Libertà d’impresa, ecco la legge meno vincoli anche nell’urbanistica
Valentina Conte
La «rivoluzione liberale» voluta da Berlusconi e Tremonti per le imprese arriva oggi alle 12 sul tavolo del Consiglio dei ministri. All’esame del governo, la tanto invocata proposta di riforma degli articoli 41 e 118, comma quarto, della Costituzione, considerata dall’esecutivo un passaggio indispensabile e imprescindibile per liberale l’economia dalla «zavorra» di regole e burocrazia e rilanciare così la crescita. E con le nuove regole per la libertà di impresa si scioglie poi un altro nodo importante, quello della nomina del successore del dimissionario Scajola alla guida del ministero dello Sviluppo economico. Il nome individuato sembrerebbe quello di Aldo Brancher, uomo di fiducia del premier e già sottosegretario alle Riforme.
La proposta di riforma costituzionale, secondo quanto riportato in tarda serata dall’agenzia Apcom, avrà la forma di due testi distinti: un disegno di legge ordinario sulla segnalazione di inizio attività imprenditoriale e un altro disegno di legge costituzionale, che andrà a variare gli articoli della Carta del ‘48. In entrambi i casi, precisa Palazzo Chigi in una nota, si parla di «avvio di discussione» e non di «approvazione». Tra i punti chiave dei "nuovi" articoli 41 e 118, il principio della «buona fede» dell’imprenditore che consentirà di avviare un’attività con una semplice segnalazione autocertificata, sapendo che i controlli avverranno solo «ex post». Fatti salvi «i casi regolati da legge penale». Ma la vera novità, che farà discutere, è in materia urbanistica. Secondo la nuova legge costituzionale, lo Stato e gli enti locali avranno tempo sei mesi per adeguare le normative in modo che «le restrizioni del diritto di iniziativa economica siano limitate allo stretto necessario».
Le modifiche alla Costituzione, annunciate da Tremonti il 4 giugno scorso durante il G20 coreano di Busan e poi ribadite ai giovani industriali di Santa Margherita Ligure e alla festa nazionale Cisl («Se non modifichi l’articolo 41 non vai da nessuna parte»), sono oggetto da settimane di un aspro dibattito. Da una parte il presidente del Consiglio, che le invoca come liberazione da un testo costituzionale «datato» in materia di lavoro e impresa e di matrice «catto-comunista», come ha ripetuto all’assemblea della Confartigianato prima e a quella della Confcommercio poi. «Oggi - ha spiegato il premier - chi vuole avviare un’attività deve passare per decine di autorizzazioni. Noi vogliamo fare in modo che chi vuole aprire una pizzeria, possa farlo senza autorizzazioni».
Posizioni condivise da Confidustria e Antitrust. Dall’altra parte, opposizione ed economisti, che individuano in questa mossa del governo un pretesto per attaccare la Costituzione che invece, ribatte Bersani, «va rafforzata e preservata nei suoi punti di fondo», anche perché, sottolinea il segretario del Pd, «l’articolo 41 non ha mai impedito né potrebbe impedire l’iniziativa economica». «L’ostinazione di governo e maggioranza a non capire o far finta di non capire che per semplificare la vita delle imprese non c’è bisogno di scomodare la Costituzione è allo stesso tempo preoccupante e sospetta», dice Michele Ventura, vicepresidente vicario del Pd alla Camera. «O non vogliono far nulla o hanno obiettivi destabilizzanti».
Norme generiche e confuse rischiano di stravolgere il paesaggio
Lucio Cillis – intervista a Salvatore Settis
C’è un passaggio nel disegno di legge costituzionale di modifica agli articoli 41 e 118 della Carta, che fa scorrere dei brividi sulla schiena di chi si occupa di tutela del paesaggio, di urbanistica.
Salvatore Settis, archeologo, scrittore, e direttore della Normale di Pisa, è in questo caso uno degli interlocutori ideali. Settis premette di «non conoscere» nel dettaglio il testo appena battuto dalle agenzie di stampa. Ma quando nel ddl compare inaspettatamente il richiamo alla «materia urbanistica», quando si concedono tre mesi a Comuni, città metropolitane, Province e Regioni per adeguare le proprie normative in modo da "limitare le restrizioni del diritto di iniziativa economica", i dubbi, così come i timori di un colpo di mano mascherato tra le righe del documento, cominciano a farsi largo tra i pensieri di chi si occupa di queste tematiche.
Professore, come giudica le novità in materia urbanistica introdotte nel ddl che oggi verrà esaminato dal Consiglio dei ministri?
«Da questa prima lettura a me sembra una pessima idea. In questo modo, se quello che leggiamo oggi sarà confermato, si rischia di stravolgere la tutela stessa del paesaggio. Garantita, vorrei sottolineare, dall’articolo 9 della Costituzione...».
Eccolo, professore: "La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione...". Il ddl del governo, tra l’altro, chiama in causa "normative comunitarie o internazionali" e concede tre mesi agli Enti locali per adeguarsi alla nuova legge costituzionale. Quasi a salvaguardia di eventuali abusi sul fronte urbanistico, non crede?
«Intanto a me sembra che queste norme siano state scritte in modo generico e confuso. Inoltre, va detto che a livello europeo non c’è nulla di così "protettivo", non c’è niente di più alto rispetto all’articolo 9 della nostra Costituzione...».
Quindi lei ha il sospetto che dietro questa modifica si possano celare dei colpi di mano?
«Ripeto, da questa prima lettura del testo, intravedo dei seri rischi. Qualsiasi cosa attacchi in modo diretto l’articolo 9, è un qualcosa che attacca direttamente l’urbanistica e il paesaggio...».
Guglielmo Epifani, segretario generale della Cgil, si avvia alla fine del suo lungo mandato in uno dei momenti più turbolenti per il sindacato e dei più drammatici per il mondo del lavoro. Una manovra economica che il governo vuole durissima soprattutto per le spalle dei più deboli, cioè le fasce di reddito dei lavoratori dipendenti; una trattativa, quella tra Fiat e metalmeccanici sull'organizzazione della produzione a Pomigliano d'Arco, che lo schieramento degli imprenditori vive come la chiave di volta dei nuovi rapporti in fabbrica. In mezzo, le scelte di un sindacato non più unitario da tempo, la scommessa sul suo ruolo, la sfida sul suo futuro.
Epifani, perché Pomigliano è la madre di tutte le trattative?«Perché la Fiat dice: o così o non facciamo l'investimento; oggi se vogliamo fare fabbrica dobbiamo essere più flessibili, ma bisogna tenere sempre conto che c'è un limite di flessibilità delle persone...».
Lei cosa pensa: l'accordo va fatto o no?«L'opinione della Cgil è che l'accordo vada fatto. Ma non si possono mettere sul piatto richieste che mettono in discussione diritti costituzionali».
Ultimamente la Cgil è rimasta sola: a palazzo Chigi vanno gli altri sindacati e voi no. Vi sentite in castigo?«Questa è l'unica democrazia al mondo dove accade che un governo non voglia discutere con un'organizzazione sindacale: capita solo nei regimi autoritari, altrove si parla con tutti, per poi dire nel merito se una posizione è giusta o sbagliata. Cosa fanno i sindacati in Europa? Ogni tanto protestano, tutti. Lo fanno in Francia, in Grecia, in Spagna. C'è una parte della rappresentanza sociale che a volte deve esprimere con delle iniziative il suo punto vista. E dire i sì e i no».
Non si è un po' radicalizzato il no?«Non è vero: abbiamo firmato 45 contratti. Ma sull'arbitrato no, no, no: non è che la Cgil per caso ha ragione?».
La ragione si misura con il consenso. «Certo: infatti aumentiamo gli iscritti. E aspettiamo di votare, a dicembre, per le rappresentanze nei luoghi di lavoro. Vediamo che succede»
Nega di essere in difficoltà?«Voglio essere chiaro. Il sindacato è in difficoltà in tutto il mondo. In una gloabalizzazione di questo tipo, con la velocità di spostamento dei capitali, il rischio crescente di una concorrenza senza regole, non ho più il potere negoziale che avevo un tempo. O faccio questo o l'imprenditore prende l'azienda e la sposta da un'altra parte. Sono cambiati i rapporti di forza, in quest'epoca di liberismo, come sono cambiate la culture legate al lavoro, perché l'idea che si potessero fare soldi solo con la finanza non è finita, e il rapporto con il lavoro si è allentato sia nella rappresentaione che ne dà l'informazione, sia la cultura corrente».
Qual è il punto irrinunciabile?«Quello del sindacato confederale, che non protegge solo piccoli interessi ma prova a fare politiche che uniscano e pensino a tutti. Peccato che in questo momento non ci sia un interlocutore con un progetto vero di ammodernamento del paese».
Quanto influisce sul sindacato il fatto che a sinistra non ci sia più una forza politica trainante?«La novità vera di questi miei otto anni sta nel fatto che il centrosinistra non è mai stato in difficoltà come oggi. Pesa il grande fallimento dei due anni del governo Prodi, dove le speranze sono naufragate tra divisioni, irresponsabilità, risse continue. Forse è stato Prodi stesso a dirmi: "Ci vorrà tantissimo per riprendere". Non abbiamo colto fino in fondo lo tzunami che quella esperienza ha provocato, anche nella coscienza degli elettori, travolgendo la fiducia che il centrosinistra potesse governare bene, dando risposte ai problemi».
Questo vi ha danneggiato come forza sindacale?«Sì, soprattutto nelle battaglia parlamentari: avere un'opposizione più unita e più forte, non ci farebbe sentire soli, per esempio sulla storia dell'arbitrato».
Quali sono i nodi che vede all'orizzonte?«Il sistema degli ammortizzatori sociali, su cui il governo offre una soluzione corporativa; il mondo della precarietà; le grandi sfide delle riforme nel settore pubblico. Poi abbiamo bisogno di un po' di politica industriale perché navighiamo a vista. Infine, c'è il mezzogiorno dove i problemi sono tutti aggravati».
Questa è un'agenda paese. E l'agenda del sindacato?«Contrattare di più e non di meno. Per il futuro sono convinto che crescerà la contrattazione territoriale, e sociale, nei comuni grandi e piccoli e nelle provincie: è sempre più lì che i bisogni si esprimono, e la contrattazione è quasi sempre unitaria. Stiamo costruendo una grande rappresentaza sindacale nel territorio».
Non è più la fabbrica il luogo di elezione?«La fabbrica resta il terreno per contrattare su condizioni di lavoro, retribuzioni, turni. Nel territorio su quello che riguarda la vita dei cittadini. Faccio esempio: durante la crisi abbiamo contrattato per chi perde il lavoro mense e trasporti gratis. È una forma di sostegno al reddito. La rappresentazione di questo tipo di domanda sociale sta crescendo, sta diventando forte».
Che voto dà alla sua segreteria?
«Nessuno».
Neanche un sette e mezzo?
«Me lo darei alto, ma non sarei credibile».
Cosa farà dopo?
«Andrò a fare il presidente dell'istituto Bruno Trentin».
Che cos'è?
«Un nuovo isituto di ricerca sociale ed economica che nascerà dalla fusione di Ires e centro di formazione».
Ha il sapore di una fondazione...
«Come ha detto Veltroni, ognuno ha sua sua fondazione...».
Pentimenti?
«L'unica cosa che non mi piaciuto fare è stato alzarmi dal tavolo in Confindustria ai tempi di Montezemolo. Lo so che di si solito non ci si alza, ma avevano fatto una scorrettezza: le cose che avevamo definito le avevano cambiate; dovevamo discutere di un tema, e me ne sono trovato un altro. A slealtà ho risposto in questo modo».
Oggi il profilo di un leader sindacale è più trattativista o più combattente?«Per la Cgil, che attraverso il suo segretario ha bisogno di una identità visibile, precisa, in molti casi è il fare opposizione che prevale. Ma al fondo della Cgil resta la spinta a vedere i risultati. Lo dimostra il fatto che, pur non avendo sottoscritto il nuovo modello contrattuale, abbiamo giorno dopo giorno ricostruito 45 contratti di lavoro con la presenza determinante della Cgil. Il conflitto è un lievito della democrazia ma deve servire a raggiungere accordi. Questo è l'abc del sinbacato».
Un decreto interministeriale a doppia firma del 20 luglio 2005 fa comprendere perché Propaganda Fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, il ministero degli Esteri del Vaticano, a Roma sia diventata l’immobiliare dei potenti e, lo sta srotolando ogni giorno l’inchiesta sulla Protezione civile, un luogo di scambio di beni e utilità, un centro primario d’affari per l’imprenditore Diego Anemone, l’ancora di salvezza per gli alibi domiciliari di Guido Bertolaso. In quel decreto, licenziato da Pietro Lunardi, allora ministro delle Infrastrutture, e Rocco Buttiglione, ministro dei Beni culturali per un anno e nove giorni nel Berlusconi Ter, si approvò il largo programma d’intervento speciale di Arcus, società per azioni nata per sveltire le questioni dell’edilizia culturale, rapidamente trasformatasi in una "protezione civile" per gli appalti nei musei, nei siti archeologici, nelle chiese.
Già. Nel lungo elenco che accompagnò il decreto - 87 lavori sparsi in Italia, 51 milioni e 900 mila euro di finanziamenti, in buona parte elargizioni ad amici del centrodestra – c’erano anche luoghi sacri. Alla riga 29 del Piano interventi di Arcus, società privata di Stato, si prevedeva il finanziamento del restauro del palazzo seicentesco realizzato da Bernini e Borromini, oggi allocato in piazza di Spagna 48. Restauro del palazzo più realizzazione di una pinacoteca: 2,5 milioni di euro pubblici. Il palazzo, però, cresceva in territorio vaticano, lo ricordano l’insegna e la bandiera. Ma i buoni rapporti tra il Governo Berlusconi e la struttura allora guidata da Monsignor Crescenzio Sepe si scoprono, oggi, leggendo le carte della magistratura di Perugia.
L’anello di congiunzione tra i laici ministeri e l’ente di evangelizzazione era al solito Angelo Balducci, allora gentiluomo del Papa e uno dei tre gestori del patrimonio immobiliare di Propaganda Fide (duemila appartamenti nella capitale). Come è noto, Balducci era anche il più importante funzionario italiano del mattone pubblico, aveva saldato un rapporto oltretevere grazie al grande cantiere del Giubileo del Duemila e, come ha raccontato a "Repubblica" Pietro Lunardi, era l’omo di fiducia del ministro delle Infrastrutture, il "tecnico" che gli suggeriva il ristrutturatore edile (Anemone) per le sue tenute di campagna e gli forniva l’elenco delle case di Propaganda Fide da cui scegliere la dimora romana (sarà in via dei Prefetti, un palazzo di tre piani acquistato dal ministro Lunardi per la metà del suo valore). In quelle stagioni anche al consigliere politico di Lunardi, Vito Riggio, oggi presidente dell’Enac, fu assegnata una "casa Fide": era in via della Conciliazione 44, immobile di pregio normalmente destinato all’alloggio dei cardinali.
