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Non passa giorno senza che si sappia di nuovi tagli all'Expo e che il sindaco Moratti e Lucio Stanca annuncino «risparmi» anche per il nuovo masterplan presentato al Bie a maggio. Che la crisi avrebbe costretto a rifare più volte i conti dell' Expo era prevedibile e quando, più di un anno fa, pubblicammo la petizione contro «l'Expo dei padiglioni», la intitolammo «Milano Expo 2015: città sostenibile dopo la crisi».

Ritenevamo che l'Expo fosse l'occasione per avviare Milano e la Lombardia verso la sostenibilità sociale, ambientale, energetica e dei trasporti, utilizzando grandi edifici e siti già disponibili nel territorio. La crisi planetaria costituiva l'inconfutabile motivazione per ottenere dal Bie di abbandonare la formula della manifestazione luna park e proporre una Expo diffusa e sostenibile. E ciò sarebbe ancora possibile assicurandosi la partecipazione dei vari Paesi senza sprechi sia per loro che per noi.

Ormai il sito Expo ce lo dobbiamo tenere. Ma poiché il suo ruolo sarà molto ridimensionato, è necessario promuovere un fuori Expo, analogo a quello che si realizza ogni anno durante il Salone del Mobile, di cui si avvantaggino Milano e la Lombardia. Ma dato che l'Expo dura sei mesi e non sei giorni, il fuori Expo dovrà essere organizzato con tutt'altro impegno. Ci vuole una strategia per preparare il territorio alla pacifica invasione di milioni di visitatori; dovremo offrire, soprattutto ai giovani, una esperienza di vita sostenibile, consentendo loro di sperimentare concretamente come sia possibile nutrire l'umanità, salvaguardando l'ambiente, disciplinando i consumi, risparmiando energia ed evitando gli sprechi.

Il taglio dei finanziamenti non sarà il peggiore dei mali se la manifestazione sarà accompagnata da una Expo diffusa e sostenibile che estenda la partecipazione alle componenti sociali e imprenditoriali, offrendo l'occasione di far conoscere le eccellenze della Lombardia, con duraturi vantaggi anche per il turismo. Regione e Provincia di Milano dovrebbero promuovere questa componente della manifestazione con maggiore determinazione. Vedremo se Formigoni, che ha già annunciato per settembre la seconda edizione degli Stati generali dell'Expo, mobiliterà il potente apparato di cui dispone.

Come Politecnico di Milano, con il contributo della Fondazione Cariplo Area Ambiente, abbiamo avviato un progetto di Expo diffusa e sostenibile (Eds) per mettere in rete le varie iniziative che si stanno avviando da parte di soggetti sia pubblici che privati con l'obiettivo di favorire le possibili sinergie a vantaggio della qualità delle ricadute territoriali. Ma con questi chiari di luna è impensabile fare affidamento su finanziamenti pubblici. Tutte le iniziative di Expo diffusa e sostenibile dovranno essere autosufficienti, avere una reale fattibilità imprenditoriale e interpretare il tema Nutrire il Pianeta, Energia per la Vita in tutte le sue possibili declinazioni, lasciando nel territorio una solida eredità in grado di configurare, fin da ora, l'armatura della futura metropoli sostenibile.

www.emiliobattisti.com

E Bondi "commissaria" la Arcus: bloccati i fondi per Propaganda Fide

Corrado Zunino, la Repubblica, 23 giugno 2010

Di prima mattina, lunedì mattina, il ministro Bondi ha chiamato il direttore generale di Arcus e, preoccupato dalle notizie che stavano salendo di quota sui finanziamenti pubblici concessi dal dicastero dei Beni culturali ai siti del Vaticano, sulle inchieste della Corte dei Conti e della Procura di Perugia sul palazzo di Propaganda Fide in Piazza di Spagna, a Roma, ha chiesto un rapporto dettagliato sull’attività dell’azienda privata controllata dal ministero del Tesoro che in sei anni ha speso – investito, sostiene il suo direttore generale, Ettore Pietrabissa – mezzo miliardo di euro. Ecco, quattro finanziamenti di Arcus – voluti e sottoscritti nel tempo dai ministri Lunardi, Rutelli, Buttiglione e quindi dallo stesso Bondi – erano stati indirizzati su opere del Vaticano.

La Corte dei conti, contestando l’attività generale di Arcus, aveva segnalato diverse incongruità proprio sui finanziamenti per progetti religiosi. E i magistrati di Perugia avevano contestato la corruzione all’ex ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, e all’ex prefetto di Propaganda Fide, Crescenzio Sepe, mettendo a fuoco proprio il finanziamento da 5 milioni per il palazzo di Propaganda Fide: finanziamento di Stato alla Chiesa, apparentemente illegittimo, concesso secondo l’accusa in cambio di benefici personali a Lunardi, che a inizio Duemila aveva comprato un palazzetto di proprietà proprio di Propaganda Fide. Lunardi acquistò i tre piani (occupati da otto persone) in via dei Prefetti – dietro Montecitorio – per 4,16 milioni. Gli inquirenti ritengono che per quei 720 metri quadrati il valore di mercato, in realtà, fosse almeno il triplo.

Studiata la relazione degli uffici di Arcus, il ministro Bondi si è accorto che dei 5 milioni pubblici dati per la ristrutturazione del palazzo borrominiano di piazza di Spagna, 500 mila euro dovevano essere ancora erogati. E lunedì ha chiesto che l’ultima tranche del finanziamento fosse fermata, almeno fino a quando non sarà inaugurata la pinacoteca interna e garantita la sua apertura al pubblico (oggi è stata annunciata per il prossimo venti ottobre). Di più, gli stessi uffici tecnici hanno segnalato al ministro che il finanziamento per il cortile dell’Università Pontificia Gregoriana doveva essere completato: agli 800 milioni concessi nel 2009 doveva essere aggiunto un milione per la stagione in corso. All’interno della struttura erano stati recuperati resti romani. Anche questo finanziamento è stato congelato. E poi il ministero dei Beni culturali è intenzionato a rivedere gli appalti sottoscritti con il Vaticano per ottenere condizioni migliori per lo Stato. Innanzitutto, i siti ristrutturati dovranno essere accessibili al pubblico (cosa, ad oggi, non prevista).

La Procura di Perugia, che in questi giorni ha sul tavolo il dossier sulla società privata controllata dal Tesoro, vuole capire alcune questioni controverse. Ed è probabile che nei prossimi giorni interrogherà i dirigenti di Arcus per chiedere, per esempio, perché nell’appalto tipo non era prevista una data di chiusura dei lavori, perché nel progetto iniziale di ristrutturazione del palazzo di Propaganda Fide non si fa cenno ad alcuna pinacoteca, perché nella prima fase dei lavori compare l’architetto Angelo Zampolini, il contabile delle tangenti dell’imprenditore Diego Anemone. E ancora, perché la direttrice dei lavori in piazza di Spagna, Francesca Nannelli, compagna del vice commissario dell’Aquila Luciano Marchetti, distaccata dai Beni culturali di Firenze ad Arcus, è affittuaria di un appartamento di Propaganda Fide nel centro di Roma (in via del Governo Vecchio).

Tutti corrono alla cuccagna Arcus

Stefano Sansonetti, ItaliaOggi, 24 giugno 2010

Chissà se il ministro dei beni culturali, Sandro Bondi, sa che tra i beneficiari delle erogazioni della Arcus spa c'è addirittura l'Associazione nazionale magistrati. Per carità, lo scopo è assolutamente ammirevole, trattandosi della «riqualificazione ambientale in un sito confiscato alla mafia nel territorio di Ciaculli a Palermo». Ma resta il fatto che la società ha già predisposto un finanziamento pubblico di un milione di euro che finirà dritto dritto all'Anm.

Certo è che a scorrere l'interminabile lista di interventi finanziati per il triennio 2010-2012 dalla Arcus, che opera sulla base di decreti interministeriali firmati dai dicasteri dei beni culturali e delle infrastrutture, si scopre veramente di tutto. E non manca qualche sorpresa, soprattutto alla luce del coinvolgimento della società (al 100% del ministero dell'economia) nella vicenda che vede indagato per corruzione il cardinale Crescenzio Sepe, all'epoca dei fatti responsabile di Propaganda Fide. Dall'elenco, approvato con un decreto interministeriale del 1°dicembre del 2009, emerge chiaramente che i finanziamenti della spa finiscono spesso dalle parti del Vaticano. Nel prossimo triennio, per esempio, sono già stati predisposti 1,5 milioni di euro (1 milione per il 2010 e 500 mila euro per il 2011) che serviranno a restaurare i cortili interni della Pontificia università gregoriana, la stessa che in passato ha beneficiato di versamenti per un altro milione di euro.

Oltre a questi, come emerso dalle cronache di questi giorni, erano arrivati dalla spa pubblica 2,5 mln per la ristrutturazione della sede di Propagande Fide. Ristrutturazione che poi non sarebbe intervenuta. Nella lista, inoltre, compaiono finanziamenti per 9 tra diocesi e arcidiocesi. In tal senso il gettone più corposo, ovvero 1 milione e 850 mila euro, è stato assegnato all'arcidiocesi di Altamura per il restauro della cattedrale di Gravina. Ma ci sono anche 800 mila euro destinati all'arcidiocesi di Napoli, ben conosciuta da Sepe, per attività del suo museo. A seguire ecco venir fuori 700 mila euro per la diocesi di Tivoli, 300 mila per la diocesi suburbicaria di Porto Santa Rufina, 500 mila per la diocesi di Palestrina, 400 mila per la diocesi suburbicaria di Albano e così via. Poi è il turno delle parrocchie. Gli stanziamenti della Arcus ne aiuteranno 8, con il gettone più ricco, 1 milione di euro, destinato alla parrocchia S.Maria della Scala in S.Fedele di Milano.

Curioso notare che dalla lista spuntano fuori anche finanziamenti diretti a enti che, sulla base degli elenchi inseriti in un primo momento nella manovra dal ministro Giulio Tremonti, avrebbero dovuto non godere più di sovvenzioni pubbliche. È il caso della Scuola archeologica di Atene, a cui sono stati destinati 500 mila euro, dell'Istituto Luigi Sturzo, che avrà 300 mila euro, e della fondazione Giorgio Cini, che incasserà 450 mila euro per il restauro del cenacolo palladiano nell'isola di san Giorgio Maggiore. E c'è addirittura un ente palesemente considerato inutile, e quindi soppresso dalla Finanziaria, come l'Ente teatrale italiano, a cui nel 2010 l'Arcus darà 1 milione e 290 mila euro. Tra le pieghe si possono anche scorgere 500 mila euro per la Comunità ebraica di Pisa.Insomma, il tutto vale 200 mln fino al 2012. Che si aggiungono ai 250 mln di valore dei 360 progetti deliberati a fine 2009. Per un totale di 450 milioni di euro.

L'impresa ideologica non è riuscita. L'asse Tremonti-Sacconi contro i diritti costituzionali (articolo 41) e sociali (articolo 18), per segnare l'inizio di un'altra epoca nelle relazioni industriali, deve fare i conti con una presenza operaia e sindacale che non si arrende: il 36 per cento di no all'ipotesi di accordo, nella fabbrica di Pomigliano, è un risultato clamoroso. Non solo non c'è stato il plebiscito annunciato (anche dalla maggioranza dei giornali, più o meno legati alla Confindustria), che la Fiat sperava e il governo attendeva. Di fronte a un terzo di no (i sì si fermano al 62 per cento), gli sponsor dell'accordo devono invece prendere atto di una coscienza operaia che in questo paese proprio non vuole spegnersi. Devono fare i conti, politici e sociali, con chi resiste all'idea di trasformare il lavoro in merce da retribuire con salari appena sufficienti alla riproduzione, alla riduzione della fabbrica in caserma e della persona in robot per sette ore e mezzo, giorno e notte. Dagli operai di Pomigliano, che ormai disertano anche la pasticceria del quartiere perché il salario lo sconsiglia, arriva una lezione di dignità e intelligenza politica che parla a tutti. All'azienda, al governo, al maggior partito di opposizione.

La Fiat deve constatare che il plebiscito a favore dell'accordo separato non c'è stato. I primi commenti al risultato del referendum («parleremo solo con chi ha firmato») sono pessimi, dettati da un'arroganza padronale incisa nel dna di un management che cambia look ma non modo di pensare, confermando di interpretare la globalizzazione come un ritorno a rapporti di produzione ottocenteschi. In totale sintonia con un governo che punta a cancellare il conflitto e liberare il lavoro dall'intralcio sindacale. La risposta della vicesegretaria della Cgil, Susanna Camusso, è finalmente netta: «Penso che ilministro debba rassegnarsi al fatto che un paese moderno né divide i sindacati, né cancella i diritti ». Per il momento Sacconi dovrà rinviare il progetto di inclusione della Cgil nel cerchio dei collaboratori di palazzo Chigi e di cancellazione del ruolo della Fiom.

Ma soprattutto a guardare dentro l'urna di Pomigliano dovrebbe essere la leadership del Pd. Dopo aver vinto il congresso sventolando la bandiera del lavoro, Bersani è stato capace di parlare alle migliaia di militanti riuniti all'assemblea di Roma senza mai nominare la parola Pomigliano. Una rimozione che spiega più di mille dichiarazioni l'incapacità di ritrovare ruolo politico e identità culturale. Non si chiede neppure di parlare al paese di un processo di sviluppo diverso, dimettere in discussione la sovraproduzione di auto che avvelenano e che i bassi salari neppure consentono di acquistare, ma di difendere chi combatte per mantenere la schiena dritta, per sé e per le future generazioni. Per quei ragazzi che alla maturità scelgono il tema sulla ricerca della felicità, convinti che il mondo si può cambiare. Se non ora, se non di fronte alla solitudine e alla disperazione operaia, bisognerebbe spiegare di quale sinistra si parla e in nome di chi.

L´Aquila, con il disagio e la protesta dei suoi cittadini, ci parla in molti modi dell´Italia. Ci ripropone la sensazione che sempre avvertiamo dopo la catastrofe, materiale e culturale, di un terremoto: la sensazione cioè che ogni volta sia la nazione nel suo insieme a doversi rialzare, a dover ritrovare ragioni e speranze per il proprio futuro. Lo avvertivo nel 1976 friulano, nei luoghi in cui sono cresciuto, e lo avverto ora nell´ Abruzzo in cui insegno da molti anni. L´Aquila ci parla anche di un paese incapace di far tesoro delle esperienze del passato. E ci costringe a interrogarci sul nostro presente: è la storia d´Italia che ci viene incontro quando ricordiamo la valanga d´acqua del Vajont, il 1968 del Belice, il 1976 del Friuli, il 1980 della Campania o l´Abruzzo di oggi.

Si pensi al Vajont del 1963, che mostrava all´Italia del "miracolo economico" la tenace sopravvivenza di una povertà arcaica, di donne vestite di nero, di gerle che portavano in salvo i residui di una miseria antica. E si pensi all´inadeguato esito del processo ai responsabili, frutto di una giustizia ancora debole e incerta di fronte ai potenti. La prima fotografia scattata a L´Aquila che ricordo d´aver visto è della fine degli anni Sessanta, la pubblicarono tutti i giornali: ritraeva le donne del Vajont scese in Abruzzo per assistere a quel processo.

Vi è poi il 1968 del Belice, che è anche l´anno di Avola, nella stessa Sicilia: un´Italia in cui i braccianti potevano ancora morire sotto il piombo della polizia battendosi per diritti elementari. In quell´anno una giovane generazione iniziò a chiedere l´"impossibile": si dimostrò impossibile anche dare risposte adeguate a quei diritti e a quei bisogni. E il Belice divenne il simbolo di un amarissimo, doloroso e umiliante fallimento nazionale.

