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L’opera di regolazione delle maree alle bocche di porto meglio conosciuta come “sistema Mose” sta procedendo secondo un proprio cronoprogramma che prevede la fine dei lavori per il 2014. Il progetto definitivo era stato approvato nel novembre 2002 con il placet del Comitatone [il comitato interistituzionale costituito da rappresentanti di ministeri, regione e comuni - ndr] nell’aprile del 2003.

Il costo calcolato ad oggi ammonta a 4.678 milioni di euro; l’opera può contare su un finanziamento finora stanziato di circa 3.ooo euro e ne mancano circa 1.600. Ai costi di costruzione, destinati verosimilmente a crescere nonostante la convenzione a prezzo chiuso, andranno aggiunti gli alti costi di gestione e manutenzione; il concessionario calcola 12 milioni di euro all’anno, pari allo 0,4% del costo dell’opera sulla base di un confronto con le barriere del Tamigi e della Scheda. Fonti autorevoli (Corte dei conti, consiglio superiore dei LL.PP., Comune di Venezia, ecc.) ritengono invece tali oneri altamente sottostimati e si ritiene che un’opera di tale natura debba attestarsi al 1-1,5% del suo costo.

Lo stato di avanzamento dell’opera è al 60% circa; sono stati ultimati e/o sono in corso tutti quegli interventi complementari e propedeutici ( bocca di Lido: porto rifugio e conca di navigazione, isola artificiale, protezione dei fondali, aree di produzione funzionali alla costruzione delle opere; bocca di Malamocco: diga foranea e conca di navigazione per grandi navi, opere di spalla, opere per la prefabbricazione dei cassoni di alloggiamento delle barriere, inizio costruzione cassoni di soglia, protezione dei fondali,aree di produzione funzionali alla costruzione delle opere; bocca di Chioggia: diga foranea, porto rifugio e conca di navigazione per pescherecci, opere di spalla, protezione dei fondali, aree di produzione funzionali alla costruzione delle opere).

Manca la fase finale costituita dagli interventi cosiddetti tecnologici (oggetto di gare europee) che rappresentano la parte più complessa dell’opera.

In concreto, esaurita la parte precedente, sta iniziando ora, in questi mesi,il vero punto di non ritorno:con le gare europee delle cerniere e poi delle paratoie e delle altre parti tecnologiche,con la costruzione dei cassoni di soglia e con lo scavo delle bocche per la messa a dimora dei cassoni di soglia.

E’ un errore pensare che non sia più possibile fermare questa opera; esistono ancora oggi le condizioni per effettuare varianti in corso d’opera volte da un lato a contrastare, o quantomeno a ridurre, gli effetti negativi che il proseguimento dell’opera provocherà, dall’altro a introdurre quegli elementi e soluzioni tecnologiche di maggiore compatibilità con l’ecosistema lagunare più volte auspicati.

E’ necessario però essere consapevoli che siamo in presenza della costruzione di un’opera che può contare di tutta una serie di punti a proprio favore che la “legittima” pienamente.

Il sistema Mose è stato approvato sia dal governo Berlusconi che dal governo Prodi, dalla destra e dalla sinistra nazionale e locale ( salvo coraggiose eccezioni: Mussi, Ferrero, Pecoraro Scanio, Bianchi, Massimo Cacciari).

Un’opera costosissima ed impattante che procede imperterrita nonostante gli innumerevoli rilievi critici di natura procedurale, ambientale,strutturale e le numerose manifestazioni di contrarietà che si sono manifestate durante tutto il suo percorso. Ne ricordiamo alcuni:

- esiste una valutazione di impatto ambientale negativa

- sia la soluzione progettuale adottata che i lavori eseguiti non sono mai stati soggetti a gara

- le opere complementari (lunate foranee e conca di navigazione ) hanno avuto una V.I.A. regionale mentre sarebbero dovute sottostare ad una V.I.A. nazionale ( ricorso respinto )

- c’è stato un ricorso in Europa ( respinto ) perché non si rispettano particolari aree di interesse comunitario

c’è stato un ricorso ( respinto ) per danni ambientali causati dai cantieri di costruzione dei cassoni a S.Maria del mare ( Pellestrina )

- c’è stato un ricorso ( respinto ) al Consiglio diStato per la decisione del governo Prodi sulla prosecuzione del Mose di escludere dal voto finale in Comitatone alcuni ministri contrari

- l’opera prosegue in assenza di un progetto esecutivo completo ( si procede per stralci )

non si è voluto tener conto delle osservazioni e proposte alternative presentate dal Comune di Venezia

- ci sono state oltre 12.000 firme contrarie al Mose

- non ci sono risposte esaurienti a fronte di un incremento del livello del mare ( eustatismo )

è stata denunciata una penalizzazione dell’attività portuale

- sono stati disattesi precisi dettati della legislazione speciale per Venezia ( sperimentalità, reversibilità,gradualità )

- sono stati disattesi specifici punti ( 11 ) proposti dal Comune di Venezia propedeutici all’inizio dei lavori del Mose

- rottura del caranto e scavo di milioni di mc. di fango consolidato,

- creazione di barene artificiali per mettere a dimora i volumi provenienti dallo scavo delle bocche

- costi di gestione e manutenzione dell’opera largamente sottostimati

- mancata accettazione di indennizzo dei danneggiati dall’acqua alta

- critiche pesanti dalla Corte dei Conti

- incidenza negativa del Mose sull’intero ecosistema lagunare

- infine, recentissimi studi (della società Principia interpellata dal Comune)) che mettono in discussione la funzionalità tecnica del Mose

Oltre alle caratteristiche dell’opera in sé vanno valutate le interrelazioni che detta opera produce con la laguna e specificamente con il suo marcato processo erosivo in corso. Il problema dell’erosione della laguna e della sua artificializzazione è stato sottaciuto perché si è voluto concentrare tutto sull’acqua alta-Mose opera salvifica della città.

La laguna sta diventando un braccio di mare ed andrebbero espletati radicali interventi volti ad invertire l’attuale bilancio negativo di sedimenti ( escono in mare più sedimenti di quelli che entrano nello specchio lagunare ) agendo principalmente: 1) sulle modalità di introduzione di sedimenti in laguna ( es. dalle piene del Brenta attraverso l’idrovia ) 2) su tutti i fenomeni che creano sospensioni di sedimenti ( moto ondoso provocato da natanti,dal vento,dalle disastrose modalità di pesca delle vongole filippine ) 3) sul dislocamento delle grandi navi crociera fuoruscita) 4) sulle quote dei fondali dei canali portuali 5) sulle sezioni delle bocche di porto che regolano lo scambio mare laguna.

In tale contesto il sistema Mose con l’irrigidimento delle sezioni delle bocche di porto che comporta non consentirà più di agire su questo fattore caratterizzato dalle misure del progetto che andrebbero invece ridotte con impedimenti fissi e removibili.

Durante il processo di avanzamento del Mose, nel luglio 2009 è stato pubblicato uno studio commissionato dal Comune di Venezia che conferma scientificamente alcuni dubbi a suo tempo sollevati da eminenti studiosi:

- le paratoie del Mose sono dinamicamente instabili ed in certe condizioni di mare non garantiscono il superamento della “ risonanza “ (le paratoie oscillano con ampi angoli facendo entrare acqua in laguna vanificando così l’effetto diga al contenimento della marea)

- la progettazione esecutiva delle opere tecnologiche si basa sulla sperimentazione su modelli in vasca che l’ingegneria moderna off-shore ritiene non affidabili

A fronte di quanto emerso da tale studio si rischia di eseguire un’opera dal costo di 5.000 di euro garantita 100 anni ( per tale arco temporale è stato ideato il Mose ) che poi potrà non funzionare!

Si impone pertanto la necessità di verificare immediatamente ( prima dell’indizione delle gare europee e della messa a dimora dei cassoni di soglia ) tramite un confronto scientifico garantito da terzietà quanto affermato dallo studio di Principia e qualora se ne riscontri la validità procedere con una variante in corso d’opera che risolvendo il fenomeno della risonanza individui la soluzione progettuale (peraltro per alcuni versi già nota) che sappia ridurre le sezioni frapponendo ostacoli fissi e removibili stagionalmente alle bocche di porto.

Armando Danella è il funzionario del Comune di Venezia che segue da almeno un ventennio la vicenda della salvaguardia della Laguna e del progetto MoSE

Stefano Rodotà A battaglia del post-it

La manifestazione di oggi, che da piazza Navona a Roma si diramerà in tante piazze italiane, assume un significato politico e una forza simbolica che la proiettano al di là di altre iniziative di opposizione al disegno di legge sulle intercettazioni. In quelle piazze si parlerà di tre bavagli: al lavoro della magistratura, al diritto all’informazione, alla cultura.

È ormai chiaro, infatti, il legame stretto che unisce gli attacchi alla legalità, all’esistenza stessa di un’opinione pubblica vigile, alla formazione del sapere critico. Una strategia che va avanti da tempo e che si vuol far arrivare al suo momento finale, ad una conclusione che negherebbe alcuni dei fondamenti che consentono ad un Paese di poter continuare a definirsi democratico. Il presidente del Consiglio non ha mai nascosto la sua ostilità a qualsiasi forma di controllo del potere. E ora, dopo aver messo il Parlamento nella condizione di non nuocere, vuole liberarsi in un colpo solo dell’odiata magistratura, di un sistema dell’informazione contro il quale aizza i cittadini, delle istituzioni culturali (università, in primo luogo) affamate con i tagli ai bilanci.

Ma qualcuno si è messo di traverso, e oggi tornerà a dire in pubblico che intende continuare a farlo. Non è il caso di abbandonarsi all’autocompiacimento, o a un ottimismo superficiale. Registriamo i fatti. Centinaia di migliaia di persone hanno firmato documenti contro la legge bavaglio promossi da gruppi assai diversi. Su Internet, nelle università, da parte delle più diverse associazioni si insiste in una attività di analisi e denuncia degli aspetti gravemente repressivi di quel testo. Questa opposizione sociale non si è rintanata in qualche nicchia, ma ha coinvolto l’intero mondo dell’informazione, al di là degli steccati politici, ha diviso la stessa maggioranza. Segno evidente che quel disegno di legge è stato vastamente percepito come un inaccettabile sopruso.

Questo è un fatto politico. In alcune materie non esiste la controprova, ma si può ragionevolmente ritenere che né le divisioni della maggioranza, né le inusuali durezze dell’opposizione sarebbero emerse con tanta chiarezza se vi fosse stata anche in questo caso quella acquiescenza di troppa parte dell’opinione pubblica che ha reso possibile le scorrerie di cui stiamo misurando i guasti e alle quali si vorrebbe continuare a garantire l’impunità nell’ombra. Ma il tempo dei silenzi è finito, si è individuato un nuovo terreno di lotta politica e non sarà facile per nessuno tentare di recintarlo.

Questo è un monito anche per coloro i quali, proprio in questo periodo, stanno mettendo in discussione diritti fondamentali garantiti dalla prima parte della Costituzione. Proprio la Costituzione, infatti, è stata impugnata come arma pacifica da tutte le persone che hanno protestato, firmato e oggi torneranno in piazza. La Costituzione ha trovato i suoi nuovi difensori, e non sarà facile scippargliela. E la privacy? Queste settimane hanno mostrato pure l’ipocrisia e la doppiezza di coloro i quali si sono messi al riparo dell’articolo 15 della Costituzione e della garanzia lì prevista per la libertà di comunicazione. Proprio ieri, nella sua relazione al Parlamento, il Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali ha messo in evidenza quante e quali siano le violazioni quotidiane della privacy delle persone, previste, favorite, ignorate dal Governo e dalla sua maggioranza. In questi casi, che davvero toccano la vita quotidiana di milioni di persone, nemmeno un briciolo di quell’attenzione che invece scatta, sensibilissima, appena ci si avvicina ai centri di potere e alle figure pubbliche. Si ignora che già esiste una norma chiarissima in questa materia, consegnata all’articolo 6 del codice deontologico dell’attività giornalistica: "La sfera privata delle persone note o che esercitano funzioni pubbliche deve essere rispettata se le notizie o i dati non hanno alcun rilievo sul loro ruolo e sulla loro vita pubblica".

Qui il confine difficile tra diritto d’informazione e tutela della privacy è tracciato con assoluta chiarezza. Non vi è alcuna aspettativa di privacy da tutelare quando i fatti riguardano figure pubbliche e hanno rilevanza pubblica, perché forniscono elementi in base ai quali l’opinione pubblica può controllare l’esercizio del potere e l’affidabilità di politici, burocrati, imprenditori.

Vogliamo uscire da questo brutto e non nuovo esercizio di strumentalizzazione delle istituzioni, dal loro pericoloso uso congiunturale? Vi è una via molto semplice per farlo, che converrà riproporre all’attenzione di quelli che saranno in piazza e, tramite loro, a quanti hanno responsabilità direttamente politiche e hanno finalmente compreso quale sia il pendio scivoloso che si sta imboccando con quel disegno di legge. Uno stralcio. Si abbandonino le pretese di rendere più difficile o addirittura impossibile l’attività d’indagine di magistratura e polizia e di bloccare le possibilità di impedire ai cittadini di veder legittimamente soddisfatto il loro diritto ad essere informati. Si presenti una proposta che vieti la pubblicazione di quanto è segreto, di quel che riguarda informazioni irrilevanti o riguardanti persone del tutto estranee alle indagini. E ci si fermi qui. Una proposta del genere troverebbe certamente larghissimo consenso, garantirebbe la genuina esigenza di privacy, eviterebbe gli abusi di cui tanto, e giustamente, ci si è lamentati.

Prepariamoci, altrimenti, a mantenere aperti spiragli di democrazia nella malaugurata ipotesi che il disegno di legge venga approvato. È già emersa una strategia di disobbedienza civile che va dalla pubblicazione di notizie rilevanti anche in casi vietati dalla legge alla impugnativa davanti alla Corte costituzionale e, eventualmente alla Corte europea dei diritti dell’uomo; ad accordi che consentano la pubblicazione delle stesse notizie su siti Internet stranieri, ai quali gli italiani potrebbero accedere, ed essere così informati; alla lettura alle Camere delle pagine vietate che, entrando negli atti parlamentari, diverrebbero immediatamente pubblicabili. Ma oggi nelle piazze si celebra un successo già raggiunto, sì che speriamo che di questa strategia non vi sia bisogno.

Una Regione buttata al vento. Trasformata in una selva di pale eoliche alte cento metri, che stanno crescendo sui crinali, intorno ai borghi medievali, a pochi metri da tesori archeologici come Pietrabbondante e Sepino. Sull’utilità dell’eolico si può discutere. Ma qui si sta stravolgendo il paesaggio di una terra. Andate in Molise, consultate le carte ufficiali, le denunce di Italia Nostra, Wwf, Via col vento e delle associazioni degli abitanti: ci sono progetti per tremila pale. Una ogni chilometro quadrato. “In tutto 187 impianti, alcuni anche di venti “mulini” alti come grattacieli di centocinquanta metri. Su 136 comuni della Regione, ben 96 presto potrebbero essere invasi. Per gli altri 40 la sorte non sarà molto diversa: saranno assediati dai colossi del paese accanto. Senza contare i 3 impianti off shore che potrebbero nascere davanti alle spiagge di Termoli. Il Molise produrrà più energia eolica della Sicilia, sei volte più estesa”, racconta Giuseppina Negro del Wwf Molise. Un assalto silenzioso. Il Molise è terra splendida, ma remota, dimenticata dalla politica e dai giornali. Governata da Angelo Michele Iorio, governatore e senatore Pdl, famoso per una polemica su parenti e amici negli ospedali di mezza regione (Iorio detiene la delega all’Energia dopo la polemica rinuncia dell’assessore Franco Marinelli).

Il business

Qui si sono date appuntamento decine di società pronte a realizzare impianti. Ci sono colossi del settore, ma anche imprese con una manciata di addetti, molte con sede in Campania. Un dettaglio che ha fatto rizzare le antenne all’Antimafia: “La maggioranza delle società saranno sicuramente a posto – commenta un investigatore – ma l’eolico, proprio in Campania, è uno dei business preferiti da imprese in odore di camorra”.

Intanto la gente del Molise combatte da sola: manifestazioni e cortei. Fuori dalla Regione, però, nessuno ne parla. Allora eccoci a Pietrabbondante. Alzi la mano chi la conosce. Eppure qui si trova uno dei più straordinari anfiteatri del nostro Paese: un semicerchio di pietra costruito dai Sanniti nel II secolo avanti Cristo. In queste giornate di inizio estate a salire fin quassù, a mille metri, sembra di volare: davanti hai tutto il Molise. A Est le montagne che si sciolgono in colline verso l’Adriatico. A Ovest il chiarore del Tirreno. Intorno i crinali. Lo stesso paesaggio che aveva negli occhi Francesco Jovine quando negli anni Quaranta scrisse il suo Viaggio nel Molise: “Di qui si vede tutta la vallata, ampia, austera, solitaria, a boschi, a macchie, a burroni, a botri. Terra varia, tormentata da rocce, da valloni, da frane, ma tutta coltivata con sapienza antica; quella stessa che conoscevano i Sanniti”.

Sfregio all’ambiente

Pietrabbondante era la città sacra dei Sanniti. All’estero sarebbe una meta per milioni di turisti. Ma il teatro è coperto di erbacce. Intorno, come funghi, decine di pale. L’ultima sberla potrebbe arrivare nei prossimi giorni: il Tar si deve pronunciare sul ricorso contro un impianto da 13 pale a un chilometro dall’anfiteatro.

Immaginate se fossimo vicini al teatro di Taormina. Un’insurrezione. Qui tutto avviene nel silenzio. Michele Petraroia, consigliere regionale del Pd, da anni lancia appelli che cadono nel vuoto: “Ma da soli non abbiamo la forza per fermare l’invasione. Purtroppo che cosa si celi spesso dietro gli investimenti nell’eolico sta emergendo dalle inchieste in mezza Italia”.

Giovanni Tesoni, il sindaco di Pietrabbondante (centrodestra), si è arreso: “Ho detto sì all’impianto”, esordisce. Aggiunge: “Sarei contrario, queste rovine mi stanno a cuore… da bambino ci venivo a giocare”. Allora? “Dall’anfiteatro vedi decine di pale nei comuni vicini. Il danno è fatto. E poi le casse del Comune sono vuote. O costruiamo gli impianti o tagliamo i nostri boschi, non abbiamo altre entrate. Le rovine portano ventimila persone l’anno, 50 mila euro, ma il Comune non vede un centesimo. Vanno tutti allo Stato che qui fa lavorare sei persone, ma non tagliano nemmeno le erbacce”. Il noto archeologo Adriano La Regina, dopo essersi battuto per Roma, è una delle poche voci a difesa del Molise (l’altra è quella Vittorio Sgarbi): “Il Sannio è una terra straordinaria. Rischia di perdere una ricchezza molto maggiore di quella dell’eolico. A Pietrabbondante non ci sono solo il teatro e il tempio. Sulla montagna ci sono fortificazioni sannitiche. Proprio lì è previsto il nuovo impianto”, spiega La Regina.

Non basta. “Non abbiamo nemmeno i soldi per altri scavi”, allarga le braccia Tesoni. Già, i resti dei Sanniti emergono ovunque. Seguite Giulio, cercatore di funghi di Frosolone, vi porterà a Civitanova del Sannio. “Una mattina mentre andavo a porcini mi sono trovato davanti questi massi”, racconta. Dalla vegetazione emerge un enorme muro. È un forte dei Sanniti, roba di duemilacinquecento anni fa.