Ma perché Propaganda Fide a partire dal Duemila ha organizzato una rutilante attività immobiliaristica d’élite? Perché ha voluto consegnare appartamenti di lusso ai potenti d’Italia a prezzi scontati? Gli inquirenti, nell’interrogatorio che nei prossimi giorni si svolgerà a Perugia, chiederanno all’ex ministro Lunardi anche dell’eventuale rapporto tra i suoi beni privati e i decreti firmati, innanzitutto quello che ha stanziato 2,5 milioni per restaurare il palazzo di piazza di Spagna (la pinacoteca è annunciata pronta per il prossimo ottobre). Successivamente, Arcus - con ministro Sandro Bondi - avrebbe finanziato il restauro dei cortili interni della Pontificia università gregoriana di Roma: 1,5 milioni tra 2010 e 2011 (nonostante lo Stato fosse già intervenuto con 899.944 euro presi dai fondi dell’8 per mille).
È interessante notare come il capo dell’Ufficio legislativo di Lunardi, colui che avrebbe dovuto emanare il regolamento Arcus, era Mario Sancetta, oggi indagato per corruzione nell’"inchiesta Anemone". Il Consiglio di amministrazione di Arcus negli anni 2004-2008 era invece composto, tra gli altri, da Elena Francesca Ghedini, sorella dell’avvocato-deputato Pdl, destinataria di diversi finanziamenti per il suo dipartimento di Archeologia dell’Università di Padova, ed Ercole Incalza, oggi responsabile della struttura di missione del ministro Altero Matteoli, noto per l’appartamento romano comprato alla figlia grazie a un contributo dell’architetto Zampolini. Ecco, Zampolini, mancava lui per colorare questo estratto anemoniano in territorio vaticano. Nel 2003, come ricorda il sindacalista Uil Gianfranco Cerasoli, gli venne affidata la facciata dell’oratorio borrominiano: la Sovrintendenza lo fermò. Sulla ristrutturazione, ora, si è aperta un’inchiesta della Corte dei conti.
La Villa Reale di Monza? “La stanno regalando ai privati”. Una delle dimore storiche più importanti del nord Italia sarà gestita per trent’anni da un’azienda privata. L’allarme è stato lanciato da alcuni politici lombardi del Pd. Si sono convinti che la privatizzazione sarà il futuro di Villa Reale, dopo aver ascoltato le parole di uno degli uomini più potenti del gruppo ciellino che attornia il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni: il grande capo di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni.
È successo la settimana scorsa nel consiglio comunale di Monza. Rognoni è stato interrogato dai consiglieri durante un’audizione che aveva per tema, appunto, il futuro della Villa Reale. Dopo anni di incuria e abbandono, la Villa sarà finalmente restaurata. Chi la rimetterà a nuovo? Lo deciderà una gara realizzata da Infrastrutture Lombarde, l’azienda controllata dalla Regione che fa da stazione appaltante. Per ora partirà la riqualificazione del primo lotto, 9 mila metri quadrati del corpo centrale, cortile, primo piano, piano nobile, belvedere, in cui saranno realizzati spazi per mostre ed eventi, laboratori, bookshop, caffè, ristorante. Costo: 23 milioni di euro. Chi ce li mette?
E qui arriva il bello, ovvero il brutto, della storia. La Villa Reale dovrebbe essere curata da un consorzio di gestione di cui fanno parte il Comune di Monza, il Comune di Milano, la Regione Lombardia, il ministero dei Beni culturali. Diciamo dovrebbe, perché il Comune di Milano non ha mai formalizzato il suo ingresso nel consorzio e non ha mai pagato neppure un euro di spese, comportandosi come un condomino che neppure risponde alle lettere dell’amministratore. Il ministero di Sandro Bondi ha promesso un milione di euro, ma finora nessuno ha visto un centesimo. Il Comune di Monza ha la guida del consorzio, affidata al sindaco della città Marco Mariani, ma non ci ha messo i soldi.
Gli unici che si sono dati da fare sono stati gli uomini della Regione. Hanno stanziato 20 milioni e affidato a Infrastrutture Lombarde la guida della ristrutturazione. Con un’ideona: far pagare almeno una parte dei lavori ai privati, che ci metteranno 5 milioni di euro (sui 23 totali) e in cambio avranno per trent’anni la gestione della Villa Reale. A un canone irrisorio (30 mila euro all’anno, più uno 0,5 per cento del fatturato). Lo ha confessato Antonio Rognoni durante la sua audizione. Così gli enti pubblici, i Comuni di Monza e Milano, la Regione e il ministero, saranno di fatto esautorati dalle decisioni su come utilizzare la Villa Reale.
“È l’unica soluzione possibile”, replica il sindaco Mariani, “che un privato ci guadagni dalla gestione è tutto sommato una cosa normale”. Reagisce Roberto Scanagatti, capogruppo del Pd al Comune di Monza: “La realtà ha superato i nostri peggiori timori. Rognoni ha confermato che in cambio della propria quota, i privati gestiranno per i prossimi trent’anni il corpo centrale della Villa, il più pregiato”. E Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd, aggiunge: “Il consorzio avrà pochissimi margini per decidere l’offerta culturale e museale di uno dei complessi monumentali più importanti della Lombardia. È una svendita ai privati orchestrata da Formigoni”.
Oggi verrà presentato a Roma, alla stampa estera, il progetto Nuovo Paesaggio Italiano, ideato dal direttore della Normale di Pisa Salvatore Settis e da Oliviero Toscani. Due paladini della difesa del paesaggio e anche critici molto aspri delle brutture e degli scempi compiuti negli ultimi anni anche in Toscana. Alla vigilia dell’evento romano, Settis ha spiegato al «Tirreno» il significato dell’iniziativa, ha accusato «una certa parte» della sinistra di aver venduto l’anima al cemento, ma nel contempo ha giudicato molto positivamente la svolta impressa dal presidente Enrico Rossi e dall’assessore Anna Marson.
Professor Settis, quale è il significato del progetto Nuovo Paesaggio italiano?
«La nostra iniziativa si propone di reagire ad un silenzio assordante sulla tutela del paesaggio italiano. Il nostro Bel Paese è purtroppo sempre di più devastato da brutture e devastazioni. Dalle Alpi alla Sicilia. Dobbiamo risvegliare le coscienze perché si ribellino al degrado. Bisogna impedire che da bello il nostro Paese diventi brutto».
Non c’è il rischio che la vostra iniziativa, partendo dalla Toscana, punti i riflettori su una regione che si è sempre battuta contro i condoni e che è sicuramente meno degradata di altri regioni italiane?
«Sia io, calabrese, che l’amico Oliviero Toscani, milanese, abbiamo scelto di vivere in Toscana perché questa è la regione più bella d’Italia. E’ vero che il paesaggio è più rovinato in altre regioni che in Toscana. E che il disastro ambientale appare più evidente in regioni come la Calabria, dove io sono nato, e il Veneto. Tuttavia negli ultimi dieci anni la situazione è cambiata, e in peggio, anche in Toscana. E proprio perché è una regione bella i guasti si vedono meglio e indignano di più».
Quali sono in Toscana i punti più critici del degrado, le zone più brutte e rovinate?
«La zona costiera e altre località di grande valore paesaggistico come Monticchiello. Che è diventato l’emblema di un degrado davvero profondo e preoccupante. La Val d’Orcia giustamente è stato riconosciuta come una zona di alto pregio ambientale dall’Unesco. Si è arrivati a costruire e vendere a Monticchiello villette a schiera con il bollino dell’Unesco. Davvero un’azione riprovevole, un vero e proprio mercimonio del paesaggio. E anche un capovolgimento della cultura toscana, che è sempre stata molto attenta alla tutela del paesaggio».
Lei è stato molto critico anche con San Vincenzo.
«Sì, lì come in altre zone della Val di Cornia, penso a Campiglia e a Venturina, si sono fatti troppi insediamenti di seconde case. E pensare che da anni la Val di Cornia è il migliore esempio in Italia di una felice gestione tra Comuni, Stato e Regione dei parchi archeologici. Anche per questo ci vorrebbe più attenzione urbanistica. Che senso ha continuare a costruire quando ci sono case invendute?».
Che cosa non condivide della politica urbanistica portata avanti dalla Regione Toscana e dai Comuni nell’ultimo decennio?
«La mia riflessione, lo premetto, è generale, non riguarda solo la nostra regione. L’articolo 9 della Costituzione dice che spetta allo Stato la tutela del paesaggio, ma lo Stato nel corso degli anni ha ceduto i propri poteri alle Regioni, le quali, a loro volta, li hanno affidati ai Comuni. Questo processo ha oggettivamente indebolito la tutela del paesaggio».
Colpa dei Comuni e voglia di centralismo statale?
«Non si tratta di questo. Anch’io un tempo ho coltivato l’illusione che il governo più vicino è ai cittadini e meglio è. Spesso purtroppo la vicinanza non rende il governo migliore. Per almeno tre motivi».
Il primo?
«Intanto perché un piccolo Comune non ha le competenze per tutelare il paesaggio. E inoltre più ci si avvicina ai cittadini e più forte è il rischio del voto di scambio elettorale in danno della tutela paesaggistica e urbanistica».
Terzo motivo?
«Con la legge Bucalossi si è concessa ai Comuni la possibilità di introitare gli oneri di urbanizzazione. Questi però dovevano essere destinati a costruire strade e i servizi inerenti i nuovi insediamenti abitativi. Ma poi, agli inizi degli anni Novanta, si è permesso ai Comuni di utilizzare questa fonte di entrate per qualsiasi scopo. Se con l’ultima manovra il governo Berlusconi taglia 15 miliardi alle Regioni, alle Province e ai Comuni è evidente che questi poi utilizzano in maniera indiscriminata il rubinetto degli oneri di urbanizzazione. Più si costruisce e più soldi arrivano nelle casse dei Comuni».
Come giudica il nuovo corso che il presidente Rossi e l’assessore Marson hanno impresso all’urbanistica della Toscana?
«In questo settore è la più bella notizia degli ultimi dieci anni. Finalmente abbiamo un presidente e un assessore di una Regione importante come la Toscana che dice: basta con il consumo del suolo, cerchiamo di consumare di meno e meglio. E di riqualificare ciò che c’è ed è degradato. Davvero una grande promessa. Dalla Toscana può partire la riscossa per il paesaggio italiano».
Il segretario regionale del Pd Andrea Manciulli ha detto, in un’intervista al «Tirreno»: le critiche dei professori e dei comitati puntano sulla conservazione dell’esistente mentre non guardano al futuro, non osano, non si sintonizzano con la contemporaneità. Cosa risponde?
«Che personalmente non ho mai pensato che la conservazione del paesaggio significhi metterlo nel freezer. Il paesaggio per sua natura si trasforma. Proprio quello toscano è la dimostrazione di quanto vi abbia inciso la mano e la cultura degli uomini nel corso dei secoli. Quindi sono d’accordo sull’esigenza di collegare la conservazione alla contemporaneità. Ma quello che noi denunciamo è altra cosa: è la mercificazione del paesaggio».
Lei sa che l’economia in Toscana reclama un ammodernamento delle infrastrutture. Come conciliare questa esigenza con la tutela del paesaggio?
«Guai a contrapporre le due esigenze. Se ad esempio per costruire l’Alta velocità si devono seccare i torrenti del Mugello, io non ci sto. Il problema è uno solo: per tenere insieme ambiente e nuove infrastrutture bisogna usare alte tecnologie e spendere di più. Ma i maggiori costi sono un investimento se si guarda al futuro del nostro Paese perché lo rendono moderno senza rovinare il suo vero tesoro rappresentato dal paesaggio».
Alcuni sindaci del Pd si sono ribellati alla Marson. Altri hanno chiesto le dimissioni del presidente del Parco dell’arcipelago toscano. Perché tanta irritazione?
«Perché una parte di quella che una volta era la sinistra, e oggi non lo è più, si è asservita al cemento e ai cementificatori».
Perché anche in Toscana si è costruito molto e molti ritengono anche male, almeno in certe zone? Perché da noi i grandi architetti non hanno poi tanta fortuna?
«La ragione è molto semplice: si è data la priorità al guadagno, al fare presto e male anziché bene e più lentamente. Se la Toscana è la regione più bella, nonostante tutto, è perché qui si è ragionato nel corso dei secoli seguendo valori come la bellezza, la lentezza, l’idea che il paesaggio è anche l’anima di un popolo. La nostra sfida è aiutare chi ci governa a recuperare questi valori perduti».
Dall'alluvione del novembre 1966 che, con una marea di 1,92 centimetri sul livello medio del mare, ha rischiato di sommergere Venezia, è passato un tempo lungo e molti e diversi sono stati i convincimenti dai quali decidere quali interventi fossero i più opportuni per evitare una catastrofe che si sarebbe poi potuto dire solo annunciata.
Al fine è prevalsa la coscienza che a quell'evento distruttivo, certamente eccezionale ed imprevedibile nella sua dimensione naturale, molto avevano contribuito l'incuria manutentoria delle difese a terra e a mare della laguna e le rilevantissime modificazioni che da metà ottocento vi si erano succedute, riducendone di fatto di un terzo l'invaso e modificandone in maniera significativa l'accesso dell'acqua marina (le attuali tre bocche di porto), scavando canali interni e modificando la morfologia stessa dei suoi fondali. A questo saggio convincimento, raggiunto – va detto – a fatica, si devono le tre buone Leggi Speciali per Venezia (tutt'ora vigenti anche se molto disattese) che stabilivano anche le modalità di intervento su un ecosistema naturale giustamente considerato fortemente antropizzato nella sua millenaria storia: eventuali opere di regolazione delle maree (dighe) venivano subordinate alla verifica di un adeguato avanzamento della realizzazione di tutti gli altri interventi diffusi nella laguna, aventi come scopo il ripristino della morfologia lagunare, l’arresto dei processi di degrado e inquinamento, l’esclusione del traffico petrolifero e la riapertura delle valli da pesca (che erano state separate dal corpo vivo della laguna e privatizzate).
Un primo concorso per la costruzione di tre sbarramenti fissi alle bocche di porto (progettone), è andato senza esito, anche per un'opposizione ambientalmente sensibile che ha saputo farsi valere culturalmente e politicamente. Successivamente però sono state pure totalmente disattese le Leggi Speciali che consideravano eventuali sbarramenti dal mare possibili solo dopo aver verificata l'insufficienza di interventi diversi. Tali sbarramenti comunque avrebbero dovuto essere sperimentali e reversibili. Il partito trasversale del profitto è riuscito, già allora, a ottenere una legge che consentisse e costituisse un concessionario unico per lo studio, la proposta e la realizzazione di dighe mobili di separazione della laguna dal mare come unica soluzione al fenomeno delle alte maree lagunari (acque alte) senza minimamente analizzare e rimuovere le cause che nell'ultimo secolo e mezzo avevano fatto aumentare il fenomeno in frequenza e dimensione.