Si pensi anche al 1976 del Friuli, molto evocato ma poco conosciuto nella sua articolata realtà. Ci racconta molte cose, quel Friuli. Ci parla in primo luogo del clima del tempo, di una "democrazia dal basso" che si sviluppò prepotentemente in un Paese segnato da una grande sensibilità civile e da una forte speranza di cambiamento, presto delusa. Ci parla del concreto operare di persone e di istituzioni, di legislatori nazionali e di amministratori locali, a contatto diretto – non senza conflitti, talora – con gli amministrati, con i paesi e le culture ferite dal trauma. E ci parla anche del prezioso ruolo svolto allora dalla Chiesa friulana, dai suoi sacerdoti e dal suo vescovo. Un momento irripetibile, forse, e quattro anni dopo l´Irpinia sembrò collocarsi in un´altra epoca. Illuminò di luce cruda i mutamenti in corso sia nel Paese che nel Palazzo. In un primo momento i ruoli sembrarono quasi rovesciarsi: poche ore dopo il sisma è Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, a irrompere dal video nelle case degli italiani e a denunciare i rischi di un "altro Belice". A chiamare in causa responsabilità di singoli e di parti politiche. Quelle immagini televisive ci appaiono oggi la nobile e terribile testimonianza di un´impotenza. A nulla varrà quell´irrituale appello, che attirò al Presidente anche veementi critiche. In Irpinia fu molto peggio che nel Belice. La ricostruzione delle aree colpite – e di quelle non colpite, poiché l´area si dilatò a dismisura e lo sperpero si protrasse nel nulla – moltiplicò inefficienze, corruzione, sprechi, dilapidazioni di denaro pubblico. Alimentò o consolidò intrecci perversi fra poteri legali e illegali. E la grande solidarietà per l´Irpinia fu l´ultimo grande momento di mobilitazione nazionale per il Sud, prima dell´innescarsi di derive e umori che la Lega porterà agli estremi: nei primi anni Ottanta deliranti scritte antimeridionali inizieranno a comparire sui cavalcavia veneti o sui muri lombardi.

Che Paese ci ha mostrato, infine, il dramma di oggi, il dramma dell´Abruzzo? In primo luogo un Paese irresponsabilmente smemorato: il decisionismo di vertice e l´esautorazione della popolazione che sono state imposte a L´Aquila sono l´esatto contrario di quell´intreccio fra partecipazione e decentramento che fu la chiave vera della rinascita friulana (e contraddicono anche la positiva esperienza delle Marche e dell´Umbria, nel 1997). Hanno sottratto alla discussione e alla decisione della comunità colpita e dell´intero Paese non solo le misure della primissima fase ma anche quelle riguardanti il futuro della città, ancora circondato da un´incertezza e da un´opacità che alimentano la sfiducia, se non lo sconforto. Negli ultimi anni, inoltre, l´azione generale della Protezione civile ha assunto progressivamente al proprio interno il perverso meccanismo che è stato alla base del disastro campano: l´estensione delle regole dell´emergenza – con l´indebolimento di controlli e vincoli – ad eventi che non hanno alcun rapporto con essa (con le conseguenze rivelate dalle intercettazioni telefoniche, che il governo vuole appunto abolire). La berlusconiana "politica del fare", presunto simbolo di innovazione, ha così riproposto in qualche modo i contorni più negativi della politica degli anni ottanta. Amplificati dalle promesse mirabolanti e dalle realtà virtuali fatte intravedere, favoriti anche da troppi "intervalli di silenzio" dell´informazione (di quella televisiva in modo particolare, con rarissime eccezioni).

Anche il Paese, infine, dovrebbe interrogarsi meglio su se stesso. Una nazione che non sente il bisogno di essere realmente e assiduamente vicina a una propria parte ferita rischia di smarrire, e forse sta già smarrendo, la propria ragion d´essere più profonda.

Postilla

Una esemplare, sintetica lezione di una storia dimenticata dell’Italia, attraverso il succedersi degli eventi catastrofici. Questo tipo di lettura andrebbe approfondito su spazi più ariosi delle colonne di un quotidiano. In tal caso si potrebbero approfondire le modalità delle esperienze positive (come quelle del Friuli e dell’Umbria) e a un’analisi più dettagliata ne apparirebbero altre (come quella del dopo-terremoto a Napoli, nei primi anni 80).

Mussolini? Un leader, con gli altri, tra gli altri. Così appare in mezzo a un'insalata mista di statisti italiani e di papi nella traccia più politica fra tutte quelle proposte agli esami di maturità. La traccia ha il tema conduttore del "ruolo dei giovani nella storia e nella politica". E introduce brani di discorsi sotto il titolo "Parlano i leader". Che cosa è un leader, il vocabolario Zingarelli che ho sott'occhio lo spiega così: "Capo di un partito o di un movimento politico di indiscusso prestigio".

Indiscusso il prestigio di Mussolini? La traccia è completata da una frase fra tutte celebre, più di tutte esecrabile nella storia di un regime nato da un delitto: è quella tratta dal discorso pronunciato da Mussolini il 3 gennaio 1925 alla Camera. Questo è il discorso del leader proposto alla riflessione e all'ammirazione dei giovani. E' proprio quello della pagina più cupa e più truce della storia italiana: la rivendicazione della responsabilità personale di Mussolini nell'assassinio di Matteotti. Fu il discorso di un capobanda, di colui che si dichiarò capo di un'organizzazione a delinquere.

Questo e non altro dicono le frasi selezionate dagli esperti del ministero. Ora, se questo è un leader di indiscusso prestigio, è inevitabile che dalla memoria del paese e dalle menti dei suoi giovani scompaia l'ombra nobilissima di Matteotti. Il suo nome evocava finora una delle presenze più sacre della storia e della politica italiana del '900. Quel nome riassumeva da solo le virtù politiche del leader degno di essere ammirato e ricordato in un paese dove le regole democratiche sono state reintrodotte solo al termine di un conflitto mondiale, al prezzo di infiniti sacrifici e dolori, riemergendo a fatica dall'abisso della vergogna e della corruzione di ogni ordine civile.

Se ha senso l'esistenza di una scuola pubblica come palestra di trasmissione di valori e formazione di una maturità civile e politica, il nome di Matteotti è quello che emerge dal bilancio storico del '900 italiano come il più degno in assoluto di essere ricordato: ci sono frasi del suo discorso parlamentare che sono scolpite nei luoghi di memoria del paese e che gli garantiscono l'indiscusso ruolo di vero leader nella nostra storia politica. Su testi come quelli i giovani possono imparare a esercitare i loro diritti e doveri di cittadini nella repubblica democratica e costituzionale dove credevamo di vivere. In tempi in cui la corruzione degli ordinamenti pubblici e dei comportamenti privati deprime ogni voglia di partecipazione onesta alla cosa pubblica, si dovrebbe riproporre alla conoscenza delle giovani generazioni non l'assassino ma l'assassinato.

La pagina scritta da questa proposta rappresenta un salto di qualità nella storia della scuola pubblica italiana di cui sarebbe sbagliato non registrare l'importanza. Abbiamo lamentato finora che a questa scuola sia stato imposto un regime di tagli tali da avvilire in tutte le forme la figura dell'insegnante e da far sbiadire l'offerta della scuola pubblica come luogo germinale della coscienza civile. Ma oggi per la prima volta è stata data una sterzata netta immettendo tra i modelli di testi su cui da oggi in poi si eserciteranno preventivamente i candidati all'esame di maturità il più ignobile tra tutti i documenti della nostra storia.

Nelle tracce di storia si accosta un brano di Primo Levi a una domanda di riflessione storica sulla vicenda delle foibe. Si tratta di una proposta che si presenta sotto il segno di una complicata bilancia politica: su di un piatto la violenza dei lager nazisti, sull'altro la violenza dei partigiani comunisti. Che poi si possa fare un ottimo lavoro seguendo sul serio la traccia delle foibe è un altro discorso: sappiamo infatti quanto lavoro sia stato fatto dagli esperti su questo tema, seguendo sui tempi lunghi il filo conduttore della tragica storia dei nazionalismi scatenati al confine orientale d'Italia con la fine dell'Austria imperiale.

La letteratura sull'argomento è ricchissima: ma i nomi di studiosi come Enzo Collotti, Gianni Oliva, Joze Pirjevec (a sua cura il recentissimo Foibe, Einaudi 2009) sono rimasti al di fuori del mondo della scuola per la povertà delle biblioteche scolastiche e per la cancellazione di ogni forma di aggiornamento dei docenti: e forse sono ignorati dagli esperti anche perché sospetti di essere di sinistra. Di fatto la ricerca di un velo bi-partigiano e ambidestro qual è quello che copre le due tracce non è certo un "rappresentare tutta l'Italia". Misera Italia quella a cui si dà in pasto alla sinistra una pagina purchessia col nome del grandissimo, asciutto e severo testimone della Shoah; e si dà alla destra un colpo di grancassa sul tema che da tempo è il cavallo della propaganda contro gli eterni "comunisti" della maniacale ossessione berlusconiana.

A Pomigliano prevale il sì all´accordo con la Fiat. Non stravince, come la sua direzione avrebbe gradito. Dobbiamo però augurarci che la Fiat non prenda pretesto dal risultato inferiore alle attese per mandare a monte l´accordo, oppure per imporlo senza modificarne una virgola. Non soltanto nell´interesse dei lavoratori, ma anche della Fiat, e del paese, per le conseguenze sociali e politiche che ciò potrebbe avere. Vediamo perché.

In Italia la Fiat produce 650.000 vetture l´anno con 22.000 dipendenti. In Polonia ne produce 600.000 con 6.100 operai. In Brasile le vetture prodotte sono 730.000 e i dipendenti soltanto 9.400. Inoltre il costo del lavoro in quei due paesi, contributi sociali inclusi, è molto più basso. È vero che in Italia si costruisce un certo numero di vetture di classe più alta che non in Polonia o in Brasile. Pur con questa correzione il rapporto auto prodotte/dipendenti resta nettamente sfavorevole agli stabilimenti Fiat in Italia.

Ne segue che su due punti non vi possono essere dubbi. Le aspre condizioni di lavoro che Fiat intende introdurre a Pomigliano, dopo averle sperimentate con successo all´estero, sono la premessa per introdurle prima o poi in tutti gli stabilimenti italiani, da Mirafiori a Melfi, da Cassino a Termoli. Dopodiché interi settori industriali spingeranno da noi per imitare il modello Fiat. Dagli elettrodomestici al tessile e al made in Italy, sono migliaia le imprese italiane medie e piccole che possono dimostrare, dati alla mano, che in India o nelle Filippine, in Romania o in Cina le loro sussidiarie vantano una produzione pro capite di molto superiore agli impianti di casa. Che tale vantaggio sia stato acquisito con salari assai più bassi, sistemi di protezione sociale minimi o inesistenti, e orari molto più lunghi, non sembra ormai avere alcuna rilevanza. Certo non per il governo, e perfino per gran parte dei sindacati. Con l´applicazione totale del modello Fiat, le imprese si sentirebbero autorizzate a far ritornare una parte della produzione delocalizzata in Italia, alla semplice condizione che essa sia accompagnata da salari e condizioni di lavoro che si approssimano sempre più a quella dei lavoratori dei paesi emergenti.

Si tratta di vedere fino a che punto conviene alla Fiat voler passare testardamente alla storia delle relazioni industriali e della globalizzazione come l´impresa italiana che allo scopo di esportare al meglio i suoi prodotti ha dimostrato che si può apertamente importare il peggio delle condizioni di lavoro, per di più ricevendo il plauso del governo. Così facendo, infatti, la Fiat correrebbe, e farebbe correre al paese, diversi rischi. Il primo, se il suo modello tal quale prendesse piede, è quello di contribuire alla stagnazione della domanda interna, che è stata ed è uno dei maggiori fattori della recessione globale in cui il mondo si sta avvitando. D´accordo che lavoratori sfiniti dalla fatica e con i salari, al netto dell´inflazione, pressoché fermi da oltre un decennio, consumano pur sempre qualcosa in più di un disoccupato. Ma il modello Fiat farebbe tendenza, aprendo nuovi spazi di disuguaglianza di reddito tra gli strati inferiori e medi e il dieci per cento dello strato più alto della piramide sociale; i cui membri, per quanto affluenti, difficilmente compreranno quattro o cinque Panda a testa.

Un secondo rischio è quello di far crescere le tensioni sociali. Se il governo alzasse mai lo sguardo dai sondaggi, e il management Fiat dai diagrammi della produttività e dei costi di produzione, potrebbero rendersi conto che disoccupazione, sotto-occupazione, tagli allo stato sociale e percezione di una corruzione dilagante stanno alimentando per conto loro, nel nostro paese come in altri, diffuse situazioni di insofferenza per la curva all´ingiù che la qualità della vita ha ormai palesemente imboccato, e per le iniquità di cui molti si sentono vittime. Ampliare il numero dei malcontenti moltiplicando i lavoratori che sono perentoriamente costretti a scegliere, come a Pomigliano, tra lavoro degradato e disoccupazione, o assistervi senza fare nulla, è una pessima ricetta politica. Alla quale un´impresa dovrebbe evitare di aggiungere i suoi particolari ingredienti.

Per altro il rischio maggiore che Fiat corre e fa correre a tutti noi risiede nel dare una robusta mano a coloro che intendono demolire la costituzione repubblicana. La proposta ventilata di modificare come nulla fosse l´art. 41 della suprema legge, perché a qualcuno dà fastidio che la legge determini i programmi e i controlli opportuni affinché l´attività economica possa essere indirizzata a fini sociali, come in fondo si dice in tutte le costituzioni, potrebbe venir liquidata come la dabbenaggine che è; ma se il lodo Pomigliano, chiamiamolo così, si affermasse lasciando intatte le sue licenze costituzionali, i nemici di quell´articolo ne trarrebbero un cospicuo vantaggio. Autorizzandoli pure a mettere in discussione, perché no, l´art. 36, secondo il quale il lavoratore ha diritto, nientemeno, a una retribuzione sufficiente in ogni caso ad assicurare a sé ed alla sua famiglia un´esistenza libera e dignitosa, oltre che proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro. E magari altri articoli a seguire, in tutto il Titolo III che riguarda i rapporti economici.

Portare a Pomigliano il grosso dell´organizzazione del lavoro vigente in Polonia sarebbe già un successo per la Fiat. Sul resto, ivi compresa la percentuale dei consensi alle sue proposte, forse le converrebbe, e converrebbe al paese, non esagerare con le richieste trancianti.

Si vedano gli articoli di Guido Viale e di Carla Ravaioli

"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".

Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: «Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia». Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.

Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.

Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.

Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.

Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.

Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.

La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Recita così l'art. 9 della Costituzione. Se venisse accettato l'emendamento proposto dai senatori Tancredi (Abruzzo), Latronico (Basilicata) e Richetto Fratin (Piemonte) questa solenne prerogativa verrebbe di fatto cancellata. La precedente legge del 2003 (presidente Berlusconi e ministro delle infrastrutture Lunardi) escludeva dalla possibilità di ottenere il condono per gli immobili che ricadevano in aree vincolate paesaggisticamente proprio perché la tutela è un principio costituzionale e non può essere una legge ordinaria a violare quel principio. Ma, come noto, la Costituzione sta stretta al presidente del Consiglio e a molti esponenti del Pdl: ecco il motivo di tanto accanimento.

Ci sono poi anche meno nobili motivazioni. Dal 2003, nel più totale disinteresse della politica, sono stati i poteri dello Stato a contrastare l'illegalità dilagante nel campo dell'urbanistica. La magistratura ha ordinato molte demolizioni previste dalle leggi. Le Soprintendenze archeologiche - si pensi all'azione coraggiosa di quella dell'Appia antica a Roma - hanno negato i condoni agli scempi perpetrati contro il bene comune. Contro questa volontà di far rispettare le leggi ci sono state manifestazioni in tutta la Campania.

È anche questo il motivo dell'iniziativa del Pdl: mettere la parola fine alla legalità e alle azioni promosse dallo Stato che resiste. Sembra che l'onorevole Bonaiuti abbia negato con sdegno qualsiasi ipotesi di condono. Un mese fa il consiglio dei ministri aveva approvato un decreto che sospendeva l'esecuzione delle demolizioni in Campania fino al prossimo anno. Era con tutta evidenza il primo passo per il condono. Non vale dunque la pena di scandalizzarsi, basterebbe che la presidenza del Consiglio abrogasse la sospensiva e sostenesse l'esecuzione delle demolizioni in Campania, in Sicilia e in Calabria, tanto per cominciare. In questo modo non solo contribuirebbe all'affermazione della legalità ma darebbe il segnale che si vuole mettere in sicurezza il territorio. L'abusivismo provoca tragedie. Nel 2009 a Giampilieri una frana cancella una parte dell'abitato e semina vittime. C'erano da fare 200 demolizioni di case abusive e non furono eseguite. Sempre nel 2009 ad Ischia frana la collina sopra Casamicciola uccidendo una persona: erano pronte decine di demolizioni e anche lì non furono eseguite.