Addio limiti

Questo è il Molise. Come a Sepino. La Regina lo descrive così: “È una città romana perfettamente conservata: mura, torri, porte. Sul teatro si sono inseriti i palazzi del Settecento, sembra un piccolo teatro di Marcello (a due passi dal Campidoglio, a Roma, ndr) in mezzo ai campi”. Ma Sepino la sua battaglia l’ha appena persa: il Consiglio di Stato ha dato il via libera a un impianto di 18 pale. È la legge regionale a permetterlo. “All’inizio – racconta Giuseppina Negro – era stato previsto un limite di distanza per gli impianti, ma il Governo ha impugnato la legge… strano, soltanto quella del Molise”. Così sono arrivate le nuove linee guida: “E addio ai limiti previsti”.

Ma non ci sono soltanto i siti archeologici. San Pietro Avellana, Macchiagodena, Guglionesi, Riccia, San Martino in Pensilis, succede dappertutto. Come sui pascoli selvaggi di Acqua Spruzza a Frosolone. Siamo a milletrecento metri, su un altopiano popolato da cavalli allo stato brado e mucche. Camminando in mezzo a papaveri e ginestre all’inizio non te ne accorgi, poi ecco quel rumore continuo, martellante. Decine di pale eoliche prendono a sberle l’aria. Questa diventerà la colonna sonora nella vita della gente del Molise. A tutte le ore, ogni giorno dell’anno. Roba da impazzire. Se anche ti tappi le orecchie le hai davanti. Ovunque tu vada non potrai scappare.

ROMA— Nel 2018 saremo il Paese più vecchio d’Europa, già oggi ci supera solo la Svezia. L’aspettativa di vita è di 78 anni per gli uomini e di 84 per le donne. Una buona notizia ma anche un problema. E non solo per le pensioni. Con l’età diminuisce l’attenzione, e per chi guida l’attenzione è fondamentale come la prudenza. Per questo Mario Valducci, deputato del Pdl e presidente della commissione Trasporti della Camera, lancia la sua proposta: « Si dovrebbe pensare a un’età limite, una soglia oltre la quale non è più possibile guidare. Possono essere 80 o 85 anni, di questo si può discutere. Ma la questione va affrontata». Valducci è anche il relatore di quella riforma del codice della strada che dovrebbe essere approvata prima della pausa estiva del Parlamento. Il limite d’età non sarà inserito in questo disegno di legge, proprio perché la Camera sta stringendo i tempi per evitare un nuovo rinvio. Ma il dibattito è aperto.

Oggi, in teoria, è possibile guidare anche fino a 100 anni. La patente deve essere rinnovata ogni 10 anni fino al cinquantesimo anno d’età, ogni 5 fino al settantesimo compleanno, e poi ogni tre. L’automobilista in pensione non ci va mai, va bene così?

La proposta sull’età massima è arrivata nel corso di un convegno organizzato dalla Fondazione per la sicurezza stradale dell’Ania, l’associazione nazionale fra le imprese assicuratrici. «Dobbiamo prendere atto — spiega Sandro Salvati, che della Fondazione Ania è il presidente — che siamo un Paese di vecchi. E che le visite mediche per il rinnovo della patente spesso sono solo sulla carta». D’accordo sul tetto, quindi? «No, potrebbe essere una grande ingiustizia. Ci sono persone che a 85 anni sono sveglie come grilli e altre che a 65 non hanno più i riflessi di una volta». Ma anche secondo lui il problema va affrontato. Come, lo suggerisce Umberto Guidoni, che della Fondazione Ania è il segretario: «Oltre una certa età, ad esempio 70 anni, si potrebbe prevedere il rinnovo annuale della patente. E soprattutto chiedere un vero e proprio certificato del medico curante. Oggi, sostanzialmente, siamo all’autocertificazione».

Quello dell’età avanzata è una tema che si intreccia con la prossima campagna della Fondazione Ania per la sicurezza stradale, una serie di spot contro la guida distratta. «Le automobili moderne — dice il presidente Salvati — sono ricche di optional che fanno scendere l’attenzione di chi è al volante». Non ci sono soltanto il cellulare e la radio, ma anche il navigatore, il monitor per la tv, l’iPod attaccato al cruscotto, il computer di bordo. Senza contare le piccole distrazioni antiche, chi si rifà il trucco e chi si accende una sigaretta. Dati ufficiali non ci sono ma l’Ania stima che il 30% degli incidenti sia causato proprio dalla guida distratta, un «virus contagioso» come l’ha definito addirittura il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki Moon. La polizia stradale sta cercando di capire se è possibile arruolare nella battaglia il tutor, il sistema che misura la velocità media in autostrada, aggiungendo delle telecamere in grado di pizzicare chi telefona al volante.

Intanto la prossima settimana partirà la campagna della Fondazione Ania «Pensa a guidare». Ricordando che nel 2008, solo in Italia, le vittime della strada sono state 4.731, una volta su dieci ragazzi sotto i 20 anni. E che nei weekend dei primi 4 mesi del 2010 si registra un aumento del 5,9%. Oltre ai lutti, al dolore e ai sogni spezzati di migliaia di persone, si tratta anche di un costo sociale insostenibile: 31 miliardi di euro l’anno, più della manovra adesso in Parlamento. Come dice Angelino Alfano siamo «all’emergenza sociale» e per questo il ministro della Giustizia invoca una «riforma del diritto penale sulla circolazione stradale che si ispiri al principio della tolleranza zero». La questione è tecnica ma di grande importanza. In alcuni Paesi, come la Francia, c’è una reato specifico, quello della criminalità stradale che in caso di incidente mortale prevede sanzioni più alte rispetto al semplice omicidio colposo. Da noi, per il momento, se ne parla.

postilla

Come sempre accade, la stampa (e purtroppo presumibilmente chi prende le decisioni e gran parte di chi le subisce) davanti a un problema ne coglie solo alcuni aspetti, dandone per scontati altri, come se fossero leggi ineluttabili della fisica. E parlando di mobilità privata la tendenza alla settorializzazione diventa letteralmente scatenata, come se salendo in auto si entrasse in un universo parallelo: la distrazione alla guida è un problema? La guida in sé è un problema? Di sicuro, ma come sempre si può affrontare da sinistra e da destra.

Quella di destra è la solita risposta: repressione, per il nostro bene, per la nostra “sicurezza”. Via la patente, e per milioni e milioni di persone questo significa, letteralmente: galera, reclusione, emarginazione, morte civile.

Perché appare decisamente criminale, prima promuovere un modello di vita dove tutto, ma proprio tutto, ruota attorno all’automobile (lavoro, localizzazione della casa, consumi, anche fare l’amore ed esprimere la propria personalità a seconda di modelli e stili di guida), e poi per decreto levarla da sotto al culo dei malcapitati colpevoli di non essersi schiantati da giovani su qualche guard rail del sabato sera.

Che dire dei quartieri nel nulla, dove è INDISPENSABILE l’auto per fare qualsiasi cosa diversa da una telefonata? Che dire anche delle città, storiche o periferie, piallate a misura di scatoletta meccanica individuale (vedi il surreale dibattito milanese sul megatunnel di fatto alternativo alla metropolitana, ma non solo)? Che dire della apparante ineluttabilità del modello di consumo shopping mall che sin dall’inizio, ovvero quanto pesa la spesa, e quanto costa relativamente al chilo, è al 100% auto-oriented ?

Cari signori, prima di parlare a vanvera, manco si fosse negli anni ’60 con l’enfasi giovanilista e i cosiddetti matusa da scalzare dal potere, vediamo di ragionare su queste questioni di base. Altrimenti gli scenari della peggiore fantascienza inizieranno davvero a profilarsi, non per colpa di qualche genio malevolo, ma prosaicamente a causa di una manciata di pensosi imbecilli (f.b.)

Scontro (ennesimo) tra Letizia Moratti e Roberto Formigoni sull’Expo. Tema (cruciale): il destino dei terreni su cui avverrà l’esposizione universale del 2015. Il sindaco di Milano li vuole in comodato d’uso a un prezzo simbolico, il presidente della Regione li vuole comprare. Che senso ha questa nuova contesa, che divampa mentre se ne va, sconfitto, l’amministratore delegato di Expo Spa Lucio Stanca e arriva, come direttore generale, il manager Giuseppe Sala?

La vicenda delle aree inizia nel 2007, quando vengono scelti per l’esposizione i terreni a nord di Milano incastrati tra l’autostrada per Torino e quella dei Laghi, nei Comuni di Pero e Baranzate. Un postaccio, dove nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di costruire niente. Ma la bacchetta magica dell’Expo può fare miracoli: portare strade e linee di metrò, zone verdi e corsi d’acqua. Insomma, valorizzare quelle aree agricole e renderle appetibili.

Di chi sono, quei terreni? Al 70 per cento della Fiera di Milano, controllata dalla Regione e tradizionale feudo degli uomini di Comunione e liberazione. Al 30 per cento del gruppo Cabassi. Nel 2007, il piano (esplicitato dal contratto firmato allora dal Comune di Milano, dalla Fiera e da Cabassi) era di dare le aree in concessione alla società Expo per sette anni (2010-2017), al termine dei quali Fiera e Cabassi se le sarebbero riprese, trovando la gradita sorpresa di poterci costruire sopra: 600 mila metri quadri secondo il contratto, gonfiabili fino a 1 milione di metri quadri secondo una clausoletta ("zona di trasformazione speciale") inserita nel nuovo Piano di governo del territorio in approvazione a Milano.

Era un piano perfetto: da una parte Comune e Regione non avrebbero speso un euro per le aree, dall’altra i proprietari avrebbero fatto bingo. Soprattutto la Fondazione Fiera, pesantemente in rosso, avrebbe risolto tutti i suoi problemi, per la gioia di Formigoni e di Cl. Ma il piano è saltato. La crisi, infatti, ha prosciugato i soldi pubblici che dovevano arrivare all’Expo e ha reso incerti gli investimenti immobiliari: perché costruire, con il rischio di non riuscire a vendere? Letizia Moratti ha allora accettato di presentare un "concept plan" leggero, progettato dall’architetto Stefano Boeri con Richard Burdett, Jacques Herzog, William Mc Donough e Joan Busquets. Un grande parco botanico planetario, con le coltivazioni, le serre, le biodiversità, i climi del mondo e le loro tipicità alimentari.

A questo punto, Formigoni non ci sta. Vuole riprendere in mano la guida dell’operazione. Vuole acquistare le aree. Con una mano paga (quella della Regione Lombardia), con l’altra incassa (quella della Fondazione Fiera). Quelle aree agricole, non edificabili, oggi valgono poco o niente. La Regione sarebbe disponibile a pagarle ben oltre il loro valore attuale (i proprietari chiedono almeno 200 milioni, Formigoni ne propone 160). Poi, dopo l’Expo, il grande parco che dovrebbe restare come regalo alla metropoli meno verde d’Europa sarebbe almeno in parte edificato. Un bel quartiere residenziale, che renderebbe la Fondazione Fiera un soddisfatto e ricco operatore immobiliare. Quanto al tema dell’Expo 2015, "Nutrire il pianeta, energia per la vita", resterebbe un buon proposito, ma a nutrirsi sarebbero i soliti noti.

Soru: «Doveva essere un regalo a qualche amico» Sanna: «Davano il via alla cementificazione»

CAGLIARI. Il dibattito di ieri in consiglio regionale ha riacceso l’attenzione sulle coste e sul tipo di lottizzazioni possibili, con forti divisioni all’interno della maggioranza, come annunciato anche nel sito di Paolo Maninchedda (Psd’az, presidente della commissione Bilancio). Alla fine ieri sera l’assemblea, a voto segreto, ha bocciato l’intero provvedimento. Uno schiaffo potente per un piano che Renato Soru aveva detto essere un «regalo» a qualche amico. «Se non fosse stato respinto - spiega Gian Valerio Sanna (Pd), già assessore regionale all’Urbanistica e agli enti locali - questo piano avrebbe resuscitato tutta una serie di interventi edilizi sulle coste. E mi riferisco a Costa Turchese per il nord Sardegna e a Cala Giunco (la lottizzazione che fa capo a Sergio Zuncheddu, editore de L’Unione Sarda e di Videolina - ndr): le modifiche inserite in queste nuove norme avrebbero rimosso il vincolo paesaggistico legato alle opere di urbanizzazione. Sarebbero potute rientrare in gioco anche vecchie ipotesi come quella dei Benetton su Teulada e di Ligresti presso Villasimius». Il provvedimento, sottolinea Mario Bruno, capo gruppo del Pd, «non rappresentava gli interessi dei sardi ma andava incontro solo a esigenze speculative di pochi».

L’attenzione era rivolta in particolare verso il comma 18 dell’articolo 1 delle proposte, che avrebbe eliminato il limite posto dalla norma precedente alle lottizzazioni sulle coste. Questa infatti permette di realizzare gli interventi edilizi nei Comuni ancora privi di Puc solo nel caso di lottizzazioni approvate e convenzionate prima dell’approvazione del piano paesaggistico regionale (Ppr), ma a patto che avessero avviato le relative opere di urbanizzazione. Il comma «incriminato», se fosse passato, avrebbe cassato il vincolo cronologico legato all’approvazione del Ppr. In questo quadro anche Cala Giunco, ottantunomila metri cubi da realizzare nella zona tra lo stagno di Notteri e Porto Giunco, sarebbe tornata d’attualità dopo il «no» ricevuto recentemente dal Consiglio di Stato. «Uno dei motivi di questa sentenza - sottolinea Stefano Deliperi, responsabile del Gruppo di intervento giuridico - è proprio la mancanza di urbanizzazione. Mentre il comma 18 avrebbe riaperto il discorso. Anche se, a mio parere, sarebbe stata una norma impugnabile in quanto in contrasto col Codice Urbani in rapporto ai vincoli paesaggistici. E l’avremmo subito impugnato».

Secondo il presidente regionale di Legambiente Vincenzo Tiana, «il paradosso di queste modifiche al cossidetto "piano casa" è che sono state presentate perchè in campo nazionale si è fatto osservare che vi erano aspetti in contrasto con le norme paesaggistiche. Invece proprio queste sarebbero state peggiorate». Claudia Zuncheddu (La Sinistra, Rossomori) sottolinea il pericolo scampato e parla di «grosse lobby che altrimenti sarebbero riandate alla carica delle coste con vecchi e nuovi progetti turistici». Lo stesso timore anche da parte di Massimo Zedda (La Sinistra) che giudica «questo provvedimento un tentativo di appoggio ai grossi gruppi edilizi che hanno interessi aperti sulla costa».

Neanche gli stadi dei Mondiali forse c’erano riusciti: il nuovo porto turistico di Imperia, fortissimamente voluto da Claudio Scajola, sarebbe costato cinque volte più del previsto. È scritto nel documento della Commissione di Vigilanza e Collaudo finito alla Procura di Imperia. “È necessario – scrivono i tecnici – osservare che l’ultimo certificato di pagamento emesso stima in 145,8 milioni il costo delle opere marittime, valore assolutamente non congruo rispetto al progetto approvato, il cui costo in fase di progettazione era stato stimato in maniera considerevolmente inferiore (29,3 milioni)”.

La colata di cemento

I riflettori si accendono ancora una volta su quest’opera faraonica: 1.440 posti barca più 117 appartamenti. Il tutto realizzato dall’Acquamare di Francesco Bellavista Caltagirone (non indagato), noto anche per aver partecipato alla cordata Alitalia sponsorizzata dal Governo. L’Acquamare a sua volta detiene il 33 per cento della società Porto di Imperia spa. Un altro terzo è del Comune di Imperia. L’ultima fetta è in mano a imprenditori locali tra cui risultava anche Pietro Isnardi, consuocero di Alessandro Scajola, fratello dell’ex ministro, ma soprattutto suocero di Marco Scajola, fino a pochi mesi fa vicesindaco della città.

Il nuovo scalo è forse la più grande colata di cemento in una Liguria dove i porticcioli – benedetti da centrodestra e centrosinistra – sono stati il cavallo di Troia per milioni di metri cubi di costruzioni. Proprio quel porto di cui Angelo Balducci era stato nominato commissario. E la presenza nella Riviera dei Fiori di uno dei protagonisti delle indagini sulla Cricca sta attirando sul progetto l’attenzione delle procure. Non soltanto di quella imperiese. Gli investigatori stanno valutando molti elementi, “come il mancato svolgimento di gare di evidenza europea”.

Caltagirone, Scajola e Fiorani

Ma il mega-porto, perfino nella Liguria scajolizzata, aveva suscitato perplessità già prima che arrivasse il cemento. Così qualcuno ricorda quel volo in elicottero compiuto nel 2003 per visionare dall’alto le opere. A bordo, oltre a Bellavista Caltagirone, c’erano Scajola e Gianpiero Fiorani che nel cemento ligure sognava di investire cento milioni. L’episodio, nonostante le inchieste sulle scalate bancarie dell’estate 2005 (Francesco Bellavista Caltagirone partecipò all’operazione Antonveneta attraverso Hopa, ma non fu indagato), fu presto dimenticato. Nel 2006 ecco il taglio del nastro dei cantieri, presenti Scajola e il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando. Soltanto la Cgil, guidata allora da Claudio Porchia, tentò di sollevare la questione. Scajola replicò: “Caro Porchia, non sei il sindaco di Imperia, sei il capo di un gruppo parassitario che non conta un tubo e non prende un voto”. L’ex ministro si beccò una querela, ma invocò l’immunità parlamentare. Le ruspe andarono avanti, nonostante un’inchiesta per le variazioni in corso d’opera (ammesse dagli stessi costruttori) per un enorme capannone portuale. Una situazione paradossale: per autorizzare la costruzione era necessaria una variante dello stesso comune che è proprietario di un terzo della società. Per non dire dell’ipotesi di una condanna: il Comune rischiava di pagare, attraverso la società, una sanzione a se stesso. Alla fine, però, è giunta la contestata richiesta di archiviazione. Basta? Neanche per sogno, perché qui si affaccia Balducci. All’inizio del 2008 gli enti pubblici dovevano nominare la Commissione incaricata di verificare la conformità del porticciolo alla concessione demaniale. Bisognava esaminare le opere a mare realizzate, ma soprattutto andavano stabiliti gli oneri che il concessionario doveva pagare allo Stato. Una verifica amministrativa, ma anche contabile, su cui puntavano gli occhi Bellavista Caltagirone e Beatrice Cozzi Parodi (sua compagna e socia, soprannominata “Nostra Signora dei porticcioli”). La prassi, in questi casi, è che si scelga un membro dell’amministrazione. Invece venne designato anche Balducci. Chi lo scelse? Tutti puntano il dito sull’allora sindaco di Imperia, Luigi Sappa (Pdl), vicino a Scajola (è stato poi scelto dal Pdl come presidente della Provincia di Imperia). Balducci venne nominato presidente della Commissione, ma dopo un paio di mesi si dimise.

Intanto i lavori procedevano: nel 2009 ecco l’inaugurazione del molo lungo, presenti Scajola e Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset. Adesso, però, l’ultima tegola: il parere dei tecnici della Regione Liguria. Che non usano mezzi termini: “Il concessionario non ci ha fornito la documentazione necessaria per svolgere pienamente i propri compiti… nonostante richieste in tal senso siano state espresse e reiterate più volte”. E il documento conclude: “La Commissione ritiene che il comportamento del concessionario costituisca una violazione degli obblighi previsti”. La Commissione così sospende la propria attività chiedendo alle autorità di “valutare l’opportunità di procedere all’avvio del procedimento di decadenza della concessione”. Firmato: ingegner Roberto Boni, il tecnico indicato dalla Giunta Burlando che negli ultimi anni ha mostrato cautele sul progetto.