Un'opposizione caparbia ha coinvolto anche il Comune e la Provincia di Venezia e ha saputo far anche emergere studi e progetti alternativi, nel frattempo predisposti, per una reale politica dei SI (scegliere, dopo confronto, la soluzione migliore e più efficiente): il Comune ha fatto analizzare tutti i progetti alternativi da una apposita commissione tecnico-scientifica che nella graduatoria valutativa finale ha, significativamente, collocato il MoSE al penultimo posto. Nell'occasione si è potuto pure valorizzare uno studio (Pirazzoli-Umgiesser,CNR francese e italiano) che rileva che, con opportuni rialzi dei fondali alle tre bocche di porto, differenziati in relazione al loro uso diverso, è possibile una riduzione di tutte le maree fino a 22 cm. risolvendo così al 95% il fenomeno delle acque alte.
Il 22 novembre 2006 il Governo Berlusconi (a seguito di pari politica di Prodi) ha dato il via alla realizzazione del sistema MoSE. Il progetto, bocciato da una Valutazione d'Impatto Ambientale negativa, illegittimo per violazione di norme e leggi urbanistiche regionali, nazionali ed europee, in assenza di un progetto esecutivo complessivo, con l'opposizione del Comune di Venezia, è stato approvato con il solo voto politico governativo che ha fatto strame di ogni procedura democratica. La stessa Commissione Europea, alla quale il Comune di Venezia e varie Associazioni Ambientaliste si erano rivolte, dopo una prima perplessa messa in mora dell'Italia, ha accettato una così detta compensazione ambientale che proprio in questi giorni rischia di artificializzare ulteriormente la laguna e di eludere ogni controllo democratico. I costi di realizzazione, a forfait chiuso, senza possibilità alcuna di aumenti -veniva detto- erano di 4.271 milioni ma oggi sono già aumentati a 4.678.
Dal 2006 ad oggi molto si realizzato del sistema MoSE (l'insieme cioè di tutte le opere) distruggendo preziosi ambiti lagunari e di costa per dar spazio ai cantieri, modificando strutture foranee, formando nuove dighe marine (lunate) e un'isola artificiale, strutturando conche di navigazione e porti rifugio: le correnti all'interno della laguna si sono già fortemente modificate, ma il MoSE, con le migliaia di pali di fondazioni sotto i fondali, i suoi cassoni di contenimento tecnologico e di alloggio per i 79 portelloni mobili, l'affidamento in appalto dei connettori e cerniere preposti alla rotazione dei portelloni, non è ancora cominciato.
Ma altri avvenimenti inquietanti si sono realizzati in questi 4 anni.
La Corte dei Conti, con propria deliberazione del 20 febbraio 2009 ha pesantemente criticato l'intera operazione sia sotto l'aspetto contabile che procedurale, ma il Governo cui era essenzialmente indirizzata la delibera non ha minimamente provveduto ad effettuare modifiche.
Nel congresso del CIESM del 12.5.2010 tenutosi al Lido di Venezia, il direttore dell'Ismar del CNR nazionale Fabio Tricardi ha confermato tutti i dubbi che da mesi scienziati e ambientalisti stanno avanzando sull'efficacia del sistema di dighe mobili di fronte all'innalzamento del livello medio del mare in alto Adriatico per i cambiamenti climatici.
Nelle riunioni del 2 e 8 novembre 2006 presso la Presidenza del Consiglio, il Comune di Venezia aveva manifestato ancora rilievi critici, osservazioni e raccomandazioni sul sistema MoSE. Prendendo atto che, con la successiva approvazione solo politica, non ne era stato minimamente tenuto conto, per garantire alla comunità veneziana, ma potremmo dire al mondo intero, almeno il corretto funzionamento delle barriere e il dimensionamento strutturale dei suoi componenti, ha incaricato la società Principia, leader mondiale nel campo della modellistica, di verifica e di una comparazione del MoSE (dighe a galleggiamento) con uno dei sistemi alternativi (dighe a gravità).
Dallo studio presentato emerge che le paratoie - con particolari condizioni di mare (altezza d'onda di 2,2metri e periodo di picco 8 secondi), condizioni non rare e verificatesi già 4 volte negli ultimi 4 anni – manifestano un comportamento caratterizzato da instabilità dinamica che comporta una risposta caotica con irregolare amplificazione dell'angolo di oscillazione della singola paratoia. Oltre il linguaggio tecnico (per il quale si rimanda alla relazione nel sito del Comune) ciò significa essenzialmente due pronunciamenti di estrema gravità che si possono verificare in certe condizioni mareali e meteorologiche non infrequenti :
- la tenuta della marea al di fuori della laguna da parte delle dighe mobili risulta assolutamente vanificata perché i varchi esistenti tra portellone e portellone, previsti nel progetto, con la grande oscillazione angolare dei portelloni stessi incernierati sul fondo, non correttamente prevista in progetto, lasciano entrare tanta acqua da far aumentare il livello lagunare in poco tempo anche di 20 e più cm. (a cosa serve, quindi, il MoSE?)
- le grandi oscillazioni dei singoli portelloni (risposta caotica con elevata amplificazione dinamica) non consentono, con gli elementi di analisi esistenti normalmente impiegati nella progettazioni delle opere marine una valutazione affidabile delle stesse oscillazioni e dei carichi di progetto. In altre parole, allo stato delle conoscenze scientifiche odierne, non è possibile progettare con sicurezza né le cerniere né il connettore che le tiene avvinte sul fondo ed l'intero sistema è a rischio di collasso. Per di più non è neppure possibile, come afferma il Magistrato alle Acque, basarsi su esperimenti fatti appositamente in vasca su modelli ridotti, per la viscosità non calcolabile dell'acqua.
Alla luce di questi fatti appare irresponsabile non tanto e solo il comunicato di ieri del governatore regionale Zaia che, con l'ing. Cuccioletta presidente del Magistrato alle Acque di Venezia e l'ing. Mazzacurati presidente del Consorzio Venezia Nuova, annuncia la sua prima visita al MoSE domani mattina con un “vogliamo aprire alla stampa nazionale e internazionale le porte del più grande cantiere di ingegneria idraulica del mondo”, ma la continuazione dei lavori dell'intero sistema.
Ancora oggi questi si possono bloccare con il recupero ad altri fini possibili ed utili delle opere finora realizzate.
E' necessario che un panel internazionale di alto profilo scientifico, terzo rispetto agli enormi interessi in campo, valuti scientificamente lo studio degli esperti di Principia, la loro successiva risposta ad altre richieste del Comune di Venezia, la risposta che dà loro il Magistrato alle Acque, e la nuova replica di Principia. Il rischio è troppo grande per non valutare seriamente la situazione e, qualora fosse necessario, modificare al meglio l'intervento. Primo passo di democrazia reale è la pubblicazione di tutti questi materiali scientifici sul sito del Comune di Venezia a completamento del già inserito studio Principia come è stato pochi giorni or sono richiesto nella Consulta per l'Ambiente comunale dai movimenti lì rappresentati.
Nell'occasione gli scienziati potranno pronunciarsi anche sul più pericoloso fenomeno, in conseguenza anche del MoSE, che minaccia l'intera laguna di Venezia: la perdita continua di sedimenti sottili che si riversano in mare con l'uscita delle maree , impoverendone e svuotandone i fondali e trasformandola di fatto in un braccio di mare senza variazioni morfologiche, biologicamente morto.
Di chi è Milano? Chi la sente propria al punto da volerla difendere dai troppi profittatori? Di sicuro non se ne sente interprete e paladina l'attuale classe politica. Chi ama questa città mai avrebbe varato il piano dei parcheggi sotterranei. E le presunte buone intenzioni stanno a zero di fronte ai catastrofici risultati. Il tour delle macerie e degli ingombri da piazza Novelli alla Darsena, da piazza Sant'Ambrogio a piazza XXV aprile, da via Gavirate a piazza Meda stringe il cuore fra esercizi commerciali vuoti e altri con le serrande abbassate. Quanti hanno proposto e accettato che interi quartieri venissero dissestati senza porsi il problema dei disagi sicuri e degli intoppi probabili è risultato nei fatti un nemico di Milano.
Ma alle sue sorti paiono insensibili anche gli abitanti: la presunta società civile— per valutarla basta aver partecipato a una sola assemblea di condominio — avrebbe punito con il voto i responsabili dello sfascio urbano, al di là di ogni considerazione ideologica. Invece sembriamo più interessati all'elevazione di sottotetti e di mansarde, all'invasione abusiva di ogni spazio, allo sberleffo di regole e leggi. Si ha l'impressione che tanti, dopo aver riservato ogni energia alla guerra quotidiana in strada, fra soprusi di ogni tipo, siano alla fine talmente esausti da subire le soverchierie dei propri rappresentanti. D'altronde li abbiamo eletti noi: quanto meno siamo corresponsabili delle scelte che ci si ritorcono contro.
Milano vive fra annunci roboanti e realtà assai modeste. Da quanti anni vengono ripetute le promesse sulla cittadella della giustizia, sul polo museale, sulle due nuove metropolitane? I turbamenti dell’amministratore delegato dell'Expo prevalgono sulle sorti della stessa Esposizione universale, che dovrebbe costituire una straordinaria opportunità, ma ogni giorno sembra allontanarsi. Da molti interventi traspare la preoccupazione di non farcela, in parecchi emerge quasi il disappunto di aver ottenuto la designazione: sono bastati trenta mesi per trasformare una strepitosa vittoria, che aveva fatto parlare di sistema Paese, in una possibile iattura. Eppure Milano ha sempre vinto le sfide cominciando dalla ricostruzione della Scala nel '45. In dieci anni furono approntati oltre sessanta chilometri di linee metropolitane. Già allora risaltavano condotte spregiudicate, però qualcosa rimaneva alla comunità.
Oggi fra tangenti celate nei pacchetti di sigarette e atteggiamenti di ordinaria soverchieria maschilista s'avanza una generazione di mezze calzette. La corruzione dilaga e ai milanesi restano in mano solo le promesse del sindaco, degli assessori, dei consiglieri di ambo gli schieramenti. Spesso si vantano di essere prestati alla politica, ma che rimpianto per quei bei professionisti di una volta. E che rimpianto per quei bei milanesi di una volta capaci di eleggere chi sapeva soddisfare i bisogni dei concittadini, oltre ai propri.
I disastri naturali ed ecologici sono l´imprevedibile che mette a dura prova la politica dettando le forme e i costi degli interventi, imponendo la sua temporalità. Come le guerre, sono un´alterità radicale rispetto alla politica. L´istituzione di agenzie di intervento rapido e di soccorso, come la nostra Protezione Civile, sono nel migliore dei casi efficaci nel tamponare gli effetti del disastro e, come si dice con un tono ottimistico che a volte rasenta il cinismo, aiutare il ritorno alla normalità. Nel frattempo, milioni di persone soffrono e in molti casi perdono letteralmente tutto, come abbiamo visto in Abruzzo, Louisiana, Haiti e nei numerosi luoghi devastati dai cataclismi.
Ma è proprio corretto parlare di imponderabile e imprevedibile? La domanda è retorica nel caso dei disastri ecologici poiché qui il fattore umano, colpevole o negligente che sia, è determinante. Secondo Anthony Giddens, che è intervenuto recentemente al 20th European Annual Meeting di Amalfi organizzato dal Dipartimento di Studi Politici dell´Università la Sapienza, la scienza sociale e la politica farebbero bene a considerare le questioni climatiche come parte delle politiche sociali, insieme ai disastri ecologici e ai cataclismi naturali, non perché si sia in grado di determinare un rapporto causale tra loro, ma perché il mutamento climatico, i disastri ecologici e la crisi energetica ed economica sono incasellabili come emergenze del nostro tempo tra loro integrate. Di fronte alle quali, secondo Giddens, la politica dimostra tutta la sua deprimente inconsistenza, persa a gestire, spesso molto male, l´amministrazione quotidiana, stordita in un letargo che la tiene fissa al bricolage del presente.
La politica ha perso o deperito la vocazione a progettare e indirizzare la società civile e l´economia verso un fine che dovrebbe essere quello di realizzare le promesse democratiche: più eguaglianza, più o meglio distribuito benessere. Ma l´appello alla politica non deve essere inteso come un appello al ritorno del "big government", però. Giddens è stato tra i padri fondatori della "terza via" che ha messo sotto accusa lo statalismo sociale e non ha alcuna intenzione di rovesciare la propria posizione. La sua proposta è quella di applicare la partnership pubblico-privato, mercato-stato che era della terza via, alle questioni ecologiche e dei mutamenti climatici. Propone alla politica di riacquistare un´autorevolezza progettuale per porre regole, limiti e promuovere azioni di stimolo o di dissuasione; per impedire che il mercato sia solo nella cabina di regia.
Comprendere la natura della sfida del cambiamento climatico è essenziale. Secondo Giddens, questa sfida può essere governata riuscendo a portare il mercato a fare ciò che spontaneamente tende a non fare, soprattutto in casi come questi: considerare il futuro come una risorsa. La politica come correzione della miopia endogena all´economica. Progetto e regole, gli strumenti delle comunità politiche, sono improrogabili quando eventi solo in parte prevedibili o non prevedibili affatto travolgono la natura e la vita di milioni. L´uragano Kathrina o il disastro ecologico del Golfo del Messico targato BP sono invariabilmente portatori di povertà o perché si abbattono su regioni povere (anche quando parti di uno stato non povero come gli Stati Uniti) o perché causano impoverimento o aggravano l´esistente povertà. La sfida è chiara e non c´è chi non condivida l´inadeguatezza degli strumenti fin qui usati. Lo stato sociale era organizzato secondo previsione più o meno certe, basate su una regolarità e normalità delle relazioni sociali. Pensare al futuro era in qualche modo parte dell´investimento. Come si può incoraggiare il mercato a pensare in termini di futuro in situazioni di rischio radicale come sono quelle naturali? E´ proprio questa domanda che dovrebbe convincere a considerare i mutamenti ambientali e climatici come parte della elaborazione politica e sociale.
A provare che i cambiamenti climatici hanno cambiato i comportamenti economici tradizionali è il mutamento delle strategie delle assicurazioni: i rischi di alluvione, per esempio, sono diventati così alti che le assicurazioni coprono solo parzialmente o per nulla. Indubbiamente la frequenza e la gravità di queste calamità è messa in conto dalle assicurazioni (e questo vale ad ammettere che esiste una relazione tra mutamento climatico e disastri naturali) e se questo è vero, allora è urgente la riscrittura delle regole per indurre le compagnie assicurative a mutare le loro strategie. Incoraggiare il mercato – quello delle assicurazioni in modo particolare – è un´impresa tutt´altro che facile come la battaglia di Barack Obama per una riforma sanitaria seppur minima ha dimostrato. È arduo convincere le corporations che si deve proteggere chi è vulnerabile; compito della politica è convincere che è conveniente farlo. Giddens propone esplicitamente di "assicurare i poveri" o i disastrati del mutamento climatico come si assicura la vecchiaia o la malattia. Questa sarebbe la nuova frontiera dell´utopia pragmatica: inserire l´ambiente e l´ecologia tra gli obiettivi dell´equità, come la salute o l´educazione. Fare dell´ecologia a un tempo un progetto di giustizia sociale e un progetto di innovazione tecnologica al servizio del benessere generale.