Non sappiamo se il Parlamento "sovrano" approverà o meno l'emendamento dei tre senatori. Comunque vada, il segnale al paese avrà prodotto comunque i suoi effetti: ciascuno è "padrone a casa propria" e può continuare a fare scempi. Tanto paga la collettività. Il condono edilizio viene giustificato dall'esigenza di fare cassa. Un falso vergognoso: per ogni euro di introito alle casse pubbliche i comuni sono costretti a spendere cinque volte tanto per portare strade, acquedotti e gli altri servizi. E visto che questi soldi i comuni non ce l'hanno perché il governo taglia i bilanci, non c'è altro modo che ricorrere all'urbanistica contrattata, che in cambio di quattro soldi consente di costruire dappertutto, al di fuori di ogni regola. L'abusivismo e la speculazione edilizia si danno una mano. E soffocano il paese.

I kamikaze del Pdl a caccia di condono

di Vittorio Emiliani

Secondo Giuliano Ferrara, Berlusconi è “un gigante inetto” che “sbaglia con volutta”. Sarà. L’impressione è che, come governante, sia un inetto e basta. Prendete i condoni edilizi. Ne ha prodotti, in un quindicennio, due, disastrosi per i Comuni e per il paesaggio, capaci soltanto di premiare l’illegalità e di riaccendere il motore dell’abusivismo foraggiato dalle varie mafie. Più un raccapricciante condono ambientale. La tecnica: si manda avanti lo stesso ministro Tremonti, con l’accatastamento delle cosiddette case-fantasma (con sanatoria mascherata incorporata), oppure la più o meno solita pattuglia di guastatori i quali buttano là un emendamento col nuovo condono edilizio, pronti ad essere poi sconfessati se monta la protesta. Della case-fantasma accertate dall’Agenzia del Territorio, circa 2 milioni fra abitazioni, capannoni, garage, ecc., non si sa più molto: registrarle al catasto, vorrebbe dire mettersi in regola sul piano fiscale, ma se poi il Comune chiede al titolare la concessione edilizia e non ce l’ha, viene in chiaro che sono case abusive e vanno demolite. Ameno di un provvidenziale condono…

E’ un caso se la legge per una maggiore libertà alle imprese dovrebbe sospendere per 2-3 anni le autorizzazioni urbanistiche, comunali e regionali? Gli interessi privati prevalgono su quello generale. Nell’inverno un gruppo di deputati campani – seguendole promesse elettorali del ministro Mara Carfagna – avevano appiccicato al decreto “mille proroghe” un caratteristico condono edilizio “regionale”. Adatto a sanare, che diamine, gli abusi di una regione ricca di case illegali e però “punita”, dicono loro, danorme troppo severe. È stato bocciato in commissione e per ora è morto lì. Ieri però un altro kamikaze Pdl, il sen. Paolo Tancredi, teramano, ha presentato un emendamento alla manovra, uno dei 1200 del suo partito. Oggetto? Uncondono edilizio un po’ sfacciato esteso pure alle zone sottoposte a vincolo paesaggistico – le più belle, le meno sfregiate - in modo da riaprire la sanatoria e incoraggiare altri abusi. L’ha stoppato il sottosegretario Bonaiuti: “Sinistra bugiarda, non c’è nessun condono al Senato. Il capogruppo Gasparri non lo sosterrà mai”. Già, è lo stesso capogruppo che spergiurava che Pierino Gelmini, l’ex don Gelmini, non sarebbe stato mai rinviato a giudizio per molestie sessuali, e invece…

E il senatore-kamikaze Paolo Tancredi? Ora sostiene che ha firmato senza leggere. “Nessuno che io conosca aveva in mente di proporre un condono così ampio”. Così ampio magari no, esteso alle zone protette da vincolo forse nemmeno,ma un condono “qualunque” sì. Sa bene che i condoni fanno rima con Berlusconi. Lui ci si tuffa volentieri. Da “inetto” che sbaglia. Sempre “con voluttà” però.

La lobby del cemento in azione

Torna lo spettro della sanatoria

di Iolanda Bufalini

Sarebbe il quarto condono edilizio dopo quelli del 1985,1994, 2003. E intaccherebbe anche le aree protette. Dopo la bagarre emendamento ritirato ma resta in piedi quello sulla sanatoria fiscale.

Dice che è «un appassionato conoscitore del Gran Sasso, un cosciente ambientalista, per il rispetto dell’ambiente e dello sviluppo sostenibile », eppure è lui il senatore Pdl teramano Paolo Tancredi, primo firmatario dell’emendamento tombale per il paesaggio italiano, che riapre il condono ampliandolo agli abusi nelle zone protette e pure in quelle a rischio, e pure a quei manufatti che hanno avuto il diniego delle amministrazioni locali. Chissà come pensa di difenderlo l’amato Gran Sasso. Ma d’altra parte in quella terra martoriata dal terremoto, terra di parchi naturali, l’assalto è cominciato, anche in nome dell’emergenza. Sembra che questi «non abbiano la capacità di vedere cosa sta succedendoin Italia dove, a differenza che nel resto d’Europa, si è persa ogni distanza fra città e campagna», commenta l’urbanista Vezio De Lucia.

Quando si tratta di condoni il Pdl unisce l’Italia, daNord a Sud. Einfatti all’emendamento edilizio si aggiungono le firme di Cosimo Latronico, consulente aziendale, lucano e di Gilberto Pichetto Fratin, commercialista, da Biella: il combinato disposto di condono, piano case e modifiche costituzionali sulla libera impresa (compreso un ristringimento dei tempi sul silenzio-assenso da rasentare l’impossibilità per gli uffici oberati dalle carte di aprire bocca).

Unificazione verso il peggio perché «tre condoni in 18 anni hanno fatto danni gravi nel sud, dove ancora si devono espletare le pratiche del 1985, ma anche al nord, ormai, non c’è più attenzione al territorio», chiosa De Lucia.

«Non avevo letto bene - si giustifica - ho firmatoun centinaio di emendamenti », quando scoppia il vespaio e l’alzata di scudiaccomuna l’opposizione a esponenti di maggioranza comeFabio Granata, a Emma Marcegaglia, ancora basita di una recente tentata investitura ministeriale. Fresco pure il ricordo della brutta figura fatta alla Camera, quando la maggioranza è andata sotto sul blocco delle demolizioni degli abusi in Campania, «è stato un buon segnale, spero in unanalogo scatto di dignità», aveva detto Vezio De Lucia prima dell’«indietro tutta» della presidenza del gruppo Pdl. «Iniziative personali che saranno passate (oggi, ndr) al filtro della commissione di presidenza. Il grup- poinuna materia così importante come la manovra si coordina con il governo». Del filtro fa parte anche il senatore Tancredi (insieme al capogruppo Gasparri e al presidente della commissione bilancio Azzollini, alla sentarice Bonfrisco) distratto nella lettura degli emendamenti ma tenace per quanto riguarda i condoni. Sua la firma, insieme agli altri due, il Latronico e il Pichetto, anche sul condono tombale fiscale con cui si riaprono i termini di quello del 2002 fino al 2008.

RIMPALLO

Ma la «condonite» è un tic da dottor Stranamore che contagia commercialisti e consulenti aziendali diventati parlamentari Pdl con la velocità della Sars. Il pd Matteo Mauri si chiede se il governo «non si prepari a creare un ministero ai condoni». E, infatti, derubricato a «iniziativa personale » quello per gli abusi nei parchi naturali e archeologici, resta da vedere che fine farà il testo che ritenta il blocco delle demolizioni in Campania. E, soprattutto, cosa ne sarà del condono fiscale. In questo caso sul testo c’è anche il timbro del gruppo Pdl del Senato. Mentre Bonaiuti se la prende con la trovata propagandistica della «sinistra bugiarda», la quale a sua volta ha gioco facile nel rispondere, Antonio Misiani (Pd): «gli emendamenti li avete presentati voi». E nel mettere in chiaro: «Con i condoni in campo si chiude ogni spazio di dialogo» (Boccia), dal sottosegretario all’economia Luigi Casero arriva la sconfessione sottoscritta dal ministro Tremonti.

A questo punto al Senato la confusione è all’acme, parte il rimpallo delle responsabilità con l’altro ramo del parlamento: gli emendamenti vengono da lì, «noi per accorciare i tempi li abbiamo firmati». Anche la Lega ha il suo condono, riguarda i falsi invalidi che dovrebbero autodenunciarsi per evitare le sanzioni».

Insomma, partita la raffica di richieste di condono, qualcuna nella manovra potrebbe restare impigliata. «Dispiace e dà amarezza questa mancanza di serietà. Con i condoni la manovra diventa ancora più iniqua», è la chiosa dell’opposizione.

Nello scorso numero abbiamo analizzato il problema dei residui passivi del Mibac. Quest’enorme questione non esaurisce però il tema della gestione delle risorse. L’altra faccia della medaglia è l’efficienza della spesa e la dolorosa impressione è che le inadeguatezze in entrambi i settori si sommino.

Tutti abbiamo letto sui principali quotidiani della nomina a direttore dei lavori (29 milioni di euro) per i Nuovi Uffizi di una persona, diciamo, inadeguata. Riproponiamo alcuni brani delle intercettazioni alla “cricca”. Salvatore Nastasi, capo di Gabinetto del Mibac ad Angelo Balducci: “Mi sembra una buona squadra”, commentando compiaciuto gli incarichi (Mauro Della Giovampaola soggetto attuatore, Enrico Bentivoglio, responsabile unico del procedimento, Riccardo Miccichè, direttore dei lavori) per i Nuovi Uffizi. Ma lo stesso Fabio De Santis, Provveditore alle opere pubbliche della Toscana (colpito in seguito da un ordine di custodia cautelare), non ne è convinto. “Non ci posso credere (ride). Quando lo vedo (Nastasi, Ndr) gli dico ‘siamo proprio dei cazzari, guarda, siete proprio dei cazzari, andate in giro a rompere il c...”. De Santis racconta di averlo fatto presente a Nastasi durante un viaggio in treno: “Quando stavamo soli gli ho detto ‘Salvo (Nastasi, Ndr) ma siamo sicuri di quel siciliano?”. “Sì, non ti preoccupare, poi c’ho un fatto personale che tu non c’hai’ “.

Ora, comprendiamo il desiderio del Ministro Bondi di non veder lordata la sua onestà, ma non volendo ricorrere al “non poteva non sapere”, ci vediamo costretti a chiedere chiare e inequivocabili delucidazioni sulla vicenda. Se è vero, come ci piace credere, che il Ministro è all’oscuro del “fatto personale” al quale si riferisce il potente Nastasi, non possiamo esimerci dal ribadire l’inopportuna e rischiosa acquiescenza del titolare del Mibac verso colui che da più parti viene definito il vero Ministro. Ricordiamo, inoltre, che il pluricommissario Nastasi (aspirante collaudatore per 750mila euro in quel di Venezia) è già stato più volte al centro di intercettazioni telefoniche, che ne hanno evidenziato la propensione alla concretezza. Si può capire che un poeta preferisca non occuparsi di lordure e di materie economiche, tuttavia tra i doveri di un Ministro, ahinoi, ci sono anche queste bassezze. Se l’esemplare Cavaliere, a malincuore, denuncia le malefatte del suo ex ministro Scajola e si lamenta della propensione affaristica di molti dei suoi seguaci, non potrebbe il fido Bondi seguirne le orme? Quiz per i lettori: “Dobbiamo mettere Elisabetta Fabbri, nominata Commissario dal Ministero perchè è donna, perchè risponde, è sveglia, è fuori dai giri nostri, è una brava professionista, non ha mai tradito in nessun senso, ascolta le cose che gli si dicono”. Chi ha detto una simile frase? a) don Vito Corleone nel Padrino parte II b) Tony Montana in Scarface c) Edoardo Nottola in Mani sulla Città? Nessuno dei tre. Queste parole sono di Nastasi, riportate nelle intercettazioni su altri affari toscani della “cricca”, quelli riguardanti i lavori per il Maggio fiorentino (del quale il capo di Gabinetto è stato commissario). Tutti noi parliamo molto liberamente nelle conversazioni private e forse è illegittimo trovarne traccia su un quotidiano. Tuttavia, il gergo usato evidenzia una mentalità e un modo di concepire l’azione di governo agli antipodi con qualunque corretta amministrazione della cosa pubblica, più adatti forse alla gestione di Cosa nostra.

Questi episodi (al di là dell’opportunità per il Ministro di continuare il rapporto fiduciario con il suo capo di Gabinetto, senza dover attendere conferme su eventuali responsabilità penali) evidenziano il grumo di opachi interessi che si addensa attorno agli appalti sui Beni culturali. Questo settore, fino a oggi, da parte di costoro che avrebbero dovuto indagare, i magistrati, e controllare, i Ministri, ha goduto di una considerazione e di un giudizio influenzati da una sorta di soggezione. Quasi come se gestire restauri, ristrutturazioni e interventi di tutela sul nostro patrimonio artistico comportasse un salvacondotto di merito e costituisse di per sè un lavacro nel quale le coscienze si mondavano da qualunque tentazione di sottrarre pubblico denaro. Così in questo porto franco della cultura hanno proliferato e proliferano corruzione, sprechi, abusi tali da infliggere colpi mortali alla più grande ricchezza di cui dispone l’Italia.

Come e più di quanto deve succedere in altri campi, nei beni culturali è necessario voltar pagina. Devono essere introdotti criteri scientificamente corretti per stabilire le priorità di intervento. E parimenti a quel che scrivevamo sull’amministrazione delle Soprintendenze, nelle quali servirebbe una conduzione manageriale, anche la “lista della spesa” dovrebbe esser compilata con un metodo di conservazione programmata, basata sull’analisi dello stato dei luoghi. Non è possibile continuare ad affidare i destini del nostro patrimonio artistico alle simpatie, i gusti, le relazioni, e ai vantaggi del portafoglio del funzionario di turno, troppo spesso concentrato solo a ingraziarsi il politico distratto.

La società pubblica Arcus è diventata protagonista delle cronache giudiziarie per il finanziamento da 2,5 milioni elargito alla curia di Propaganda Fide diretta dal cardinale Crescenzio Sepe quando il ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi con una mano firmava il via libera al pagamento di un progetto poi non eseguito e con l’altra comprava a prezzo stracciato dalla stessa Propaganda Fide di Sepe un palazzetto nel centro storico di Roma per 3 milioni di euro. Per scoprire questo moderno esempio di carrozzone pubblico non c’era però bisogno dell’indagine di Perugia né dell’iscrizione tra gli indagati del cardinale Sepe e di Lunardi. Arcus ha elargito e stanziato poco meno di 500 milioni di euro dalla sua nascita nel 2004, senza soluzione di continuità tra centrodestra e centrosinistra. La sua missione è “di sostenere in modo innovativo progetti importanti e ambiziosi concernenti il mondo dei beni e delle attività culturali, anche nelle sue possibili interrelazioni con le infrastrutture strategiche del Paese”.

L’arte del business

L’oggetto sociale abbastanza fumoso e la possibilità di elargire soldi senza gara per spettacoli, arte, restauri e mostre ne ha fatto un poderoso strumento clientelare in mano ai politici che volevano favorire i propri collegi elettorali, gli amici, i familiari e anche i parroci. Arcus è di proprietà del ministero dell’Economia al 100 per cento mentre il coordinamento sulla sua azione è rimesso ai Beni culturali retti da Sandro Bondi, che talvolta opera di concerto con le Infrastrutture di Altero Matteoli. In tempi di tagli di bilancio la Arcus Spa è diventata, come la Protezione civile, un canale privilegiato per dare soldi, consulenze e incarichi di ogni tipo. La Corte dei Conti nel 2009 ha condannato il suo ex presidente Giorgio Basaglia per una consulenza legale ridondante e le trasmissioni televisive Le Iene e Presa diretta, avevano già raccontato i rapporti incestuosi tra Arcus, politica e Vaticano che albergavano dietro il restauro del palazzo di Propaganda Fide a piazza di Spagna ora finito nel mirino della Procura di Perugia.