La concessione e le accuse

Il ritiro della concessione sarebbe un terremoto. La Porto di Imperia Spa replica alle accuse:“Le osservazioni sono incongruenti e fuorvianti, nonché destituite di fondamento. Abbiamo sempre fornito tutte le informazioni utili, l’assistenza necessaria e la massima disponibilità per i controlli a cui la Commissione è tenuta per legge”. E i costi cresciuti di 110 milioni? “L’aumento è dovuto a una maggiore qualità, bellezza e durata dell’opera. La spesa resta a carico della Acquamare, gli enti pubblici non pagheranno un euro”. Tutti tranquilli? Niente affatto. Giuseppe Zagarella e Paolo Verda, consiglieri comunali del Pd, da anni si oppongono al porticciolo: “Adesso devono essere fornite alla Commissione tutte le carte richieste sulle spese sostenute e la loro fatturazione. La società cui sono rivolte le fatture è partecipata dal Comune. Abbiamo paura che un terzo dei costi aggiuntivi, cioè quasi 40 milioni, possano essere a carico dei cittadini”. Anche di questo si occuperà la Procura.

Più volte proposto, altrettante volte ricacciato indietro, subissato dalle proteste di tutte le associazioni che tutelano il patrimonio artistico, torna l’archeocondono, la norma che depenalizza il possesso illecito di un bene archeologico in cambio di una modesta multa. Al momento circolano almeno due bozze di un articolo diviso in 11 commi intitolato «Disposizioni in materia di emersione e catalogazione di beni archeologici, nonché revisione delle sanzioni penali», entrambe maturate in ambienti parlamentari del Pdl. Modifiche sono ancora possibili, ma un punto in comune le varie versioni dell’articolo ce l’hanno: finire dentro la manovra finanziaria (all’interno del maxi emendamento con le modifiche che il governo presenterà) e giungere in porto blindate e sicure. In sostanza chiunque detenga un reperto mai denunciato, in Italia o all’estero, e dunque in violazione della legge, può ottenere dallo Stato una «concessione in deposito» della durata di trent’anni, rinnovabili, e può anche trasferirlo in eredità. Il tutto dichiarando il possesso e pagando una somma che si aggira intorno a un terzo del valore di quel bene.


Non è la prima volta, dunque, che si attenta a uno dei pilastri della tutela in Italia, introdotto dalla legge del 1909 e poi sempre confermato, quello per cui solo lo Stato può fare o autorizzare scavi e tutto ciò che viene rinvenuto è di sua proprietà. Qualcosa di diverso c’è, però, fra queste proposte di sanatoria e le precedenti. In quelle era previsto che si diventasse proprietari del bene. Stavolta si parla di un deposito (anche se non viene esplicitamente vietata la vendita). E poi più alta è la multa: nel 2004 si tentò di far passare un emendamento alla Finanziaria, firmato da Gabriella Carlucci e da altri suoi colleghi, che fissava il pagamento al 5 per cento del valore. Adesso, inoltre, si aggiunge che la Soprintendenza può contestare la valutazione fatta e chiedere un’integrazione.
Ma la sostanza è chiara, stavolta come allora. Il fine, dichiarano i proponenti, è quello di far emergere un patrimonio sommerso e di consentirne la catalogazione. Eppure il punto cruciale è un altro: in cambio di pochi spiccioli, che poco ristoro potrebbero portare al bilancio dello Stato e persino alle esangui casse dei Beni culturali, tutti quelli che possedevano al 31 dicembre 2009 un bucchero etrusco o un’anfora greca, recuperati chissà come, non saranno più punibili.
Anche se hanno violato l’articolo 712 del codice penale, che persegue chi ha acquistato oggetti di dubbia provenienza.

«Ottime notizie per tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti», scrisse su queste pagine Salvatore Settis quando venne presentato l’emendamento Carlucci. 
«Dopo aver mortificato il settore dei beni culturali in ogni modo e aver messo sul lastrico la cultura italiana, ora il ministro tenta di far cassa, letteralmente raschiando il barile», sostiene l’ex ministro Giovanna Melandri. E conclude: «Come dice un vecchio proverbio: al peggio non c’è mai fine».

«Il Parco Sud non è un totem» e il sacrilegio è la sua contemplazione: «Gli atteggiamenti ideologici impediscono i necessari adeguamenti». Il presidente della Provincia, Guido Podestà, mette al bando i «pregiudizi» e sul tavolo i progetti: strade, piste ciclabili, magari scuole, cascine da ristrutturare o ampliare, sicuramente «la prosecuzione della tangenziale esterna Est con il completamento dell’anello esterno» della gemella Ovest, la bretella mancante, «un’infrastruttura indispensabile». Podestà illustra la road map all’assemblea di Assimprendil, da presidente del consiglio direttivo del Parco, precisa che il Comune «ha le sue prerogative» nella stesura del nuovo Piano di governo del territorio, ma lancia un messaggio e sembra rassicurare i costruttori: «Insediamo una commissione per riflettere su un’esperienza che ha vent’anni». Un annuncio che preoccupa gli ambientalisti: «Podestà dà picconate al Pgt. Salvaguardiamo il nostro monumento all’agricoltura». Così Matteo Mauri, capogruppo provinciale Pd: «Il Parco Sud è un polmone verde il cui pregio e la cui bellezza vanno tutelati dall’edificazione indiscriminata».

È un’area di 47 mila ettari, nei confini di 61 Comuni, ingloba abbazie, castelli e casali. Nel 1990, l’atto fondativo. Ieri, la svolta programmatica. Il Parco Sud, sostiene Podestà (rinominato ieri anche presidente della Permanente), «dev’essere interpretato dal punto di vista della valorizzazione del verde, della destinazione agricola, ma dev’essere più penetrabile e fruibile da parte dei cittadini. Certi adeguamenti sono possibili senza tradirne la natura, anzi investendo per confermarla». Linee guida: «Consumare meno territorio possibile», «riutilizzare le aree dismesse», «evitare posizioni preconcette». Il presidente della Provincia lo ribadisce anche a proposito del nuovo termovalorizzatore: meglio fuori dal Parco, alla periferia Sud-Est. Detto questo: meglio farlo.

«Podestà apre al cemento e difende gli interessi immobiliari», attacca Damiano Di Simine, presidente di Legambiente: «Il Parco non sarà un totem, ma staremo a vigilare perché non venga abbattuto: il progetto della nuova tangenziale Ovest, ad esempio, massacrerebbe il pezzo di Pianura padana più bello della Provincia». Marco Parini, neopresidente di Italia Nostra, chiederà presto un incontro a Podestà: «Il Parco Sud può essere fonte di rilancio economico e turistico per i Comuni, ma ne va conservata la vocazione agricola e il valore paesistico. Apriamo il confronto ed evitiamo danni».

Marco Magnifico è il vicepresidente esecutivo del Fai: «Siamo tutti preoccupati. Io, la signora Giulia Maria Mozzoni Crespi, la presidente Ilaria Buitoni Borletti. Solo dieci giorni fa Podestà aveva assicurato: "Il Parco rimarrà intonso". Ora, queste curiose dichiarazioni: il presidente della Provincia sembra aver cambiato idea dopo le esternazioni di qualche immobiliarista. Ci auguriamo che torni sui suoi passi: il Parco agricolo è una risorsa da preservare».

"Un´operazione che serve solo a fare cassa"

intervista a Salvatore Settis

«Siamo davanti a uno svuotamento e smantellamento dello Stato solo per fare cassa». Salvatore Settis, archeologo e direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, boccia il federalismo demaniale senza mezzi termini. rofessore, si dice che sia solo un trasferimento, non un´alienazione.

«Questo sarà il primo passo. I beni vengo trasferiti agli enti locali. Ma l´obiettivo di questa legge è la mercificazione dello Stato. Anni fa avevo parlato di Italia Spa, era una battuta, non avrei mai pensato che sarebbe successo davvero».

Perché non pensa che gli enti locali possano gestire questo patrimonio?

«Ho visto che nella lista figura il museo di Villa Giulia. Ecco se il museo di Villa Giulia fosse una fonte di reddito per lo Stato, questo non avrebbe bisogno di alienarlo. Se invece non lo è e lo cede ad esempio al Comune di Roma, il Campidoglio, già in difficoltà economica, come potrà sobbarcarsi i costi di manutenzione?».

E quindi che succederà?

«Che il museo di Villa Giulia, o qualsiasi altro bene, verrà messo in un fondo immobiliare in cui potranno entrare anche i privati. E così accadrà che qualche palazzinaro metterà nel fondo un complesso residenziale nella periferia di Roma di pari valore economico e potrà disporre della maggioranza di Villa Giulia. D´altronde anche le ridicole valutazioni al ribasso che vedo sono fatte in quest´ottica».

Nell´elenco figurano anche le Dolomiti…

«Quello che mi dispiace è che il Paese non abbia ancora capito che, con questo federalismo demaniale, veniamo tutti borseggiati. Le Dolomiti non sono solo di chi abita lì, sono anche dei siciliani. Di questo passo, rimarremo uno Stato senza più territorio. Ora c´è questa legge, poi ne arriverà un´altra. Ma nessuno se ne accorge, nemmeno l´opposizione. Rinunciare all´idea di un bene pubblico è rinunciare alla nostra storia e al nostro futuro».

Al di là del suo ruolo istituzionale, come cittadino cosa pensa?

«È proprio come cittadino che non so rinunciare a beni pubblici che sono tali da migliaia di anni. Che i nostri padri ci hanno lasciato e che noi dobbiamo lasciare ai nostri figli».

Dai musei ai fari e alle Dolomiti ecco le perle a rischio svendita

Federalismo, 11 mila beni pronti a passare dal demanio agli enti locali

Dalle Dolomiti alla spiaggia del lago di Como. Dal Museo romano di Villa Giulia al mercato di Porta Portese che ispirò Claudio Baglioni. Dall´Idroscalo di Ostia dove morì Pier Paolo Pasolini all´ex forte Sant´Erasmo di Venezia. È un vero tesoro quello che dall´Agenzia del demanio rischia di essere trasferito alle autonomie locali. Di quelli che non hanno prezzo, nonostante una stima che supera i 3 miliardi di euro.

L´elenco, stilato dal demanio e ora in commissione bicamerale, ancora non è definitivo, la versione ufficiale verrà pubblicata a fine luglio. Mercoledì ci sarà la relazione del ministro del Tesoro in Consiglio dei ministri, ma intanto ci si può fare un´idea del patrimonio di cui presto potrebbero disporre Comuni, Province e Regioni. A patto che ci sia un progetto di valorizzazione. Per il momento, infatti, i beni vengono solo trasferiti (e per alcuni di essi, soprattutto quelli "naturali", c´è il vincolo che restino demaniali), ma la maggior parte potrà essere venduta a patto che l´alienazione serva a risanare il debito pubblico.

Circa 11mila "pezzi" che nella coscienza collettiva non hanno prezzo, ma che, secondo l´agenzia, un prezzo ce l´hanno, eccome. Innanzitutto spiagge e isole. Tra cui gli isolotti intorno a Caprera e l´isola di Santo Stefano vicino a Ventotene. Poi, parti di Palmaria vicino a Portovenere, dell´isola dell´Unione di Chioggia e di quella di Sant´Angelo delle Polveri a Venezia. Ancora, un pezzo di arenile di Sapri (famosa per la spedizione di Pisacane) e "la spiaggia del lago di Como" a Lecco, quella che diede inizio ai "Promessi Sposi".

Dal mare ai monti, anche le vette sono "in vendita". Ecco così gran parte delle cime che circondano Cortina d´Ampezzo. Le Tofane, il monte Cristallo, la Croda Rossa, il Sorapis e l´Alpe di Faloria. A rischio "cambio di proprietà" non solo la natura. Anche storia e arte cercano un nuovo padrone. A Roma lo cercano il Museo di Villa Giulia, dove rischia il trasloco la coppia di sposi etruschi e la facoltà di Ingegneria accanto a San Pietro in Vincoli. Poi, ancora, l´ex convento della Carità a Bologna (330 mila euro), l´Archivio di Stato di Trieste (5 milioni), l´ex cinta fortilizia "Mura degli angeli" di Genova, Villa Gregoriana a Tivoli, l´ex forte di Sant´Erasmo che affaccia sulla laguna di Venezia (il costo è di 7 milioni di euro), la piazza d´Armi di Reggio Calabria e quella di L´Aquila.

Non stupirà che nella lista figurino anche molti immobili. Roma ha un vero patrimonio. Oltre al mercato di Porta Portese, la tenuta di Capocotta a Castelporziano, un edificio da 22 milioni di euro in centro ora in uso al Senato, l´Archivio generale della Corte dei Conti (67 milioni di euro), l´ex forte Ardeatino e un complesso immobiliare alla Rustica, uno dei pezzi più pregiati della lista con i suoi 90 milioni.

Una specie di supersaldo da fine stagione che non risparmia nemmeno il cinema: rischiano di essere alienati il cinema Nuovo Sacher di Nanni Moretti a Roma (4,5 milioni di euro) e l´Idroscalo di Ostia dove morì Pier Paolo Pasolini, il cui prezzo è fissato a 6,7 milioni. Svendita anche per le infrastrutture: i fari di Mattinata sul Gargano, di Punta Palascia a Otranto, di Spignon a Venezia e "l´antico semaforo della Guardia" di Ponza. Trasferibili anche il campo da golf da 18 buche sull´isola di Albarella di proprietà del gruppo Marcegaglia (oltre 4 milioni), l´antico binario della direttissima Roma-Napoli, quello di Briosco e l´acquedotto di Castellammare di Stabia. Nella lista pure l´ex campo per i prigionieri di guerra di Ragusa e alcune ex case del fascio. Differente il percorso della caserme che, prima di finire agli enti locali, verranno valutate da "Difesa Spa".

E sul "patrimonio in saldo" le opinioni divergono. Luca Zaia, governatore del Veneto, dice: «Si va nella direzione giusta. È bene che le Dolomiti ritornino alle loro comunità». Federalismo promosso anche dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno: «Si aprono grandi possibilità». Mentre il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, parla della «più grande speculazione edilizia e immobiliare della storia italiana» e Enrico Farinone (Pd) smorza: «Federalismo sì, ma estremismo federalista no».

Dal Borromini ai suini. Dai suini alle bietole. Che male c´è? La «Beni Culturali Spa» non si formalizza tra siti storici, musei, opere d´arte, statue, dipinti, archeologia e porcilaie. E persino campi di bietole per produrre agroenergia, nuova passione del direttore dei Musei Mario Resca. Attraverso le sorelline culturali Arcus Spa e Ales Spa, società pubbliche ma di diritto privato, si tratta di spendere centinaia di milioni di denaro pubblico in deroga, senza controlli di legittimità del Parlamento e della Corte dei Conti, in ossequio alla religione berlusconiana del fare e fare in fretta. Fare che? Soprattutto fare affari.

Come nel modello Protezione Civile Letta-Bertolaso. E come in quello dell´ex ministro Pietro Lunardi, che pare si sia portato via un palazzo nel centro di Roma a un quarto del suo prezzo, complice l´eccellente dominus vaticano Crescenzio Sepe, cardinale nella manica di Papa Wojtyla, ma esiliato subitaneamente a Napoli da Papa Ratzinger.

Per merito degli antichi predecessori Gregorio XV e Innocenzo X, fu il Borromini verso il secondo decennio del 1600 a disegnare la facciata del palazzo di Propaganda Fide a Roma in piazza di Spagna, la cui ristrutturazione a spese dell´Arcus, secondo i magistrati di Perugia avrebbe prodotto per riconoscenza la proprietà di un palazzetto vista Montecitorio all´ex ministro Lunardi, detto El Talpa per la sindrome incontrollabile che ha di progettare, ben retribuito con denaro pubblico, tunnel ferroviari e autostradali in tutta Italia, attraverso le sue società di famiglia. Non si sa bene invece chi fu a mettere in campo i suini, che pure hanno la loro indubitabile valenza culturale. Infatti la società di diritto privato Arcus, posseduta dal Tesoro italiano e controllata dai Beni Culturali, ha finanziato per 500 mila euro la Fondazione Pianura Bresciana per un risolutivo convegno sulle cinque razze autoctone di maiali. Cinque le razze suine? Forse sono anche di più. Ma accontentiamoci e rendiamo grazia al generoso ministero dei Beni Culturali.

Un deputato dell´opposizione, Vincenzo Vita, ha provato a chiedere conto del singolare finanziamento culturale, tra i tanti, al governo. Ma, come al solito, nessuno se lo è filato. La cultura è cultura, mica vorremo imbrigliarla in una storia di maiali. Così come sacrosanti sono i milioni distribuiti al Santuario della Madonna di Pompei, alle monache Clarisse di Santa Rosa, alla Fondazione Aquileia. O all´Università di Padova, dove opera, superba scienziata, la dottoressa Ghedini. Ghedini? Ghedini chi? Ma sì, è proprio lei, la sorella dall´avvocato onorevole del premier Niccolò Ghedini, l´ex giovane di studio che arrancava un po´ lento, come ricordano i suoi ex colleghi, nell´ufficio del principe del Foro di Padova Piero Longo e che oggi produce a getto continuo leggi dello Stato per conto del premier. Leggi che, con tutta la buone volontà, non passano neanche la prima prova di ragionevolezza e di costituzionalità. È lei, Elena Francesca Ghedini, archeologa, accreditata di scienza ben superiore a quella fraterna, ad assurgere a consigliere del ministro Bondi per le aree archeologiche, al Consiglio superiore dei Beni Culturali e ad ottenere fondi cospicui per le sue legittime esigenze di ricercatrice. Esaudita.

Arcus, fiore all´occhiello di quella che i vecchi funzionari esautorati dei Beni Culturali chiamano il braccio operativo della «Banda Bondi», ha una sorellina che si chiama Ales, che la prossima settimana, si impossesserà di fatto dei servizi museali, governando gli appalti per un business da 100 milioni l´anno, che le aziende operanti nel settore museale giudicano uno scippo. Di nascosto, con un emendamento al decreto sugli enti lirici, il governo ha abrogato la gestione integrata dei 190 musei, che avrebbe consentito l´accesso dei privati ai servizi e che ora lascia tutto nelle mani della Beni Culturali Spa, evoluzione della Protezione Civile Spa bloccata in extremis, pronta per intercettare «in deroga» anche i due miliardi e mezzo di euro di fondi europei per i beni e il turismo culturale.

Grande polmone finanziario dell´Italia berlusconiana del «fare», mondata da ogni controllo di legittimità, in onore di una suprema deroga appaltatrice, per teatri da ricostruire, zone archeologiche da ripulire, siti d´arte da salvare, monumenti da sbiancare, palazzi da ristrutturare, statue da rigenerare, quadri da restaurare, biblioteche da puntellare, musei da gestire, biglietterie, librerie, bar e ristoranti da affidare possibilmente agli amici e agli amici degli amici, la Beni Culturali Spa era pronta, con i buoni uffici di Gianni Letta, a un luminoso destino. Ma incalzato dalle inchieste sui fasti della coppia Lunardi - Sepe, il ministro Bondi, che al ministero impersona il ruolo del passante impegnato da par suo nella poesia e nell´esegesi poetica del Capo, ha bloccato i residui pagamenti per il palazzo di Propaganda Fide e ha appena nominato il nuovo presidente di Arcus. Gli innumerevoli rilievi della Corte dei Conti raccontano di spese per centinaia di milioni a pioggia, in modo opaco, in incarichi e consulenze clientelari e favori vari.

Quasi una scienza, ormai, certificata nella sua sofisticazione dalle gesta del cardinale Sepe e dall´ex ministro Lunardi. El Talpa ha cercato di difendersi con un´intervista - manifesto che dovrà restare nei libri di storia nei secoli dei secoli: «Che male c´è? », si è chiesto. Che male c´è per un uomo di Stato se, di questi tempi, favorisce se stesso e gli amici, approfittando del proprio potere pro tempore? Ma non speriate che le notizie un po´ nefande siano finite qui.