Il padre teorico della "terza via" – che la Regina d´Inghilterra ha da poco elevato a Lord – ha mantenuto intatta la fiducia nella partnership virtuosa di pubblico e privato per la costruzione di una società dell´equa condivisione di responsabilità rispetto alla vulnerabilità. Tuttavia questa volta l´aspetto utopico è molto più accentuato di quanto non lo fosse quando si trattava di rinegoziare lo stato dei servizi sociali. Anche perché quella terza via ci ha lasciato una politica che è indubbiamente più debole, al punto che, come assistiamo da due anni, gli stati democratici pare non abbiano sufficiente autorità per imporre ai mercati finanziari regole di trasparenza e di responsabilità verso la comunità. Il capitale finanziario non ha confini né patria, soprattutto è indifferente alla materialità e alla produzione di beni. Perché dovrebbe sentire solidarietà per i vulnerabili dei cambiamenti climatici? E, poi, se i governi destinano finanziamenti per assicurare chi è colpito dalle catastrofi, non c´è il rischio che i disastri diventino cose economicamente vantaggiose e trattate come tali? C´è un assunto non detto nella "terza via" ecologica che non è convincente: che le corporations siamo mosse nelle loro decisioni da un senso civico o umanitario. E c´è un assunto ancor meno dimostrabile: che le relazioni di forza tra mercato finanziario globale e stati sovrani nazionali siano come tra partner equipollenti. E´ un fatto che gli stati sono sempre più impotenti di fronte ai mercati (luoghi di disastri altrettanto imprevedibili di quelli naturali). La politica è riflesso dell´economia anche nel senso che con l´economia essa condivide lo stato di miopia, l´incapacità o la non volontà di progettare il futuro.
Pomigliano è diventata, è, la materia viva e il simbolo di uno scontro che investe la sopravvivenza della Costituzione della Repubblica fondata sul lavoro e della storica, e sempre più drammatica questione meridionale. La sostanza è nota: a Pomigliano c'è un impianto della Fiat, che attualmente dà lavoro a circa quindicimila persone e la Fiat ha posto ai sindacati, ai lavoratori, ai meridionali un aut aut feroce: o i lavoratori si impegnano a utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno per sei giorni la settimana; a essere disponibili per 80 ore di straordinari a testa; a recuperare gli eventuali ritardi lavorando la mezzora della refezione, a rinunciare al diritto di sciopero, oppure la Fiat chiude lo stabilimento e c'è disoccupazione per tutti. E in più, si instaura una «metrica del lavoro» che - come scrive Luciano Gallino, nel suo ottimo articolo sulla Repubblica di ieri - «si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot». Saremmo così alla Repubblica fondata sulla robotizzazione degli uomini. Anche il papa, penso avrebbe qualcosa da ridire.
Ecco come il ministro Giulio Tremonti presenta questa mostruosità: «Sarà un modello per tutti. Con la globalizzazione è finito il conflitto capitale lavoro». La globalizzazione infatti ha enormemente aperto alla delocalizzazione e ingrossato il cosiddetto esercito industriale di riserva. I lavoratori da persone umane sono ridotte a merci, la Costituzione è ridotta a carta straccia. L'art. 41 della Costituzione viene modificato: non più «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». La nuova prassi, imposta senza voto alcuno, recita: «L'iniziativa economica privata è sovrana e, quando sia a lei utile, può mettere i cittadini in campi di lavoro forzato». Dalla Repubblica democratica degradiamo alla sovranità assoluta.
Di fronte a questa aggressione Cisl e Uil hanno capitolato, hanno alzato le mani in segno di resa. Ma si rendono conto sia Tremonti sia la Cisl e la Uil che cosa provocherebbe una capitolazione del genere? Al degrado sociale, civile cui ci porterà? Il diritto di sciopero diventa violazione della Repubblica fondata «sulla sovranità assoluta dell'iniziativa economica privata ». I contratti nazionali, firmati anche dai padroni, vanno nella spazzatura.
Cerchiamo di avere un po' di memoria. Quando in Italia, nel primo dopoguerra, le crisi erano grosso modo a questo punto, l'esito fu il fascismo. Ma pensano i nostri attuali governanti che si possa tornare agli anni '20? Non pensano che violenza provoca violenza? Pensano che le popolazioni del Mezzogiorno subiranno senza reagire il ricatto dell'abbandono e la localizzazione nel Sud, già tanto provato, di nuovo lavoro schiavo? La Cisl e la Uil hanno ceduto, subito la violenza accettandola come necessità. La Cgil e la Fiom resistono e fanno bene. La storia è dalla parte loro.
Postilla
Dice Tremonti (ma altri, da sponde opposte, l’hanno detto prima di lui): “è finito il conflitto tra capitale e lavoro”. Già, ma non perché non ci sia più contrasto d’interessi, solo perché ha vinto il capitale.
È possibile che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L´industria mondiale dell´auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente. A farne le spese, prima ancora dei loro bilanci, sono i fornitori (che producono oltre due terzi del valore di un´auto), le comunità locali che vedono di colpo sparire uno stabilimento su cui vivevano, e i lavoratori che provvedono all´assemblaggio finale. I costruttori che non arrivano a spremere fino all´ultimo euro da tutti questi soggetti sono fuori mercato.
Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano - ben 15.000 se si conta l´indotto - è probabilmente orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l´azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta.
Una volta riconosciuto che forse l´azienda non ha alternative, e non ce l´hanno nemmeno i lavoratori di Pomigliano, occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti.
Allo scopo di utilizzare gli impianti per 24 ore al giorno e 6 giorni alla settimana, sabato compreso, nello stabilimento di Pomigliano rinnovato per produrre la Panda in luogo delle attuali Alfa Romeo, tutti gli addetti alla produzione e collegati (quadri e impiegati, oltre agli operai), dovranno lavorare a rotazione su tre turni giornalieri di otto ore. L´ultima mezz´ora sarà dedicata alla refezione (che vuol dire, salvo errore, non toccare cibo per almeno otto ore). Tutti avranno una settimana lavorativa di 6 giorni e una di 4. L´azienda potrà richiedere 80 ore di lavoro straordinario a testa (che fanno due settimane di lavoro in più all´anno) senza preventivo accordo sindacale, con un preavviso limitato a due o tre giorni. Le pause durante l´orario saranno ridotte di un quarto, da 40 minuti a 30. Le eventuali perdite di produzione a seguito di interruzione delle forniture (caso abbastanza frequente nell´autoindustria, i cui componenti provengono in media da 800 aziende distanti magari centinaia di chilometri) potranno essere recuperate collettivamente sia nella mezz´ora a fine turno - giusto quella della refezione - o nei giorni di riposo individuale, in deroga dal contratto nazionale dei metalmeccanici. Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l´indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat.
Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla "metrica del lavoro." Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione, e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l´analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è l´uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l´adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per "produzione di qualità o livello mondiale"). Sono criteri che provengono dal Giappone, e sono indirizzati a due scopi principali: permettere di produrre sulla stessa linea singole vetture anche molto diverse tra loro per motorizzazione, accessori e simili, in luogo di tante auto tutte uguali, e sopprimere gli sprechi. In questo caso si tratta di fare in modo che nessuna risorsa possa venire consumata e pagata senza produrre valore. La risorsa più preziosa è il lavoro. Un´azienda deve quindi puntare ad una organizzazione del lavoro in cui, da un lato, nemmeno un secondo del tempo retribuito di un operaio possa trascorrere senza che produca qualcosa di utile; dall´altro, il contenuto lavorativo utile di ogni secondo deve essere il più elevato possibile. L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot.
È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell´ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinchÈ si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello.
È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l´anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese. Non ci sono alternative. Per il momento purtroppo è vero. Tuttavia la mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità. Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.
Il condono edilizio? Si chiede prima che sia compiuto l’abuso. Eccoli gli effetti della sanatoria light nel Comune di Roma attraverso le fotografie aeree che svelano i trucchi e dimostrano che la sanatoria del 2003 potrebbe essere stata utilizzata anche per regolarizzare preventivamente immobili che non esistevano, che i proprietari hanno fatto domanda di condono prima di tirare su i muri, mettere le tegole sul tetto, scavare per la piscina. Migliaia di costruzioni illegali: c’è anche un attico accanto alla Fontana di Trevi.
ROMA— «Il condono edilizio? Sarà leggero» minimizzava il 18 settembre 2003 Gianni Alemanno, allora responsabile dell’Agricoltura in un governo che si apprestava ad approvare la terza sanatoria delle costruzioni abusive. Una battuta infelice e azzardata, come l’ex ministro ha avuto modo di sperimentare personalmente una volta diventato sindaco di Roma. Eccoli gli effetti del condono light: un assaggio è nelle fotografie aeree pubblicate in queste pagine. Sono la dimostrazione che la sanatoria voluta dal governo di Silvio Berlusconi nel 2003 potrebbe essere stata utilizzata in molti casi anche a regolarizzare preventivamente immobili che non esistevano.
Osservatele bene, e fate attenzione alle date. Perché quelle potrebbero incastrare proprietari che hanno fatto domanda di condono prima ancora di tirare su i muri, mettere le tegole sul tetto, scavare il buco per la piscina. Parliamo di tre casi da manuale. Il primo, una costruzione in cima a uno stabile di via di San Vincenzo, a Roma, accanto alla Fontana di Trevi: dove nel 2004, come dimostrano gli scatti dall’alto, non c’era nulla. Valore economico di quegli 80 metri quadrati terrazzatissimi nel cuore della Capitale? Come almeno dieci appartamenti in periferia.
Il secondo è stato scovato dall’obiettivo indiscreto fuori del Raccordo anulare, al Nord della città. Quattro costruzioni, come testimoniano le foto, apparse dal nulla nel 2005. Dal valore, pure qui, niente affatto trascurabile. Il terzo è anch’esso fuori del Raccordo, ma a Sud, in un’altra zona sulla quale sussistono vincoli di un piano territoriale paesistico: lì, su un’area che nel 2004 era libera da costruzioni, adesso c’è quella che sembra una villa con piscina.
Inutile dire che in tutte le tre circostanze è stata presentata domanda di sanatoria come se l’abuso fosse stato commesso entro il termine previsto dalla legge per ottenere il beneficio: 31 marzo 2003.
Ma chi pensa si tratti di episodi isolati, si sbaglia di grosso. Sapete quante situazioni simili hanno scoperto i tecnici di Gemma, la società privata che gestisce dietro corrispettivo le pratiche del condono edilizio del Comune di Roma? Ben 3.713. Tremilasettecentotredici su 28.072, ovvero il numero di domande di condono edilizio esaminate nei primi quattro mesi di quest’anno. È il 13,2% del totale. E non è tutto. Perché alle 3.713 costruzioni tirate su dopo che la sanatoria era stata già approvato, bisognerebbe aggiungere le 6.503 realizzate, sì, entro il 31 marzo 2003, ma in aree soggette a vincoli di qualche genere. Oltre alle 2.099 spuntate come funghi addirittura nei parchi. Per un totale di 12.315 abusi, secondo Gemma, non sanabili.
Vi chiederete: e lo scoprono adesso, dopo tutto questo tempo? Domanda più che legittima. Dall’inizio la situazione dei condoni edilizi a Roma è stata caratterizzata da storture e disfunzioni. C’è chi per esempio ha sempre criticato la scelta (fatta dalle giunte di centrosinistra) di affidare a un privato un compito così delicato: tanto più che in altre grandi città, come Milano, ci pensano gli uffici comunali. C’è chi invece l’ha sempre difesa, sottolineando l’abnorme numero di domande. Fino a un epilogo sconcertante. Alla fine di maggio il presidente e azionista di Gemma, Renzo Rubeo, ha deciso infatti di risolvere il contratto con il Campidoglio per inadempienza della controparte, rivendicando arretrati per svariati milioni di euro. Una iniziativa giunta al culmine di un rapporto che va avanti da dieci anni, fra molti attriti che l’hanno logorato. E in un contesto nel quale non sono mancati i risvolti giudiziari.
L’ultimo "Controcanto" ha attirato gli strali di una parte dell’opposizione, soprattutto là dove parlavo della trasversalità degli interessi immobiliari. L’articolo di Andrea Greco sulle pagine milanesi di Repubblica di venerdì scorso ne dà egregiamente conto. Per altro è un vecchio vizio della sinistra. Negli anni Ottanta già polemizzavo con l’amico Umberto Dragone, vicepresidente della Lega delle Cooperative, perché consideravo quantomeno curioso che i più importanti lavori pubblici fossero appaltati a consorzi d’imprese sempre a tre: imprese delle partecipazioni statali, imprese private e imprese cooperative, in genere nella quota di 1/3, 1/3 e 1/3. Quindi le compagnie più "eterogenee" della sinistra non mi stupiscono ma mi stupisce lo stupore che nasce quando lo ricordo.
Veniamo al Pgt che ho sempre considerato "irricevibile" e "indiscutibile" per l’opposizione. Non si tratta di un documento urbanistico puro ma del "manifesto" di Cl in materia di visione sociale della città e, contemporaneamente, il "manifesto" della democrazia urbana secondo Cl, dove si ridistribuiscono i poteri tra organi elettivi diretti, il consiglio comunale e la Giunta. È un che ridisegna Milano.
Perché l’opposizione non si è ribellata? Perché non ha accettato il confronto su questi elementi del Pgt? Mentre la sinistra si sciacqua la bocca sulla scomparsa delle ideologie c’è chi - Cl - , dobbiamo riconoscerlo, con un documento complesso e di difficile decrittazione, rozzo in molte parti, ricomincia a pensare in termini ideologici: senza ideologia non si va da nessuna parte. Quest’opposizione sembra non essersi accorta che nell’inseguimento di qualche ettaro di verde è caduta nella trappola di quella specie di sindrome di Stoccolma della dialettica politica: essere lentamente persuasi delle opinioni del tuo avversario, in questo caso abile, perché ti distrae dalla visione d’insieme e porta il gioco dove gli fa comodo.
Quanto al meccanismo della perequazione, ossia l’attribuzione alla maggior parte del suolo comunale di un’edificabilità media generalizzata, il primo a pensarci fu l’onorevole Sullo (1921-2000) che ne fece oggetto di una proposta nel 1963 (bocciata su pressione degli immobiliaristi), poi ci riprovò il senatore Achille Cutrera e non ebbe miglior fortuna, mancatogli l’appoggio della sinistra.
Ora tutti d’accordo a Milano? E non vogliamo parlare di trasversalismo? L’Istituto italiano di urbanistica per anni ha tentato inutilmente di riprendere il discorso. Ma quale è la vera novità della perequazione secondo il Pgt milanese? In passato si parlava semplicemente di non penalizzare quei cittadini che si trovassero ad avere le loro aree sottoposte a vincoli (verde pubblico, servizi e così di seguito) rispetto a quelli che se le "trovavano" con possibilità edificatorie libere (residenza in particolare). Oggi, col nuovo Pgt e l’assegnazione di un indice di edificabilità unico a zone si è anche introdotto il criterio della vendita di questi diritti e la loro trasferibilità su altre aree. Un’ipotesi praticabile ma che richiede ben altre e più articolate norme e che stride persino con quel minimo di pianificazione contenuto nel Pgt stesso: una norma che andrebbe discussa a parte e non nel calderone del Pgt. Peccato che per "loro" sia un principio intoccabile.