Le vere autorità di controllo sulla società in questi anni sono state più le trasmissioni televisive che le istituzioni come la Corte dei Conti e l’Autorità di vigilanza dei lavori pubblici. Il giudice della Corte dei Conti Mario Sancetta, ha scritto il regolamento di Arcus quando era al ministero con Lunardi e oggi è indagato per altre storie nell’indagine sulla cricca. Mentre nelle intercettazioni del Ros di Firenze spunta il nome di Arcus. Lo fa proprio un consigliere dell’Autorità Garante dei Lavori Pubblici. Si chiama Alessandro Botto, già consigliere di Stato e segretario generale dell’Agcom, non chiede maggiori controlli. Anzi, telefona a Fabio De Santis (che poi sarà arrestato) per chiedere di intervenire tramite il “capo”, cioè Angelo Balducci, per avere da Arcus un finanziamento. E ovviamente il beneficiario non era Botto stesso ma una chiesa, quella di Santa Maria in Aquiro. “Interessava a un amico parroco”, dice Botto oggi al Fatto in un amen, aggiungendo subito “ma non è mai stato approvato”. Vaticano, soldi pubblici e politica. È questo il mix che spesso si trova dentro le pratiche della società dello spettacolo. Un caso esemplare è lo stanziamento di mezzo milione di euro a beneficio della società “I borghi Srl” che gestisce l’Auditorium della Conciliazione a Roma. L’immobile è di proprietà del Vaticano che lo affitta ai Borghi, finanziata dallo Stato con Arcus. Quando ottiene il contributo, la Srl cattolica vanta tra i suoi soci due politici di destra e sinistra: Lorenzo Cesa, che poi diverrà segretario Udc e Francesco Artenisio Carducci, allora responsabile cultura della Margherita di Rutelli e ora transitato al centrodestra.

I soliti noti

Anche l’ascesa della professoressa Francesca Elena Ghedini, archeologa e sorella del più famoso onorevole-avvocato Nicolò si intreccia con quella di Arcus. La responsabile del dipartimento archeologia dell’Università di Padova ha ricoperto il ruolo di consigliere della società dal 2003 al 2006. Ma non è stata solo membro dell’organo decisionale di Arcus, la sua attività pubblica di archeologa ha beneficiato di milioni di euro di contributi. Ovviamente non privatamente come Cesa e soci ma in qualità di archeologa dell’università. Sul sito della sua facoltà si legge nel curriculum che “è codirettore degli scavi di Nora (dal 1990), direttore degli scavi sulla Via Annia (Roncade, Treviso) (dal 2000) e condirettrice del progetto Aquae Patavinae”. Ebbene Arcus ha stanziato più di due milioni per questi scavi. Nell’ordine: 200 mila euro per l’Università di Padova proprio per il progetto in Sardegna “area archeologica di Nora”; altri 800 mila euro sono partiti per “la valorizzazione dell’antica strada romana via Annia”, destinati alla Regione Veneto; altri 435 mila euro sono andati all’università di Padova per il progetto “Aquae Patavinae” che si sommano a un milione e 160 mila euro concessi per il medesimo progetto al comune di Montegrotto e alla Regione Veneto. A chi criticava queste scelte, Arcus ha risposto con un comunicato pubblicato sul sito Internet: “Noi che abbiamo avuto l’onore e il piacere di interagire con la professoressa Ghedini per motivi professionali e istituzionali, non possiamo non testimoniare della sua caratura morale e scientifica che, unitamente ad una grande passione per la ricerca, per la valorizzazione del nostro patrimonio culturale, per l’innovazione, ne fanno una persona capace di dare grande lustro al nostro Paese”. Un lustro costoso, però.

La Confederazione Italiana Archeologi manifesta profonda preoccupazione per il contenuto del comma 12 dell’articolo 6 della Legge Finanziaria 2010, che taglia i fondi per le missioni dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Nell’ambito della gestione della tutela del patrimonio archeologico, il personale tecnico delle soprintendenze non potrà più utilizzare mezzi privati per effettuare sopralluoghi nei cantieri e ispezioni sul territorio, per i quali dovrà usufruire esclusivamente mezzi pubblici.

“Il provvedimento contenuto nella Finanziaria - dichiara il Presidente Giorgia Leoni – è l’ennesimo attentato alle soprintendenze e al sistema di gestione della tutela del territorio. Le soprintendenze, che già operano con personale ridotto ai minimi termini a causa dei tagli agli organici e della esiguità di turn over, gestiscono territori molto vasti e complessi dal punto di vista geografico. I siti archeologici non sono sempre lungo strade statali o provinciali servite dai mezzi pubblici e i cantieri da sorvegliare sono spesso in aree non ancora urbanizzate, in campagna, in montagna...non raggiungibili con autobus, tram o treni.”

“Il taglio porterebbe delle conseguenze gravissime – continua il Presidente Giorgia Leoni – e mette a forte rischio la tutela del patrimonio archeologico e del paesaggio del nostro paese, specie in un momento in cui tornano a paventarsi proposte di condono edilizio.

In che modo si pensa che si potrà continuare a fare tutela? Forse dal finestrino di un autobus?”

La Confederazione Italiana Archeologi chiede un intervento urgente al ministro Bondi affinché si adoperi e interceda sul Governo, come già fatto per ridurre i tagli agli istituti di cultura, per ottenere una deroga alla Finanziaria che permetta al Ministero e alle soprintendenze di tutelare il patrimonio archeologico e il paesaggio del nostro paese nel rispetto del compito istituzionale affidato loro dalla Costituzione.

Nell’autunno del 2003 la facciata del palazzo di Propaganda Fide in piazza di Spagna viene completamente avvolta da un ponteggio esterno. «Manutenzione provvisoria e restauro» si legge sulla targa che segnala lo stato dell’opera. Il progettista è l’architetto Angelo Zampolini, che sette anni dopo diventerà noto per essere l’uomo di fiducia di Diego Anemone, il custode di molti dei suoi segreti. L’impresa a cui sono affidati i lavori è la ditta Carpineto, che in una recente informativa del Ros viene definita «vicina» ad Angelo Balducci, ex Provveditore alle Opere Pubbliche.

«Incongruo»

È solo l’inizio di quegli interventi che nel 2005 beneficeranno di un finanziamento statale da 2,5 milioni di euro, sul quale anche alcuni organi di controllo avevano sollevato molte perplessità. Il primo allarme, infatti, arrivò dalla Corte dei conti, sollecitata da una denuncia del sindacalista della Uil Gianfranco Cerasoli. L'iscrizione nel registro degli indagati del cardinale Crescenzio Sepe, presidente di Propaganda Fide del 2000 al 2006, e dell’allora ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, è stata decisa dalla Procura di Perugia dopo l’acquisizione di una relazione della Corte dei conti nella quale si definisce «incongruo» e «non motivato» lo stanziamento della cifra, destinata a un palazzo extraterritoriale, essendo di proprietà del Vaticano. La stranezza di quella vicenda, e il fatto che i lavori non ebbero mai fine, hanno convinto i pubblici ministeri di essere in presenza di una contropartita concessa da Lunardi - firmatario del decreto insieme all’ex ministro della Cultura Rocco Buttiglione - in cambio dell’acquisto a prezzi decisamente vantaggiosi di una palazzina di Propaganda Fide in via dei Prefetti, a Roma. L’andamento di quel restauro ha sempre avuto una sorte accidentata. Il primo ponteggio venne smontato nel febbraio 2004. I lavori ripresero nell’estate del 2005, sempre con lo stesso progetto, dopo che all’interno degli «interventi in materia di spettacolo ed attività culturali» previsti per il varo di Arcus, la spa governativa che si occupa di edilizia culturale, venne deciso uno stanziamento di 2,5 milioni di euro per il restauro del palazzo. Cambiò la ditta appaltante, con l'ingresso della Italiana Costruzioni.

La Corte dei conti

Il totale delle spese previste per un secondo blocco di 26 lavori deliberato da Arcus era di 24,70 milioni di euro. La voce più alta nel capitolo riguardante gli ultimi 13 interventi previsti era proprio quella relativa alla palazzina del Vaticano. Al secondo posto, i lavori per la Metropolitana di Napoli, nelle stazioni Duomo e Municipio (1.5 milioni). In una relazione sul funzionamento generale di Arcus, la Corte dei conti critica pesantemente l’assenza di un regolamento attuativo, previsto in origine ma mai redatto. In questo modo, scrivono i giudici, le scelte non vengono mai fatte da Arcus, ma direttamente dai vertici dei ministeri, senza la necessità di alcuna spiegazione. «Il soggetto societario in mano pubblica è stato trasformato in un organismo che in concreto ha assolto prevalentemente una funzione di agenzia ministeriale per il sostegno finanziario di interventi, decisi in via autonoma dai ministri e non infrequentemente ed a volte anzi dichiaratamente, indicati come integrativi di quelli ordinari, non consentiti dalle ridotte disponibilità correnti del bilancio». La mancata esplicitazione della logica delle decisioni operate «dai ministeri e non da Arcus», scrive nel 2007 la Corte dei Conti, «avrebbe portato a decisioni apparentemente non ispirate a principi di imparzialità e trasparenza».

Il sospetto

L’episodio della palazzina di piazza di Spagna viene considerato importante perché fa emergere il contesto di presunte reciproche utilità tra il ministro e il religioso. Ma all’esame degli investigatori c’è la gestione complessiva del nutrito comparto immobiliare di Propaganda Fide ai tempi in cui la congregazione era presieduta dal cardinal Sepe. Tra il 2001 e il 2005 molti appartamenti e palazzi di Propaganda Fide vennero ristrutturati proprio da Diego Anemone. Nei giorni scorsi i carabinieri del Ros di Firenze hanno acquisito dal ministero delle Infrastrutture altri appalti e stanziamenti decisi da Lunardi, per verificare se tra quelle carte non vi sia qualche altra utilità fatta giungere tramite Balducci e il ministero a Propaganda Fide. Inoltre sarebbero in corso accertamenti sull’assunzione di un nipote del cardinal Sepe presso l’Anas, azienda pubblica dipendente dalle Infrastrutture. Candidamente, Lunardi ha raccontato che a gestire gli immobili della congregazione era Balducci insieme a Pasquale De Lise, ex presidente del Tar laziale, recentemente nominato presidente del Consiglio di Stato, e al genero di quest’ultimo, l’avvocato Patrizio Leozappa. Gli investigatori avevano già segnalato in una informativa gli «stretti contatti» tra Balducci e De Lise, senza ulteriori precisazioni. In una conversazione del 4 settembre 2009 l’alto magistrato chiama Balducci e gli accenna al fatto che, su input di Leozappa, si è anche «occupato» - le virgolette sono dei carabinieri del Ros - di un provvedimento di rigetto del Tar del Lazio che avrebbe favorito il Salaria Sport village, la struttura riconducibile a Diego Anemone dove Guido Bertolaso avrebbe usufruito di alcune prestazioni sessuali. È un provvedimento per il quale Leozappa incassa i complimenti telefonici di Anemone, per poi replicare: «Io il mio lo faccio». Neppure il nome di Leozappa è inedito. Appare nell’inchiesta fiorentina sulla presunta cricca, perché lavora spesso con l’avvocato d’affari Guido Cerruti, scelto da Balducci per aiutare l’imprenditore Riccardo Fusi in un suo contenzioso con lo Stato e arrestato lo scorso marzo.

Il magistrato

L’ultimo nome noto ricorrente in questa nuova fase dell’inchiesta perugina è quello di Mario Sancetta. Il regolamento di Arcus del quale la Corte dei conti lamenta la mancanza era stato affidato in origine proprio a lui, magistrato di quell’organismo, attuale presidente di sezione, indagato a Perugia per corruzione. Gli investigatori si stanno rileggendo alcune intercettazioni riportate in una informativa del Ros dello scorso settembre. Il 25 giugno 2009, Sancetta è al telefono con Rocco Lamino, socio del Consorzio Stabile Novus, di cui faceva parte anche Francesco Piscicelli, l’imprenditore che rideva la notte del terremoto dell’Aquila. Sancetta si lamenta dell’atteggiamento inconcludente che hanno nei suoi confronti Lunardi e «il cardinale», identificato poi come monsignor Sepe, perché «non sufficientemente solleciti al soddisfacimento di richieste di commesse» che il magistrato gli avrebbe fatto pervenire. «Non è che sia molto conclusivo, sto’ cardinale - dice -. Io spero allora di incontrarlo, così gli do sto’ depliant… perché l’altra volta gli diedi tutto quel fascicolo che non serve a niente, insomma… come pure ora devo vedere la prossima settimana a coso… Lunardi… anche lui, perché lui mi ha obbligato… ma la gente si piglia le cose degli altri e non gli fa niente… quella è una cosa indegna». Il canovaccio si ripete in altre telefonate, nelle quali Sancetta accenna alla possibilità di sfruttare il suo rapporto con Lunardi per far avere a Lamino qualche commessa da parte di Impregilo («Ma non so se dargli fiducia…») oppure nell’ambito dei lavori post terremoto, magari facendo leva sul fatto che l’ex ministro ha ancora un procedimento pendente presso la Corte dei conti. «Con Lunardi - dice - c’abbiamo una questione ancora in sospeso».

In questa stagione torbida le prove di decostituzionalizzazione si susseguono e si infittiscono. Per la prima volta nella storia della Repubblica un governo vuole modificare un articolo della parte iniziale della Costituzione, l´articolo 41.

Una norma contigua, l´articolo 40 che disciplina il fondamentale diritto di sciopero, viene messo concretamente in discussione dal documento della Fiat riguardante i lavoratori di Pomigliano d´Arco. Non a caso dall´attuale maggioranza si è affermato perentoriamente che è venuto il momento di cambiare lo stesso articolo 1, considerandosi anacronistico che si parli di «una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Ancora il Governo propone di modificare l´articolo 118, altri ritengono che si deve porre mano all´articolo 81 e si è addirittura pubblicamente sostenuto che si debba ammettere il referendum sulle leggi tributarie, escluso dall´articolo 75. In questo clima si dice apertamente che deve cadere il tabù della prima parte della Costituzione, e che è tempo di cambiarne persino i principi fondamentali. Ho parlato di decostituzionalizzazione, e non di modifiche, perché siamo di fronte a tentativi dichiarati di liberarsi della Costituzione. Sembra così giungere a compimento un vecchio progetto, che attraversa tutta la storia della Repubblica e che finora era stato sventato. Il caso dell´articolo 41 illustra bene lo stato delle cose. In questi giorni sono state ricordate la genesi e la portata della norma: storia nota, consegnata da anni a studi impeccabili, che smentiscono sia la tesi di una sua ascendenza comunista, sia quella dell´impossibilità di introdurre regole più flessibili per le imprese senza modificare quell´articolo. L´ignoranza della storia sta divenendo una sua continua falsificazione. Non si leggono gli atti dell´Assemblea costituente né la giurisprudenza costituzionale, si inventano inesistenti "vuoti" costituzionali, che dovrebbero essere colmati con le parole "mercato" e "concorrenza", necessarie perché l´Italia si allinei all´Europa e all´ultima generazione di costituzioni. Un´altra falsificazione. La concorrenza non figura più tra i principi di base del Trattato europeo di Lisbona: piaccia o no, questo è il risultato di una iniziativa di Sarkozy, che l´ha confinata in uno dei tanti protocolli che accompagnano il Trattato. Tutte le costituzioni europee prevedono il diritto dei poteri pubblici di regolare il funzionamento del mercato e quando questa parola compare, come nella costituzione spagnola, la si accompagna con la previsione esplicita del potere dello Stato di sottoporla a pianificazione. E ricordo per l´ennesima volta quel che è scritto nella costituzione tedesca: "La proprietà impone obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività" (art. 14); "la proprietà terriera, le ricchezze naturali e i mezzi di produzione possono essere trasferiti, ai fini della socializzazione, alla collettività o essere sottoposti a altre forme di economia collettiva mediante una legge che determini il modo e la misura dell´indennizzo").

Peraltro, bisogna pure ricordare che l´articolo 41 si apre con le parole "l´iniziativa economica privata è libera", che sono una evidente descrizione del mercato. Diventa così evidente il carattere strumentale e ideologico dell´operazione che si sta conducendo intorno all´articolo 41. Si addita questa norma come un ostacolo per fornire alla maggioranza un alibi per la sua perdurante incapacità di dare regole ragionevoli e per giustificare spallate pubbliche o private. Si cerca un collante per una maggioranza a pezzi, e si apre un inquietante scenario. Se la modifica costituzionale andrà in porto, sarà inevitabile un referendum su di essa e i costumi ormai noti del Presidente del consiglio lo indurranno a esasperare i toni, a gridare che si deve scegliere tra libertà e collettivismo, a evocare tutti i possibili "spiriti animali", facendo sempre più terra bruciata, spazzando via ogni ragionevolezza, immergendoci sempre più profondamente nella regressione culturale.

