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Piccola storia nordista di abusi privati e pubbliche lentezze. Protagonista: Reitano Antonino, costruttore abusivo con vocazione d’assessore. Luogo: Desio, città della Brianza. Tempo: il nostro, con i politici, gli affaristi, gli avventurieri. Questa piccola storia comincia nel 1999, quando una pattuglia di vigili urbani – ma ora si chiamano polizia locale – vede un piccolo cantiere su un’area agricola. Qualcuno sta per costruire una villetta. Abusiva. Un cubo di cemento, da far invidia alle ville pastrufaziane tanto odiate da Carlo Emilio Gadda. Identificano il proprietario del manufatto in costruzione: Reitano Antonino, appunto, nato a Rosarno (Reggio Calabria) ma residente a Cusano Milanino, ridente paesone a ridosso di Milano. Comincia quel giorno una complessa procedura per fermare l’abuso. Al signor Reitano viene intimato di abbattere il manufatto. Lui non abbatte, anzi procede nella costruzione, fino a terminare la villetta. Nel 2004 i vigili tornano. Intimano ancora. Ma ci sono i ricorsi, le carte bollate, il Tar, l’ufficiale giudiziario, le perizie, le carte catastali, le delibere di giunta. E gli amici, e gli amici degli amici. Nel 2008 sembra cosa fatta. Anche se Reitano Antonino resta tranquillo nella sua casetta: “Ma cosa volete da me”, dice ai vigili, “il geometra mi ha detto di costruire, tanto poi arriva il condono”. Quale geometra, gli chiedono i vigili-poliziotti locali. “Il geometra Perri”, risponde serafico Antonino. Attenzione. Questo è un nome che pesa, in Brianza. Rosario Perri, detto “il cardinale nero”, per 40 anni è stato il ricercatissimo dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Desio. Potente più d’un sindaco, più d’un assessore. Molto amico dell’ex assessore regionale Massimo Ponzoni (oggi plurindagato) e punto di riferimento della composita comunità calabrese della Brianza. Ora Perri ha fatto il salto ed è diventato anche lui assessore, nella giunta Pdl della Provincia di Monza e Brianza. Pure i cardinali, però, a volte sbagliano le previsioni: il condono non è arrivato. E così la villetta abusiva resta abusiva. Nel 2009, però, questa storia ha un colpo di scena: Reitano Antonino, 63 anni, geometra, ex imprenditore, rimette in fila il suo nome e cognome, si presenta alle elezioni, fa la sua campagna elettorale e viene eletto in consiglio comunale nel paese dove ha la residenza, Cusano Milanino (a Desio non la può spostare, la residenza, perché la villetta a cubo resta abusiva). Sceglie il partito giusto, il Pdl. Vince le elezioni e lo fanno assessore. Quale assessorato, vi chiederete? Al Verde, naturalmente. Per competenza acquisita sul campo. Con delega “a parchi e riqualificazione aree verdi”. Commenta Giuseppe Civati, consigliere regionale del Pd: “L’abusivismo è, purtroppo per il territorio lombardo, un vizio di alcuni esponenti del Pdl, soprattutto di quelli che dalle loro cariche istituzionali dovrebbero occuparsi di tutelare l’ambiente. Adesso capiamo perché per tanti anni si sono chiamati Casa della libertà, e anche cosa s’intendeva per libertà”. La villetta abusiva dell’assessore al Verde, intanto, undici anni dopo, è ancora in piedi. È stata invece abbattuta una costruzione edificata senza permessi, lì vicino. Ma era una baracca di rom.

NELL´AULA DEL CONSIGLIO COMUNALE - quando non cade il numero legale dei presenti, come ieri - è l´argomento più caldo da settimane. Ma fuori dal portone di Palazzo Marino sembra che il Pgt non lo conosca nessuno. E che, in realtà, le grandi trasformazioni urbanistiche immaginate dal piano non piacciano a tanti.

Questo, almeno, è il risultato di un sondaggio commissionato all´Ispo dall´associazione civica ChiamaMilano: il 62 per cento degli intervistati non ha mai sentito parlare del Pgt, il 29 ammette di aver sentito "qualcosa" ma di sapere di cosa si tratta: totale, quasi il 90 per cento, nove milanesi su dieci, che ignorano il tema e solo uno che dice di aver seguito la (travagliata) vicenda del piano.

Tra i dati, presentati da Renato Mannheimer nella sede dell´associazione presieduta dal consigliere di opposizione Milly Moratti, anche quelli sul gradimento di uno dei fini del Pgt, l´aumento degli abitanti della città: l´80 per cento - soprattutto di anziani - non condivide l´obiettivo, e una percentuale simile non vuole uno skyline di grattacieli. Alla domanda sulla perequazione, il meccanismo per "scambiare" diritti di superficie in zone edificabili con aree del Parco Sud, il 68 per cento ha detto di non condividere il sistema.