Fiorentino Sullo non può essere considerato un antesignano della spalmatura dell'edificabilità, e della conseguente "perequazione", come proposto allora da Achille Cutrera e Michele Achilli, come applicata nel recente PRG di Roma. Il ministro democristiano dell'epoca aveva proposto l'acquisizione preventiva dei suoli resi edificabili dal PRG e un'indennità pari al valore agricolo per le aree di nuova urbanizzazione e pari al valore venale per quelle già urbanizzate o urbanizzabili (si veda su eddyburg la sua proposta,e in particolare l'articolo 24 )
E’ un grido d’allarme finora rimasto inascoltato. «Ogni giorno in Italia scompaiono quasi 1000 ettari di suolo destinato all'agricoltura: produzione agroalimentare, turismo e ambiente». Ma Vittoria Brancaccio, simpatia tutta napoletana (è di Sorrento) e battagliera presidente di Agriturist, l’associazione agrituristica di Confagricoltura (riunisce circa 5 mila aziende) insiste su una battaglia che si annuncia non solo professionale, ma che potrebbe diventare il manifesto di una nuova filosofia cultural-agricola. «Tutti convengono sulla necessità di rilanciare il turismo valorizzando i nostri paesaggi e l'offerta enogastronomica; tutti concordano sulla necessità di tutelare le produzioni agricole italiane e di conservare il nostro patrimonio ambientale per difenderci dall'inquinamento e favorire l'ossigenazione dell'aria. Ma pochi sanno che tutto questo è fuori della realtà» annota. E spiega, dati alla mano: «In 25 anni, fra il 1982 e il 2007, abbiamo perso 3,1 milioni di ettari di superficie agricola utile (Sau) e 5,8 milioni di ettari di superficie agricola totale (Sat) - sulla base di dati Istat - Parte di questa terra sottratta all'uso agricolo è stata convertita in bosco, ma 1,8 milioni di ettari sono stati mangiati irreversibilmente dal cemento, al ritmo medio di 200 ettari al giorno».
Ma ad inquietare è il silenzio «assordante» del mondo politico italiano sul tema. «In Germania - ricorda la lady di Agriturist - dal 1999 vige una legge che obbliga, per nuove costruzioni, a recuperare almeno il 70% di suolo già urbanizzato, e in Inghilterra una normativa simile ha permesso la successiva crescita urbanistica di Londra senza rubare un solo ettaro alle campagne circostanti. E sono leggi che portano nomi importanti: Merkel, Blair. Noi abbiamo scritto a Berlusconi, provato a portare la questione in Senato, cercato di sensibilizzare “trasversalmente” gli esponenti dell’arco parlamentare, ma devo dire finora con scarsi risultati. Evidentemente ci sono argomenti più interessanti sul piatto da esaminare». E avvisa: «Autorevoli studi di urbanistica affermano che, quando saranno realizzati i piani di sviluppo territoriale già approvati dai comuni per i prossimi anni, il ritmo di sottrazione di suolo all'agricoltura segnerà un'ulteriore rilevante accelerazione». E non si tratta soltanto di terreni incolti che diventano «preda» della cementificazione, ma anche della realizzazione di infrastrutture che in qualche modo limitano o alterano il normale equilibrio agro-turistico. «La nostra prima richiesta che è anche un po’ uno slogan è quello di avere aziende dagli “orizzonti lunghi”». Il sogno di un paesaggio a misura d’uomo, il più possibile lontano da una visione «condominiale» del territorio.
Si veda anche la relazione di Vittoria Brancaccio e quelle di Massimo Quaini e di Edoardo Salzano al recente congresso di Agriturist (Riomaggiore, 1 dicembre 2009)
MONTICHIARI (Brescia)— Lo avevano già ribattezzato «l' aereo dei bagnanti»: un volo low-cost che ogni fine settimana, con partenza alle 13.50, in 40 minuti avrebbe dovuto portare turisti da Brescia a Rimini.
Ieri, sulla carta, al «D’Annunzio» di Montichiari si doveva festeggiare il primo decollo del volo Dnm220, gestito dalla OristanoFly. Peccato che quell’aereo nessuno l'abbia mai visto. Cancellato prima di prendere servizio. Il volo per Rimini non è decollato perché nessun passeggero si è presentato all'imbarco.
Si tratta dell'ennesima partenza falsa di uno scalo nato addirittura con l'ambizione di fare concorrenza aMalpensa e Linate, ma che dopo 11 anni di vita è inchiodato agli ultimi posti della graduatoria nazionale di traffico. La direzione di Montichiari non vuole sentire parlare di flop: «La rotta per Rimini è gestita dalla OristanoFly, la stessa che dal 3 giugno ha riattivato i collegamenti con Roma e per la Sardegna. La cancellazione del volo d’esordio per Rimini è solo frutto di un disguido — chiosa Vigilio Bettinsoli, presidente dello scalo —. La prossima settimana sarà tutto regolare. I collegamenti con la Romagna, la Sardegna e la Toscana saranno fondamentali per farci ripartire».
Dallo scalo bresciano ieri sono decollati solo tre aerei: due per Londra (gestiti dalla Ryanair) e uno per Oristano via Roma (riattivato proprio dalla compagnia sarda).
Montichiari si conferma una cattedrale nel deserto dei cieli: i soci— principalmente enti pubblici— devono ripianare ogni anno un debito che è arrivato a sfiorare i 30milioni di euro.
I passeggeri e le compagnie latitano, preferendo muoversi sugli scali di Bergamo e Verona, ciascuno dei quali dista dal D'Annunzio 40 chilometri al massimo.
I trentadue poliziotti assegnati allo scalo, assieme a finanzieri, vigili del fuoco e controllori di volo lavorano in concreto solo pochi minuti al giorno.
Ieri c'erano dieci taxi in fila, passeggeri zero.
Nota: su questo fantasmagorico hub fantasma, mi sono già parzialmente "sfogato" qualche anno fa, inserendoa lcuni articoli, a partire dal mio HUB? BURP! (f.b.)
QUALE governo ha drasticamente ridotto la privacy dei dipendenti pubblici, modificando addirittura il primo articolo del Codice che regola questa materia? Quale governo ha messo nelle mani delle società di marketing la privacy telefonica delle persone, capovolgendo le regole che proprio gli interessati avevano mostrato di gradire? Quale governo ha incentivato il diffondersi della sorveglianza capillare sulle persone? Quale governo ha abbandonato ogni iniziativa sulla tutela della libertà su Internet, che aveva dato all´Italia un significativo primato internazionale? Quale maggioranza ha sfornato e continua a sfornare proposte di legge e emendamenti volti a limitare la privacy di chi naviga in rete? Proprio governo e maggioranza che ora innalzano il vessillo della privacy, invocano l´art. 15 della Costituzione e ricorrono al voto di fiducia.
Questi fatti, incontestabili, non mettono soltanto in luce una contraddizione clamorosa. Consentono di cogliere quale sia l´obiettivo vero dell´improvviso entusiasmo per la riservatezza. Mentre viene sacrificata senza batter ciglio la privacy di milioni di persone, si fanno le barricate proprio là dove la riflessione culturale e l´evoluzione legislativa inducono a ritenere che, per alcune categorie di persone e in situazioni particolari, le "aspettative di privacy" debbano essere drasticamente ridotte. Si tratta delle "figure pubbliche", delle persone indagate, delle attività economiche.
Questi non sono argomenti inventati oggi per dare sostegno a chi polemizza contro "la legge bavaglio". Quando, nel 2003, con una significativa convergenza tra il Garante per la privacy e il Consiglio nazionale dell´ordine dei giornalisti, si misero a punto le regole sul diritto d´informare, l´articolo 6 del Codice di deontologia venne scritto così: «La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilevo sul loro ruolo o sulla loro vita pubblica». Parole chiarissime, così come è chiara la ragione di questa ridotta "aspettativa di privacy" per tutti quelli che hanno ruoli pubblici. In democrazia non bastano i controlli istituzionali (parlamentari, giudiziari, burocratici), serve il controllo diffuso di tutti i cittadini, dunque la trasparenza.
Si era consapevoli della necessità di non far divenire la privacy uno strumento che, invece di tutelare le sacrosante ragioni dell´intimità, serva a coprire attività che devono essere sempre sottoposte al giudizio di una opinione pubblica adeguatamente informata. Si seguiva così il filone inaugurato nel 1964 da una celebre sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso New York Times contro Sullivan, quando si riconobbe il diritto della stampa di pubblicare addirittura notizie false e diffamatorie riguardanti "figure pubbliche", salvo nel caso in cui ciò fosse fatto con "actual malice". Questa linea è stata seguita in moltissimi paesi e, in un caso riguardante uno stretto collaboratore del Presidente Mitterrand, la Corte europea dei diritti dell´uomo è andata oltre, affermando che, in un sistema democratico, è legittima persino la pubblicazione di notizie coperte dal segreto, per consentire il controllo su come viene esercitato il potere. Diritto di sapere, esercizio del controllo democratico e trasparenza sono strettamente intrecciati, e neppure il segreto e l´eventuale falsità della notizia possono interrompere questo circuito virtuoso, impedire la circolazione delle informazioni.
Una pur minima cultura della privacy dovrebbe essere provvista di questo bagaglio, che ci avrebbe risparmiato quell´impasto di ignoranza e malafede che ci affligge in questi giorni. Ma la regressione culturale, con conseguente pessima politica, ci avvolge da ogni parte, sì che ogni volta si è costretti a ricominciare dall´abc. Ricordando, anzitutto, che è falso sostenere che la legge appena approvata dal Senato abbia come obiettivo quello di frenare il gossip, di impedire la pubblicità di informazioni irrilevanti o intime. Ripeto quello che è stato detto mille volte, scritto in disegni di legge: questo è un fine, sacrosanto, che si può agevolmente raggiungere, con il consenso di tutti, stabilendo la cancellazione di questi brani delle intercettazioni, irrilevanti per le indagini. Poiché non ci si è fermati a questo punto, ma si è voluto imporre il silenzio totale su notizie rivelatrici di malefatte politiche o amministrative e persino su ammissioni di mafiosi, allora è evidente che l´obiettivo è un altro, quello di mettere a punto una rete protettiva di un ceto che del disprezzo delle regole ha fatto la propria regola. La sintonia tra questo atteggiamento e l´assalto alla legalità costituzionale è del tutto evidente.
E diventa chiarissimo che cosa si avvia ad essere il sistema di tutela della privacy, in un totale stravolgimento del rapporto tra pubblico e privato. Trasparenza crescente per l´inerme persona "comune"; opacità crescente di un ceto per il quale l´esercizio del potere non è più fonte di responsabilità, ma di immunità. Si mette a disposizione di poteri politici, economici, tecnologici la vita quotidiana d´ogni persona, scrutata in ogni momento, "profilata", ridotta ad oggetto di cui si può impunemente disporre. Si sottrae alla democrazia, come "governo in pubblico" una delle sue ragion d´essere, allungando l´ombra dove la trasparenza dovrebbe essere massima. È questa la logica che dev´essere capovolta, restituendo alla privacy l´onore che le spetta come elemento essenziale della libertà dei contemporanei.
Difficile capire i pericoli che corre Israele pericoli non nuovi, ma immensamente dilatati dall’assalto, in acque internazionali, alla flottiglia che il 31 maggio ha tentato di forzare il blocco di Gaza se non si adotta uno sguardo lungo, che amplifichi le nozioni dello spazio e del tempo. Lo spazio più ampio è quello popolato da forze, in Medio Oriente, che sono in mutazione e tendono a divenire potenze decisive: l’Iran è una di queste, ma anche la Turchia. Il tempo più ampio sono i 43 anni in cui Israele è divenuto uno Stato che occupa in maniera permanente spazi non suoi, abitati da un popolo che aspira a emanciparsi dal colonizzatore e a farsi Stato. In questi 43 anni Israele ha goduto di uno speciale privilegio, e ad esso si è abituato: era l’unico Paese nucleare della zona, anche se lo negava, e l’atomica costruita nel ‘55-58 con l’aiuto francese ha funzionato da deterrente. Nessuno Stato arabo poteva oltrepassare certi limiti e mettere in forse la sua esistenza, grazie alla tutela dell’arma ultima che è la bomba.
Questa condizione di privilegio non poteva durare in eterno è infatti ora sta vacillando. Il desiderio iraniano di rompere il monopolio israeliano sul nucleare è antico, e precede l’avvento del regime teocratico a Teheran. L’America stessa ha tollerato il monopolio, sia pure faticosamente, e lo tollera di meno oggi che il suo potere globale si sfalda. Nei rapporti tesi fra Obama e Netanyahu c’è la questione atomica, non detta ma sempre più pensata.
Difficile alla lunga vietare ad altri attori l’arma, se la si concede a Israele. Difficile chieder loro di parlare vero, senza chiederlo a Israele. Obama aveva questo in mente, quando invitò il premier israeliano a partecipare alla conferenza sulla sicurezza nucleare del 12-13 aprile a Washington. Invito che Netanyahu declinò, credendo di immortalare in tal modo il proprio statuto di potenza nucleare opaca, che nega il possesso della bomba e, al massimo, parla di «opzione nucleare». La conferenza ha auspicato una zona denuclearizzata in Medio Oriente, pensando all’Iran ma anche a Israele. I motivi della non partecipazione si possono capire - Israele non ha firmato il Trattato di non proliferazione - ma rimanere assenti significa vietare a se stessi lo sguardo lungo, nello spazio e nel tempo, che urge in questo momento.
In Israele si parla poco della bomba e della centrale di Dimona. Mordechai Vanunu, il tecnico che lavorava a Dimona e ne rivelò l’esistenza, parlò di 200 testate in un’intervista al Sunday Times del 1986, e venne incarcerato per 18 anni, accusato di alto tradimento. Israele resta una democrazia, ma sull’atomica mantiene un segreto di natura autoritaria. I suoi esperti danno alla segretezza il nome di opacità. Lo storico Avner Cohen, autore di un libro importante sulla questione (Israel and the Bomb, Columbia University Press 1998, rifiutato in Israele) sostiene che l’opacità è una «cultura chiusa in se stessa che non permette di pensare l’epoca della post-opacità». I responsabili dell’atomica si sono «abituati a lavorare nell’anonimato, immunizzati da critiche esterne». Il segreto nucleare è un paravento forse necessario in passato, ma che ora copre debolezze e gesti di follia politica.
La guerra dei Sei giorni, nel ’67, fu combattuta al riparo della bomba, ultimata tra la fine degli Anni 50 e i primi 60. Ma possedere la bomba senza ammetterlo ha finito col congelare il pensiero, dando a Israele l’impressione di un tempo immobile, di un monopolio non scalfibile. Congelamento accentuato dall’assenza di test nucleari. Per le altre potenze atomiche il test è stato un atto di trasparenza, oltre che di orgoglio o tracotanza. In Israele la dissimulazione ha consentito che la bomba restasse un deterrente puro, che mette paura senza uscire dall’irrealtà del simbolo.