Di questa regressione cogliamo ogni giorno i segni. Si ripropone una identificazione tra mercato e libertà che ignora persino la polemica che divise Croce e Einaudi, e che ci riporterebbe ai tempi in cui Adolphe Thiers, nel 1831, scriveva che "alla proprietà non possono darsi giudici migliori di essa stessa". Si cade in contraddizione proponendo modifiche dell´articolo 41 insieme alla rievocazione dell´economia sociale di mercato. Si ignora una realtà nella quale la crisi finanziaria ha provocato autocritiche anche da parte di sacerdoti del mercato come Richard Posner. Si trascura proprio la planetaria discussione in corso sulle regole del mercato. E così non ci si accorge che proprio lì, nell´articolo 41, si trovano le indicazioni per collocare l´azione economica dei privati nella sua giusta dimensione, subordinandola agli ineludibili principi di dignità, libertà e sicurezza e riconoscendo che il mercato non è uno spazio separato della società. O siamo tornati a Margaret Thatcher e al suo "la società non esiste"?

Sui rischi dell´altra modifica annunciata dal Governo, quella dell´articolo 118, ha già richiamato l´attenzione Salvatore Settis. L´intenzione di sottrarsi alle lungaggini nella materia urbanistica, in nome dell´efficienza, può portarci a travolgere le garanzie necessarie per la tutela del territorio e del paesaggio, di cui parla esplicitamente l´articolo 9 della Costituzione, che così verrebbe fortemente depotenziato. Ma può il bisogno di efficienza travolgere ogni garanzia? È quello che dobbiamo chiederci davanti a quella forma di decostituzionalizzazione di fonte privata rappresentata dalla limitazione del diritto di sciopero contenuta nel documento della Fiat. L´articolo 40 della Costituzione, infatti, prevede che le modalità del diritto di sciopero possano essere regolate solo dalla legge. Siamo di fronte a un diritto indisponibile, necessario perché la democrazia non si fermi "ai cancelli della fabbrica" e che, se pure venisse negato in un solo caso, perderebbe la sua universalità e potrebbe essere negato in ogni altra situazione. Per contrastare gli abusi, se provati, esistono altre vie e altri strumenti.

La lotta per i diritti, dunque, riguarda ormai anche l´ambito dell´economia, si aggiunge alle rivendicazioni riguardanti il diritto della persona di governare liberamente la propria vita ed alla opposizione contro la legge bavaglio. Queste non sono iniziative figlie di una "egemonia borghese" da respingere in nome dei diritti del lavoro. Sul terreno costituzionale l´indebolimento pure di un solo diritto ha effetti negativi su tutti gli altri.

La decostituzionalizzazione deve essere fermata perché sta accompagnando la decomposizione del paese, le dà forma, la legittima. Ma, proprio perché violentemente aggredita, la Costituzione sta generando anticorpi sociali che la difendono in forme nuove e efficaci, che hanno messo in difficoltà gli aggressori, come dimostra la vicenda della legge bavaglio. Insistiamo

Era stato il fiore all'occhiello del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e dell'ex ministro per lo Sviluppo Economico Claudio Scajola. Il percorso intrapreso non sembrava ammettere sbandate, deviazioni o rallentamenti: il ritorno dell'energia nucleare in Italia era un obiettivo primario ed imprescindibile dell'agenda di governo, anche a fronte della scarsissima popolarità (e dei numerosi timori) che questa "tecnica energetica" riscuote ancora oggi in Italia.

Tre giorni fa la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della sentenza numero 215 del 9 giugno 2010, con la quale la Corte Costituzionale ha decretato un vero e proprio stop alla corsa all'atomo del governo italiano.

La legge incriminata è la numero 102, del 3 agosto 2009, conversione del decreto-legge numero 78. Con essa, all'articolo 4, il governo apriva alle procedure d'urgenza per la costruzione di nuove infrastrutture per la produzione di energia elettrica, da leggersi più comunemente come "nuove centrali nucleari".

Il governo aveva piena potestà esclusiva in materia di trasmissione e distribuzione e competenza congiunta con le regioni per quanto concerne la produzione e, quindi, la collocazione dei nuovi impianti.

Le nuove centrali rientravano in un piano di urgenza "in riferimento allo sviluppo socio-economico" (non a caso la legge in questione è il famoso "pacchetto anti-crisi") e si stabiliva la loro edificazione per mezzo di capitali "prevalentemente o interamente privati".

Ai fini di attuazione, il governo istituiva la figura di uno o più Commissari straordinari del governo, con poteri esclusivi e totali in tema di nuovi impianti energetici, al punto tale da poter scavalcare tutti gli enti coinvolti (a partire dai comuni e dalle regioni) per la scelta delle nuove sedi nucleari nazionali.

E' stato proprio il mix tra "ragione d'urgenza" ed "utilizzo di capitali privati" e la privazione dei poteri decisionali delle regioni in materia ad aver condotto la Corte Costituzionale a cassare l'intero articolo, nei commi che vanno dall'1 al 4.

Secondo quanto stabilito dalla suprema corte di giustizia italiana, "trattandosi di iniziative di rilievo strategico, ogni motivo d’urgenza dovrebbe comportare l’assunzione diretta, da parte dello Stato. Invece la disposizione impugnata stabilisce che gli interventi da essa previsti debbano essere realizzati con capitale interamente o prevalentemente privato, che per sua natura è aleatorio, sia quanto all’an che al quantum".

Inoltre, per quanto concerne la depotenziazione delle regioni in materia, la Corte Costituzionale afferma che "se le presunte ragioni dell’urgenza non sono tali da rendere certo che sia lo stesso Stato, per esigenze di esercizio unitario, a doversi occupare dell’esecuzione immediata delle opere, non c’è motivo di sottrarre alle Regioni la competenza nella realizzazione degli interventi".

E conclude deliberando che "i canoni di pertinenza e proporzionalità richiesti dalla giurisprudenza costituzionale al fine di riconoscere la legittimità di previsioni legislative che attraggano in capo allo Stato funzioni di competenza delle Regioni non sono stati, quindi, rispettati".

Quanto stabilito dalla Consulta, ancora una volta nel silenzio quasi tombale della stampa nazionale, apre ad una vera e propria svolta in termini energetici e ostruisce, di fatto e sin da adesso, un percorso accelerato verso la creazione di nuove centrali nucleari.

Le procedure d'urgenza, che consentirebbero nell'ordine di 10-15 anni, di avere energia nucleare operativa in Italia, confliggono con la necessità imprescindibile del governo di attribuire i costi di produzione degli impianti ai singoli privati. E l'automatico decadimento delle ragioni d'urgenza, ipso facto, determinano il ripristino automatico della facoltà degli enti locali, ed in particolar modo delle regioni, di appoggiare o rigettare integralmente le scelte operative e territoriali dell'esecutivo nazionale.

Per un governo ancora privo di ministri deputati alla gestione delle questioni energetiche (dalle dimissioni di Claudio Scajola l'interim delle Attività Produttive è ancora nelle mani del premier Berlusconi), non si prospettano tempi facili. Il nucleare italiano è ad un passo dalla morte prima ancora della sua nascita. La battaglia dei governatori Vendola, Errani e Lorenzetti contro il nucleare italiano sembra aver portato ad una prima, gigantesca e, forse per gli stessi ricorrenti, insperata vittoria.

Nota

L'informazone è tratta dal blog di Alessandro Tauro. La sentenza della Corte (scaricabile qui di seguito) naturalmente non sfiora neppure tutte le argomentazioni contrarie e a nostro parere indiscutibili, così come le abbiamo esposte nell'appello Il territorio del nucleare, al quale continuiamo a chiedervi di aderire (f.b.)

ROMA - La manovra economica del governo potrebbe contenere anche la riapertura del condono edilizio, esteso agli abusi compiuti nelle aree sottoposte a vincoli paesaggistici. A proporlo è un emendamento del Pdl dal titolo esplicito: "emendamento condono edilizio". Primo firmatario il senatore Paolo Tancredi e sottoscritto anche da Cosimo Latronico e Gilberto Pichetto Fratin. Nel testo di prevede che la sanatoria prevista nel decreto 269 del 2003 "si applichi anche agli abusi edilizi realizzati entro il 31 marzo 2010, in aree sottoposte alla disciplina di cui al codice dei beni culturali e del paesaggio" previsto dal decreto legislativo 42 del 2004, previa l'acquisizione dell'autorizzazione prevista dal codice stesso. La richiesta di sanatoria può essere avanzata entro il 31 dicembre 2010 anche se precedenti istanze di condono sono state respinte. Nelle more, si legge ancora nel testo, "sono sospesi tutti i procedimenti sanzionatori amministrativi e penali già avviati, anche in esecuzione di sentenze passate in giudicato".

Cosa sta succedendo alla Villa Reale di Monza?

Stanno succedendo diverse cose dal cui svolgimento dipende il futuro anche a lunga scadenza della Villa. Anzitutto la nascita del consorzio tra gli enti proprietari (Comune di Monza, Comune di Milano, Regione Lombardia, Stato), uno strumento invocato da anni per snellire la gestione del patrimonio di Parco e Villa. Il consorzio nasce monco (non ha ancora aderito il Comune di Milano) e con uno statuto che penalizza Monza, la quale vede una sua rappresentanza inferiore alle quote di proprietà. Tuttavia la nascita del consorzio è un passo importante e occorreranno alcuni anni prima di poter dare un giudizio equilibrato sulla sua efficacia. In secondo luogo il concorso bandito da Infrastrutture Lombarde (braccio operativo della Regione Lombardia) per identificare un gestore privato della Villa per ben 30 anni. E qui le cose si complicano: perché creare un consorzio per la gestione della Villa per poi cercare un privato che la gestisca? È evidente a chiunque che c’è un passaggio di troppo e che se si voleva far gestire la Villa a un soggetto privato ciò poteva essere fatto direttamente dai proprietari, senza creare un consorzio che rischia di essere inutile e privo di reale potere. Non ci vedo molta logica in questi passaggi.



In che condizioni è oggi la Villa?

Le condizioni della Villa oggi sono grosso modo simili a quelle degli ultimi dieci anni. Il primo piano nobile del corpo centrale è interamente restaurato, mentre permane lo stato di abbandono del secondo piano nobile e di tutta l’ala nord. Ci sono state lodevoli iniziative di apertura al pubblico della Villa nelle ultime estati, ma ancora limitate e poco incisive (pare non si riesca a far aprire al pubblico gli appartamenti della regina Margherita e di re Umberto) e nel 2009 la Villa ha ospitato il forum dell’Unesco sulla cultura, un evento che tuttavia non ha coinvolto la città ed è rimasto interamente confinato agli addetti ai lavori.

Ci parli del bando di Infrastrutture Lombarde?

Ormai, dopo l’intervento del dirigente di Infrastrutture Lombarde al consiglio comunale di Monza, i contenuti del bando sono chiari. Il bando prevede di identificare un soggetto privato che restauri e gestisca la Villa per 30 anni, a fronte di un esborso iniziale di 5 milioni di euro (altri 18 li metterà la mano pubblica) e di un canone annuo di 30mila euro. Si fanno poi precise previsioni sulla destinazione d’uso di alcune parti della Villa: l’intero piano terra verrebbe ad ospitare non meglio precisati “negozi” e “laboratori”, mentre il Belvedere verrebbe trasformato in un ristorante. Nulla si dice sulle modalità dell’intervento di restauro né sulle attività che dovrebbero svolgersi in Villa e a chiunque appare evidente che sarà il privato a cercare il modo migliore di tutelare i propri interessi e investimenti.

Che rischi si corrono?

Per capire quello che accade oggi occorre tornare indietro di qualche anno e cioè al cosiddetto progetto Carbonara, vincitore del concorso internazionale bandito dalla Regione Lombardia sulla base di un dettagliato documento preliminare. Pochi lo sanno, perché si trattava di un progetto oggettivamente imbarazzante e che perciò venne quasi secretato, ma il progetto Carbonara prevedeva la trasformazione della Villa in un colossale residence di lusso al secondo piano nobile e nell’ala Nord, mentre le stanze piermariniane del primo piano nobile sarebbero diventate uffici di rappresentanza del governatore regionale. Con in più l’idea – buffa di per sé ma perfettamente compatibile con l’impostazione del progetto – della beauty farm nei giardini reali. Insomma, è allora che nasce la strategia di rinunciare al ruolo prettamente storico-culturale della Villa in favore di una Villa “produttrice di reddito”. Quello che accade oggi è solo la logica conseguenza di quella sciagurata impostazione. Per “produrre un reddito” conviene la si affidi ad un privato che sappia fare bene il suo mestiere e chiudere un occhio (e magari due) sulla destinazione culturale del complesso. E qui faccio una previsione: il privato manterrà intatto il primo piano nobile – già restaurato - destinandolo alla più svariate attività convegnistiche e di rappresentanza, mentre darà seguito al progetto Carbonara sul secondo piano nobile, trasformandolo in hotel di lusso, col ristorante annesso nel Belvedere, negozi al piano terra e magari anche la beauty farm. Tutto ciò verrà giustificato dalla necessità di rientrare nei costi e non è impedito dal bando. E così la Villa verrebbe trasformata in un gigantesco chateau relais sul modello francese per ricconi desiderosi di un prestigioso soggiorno: una fine molto triste e contro la quale occorre battersi con ogni mezzo.

La presenza del privato è indispensabile?

La domanda è mal posta. In tutto il mondo civile i privati vengono chiamati a collaborare alla gestione di patrimoni artistico-storici laddove ne nasca la necessità. Ma sempre in posizione subordinata e dipendente dalla mano pubblica, che ha come compito istituzionale la tutela del patrimonio storico-artistico nazionale. Qui invece le parti si sono invertite e la filosofia del bando di Infrastrutture Lombarde è quella di “toh, prenditi questa cosa, fanne quello che vuoi, basta che mi paghi il canone a fine anno”. Tanto per chiarire: è mai possibile che il bando - in molte parti assai dettagliato - non intervenga nel merito della gestione della Villa, indicando e specificando le attività che vi si dovrebbero svolgere, le destinazioni d’uso, le finalità dell’intervento sotto il profilo culturale? Nulla è detto di tutto ciò. Tutto è lasciato alle scelte e alla volontà del privato. E in questo quadro appare sconcertante anche la clausola del bando che prevede che gli enti pubblici proprietari possano impiegare la villa 36 giorni l’anno per loro scopi: come a dire, per un mese l’anno cerchiamo di fare qualcosa noi in Villa, per i restanti 11 tu privato hai mano libera.



Cosa pensi delle manifestazioni delle scorse settimane all'interno e nel cortile?

Sono sempre stato favorevole a che la Villa e il suo cortile ospitassero manifestazioni musicali, cinematografiche o altro. È un modo concreto per farla vivere. Però anche qui occorre capire che un conto è se queste manifestazioni sono a compendio di un progetto culturale di una Villa viva e aperta al pubblico, un conto se la Villa deve solo servire da muta scenografia ad un concerto che potrebbe anche svolgersi altrove. A questo proposito sarei molto favorevole a spettacoli son et lumière, che potrebbero collegare una manifestazione spettacolare con la storia della Villa stessa e attirare molto pubblico.

Davvero l'ISA è incompatibile con il futuro della Villa?