Commenta Milly Moratti: «Bisogna informare i cittadini: è vero che il Pgt è complesso, ma è talmente innovatore che bisogna che la gente sappia. Con questi dati prendiamo atto che quella del Pgt non corrisponde alla visione dei cittadini, è ora che ci diamo da fare». Una posizione ribadita dal capogruppo del Pd Pierfrancesco Majorino: «Il sondaggio conferma le nostre preoccupazioni, i milanesi vogliono una città più verde e vivibile». Oggi si torna in aula (restano da esaminare ancora 200 emendamenti) dopo la seduta andata a vuoto. Polemico il presidente del consiglio comunale Palmeri: «Sarebbe auspicabile che su un provvedimento di rilevanza strategica il Consiglio lavorasse utilizzando tutte le ore previste».

Ogni giorno a Milano famiglie morose vengono sfrattate e aumenta la richiesta di edilizia convenzionata. Eppure c’è un complesso in via dei Missaglia, "Le Terrazze", dove da anni gli appartamenti restano sfitti: ora siamo a quota 54. La proprietà, una società del gruppo Ligresti, avrebbe dovuto affittarli a equo canone, secondo una convenzione stipulata con il Comune: ma l’accordo è stato quasi del tutto disatteso, tra le proteste inascoltate dell’opposizione e degli inquilini di un condominio sempre più fantasma.

Bilocali e quadrilocali a poche fermate di tram dal centro città. Edilizia da ceto medio, costruzioni dei primi anni Novanta con affitti cari la metà dei prezzi di mercato. In via dei Missaglia, nel quartiere "Le Terrazze", sono 54 gli appartamenti vuoti, sfitti da anni, che potrebbero andare a dare un po’ di sollievo alla richiesta continua e pressante di case a prezzi calmierati di Milano. Ma due fattori lo impediscono: da una parte una proprietà, la Immobiliare Milano assicurazioni del gruppo Ligresti, che ha tutto l’interesse a lasciare vuote case che aveva l’obbligo di affittare se non ad equo canone, almeno a un canone equo. Dall’altra, l’inerzia, la lentezza da pachiderma della macchina comunale: che, pur davanti a evidenti infrazioni, rimanda o non effettua controlli sull’edilizia convenzionata, facendo prosperare gli abusi.

In mezzo c’è l’amarezza di chi avrebbe i requisiti per affittare una casa dignitosa senza finire dagli strozzini e le preoccupazioni di chi vive nel complesso residenziale, con i problemi di sicurezza e di degrado che fioriscono quando poco meno di un appartamento su quattro è deserto.

Eppure "Le Terrazze", a metà anni Ottanta, erano un progetto ambizioso: far costruire residenze ai privati sui terreni agricoli tra via dei Missaglia e via Selvanesco abbuonando gli oneri di urbanizzazione in cambio dell’obbligo di affittare a equo canone per dodici anni i cinque sesti dei metri cubi costruiti. Un progetto mai realizzato in pieno: il gruppo del costruttore Salvatore Ligresti, lo stesso che ora coltiva sogni ambiziosi sul Parco Sud, costruisce effettivamente migliaia di abitazioni di diverse metrature, ma molte restano vuote per anni, senza un motivo apparente. Altre, tante altre, dopo qualche anno vengono sì affittate, ma a prezzi di mercato, ovvero quasi il doppio di quei canoni sociali previsti. Un abuso che ignora la convenzione stipulata, ma che il Comune non contesta mai davanti a un giudice, limitandosi a appoggiare la causa che oltre cento famiglie intentano alcuni anni fa. A gennaio 2009 il comitato di inquilini, rappresentati dall’avvocato Alessio Straniero, vince il ricorso contro l’Immobiliare lombarda della galassia Ligresti, che viene condannata ad applicare i parametri economici della convenzione e a restituire agli inquilini le somme pagate in eccesso (che viaggiano oltre i tre milioni).

È proprio nei giorni di quella battaglia che emerge l’altro aspetto della vicenda: tra via Tomaselli, via Bugatti, via Rosselli e via Fraschini - ovvero nel quadrilatero di una delle costruzioni che formano il complesso residenziale - sempre più appartamenti, man mano che gli inquilini vanno via, non vengono riaffittati. Molti, ormai, sono sfitti dal 2002. E il motivo, per chi conosce i segreti di quei palazzi, è semplice: si sta aspettando che scadano i dodici anni durante i quali secondo la convenzione con il Comune è obbligatorio l’affitto dei locali, per vendere gli appartamenti a prezzi di mercato. Lasciarli vuoti, alla fine, conviene, perché si usurano meno.

A novembre i consiglieri Aldo Ugliano del Pd e Basilio Rizzo della Lista Fo fanno un’interrogazione che chiede conto della situazione al sindaco e all’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli. «Perché nessun controllo è stato finora? Perché il Comune non interviene per garantire il rispetto degli obblighi?», chiedono. E denunciano «l’inerzia politica»: «Perché il Comune non utilizza azioni politiche oltre che giudiziarie per chiudere definitivamente il contenzioso con la proprietà?». Domande che cadono nel vuoto, tanto che un mese fa il consigliere Ugliano torna a scrivere all’assessore Masseroli (segnalando la mancata risposta alla presidenza del Consiglio) per sottolineare come «le decine di sfratti a Milano potrebbero essere almeno ridotte se il Comune facesse valere le sue ragioni». Invece gli uffici, quando va bene, fanno semplici solleciti che restano lettera morta per la proprietà del condominio. Dove nel frattempo, come segnalano gli inquilini, gli appartamenti vuoti aumentano di mese in mese.