Dobbiamo riferirvi ancora delle bietole che, tra musei e razze suine, aleggiano quotidianamente nel ministero di via del Collegio Romano. Sì, perché il direttore generale del ministero Mario Resca, intimo di Berlusconi, ex amministratore delegato di Mc Donald´s Italia, santificato dal «Foglio» di Giuliano Ferrara in un ditirambo come un superbo benefattore dell´umanità, si è fissato che vuole produrre energia alternativa dalle bietole negli ex zuccherifici italiani. Ma non con i soldi suoi - cosa di cui gli sarebbero tutti grati - ma con quelli pubblici dei bieticoltori (centinaia di milioni, in gran parte fondi europei). I quali, alquanto incavolati, tramite la Coldiretti, spogliata surrettiziamente dei fondi Finbieticola, hanno appena fatto ricorso alla Corte dei Conti.

I ricorrenti sperano di vedere presto il deus ex machina della cultura condannato, perché, al di là degli scopi istituzionali, sta distraendo nel progetto di agroenergia tanti soldi loro, in combutta con Giuseppe Grossi, re delle bonifiche ambientali, finito in carcere con l´accusa di aver triplicato i costi della bonifica milanese di Santa Giulia, e Giancarlo Abelli, re della sanità lombarda. In tandem con Resca nelle multiformi attività viene dato anche Salvo Nastasi, giovane capo di gabinetto della Banda Bondi al Collegio Romano e pluricommissario in deroga a teatri e musei. Piccoli potenti crescono.

«Dietro l’avarizia dei Paesi ricchi c’è l’incapacità di eliminare le diseguaglianze sociali al loro interno. L’altro scoglio sono gli Stati destinatari degli aiuti, spesso in preda a instabilità politica e corruzione»

Le promesse mancate, gli impegni inevasi dai Grandi della Terra. E ancora: una governance mondiale da reinventare. E una Italia che arranca agli ultimi posti in Europa per ciò che concerne gli Aiuti per lo Sviluppo. L’Unità ne discute con Massimo Livi Bacci. «L’aiuto allo sviluppo - annota Livi Bacci - dopo gli ulteriori tagli proposti dalla manovra in Parlamento, è oramai un serbatoio pieno di promesse, ma quasi vuoto di soldi...». In discussione è anche la formula a G variabile. Quello che sicuramente è ormai anacronistico, riflette Livi Bacci«è il G8, i cui Paesi rappresentano, oramai, una quota minoritaria del PIL mondiale. Ma non ci può essere governo mondiale senza volontà politica...». Questione di risorse finanziarie ma non solo: «Credo - rimarca Livi Bacci - che esistano degli interventi in settori specifici che sono assolutamente prioritari. Mi riferisco – soprattutto – a quegli interventi che potenziano il “capitale umano” delle popolazioni povere: sopravvivenza e salute, in primo luogo, istruzione e conoscenza in secondo ...».

Dalle promesse non mantenute del G8 de L'Aquila a i fondi promessi, e comunque ritenuti insufficienti dalle più autorevoli Ong internazionali, del G8 di Toronto. Professor Livi Bacci, cosa c'è alla base di questa “avarizia” dei Grandi della Terra nel definire una strategia di lotta alla povertà?

«Tutti sono d’accordo – a parole – sulla necessità di ridurre la povertà nel mondo, e le dichiarazioni solenni dei Consessi Internazionali potrebbero riempire interi scaffali. Ma ci sono problemi di fondo che impediscono una efficace azione internazionale. Ne cito due. In primo luogo non c’è accordo su quali siano le migliori strategie per ottenere buoni risultati. E questo non deve stupire, dal momento che i Paesi ricchi non sono in grado (in certi casi non si provano nemmeno) di ridurre le disuguaglianze al loro interno – disuguaglianze che negli ultimi decenni sono rimaste più o meno invariate e in alcuni casi si sono addirittura accresciute. Come potrebbero esportare strategie che essi non adottano, o non conoscono, o non praticano efficientemente in casa loro? In secondo luogo, anche un’azione molto generosa di risorse si scontra con un problema fondamentale: l’uscita dalla povertà avviene, per lo più, con forze endogene a ciascun Paese, che l’azione esterna può sostenere o coadiuvare ma solo con forti limiti. L’instabilità politica, i conflitti, la debolezza istituzionale, la corruzione sono ostacoli spesso insuperabili: e queste situazioni sono spesso provocate dai Paesi più ricchi e più potenti».

Giustamente si pone l'accento sulla scarsità delle risorse finanziarie che i leader del G8 destinano agli Aiuti per lo Sviluppo. Ma è solo un problema quantitativo o occorre anche orientarne la «qualità»?

«Credo che esistano degli interventi in settori specifici che sono assolutamente prioritari. Mi riferisco – soprattutto – a quegli interventi che potenziano il “capitale umano” delle popolazioni povere: sopravvivenza e salute, in primo luogo, istruzione e conoscenza in secondo. Non c’è sviluppo senza sufficiente alimentazione, se non ci sono condizioni ambientali (e disponibilità di acqua) accettabili e quindi salute decente; se manca quel minimo di conoscenze che permetta di orientarsi in un mondo sempre più complesso ed urbanizzato»

Al G8 de L'Aquila Silvio Berlusconi aveva promesso un adeguamento dell'Italia agli obiettivi della Campagna del millennio delle Nazioni Unite. Ma un anno dopo L'Aquila, l'Italia è ancora maglia nera, o comunque ai gradini più bassi in Europa, per ciò che concerne l'Aiuto per lo Sviluppo. Come leggere politicamente questa desolante realtà?

«L’aiuto allo sviluppo, dopo gli ulteriori tagli proposti dalla manovra in Parlamento, è oramai un serbatoio pieno di promesse, ma quasi vuoto di soldi. Il Governo Prodi lo aveva rifornito, nonostante le ristrettezze di bilancio. Nella precedente legislatura si era arrivati a definire una buona proposta di legge per la riforma della Cooperazione che su molti aspetti aveva l’accordo dell’allora opposizione che – divenuta maggioranza – ha riposto il progetto in un cassetto. L’aiuto allo sviluppo è prioritario solo nelle dichiarazioni ufficiali rese da Berlusconi nelle conferenze stampa dei vari G-qualcosa. Promesse al vento, come sanno bene i leader degli altri Paesi. In molti Paesi l’aiuto allo sviluppo – pur con i limiti posti dalle scarse risorse e da altre difficoltà oggettive – rappresenta uno strumento importante della politica estera. Va constatato amaramente che da noi così non è». G8,G20...Masonoquestele sedi diuna nuova, più efficace e democratica governance mondiale? «Sicuramentenon più il G8, i cui Paesi rappresentano, oramai, una quota minoritaria del PIL mondiale. Ma non ci può essere governo mondiale senza volontà politica. Questa esiste in alcuni settori, per esempio per quanto riguarda il commercio internazionale, dove l’Organizzazione Mondiale del Commercio svolge importanti funzioni sopranazionali. Ma è completamente assente in altri. Faccio un esempio: nessun Paese è disposto a cedere anche una minima frazione della propria sovranità ad una Istituzione che regoli le migrazioni internazionali – almeno qualche aspetto di queste – lasciate per lo più in un duro gioco nei quali cozzano gli interessi dei paesi di origine e di quelli di destinazione, a scapito dei protagonisti, donne e uomini.

D’un tratto, come se la crisi economica cominciata nel 2007 non fosse passata da queste parti, è riapparsa nei vocabolari un’espressione molto usata negli Anni 80: «Non c’è alternativa». L’acronimo inglese, Tina (There is no alternative), caratterizzò i governi di Margaret Thatcher, e la fiducia che a quei tempi si nutriva nelle virtù indiscutibilmente razionali delle forze di mercato. Queste ultime non andavano regolate: si regolavano da sole, a condizione di esser lasciate senza briglie. Il dogma del mercato mise a tacere dissensi e recriminazioni spesso irragionevoli, ma finì col congelare il pensiero e le sue risorse multiformi. Il fallimento del comunismo accentuò questi vizi di immobilità, perché ogni idea diversa era considerata a questo punto una messa in questione radicale dell’economia di mercato. La stessa parola alternativa era in anticipo screditata, proscritta. Chi aveva l’ardire di pensare o immaginare alternative era accusato di avvelenare e addirittura sovvertire il grande idolo dei fondamentalisti che era il tempo presente.

La fiducia nel dogma ha trovato nel 2007 la pietra su cui è inciampata, e cadendo ha trascinato con sé le sicurezze che credeva di possedere, compresa la sicurezza che le forze di mercato non avessero mai bisogno di briglie politiche. Quel che è mancato e che manca, tuttavia, è un ricominciamento del pensare: troppo a lungo congelata, la mente avanza ancora a tastoni e nel buio acchiappa con le mani le parole che trova, senza sapere se appartengano al mondo nuovo o al vecchio.

Tra queste parole c’è l’acronimo della Thatcher, riutilizzato da governi, imprenditori ed economisti nelle più svariate occasioni: nel caso di Pomigliano, come nelle discussioni sui piani di rigore che i Paesi industriali si apprestano a varare. Non vengono riutilizzate senza ragione, perché non poche misure e decisioni sono obbligate, difficilmente confutabili: è vero, ad esempio, che in un’economia internazionalizzata si possono produrre automobili solo in fabbriche dove i costi di lavoro siano abbastanza bassi e la produttività abbastanza alta da poter competere con le produzioni in Europa orientale o Asia. Da questo punto di vista non c’è alternativa, in effetti. Se si vogliono fabbricare automobili in Italia o in Francia o in Germania, bisogna per forza adottare nuove condizioni di lavoro: grosso modo, quelle indicate dal piano Marchionne.

Essendo un momento di verità, la crisi consiglia tuttavia prudenza, quando si esprimono certezze razionali così granitiche, impermeabili alle controversie e alle alternative. Soprattutto, essa insegna ad aguzzare lo sguardo, e anche ad allungarlo e differenziarlo. Una cosa che è senza alternativa nel breve termine, può rivelarsi del tutto sterile e più che bisognosa di alternative se esaminata con lo sguardo, molto più lungo, delle generazioni che verranno e di quelli che saranno i loro bisogni, le loro domande, i loro stili di vita. Una produzione che sembra oggi vitale e prioritaria può essere, nel lungo termine, non così centrale come lo è stato fino a oggi.

È questo il momento in cui il dogma del mercato tende a divenire l’ortodossia del tempo presente, dell’hic et nunc. L’automobile è un prodotto essenziale della nostra esistenza, oggi. Ma non è detto che lo sarà sempre allo stesso modo, che i modi di vita e le abitudini degli uomini non subiranno metamorfosi anche profonde. Il clima che si degrada rapidamente, il costo del petrolio, la scarsità delle risorse: tutti questi elementi non garantiscono all’automobile il posto cruciale che ha avuto per gran parte del ’900, e non saranno gli aumenti della produttività e le più severe condizioni di lavoro in fabbrica a migliorarne le sorti. Un’auto resta un’auto, anche se consumerà meno energia, e sulla terra ce ne sono troppe. Nell’immediato non c’è alternativa a costruire auto in un certo modo a Pomigliano. Nel medio-lungo periodo l’enorme numero di veicoli programmati non troverà forse acquirenti.

Gli studiosi dibattono la questione da anni. Lo stesso Sergio Marchionne ha più volte fatto capire, in passato, che la domanda di automobili sta declinando in maniera strutturale, indipendentemente dalle crisi congiunturali. Già si studiano possibili riconversioni, alternative, che vanno ben al di là delle automobili a basso consumo. I piani alternativi non mancano e tutti raccomandano di investire nei trasporti comuni più che nell’auto individuale, nelle rotaie più che in ragnatele sempre più invasive di strade asfaltate, nei motori destinati a produrre energie alternative più che in motori che dilapidano risorse in diminuzione al servizio del singolo individuo. «I trasporti pubblici e le energie rinnovabili saranno il fulcro industriale della prossima generazione nell’economia globale», afferma Robert Pollin, economista all’università del Massachusetts. Secondo alcuni autori (James Kunstler è il più pessimista, nel suo libro intitolato The Long Emergency) il declino dell’auto diverrà visibile quando non sarà più conveniente costruire, in epoca di petrolio raro e caro, le città satelliti lontane dai centri-città e dai luoghi di lavoro (i suburbia).

Il modo di vita e di convivenza dei terrestri è in mutazione: a causa del clima, del diradarsi di risorse del pianeta, di catastrofi come quella nel Golfo del Messico. Muteranno bisogni, aspirazioni, influenzando sempre più i mercati. È una prospettiva alla quale conviene pensare, fin d’ora, cominciando a costruire le fabbriche e i lavori che saranno necessari nel mondo futuro. Anche mondo futuro è un concetto in metamorfosi costante: non è qualcosa che ideologicamente viene sovrapposto alla realtà, sostituendola alla maniera di un villaggio Potemkin che prima inganna e poi delude. È una realtà che molto semplicemente succederà, e sulla quale tuttavia potremo incidere con una condotta o con l’altra. L’unico vero problema è che le forze che saranno protagoniste di nuovi stili di vita e nuovi consumi esistono in maniera flebile, non dispongono di lobby per far ascoltare la propria voce, non hanno possenti rappresentanze. Non l’hanno soprattutto nei sindacati e nei partiti di sinistra, il più delle volte sordi alle esigenze di chi non ha il posto fisso, di chi vive in condizioni di mobilità continua, di chi non è protetto da reti di sicurezza ed è già attore di nuovi stili di vita e di consumi. Ma c’è arretratezza anche nel mondo degli imprenditori, dove a dominare sono spesso forze gelose del posto occupato dalle produzioni classiche: forze timorose del futuro, e delle conversioni mentali e produttive che il futuro comporta.

Vale la pena dunque pensare le alternative, e abbandonare le parole-mantra di Margaret Thatcher. E vale la pena pensare il mondo contraddittoriamente, tenendo sempre presenti i due sentieri che abbiamo davanti. Il sentiero del qui e ora, con i suoi stati di necessità non eludibili. E il sentiero del domani e dopodomani, con i suoi non meno eludibili vincoli energetici e climatici. Può darsi che nell’immediato sia corretto ricordare che non esistono alternative. Ma di alternative c’è un enorme bisogno per il futuro, ed è un bene che vengano pensate, vagliate, scartate, non domani ma già oggi.

Postilla. Si vedano gli articoli di Guido Viale e Carla Ravaioli sull’alternativa all’automobile: un’alternativa “necessaria”, non solo “probabile”. Insomma, comanda la politica, o le “preferenze dei consumatori”, cioè delle creature plagiate dall’economia data?

La città ducale perde i suoi simboli e viene asfaltata per far posto a megasupermercati. Il potere politico è la proiezione di un’imprenditoria senza scrupoli

Parma. Fra 22 anni sparirà il formaggio italiano più venduto nel mondo. La febbre del mattone seppellisce l’erba dalla quale nasce il parmigiano-reggiano. A tavola grattugeremo cemento. L’erba è il petrolio di questa pianura. Dalle sue virtù nasce un formaggio che non ha bisogno di coagulanti, formalina indispensabile ai grana padani. Regalo della natura sul quale è cresciuto il benessere. Ecco l’allarme: ogni giorno nella provincia di Parma scompare un campo da calcio. Case, palazzoni, capannoni. L’allarme non viene da un ambientalista rompipalle: catastrofe annunciata da Andrea Zanlari, presidente della Camera di Commercio di Parma e da Alfredo Peri, assessore regionale a Bologna. “Non è più possibile che siano i comuni a gestire in solitudine l’espansione edilizia erodendo i terreni agricoli per fare soldi col pronto cassa delle urbanizzazioni”. Perché dirlo proprio a Parma? Perché la città della grazia è ormai simbolo della città mattone. E 90 anni dopo ricomincia con le barricate. Un torrente divideva la borghesia dei palazzi, città padrona, dai figli del popolo guidati da Guido Picelli: nel 1922 riesce a non far passare i ponti alle camicie nere di Italo Balbo. E quando Mussolini al potere “riqualifica“, sventrando, i quartieri dei ribelli e Balbo torna vincitore dalla trasvolata americana, viene accolto da scritte beffarde: “Hai attraversato l’Atlantico ma la Parma (il torrente) no“. Il municipio della destra (municipio della “città cantiere“) insiste nella riqualificazione; tornano le disobbedienze. Civili, ma tenaci. Commercianti e abitanti non accettano i progetti decisi dalla giunta dei mattoni, o “dei mercatini“ come ironizza chi ha i negozi svuotati dalla febbre degli ipermercati: nelle periferie spogliano il centro storico come nella Parigi di 30 anni fa. Ma la Parigi pentita rimedia. Per rianimarla, Chirac e Sarkozy favoriscono il ritorno delle botteghe nelle strade dalle quali la speculazione le aveva strappate: agevolazioni fiscali, mutui straconvenienti, “Parigi non può diventare un museo. Il commercio aiuta a vivere assieme. Vi aspettiamo“.

ASSALTO SENZA FRENI DEI GRANDI CENTRI COMMERCIALI

Luca Vedrini, Confesercenti, protesta con documenti che fanno rabbrividire. A Parma i negozi aprono e chiudono dopo 3 anni. I bar muoiono a 5. E la tradizione delle gestioni familiari naufraga in catene senza sapore: stesse vetrine da Palermo ad Aosta. Tra iper e super-mercati aperti, che stanno aprendo o in costruzione o progetti approvati, la città andrà a far spesa nei 410 mila metri quadrati delle scansie fiorite nelle new town di plastica dove cambiano le abitudini sociali e si dissolvono i rapporti umani. Non più cittadini, solo clienti. Ogni parmigiano (dai neonati agli ottuagenari) avrà a disposizione 2 metri quadrati di roba da comprare nelle cattedrali dell’illusione. “Primi in Italia, forse record in Europa“: Vedrini allarga le braccia. L’invasione dei prati continua: caffè, ristoranti e malinconici cubi di cemento delle multisale di cinema dove brillano i neon della Parma Ohio, sobborgo commerciale di Chicago. Negli anni ’60 le cucine di Salvarani avevano invaso l’Italia e ravvivato un tessuto artigianale che ormai chiude bottega. Trionfa l’Ikea, rifiutata a Bolzano: “I nostri artigiani difendono la cultura sociale della città. L’Ikea vada a Brescia, Verona, Innsbruck. Noi non la vogliamo”. E attorno al compra-compra fioriscono quartieri artificiali. Chi abita la “vecchia città“ per andare al cinema deve prendere l’automobile ma le nebbie dell’inverno scoraggiano un terzo dei parmigiani sopra i 60 anni. Chiuso per “riqualificazione“ il mercato storico della Ghiaia, cuore della città. Commercianti dispersi. Dopo quattro anni buona parte non riapre. Chi è fallito, chi ha scelto altri mestieri. Per la seconda volta in meno di un secolo il comune brucia la tradizione con l’orrore di una pensilina per corriere, ala bollente del tetto che taglia i palazzi armoniosi una volta affacciati sulle bancarelle. Ma gli anni Venti erano anni sfiniti dalla Prima guerra mondiale, treni asmatici, niente automobili. Chissà perché gli assessori e i sindaci della nuova distruzione non hanno fatto un salto almeno a Verona, Padova, Trento, per imparare come restaurare senza cancellare come pretendono i grandi affari delle grandi imprese. E allora avanti. Chi fa la spesa per mettere a tavola la famiglia scopre che frutta, formaggi, uova e carne si vendono sottoterra. Caverna nel condomino dei parcheggi vero motivo della distruzione. Il potere politico è la proiezione di un’imprenditoria che sceglie sindaci e amministratori. Trasforma i signori nessuno nei protagonisti quotidiani di giornali e tv. Ubaldi (primo sindaco della destra) è stato un prodotto Parmalat. La poltrona a Vignali, successore che considerava Ubaldi maestro di politica e di vita, viene disinvoltamente annunciata dal presidente degli imprenditori due mesi prima della formazione delle liste elettorali. Insomma, comando io. Fuori dalle tv locali, l’ex Ubaldi dimenticato insorge: forse invidia per il figlioccio ormai odiato ma appoggiato a Roma dal Letta conte zio. E gli appalti consolano la generosità.