La volontà dell’Iran di divenire una nazione nucleare (e in futuro una simile volontà turca) mette fine al simbolo dissimulato. La bomba comincia a farsi reale, forse usabile in caso di aggressione. È il risultato d’un monopolio contestato ma anche della politica dell’opacità, che molti leader arabi considerano un oltraggio. È anche il risultato della nuova fragilità delle forze convenzionali israeliane. La bomba è un deterrente efficace quando il suo uso è minacciato, ma non necessario. Quando è necessario, la deterrenza rovina. Le ultime guerre israeliane e l’assalto alla flottiglia hanno confermato tale fragilità. Inoltre Israele ha alle spalle una potenza Usa in declino, invischiata in guerre fallimentari, meno disponibile.
Tanto più grave è la delegittimazione di cui soffre lo Stato israeliano, soprattutto da quando Hamas ha vinto le elezioni del giugno 2007 ed è iniziato il blocco di Gaza. Una delegittimazione che tende a espandersi, non solo localmente ma mondialmente. Il nuovo potere regionale esercitato da Iran e Turchia è guardato con sospetto da Washington, ma in fondo tollerato. L’Iran è trattato come un reietto ma la Turchia resta membro della Nato, con cui esistono solidarietà preziose per Washington. Basti pensare allo strano gioco di scacchi in corso sull’atomica iraniana. Il 9 giugno, il Consiglio di sicurezza ha adottato sanzioni contro Teheran, con il consenso di Russia e Cina. Ma il 17 maggio, un accordo regionale di vasta portata era stato raggiunto tra Iran, Turchia e Brasile, in base al quale Teheran accettava di trasportare in Turchia 1200 chilogrammi di uranio a basso arricchimento, in cambio di 120 chilogrammi di uranio arricchito al 20 per cento da usare per il proprio reattore di ricerca medica. Quel che America, Europa, Russia non erano riuscite a fare per anni, due potenze medie l’hanno ottenuto rapidamente. Ma c’è di più: il 27 maggio, il ministero degli Esteri brasiliano ha reso pubblica una lettera inviata da Obama a Lula (e probabilmente al turco Erdogan) in cui l’accordo di Teheran veniva appoggiato, sia pure scetticamente. Le sanzioni lo hanno messo in sordina, ma forse non affossato.
In questo mondo in mutazione si muove Israele, sempre più ingabbiato dalle inferriate che si è fabbricato. Sempre più prigioniero della propria tendenza a considerare equivalenti due minacce che non lo sono: la minaccia alla sua legittimità, e alla sua esistenza. La prima va combattuta politicamente, e preliminarmente alla lotta per la sopravvivenza. Equiparare all’Olocausto l’atomica iraniana, e la rottura del monopolio sul nucleare, significa impedire a se stessi correzioni di rotta e sforzi di rilegittimazione. Se ogni correzione è rifiutata, niente ha senso: né la lotta alla banalizzazione della bomba, né l’uscita dall’opacità, né un negoziato con potenze nucleari in fieri, né, soprattutto, la soluzione del dramma palestinese. È quest’ultimo che consente a tanti Paesi di delegittimare continuamente Israele.
Se adotta uno sguardo lungo, Israele dovrà per forza scoprire che di tempo ne ha pochissimo, per cambiare radicalmente. Non può continuare a colonizzare terre quando anche il Papa denuncia l’occupazione, non può costruire sempre nuovi insediamenti, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania, senza attrarre su di sé il risentimento non solo di Stati contigui ma della stessa America e dell’Europa. Quarantatré anni di colonizzazione hanno reso affannoso quello che ora le tocca fare: facilitare la nascita di un vero Stato accanto a sé, che renda il popolo palestinese non solo fiero ma infine responsabile, dunque anche imputabile.
Gli uomini di Netanyahu ancora si muovono nel mondo di ieri, quello dell’opacità e della sicurezza di sé. Nell’aprile scorso, il presidente del Parlamento Reuven Rivlin ha dichiarato preferibile uno Stato bi-nazionale, piuttosto che dividere Israele e Cisgiordania in due Stati separati. Altri la pensano allo stesso modo. Sono posizioni suicide. Perché se Israele incorpora gli arabi delle zone colonizzate, cesserà di essere uno Stato ebraico. Se non li incorpora, e continuerà a rendere impossibile lo Stato palestinese, cesserà di essere una democrazia. È questo il dilemma cui è condannato, terribile ma ineludibile.
Questa legge va fermata «nell´interesse della democrazia, che deve garantire il controllo di legalità, e che deve assicurare trasparenza di informazione. Non c´è compromesso possibile su questioni di principio, che riguardano i diritti dei cittadini, i doveri dello Stato». Le parole di Ezio Mauro su Repubblica ripropongono il tema della disobbedienza civile, ovvero il limite oltre il quale obbedire può contribuire a riconoscere una legge ingiusta.
E lo ripropongono in un momento nel quale la democrazia costituzionale è a rischio poiché chi ha ottenuto la maggioranza per governare sta accampando pretesti per cambiare le regole: per governare secondo le proprie regole, per i propri desideri e interessi. L´Italia si trova di fronte a un bivio e la proposta di legge bavaglio è una tappa decisiva verso una pericolosissima fase anticostituzionale. Che cosa fare per impedire una nuova stagione liberticida? E prima ancora, come comportarsi di fronte a questa legge, se venisse approvata dal Parlamento?
Se questa legge passasse, molti cittadini si troverebbero fatalmente a dover decidere se rispettare la legge o rispettare la verità, se obbedire alla maggioranza o alla costituzione, poiché chiaramente la contraddizione tra le due è ormai aperta. Come ci ha fatto comprendere il presidente del Consiglio, la costituzione è un impaccio del quale lui vuole liberarsi; un impaccio come la libertà di stampa e l´autonomia della magistratura. Ma quando una decisione politica mette legge e verità, legge e Costituzione in contraddizione tra di loro, è la libertà di tutti a rischio. È su questo semplice ragionamento che si basa la disobbedienza civile, un´azione che è possibile solo dove la politica è sotto lo scrutinio permanente e pubblico dei cittadini e condotta nei limiti della costituzione.
È negli Stati Uniti che si è sviluppata la più ricca e completa teoria della disobbedienza civile: prima contro la schiavitù, poi contro la coscrizione obbligatoria per la guerra del Vietnam. La cornice ideale l´hanno tracciata David Henry Thoreau e Martin Luther King, i quali presero la strada della disobbedienza civile consapevoli che la loro scelta avrebbe comportato la repressione, ma senza per questo desistere. La disobbedienza è «civile» appunto perché fatta rispettando le leggi, perché chi disobbedisce accetta le conseguenze punitive previste. Non è dunque la legge che la disobbedienza civile rifiuta e contesta, ma una specifica decisione di una specifica maggioranza. La quale, quando provoca una reazione così radicale da parte dei cittadini, è davvero contro la legge, fuori della legge.
Thoreau nel 1846 rifiutò di pagare le tasse al governo federale per non contribuire a finanziare una guerra ingiustificata, quella contro il Messico, e una legislazione che sosteneva la schiavitù degli stati del Sud. Spiegò il suo gesto in una lezione al locale liceo pubblico di Concord, nel Massachusetts, che divenne il testo canonico della disobbedienza civile: se la coscienza del cittadino onesto è il sovrano ultimo della democrazia, quando la legge votata da una maggioranza la viola gravemente, la disobbedienza è un atto dovuto a se stessi, un dovere di onestà. Più politica ma non meno radicale la posizione che tenne Luther King, un secolo dopo, questa volta contro la segregazione razziale imposta da decisioni ingiuste. Il leader del movimento americano per i diritti civili scrisse dalla prigione di Birmingham, Alabama, un memorabile discorso-sermone nel quale, affidandosi ad autori religiosi e laici, da San Tommaso a Thomas Jefferson, giustificò la disobbedienza ad una decisione ingiusta con l´argomento che quest´ultima viola il patto fondamentale che tiene insieme la società civile e si mette, lei non i disobbedienti, fuori della legge. Anche per Luther King come per Thoreau, disobbedire era un dovere del cittadino se obbedire significava lasciare che la legge fondamentale venisse calpestata.
Disobbedire voleva dire non solo conservare la propria dignità di cittadini ma anche difendere lo spirito e la lettera della Costituzione. Al dispotismo della maggioranza si risponde riconoscendo obbedienza alla norma fondamentale. Questo principio fu ribadito da John Rawls negli anni della guerra in Vietnam. Rawls, in un saggio memorabile nel quale dettò una specie di statuto della disobbedienza civile, spiegò che questa è l´ultima ratio, una scelta che è fatta dai cittadini singoli e che viene dopo che tutti i passi politici per impedire l´approvazione di una legge sono andati a vuoto: dall´opposizione parlamentare, alle manifestazioni dell´opinione pubblica, al controllo di costituzionalità degli organi competenti. Alla fine, se tutto ció non ha sortito effetto, non resta che la responsabilità di chi individualmente si trova nella condizione di dover decidere se obbedire o no a quella legge.
La disobbedienza civile è per questo un segnale fortissimo di emergenza democratica perché con essa i cittadini si mettono individualmente nelle mani della legge proprio quando la disobbediscono: facendosi disobbedienti restano soli davanti al potere coercitivo dello Stato. Questa estrema ratio, quando necessaria, è una denuncia della situazione di incostituzionalità nella quale si trova a operare la maggioranza con la sua smania dispotica di liberarsi dalle regole. «Vogliamo arrivare a un nuovo sistema in cui non si debbano chiedere più permessi, autorizzazioni, concessioni o licenze», ha detto il Premier, definendo i controlli previsti dalla Carta «una pratica da Stato totalitario, da Stato padrone che percepisce i cittadini come sudditi».
Ma è lui, è una maggioranza che si vuole incoronare sovrana che ci farebbe sudditi e servi se passasse questa pericolosa politica anticostituzionale, se passasse questa legge bavaglio: la madre di tutte le leggi liberticide. Silenziare le opinioni, spegnere la mente dei cittadini rendendoli bambini idioti davanti a una televisione che commercia il nulla: è questa l´Italia che il nostro Premier ha costruito in questi anni, un serraglio di docili sudditi che egli chiama popolo della libertà. Dove si fermerà questo incalzante assalto alle nostre libertà fondamentali?
Sogno una grande mobilitazione. D’altri tempi, sì, perché questi, purtroppo, sono proprio altri tempi. Non solo le manifestazioni nazionali – che spero convergeranno, tra l’altro – ma una manifestazione diffusa in tutta Italia e vicina alle persone. Ci sono le intercettazioni che, nel Paese dalla fragile libertà di stampa, costituiscono uno scandaloso bavaglio per i mezzi d’informazione e un vero e proprio monumento all’insicurezza (!), perché, nel Paese del telefono, negare la possibilità di indagare anche attraverso il ricorso alle intercettazioni è come togliere i poliziotti dalle strade: nel Paese della corruzione che dilaga è un episodio davvero grave e avvilente.
C’è un attacco alla Costituzione (infernale!) che supera di slancio tutte le precedenti sparate di Berlusconi e dei suoi. C’è una manovra che non contiene una riga sul futuro del nostro Paese e che va nella direzione sbagliata, perché non riduce ma, anzi, aumenta le differenze tra chi sta bene e chi non ce la fa (perché in Italia non si può mai parlare di rendita – chissà poi perché – e si è tolta l’Ici a chi la poteva pagare, proprio quando la crisi stava arrivando). Non dobbiamo più dare l’impressione di essere sulla difensiva, se è vero com’è vero che questa finanziaria riscatta in pieno anche la memoria delle cose fatte in campo economico da parte del governo Prodi. Usciamo dai circoli, allora, diamoci da fare, incontriamo i cittadini, parliamone nei luoghi di lavoro e nelle mille piazze di questo paese,ma anche nei luoghi dell’estate che inizia, nelle mille spiagge, nelle serate d’estate che ci attendono.
Chiediamo il coinvolgimento più ampio e la partecipazione più larga possibile. Ci sono i Mondiali? E allora giochiamoci la partita delle partite, Italia contro Berlusconia, perché il gioco si è fatto fin troppo pericoloso. Per tutti. Ritroviamo il gusto dell’informazione politica, della passione, l’ospitalità nei confronti di chi s’indigna e chi ha qualcosa da dire: perché il Pd è uno spazio nel quale capire le cose e dirle, denunciarle, raccontarle al Paese, con parole diverse, un partito che non ha paura di confrontarsi con nessuno e che conosce l’importanza di chi difende la Costituzione, la libertà di informazione e la dignità del lavoro.
Il Pd quest’estate non può andare in vacanza, per il suo e nostro bene. E, forse, senza presunzione, per il bene del Paese. La rassegnazione è pericolosa e la rinuncia è la cosa meno progressista che ci sia. Per ora, in questo momento noir, si sono mossi soprattutto i movimenti, Popolo Viola e Valigia Blu in primis. Ora è il momento che il Pd faccia il Pd. E si faccia trovare dove si trovano i cittadini. Se non ora, quando?
Sfila per strada la rabbia della gente contro il progetto di riqualificazione dell´ex Alfa di Arese. Al posto della storica azienda in rampa di lancio ci sono un centro commerciale, il più grande d´Europa, ville e palazzi, e una nuova tangenziale. Una colata di cemento e asfalto che sconvolgerà la zona. È l´accordo di programma tra Regione, i quattro comuni interessati (Garbagnate, Arese, Lainate e Rho) e i proprietari dell´area, tra cui spicca il nome di Marco Brunelli, numero uno di Finiper e azionista di Gs. Una colata di cemento a cui si oppongono comitati di cittadini, commercianti, il Pd ma anche la Lega, che nei quattro Comuni sta con la maggioranza.
Ieri in 500 hanno marciato per le vie di Arese in segno di protesta portando davanti al municipio la contestazione, fin sotto le finestre del sindaco Gianluigi Fornaro. Mamme, bambini, anziani e giovani, operai, impiegati e casalinghe, una presenza trasversale per una manifestazione nata dal basso e riunita attorno al vessillo del "Coordinamento di difesa del territorio area Alfa", capace di raccogliere in poche settimane 4mila firme da spedire al Pirellone per bloccare il progetto.
"Non svendete il territorio", recitava lo striscione tenuto da centinaia di mani. «Siamo qui per fermare questo scempio – spiega Sara Belluzzo, presidente del Coordinamento –. In un territorio già congestionato dal traffico e divorato della presenza dell´uomo non servono altre strade e nuove case.
L´ex Alfa deve mantenere la sua vocazione produttiva. In passato le parole della Regione ci hanno illuso, ci è sempre stato detto che per il rilancio dell´area si sarebbe puntato sulla green economy, adesso sembra svanita qualsiasi promessa». La preoccupazione per il futuro si mischia al senso di impotenza, lo fa capire il vice presidente di Legambiente, Gianluigi Forloni: «Se anche dovessimo riuscire a far saltare l´attuale accordo di programma, corriamo il rischio di vederci costruire sotto il naso come nulla fosse». La zona è nel cuore dell´area Expo, e il governo potrebbe decidere di intervenire con procedura d´urgenza, senza più ascoltare la voce dei cittadini.