Se parliamo in generale niente impedirebbe in linea di principio che un complesso come la Villa ospiti in una sua porzione secondaria una struttura educativa per di più di tipo artistico. E che potrebbe peraltro collaborare fattivamente ad una positiva gestione della Villa progettandone l’immagine coordinata, il materiale informativo, fotografico, filmico, ecc. A mio parere occorrerebbe però che l’ISA diventasse davvero una scuola d’eccellenza, a numero chiuso e con esame d’ammissione attitudinale e magari chiamata nominativa degli insegnanti. Tutto ciò per valorizzarne gli scopi e la funzione, giustificando la sua permanenza negli attuali spazi. Non so dire se ciò sia possibile stante l’ordinamento scolastico vigente, ma certo sarebbe una prospettiva interessante ed affascinante.

postilla

privatizzazione dello spazio pubblico aggravata: suona come un reato, e lo è, soprattutto da parte di chi il “pubblico” dovrebbe rappresentarlo perché a ciò delegato dal voto popolare, e invece ritiene che il proprio mandato sia far rendere la bottega, e magari far qualche piacerino agli amichetti più uguali degli altri. Già si è detto e stradetto del discutibile modello di riqualificazione urbana in cui con la scusa di bonifiche ambientali, sicurezza, economicità gestione e compagnia bella, si producono tessuti urbani di fatto meno permeabili delle attività ex nocive che vanno a sostituire, e accessibili solo a chi paga: proprietario o cliente che sia. Almeno però (non è una scusante, ma facciamo conto che lo sia per scopi retorici) lì c’è un investimento, le aspettative di resa, il rischio, il fatto che in fondo la città si riqualifica, magari i posti di lavoro ecc. ecc.

Ma nel caso di un monumento storico, pubblico da sempre (o quasi), con una collocazione prestigiosa, centrale, perfetta per funzioni di alto profilo culturale e rappresentativo … farne l’ennesimo baraccone “esclusivo” per shopping, massaggi, insomma quella roba che si vede nei film coi nababbi evasori asiatici-caucasici persi nei vapori o spupazzati da geishe plurilaureate poliglotte … quello è spudoratezza pura. Ovvero la cosa a cui stanno cercando di farci abituare, facendo la classica faccina come il culo e spiegandoci pazienti che è il mercato. Concetto cangiante il cui senso è deciso volta per volta, arbitrariamente, da lorsignori, of course (f.b.)

ROMA— Domani la Regione Lombardia potrebbe dare il via libera alla terza pista di Malpensa. Ed è inutile aggiungere che gli ambientalisti sono furibondi. Le motivazioni delle loro rimostranze sono note: l’ampliamento dell’aeroporto, uno dei più problematici d’Italia, comprometterebbe il parco del Ticino, riducendo ancora le aree naturali. Meglio, secondo un documento congiunto di Wwf e Fondo per l’ambiente italiano, sarebbe investire dei soldi per migliorare i collegamenti pubblici, ridefinire un piano aeroportuale per tutto il Nord Italia, ormai pieno zeppo di scali, e magari risolvere la vecchia faccenda delle due piste troppo vicine senza farne una terza. Perché Malpensa ha una particolarità tutta sua: le due piste sono state costruite troppo vicine, fatto che rende praticamente impossibile, in base alle norme internazionali, il loro utilizzo simultaneo.

Difficile dire come si potrebbe tecnicamente rimediare a questo problema senza fare un nuovo nastro d’asfalto. Ma al di là delle pur importanti questioni ambientali (la Lombardia è un’area altamente urbanizzata e il consumo del territorio ha raggiunto ormai livelli inaccettabili, come nel resto del Paese), la decisione che la Regione si appresta a prendere desta molti interrogativi.

Sappiamo che la terza pista di Malpensa è il pilastro del mastodontico piano di sviluppo (1,6 miliardi di euro entro il 2020) della Sea, la società pubblica guidata da Giuseppe Bonomi. Piano che guarda fra l’altro all’Expo 2015, evento dai contorni ancora molto fumosi, ma saldamente, con i suoi 15 miliardi di euro di investimenti, nelle mani delle forze politiche (il Pdl, con derivazioni cielline, e la Lega Nord) che controllano gli enti locali della Lombardia. Piano che soprattutto dovrebbe servire a dare un’identità all’aeroporto che sta a cuore soprattutto alla Lega Nord, partito che ha in quella zona il suo storico bacino politico-elettorale.

Una decina d’anni fa era stato immaginato per quello scalo un futuro da hub, cioè da base operativa per l’Alitalia alleata della olandese Klm. Poi l’operazione è saltata e Malpensa è rimasta in una specie di limbo, condizionato di volta in volta dagli umori della politica. Finché la compagnia di bandiera ha deciso di mettere definitivamente nel cassetto il progetto, tirando anche un respiro di sollievo: se è vero che mantenere un numero rilevante di voli su Malpensa costava almeno 200 milioni di euro l’anno.

Allora si è pensato che potesse diventare un quartier generale per le compagnie, come la tedesca Lufthansa, vogliose di fare concorrenza all’Alitalia, alla quale nel frattempo era stato consegnato il monopolio della rotta Milano Linate-Roma Fiumicino. Insomma, una specie di spina nel fianco della Cai.

Anche quel disegno ha incontrato però non poche difficoltà, segnalate per esempio dalla decisione, presa a febbraio dalla compagnia germanica, di sospendere la linea Malpensa-Fiumicino, giudicata «poco conveniente». Il fatto è che lo scalo varesino si trova pure in una posizione infelice: sempre più assediato da altri aeroporti che succhiano traffico all’aera più ricca d’Italia. Né la lieve ripresa dei passeggeri registrata nei primi mesi di quest’anno ha potuto compensare il crollo del 19% accusato nel 2008 e quello ulteriore di oltre l’8% nell’anno seguente. Vedremo ora quali altri risultati darà la strategia di «Airport driven hub» (parole di Bonomi).

Ma non è forse legittimo chiedersi se il progetto della terza pista non risponda più a un’esigenza della politica che a quelle dei viaggiatori?

Cari compagni del manifesto, «Pensavo che piovesse, non che diluviasse». La vecchia metafora acquatica cade a proposito per commentare il superamento di un milione di firme, che ne rovescia il tradizionale significato pessimistico. Credo che, in tutti, vi fosse la consapevolezza che le firme necessarie per il referendum sull'acqua come bene comune sarebbero state raccolte: una previsione, questa, confortata dall'esperienza della legge d'iniziativa popolare, sottoscritta da quattrocentomila di persone. Ma i tempi rapidi e l'ampiezza del consenso non erano affatto scontati. Questo indubitabile successo merita qualche commento. Eccone alcuni, in rapida sintesi.

L'agenda politica è stata cambiata. Ma il punto vero non è tanto quello di aver allungato un elenco. Si è imposto un tema, quello appunto dei beni comuni, che risponde a logiche e a categorie diverse da quelle oggi prevalenti, e violentemente prevalenti. Un mutamento qualitativo, dunque. E questo è avvenuto ad opera di un soggetto nuovo che, se i quesiti saranno ritenuti ammissibili, assumerà la qualità di «potere dello Stato» per tutta la fase referendaria. Bisogna, allora, cominciare ad agire «come se» questa fase si fosse già formalmente aperta, affrontando in primo luogo il tema, politico e non solo giuridico, della difesa dei quesiti davanti alla Corte costituzionale.

Si deve poi registrare il fatto che le divisioni, indubitabili e prevedibili, non seguono gli allineamenti abituali delle forze politiche. Di questo bisogna tenere il massimo conto, non cedendo però alla logica vecchia dell' «aprire contraddizioni». Si deve cercar di capire in che cosa consista questo schieramento altro. Non si deve cedere alla tentazione autoreferenziale, comprensibile dato il successo ottenuto, ma cercar di stare in questo campo più aperto, con strumenti culturali e forme organizzative adeguate.

In un incontro a porte chiuse con i sindacati europei, l’11 giugno, il presidente della Commissione Barroso avrebbe espresso grande inquietudine sul futuro democratico di Paesi minacciati dalla bancarotta come Grecia, Spagna e Portogallo. Secondo il Daily Mail, avrebbe parlato addirittura di possibili tumulti e colpi di Stato. La Commissione europea ha smentito le parole attribuite al proprio Presidente, ma l’allarme non è inverosimile e molti lo condividono.

Al momento, per esempio, l’ansia è intensa in Grecia, dove il governo Papandreou sta attuando un piano risanatore che comporterà vaste fatiche e rinunce. L’ho potuto constatare di persona, parlando qualche settimana fa con il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papahelas: «Le misure di austerità, inevitabili e necessarie, sono irrealizzabili senza una democrazia funzionante e una classe politica incorrotta. Ambedue le cose mancano in Grecia, a causa di una storia postbellica caratterizzata da profonda sfiducia verso lo Stato e da una cultura della legalità inesistente». Papahelas non parla di colpi di Stato - l’esperienza, disastrosa, già è stata fatta a Atene fra il ’67 e il ’74 - ma di movimenti populisti, nazionalisti, «anelanti a falsi Messia».

La tentazione che potrebbe farsi strada è quella di considerare la democrazia come un lusso che ci si può permettere in tempi di prosperità, e che bisogna sospendere nelle epoche d’emergenza che sono le crisi. Apparentemente il regime democratico resterebbe al suo posto: la sua natura liberatoria verrebbe anzi esaltata. Ma resterebbe sotto forma impoverita, stravolta: il popolo governerebbe eleggendo il governo, ma tra un voto e l'altro non avrebbe strumenti per vigilare sulle libertà dei governanti. La democrazia verrebbe sconnessa dalla legalità, dai controlli esercitati da istituzioni indipendenti, dalle Costituzioni: tutti questi strumenti degraderebbero a ammennicoli dispensabili, e la libertà sarebbe quella dei governanti.

Gli italiani sanno che l’allergia alla legalità e ai controlli è un fenomeno diffuso anche da noi, oltre che in Grecia. Sanno anche, se guardano in se stessi, che il bavaglio protettore dell’illegalità è qualcosa che molti si mettono davanti alla bocca con le proprie mani, prima che intervengano leggi apposite. In questi giorni si discute delle intercettazioni: converrebbe non dimenticare che una legge assai simile (la legge Mastella) fu approvata quasi all’unanimità dalla Camera, nell’aprile 2007. Che un uomo di sinistra come D’Alema disse, a proposito di giornali da multare: «Voi parlate di multe di 3 mila euro (...) Li dobbiamo chiudere, quei giornali» (Repubblica, 29-07-06).

La crisi in cui viviamo da tre anni mostra una realtà ben diversa. Se si fonda su una educazione complessa alla legalità e non è plebiscitaria (cioè messianica), la democrazia è parte della soluzione, non del problema. La bolla scoppiata nel 2007 era fatta di illusioni tossiche, di un’avidità sfrenata di ricchezza, e anche della mancanza di controlli su illusioni e avidità. Uscirne comporta sicuramente sacrifici ma è in primo luogo una disintossicazione, un ristabilire freni e controlli. Tali rimedi sono possibili solo quando la democrazia coincide con uno Stato di diritto solido, con istituzioni e leggi in cui il cittadino creda. In Grecia, questi ingredienti democratici sono da ricostituire in parallelo con il risanamento delle finanze pubbliche e i sacrifici, e forse prima. Anche in America, non è con un laissez-faire accentuato che si sormontano le difficoltà ma con più stretti controlli sui trasgressori.

È il motivo per cui Grecia e Stati Uniti concentrano l’attenzione sui due elementi che indeboliscono simultaneamente economia e democrazia: da una parte l’impunità di chi interpreta il laissez-faire come licenza di arricchirsi senza regole, dall’altra l’impotenza dello Stato di fronte alle forze del mercato. Abolire l’impunità e restituire credibilità allo Stato sono giudicati componenti essenziali sia della democrazia, sia della prosperità. Difficile ritrovare la prosperità se intere regioni o intere attività economiche sono dominate da forze che sprezzano la legalità, che si organizzano in mafie, o che immaginano di annidarsi in chiuse identità micronazionaliste. La storia dell’Europa dell’Est e della Russia confermano che senza libertà di parola e senza un indiscusso imperio della legge viene meno il controllo, e che senza controllo proliferano gli affaristi e i mafiosi.

In Grecia, la lotta all’impunità è fattore indispensabile della ripresa, ci ha spiegato Papahelas: «La cura vera consiste nell’approvazione, da parte di tutti i politici, di un emendamento costituzionale che annulli l’immunità garantita a ministri o parlamentari passati e presenti, e che porti davanti alle corti o in prigione i truffatori e gli evasori fiscali. Si tratta di imbarcarsi in un nuovo capitolo della storia: economico, culturale e antropologico». In America vediamo con i nostri occhi quanto sia importante il controllo sulle condotte devianti di chi si sottrae alle regole: l’audizione al Congresso dell’amministratore delegato di British Petroleum, Tony Hayward, è severissima e trasmessa da tutte le tv. Dice ancora Papahelas: «Il vecchio paradigma - quello di uno Stato senza leggi, in cui regnano ruberie e nepotismi - sta precipitando».

Impunità e allergia alla cultura del controllo (esercitato da istituzioni e da mezzi d’informazione) sono radicate anche in Italia, e anche qui la democrazia è vicina al precipizio. Le innumerevoli leggi varate a protezione di singole persone o gruppi di persone, l’arroccamento identitario-etnico di regioni a Nord e a Sud del Paese: questi i mali principali. La stessa proposta di rivedere l’articolo 41 della Costituzione contiene i germi di un’illusione: l’illusione che l’economia ripartirà, se solo si possono iniziare attività senza controlli preventivi. L’illusione che l’eliminazione di tali controlli sia un bene in sé, anche in Paesi privi di cultura della legalità.

La costruzione dell’Europa non è estranea alla degradazione dello stato di diritto in numerosi Paesi membri. Non tanto perché essa ha sottratto agli Stati considerevoli sovranità (sono sovranità chimeriche, nella mondializzazione) ma perché ha ritardato l’ora della verità: quella in cui occorre reagire alla crisi di legittimità con una rifondazione del senso dello Stato, e non con una sua dissoluzione. Se i politici fanno promesse elettorali non mantenibili, se si conducono come dirigenti non imputabili, è inevitabile che i cittadini e i mercati stessi traggano le loro conclusioni non credendo più in nulla: né nell’Europa, né nei propri Stati, né nei piani di risanamento economico.

Non è un caso che si moltiplichino in Europa le condanne della legge italiana sulle intercettazioni (appello dei liberal-democratici del Parlamento europeo, firmato da Guy Verhofstadt, appello dell’Osce e di Reporter senza frontiere). Un’informazione e una giustizia imbavagliate o dissuase minano la democrazia. Reagiscono alla crisi proteggendo il vecchio paradigma dell’avidità senza briglie. Conservano uno status quo che ha già causato catastrofi nell’economia e nelle finanze.

L’esplosione della piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico è stata paragonata a una guerra. Anche la crisi è una specie di guerra. Se ne può uscire alla maniera di Putin: rafforzando quello che a Mosca viene chiamato il potere verticale, imbrigliando giudici e giornalisti, consentendo a mafie e a segreti ricattatori di agire nell’invisibilità, nell’impunità. Oppure se ne può uscire come l’Europa democratica del dopoguerra: con istituzioni forti, con uno Stato sociale reinventato, con la messa in comune delle vecchie sovranità, con un nuovo patto fra cittadini e autorità pubblica.

Andrea Palladino, Davide contro Golia

Marco Bersani e Corradio Oddi, Per l’acqua e la democrazia

Ugo Mattei, Da uno a venticinque milioni

Francesca Stroffolini, Il privato costa di più

DAVIDE CONTRO GOLIA

di Andrea Palladino

Un milione di firme in due mesi. Il movimento per l'acqua pubblica riparte da cittadini e associazioni. Senza partiti e lobbies, contro la gestione delle multinazionali dei servizi. A luglio le firme in Cassazione. In primavera il voto

Un milione tondo tondo di firme per l'acqua pubblica. Ovvero duecento cinquantamila in più del traguardo che inizialmente il Forum si era dato per questa campagna referendaria. Una gigantesca grande risposta a politiche di governo liberiste. Un movimento in tanti aspetti simile a quello nato all'epoca del G8 di Genova: i partiti sono ospiti, una rete diffusa, capillare e solida di movimenti e associazioni. E' impossibile nelle pagine di un giornale elencare le centinaia di sigle che hanno reso possibile un obiettivo così straordinario. Si possono indicare le aree, sapendo che si sta facendo il torto a qualcuno: i cattolici progressisti insieme ai centri sociali, interi pezzi di sindacato (soprattutto Cgil e Cobas) insieme alle associazioni di consumatori, il mondo ambientalista al gran completo, fino ai lavoratori delle società che gestiscono l'acqua. E poi cittadini comuni, quell'onda che progressivamente cresce attorno al popolo viola, le piazze per la difesa del diritto all'informazione, pezzi di quell'Italia che vuole capire perché siamo il paese più autoritario, più liberista e meno libero d'Europa.