Per dodici anni i parmigiani hanno bevuto, distratti. La crisi e una certa arroganza li ha svegliati. Comitati di madri e nonne sfilano con cartelli che chiedono di non accendere alle porte della città il termovalorizzatore dalle polveri sottili. Proteste che turbano chi produce cose da mangiare e teme la speculazione della concorrenza: quel fumo di immondizia che avvolge cibi prelibati, scuole, asili, cresce a due passi dalla Barilla e dalle industrie di conserve, spina dorsale della food valley. Sfilano i senza casa in una città che ha 12 mila vani vuoti eppure continua a costruire, prati immacolati invasi dalle gru. E immensi parcheggi si allargano nel niente. Varianti urbanistiche e piani decisi nelle stanze dei soliti bottoni per fare cassa: la trappola delle urbanizzazioni.

IL GIGANTISMO DELL’EX SINDACO ELVIO UBALDI

Cambiano solo i figuranti politici. Parma ha 170 mila abitanti, ma il vecchio sindaco Ubaldi, filosofo della città cantiere, ripeteva che gli abitanti dovevano essere 400 mila. Come, non lo ha mai spiegato. Intanto gli scavi continuano. E Parma finirà per importare i “regianito”, patetica imitazione dei formaggiai argentini. La crisi ha sepolto il metrò destinato a bruciare un secolo di bilanci. Mancavano 50 milioni di passeggeri e l’impresa Pizzarotti, che è un’impresa seria, si è ben guardata dall’accettarne la gestione: noi scaviamo, i treni li fate correre voi. Treni ridicoli in un posto che in 15 minuti si attraversa pedalando, eppure giornali e tv (proprietari gli stessi imprenditori) ne esaltavano la meraviglia. Per un secolo sei ponti hanno unito la città vecchia e nuova scavalcando il torrente. Sono diventati sette per far girare la tangenziale: ponte De Gasperi inaugurato da Andreotti, voluto dall’ex Ubaldi innamorato di un certo ponte sul Reno. La maestosità della mini copiatura fa un po’ ridere: unisce 30 metri, sassi ed erbe dieci mesi l’anno. Adesso il fascino del mistero dell’ottavo ponte. Aggancia un quartiere da riqualificare a prati dove non c’è niente. Se il ponte Sud celebra De Gasperi, il ponte Nord dovrebbe riconoscere lo slancio di chi lo costruisce: ponte Pizzarotti. Bellissima azienda, impresa di dimensione europea che non trascura la città dove ha radici. Sta per trasformare il palazzo del ‘200 che raccoglie i documenti dell’archivio di Stato, archivio dei ducati: residence, negozi, mentre gran parte delle carte preziose finisce nei capannoni di periferia.

L’opposizione degli intellettuali di Monumenta perde l’ultima battaglia e il“restauro“ si farà. Restauro di Pizzarotti anche nel palazzo del governatore mentre nella nuova stazione sotterranea arrivano i binari Pizzarotti dell’Alta velocità. Con qualche dimenticanza: le scale mobili non sono previste. Si consigliano i treni a viaggiatori palestrati e senza valigie. L’ottavo ponte nasce da un progetto fatto e rifatto, tanto chi paga siamo noi. Il primo prevedeva un corridoio di palazzi con dentro la strada. L’ultimo è una galleria con qualche insediamento. Da un passaggio all’altro spunta il nome dell’architetto Guasti, impresa di costruzione di famiglia, senatore di Berlusconi e assessore all’urbanistica nella giunta Ubaldi. L’opposizione tenace del consigliere Marco Abbondi, agita il conflitto di interessi. Roba da ridere nell’Italia del Cavaliere. La sorpresa è sapere chi ha comprato quei prati e quale nuova città sta per nascere. Già approvato un ipermercato Pizzarotti Coop7 pendant area Nord dell’iper Coop7 Pizzarotti area Sud. Pronto nel cassetto il progetto dello stadio rifiutato diciotto anni fa da Calisto Tanzi: non se la sentiva di costruire un campo da Serie A ammortizzando la spesa con 22 mila vani: “Non posso inventare una città con la scusa di un campo da calcio”. Morale superata. Le nuove città corona nascono per l’intuizione di imprenditori ai quali va il merito di indovinare con anticipo dove chi governa vuole allargare le case. Intanto Pizzarotti Coop 7 regala una complanare o il terreno nel nuovo centro sportivo polivalente dove è previsto un campo da golf. Il Sole 24 Ore fa sapere che i tagli della crisi colpiranno Parma più di ogni altra città. Dove li trovano i soldi per feste e opere nuove? Giorgio Pagliari, guida dell’opposizione, spiega i girotondi dei conti comunali. Entrate messe in bilancio quando non si sa se arriveranno. Soprattutto le scatole cinesi della vendita virtuale di beni comunali a società delle quali il comune è proprietario. E uomini fidati vegliano nelle poltrone di comando. Insomma, rosso che cambia nome ma resta pubblico rosso. “Se fossimo di fronte a una Spa potremmo parlare di situazione prefallimentare”. Adesso i tagli di Roma, eppure l’imperativo non cambia: costruire senza smettere mai. Con forzature che svergognano la tradizione etica di Parma. Si è venduto il nome di Mario Tommasini per giustificare l’immenso ghetto per anziani che cancella erba e vigne della campagna attorno. Persone ammucchiate come legna, espulse dalla “loro” città. Tommasini è stato l’assessore che ha aperto i manicomi di Franco Basaglia, chiuso brefotrofi e diviso la sinistra col progetto di case per giovani e anziani, stessi palazzi nei vecchi quartieri. Vivere assieme per non morire.

GLI ANZIANI SPINTI AI MARGINI DELLA CITTÀ

Bruno Rossi, già direttore della Gazzetta di Parma, presidente della fondazione che ricorda Tommasini, non sopporta la mistificazione dell’assessore Lasagna. Per il momento è la sola voce sopportata quando denuncia l’imbroglio: “Sarebbe piaciuto a Tommasini? Progetto che convoglia un gran numero di anziani e li spinge ai margini della città? Credo che questa domanda sia al limite del blasfemo”. Lasagna era un giovane rampante del Pd, passato al centrodestra: irresistibile fascino della poltrona di assessore. E cominciano altri dubbi: Pizzarotti Coop7 è un legame ripetuto da imprese e cooperative che assieme “riqualificano“ questa e altre città. Perplessità che attraversa la sinistra e i cooperanti della tradizione. Amara la risposta di Sergio Caserta, che ha realizzato progetti di sviluppo e ha fatto parte della giunta e del consiglio nazionale della Lega Cooperative: “Grandi aziende cooperative emiliane hanno sposato il capitalismo edilizio. Stravolgono le città, cambiano la vita della gente. A Vicenza una grande Coop di Bologna è interessata alla costruzione della base Usa contro la quale si mobilita l’intera popolazione. La Costituzione attribuisce alle cooperative un ruolo di pubblica utilità. È questa l’utilità? Non si viola la Costituzione? Tra la sinistra politica e il movimento cooperativo i legami restano stretti, tecnologie e strategie sostituiscono l’ideologia. A beneficio di chi?”.

La presenza delle Coop, protagoniste della regione, garantisce la tutela degli interessi collettivi. Lo prevede la Costituzione, articolo 45: “Definisce con chiarezza la natura economico-sociale dell’impresa cooperativa a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata”. Articolo che limita il carattere dell’impresa cooperativa e la distingue da ogni altra impresa. Il codice civile completa la definizione precisando il fine mutualistico senza scopo di lucro come causa del contratto sociale. Giorgio Caserta è un cooperatore che ha realizzato progetti di sviluppo nel Sud ed è entrato nel Consiglio Nazionale della Lega Cooperative. Si tormenta per i decreti del governo Berlusconi che ne stravolgono l’identità e l’invito di Innocenzo Cipolletta, (Confindustria) a confluire nel grande alveo dell’impresa privata. Caserta resta critico: “La cooperazione non è contro il mercato ma nel mercato con una propria fisionomia... Non serve una cultura da capitalismo d’assalto che gioca con le regole di mercato in punta di codice in un sistema di alleanze che non guarda troppo per il sottile”. Parole che coinvolgono le grandi coop emiliane: “Hanno sposato il capitalismo dell’edilizia, stravolgono le città, cambiano la vita della gente“. Ricorda l’insensatezza del Metro di Parma e discute sul metro di Bologna “che sconvolge il sottosuolo in una città con una rete di canali sotterranei“. E poi l’allargamento della base Usa di Vicenza: ”La CCC fa davvero gli interessi della popolazione in rivolta”?

Il grande privato di Parma si chiama Pizzarotti, impresa seria, moderna, dimensione internazionale con la formidabile intuizione del prevedere dove i politici locali decideranno un giorno di allargare strade e palazzi. Parma ha 180 mila abitanti, ma il primo sindaco della destra che ha inventato la Città Cantiere - Elvio Ubaldi - aveva annunciato di voler allargare il tessuto urbano a 400 mila persone.

Gigantismo che prevede un metrò patetico in un posto che da attraversare in bicicletta, forse non ridicolo nella prospettiva dell’allargamento. Appalto metrò vinto da Pizzarotti-Coop7. Pizzarotti Coop7 restaurano il palazzo governatore monumento della piazza centrale. Incarico di ristrutturare l’Ospedale Vecchio, ormai archivio di stato costruito 800 anni fa. Trasformazione che prevede residence, negozi, tante cose, soprattutto l’esilio nei capannoni di periferia dei documenti che raccontano la vita politica e culturale di un ducato.

Avete visto il film di Nicola Dell'Olio,

In un recentissimo incontro con i membri del gruppo 40 x Venezia, il nuovo assessore all’Urbanistica Ezio Micelli ha disegnato le grandi linee dei suoi progetti per la città e dei motivi ideali e pratici che lo ispirano. Nella sua eloquente presentazione, e nelle risposte alle attente domande dei presenti, Micelli ha operato una distinzione tra un modo antiquato di vedere la città e uno moderno, innovatore e al passo con i tempi. Ha chiamato i sostenitori del primo «identitari» (forse perché li confonde con chi vuole difendere una supposta identità locale) e quelli e del secondo «modernisti». Lui si è collocato decisamente tra quest’ultimi, pronti a «sviluppare scenari di lungo periodo e a cogliere le sfide dei tempi che cambiano» (cito dall’ottima sintesi dell’incontro leggibile sul sito del 40x). Qual è dunque il progetto che coglie le sfide dei tempi? Micelli lo vede in opere come il Quadrante di Tessera, il Mose e le trasformazioni in corso per via commissariale al Lido.

Secondo lui i veri padri della città futura sono quelle figure (che lui chiama i più maturi nello scenario veneziano) che hanno proposto i cambiamenti osteggiati dai nostalgici: sono Gianfranco Mossetto con EstCapital e le trasformazioni in atto al Lido, Enrico Marchi con la Save e le iniziative dell’aeroporto, Paolo Costa con i suoi piani per lo sviluppo del porto lagunare, il cardinale Scola (immagino per il suo sostegno ai predetti e per aver etichettato come «piagnoni» coloro che si opponevano), l’ingegner Mazzacurati con il Consorzio Venezia Nuova, l’ex presidente Giancarlo Galan. In questo modo Micelli ha disegnato il progetto di una città fondata sull’economia turistica e portuale, alla costante ricerca del flusso di soldi liquidi, cementificata, metallizzata, hovercraftizzata, sublagunarizzata. «Il piccolo artigianato di qualità deve poter prendere la via della terraferma senza remore», afferma. Per lui il futuro è nei 20 milioni di turisti trasformati forse in 40 milioni, con Tessera, Mestre e il Lido gremiti di alberghi e bed and breakfast, con forse (come desidera la Camera di Commercio) una sublagunare che colleghi Jesolo e Sottomarina con piazza San Marco. E un porto lagunare che ospiti navi petroliere, supernavi porta-container e super-super-navi da crociera.

Vorrei però suggerire che forse proprio questa è un’idea molto arretrata di ciò che sia la modernità. Negli anni ’70-’90 la modernità era sviluppo economico, flusso di cash, automobili per tutti, aeroporti ogni 50 chilometri. Oggi la modernità è prima di tutto qualità della vita. Oggi si cercano il verde, il silenzio, il quartiere con vita rilassata sulle strade, l’asilo raggiungibile a piedi o con il mezzo pubblico (non più con la mamma-tassista).

I paesi «emergenti» hanno ancora le fabbriche fordiste e i profili simili a quello irto di ciminiere che oggi vediamo a Marghera; quelli che guardano al futuro hanno la Nokia, dove si lavora in casa propria e si comunica attraverso la posta elettronica. Oggi i vecchi artigiani démodé sono il segno che le città stanno recuperando un’anima. I piani di Micelli e dei suoi eroi Costa, Mossetto, Scola, Mazzacurati, Marchi, Galan, De Michelis sono tutti legati a un’idea antica. Un’idea priva d’ispirazione e d’entusiasmo, per la quale il domani diventa solo un mediocre aumento di cash flow, un fare panini per i turisti, rifare letti, organizzare mostre per i musei di Pinault e movimentare containers sul bordo della laguna.

Ma la Venezia dei nostri figli dev’essere una città in cui abitano uomini e donne colti, liberi e in armonia con la natura, che lavorano alla ricerca e progettazione del benessere di tutti (biologia, medicina, climatologia, robotica, edilizia, restauro), con sedi di lavoro in una Marghera bonificata (con i soldi ora impegnati per l’inutile Mose), raggiungibile con mezzi comodi, veloci, panoramici e sottratti all’infernale macchina turistica. Invece di correre dietro a progetti otto-novecenteschi, il pianificatore della città di domani dovrebbe avere il coraggio di guardare veramente al futuro. Dovrebbe far bonificare Marghera, chiedere al governo forti incentivi fiscali per le aziende innovative disposte a trasferirsi, controllare i flussi turistici, restituire la città a una vivibilità che sarà il segno della vera modernità. Ma qui siamo lontani. Qui, lasciatemelo dire, navighiamo nella mediocrità e nella mancanza di visione.

Paolo Lanapoppi è vicepresidente della combattiva sezione veneziana di Italia Nostra e presidente dell'associazione Pax in Acqua

Quella di Pomigliano è stata davvero una grande lezione. Una lezione politica, sociale, e anche - lo so che il termine oggi appare desueto, e lo si pronuncia con un certo pudore come con le parole sconvenienti - morale.

L'accordo imposto dalla Fiat era, in modo fin troppo esplicito, una proposta indecente. I suoi contenuti prefiguravano una condizione di lavoro servile, nel senso tecnico del termine, pre-moderna, comunque estranea alla stessa «modernità industriale» e incompatibile con il nostro quadro costituzionale: un lavoro senza diritti né soggettività, esposto al nudo potere materiale e discrezionale dell'impresa, in una condizione di extra-territorialità giuridica che fa della fabbrica un luogo separato com'erano nel medioevo le pertinenze ecclesiastiche. E tuttavia era tremendamente difficile dire di no. Difficile per il sindacato, posto di fronte al dilemma mortale tra rifiutare, riaffermando il proprio ruolo ma rischiando di perdere il contesto in cui esercitarlo, o subire, e cancellare così il senso stesso del proprio esistere come sindacato. E ancor più difficile per gli operai, da mesi col salario falcidiato dalla Cassa integrazione e posti di fronte alla prospettiva del nulla in un'area come quella napoletana già afflitta da un livello di povertà endemica. Eppure il plebiscito non c'è stato. E il messaggio che viene da quella fabbrica che in tanti avevano disprezzato - considerandone i lavoratori come una massa di pezzenti alla disperazione, pronti a tutto pur di conservare il misero salario, o un'accolita di lazzaroni turco-napoletani, assenteisti e furbacchioni - è una sintesi di realismo, d'intelligenza e dignità.

Quel rapporto non previsto da (quasi) tutti, di 60 a 40; quell'equilibrio inatteso tra i «sì» della paura e i «no» dell'orgoglio, dice che quella fabbrica, che gli «operai di Pomigliano» - tutti, presi nel loro insieme di «comunità operaia» - subiscono il ricatto di Marchionne, ma non vi aderiscono «anima e corpo». Lo subiscono col corpo, che «pesa», appunto, e fa piegare la bilancia verso il sì (con realismo, potremmo dire). Ma non gli cedono anche l'anima. Non concedono allo strapotere del più forte la soddisfazione impietosa di un consenso servile che li umilierebbe e li priverebbe di ogni autonoma volontà. Si piegano, perché il rapporto di forza non consente alternative, ma mantenendo il rispetto di sé (con dignità, appunto).

Forse non ci siamo interrogati abbastanza su quei 1673 NO. Su quanto deve essere stato difficile - e drammatico - per ognuno di quegli operai e operaie, decidere, contro se stessi e, apparentemente, contro tutti. Mettere in gioco le proprie esistenze, il proprio futuro, il proprio reddito, le proprie famiglie. Uscire dalla particolarità del proprio calcolo individuale, che avrebbe suggerito l'eterno primum vivere, e porsi da un punto di vista «generale». Rappresentarsi come comunità di lavoro, in un mondo in cui tutto sembra disfarsi, ogni aggregato slegarsi, ogni identità collettiva dissolversi. Senza più rappresentanza politica alle spalle. Né appartenenza ideologica. Né cultura condivisa. In fondo che cos'è un articolo della nostra Costituzione di fronte al rischio di miseria per la propria famiglia? Che vale la difesa del contratto nazionale di fronte alla minaccia concreta della scomparsa della propria fabbrica e del proprio salario? E che cosa costa, d'altra parte, un piccolo compromesso con se stessi? Un minuscolo gesto di sottomissione - il segno su una scheda - se serve per garantirsi un sia pur stentato futuro di lavoro (e magari la possibilità di rimettere tutto in discussione, una volta «passata 'a nuttata»)? Il nudo calcolo di utilità (individuale) non avrebbe lasciato margini d'incertezza.

E infatti per la stragrande maggioranza degli «attori pubblici» - politici, opinion leader, imprenditori e intrattenitori - quel voto e quel comportamento è risultato del tutto incomprensibile. Per (quasi) tutti quelli che stanno «in alto» (e anche per molti che stanno «in mezzo» e persino per qualcuno che dovrebbe esser vicino a chi sta «sotto») gli operai di Pomigliano sono apparsi dei pazzi. Pericolosi incoscienti. Nella migliore delle ipotesi degli irresponsabili verso sé e verso gli altri. Per l'Italia che conta, l'«agire orientato a valori» - per usare un'espressione weberiana - sta fuori dal mondo: «Ancora una volta constatiamo che c'è un sindacato e anche una parte dei lavoratori, che non comprendono le sfide che hanno davanti», ha dichiarato Emma Marcegaglia. E ha rivelato così l'immenso vuoto morale che caratterizza il mondo imprenditoriale italiano. L'assoluta incomprensione dell'importanza del fattore etico in politica e in economia, destinata a produrre catastrofiche cadute politiche (una borghesia che accetta un Brancher fatto ministro solo per sfuggire ai giudici è una borghesia che vale davvero poco). E anche clamorosi errori imprenditoriali, come quello di chi consiglia o si propone di «lavorare» a Pomigliano solo con gli autori del «sì» considerandoli più affidabili e non accorgendosi che di un uomo disposto a difendere la propria dignità a costo di sacrifici, di uno capace di tenere «la testa alta», ci si può fidare ben di più, dal punto di vista professionale, che di chi finge di condividere un ricatto (come ha magistralmente scritto Ermanno Rea).

