgarbi deve insediarsi a Venezia, al Polo Museale, ma è sospeso per 10 giorni per la condanna definitiva a 6 mesi e 10 giorni di reclusione del ‘96, “per produzione di documenti falsi e assenteismo” ai danni dello Stato. E poi? Alla faccia dei tagli, avrà un robusto contratto “esterno”, da dirigente di prima fascia pari a direttore generale, firmato Bondi da lui definito un incrocio fra don Abbondio e Massimo Boldi. Morta la commedia dell’arte? Per niente. Sopravvive nel cuore dello Stato. Coi nostri soldi.
C’è un altro ministro ormai “storico”: Maria Stella Gelmini. E’ riuscita a ridurre o eliminare le rare ore di Storia dell’arte elemento, si sa, trascurabile in Italia (ignoranti che fate la fila per Caravaggio: era un pittore francese, borgognone, Le Caravage…). Via pure negli Istituti Professionali destinati a formare le nuove guide per il turismo culturale. Le quali così faranno la figura di quelle abusive che presentano il Colosseo “opera di Giulio Cesare”. Via anche lo studio del diritto per i geometri. Così potranno dire di non sapere nulla di vincoli e di altre bubbole sul paesaggio. E la musica, la sua storia? Inessenziali, zero via zero. E pensare che Radio3 Rai ha aumentato del 60% gli ascolti da quando è di nuovo, con Marino Sinibaldi, rete culturale, e che Rai3 ha segnato uno splendido 15,5 % di share con Barenboim/Chopin da Fazio. La domanda culturale c’è, da fame autentica. Ma a cosa ridurranno l’offerta?
Dopo l'addio di Scajola Tremonti ha spolpato all'osso il ministero per lo Sviluppo. La metà dei tagli ai vari dicasteri è infatti piombata su via Molise. Una resa dei conti economica ma soprattutto politica, visto che allo Sviluppo insieme a Romani sono rimasti due ex An come il finiano Urso (viceministro) e Saglia. Del tutto ignari - pare - della scure da un miliardo che si stava per abbattere sul loro portafoglio.
Tra i tagli decisi da Tremonti ce n'è uno che non migliora il bilancio dello stato e sega completamente una delle gambe su cui si regge il sistema di incentivi alle energie rinnovabili. In poche righe (art. 45), il decreto abolisce l'obbligo da parte del Gestore dei servizi energetici (Gse) di acquistare i «certificati verdi» in eccesso sul mercato elettrico.
Una norma anodina che però taglia all'improvviso e retroattivamente oltre mezzo miliardo di incentivi annui destinati a chi produce energia pulita da sole, vento, biomasse, acqua, etc. «In un colpo colpo e senza nessun beneficio per le casse dello stato - attacca Angelo Bonelli dei Verdi - si cancellano le certezze di chi investe nel futuro e si affonda un comparto come quello delle rinnovabili su cui altri paesi investono per creare migliaia di nuovi posti di lavoro».
Il meccanismo, introdotto da Bersani nel 2008, era fatto così: per i suoi impegni europei l'Italia è obbligata a produrre una quota di energia «pulita». Le aziende che non lo fanno perché bruciano petrolio, carbone o gas devono comprare i «certificati verdi» dalle aziende «pulite» come compensazione antiCO2. A fine anno, se si verificano disallineamenti tra domanda e offerta, il Gse interviene per comprare le quote di energia verde in eccesso garantendo stabilità e sviluppo al sistema. I costi finali venivano poi girati sulle bollette dei cittadini in una parte della tariffa A3 pari a circa 7 euro a famiglia all'anno. Il Gse nel 2009 ha acquistato «certificati verdi» in soprannumero per 630 milioni di euro. La stima per il 2010 - causa crisi e calo dei consumi elettrici - è calata a circa 550 milioni.
Al Gestore - che fa da mediatore in questa partita di giro «virtuosa» tra consumatori e aziende - ufficialmente non commentano le decisioni del governo. Ma negli uffici si fa notare che le domande per l'acquisto dei certificati sono già state presentate quasi tutte il 30 marzo scorso e quindi non è chiaro che fine faranno dopo il decreto e l'iter parlamentare.
Per le associazioni di categoria (Anev, Aper, Fiper, Agroenergia) si tratta di un colpo mortale che destabilizza investimenti e piani industriali già in via di sviluppo. Nel solo eolico - denuncia l'Anev - sono impiegati 25mila lavoratori (+5mila in un anno critico come il 2009). Intere aziende, prive di certezze industriali e di incentivi già stabiliti, potrebbero finire in bancarotta. Simone Togni, segretario generale dell'Anev, sottolinea che «l'Italia deve rispettare impegni europei molto precisi» e dunque deve garantire la produzione di energia rinnovabile. Energia che per gli stessi meccanismi dei certificati verdi, a regime «può abbassare le tariffe».
Secondo il Gse la quota effettiva di elettricità rinnovabile è il 18% del totale (il 23% non normalizzato). «La verità - spiegano sempre dal Gestore - è che dovremmo almeno raddoppiare la produzione per portare la quota al 28-35% in modo da assicurare gli obiettivi europei anche quando ci sarà la ripresa e l'aumento dei consumi».