Green economy, un sogno tradito sull´area solo palazzi e ipermercati
Sui cancelli d´ingresso dell´ex Alfa rimangono le bandiere, sgualcite, mangiate dal sole e dalla pioggia. Sono quelle dei sindacati, ultimi segni di una lotta operaia che ad Arese è stata lunga e ha finito per segnare un´epopea. Echi lontani, immagini ancora in bianco e nero, ora gli stabilimenti (costruiti negli anni ´60 per sostituire quelli del Portello a Milano) sono abbandonati. Eppure solo 20 anni fa, sotto le volte dei capannoni lavoravano 12mila persone. Oggi ne rimangono 120, impiegati e ricercatori. Se ne andranno tra poco, entro questo 2010 in cui per uno scherzo della storia ricorre il centenario di fondazione dell´Alfa Romeo: saranno ricollocati negli stabilimenti Fiat di Pregnana e Corbetta. Quello che rimane è archeologia industriale su un´area sconfinata, due milioni di metri quadrati, incastonata tra Garbagnate, Arese, Lainate e Rho, giunte di centrodestra. È qui, nell´ombelico della Lombardia almeno fino al 2015, anno di Expo, che si gioca una delle partite più importanti per il rilancio della Regione.
Di riqualificare la zona si parla da 15 anni, sul tavolo di Formigoni e su quello dei sindaci sono già passati tre accordi di programma nel 1996, nel 2002 e nel 2009, ma da febbraio l´iter è bloccato. Regione e Comuni dicono che non ci sono problemi eppure le loro firme per il via libera ancora non arrivano. L´ultimo progetto però ha scatenato una sollevazione popolare. In quelli precedenti si puntava tutto sull´industria e sulla green economy, per stabilire un ponte tra passato e futuro, come aveva più volte ribadito lo stesso Formigoni. Quel progetto ha lasciato il passo a un centro commerciale di 77mila metri quadrati, primo per dimensioni in Europa, che andrà a prendere il posto del parcheggio coperto a sei piani dove venivano stoccate le automobili destinate alle concessionarie. Nello spicchio che insiste su Garbagnate, 17mila metri quadrati, sorgeranno 1.200 nuove abitazioni, e dalla parte opposta un parcheggio di 3.000 posti auto in vista dell´Expo. È prevista anche una parte produttiva, 700mila metri quadrati, «ma senza contenuti - attacca Andrea Orlandi, consigliere del Pd a Rho - . Si era parlato di auto elettriche, di progetti industriali ecosostenibili, tutto nel dimenticatoio. Occorre ridimensionare il commerciale e aumentare le aree verdi». Le aree boschive hanno ceduto il passo a una tangenzialina di collegamento tra Rho e Garbagnate, dove la giunta sta aspettando solo il via dei lavori per cambiare destinazione d´uso al cuscinetto verde, oggi esistente tra i suoi confini e la nuova cittadella. Un insediamento di 4mila persone, per cui non sono ancora stati pensati servizi indispensabili come le scuole, per fare un esempio.
In un territorio dal fragile equilibrio, attraversato dalla A8 e da un reticolo di superstrade e tangenziali, l´aumento esponenziale delle auto è un cancro capace di mandare all´aria la viabilità. Sia il tessuto sociale che quello economico rischiano di essere travolti dal nuovo volto dell´ex Alfa. Da mesi i negozianti sono sul piede di guerra contro il nuovo centro commerciale, in procinto di essere affiancato da un secondo ipermercato sul territorio di Garbagnate. Per loro, i proprietari dell´area, la Immobiliare estate Sei insieme ad Alfa Business Park (una controllata di Fiat) hanno previsto 4,4 milioni di euro di indennizzo. «Una goccia nel mare se si divide la cifra per gli 800 esercenti interessati dal contentino», dicono i vertici locali della Lega.
Dalla parte opposta della barricata c´è Roberto Zucchetti, sindaco di Rho, esponente di spicco di Cl vicino a Formigoni: «È un´occasione da cogliere. Gli insediamenti è meglio farli dove ci sono già capannoni e se ci sono industriali pronti a investire in tecnologie pulite che si facciano avanti». Di certo, per ora, ci sono già molti commensali alla tavola dell´ex Alfa, dai signori del mattone alla criminalità organizzata, decisa a giocare la sua parte come nei cantieri Expo.
I signori del mattone attendono fiduciosi, il Pgt dovrebbe rivelarsi un assist prezioso. Il gruppo Ligresti, Hines, Pirelli Re, i soggetti più finanziari come Allianz e Generali. E i loro prestatori di riferimento, quel trittico Mediobanca, Unicredit e Intesa Sanpaolo che si incastona nel miglio tra Cordusio e la Scala.
I signori hanno certo conosciuto tempi più felici. Per anni hanno gestito grandi affari entro una rete di potere consolidata; e ben rappresentata a Palazzo Marino. Pure, i costruttori di Milano ora sono in difficoltà, per colpa della crisi finanziaria e poi economica che li ha colti mentre erigevano nuovi moloch, già faraonici quando furono pensati, figurarsi nelle ristrettezze attuali. Santa Giulia è lo spauracchio di tutti. Finire come Luigi Zunino, che sognava una cittadella d’oro ai bordi della tangenziale Est. A braccetto con quei poteri ammaccati, i poteri amministrativi, anemici per le diete imposte dal governo e costretti a triplicare gli oneri di urbanizzazione, l’anno scorso, e a rilanciare una delle prime industrie dell’intorno, ora.
Per trovare una soluzione che tenga tutte le variabili e gli interessi, si tenta il volo alto. Piano di governo del territorio, la carta che riscrive l’urbanistica cittadina e pianifica l’edilizia dei prossimi decenni. Ancora nelle more della dialettica politica, il Pgt svela una filosofia di base molto chiara. Più flessibilità a chi costruisce e nella destinazione delle aree, un nuovo "mercato dei diritti edificatori" che convenga un po’ a tutti, sistematica sussidiarietà nelle funzioni di servizio (significa che il Comune non si occuperà di ospedali, scuole e simili nei futuri nuovi quartieri; creando nuove opportunità per un altro sicuro business privato, totalmente in mano a Compagnia delle Opere e Cl).
Per declinare sulla mappa cittadina i principi, fanno al caso una quantità di spazi ex pubblici - caserme, scali e stazioni ferroviarie su tutti - che saranno messi al bando per assegnarli, con nuove funzioni ed edificabilità, ai migliori offerenti. Si dice che l’ex scalo Farini, l’area più grossa e forse appetibile (651mila metri quadrati) piacerebbe a Ligresti e ad Hines Italia, due big già alleati nei cantieri Garibaldi-Repubblica. E che confidano molto anche nel progetto di via Stephenson (446mila metri quadrati, solo un quinto a verde) dove potrebbe sorgere una "Defense" milanese.
Ma non c’è solo il binomio Ligresti-Hines. La grande area Cascina Merlata, vicina all’Expo di Rho-Pero, è di Euromilano, società composta da cooperative bianche e rosse, più Intesa Sanpaolo, Unipol, Brunelli, Greenway. Poco lontano, Euromilano possiede il progetto Bovisa (846mila metri quadrati), altro quartiere residenziale-uffici che spera nel traino della sede bis del Politecnico. I maligni dicono che Euromilano, e il ruolo delle cooperative, sono un elemento che pesa nella trattativa politica tra giunta e opposizione di centrosinistra. Questi i bocconi ghiotti, ma la cartina cittadina è zeppa di aree dove si potrà costruire, o comunque guadagnare con il nuovo Pgt. E qui entra in gioco il concetto di "perequazione", che prevede lo scambio di diritti a costruire (come avviene per i certificati verdi): chi ha l’area si accorda con chi ha il diritto, sotto la regia del Comune. Meglio ancora, chi ha l’area trasferisce quei diritti a costruire dove più gli conviene. Quel che farà, probabilmente, Ligresti con le sue aree nel Parco Sud, e altre periferiche. Si creerà un mercato i diritti e aree, scambiati in una "Borsa" dai contorni ancora grigi, ma gli esperti scommettono che i grandi operatori faranno incetta dai piccoli di diritti e aree strumentali, per successivi arbitraggi tra cubature su aree di diverso pregio.
Un altro tema riguarda i prezzi, che in città non scendono mai abbastanza, e con le future maggiori volumetrie potrebbero adeguarsi al livello, scarso, della domanda. «Il Pgt è uno strumento innovativo pensato per stimolare il mercato e consentire prodotti immobiliari in linea con la domanda possibile», dice un costruttore. I compratori sono sempre più poveri, perché migranti, giovani o semplicemente colpiti dalla crisi. Per questo c’è chi dice che l’assessore Masseroli punterà molto sull’edilizia convenzionata, per i nuovi progetti. E una svolta "popolare" potrebbe preparare lo sbarco dei costruttori romani, come Caltagirone, Acqua Marcia e Lamaro, che già a vario titolo hanno avuto esperienze di affari in città.
«Il Pgt ha il merito di pensare a uno sviluppo più ampio della città, con una pianificazione urbanistica intelligente», dice Manfredi Catella, ad di Hines Italia, convinto che l’adozione di «una nuova cornice di regole certe e trasparenti» e lo scambio dei diritti a costruire «favorirà tutti gli operatori, non solo i più grandi».
Un albergo a 5 stelle, un residence di lusso, un green per il golf e un altro hotel in costruzione in un sito di interesse comunitario. Accade a Is Arenas, nell’Oristanese, un gioiello tra dune e fondali protetti.
La Corte di Giustizia Europea ha condannato l’Italia per la colata di cemento piovuta su Is Arenas. Un paradiso ambientale unico nel suo genere, racchiuso tra dune incontaminate e mare cristallino della zona di Oristano, inserito già nel 2006 tra i SIC, i siti d’importanza comunitaria. Una braccio di terra dove non si poteva realizzare una speculazione immobiliare. Invece i signori del mattone, avevano pensato di incastonare, lì tra le dune altissime, un complesso turistico di 222.900 metri cubi. La Corte di Giustizia Europea non ci sta, e così condanna la comunità intera a pagare una sanzione che sarà altissima.
«Quello di Is Arenas- spiega l’architetto Sandro Roggio – è un caso emblematico di aggressione al paesaggio e ci toccherà pagare pure i danni. Fa specie poi, che sia stata la Corte Europea a sottolineare in maniera così netta l’inammissibilità di un intervento di quel tipo in una zona da salvaguardare. È una figuraccia con il resto del mondo perché ci dice, tra l’altro, che non siamo in grado di tutelare le nostre bellezze naturali». In realtà, l’Europa aveva già avvisato che lì, in quel paradiso naturale, non si poteva mettere su un villaggio turistico con tanto di campo di golf. L’aveva fatto nel ’98, aprendo la prima procedura d’infrazione di fronte alla Commissione Europea per “cattiva applicazione della direttiva relativa alla conservazione degli habitat naturali”».
UNA STORIA INIZIATA NEL 1997
Nessuno però ha voluto ascoltare. Perché il 9 giugno del ’97 era stato firmato un accordo di programma tra Regione,Comune di Narbolia e i vari rami della società Is Arenas srl. Al posto delle dune metri di cubi di cemento per aprire la strada al turismo con le betoniere, e pazienza se il bene comune andava a farsi benedire.
Nonostante tutto si va avanti con l’operazione immobiliare. Fino a che nel 2000 arriva la prima messa in mora e nel febbraio del 2001 il parere motivato. Così, accogliendo le rumorose proteste dell’Europa, si pensa di sottoporre tutto il progetto alla procedura di verifica di impatto ambientale. Ma il direttore del Servizio di conservazione della Natura e degli Habitat dichiara che basta soltanto la valutazione d’incidenza ambientale. Dice ancora Sandro Roggio che qui «inizia il trucco più grande. Perché se la valutazione di impatto ambientale è prevista per tot metri cubi, l’ostacolo si può aggirare con la frammentazione in vari lotti. Nel frattempo si attacca una zona protetta». L’Europa però continua ad essere lontana da Is Arenas, anche il Gruppo d’Intervento Giuridico e Amici della Terra cercano con esposti e denunce riempire il silenzio. Si va avanti lo stesso con il progetto. Si cercano le pezze, come “La determinazione del Servizio Conservazione della Natura e degli Habitat” che conclude la VIA (valutazione d’incidenza ambientale). Prevede misure ritenute inadeguate dall’Unione che per questo avvia una nuova procedura d’infrazione con due lettere di messa in mora del 22 dicembre 2004 e del 13 dicembre 2005. La potente società Is Arenas srl, però, non si arrende, e scomoda il ministro all’Ambiente Altero Matteoli del governo Berlusconi. Che propone, caso unico in Europa, la cancellazione di Is Arenas dall’elenco dei Sic. Sconcertante la motivazione adottata: il direttore generale del ministero Aldo Cosentino presenta una relazione dove diceva, in pratica, che visto che l’ambiente era ormai compromesso a causa dei lavori, tanto valeva cancellarla dai siti di interesse comunitario.
Nel 2006, finalmente qualcosa si muove. L’Assessore all’Ambiente della giunta Soru Cicitto Morittu cerca di arrivare ad un accordo e presenta un Percorso Concordato da sottoscrivere insieme alla Is Arenas srl e ai comuni della zona protetta. Punti salienti sono il dieci per cento in meno delle volumetrie e ampliamento del perimetro del Sic, la zona tutelata. L’accordo viene approvato con una delibera il 28 aprile del 2009. Troppo tardi per l’Unione Europea, i termini erano già scaduti. Scrivono infatti i giudici Ue nella sentenza che: «anche il piano di gestione provvisorio elaborato dalle autorità italiane nel 2006 è stato approvato dopo la scadenza del termine fissato nel parere motivato complementare». Secondo i magistrati europei «la Repubblica italiana non ha quindi adottato misure di conservazione idonee». E risulta che i lavori «sono proseguiti oltre il termine di due mesi fissato nel parere motivato complementare del 29 febbraio 2008 e sono stati condotti sulla base del progetto originario». Insomma, si è fatto finta di non vedere e non sentire mentre pezzi di territorio venivano devastati dal cemento. E Adesso è troppo tardi: il danno fatto da altri sarà pagato dalla comunità, tanto per cambiare.
Una prima pagina bianca, per testimoniare ai lettori e al Paese che ieri è intervenuta per legge una violenza nel circuito democratico attraverso il quale i giornali informano e i cittadini si rendono consapevoli, dunque giudicano e controllano. Una violenza consumata dal governo, che con il voto di fiducia per evitare sorprese ha approvato al Senato la legge sulle intercettazioni telefoniche, che è in realtà una legge sulla libertà: la libertà di cercare le prove dei reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili – nel dovere dello Stato di garantire la legalità e di rendere giustizia – e la libertà dei cittadini di accedere alle informazioni necessarie per conoscere e per sapere, dunque per giudicare.