È questo, lo si vede bene oggi, il grande deficit culturale dell'imprenditoria contemporanea: questa sottovalutazione del senso morale nell'agire individuale e soprattutto collettivo, per ridurre tutto a «calcolo di utilità» personale. Questo disprezzo cinico e sistematico di ciò che offre un punto di vista condiviso al di là del puro «utile personale». E che produce, per questo, visione del bene comune e appartenenza. Rispetto di sé come condizione del rispetto degli altri (le basi, insomma, di quella «modernità industriale» che a Pomigliano si vorrebbe cancellare). Non è fenomeno solo italiano. È la verità del capitalismo contemporaneo nell'epoca della globalizzazione, ridotto al suo nudo hard core materiale del conto profitti e perdite. Privo dell'orizzonte valoriale che aveva animato, in qualche misura, la fase aurorale della borghesia: di quell'Etica del capitalismo di cui scrisse Max Weber, e che permise ai suoi protagonisti di aspirare a una qualche egemonia nell'orizzonte della modernità. Un capitalismo, ormai, risolto senza residui nella quotidiana struggle for life, senza promesse di emancipazione e senza virtù per nessuno. Semplice ostentazione di un rapporto di forza che si misura sul successo effimero e quotidiano e valuta gli uomini col peso falso delle cose. Un capitalismo da ère du vide di cui la crisi fa emergere la «verità», nei suoi aut aut tanto assoluti quanto inerti: nell'imperiosità di quel suo «prendere o lasciare», quando ciò che si prende o si lascia è solo la traccia di una nuova servitù... Il nichilismo compiuto della «società del fare».

È toccato al povero Marchionne, nonostante i suoi maglioncini casual e le sue scarpe da tennis, la sua aria da nomade cosmopolitico e il suo linguaggio da liberal anglosassone, diventare l'emblema di questo capitalismo del crepuscolo, non più animato dall'etica dell'imprenditore «produttore» (in qualche misura simile all'«etica del lavoro» del suo antagonista sociale simmetrico, l'operaio-produttore), ma segnato dal vuoto dell'anima dell'epoca del consumo e dell'ipercompetitività transnazionale, dove gli uomini e il tempo perdono di spessore, e finiscono per essere «consumati» essi stessi da un'impresa fattasi fine a se stessa.

Quelli di Pomigliano no. In un paese in cui abbondano «i mezzi uomini e i quaqquaraquà» (per dirla con Sciascia) hanno dimostrato che esistono ancora degli uomini. Che tra servi e padroni - tra la moltitudine dei servi che occupa il nostro paese e il castelletto dei padroni/predoni che lo depreda - ci sono ancora delle «persone». E hanno aperto una breccia simbolica incalcolabile. Immaginiamo che cosa sarebbe oggi l'Italia se una fabbrica-simbolo come Pomigliano avesse sancito plebiscitariamente la resa senza condizione a quella logica servile. Se non ci fosse stato quel segno di dignità che, coriaceo, resiste. E parla a tutti. D'altra parte, non fu proprio Giambattista Vico - da cui lo stabilimento di Pomigliano, con involontario paradosso, prende il nome - a celebrare «l'origine della nobiltà vera, che naturalmente nasce dall'esercizio delle morali virtù; e l'origine del vero eroismo, ch'è domar superbi e soccorrere a' pericolanti»...?

Il primo ministro del governo italiano ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11.490 (undicimilaquattrocentonovanta) volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d´Arco. Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il 63,3% dell´azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato l´anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per l´appunto a 11.490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di Pomigliano che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione, portando a casa circa 11.000 (undicimila) euro lordi. In altri termini, la persona fisica del nostro primo ministro ha guadagnato nel 2009 due volte (e più) il monte salari dell´intero stabilimento al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le relazioni sindacali del paese.

Nello stesso periodo, l´amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano. Tale cifra comprende il bonus che la Fiat ha deciso di attribuirgli per il 2009, mentre l´attività svolta dal manager italo-canadese negli Stati Uniti per Chrysler è stata fornita a titolo gratuito.

Credo non sia più possibile discutere di giustizia sociale e di redistribuzione del reddito, ma anche di economia e finanza, prescindendo da queste nude cifre. Da una ventina d´anni la parola egualitarismo è proibita nel dibattito pubblico, demonizzata alla stregua di un´ideologia totalitaria. Ma nel frattempo imponenti quote della ricchezza nazionale sono state dirottate dal lavoro dipendente a vantaggio dei profitti, esasperando una disuguaglianza di reddito senza precedenti storici.

Questo imponente spostamento di punti del Pil dai salari al capitale non ha certo reso più competitiva l´economia italiana come invece prometteva. Semmai fotografa, con sintesi brutale, la sconfitta di una sinistra la cui ragione sociale, per oltre un secolo, si identificò con il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti, primi fra tutti gli operai. Pervenuta, sia pure per brevi periodi, al governo del paese, la classe dirigente della sinistra si è legittimata attraverso l´accettazione della cultura di mercato ma ha finito per confondersi in larga misura nell´establishment italiano da cui voleva essere accettata, tollerandone in cambio i vizi, sposandone talvolta i comportamenti.

Se il coefficiente di Gini, cioè l´indicatore statistico con cui gli economisti cercano di misurare il tasso di disuguaglianza sociale di un paese, colloca ormai l´Italia ai gradini più bassi dell´Ocse, con un´accelerazione costante a partire dai primi anni Novanta, è doveroso ricordare che il lavoro dipendente non ha subito solo decurtazioni proporzionali di reddito. Chi prometteva "qualità totale" nel ciclo produttivo ha perso quote di mercato anche a seguito di eccessiva difettosità. La fabbrica automatica che doveva liberare il lavoro manuale dalla fatica fisica e dal pericolo di infortuni, in cambio di normative più flessibili, si è rivelata una trovata propagandistica.

Spetterà agli storici di domani capire come mai l´incremento delle disuguaglianze sia parso così a lungo giustificabile, o comunque accettabile, a chi le subiva. Il fallimento del comunismo ha reso improponibile la visione messianica della classe operaia come nucleo di un´emancipazione scaturita dall´interno del ciclo produttivo, rivoluzionandone le relazioni gerarchiche e i parametri di retribuzione. Ma nel frattempo sospingeva i ceti meno abbienti ad affidare il proprio destino nelle mani di leadership territoriali populiste, non importa se guidate da imprenditori che perseguivano l´arricchimento personale, ché anzi era proprio il loro successo a figurare come l´unico modello di comportamento imitabile. A sua volta un sindacalismo disarmato riusciva a proporsi solo come tutela locale, se necessario in contrapposizione con altri stabilimenti italiani o più spesso con i lavoratori dei paesi emergenti.

La speranza fallace che l´arricchimento di pochi generasse maggior benessere per tutti ha consentito che la presa di potere dei manager divaricasse la forbice delle retribuzioni, elevando in breve tempo gli stipendi dirigenziali: da venti o trenta volte la media di un salario operaio, a centinaia di volte. I profitti realizzati tramite la speculazione finanziaria globale, hanno completato l´opera.

Il paradosso che viviamo oggi è che la rabbia sociale rischia di finire appannaggio della demagogia di destra, mentre la sinistra ammutolisce vittima delle sue inadempienze. Chi ha teorizzato la difesa localistica del proprio territorio dalle insidie della globalizzazione, naturalmente, propone alle masse una visione strabica delle disuguaglianze. Denuncia come eccessivi i redditi di categorie molto visibili ma sparute come i calciatori e i personaggi dello spettacolo. Oppure addita al pubblico ludibrio di volta in volta i suoi avversari simbolici, come gli alti magistrati e i dirigenti ministeriali. Ma si guarda bene dal prendersela con i redditi da capitale, con le rendite finanziarie, con i compensi dei manager che appartengono al suo sistema di potere. La piramide sociale, nella visione della destra, può venire scossa dal terremoto della crisi, ma per uscirne ancora più verticale.

È prevedibile che nei prossimi anni questo malessere genererà un pensiero radicale e una reazione estremista anche nell´ambito della sinistra, impreparata a confrontarsi con le regole della finanza, con la riforma dei rapporti di lavoro, con la crisi del welfare. La morte del comunismo non elimina in eterno la spinta antagonista, con i suoi aneliti di giustizia e il suo inevitabile contorno di ambiguità.

Per il momento sarebbe bene che i dirigenti del Pd affascinati dallo stile Marchionne, colti alla sprovvista dalla minoritaria ma elevata quota di opposizione espressa dai lavoratori di Pomigliano a un accordo stravolgente le condizioni di lavoro, cominciassero a riflettere. Assumendo il tema della disuguaglianza sociale come prioritario nell´agenda di una sinistra moderna degna delle sue origini.

Le radici del "sistema Bertolaso" affondano nella terra del Giubileo, l’Anno Santo aperto nel 1994 e celebrato a Roma nel 2000, il padre dei Grandi eventi della modernità italiana. E il parcheggio della collina di Santo Spirito al Gianicolo, con le sue devastazioni archeologiche, le elusioni dei pareri degli uffici scomodi, la mancanza di un controllo su appalto e cantiere e (pure) un probabile falso storico, diventa l’opera che segna la nascita della turbo Protezione civile applicata all’ordinario. Il battesimo, appunto, del "metodo Bertolaso".

Nel suo ufficio deserto - la nazionale italiana sta giocando contro la Slovacchia – l’ex soprintendente ai Beni archeologici Adriano La Regina, nel Duemila granitico oppositore «della coppia Rutelli-Bertolaso» (il sindaco di Roma e il vicecommissario straordinario di Governo per il Giubileo), estrae da un dossierone nove pagine intestate ai Beni culturali.

È la sua relazione, inedita, con la quale il 22 novembre 1999 dichiarava un falso tutta la costruzione amministrativa che aveva definito l’area del futuro parcheggio del Gianicolo «nello Stato Vaticano», «sito in territorio vaticano», «in territorio vaticano». La copia che allunga, in particolare, è quella inviata all’attenzione del dottor Guido Bertolaso: «Ma lui è andato avanti senza colpo ferire, un caterpillar».

Citando libri di toponomastica antica, Patti lateranensi del 1929 e concordati dell’85, La Regina a pochi giorni dall’apertura della Porta Santa smontò l’architrave che aveva portato lo Stato italiano a finanziare per metà un parcheggio da 85 miliardi di lire che avrebbe dovuto ospitare, su sei piani, 90 pullman e 750 auto.

Per realizzare quell’autorimessa per pellegrini nel cuore della Roma oltretevere - nei dieci anni a seguire resterà quotidianamente deserta - gli operai di Impregilo e Dioguardi costruzioni sventrarono una collina rimuovendo 200 mila metri cubi di terra. Il progetto nel 1992 era stato bocciato dal severo soprintendente e, allora, nell’aprile ´97 il Comune di Roma scelse la strada dello «spostamento toponomastico» per saltare il visto archeologico, realizzare l’opera e inaugurare la futura strategia della "Protezione civile stazione appaltante": l’elusione dei controlli. Il Vaticano, d’altronde, in una lettera dedicata al parcheggio del Gianicolo aveva chiesto esplicitamente «l’esonero da controlli e approvazioni da parte della autorità italiane».

Si legge ora nella relazione La Regina: «Il provveditorato alle Opere pubbliche ha sempre dichiarato negli atti ufficiali che il parcheggio si trovava su territorio vaticano mentre si trova su territorio dello Stato italiano». Ancora, «il danneggiamento di beni di interesse storico o artistico appartenenti all’Italia, ancorché di proprietà della Santa Sede, non è considerato ammissibile da alcuna norma o trattato». Lo spianamento giubilare regalò, infatti, «l’asportazione incontrollata dei livelli archeologici e dei resti antichi nell’area del giardino del collegio di Propaganda Fide» - gli Horti di Agrippina, si teorizza - «e la distruzione di alcuni tratti di mura del Bastione di Santo Spirito realizzati da Antonio da Sangallo il giovane».

Su quel danno «rilevante e irreversibile per la conoscenza della topografia antica di una parte di Roma», nello scavalco del millennio si cementificò l’intesa di un blocco di funzionari pubblici che, cresciuti all’ombra dei 2.578 miliardi di lire stanziati per il Giubileo e sotto la spinta delle necessità del Vaticano, nei dieci anni a seguire avrebbero gestito 13 miliardi pubblici in libertà.

Attraverso la Protezione civile. Il sottosegretario Guido Bertolaso, abbiamo visto, nel Duemila era il braccio operativo di Rutelli. Angelo Balducci nel 1998 fu nominato provveditore alle Opere pubbliche del Lazio dopo la sconfitta rutelliana sul sottopasso di Castel Sant’Angelo (fermato proprio dal sovrintendente La Regina). Balducci, allora tra i più feroci sostenitori della demolizione della "domus" neroniana in nome del parcheggio, oggi è in carcere per associazione a delinquere nell’inchiesta grandi appalti.

Nel novembre del 1997, riannodando i fili, era diventato segretario generale del Giubileo Crescenzio Sepe: oggi è indagato per corruzione. All’ingegner Claudio Rinaldi, altro funzionario delle Opere pubbliche ora sotto inchiesta per corruzione, in quegli anni fu affidato il cantiere Tor Vergata, la grande adunata giovanile attorno a Papa Wojtyla. Ettore Figliolia era il consulente legislativo del commissariato guidato da Rutelli: diventerà capo dell’ufficio legislativo della Protezione civile. E di Francesco Silvano, l’amico che avrebbe girato a Bartolaso il pied-à-terre in affitto di via Giulia, all’epoca si ricordano lettere minacciose scritte al Comune per conto del Vaticano: bisognava accelerare la "pratica parcheggio".

La lettera che inchioda il Vaticano e Arcus porta la data del 16 dicembre del 2005. Monsignor Francesco Di Muzio, allora capo dell’amministrazione di Propaganda Fide, scrive a Francesca Nannelli, responsabile del procedimento per il finanziamento erogato alla Curia dalla società Arcus Spa, di proprietà del Tesoro ma controllata dai ministeri dello Spettacolo e delle Infrastrutture. Il carteggio tra Arcus e Vaticano che Il Fatto Quotidiano pubblica in esclusiva documenta i retroscena inediti e le bugie pubbliche raccontate per giustificare un contributo relativo al palazzo di Piazza di Spagna.

Quello stabile è la sede della Congregazione che oltre a occuparsi dell’evangelizzazione dei popoli nel mondo è dedita anche a una frenetica attività immobiliare nella Capitale. Ora la storia del contributo ha attirato l’attenzione della Procura di Perugia. I magistrati che stanno indagando sulla cricca dei lavori pubblici, hanno iscritto nel registro degli indagati il ministro delle infrastrutture dell’epoca, Piero Lunardi, e l’allora Prefetto della Congregazione di Propaganda Fide, Crescenzio Sepe, per corruzione. L’ipotesi dei pm Sergio Sottani e Alessia Tavernesi è che esista una relazione tra l’acquisto nel 2004 di un palazzo nel centro di Roma per “soli” 3 milioni di euro (ne valeva il doppio) da parte della famiglia Lunardi e il contributo di 2,5 milioni erogato nel 2005 di concerto con il dicastero delle Infrastrutture, retto in quel periodo dallo stesso Lunardi.

I magistrati ieri hanno preso contatto con il legale del cardinale Crescenzio Sepe perché vogliono interrogarlo per chiarire il giallo del finanziamento che era stato oggetto di polemiche e servizi televisivi di Rai e Mediaset e poi di un’inchiesta interna della Corte dei Conti. Allora, l’unica voce che si ostinava a denunciare lo scandalo di un finanziamento statale che fino a quel momento sembrava ammontare solo a 2,5 milioni di euro, pagati per un’opera pubblica mai realizzata, era quella del segretario generale della Uil per i beni culturali: Gianfranco Cerasoli. Ora quella tesi coincide con l’ipotesi investigativa dei pm perugini: il contributo sarebbe stato erogato da Arcus nonostante i lavori previsti nella convenzione tra la società del Tesoro e Propaganda Fide non sono mai stati realizzati.

La lettera di monsignor Angelo Di Muzio e il carteggio che pubblichiamo (comprendente anche una missiva firmata dal successore di Sepe, il cardinale Ivan Dias) sembrano confermare la tesi dell’accusa. Nella convenzione del 2005, il finanziamento statale è legato inscindibilmente ai lavori futuri per la realizzazione di una Pinacoteca e di un percorso museale che sarebbe stato fruibile dalla cittadinanza italiana. Mentre nelle lettere riservate tra Vaticano e Arcus il medesimo finanziamento è finalizzato a coprire le spese già sostenute da Propaganda Fide per un restauro che nulla ha a che vedere con la Pinacoteca. Monsignor Di Muzio, un personaggio legato all’Opus Dei e molto influente nella Curia, ex braccio destro dell’attuale arcivescovo di Napoli, Crescenzio Sepe e ben inserito anche nei ministeri grazie anche ad Angelo Balducci, scrive ad Arcus: “restituisco la bozza della convenzione con apportate piccole modifiche. In particolare segnalo che sarebbe opportuno che il finanziamento venga erogato secondo le scadenze indicate in bozza, in considerazione del notevole esborso sino ad ora sostenuto dalla Congregazione per l’avanzato stato dei lavori”.

La lettera è anomala per tre elementi. Non è normale che il soggetto finanziato da una società pubblica (solo formalmente privata come è la Spa Arcus) si permetta di dettare i tempi e le scadenze dei pagamenti al finanziatore. Inoltre Propaganda Fide non fa mistero di avere bisogno di un ingente pagamento in tempi brevi perché c’è stato “un notevole esborso per l’avanzato stato dei lavori”. La terza anomalia è che il soggetto che dovrebbe sorvegliare il corretto uso dei soldi pubblici è inquilino del sorvegliato. Infatti Francesca Nannelli abita in uno dei palazzi più belli di Propaganda Fide, in via del Governo vecchio, a due passi da Piazza Navona. Il nome della signora Nannelli era già emerso nelle cronache quando si era scoperto che l’appartamento (nel quale convive con il subcommissario della ricostruzione in Abruzzo, Luciano Marchetti) era stato ristrutturato da Diego Anemone e figurava nella sua lista.

A parte l’innegabile conflitto di interessi, anche i tempi non tornano: il decreto ministeriale che approva il programma di Arcus con il finanziamento di Propaganda Fide viene firmato dal ministro Buttiglione e dal collega Lunardi il 20 luglio del 2005. Il 29 novembre 2005 il consiglio di Arcus approva e appena 16 giorni dopo Propaganda Fide già parla di “avanzato stato lavori” e chiede un pagamento immediato per “l’esborso notevole già sostenuto”. Ancor prima che il contratto tra Arcus e Vaticano sia firmato. Nella sua mail, Di Muzio chiedeva all’inquilina di Propaganda Fide un’accelerazione dei pagamenti. Nella convenzione firmata il 23 dicembre del 2005 tra il direttore generale di Arcus Ettore Pietrabissa e il cardinale Sepe, Propaganda Fide ottiene un trattamento di lusso: un milione e mezzo di euro entro 30 giorni dalla firma, solo “previa comunicazione dell’effettivo avvio delle attività”; altri 500 mila euro entro 90 giorni salvo un generico “monitoraggio” di Arcus. Solo il restante mezzo milione di euro è legato alla “verifica dell’effettiva conclusione positiva delle attività connesse al progetto”.

Nell’articolo 6 della convenzione tra Arcus e Propaganda Fide, che Il Fatto Quotidiano ha ottenuto in copia, è previsto come termine del progetto il 31 dicembre del 2006. L’articolo 8 prevede che il finanziamento sia revocato in caso di utilizzo “per finalità diverse” oppure qualora il contraente “non completi il progetto nei termini”. Ancora oggi, quattro anni dopo i termini della convenzione, la Pinacoteca aperta al pubblico, prevista come ragione del finanziamento con i soldi dei contribuenti italiani, non esiste. Nel 2009 la trasmissione Presa diretta di Rai tre mostrò l’inadempimento di Propaganda Fide con le sue telecamere. Immediatamente Arcus pubblicò un comunicato nel quale si sosteneva che del “finanziamento complessivo di euro 2,5 milioni a oggi sono stati condotti e terminati i lavori pari a euro 2 milioni regolarmente rendi-contati. Fanno eccezione le sole attività relative alla Pinacoteca che non hanno ancora visto l’avvio.