Che al governo Berlusconi non piaccia la green economy è un eufemismo. Nucleare a parte, il sistema è abbandonato a se stesso. Il riordino degli incentivi (a partire dal conto energia per il fotovoltaico) è atteso da più di un anno. Mentre entro giugno il nostro paese presenterà a Bruxelles il «piano d'azione» che la comunità europea chiede a tutti i paesi per rispettare l'obiettivo del 20% di energia pulita entro il 2020. «I tagli alle rinnovabili e le polemiche sugli incentivi servono solo a rendere più 'digeribile' la scelta del nucleare», critica Roberto Della Seta, Pd ed ex Legambiente. Nel 2009 (dati Terna) il 16,3% dell'energia verde italiana è stata prodotta dai fiumi (idroelettrico), seguono biomasse (2,6%), eolico (2,4%), geotermico (1,8%) e fotovoltaico (0,2%).
Guardata dal punto di vista dell’urbanistica e del progetto urbano, la parabola delle amministrazioni di centrosinistra a Napoli può essere delimitata da due fatti urbanistici ben definiti. Il primo è la disordinata e spiacevole vicenda di Bagnoli, emblema fisico, nei proclami demiurgici di fine anni Novanta, di quella che doveva essere la rinascita e la riconversione di un pezzo di città. L’ultimo è il Grande Programma per il centro storico, un arcipelago di progetti e di idee in attesa di finanziamenti.
Questa parabola, lunga circa quindici anni, è stata inframmezzata da proposte e progetti "decisivi", "imperdibili", "cruciali", "pronti" e rimasti sistematicamente vuoti annunci: l’inutile e sbracata variante urbanistica à la carte con la quale ci si propose di accogliere la Coppa America a Bagnoli; la strana fretta con cui si stava cercando, in modo stravagante, di realizzare un nuovo stadio, con annessi mega-servizi, nellìarea delle caserme a Secondigliano; il concorso di architettura, vinto dal francese Michel Euvè, per il nuovo waterfront e la riqualificazione dell’area monumentale del porto, sprecato assieme ai soldi investiti per la progettazione; le decine di milioni di euro ingoiati dal restauro dell’Albergo dei Poveri senza che nessuna funzione sensata vi sia stata ancora allocata, reiterando da anni un curioso vuoto di idee e fatti (Città dei Bambini, Stoà e altre genericità); il recupero delle Vele, edifici ingiustamente simbolo del degrado della periferia pubblica napoletana, martoriate prima da giudizi architettonici sommari, poi dal tritolo, poi da fasulli progetti di riconversione e riutilizzo (università, protezione civile); persino l’ampliamento del Centro Direzionale, già esecutivo e appaltato, è fermo in incomprensibili incognite burocratiche e nuove incertezze relative al project financing.
In questo vasto, e solo parziale, repertorio di occasioni annunciate e sistematicamente mancate, il Grande Programma sarebbe potuto ancora diventare una buona, ultima, opportunità, per la città, in grado di costruire almeno una "visione" credibile di futuro. In questo senso, proprio su questo giornale Carmine Gambardella proponeva utilmente l’immagine di una Napoli "città-fabbrica della conoscenza", da attuare promuovendo soprattutto azioni immateriali e non soltanto "fisiciste". In ultimo, la notizia del blocco, da parte della nuova giunta regionale, dei 222 milioni di fondi europei per il centro storico, non può che allarmare, perché ancora una volta strategie politiche poco comprensibili vengono fatte a spese della collettività.
È all’interno di questa cornice instabile, nella quale i ritardi che si stanno accumulando sono già insostenibili, che si discuterà, negli incontri che si terranno il 3 e 4 giugno a Napoli e Ravello, in occasione dell’ennesima visita in città della commissione Unesco, per valutare in che modo e in che tempi il "patrimonio" del centro storico di Napoli (del quale, è forse utile ricordarlo, solo il 16 per cento è interessato dal Grande Programma) sarà tra le azioni prioritarie dell’amministrazione comunale e del nuovo governo regionale. In particolare, come hanno già fatto gran parte degli altri siti italiani "patrimonio dell´umanità" (Firenze, la Val d’Orcia, Assisi), si dovrà discutere della redazione del cosiddetto Management plan (Piano di Gestione), che rappresenterà il riferimento normativo e prestazionale al quale dovranno adeguarsi tutte le azioni, materiali e immateriali, che riguarderanno il centro storico, garantendo la coerenza degli interventi. L’alternativa, già paventata, è la graduale espulsione dalla lista del patrimonio Unesco.
E questo mentre dovunque il marchio "Unesco" viene utilizzato come brand, attraverso il quale vendere il prodotto "città", o "territorio", e attorno al quale vengono modellati i progetti-guida, i canali prioritari di finanziamento, le politiche e persino i programmi politici, che di un tale marchio fanno elemento di comunicazione e diffusione di idee. Tra l’altro, come già denunciato nella precedente visita congiunta degli ispettori Unesco e Icomos del dicembre 2008, a Napoli appare ancora insufficiente il coinvolgimento trasparente di quanti possono fornire contributi a questo processo, aumentando la condivisione delle informazioni e delle soluzioni.
Con quali argomenti l’amministrazione comunale interagirà con i sempre più meravigliati delegati Unesco? La giunta Caldoro ha valutato con rigore gli esiti di scelte che rischiano di diventare poco strategiche e ulteriormente penalizzanti la città? Come evitare, insomma, che anche quanto programmato per il centro storico sia catalogato anch’esso, e tra non molto, fra i progetti soltanto enunciati o malamente portati a termine?