Per capire conviene fermarsi in uno dei banchetti sparsi in Italia: «Acqua pubblica? Non c'è bisogno di spiegare nulla, firmo subito», è la frase più comune. Poi la seconda domanda riguarda il marchio doc: «Non siete per caso quelli dell'Idv, vero?», come chiedeva un'anziana signora a Roma. Domande a fiumi: come difendersi dalle società private, come ribellarsi all'aumento delle tariffe, come fare le analisi all'acqua che beviamo. In un clima che può ricordare le feste di paese. Come quando sulla cima dello Zoncolan, durante il giro d'Italia, sono apparsi i banchetti, scatenando gli applausi dei tifosi. O come a Nettuno, la settimana scorsa, quando le persone hanno lasciato la spiaggia per andare ad ascoltare Ascanio Celestini, e a firmare.

A ripercorrere a ritroso la strada che ha portato alla mobilitazione milionaria, si trovano episodi che raccontano bene quanto vale questo milione di firme. Due erano gli ostacoli solo apparentemente insormontabili, i partiti politici e l'informazione. Partiamo dall'ultimo, è una storia che ci riguarda da vicino. Fino a pochi mesi fa il tema acqua pubblica era sostanzialmente un tabù. E d'altra parte guardando le grandi imprese e i forti poteri finanziari che si nascondono dietro la privatizzazione delle risorse idriche si trovano nomi che pesano nei media mainstream. Grandi gruppi come Acea, ad esempio, hanno tra gli azionisti industriali di peso come Caltagirone, salito oggi al 13% della società romana, pronto a scalare il gruppo in vista dell'ulteriore privatizzazione già avviata da Alemanno. Il nuovo colosso multiutility del Nord, Iride, ha visto l'ingresso pesante di F2I, alla cui presidenza siede il nuovo banchiere di dio Ettore Gotti Tedeschi, a capo dello Ior, la banca del Vaticano. O le potentissime lobby delle acque minerali, budget destinati alla pubblicità in grado di interferire nelle scelte del mondo televisivo. Golia contro le voci che hanno accompagnato in questi anni la crescita del movimento per l'acqua pubblica, raccontando cosa significa privatizzare l'acqua, trovandosi davanti alla porta i tecnici delle multinazionali e i vigilantes pronti a tagliare i tubi se non riesci a pagare.

Il vero ostacolo, quello apparentemente più difficile, è venuto però dai partiti, anche dell'opposizione. Al momento della presentazione dei quesiti fu l'Italia dei Valori, con un Di Pietro particolarmente agguerrito, a cercare di allungare una gamba per lo sgambetto. Prima l'IdV chiese un posto in prima fila nel comitato organizzatore del referendum, dopo aver capito che quell'anomalo movimento poteva arrivare molto lontano; poi forzò la mano, presentando un quesito alternativo - che mantiene il modello privato come una delle scelte possibili di gestione - sul tema dell'acqua.

Segue la questione Pd. O meglio, di una parte del Pd. O, meglio ancora, probabilmente di una parte minoritaria del Pd. Una posizione ufficiale, come è noto, ancora non c'è. Ufficialmente si è espresso contro i referendum e contro la totale gestione pubblica dell'acqua il gruppo che si riconosce nella componente "ecodem". L'impressione è che nell'alta dirigenza conti probabilmente molto il Pd "di governo", quella parte del partito che è storicamente vicina alle gestioni miste pubblico private - vedi il modello Toscana, o il colosso Acea - oggi in forte difficoltà rispetto ad un referendum chiaro e radicale.

I partiti della sinistra hanno invece accolto l'invito del Forum a dare una mano senza protagonismi. Federazione della sinistra, Sel, Verdi, Sinistra critica e PCdL fanno parte del comitato di sostegno al referendum, dando un sostegno deciso ma autonomo.

Quel milione tondo tondo di firme è dunque stato possibile grazie alla mobilitazione nata e cresciuta dal basso, nelle piccole sedi improvvisate di centinaia di comitati locali, abituati ad aprire le porte a cittadini di ogni tipo, arrivati con bollette a tre zeri in mano e magari con l'acqua staccata. Sono comitati dove in prima fila trovi le donne che fanno i conti per prime con la crisi economica e con la scientifica capacità predatoria delle multinazionali dei servizi, o gli anziani, memoria storica della capacità di combattere al minimo odore di ingiustizia. E poi professionisti, operai, insegnanti, precari stufi di essere visti come la parte flessibile del lavoro, stranieri che scoprono come l'Italia non sia quel paradiso promesso e non mantenuto. Un'esperienza di lotte e vertenze accumulate in cinque anni, partite dopo le prime privatizzazioni vere, spacciate per gestione mista.

La macchina organizzativa per i referendum è partita a fine marzo, grazie a volontari e forme creative di autofinanziamento. C'è chi ha creato il gadget richiestissimo delle borracce con la scritta "l'acqua non si vende", chi ha preparato i manifesti che univano il 25 aprile con la liberazione dell'acqua, chi si è ingegnato a realizzare i sistemi informatici per il conteggio delle firme. Ma subito tutti hanno capito la potenzialità dirompente dei tre quesiti: chiedere una gestione pubblica senza se e senza ma, mettendo all'angolo le mediazioni, gli interessi e quel sistema gelatinoso che garantisce lobbies e affari era quello che questo paese aspettava. Non servivano manifesti, campagne pubblicitarie e informazione diffusa. I referendum dell'acqua pubblica vincono proprio perché sono radicali, perché toccano sulla carne viva un paese ferito. Un vero uovo di Colombo.

PER L'ACQUA E LA DEMOCRAZIA

di Marco Bersani (Attac Italia) e Corrado Oddi(FP-Cgil)

In soli 50 giorni un milione di donne e uomini hanno firmato i tre referendum per la ripubblicizzazione dell'acqua. Un risultato straordinario, ottenuto da una grande coalizione sociale promossa dal Forum italiano dei movimenti per l'acqua e dal capillare e reticolare impegno di migliaia di comitati sorti in tutto il Paese. Senza padrini politici, senza grandi finanziatori, nel più completo silenzio dei più «importanti» mass media.

Qualcosa sta succedendo in questo paese. Una nuova narrazione sull'acqua e dei beni comuni, frutto di un decennio di sensibilizzazione e di mobilitazione sociale, è emersa, dimostrando come su questo tema abbiamo già vinto culturalmente. Basta vedere le scomposte reazioni dei fautori delle privatizzazioni - Governo, Confindustria e Federutility in primis - i quali, se solo pochi anni addietro potevano rivendicare apertamente il dogma del «privato è bello», sono oggi costretti a giocare in difesa, a negare di voler privatizzare, a diffondere cortine fumogene sul pericolo referendario. Consapevoli di aver perso il consenso, faticano tuttavia a rendersi conto di come dietro a questa straordinaria mobilitazione popolare ci sia molto di più.

Perché il milione di donne e uomini che hanno sottoscritto i referendum forse non hanno ancora interamente acquisito tutta la complessità del tema acqua e privatizzazioni, ma nel loro incedere a testa alta verso i banchetti hanno dimostrato una forte consapevolezza sulla posta in gioco : mettere uno «stop» all'ideologia del mercato come unico regolatore sociale e invertire la rotta, riappropriandosi dell'acqua e dei beni comuni, che solo una democrazia partecipata e condivisa può gestire a finalità sociali.

Quel milione di donne e uomini sono un nuovo anticorpo sociale che parla all'intero Paese e alla crisi economica, ambientale e di democrazia che lo attanaglia. Dice a chiare lettere che gli attacchi ai diritti sociali e del lavoro, la privatizzazione dell'acqua e dei beni comuni, la demolizione della Costituzione e della democrazia non sono uno scenario ineluttabile, bensì il frutto di scelte politiche ancora una volta dettate da questo governo e dagli interessi dei grandi poteri economici-finanziari.

Quel milione di donne e di uomini sta indicando un'altra direzione : dalla crisi si esce attraverso la redistribuzione del reddito verso il lavoro e i ceti più deboli e attraverso l'appropriazione sociale di ciò che ci appartiene, a partire dal bene più essenziale di tutti, l'acqua. Dalla crisi si esce attraverso un nuovo ruolo del pubblico e della democrazia, che devono essere fondati sulla partecipazione popolare.

In questi mesi, con quest'esperienza, si è costruito uno straordinario laboratorio sociale. Ma sappiamo che è solo il primo passo. Perché dalla vittoria culturale si passi alla vittoria politica, occorrerà, entro la prossima primavera, trasformare questo milione di firmatari in almeno 25 milioni di votanti. Sarà un percorso difficile ed entusiasmante; avrà bisogno di tutte le donne e gli uomini che vogliono liberare l'acqua, rifondare la democrazia, redistribuire la speranza. Oggi possiamo intraprenderlo con nuova fiducia, tutti insieme.

I due autori sono membri del Forum Italiano Movimenti per l'acqua

ACQUA BENE COMUNE-IL MANIFESTO

Da uno a venticinque milioni

di Ugo Mattei



Nessun giornale ha seguito negli anni la battaglia globale contro la privatizzazione dell' acqua tanto da vicino quanto il manifesto. In Italia la copertura mediatica fin qui ottenuta dall' imponente movimento politico che ci ha condotti al raggiungimento dello storico traguardo di un milione di firme per i Referendum promossi dal Forum (www.acquabenecomune.org) e dai giuristi del Comitato siacquapubblica (www.siacquapubblica.it) è stata pressoché inesistente.

Malgrado ciò, la consapevolezza dell' importanza della battaglia politica per i beni comuni che stiamo conducendo incominciando dall' acqua si sta diffondendo a tutti i livelli della società italiana con ritmo più che incoraggiante.

E all' esperienza di lotta italiana, la prima di queste dimensioni in un paese occidentale ricco, cominciano a guardare con interesse e speranza milioni di compagni di paesi lontani, soprattutto in America Latina. Sicché il Forum italiano in questi mesi interpreta l' avanguardia della lotta globale contro il più inquietante e pericoloso fra i saccheggi del bene comune che le multinazionali stanno perpetrando.

Il compito che ci attende di qui a circa un anno è molto impegnativo ma non impossibile. Sul piano giuridico occorre argomentare in modo stringente, per impedire alla Corte Costituzionale di scippare il movimento del suo diritto a far esprimere il popolo sovrano. Abbiamo preparato bene i quesiti, ma non di rado in passato, soprattutto in materia referendaria, la discrezionalità della Consulta si è trasformata in valutazione di opportunità politica. È anche per questo che abbiamo deciso di non fermarci dopo aver raggiunto la soglia di sicurezza (circa 650.000 firme) e che non ci fermeremo neppure ora che abbiam raggiunto la storica cifra a sei zeri!

Sul piano politico bisogna attivarsi fin da subito per portare alle urne circa 25 milioni di elettori per superare il quorum di validità (50% +1 degli aventi diritto) e far rivivere il nostro più importante strumento di democrazia diretta. Ciò rende indispensabile non abbassare la guardia dopo aver consegnato le firme e soprattutto inventare modi creativi per tenere alta l' attenzione e la mobilitazione sul nostro tema (perché Vasco o Ligabue non fanno una bella canzone?).

In ogni caso noi riteniamo che il successo di una battaglia come la nostra dipenda (come peraltro la salvezza ecologica del pianeta) più dalla moltiplicazione di microcomportamenti di attivismo politico che non dalla (improbabile) apertura di un grande dibattito sui media. È assai probabile che, come sempre , i nemici della democrazia diretta utilizzino la strategia di invitare gli elettori ad «andare al mare» per far fallire il referendum piuttosto che misurarsi democraticamente sul merito della questione che stiamo rivolgendo al corpo elettorale.

In pratica quindi ogni firmatario ha un anno di tempo per convincere 25 elettori che non hanno firmato ad andare a votare (anche no!) al referendum sull'acqua entrando così democraticamente nel merito dei nostri argomenti nostri e di quelli dei nostri antagonisti. Un anno per parlare di un tema reale mentre si prende il caffè o sul tram, facendo rivivere la democrazia della partecipazione respingendo quella delle rassegnazione e dell' astensionismo. Basterà che tutti convincano due non firmatari al mese, uno ogni due settimane! E per raggiungere anche qui una soglia di sicurezza, proviamo a convincerne uno a testa alla settimana. Non è impossibile.

Anche ai tempi del referendum elettorale contro la partitocrazia che produsse il crollo della prima repubblica Craxi e gli altri invitarono gli elettori ad andare al mare... Forse fra un anno, con la crisi che morde, matureranno finalmente le condizioni per spazzare questa oscena seconda repubblica fatta non solo di berlusconismo pacchiano ma anche di conformismo privo di speranza.

Il manifesto, pubblica tutti insieme sul suo sito una ricca selezione di scritti apparsi durante questa campagna perché vuole offrire uno strumento in più da utilizzare nel nostro mini-compito personale di persuasione... ricordiamo: due amici alla settimana da subito! Se avessimo avuto i soldi lo avremmo distribuito ai nostri lettori in edicola...ma questa è un' altra storia di beni comuni a rischio di cui purtroppo ci sentirete ancora parlare fra poco.



Il privato costa di più

di Francesca Stroffolini

Nel dibattito originato dai referendum per la gestione pubblica del servizio idrico integrato sembrano fronteggiarsi due posizioni: da un lato quella dei promotori che giustificano la necessità di mantenerne pubblica la fornitura con la natura di «bene comune» e socialmente rilevante dell'acqua, che non può dunque sottostare alle logiche di profitto; dall'altra la posizione di coloro che sostengono la convenienza di affidare al privato la gestione del servizio con la convinzione che questo di per sé garantisca minori costi, maggiori investimenti per il miglioramento della rete di distribuzione e quindi anche maggiore vantaggi per i consumatori in termini di minori tariffe e maggiore qualità. E' proprio questa convinzione che qui si intende brevemente mettere in discussione.

L'osservazione da cui partire è che nei settori regolamentati, come quello idrico, l'Autorità Pubblica non ha le stesse informazioni dell'impresa regolamentata riguardo alle caratteristiche del settore (tecnologia, domanda) e quindi ai costi efficienti di fornitura del servizio. Ne consegue che l'unico modo che ha per indurre l'impresa privata a ridurre i costi è consentirle di appropriarsi dei maggiori profitti che ne derivano. E' questo il meccanismo di regolamentazione del Price Cap, utilizzato nel settore idrico, che fissa un prezzo massimo che non varia, per un certo intervallo di tempo, al variare dei costi. In tal caso qualsiasi riduzione di costo, non modificando il prezzo, si traduce esclusivamente in profitto dell'impresa privata senza alcun beneficio per i cittadini.

Ma se il prezzo è indipendente dai costi, il profitto dell'impresa aumenta anche nel caso in cui la riduzione di costo derivi da fattori esterni non dipendenti dal comportamento dell'impresa: in tal modo il profitto si converte in pura rendita. Inoltre, proprio l'obiettivo del profitto fa sì che l'impresa privata non tenga conto degli effetti negativi che la riduzione dei costi può avere sulla qualità dei servizi né avrà incentivo a realizzare investimenti costosi quali quelli richiesti da manutenzione e miglioramenti della rete di distribuzione dell'acqua che generano benefici sociali di lungo periodo.

L'Autorità Pubblica non ha modo di ovviare a questi problemi, punendo l'impresa nel caso di cattiva qualità del servizio e di perdite nella rete idrica. Uno dei motivi è che la rete idrica è nel sottosuolo e la sua qualità non è accertabile, quando il contratto di concessione è affidato all'impresa privata. Inoltre, soprattutto nel caso di contratti di lunga durata, si possono verificare eventi esterni, non prevedibili al momento del contratto e non verificabili dalle parti, che influenzano i costi degli investimenti e della gestione dell'infrastruttura. Ne consegue la non dimostrabilità delle cause ultime di un'eventuale perdita o interruzione del servizio: comportamento non adeguato dell'impresa, eventi sopravvenuti o iniziali cattive condizioni della rete idrica. Il risultato è che l'Autorità Pubblica non può richiedere l'intervento di un terzo esterno (giudice) per punire l'impresa.

Infine, è opportuno rilevare che, a causa delle elevate economie di scala che caratterizzano il settore idrico, le imprese private sono spesso multinazionali operanti in diversi settori. Tale aspetto, unitamente alla necessità di garantire la fornitura del servizio, pone l'Ente locale in una posizione contrattuale di debolezza rispetto all'impresa privata, in caso di rinegoziazione del contratto per eventi imprevisti (es. aumenti dei costi), comportando inevitabilmente una modifica dei termini contrattuali a favore dell'impresa privata.