Il relativo finanziamento”, sosteneva Arcus nel settembre del 2009, “di euro 500 mila (a saldo dell’intero finanziamento di 2,5 milioni) verrà erogato solo a seguito della positiva conclusione dei lavori”.

Il comunicato di Arcus presenta due incongruenze importanti e sembra nascondere la verità per annullare l’impatto negativo delle inchieste televisive. Innanzitutto il finanziamento previsto nella convenzione del dicembre 2005 era stato erogato interamente, come provato da un documento in possesso del Fatto Quotidiano: una lettera firmata dal cardinale Ivan Dias, nella quale il prefetto di Propaganda Fide e successore di Sepe, scrive al direttore generale di Arcus Ettore Pietrabissa: “mi pregio di comunicarLe che questa Congregazione ha ricevuto l’importo di 2,5 milioni di euro quale contributo relativo al primo finanziamento”. Tutto il contributo, quindi.

Ed ecco la seconda incongruenza: al contrario di quanto sostenuto allora ufficialmente da Arcus e Propaganda Fide, il contributo complessivo era di 5 milioni di euro, spalmati in due anni: 2005 e 2006. Anche perché la novità del doppio contributo (con una seconda convenzione stipulata nel 2007) è stata rivelata da Arcus solo pochi giorni fa. E i sospetti aumentano. Perché quando le tv si occuparono della Pinacoteca fantasma, Arcus e Propaganda Fide sostenevano la tesi del “finanziamento complessivo di 2,5 milioni erogato solo in parte”? Forse perché questa tesi era l’unica che non imponeva una seconda domanda: perché - se Propaganda Fide non aveva rispettato la prima convenzione - era stata pagata interamente e finanziata per altri 2,5 milioni di euro nel 2007? A queste domande risponderanno i pm di Perugia. Intanto il segretario dei radicali Mario Staderini chiede al ministero e alla Corte dei Conti di agire per l’integrale restituzione del finanziamento a causa dell’inadempimento contrattuale.

la Repubblica ed. Milano

Ligresti: ecco la Milano che sogno

di Franco Capitano

La Milano che sogna Salvatore Ligresti? Tanti grattacieli, perché «questa è l’unica città in Italia che abbia le caratteristiche per fare i grattacieli», un tunnel sotterraneo «come a Parigi», nuovi quartieri in fondo a via Ripamonti, parco Sud, dove lo stesso Ligresti è proprietario di ampie aree. Il costruttore siciliano ha spiegato le sue idee sullo sviluppo urbanistico della città ieri, all’uscita da Mediobanca. E sull’Expo, ha detto, «io sto con la Moratti: basta litigi, c’è posto per tutti».

Eccola, la Milano di Salvatore Ligresti. Meglio: la Milano che il costruttore siciliano vorrebbe. La Milano dell’Expo, perché Ligresti sta con la Moratti, e lo dice senza mezzi termini. Una Milano con tanti grattacieli, un lungo tunnel sotterraneo che la attraversi da capo a piedi, e tanti nuovi quartieri costruiti ai margini della città, sfruttando aree dismesse e terreni incolti. E non terreni scelti a caso, perché i terreni sui quali Ligresti vorrebbe costruire sono proprio i suoi, quelli «in fondo a via Ripamonti» (cioè in pieno Parco Sud, dove costruire, in teoria, non si può, ma su questo sorvola volentieri) dove possono nascere «nuovi quartieri completi che devono avere le scuole per i bambini perché - sottolinea - bisogna eliminare le differenze di classe, le scuole per i nobili, i bambini devono crescere assieme».

Spregiudicato immobiliarista a caccia di nuovi affari o nobile propugnatore dell’eguaglianza sociale? Ligresti, all’uscita di Mediobanca, la spiega così: «Io vengo dal popolo, dalla Sicilia, ho fatto gradino su gradino, ma lo possono fare anche gli altri». Dura poco, perché un secondo dopo Ligresti torna a parlare di grandi affari. Si chiede «perché proibire che la città si espanda?». E punta l’indice contro la burocrazia «troppo lenta e complicata», con «commissioni che si riuniscono e poi si riuniscono ancora e poi cambiano i componenti e si ricomincia daccapo: è impossibile. Ci vogliono regole chiare e definite».

Qualche idea sulla città del futuro, in ogni caso, Ligresti l’ha ben chiara in mente: Milano, dice, «è l’unica città in Italia che abbia le caratteristiche per fare i grattacieli. Certamente ci vuole anche la collaborazione dell’amministrazione che, assieme a grandi gruppi come banche e assicurazioni, può portare avanti i grandi progetti». Proprio la fotografia di Citylife, il grande progetto nato dalla collaborazione tra Fiera, Comune e grandi compagnie assicurative, tra cui - guarda caso - la Fondiaria Sai del gruppo Ligresti. E il traffico? Nelle grandi città, spiega Ligresti, fare un tunnel «per disintossicare il traffico è normale. Guardate Parigi che ne è piena».

Insomma: costruire, costruire, costruire. La cornice giusta? Ligresti non lo dice in modo diretto, ma si capisce bene cosa intenda quando lancia il suo appello: «L’Expo è un grande progetto, aiutiamo il sindaco Moratti a portarlo avanti. La Moratti si è data un sacco da fare. Adesso che c’è l’autorizzazione uniamoci, non perdiamo tempo a litigare, facciamo cose positive, c’è posto per tutti».

Il Corriere della Sera ed. Milano

Nel paese di Berlusconi un grattacielo come il Pirellone bis

di Andrea Senesi

Trentasei piani per 160 metri d’altezza. In pratica quanto il Pirellone bis, la futura casa della Regione Lombardia. Siamo in piena Brianza, a casa di Silvio Berlusconi. Perché la torre che lotterà per il primato del cielo lombardo col futuro Pirellone 2 nascerà nel Comune di Arcore. Nella zona industriale del paese, quasi al confine con Villasanta. A fianco di una fabbrica di camicie e a pochi chilometri da villa San Martino, la residenza del premier, il gioiello neoclassico che fu del conte Casati Stampa con i suoi giardini all’inglese e le sue cento stanze.

Trentasei piani per 160 metri d’altezza, e qualcuno giura che in realtà sarebbero pure di più. In pratica quanto il Pirellone bis, la futura casa della Regione Lombardia. Siamo in piena Brianza però, siamo a casa di Silvio Berlusconi.

Perché la torre che lotterà per il primato del cielo lombardo col futuro Pirellone formigoniano nascerà nel Comune di Arcore. Nella zona industriale del paese, quasi al confine con Villasanta. A fianco di una fabbrica di camicie e a pochi chilometri da villa San Martino, la residenza del premier, il gioiello neoclassico che fu del conte Casati Stampa con i suoi giardini all’inglese e le sue cento stanze.

E dire che Silvio Berlusconi non è esattamente un fan dello «sviluppo urbanistico verticale». Un paio d’anni fa, per dire, promise le barricate di fronte alla torre storta di Daniel Libeskind destinata a svettare nell’area della vecchia Fiera. «Ho visto progetti di grattacieli elaborati da architetti stranieri, storti e sbilenchi, in totale contrasto con il contesto milanese. Spero non sia questa l' idea moderna di Milano, altrimenti la protesta sorgerà spontanea e giusta. E io mi metterò alla testa di questa protesta», ebbe a dire allora il premier.

«Per essere dritta la nostra torre è dritta», giura ora chi ha visto il rendering depositato negli uffici del Comune di Arcore. «Il punto semmai è un altro», spiega l’assessore del Pdl, l’architetto Claudio Bertani: «Il punto è che non abbiamo ancora deciso cosa fare. Stiamo discutendo in questi mesi il nostro piano di governo del territorio e ci siamo trovati tra le mani questa richiesta così "folle". Chiaramente ne abbiamo parlato subito col sindaco e in giunta, però la decisione la prenderemo solo dopo aver sentito Provincia e Regione».

L’assessore, passato lo choc iniziale, s’è fatto possibilista: «In fondo non si tratta di residenza. Sono strutture commerciali e ricettive, oltre a una clinica sanitaria. Dal punto di vista dell’impatto sul territorio non credo che sarebbe un disastro. Vedremo, ma senza pregiudizi».

Anche l’opposizione è incredula. Chi c’è davvero dietro il progetto-choc? Il maxi-grattacielo è arrivato negli uffici del Comune giusto un mesetto fa. Regolarmente protocollato. Nero su bianco, in attesa di via libera. La società che ha chiesto il permesso di costruire è una semplice Srl, la Smeraldo, che farebbe capo, assicurano in paese, a uno dei più importanti commercialisti della zona.

Secondo Fausto Perego del Pd (e a sua volta ex assessore in Comune) «meglio comunque le due maxi-torri che l’altro progetto che è uscito fuori negli ultimi mesi. E cioè la cosiddetta Milano 4 che l’immobiliare di famiglia del premier vorrebbe realizzare proprio qui ad Arcore».

«La maxi-torre— racconta ancora Perego — ha una forma triangolare, come una gigantesca punta protesa verso l’alto e con le superfici dei due lati un po’ bombate». I grattacieli in realtà sarebbero addirittura due. «A fianco del gigante, ne è previsto un altro un po’ più piccolo e dalla forma più convenzionale». Centoventi metri o su di lì.

«Milano 4, la Cascinazza, il Pgt di Monza: è chiaro che la Brianza è ormai al centro degli appetiti degli immobiliaristi», attacca Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd: «Non vorrei che Arcore dopo essere diventata la capitale politica del Paese diventasse ora la capitale del cemento».

FAVORI E DEROGHE PER I PALAZZI

IN MANOVRA ANCHE IL CONDONO

Ci provano ancora: senza tregua. Mentre sul Paese si abbatte una cura da cavallo che produrrà più povertà, il centrodestra in Senato continua a proporre favori ai furbetti e deroghe per i Palazzi. Anzi, il Palazzo: la sede del governo.

CONDONO

Avevano detto a telecamere e microfoni che il condono edilizio è fuori dalle proposte. Sbagliato. Tra gli emendamenti presentati, uno è stato ritirato, ma la «manina» si è fermata qui: ce n’è un altro che resta tra le proposte da esaminare. Se possibile questa versione è anche peggiore di quella precedente. Il testo, infatti, prevede che quando un immobile viene acquisito al patrimonio comunale (come avviene quando si decide l’abbattimento), questo entri a far parte del patrimonio disponibile (cioè vendibile) e quindi messo all’asta. «Il responsabile dell’abuso - si legge nel testo (emendamento 19.43) - ha il diritto di prelazione sull’acquisto dell’immobile pagando il prezzo finale determinato dall’asta». Come dire: un condono con asta incorporata. Un vero inedito, che il solito senatore Paolo Tancredi (a sua firma anche il condono già ritirato) ha pensato bene di mantenere tra le proposte presentate. «Il senatore, quatto quatto, reintroduce il condono mascherato.

Bonaiuti parli», attacca il responsabile infrastrutture del Pd Matteo Mauri. «È un indecente giochetto del centro destra che il governo farebbe bene a stoppare una volta per tutte», aggiunge Ermete Realacci. Il senatore abruzzese si difende: non è un condono, e oltretutto verrà ritirato. Strano che la rassicurazione arriva soltanto dopo che l’opposizione ha sollevato il caso.

SPESE PAZZE

Per uno stop che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) arrivare, una coltre di silenzio è stata tesa su altre proposte, in parte accantonate,ma ancora a rischio di votazione. Come quelle all’articolo 6, dal titolo «riduzione dei costi degli apparati amministrativi». La norma tagliuzza una serie di voci, tra cui le consulenze e le collaborazioni. Sacrosanto, verrebbe da dire. Salvo scoprire che poi in Senato sono spuntate varie proposte di deroghe.

Si taglia dappertutto, meno che «ai convegni ed eventi di carattere ed interesse nazionale che saranno indicati dal dipartimento Informazione ed Editoria della Presidenza del Consiglio dei Ministri». Un sistema simile ai grandi eventi della protezione civile, utilizzato però per la convegnistica stavolta da Paolo Bonaiuti. Insomma, gli insegnanti devono rinunciare agli scatti, gli alti dirigenti devono ricevere il Tfr a rate, gli ispettori devono rinunciare all’automobile, ma ai convegni del Dipartimento di Bonaiuti non si impone alcun «paletto». Non solo si possono organizzare convegni spendendo quanto si vuole, ma si può anche partecipare a convegni di altri, basta che dia l’ok il solito dipartimento per l’Editoria. Una pacchia. Prima firmataria delle proposte la senatrice Pdl Anna Cinzia Bonfrisco.

Bocciata invece dalla commissione la proposta del senatore Pd Giovanni Legnini che chiedeva di sottoporre a procedure concorrenziali di evidenza pubblica le consulenze di importo superiore a 5mila euro. Tanto per far capire chi vuole fare la lotta agli sprechi. Ma la vera chicca all’articolo 6 è sempre a firma di Tancredi, l’uomo dei condoni. I limiti di spesa per consulenze e convegnistica non si applicano ai convegni organizzati «dal fondo edifici di culto». Libera chiesa e libero convegno.

REGIONI-GOVERNO: È SCONTRO SUI TAGLI

GOVERNATORI: PRONTI A RINUNCIARE AI POTERI

È rottura. Il governo insiste sui tagli alle Regioni, e i governatori si dichiarano pronti a restituire le competenze che non vengono finanziate, a cominciare dal trasporto pubblico locale. Insomma, la manovra per ora riesce a cancellare anche quelle tracce di federalismo che già ci sono. Figuriamoci quello che si sta costruendo. Gli amministratori locali riconsegnano le chiavi delle loro «casseforti» a Roma, e dicono chiaro e tondo: pensateci voi ai servizi, all’ambiente, alle emergenze, al welfare. Il fatto è che le Regioni non ci stanno a «sparare sul popolo»,come ha detto il presidente Vasco Errani, per colpa del Tesoro. Che Giulio Tremonti si prenda le sue responsabilità e risponda ai cittadini.

Lo scontro è frontale, e i governatori Si muovono compatti. Nessuna defezione, neanche dai due leghisti di Piemonte e Veneto. «Il ministero del Tesoro è convinto di poter gestire meglio delle Regioni? Bene, lo faccia», commenta ironico Roberto Formigoni. Al fronte anche i fedelissimi del premier come il sardo Ugo Cappellacci, oltre naturalmente tutti gli amministratori delle opposizioni. Insomma, «il governo cerca di dividerci», ammette qualcuno, mafinora non ci è riuscito. «Un comportamento irresponsabile da parte del governo»,commentadall’opposizione Pier Luigi Bersani.

FRONTE COMUNE

L’obiettivo dei governatori è di allargare il fronte anche a Comuni e Province, per trattare da una posizione di forza con l’esecutivo. Sergio Chiamparino si è detto pronto a un incontro a breve. Per ora dal governo non sono giunte risposte sulla convocazione della riunione straordinaria della conferenza Stato-Regioni in cui i governatori restituiranno le funzioni. È possibile che si trovi un compromesso prima di arrivare allo show-down. Sta di fatto che un clima tanto teso non si era mai registrato prima d’ora. I governatori hanno chiesto un incontro al premier e ai presidenti di camera e Senato. Il Capo dello Stato sarà informato.

Nel frattempo i lavori in commissione Bilancio in Senato procedono a rilento. È possibile che nel fine settimana si lavorerà al compromesso politico, e solo nella prossima settimana arriverà il maxiemendamento del governo.

MATERIE

Le materie su cui le Regioni fanno un passo indietro sono quelle assegnate dalla cosiddetta riforma Bassanini, cioè «trasporto pubblico locale, mercato del lavoro, polizia, incentivi alle imprese, protezione civile, demanio, energia, invalidi, opere pubbliche, agricoltura, viabilità e ambiente.Unaserie di funzioni «che costano 3.1 miliardi di euro mentre il taglio previsto nel solo 2010 è di 4 miliardi», spiega il presidente Errani. Le Regioni chiedono anche che venga «istituita immediatamente» una commissione straordinaria per valutare spese, funzionamento e costi di gestione «dunque anche gli sprechi», ha proseguito Errani, fra governo e Autonomie. «Noi vogliamo fare fino in fondo la nostra parte - ha ribadito il presidente della conferenza - sia per la manovra che per la lotta agli sprechi e verificare i reciproci comportamenti virtuosi».Ed è stato dato mandato alla struttura tecnica della conferenza di costruire una maglia per verificare le diverse azioni che le singole regioni portano avanti «e avere una visione coerente, in questo modo, delle politiche » delle autonomie.

Quanto al federalismo, «siamo per la piena applicazione» , ha insistito Errani. «Vogliamo partecipare alla discussione sulla elaborazione dei costi standard - ha aggiunto Errani - noi li abbiamo elaborati e proposti,ma non può essere ridotto il Fondosanitario nazionale: siamo tra i Paesi che spendono meno in salute».

la Repubblica

Stanca lascia, per l’Expo incubo fallimento

di Alessia Gallione



MILANO - Expo prova a voltare pagina. E, dopo 27 mesi dalla vittoria di Parigi che decretò il trionfo di Milano sulla città turca Smirne, tenta di uscire dalla pericolosa paralisi. Ma nel giorno delle dimissioni dell’amministratore delegato Lucio Stanca, l’uomo voluto da Silvio Berlusconi alla guida dell’evento che abbandona l’incarico dopo un anno di polemiche e scontri all’interno del centrodestra, torna l’allarme sui finanziamenti che dovranno mettere le gambe al progetto del 2015. Perché il problema rimane sempre lo stesso: la mancanza di certezza sui fondi. Una preoccupazione espressa anche dal consiglio di amministrazione della società di gestione, che ha rimandato la discussione sui tagli al budget del 2010: impossibile fare previsioni senza sicurezze per il futuro. E, soprattutto, con un articolo della manovra che riduce all’osso la capacità di spesa della spa. Ecco la presidente Diana Bracco: «Ci preoccupa il drastico contenimento dei costi che ci viene dalla manovra finanziaria». Per la fine di luglio è stata convocata un’assemblea che dovrà chiedere ai soci - se necessario - un’altra ricapitalizzazione. Ma adesso la grande paura di trovarsi di fronte a un fallimento si sta facendo concreta. Nessuno lo dice apertamente, ma tanti iniziano a temere che su Expo possa davvero calare il sipario.

È di nuovo bufera ai vertici. Un secondo divorzio che per Paolo Glisenti, il braccio destro del sindaco-commissario Letizia Moratti che fu costretto all’addio un anno fa, non sarà l’ultimo: «La situazione è ingestibile. Succederà ancora», dice. E il Pd parte all’attacco: «Il centrodestra sta dando uno spettacolo vergognoso che riguarda tutto il Paese - dicono la presidente del gruppo Anna Finocchiaro e i senatori Marilena Adamo e Luigi Vimercati - Tremonti riferisca in Senato prima dell’esame della manovra: il governo vuole ancora realizzare Expo? Ci sono i soldi promessi per le opere necessarie?».

Quando fu nominato il 9 aprile di un anno, sembrava che le guerre all’interno di Expo fossero finite e, dopo mesi di stallo, potesse partire la fase di realizzazione. Eppure anche Lucio Stanca, da manager «con ampie autonomie gestionali» si è ritrovato all’angolo. Quattordici mesi di liti e un rapporto sempre più difficile con lo stesso centrodestra che lo ha lasciato solo spingendolo all’addio. Stretto tra la crisi, gli scontri sempre più accesi all’interno della maggioranza e le polemiche sul suo doppio incarico (e doppio stipendio) come parlamentare e ad, alla fine ha lasciato. Le sue dimissioni - anche da consigliere - sono arrivare ieri mattina, prima che iniziasse il cda a cui non ha preso parte. Quattro pagine per ripercorrere i traguardi raggiungi - il dossier di registrazione al Bie di Parigi - e i motivi dell’addio. Dalle contestazioni arrivate dalla presidente Bracco e lette come «un’improvvisa e infondata contestazione del mio operato» fino all’articolo 54 della manovra con cui di fatto il governo lo ha commissariato: «In un contesto - dice - in cui recenti provvedimenti hanno limitato sostanzialmente i miei poteri e dall’altro lato rimangono insolute alcune questioni di fondo».