La violenza di maggioranza è qui: nel voler limitare fino all´ostruzionismo irragionevole l´attività della magistratura nel contrasto al crimine, restringendo la possibilità di usare le intercettazioni per la ricerca delle prove dei reati. E nel voler impedire che i cittadini vengano informati del contenuto delle intercettazioni, impedendo ai giornali la libera valutazione delle notizie, nell´interesse dei lettori. Tutto questo, mentre infuria lo scandalo della Protezione Civile, nato con le risate intercettate ai costruttori legati al "sistema" di governo, felici per le scosse di terremoto che squassavano L´Aquila.
Le piccole modifiche che sono state fatte alla legge (si voleva addirittura tenere il Paese al buio sulle inchieste per quattro anni) non cambiano affatto il carattere illiberale di una norma di salvaguardia della casta di governo, terrorizzata dal rischio che i magistrati indaghino, i giornali raccontino, i cittadini prendano coscienza. Anzi. La proroga dei termini per gli ascolti, di poche ore in poche ore, è proceduralmente più ridicola che macchinosa. E le multe altissime agli editori non sono sanzioni ma inviti espliciti ad espropriare la libertà delle redazioni dei giornali nel decidere ciò che si deve pubblicare.
Ciò che resta, finché potrà durare, è l´atto d´imperio del governo su un diritto fondamentale dei cittadini – quello di sapere – cui è collegato il dovere dei giornalisti di informare. Se questa legge passerà alla Camera, il governo deciderà attraverso di essa la quantità e la qualità delle notizie "sensibili" che potranno essere stampate dai giornali, e quindi conosciute dai lettori. Attenzione: la legge-bavaglio decide per noi, e decide secondo la volontà del governo ciò che noi dobbiamo sapere, ciò che noi possiamo scrivere.
Con ogni evidenza, tutto questo non è accettabile: non dai giornalisti soltanto, ma dai cittadini, dal sistema democratico. Ecco perché la prima pagina di "Repubblica" è bianca, per testimoniare ciò che sta accadendo. E per dire che non deve accadere, e non accadrà.
Perché, e come, usare i grandi eventi come occasione, seria, di governace. Questa l’applicazione, tutta italiana, della ricerca, commissionata dall’OCSE Leed per lo sviluppo locale, effettuata da Greg Clark, consulente per lo sviluppo del sindaco di Londra e per le strategie del governo inglese. Una ricerca che se, in Europa, è stata recepita come una guida per i benefici per lo sviluppo locale dall’organizzazione dei “global events”, in Italia arriva sotto forma di un libro dal titolo che più chiaro non si può: Cosa succede in città. Olimpiadi, Expo e grandi eventi: occasioni per lo sviluppo urbano (ed.Gruppo 24 Ore).
Significativo anche chi è il curatore dell’edizione italiana del lavoro di Greg Clark: Paolo Verri, già direttore del Salone del Libro di Torino, del Piano Strategico di Torino e, oggi, direttore del Comitato per il 150° anno dell’Unità d’Italia. Un Grande Evento. Ecco, allora, che il motivo che ha spinto Verri a pubblicare in Italia un simile libro, «in un momento in cui» scrive «alla parola “grande evento” si associa perlopiù un connotato negativo», altro non è se non quello di riabilitare i “grandi eventi” rendendoli compatibili «con la nostra cultura politica, giornalistica e manageriale». Se poi andiamo a vedere chi ha finanziato, patrocinato e curato presentazione e prefazione del libro, il quadro è completo. I finanziamenti e i patrocini arrivano, infatti, direttamente dal Comitato Italia 150 e dalle Camere di Commercio di Torino e Milano. La presentazione, in realtà un elogio ex post delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 e una chiara propaganda all’Expo di Milano 2015, è stata redatta da Alessandro Barberis, Presidente della Camera di commercio di Torino, e del suo alter ego milanese, Carlo Sangalli. Per chiudere il cerchio, la prefazione è stata curata direttamente dal sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, che ha parlato del “caso Torino” come chiaro esempio di evento utilizzato come motore di “ri/forma” urbana. Per evitare di essere frainteso, il primo cittadino di Torino mette le cose in chiaro fin dalle prime righe della sua prefazione: «non v’è dubbio» scrive «che il momento di svolta di Torino sia stato un grande evento, anzi due: le Olimpiadi invernali del 2006 e – udite udite – la presentazione della nuova Cinquecento». Non solo. Chiamparino ci spiega come «entrambe le occasioni sono state lungamente preparate e la seconda è fortemente debitrice della prima». Quindi, la mega presentazione e l’enorme pubblicità in diretta tv su Canale 5 dalle sponde del Po della vettura di “casa Agnelli” è merito degli investimenti pubblici per le Olimpiadi invernali. Buono a sapersi, soprattutto ora che siamo in tempi di “Piano Fiat”. E siamo solo all’inizio della “grande opera” firmata Greg Clark. A far tremare i polsi, però, e a inquadrare “cosa accadrà in città”, è la proposta, che arriva nelle ultime pagine scritte da Paolo Verri, per il futuro prossimo del nostro paese, «un paese che si appresta a festeggiare i 150 anni della sua unità» e a dirlo è proprio il Direttore del Comitato Italia 150 «a ospitare l’Expo del 2015, a candidarsi per le Olimpiadi del 2010. Appuntamenti unici, da non sprecare».
Tra l’introduzione e la postfazione, ribattezzata, sempre per non lasciar spazio alle interpretazioni, “Agenda Italia: come e perché una strategia dei grandi eventi in Italia è possibile, anzi necessaria”, 196 pagine sul “Ruolo degli eventi globali a livello globale”, visto che, secondo Clark, «l’era globale sta rinnovando le domande di eventi globali». Eventi che hanno diversi vantaggi, primari e secondari in base alla finestra temporale. Uno su tutti, quello di poter essere sfruttati tanto in funzione del loro impatto sul turismo e sull’economia che, e qui è la partita italiana come spiegherà Verri nella postfazione, «come strumenti di politica di governo». Sono molti gli elementi interessanti toccati da Clark in quello che, ricordiamo, è l’esito di una ricerca commissionatagli dall’Ocse Leed per lo sviluppo locale: dal “fare in modo che diventi un’abitudine: ospitare più eventi” a quello che sembra un capitolo scritto appositamente per il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, relativo alla candidatura della Città Eterna alle Olimpiadi del 2020: “candidarsi a ospitare un evento globale senza vincere”. «La scelta di candidarsi» spiega infatti Clark «è di per sé una mossa vincente». Il motivo? Perché «la presentazione della candidatura per un evento globale incoraggia l’adozione di nuovi punti di riferimento per lo sviluppo urbano, dettando nuove regole di ingaggio». In poche parole «presentare una candidatura significa accelerare la pianificazione dello sviluppo e i progetti di trasformazione urbana». E come non vedere un nesso tra la candidatura di Roma 2020 e il primo incontro in Italia, tenutosi la scorsa settimana in Campidoglio, dell’International Business Aviation Council per discutere delle prospettive di investimento e sviluppo offerte da Roma? Non appena lanciato il Gran Premio di F1 del 2013 e la candidatura di Roma olimpica, Alemanno ha aperto le porte della città a Martin Sorell, chairman dell’Ibac, al magnate dell’editoria Rupert Murdoch, all’ad di Eni Paolo Scaroni, a Ferrovie dello Stato, Ferrari, Bulgari, Finmeccanica, Fiat, Enel, Aeroporti di Roma, Trussardi, Prada, Mediaset per le aziende battenti bandiera tricolore. Mentre, tra gli internazionali, si sono riversati a Roma i vertici di Coca Cola, Pepsi, Ibm, Colgate, Volkswagen, Goldman Sachs, Goolge… E l’elenco potrebbe continuare a lungo.
Alla fine, quindi, per Greg Clark il vero vantaggio di ospitare, o di candidarsi ad ospitare, un global event consiste nell’accelerazione degli investimenti e nell’attuare strategie locali e regionali in modo più completo e rapido. Peccato, però, che tutto questo si traduce nell’offerta di «un potenziale contributo all’incentivazione del mercato immobiliare e dell’infrastruttura delle regione». Il che, in Italia, significa cemento verticale e orizzontale. Altre costruzioni e altre autostrade.
Ma in Italia, una strategia dei global events ha un’applicazione tutta sua: quella, come spiega chiaramente Paolo Verri nella postfazione, di «motore di sviluppo e occasione (seria) di governance». Per Verri, quindi, ci sono dieci anni, dal 2011 al 2021, «per riposizionare il paese». Quello che si apre è, infatti, per il direttore del Comitato Italia 150, «un decennio dalle grandi potenzialità».
Prima grande occasione, ovviamente, Italia 150 per lanciare un piano di intervento decennale capace di coinvolgere almeno sei delle maggiori aree metropolitane del paese. «A partire dal 2011» sostiene Verri «si potrebbe lanciare in maniera sistematica la dorsale Torino – Milano – Bologna – Firenze – Roma – Napoli legata alla nuova infrastruttura dell’alta velocità ferroviaria». Eccolo il vero obiettivo di Italia 150: capitalizzare la Tav estendendola al tessuto culturale.
Quindi, nel 2013, sarà la volta di Napoli con il Forum delle Culture. Giunto alla sua quarta edizione. Dopo Barcellona 2004, Monterrey 2007, Valparaiso 2010, ecco Napoli 2013. Obiettivo: milioni di euro per la “riqualificazione” dell’area di Bagnoli. Quindi, Milano 2015: Verri si scaglia contro il budget decurtato e sul fatto che «mai dopo la candidatura è parso esserci da parte del governo nazionale un impulso forte a fare dell’Expo il centro delle politiche economiche e commerciali del paese». Per questo, è necessaria «una campagna positiva dal basso che renda partecipe tutto il mondo delle imprese italiane».
Ma a preoccupare, scampato il “rischio” Europei 2016 con una figuraccia planetaria sulla candidatura dell’Italia, sono i Grandi Eventi a venire. Quattro, per l’esattezza. Tre dei quali, esclusa la corsa di Roma per le Olimpiadi del 2020, tenuti sotto traccia fino a oggi: due nel 2019, quando una città italiana da scegliere (in lizza Bari, Matera, Rimini, Ravenna e Venezia), sarà Capitale europea della Cultura e quando ricorrerà il Cinquecentenario della morte di Leonardo; l’altro nel 2021, quando ricorreranno i 700 anni dalla morte di Dante.
Un evento, quest’ultimo, che Verri ha definito «la ciliegina sulla torta» nell’ottica di un piano strategico nazionale per i grandi eventi. Così, alla fine di un decennio, quello 2011-2021, «che porterà notevoli conseguenze negli stili di vita e nei modelli di crescita e sviluppo del nostro paese e che potrà essere costellato di grandi eventi condivisi» ci sarà da ricordare Dante Alighieri. «Dante è Firenze» scrive Verri «è la lingua italiana, è la commedia, è la chiesa, è la politica». In suo onore, quindi, «bisognerà prevedere uno sforzo supremo per ricordare questo personaggio unico nella cultura mondiale».
Purtroppo l’anniversario della sua nascita è troppo lontano (2065!) per fare in modo che il ricordo di Dante si utile allo sviluppo del piano strategico per i grandi eventi. Così, l’anniversario della sua morte casca a fagiolo per iniziare a pensare a un riassetto urbano non solo di Firenze e della Toscana, ma anche di Verona e Ravenna, le altre due città principali nella storia della vita di Dante. È così che questa rassegna di grandi eventi, possibili e organizzabili in Italia nei prossimi dieci anni, «mette in luce un’opportunità unica e irripetibile per il nostro paese»: quella di instaurare una nuova governance.
Si chiama principio di “precauzione” e non può mancare nell’armamentario concettuale di chi - per esigenze professionali o di impegno civile - si occupa di problematiche ambientali. Applicato all’urbanistica, comporta che siano evitati gli interventi dei quali non sono esattamente quantificabili i potenziali effetti impattanti sulle risorse naturali, sulla salute e la vita di relazione delle comunità interessate. Da sempre utilizzato per ragioni di buon senso, il suo sistematico impiego, in tutti i casi di valutazione di nuovi piani o programmi, viene ormai prescritto da specifiche disposizioni legislative.
Nel 1992 il concetto di precauzione compare per la prima volta nel Trattato di Maastricht, quando gli Stati dell’Unione Europea decidono di fissare 3 obiettivi e 4 principi di comune orientamento alle rispettive strategie in tema di “ambiente”. Gli obiettivi sono quelli di protezione della salute umana, di progressivo miglioramento della qualità ambientale e di accorta utilizzazione delle risorse naturali, cui vanno associati i principi di precauzione, di prevenzione, di correzione alla fonte e di riparazione economica (“chi inquina paga”) dei danni all’ambiente. Di fronte a pericoli già identificati si possono adottare misure di “prevenzione”, ma quando la pericolosità di un determinato piano è percepita solo come indizio, il principio di “precauzione” impone una gestione prudente del rischio per non dover tardivamente ricorrere ad azioni correttive o ad indennizzi monetari compensativi.
In Italia nel 2008 il principio di precauzione trova finalmente spazio nel codice ambientale (art. 3 ter) e da febbraio 2010 compare tra le finalità della legge regionale n. 10/2010, con la quale vengono prescritte le procedure di valutazione ambientale da seguire in Toscana. Basteranno i richiami di legge a impedire ambigue o distorte interpretazioni del generale principio di cautela? Quando si vuol vedere un progetto realizzato a tutti i costi, infatti, è proprio per “precauzione” che lo si supporta con costosi e autorevoli pareri tecnico-giuridici, gli si assicura largo consenso politico, lo si affida a procedimenti amministrativi complessi e ridondanti, si sollecita l’opinione pubblica facendo leva su situazioni di emergenza, si sposta gradualmente verso il basso l’asticella degli indicatori di conformità.
Nel 1985 il Governo italiano, incalzato dalle prescrizioni della Direttiva europea sulla qualità delle acque destinate al consumo umano, fissò i limiti di contaminazione per le falde acquifere. Da un giorno all’altro mezza Italia si trovò a non poter utilizzare i pozzi nelle zone interessate dalla coltura del mais e il ministro della Sanità Donat Cattin emanò subito l’ordinanza con cui veniva elevato a 1 microgrammo per litro il contenuto massimo di atrazina ammesso, 10 volte di più del limite legislativo di 0,1 che a giudizio ministeriale non era “necessariamente correlabile alla presenza di rischi tossicologici”. Ma l’assenza di prove non è prova di assenza e la magistratura chiarì che prima di spostare una virgola si sarebbero dovuti scientificamente provare gli effetti innocui della contaminazione di 1 microgrammo per litro.
A forza di spostare virgole, “ogni secondo che passa un metro quadrato viene ricoperto di cemento”, denuncia il presidente del Parco dell’Arcipelago Mario Tozzi. A Venturina, intanto, si parla di un nuovo regolamento urbanistico basato sull’edilizia “premiale”: sarà consentito costruire nuovi alloggi, soprattutto se destinati all’affitto a canone sociale, almeno fino a quando non sia stato scientificamente provato che lo sforamento della soglia di sostenibilità altera davvero i flussi di traffico veicolare, aumenta la quantità di polveri sottili in circolazione, impoverisce la biodiversità, limita la fruizione degli spazi comuni, influenza le condizioni di salute e di equilibrio socio- ambientale della Val di Cornia.