Alla luce di queste considerazioni ritengo che il «governo» del servizio idrico dovrebbe articolarsi sui seguenti punti:

a) proprietà pubblica della rete e gestione pubblica dell'infrastruttura e della fornitura del servizio idrico, sottratta alle logiche del profitto;

b) partecipazione e controllo diretto da parte dei cittadini e dei lavoratori alla gestione del servizio;

c) trasferimenti centrali agli Enti Locali per finanziare investimenti infrastrutturali.

Ciò richiama la necessità di rimettere in discussione il processo d'attuazione di un federalismo fiscale che - così come va delineandosi - inevitabilmente comporta la privatizzazione forzata dei servizi locali.

E' un compito irrealistico? Può darsi, ma forse la sinistra ha perso anche per aver scambiato per «realismo» la mancanza di coraggio nell'avanzare proposte davvero alternative rispetto a quelle che sono presentate come direzioni ineluttabili del mutamento nella organizzazione della cosa pubblica.

Nell’aprile 2014 scadrà la concessione dell’autostrada del Brennero. È la prima scadenza di un’importante concessione autostradale ed è quindi un’occasione rilevante per prefigurare la politica che verrà seguita quando, nei prossimi anni, ne arriveranno al termine altre importanti.

UN ARTICOLO DELLA MANOVRA PER LE CONCESSIONI. Il decreto sulla “manovra” (Dl 78/2010) dedica all’argomento un intero articolo, il 47. Viene modificato il comma 2bis del Dl 59/08 (1) e si stabilisce quanto segue: 1) l’Anas pubblicherà un bando di gara per l’affidamento della concessione entro settembre; 2) il bando dovrà indicare il valore della concessione e le modalità di pagamento; 3) il subentrante dovrà continuare gli accantonamenti al “fondo ferrovia”.

Non si capisce quale modello di gara abbia in mente il nostro “legislatore”. Trattandosi di una infrastruttura “matura”, che non necessita di investimenti tranne quelli di manutenzione, le variabili in gioco sono tre: durata della concessione, livello del pedaggio (e regole della sua variazione nel tempo) e prezzo della concessione.

Normalmente, uno Stato fissa pedaggio e durata e assegna poi la concessione a chi offre il prezzo più elevato. Se invece si prefissa il prezzo, come sembra si voglia fare secondo il decreto, ci chiediamo: si assegnerà la concessione a chi si accontenta della durata minore (fissato il pedaggio) o a chi richiede il pedaggio minore (fissata la durata)?

Avendo lasciato indefiniti questi aspetti, forse era meglio che il decreto nulla dicesse sulle modalità della gara. Anche perché poi continua stabilendo che “il bando deve prevedere un versamento annuo di 70 milioni (…) fino alla concorrenza del valore di concessione”. Frase, questa, che lascia stupefatti, in quanto prefigura che la concessione “valga” molto meno di 70 milioni l’anno. Ma l’autostrada genera già oggi un margine operativo lordo (Mol) di circa 140 milioni l’anno. Per fare un esempio, se la concessione venisse assegnata per 1.400 milioni, pagando 70 milioni l’anno, il concessionario terminerebbe il pagamento dopo venti anni. Ma, essendo il Mol 140 milioni, ogni anno resterebbe al concessionario un profitto lordo di circa 70 milioni, che giustificherebbe un prezzo doppio per la concessione.

PERCHÉ RIASSEGNARLA? Si pone poi una domanda di fondo: è utile e opportuno riassegnare la concessione? Trattandosi di un’infrastruttura matura, il nuovo concessionario avrebbe solo due compiti, relativamente semplici: esazione dei pedaggi e manutenzione. Lo Stato, tramite l’Anas, potrebbe facilmente appaltare ciascuno dei due ruoli a imprese private (e la concorrenza qui sarebbe forte per la pluralità di potenziali concorrenti) e incamerarsi tutto il ricavo netto dell’autostrada, devolvendolo magari all’Anas. Si eviterebbero così i costi, le incertezze e le insidie di gare per concessioni di lunga durata e si eliminerebbero i gravosi costi amministrativi, inclusi pletorici consigli di amministrazione, di società che hanno per solo oggetto la gestione di un tratto d’autostrada.

Esempi di “unbundling” per infrastrutture mature vi sono già, ad esempio in Spagna, con risultati molto positivi. Perché lasciare quote consistenti di profitto a concessionari che nulla investono (se il pagamento della concessione è dilazionato nel tempo), nulla rischiano e ben poco hanno da fare? Anche nel caso che lo Stato decidesse di farsi pagare in anticipo l’intero prezzo della concessione, per “far cassa” subito, lo stesso obiettivo potrebbe facilmente essere ottenuto con anticipazioni finanziare a fronte degli incassi futuri, a costi assai inferiori a quelli richiesti da concessionari privati. Ricordiamo che gli azionisti della “Autostrada del Brennero spa” investirono negli anni Settanta meno di 3 miliardi di lire, e si ritrovano ora una società che ha in cassa circa 600 milioni di liquidità e titoli: davvero un ottimo investimento.

Un ultimo commento sul “fondo ferrovia”, nel quale la Autobrennero spa ha accumulato circa 400 milioni, in esenzione d’imposta. Resta ancora irrisolta la domanda che avevo posto in un precedente articolo (LaVoce, 6 giugno 2009) : la titolarità di questo fondo, per ora inutilizzato, passerà allo Stato alla scadenza della concessione o resterà nella disponibilità della società?

(1) Comma che peraltro non esiste nel testo convertito in legge pubblicato sul sito del Parlamento.

Regole. Legalità. Principi alla base di qualsiasi riflessione per Gherardo Colombo, l´ex pm di Mani Pulite che tre anni fa ha lasciato la magistratura per entrare nelle scuole e raccontare ai ragazzi i valori della Costituzione. Mercoledì compirà 64 anni. Dallo scorso settembre è presidente della casa editrice Garzanti. Non rilascia facilmente interviste. Ieri si è concesso un piccolo strappo, partecipando al videoforum di Repubblica Tv.

Intercettazioni. Cosa sceglie tra privacy e sicurezza?

«I due aspetti vanno bilanciati. La riservatezza va garantita. Ma con il ddl Alfano l´attività della magistratura verrebbe resa ancor più difficile e sarebbe pregiudicata la sicurezza. Certo, ci sono anche altri strumenti di investigazione. Però non mi pare che il ricorso alle intercettazioni sia impressionante, casomai la mia esperienza di giudice in Cassazione mi fa sorgere interrogativi sul perché vengano lasciati in penombra altri strumenti di inchiesta, come le interrogazioni bancarie, le indagini patrimoniali. Detto questo, alcuni punti della legge sono pericolosi».

Quali?

«A parte il limite di 75 giorni, mi preoccupano molto le mini-proroghe di 72 ore. Servirebbero almeno 15 giorni in più di volta in volta. Allungare le inchieste a singhiozzo non farebbe che ingolfare le procure, costrette ad una specie di gioco dell´oca. E poi i video, le immagini registrabili solo quando ci si trova in un luogo nella disponibilità della persona sottoposta ad indagini o di qualcuno a conoscenza dei fatti. Beh, faccio davvero fatica a comprendere la ragione di questo limite».

Pensa che Tangentopoli sarebbe esplosa con questa legge?

«Nel ‘92 non fu fatto un uso monumentale delle intercettazioni ma ci fu un grandissimo allarme sulla corruzione e le indagini fecero emergere un sistema malato. Da allora non è stato fatto nulla per rendere più difficile la corruzione e più facile la sua scoperta. Semmai il contrario. Lo dimostrano le inchieste che sono sui giornali, anche su quelli locali. Andando nelle scuole in giro per l´Italia li leggo spesso. Il malcostume è tuttora diffusissimo e spesso i politici non sono peggiori dei loro elettori».

Dicevamo però della riservatezza.

«Le regole che abbiamo, se applicate, già tutelano il diritto alla riservatezza dei cittadini. Oggi non si possono pubblicare tutte le intercettazioni, per esempio quelle che non riguardano l´indagato. Basterebbe seguirle, queste norme. Ad ogni modo: di fronte a reati e comportamenti in distonia con l´esercizio di una funzione pubblica il diritto alla privacy salta a prescindere».

Chi ha rotto l´equilibrio, magistrati o giornalisti?

«Non si può generalizzare. Credo che i magistrati abbiano spesso e giustamente fatto ricorso alle intercettazioni, ma penso pure che altre volte si siano mossi con disinvoltura. Sui quotidiani ho invece visto pubblicare notizie prima che fosse possibile o che proprio non potevano essere diffuse. Alcuni giornalisti e alcuni magistrati dovrebbero rivedere il loro rapporto con le regole. Questa considerazione non è comunque sufficiente per negare qualsiasi possibilità di informazione tempestiva».

E le multe agli editori previste dal ddl?

«Come editore non vorrei entrare in conflitto di interessi, per cui la metto così: la limitazione è coerente con i principi della Costituzione? Per me l´informazione è la base stessa della democrazia. La riservatezza va difesa sin quando non si trova in contrasto con il diritto dei cittadini ad essere informati su circostanze di rilievo. Ripeto: di rilievo».

Toghe contro la manovra, secondo il ministro Alfano è uno sciopero politico.

«I tagli riguardano "casualmente" chi si trova a passare di livello, il peso della manovra graverà soprattutto sui giovani magistrati, quelli pagati di meno».

Lei è mai stato tentato dalla piazza?

«No. Per me è importante stimolare la riflessione nei giovani. Qualche anno fa si discuteva sull´opportunità di mandare l´esercito a Napoli. Un sacerdote disse che avrebbe voluto un plotone di insegnanti. Sono di quell´idea».

Alcuni professori e ricercatori della facoltà di architettura milanese fondavano, anni fa, il gam, Gruppo Albero Milano. Lo scopo: studiare la possibilità di una vasta piantumazione in strade, viali, piazze e altri spazi pubblici o di uso pubblico che parevano attendersela dal dopoguerra e invece erano stati dimenticati dal Comune a un destino di aridità e squallore; pervenire a progetti particolareggiati caso per caso e coordinarli in un programma generale urbano, una specie di piano di attuazione la cui attendibilità sarebbe derivata dalla correttezza dell’analisi diretta nei luoghi; proporre il piano e i progetti ai tecnici del settore comunale competente per parchi, giardini, verde alberato, ai fini di una seria valutazione economica e di una progressiva realizzazione. Ci furono diversi incontri con i funzionari, specie con l’ingegnere capo, furono illustrati i progetti. Sembrava, al gruppo, relativamente facile discutere di alberature in una città che contava solo 160.000 piante, circa un decimo di pianta per cittadino residente e poco più di un ventesimo per persona presente nella giornata lavorativa. Al contrario, il gruppo dovette presto verificare che le proposte provocavano poco meno che terrore nel reparto comunale che avrebbe dovuto, per così dire, amare il verde per obbligo. Per i funzionari ogni albero vecchio o nuovo pareva un disturbo, una pratica burocratica pesante, una preoccupazione. Meno alberi meno problemi. Del resto, allora, non era gran che forte la richiesta di una maggior sensibilità ambientale degli amministratori pubblici da parte di abitanti o movimenti organizzati. Con una sola eccezione: Italia Nostra, grazie alla quale la città aveva ottenuto due nuovi parchi, il «Bosco in città» (area di via Novara), 120 ettari, e, nelle vicinanze, il «Parco delle cave», 121 ettari, entrambi recupero di spazi a gerbido o agricoli degradati. Il gam, nell’imbarazzo di un dialogo difficile, dovette ripiegare i progetti e rinunciare all’impresa.

Ricordo questo episodio di quasi vent’anni fa mentre a Milano si disputa intorno agli alberi soprattutto a causa della ormai famosa richiesta di Claudio Abbado, come un contratto, 90.000 piante in città in cambio del suo ritorno per dirigere qualche concerto. La discussione si è impantanata sulla questione se e come inserire, in base a un disegno di Renzo Piano accordato col maestro, qualche pianta in piazza Duomo (48 carpini, lato opposto alla chiesa) e filari in via Orefici, piazza Cordusio, via Dante (doppio filare), Largo Beltrami/Castello. Poi, fra presunte difficoltà tecniche e, addirittura, deprimenti contestazioni dei costi dell’équipe di Piano, si è fermata e il programma è stato accantonato. Si tratta, occorre rilevarlo, di soli 217 alberi a fronte dei 90.000 richiesti, per la posizione dei quali non c’è uno straccio di previsione da parte del municipio. E, ricordando le analisi del gam, sarebbero miriadi i luoghi urbani pronti per cambiare, grazie a intense alberature, la loro, è il caso di dire, natura. Alcuni urbanisti (etiam ego) hanno sempre sostenuto che un progetto di grande verde basato su vaste piantumazioni a filari e a macchie rappresenta forse la metà del valore di un buon piano regolatore.

Intanto il programma comunale relativo ai deprecati parcheggi sotterranei, dopo le demolizioni di non si sa quanti alberi con le opere già eseguite, comunque una quantità e una qualità altissime, ne prevede ora altre in piazze per le quali si stenta a credere che possa succedere. Come in piazza Lavater, spazio noto per essere folto di vecchi celtis (bagolari) bellissimi circondati da case tutte rilevanti per qualità architettonica. Aveva ben accertato il gam. L’albero è odiato dagli amministratori pubblici e, se è per questo, non è amato dalla maggioranza dei cittadini. Eppure una proposta di 90.000 piante non è certo utopica. Il numero è troppo piccolo perché rappresenti un ribaltamento di una condizione di penuria ora incancrenita. Per il Comune sono ottime false soluzioni come l’alberello, misero e triste, impiantato, invece che nel suolo, in vasi o vasoni sproporzionati dove lo impedisce il solettone del parcheggio sotterraneo. Accade in tutti i casi di ripristino dopo la costruzione dei silo costati la perdita di alberi veri: le solette e lo scarso strato di terra (dove è finito il vecchio obbligo dei due metri di spessore?) permettono, se non l’impiego di vasi, solo l’impianto di essenze a crescita bloccata. I risultati sono orribili. Vedere, ad esempio, oltre a via Vittor Pisani per i vasi, piazzale Dateo e piazza Risorgimento sulla direttrice Monforte, uno dei primari assi storici di penetrazione verso il cuore della città, con i loro rattrappiti alberini.

Un piano regolatore delle alberature in una città come Milano dovrebbe puntare su una dotazione di almeno un albero per abitante, che significa aggiungerne almeno un milione agli esistenti (ora 170.000). È la misura che pressappoco preventivava il gam.

Intanto il Comune, maestro di odio del verde, ha reso difficile la vita a Italia Nostra nella gestione unitaria del Parco delle Cave (davvero un’oasi incredibile nella disastrata Milano) tanto da costringerla a rinunciare. Sappiamo quale sarà la trasformazione: diverse e spezzettate aree concesse ad associazioni enti società che privatizzeranno gli spazi, recintandoli, costruendo casotti. Sarà quasi impossibile l’uso pedonale e ciclistico libero, aperto, sicuro.

Postilla sulle potature milanesi

Gli alberi dei viali hanno vita grama. Già riescono a difendersi con difficoltà dagli scarichi degli automezzi grazie alla loro capacità di assorbire anidride carbonica e di produrre ossigeno. Non possono invece difendersi dalle potature perpetrate dagli addetti del Comune, dei quali devono sopportare la perversa vocazione a maltrattarli, a toglier loro la parte più bella e utile, la chioma. Arthur Young (Bradfield – Suffolk, 1741-1820, scrittore, saggista, conoscitore di agricoltura, economia, problemi sociali) «condannava duramente la pratica di sfrondare il tronco lasciando soltanto un ciuffo di rami sulla cima dell’albero» (Keith Thomas, L’uomo e la natura, 1983, Einaudi 1994, p. 280). Questa è la brutta consuetudine milanese. Tagliano continuamente i rami bassi e a media altezza ingigantendo il timore di intralcio al passaggio degli autobus, riducono la figura della pianta a quella di uno scopino per la polvere. Di autobus ne potrebbero passare tre o quattro sovrapposti. (Milano, 17 maggio 2010)

Per il tema delle alberature nell’hinterland milanese vedi il mio Utopia metropolitana, 15 marzo 2003.

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