A spiegare il cambio è la Moratti, che ringrazia Stanca: «Ora si conclude una fase e se ne apre una nuova, più operativa». Per il post-Stanca ci si affida a un manager come Giuseppe Sala, il direttore generale del Comune. È lui l’amministratore delegato in pectore, anche se bisognerà aspettare almeno il prossimo cda convocato per il 20 luglio per sciogliere le riserve. Un mese che servirà a Sala anche per avere quelle rassicurazioni sulla solidità finanziaria necessarie per accettare l’incarico. Perché chiunque si troverà alla guida della macchina del 2015 si troverà ad affrontare anche una serie di nodi difficili da sciogliere.

Il budget complessivo era già stato ridotto di un miliardo (da 4 a 3) e anche i fondi stanziati dal governo rimangono bloccati: oltre 40 milioni di euro solo per i primi due anni di vita della spa. È già partito un piano di tagli che prevede anche licenziamenti del personale, ma a preoccupare è la manovra che limita al 4 per cento le spese per la società. «Poco», lo giudica Diana Bracco, che chiede di aumentarlo almeno al 7%. Prima di novembre, poi, Milano dovrà presentarsi al Bie per la registrazione ufficiale e, prima di allora, le aree di Rho-Pero dove sorgeranno i padiglioni dovranno essere acquisite. Ma quel milione di metri quadrati rimane di proprietà di Fondazione Fiera e Gruppo Cabassi. Regione Lombardia, Comune e Provincia dovrebbero acquistarli, ma la strada è ancora lunga. E le casse degli enti locali sempre più vuote.

E Prodi accusa: "Ora solo veleni dal trionfo su Smirne al disastro"

di Marco Marozzi

BOLOGNA - «Che figuraccia. Mamma mia, che disastro». Romano Prodi commenta il «disastro» dell’Expo di Milano subito dopo aver assistito al disastro della Nazionale di calcio. Le parole valgono doppio. «Che tristezza» dice il Professore nel suo studio di via Santo Stefano, nel cuore di Bologna, dove sta preparando le sue lezioni per l’università di Shanghai. Corso estivo, si parte domenica per la Cina.

Un altro clima lo attende. Da un Expo terremotato a Milano, a un Expo super decollato a Shangai. Eppure in Cina l’Italia ha mandato all’inaugurazione «solo» il ministro Stefania Prestigiacomo e a maggio a Roma all’insediamento del nuovo ambasciatore cinese, Ding Wei, non c’erano le cariche istituzionali italiane. «Ho sempre pensato che la Cina sarebbe stato presto una protagonista della politica e dell’economia mondiale. Questo mi è stato regolarmente rimproverato dagli attuali governanti. Quindi non mi stupisco rispetto a due episodi che rappresentano la continuazione di una linea passata e che riflettono la scarsa comprensione che essi hanno del ruolo della Cina nel mondo. Secondo una recente indagine della Bcc, l’Italia è tra i paesi occidentali quello che ha la percezione peggiore nei confronti della Cina».

Prodi parla di Cina per parlare di Italia. Di una «scarsa comprensione» che si risolve in un «disastro». E’ lontanissimo quel 31 marzo 2008 in cui Milano batté Smirne a Parigi 86 a 65. L’Expo 2015 sarebbe stato nella capitale lombarda, il sindaco Letizia Moratti si sperticò in lodi per Prodi, premier sconfitto e dimissionario che però fra i suoi ultimi atti si impegnò a fondo per l’Expo a Milano. Poi? «Attorno all’Expo è andata in scena una lite continua fra strutture di potere» ripete da tempo l’ex presidente del Consiglio. L’indice è puntato su tutti: Moratti, Formigoni, Lega, Pdl, liti «su tutto» nel governo.

«Milano - ricorda l’ex premier - la spuntò su Smirne grazie a un grande gioco di squadra del sistema-Italia che poi è saltato». Letizia Moratti un anno dopo la vittoria, sempre a Parigi, annunciò che Prodi, D’Alema, Al Gore, altri grandi nomi sarebbero stati nel Comitato d’onore dell’Expo. Con la benedizione di Berlusconi. «Veramente, pensavo di esserci già da almeno un anno, dal 2008» ride Prodi. «Invece dopo la vittoria non ho avuto più avuto notizie né alcun aggiornamento sui lavori».

«La questione non è mai stata il comitato d’onore, ma un percorso condiviso che consentisse di portare in porto un evento di tale portata» è il commento di Prodi. «Gli unici aggiornamenti sull’Expo di Milano li ho avuti recandomi all’estero per il mio lavoro. E non mi hanno fatto per niente piacere. Molti di quelli che a Parigi ci avevano dato il voto, mi chiedevano preoccupati che cosa stesse succedendo, come mai la macchina non si fosse ancora messa in moto. Verso di loro, io ed altri del mio governo ci eravamo spesi in prima persona». E i turchi? «Lasciamo perdere i loro commenti».

E adesso cosa si augura? «L’Expo riguarda l’interesse nazionale. Per questo, il mio augurio è che si raggiunga un’intesa. Non solo sugli aspetti immobiliari. Sui contenuti».

Il Corriere della Sera ed. Milano

L’addio di Stanca: «Mancata la fiducia»

di Elisabetta Soglio

Lucio Stanca non è più amministratore delegato di Expo e il Comune ha avviato le procedure per il bando che sostituirà il rappresentante del Comune nel cda. L’ad se ne va accusando la Bracco di aver leso la sua immagine e di aver sempre condiviso le scelte fatte nei 14 mesi precedenti. La Bracco non risponde, ma ammette il timore per i conti: «Ci preoccupa il drastico contenimento dei costi inserito nella manovra». In corsa per il dopo-Stanca resta il dg del Comune, Giuseppe Sala, che però ha posto condizioni ai soci e non si è ancora confrontato con i rappresentanti del Tesoro. Il dopo-Stanca è già cominciato. Il Comune ha avviato ieri le procedure per indire il bando, che ufficialmente dovrebbe essere aperto all’inizio della prossima settimana, per nominare il proprio rappresentante nel consiglio di amministrazione di Expo al posto di Lucio Stanca.

L’amministratore delegato uscente di Expo, infatti, non si è presentato ieri alla riunione del cda, facendo recapitare alla presidente Bracco una lettera di quattro pagine in cui ha motivato le sue «irrevocabili dimissioni» accolte dal consiglio di amministrazione. Dimissioni accolte dal cda: Stanca ha però incassato il plauso del presidente Roberto Formigoni, («Un gesto di grande dignità»), del sindaco Letizia Moratti («Ringraziamo Stanca per il lavoro importante che ha fatto. Ora si conclude una fase, se ne apre una nuova, una fase più operativa»), del presidente della Provincia, Guido Podestà («A lui il grazie mio personale per il significativo e determinante impegno profuso nei 14 mesi di attività per Expo»).

Come prevede lo statuto, i poteri vengono così trasferiti allo stesso cda, in attesa che la governance venga definita. La presidente Diana Bracco, che ha scelto di stare lontana dalla polemica con Stanca, ha garantito che «entro l’estate» il cda verrà completato. L’ipotesi che continua a circolare, e che era stata discussa anche dai vertici del Pdl milanese e lombardo, è quella di nominare un direttore generale cui delegare tutti i poteri dell’ad e di scegliere un manager. Il nome che circola è quello dell’attuale dg del Comune, Giuseppe Sala, che però ha già chiarito ai soci pubblici che lo hanno interpellato le sue condizioni, di autonomia e possibilità di manovra. Amonte, però, non risulta che Sala abbia ancora avuto un contatto con il rappresentante più importante della società che gestisce Expo, cioè il governo: e pare che questo passaggio sia imprescindibile anche in vista di una eventuale accettazione dell’incarico.

Al sindaco Letizia Moratti si aprirà poi il problema della successione di sala in una fase decisamente delicata visto che la campagna elettorale è di fatto cominciata e bisogna tirare le somme del lavoro svolto in questa legislatura. Proprio per evitare scossoni, il sindaco potrebbe decidere di affidarsi a uno dei due attuali vice di Sala, l’ingegner Antonio Acerbo che lavora in Comune fin dai tempi della giunta Albertini e che, tra l’altro, aveva gestito con il vicesindaco la ristrutturazione della Scala.

Torniamo ad Expo. La presidente Bracco ha ammesso al termine di cinque ore di cda la «grande preoccupazione per le implicazioni della manovra finanziaria che ha un articolo, il 54, dedicato all'Expo e ci preoccupa il drastico contenimento dei costi». C’è poi il problema del 4 per cento imposto dal governo come percentuale massima di finanziamenti, utilizzabile per le spese correnti. «Come azienda industriale, se fai il 7 per cento sei bravo. Ma questa è una impresa diversa e il 4 per cento è francamente poco», ha aggiunto la Bracco.

Ancora più schietto Leonardo Carioni, nel cda in rappresentanza del Tesoro: «I problemi di oggi riguardano i terreni e soprattutto i bilanci perché i soci, ad esclusione di Tremonti e Formigoni, hanno più volte fatto sapere di non avere i soldi sufficienti » . Gil risponde Matteo Mauri, responsabile nazionale pd di Expo: «Leonardo Carioni, con la schiettezza che gli è solita, alza il velo di ipocrisia che da sempre avvolge Expo. I soldi non ci sono, le aree nemmeno e le idee sono poche e confuse».

Il nuovo cosiddetto Piano di governo del territorio che la Giunta Moratti vorrebbe fare approvare e sulla discussione del quale, per ora, il Consiglio comunale è arenato, è la quintessenza del piano - non piano.

Non solo perché consente quantità assurde di nuovi volumi edilizi, che basterebbero per cinquanta o cento anni di futuro sviluppo edilizio ( sempreché la domanda si mantenga), perché non programma niente in termini di mix tra funzioni economiche e residenza, lasciando che il mercato faccia di volta in volta, con buona pace dell’efficienza e della vivibilità dei nuovi futuri insediamenti, o perché da un colpo al cerchio del trasporto pubblico disegnando ( sulla carta) un profluvio di nuove linee e un colpo alla botte promuovendo il nuovo tunnel automobilistico Rho - Linate.

E’ la quintessenza del non- piano per unaragione assai più profonda e radicale.

Undici anni fa un collega del Politecnico inaugurava la nuova fase dell’urbanistica milanese “self - service”, quella dei Piani integrati di intervento, sulla base di una precisa ipotesi di lavoro: che il problema centrale della città fosse quello di fluidificare il mercato immobiliare, di eliminare cioè lacci e lacciuoli per gli operatori immobiliari, nella convinzione che, tagliato questo nodo, la macchina della crescita economica e sociale della “Grande Milano” sarebbe ripartita da sola a pieno regime. In buona sostanza l’attuale PGT non fa che assumere ed amplificare al massimo questa ipotesi strategica fino al punto da travolgere, in omaggio ad essa , le ultime residue garanzie ( gli standard urbanistici, il parco sud ed altro ancora).

In questo modo il Comune ripete, sia pure in tutt’altri termini, un errore di miopia strategica analogo a quello commesso all’epoca della formazione del Piano regolatore attuale.

Allora, tra il 1976 e il 1980, dunque dopo la crisi petrolifera che pure avrebbe dovuto essere chiaro preannuncio della imminente crisi della vecchia industria europea, il “nuovo” PRG si cullava ancora nella mitologia industrialista, senza curarsi di affrontare il nodo vero, del riuso razionale e sistematico del patrimonio di aree industriali ormai condannate.

Oggi, con il mercato immobiliare in evidente crisi , con una competizione economica internazionale sempre più dura tra sistemi paese e sistemi città e con uno stato finanziariamente sempre più povero, il nuovo PGT continua a baloccarsi nella vecchia e cuccagnosa idea del mattone motore universale.

Trascurando con ciò tutti i nodi veri.

Qualche esempio dei nodi veri.

Non si può più vivere in un’area metropolitana senza progetto di sistema, con centinaia di Comuni costretti a improvvisare ciascuno la sua musica, con una moltiplicazione delle spese e dello sciupio di territorio, e con la parallela, drammatica carenza dei servizi di natura intercomunale, a partire da quelli del trasporto pubblico.

Non si può lasciare sostanzialmente intatto il nodo delle grandi inefficienze del sistema infrastrutturale ( l’energia, gli aeroporti, il trasporto delle merci) e sperare che la macchina economica continui lo stesso a girare felice.

Non si possono nemmeno lasciare languire o morire i pochi progetti di rilancio dei fattori di competitività urbana ( la biblioteca europea, il sistema museale, una attenzione specifica, che non è mai esistita, sul potenziale rappresentato dalle strutture dell’università e della ricerca.)

E infine, e soprattutto, non si può non vedere che la qualità e la vivibilità urbana sono considerate, oramai a livello mondiale e non solo europeo, uno dei fattori importanti per la cattura di quelle funzioni rare che, sole, possono garantire la sopravvivenza di qualche vantaggio per le nostre economie in crescente difficoltà. Per garantire ciò il mattone deve essere a servizio della qualità, e non viceversa.

Nel PGT presentato l’impostazione è l’esatto opposto. Non si tratta dunque di emendarlo, nella speranza di ottenere qualche sconto: per il bene della città va rifatto, per riempirlo dei contenuti che mancano e per capovolgerne la logica ispiratrice.

L´Aquila, con il disagio e la protesta dei suoi cittadini, ci parla in molti modi dell´Italia. Ci ripropone la sensazione che sempre avvertiamo dopo la catastrofe, materiale e culturale, di un terremoto: la sensazione cioè che ogni volta sia la nazione nel suo insieme a doversi rialzare, a dover ritrovare ragioni e speranze per il proprio futuro. Lo avvertivo nel 1976 friulano, nei luoghi in cui sono cresciuto, e lo avverto ora nell´ Abruzzo in cui insegno da molti anni. L´Aquila ci parla anche di un paese incapace di far tesoro delle esperienze del passato. E ci costringe a interrogarci sul nostro presente: è la storia d´Italia che ci viene incontro quando ricordiamo la valanga d´acqua del Vajont, il 1968 del Belice, il 1976 del Friuli, il 1980 della Campania o l´Abruzzo di oggi.

Si pensi al Vajont del 1963, che mostrava all´Italia del "miracolo economico" la tenace sopravvivenza di una povertà arcaica, di donne vestite di nero, di gerle che portavano in salvo i residui di una miseria antica. E si pensi all´inadeguato esito del processo ai responsabili, frutto di una giustizia ancora debole e incerta di fronte ai potenti. La prima fotografia scattata a L´Aquila che ricordo d´aver visto è della fine degli anni Sessanta, la pubblicarono tutti i giornali: ritraeva le donne del Vajont scese in Abruzzo per assistere a quel processo.

Vi è poi il 1968 del Belice, che è anche l´anno di Avola, nella stessa Sicilia: un´Italia in cui i braccianti potevano ancora morire sotto il piombo della polizia battendosi per diritti elementari. In quell´anno una giovane generazione iniziò a chiedere l´"impossibile": si dimostrò impossibile anche dare risposte adeguate a quei diritti e a quei bisogni. E il Belice divenne il simbolo di un amarissimo, doloroso e umiliante fallimento nazionale.

Si pensi anche al 1976 del Friuli, molto evocato ma poco conosciuto nella sua articolata realtà. Ci racconta molte cose, quel Friuli. Ci parla in primo luogo del clima del tempo, di una "democrazia dal basso" che si sviluppò prepotentemente in un Paese segnato da una grande sensibilità civile e da una forte speranza di cambiamento, presto delusa. Ci parla del concreto operare di persone e di istituzioni, di legislatori nazionali e di amministratori locali, a contatto diretto – non senza conflitti, talora – con gli amministrati, con i paesi e le culture ferite dal trauma. E ci parla anche del prezioso ruolo svolto allora dalla Chiesa friulana, dai suoi sacerdoti e dal suo vescovo. Un momento irripetibile, forse, e quattro anni dopo l´Irpinia sembrò collocarsi in un´altra epoca. Illuminò di luce cruda i mutamenti in corso sia nel Paese che nel Palazzo. In un primo momento i ruoli sembrarono quasi rovesciarsi: poche ore dopo il sisma è Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, a irrompere dal video nelle case degli italiani e a denunciare i rischi di un "altro Belice". A chiamare in causa responsabilità di singoli e di parti politiche. Quelle immagini televisive ci appaiono oggi la nobile e terribile testimonianza di un´impotenza. A nulla varrà quell´irrituale appello, che attirò al Presidente anche veementi critiche. In Irpinia fu molto peggio che nel Belice. La ricostruzione delle aree colpite – e di quelle non colpite, poiché l´area si dilatò a dismisura e lo sperpero si protrasse nel nulla – moltiplicò inefficienze, corruzione, sprechi, dilapidazioni di denaro pubblico. Alimentò o consolidò intrecci perversi fra poteri legali e illegali. E la grande solidarietà per l´Irpinia fu l´ultimo grande momento di mobilitazione nazionale per il Sud, prima dell´innescarsi di derive e umori che la Lega porterà agli estremi: nei primi anni Ottanta deliranti scritte antimeridionali inizieranno a comparire sui cavalcavia veneti o sui muri lombardi.

Che Paese ci ha mostrato, infine, il dramma di oggi, il dramma dell´Abruzzo? In primo luogo un Paese irresponsabilmente smemorato: il decisionismo di vertice e l´esautorazione della popolazione che sono state imposte a L´Aquila sono l´esatto contrario di quell´intreccio fra partecipazione e decentramento che fu la chiave vera della rinascita friulana (e contraddicono anche la positiva esperienza delle Marche e dell´Umbria, nel 1997). Hanno sottratto alla discussione e alla decisione della comunità colpita e dell´intero Paese non solo le misure della primissima fase ma anche quelle riguardanti il futuro della città, ancora circondato da un´incertezza e da un´opacità che alimentano la sfiducia, se non lo sconforto. Negli ultimi anni, inoltre, l´azione generale della Protezione civile ha assunto progressivamente al proprio interno il perverso meccanismo che è stato alla base del disastro campano: l´estensione delle regole dell´emergenza – con l´indebolimento di controlli e vincoli – ad eventi che non hanno alcun rapporto con essa (con le conseguenze rivelate dalle intercettazioni telefoniche, che il governo vuole appunto abolire). La berlusconiana "politica del fare", presunto simbolo di innovazione, ha così riproposto in qualche modo i contorni più negativi della politica degli anni ottanta. Amplificati dalle promesse mirabolanti e dalle realtà virtuali fatte intravedere, favoriti anche da troppi "intervalli di silenzio" dell´informazione (di quella televisiva in modo particolare, con rarissime eccezioni).

Anche il Paese, infine, dovrebbe interrogarsi meglio su se stesso. Una nazione che non sente il bisogno di essere realmente e assiduamente vicina a una propria parte ferita rischia di smarrire, e forse sta già smarrendo, la propria ragion d´essere più profonda.

Postilla

Una esemplare, sintetica lezione di una storia dimenticata dell’Italia, attraverso il succedersi degli eventi catastrofici. Questo tipo di lettura andrebbe approfondito su spazi più ariosi delle colonne di un quotidiano. In tal caso si potrebbero approfondire le modalità delle esperienze positive (come quelle del Friuli e dell’Umbria) e a un’analisi più dettagliata ne apparirebbero altre (come quella del dopo-terremoto a Napoli, nei primi anni 80).

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