Vista con gli occhi di un americano, Roma è un crocevia di follie, culturalmente parlando. Se poi lo straniero in questione è un giornalista e di quel che ha visto negli ultimi mesi fa un articolo, a tutta pagina nella sezione cultura del New York Times, forse è il momento di guardarsi allo specchio e preoccuparsi. "Mentre si modernizza, Roma lascia che il proprio passato lentamente si sbricioli". Ed è solo il titolo.

Giornalismo anglosassone: allinea dati ma non lesina colpi e spiega, per cominciare, che il Maxxi è fatto di «spazi tutti curve, magari sexy ma poco pratici, testimonianza di un gusto superato e in vari scorci sgraziato», che ha richiamato il mondo dell’arte per il vernissage e dato spunto al sindaco per esternazioni sulla Roma del XXI secolo. Insomma, Roma ci prova ma non ci riesce: sfortuna ha voluto che, in quelle stesse settimane un pezzo della Domus Aurea di Nerone sia crollata; tutti sapevano da sempre delle infiltrazioni ma si è aspettato il crollo senza fare nulla. Poi, poco dopo, i calcinacci giù dal Colosseo. Per di più - aggiunge ancora il NYT - una commissione, istituita da tempo per fare fronte a questi problemi «ha speso milioni senza evitare l’ultima sventura».

«I cambiamenti qui non sono mai facili», aggiunge Michael Kimmelman: l’intervento di Richard Meier ha fatto «strillare» i romani («inadeguato, sembra un mausoleo fascista») mentre l’Auditorium di Renzo Piano, insieme al cantiere di Fuksas per la Nuvola sono gli unici interventi "assolti". A ragione poi, si sottolinea il paradosso di «una nazione la cui identità e sopravvivenza fiscale poggia sulla cultura che investe solo lo 0,21% del proprio bilancio (dato in calo) in cultura». Ma il grido di dolore più straziante viene degli archeologi: «i politici non vedono nel patrimonio un ritorno che li incoraggi a ulteriori investimenti»: bisogna cominciare a ripensare le regole, a guardare avanti... Conclusione: «Questa è Roma: alcune cose sono eterne». Il sottosegretario Giro dichiara: «Un articolo pieno di lacune e fuorviante».

Trieste e Siracusa, due modi opposti di coniugare la tutela con lo sviluppo economico legato al mare. Soprattutto di intendere il rapporto tra istituzioni e associazioni ambientaliste. Per esempio Italia Nostra. Dice Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale dell’associazione: «Non abbiamo ideologie, non siamo contrari per principio a quegli interventi necessari per il nostro futuro. Ma ci opponiamo all’avidità e alla speculazione, al disprezzo dei vincoli. Che invece proteggono un bene collettivo, cioè il nostro patrimonio storico e paesaggistico».

Dunque, Trieste e Siracusa. A Trieste, tra pochi giorni, il complesso ottocentesco del Porto Vecchio verrà affidato a un nuovo concessionario (ancora da indicare) che non lo abbatterà, come si era immaginato fino a dieci anni fa, ma lo riqualificherà sul modello dello «Speicherstadt» di Amburgo, dove le strutture del vecchio porto sono state riutilizzate e dialogano con fantasia e creatività con interventi contemporanei di ottima qualità. Dice Antonella Caroli, ex segretario dell’autorità portuale di Trieste e ora impegnata in Italia Nostra: «Si voleva abbattere. Poi, grazie a noi, è arrivato il vincolo nel 2001. E ora gli imprenditori sono soddisfatti, ormai convinti della validità di un’operazione di riuso che porterà benefici senza distruggere».

Discorso diametralmente opposto per Siracusa, per quel secondo porto turistico che diventerà uno dei casi-simbolo della campagna 2010 di Italia Nostra sui Paesaggi Sensibili, quest’anno interamente dedicata alle coste. I fatti. A Siracusa sono a buon punto i lavori per il primo porto turistico, ratificato dal 18 gennaio 2007, proposto dalla società «Marina di Archimede Spa», progetto poi acquistato dalla Acqua Pia Antica Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone: 500 posti barca, negozi, ristorante, caffetteria, centro benessere. Italia Nostra ha avuto le sue perplessità ma ormai lo considera un dato acquisito. Ciò che invece allarma è il progetto del secondo porto turistico, estremamente a ridosso del primo, presentato nel novembre 2008 dalla società locale «Spero srl»: altri 350 posti barca, altri edifici, ulteriori 50.000 metri quadrati di interramento del mare, soprattutto un braccio particolarmente lungo proteso verso il largo.

Il progetto è ora sul tavolo del sindaco ed è sottoposto alla valutazione ambientale strategica e alla valutazione di incidenza. Il 13 luglio scadranno i termini entro i quali gli enti competenti potranno presentare osservazioni e perplessità per la valutazione ambientale, poi si passerà al gradino successivo.

Protesta Enzo Maiorca, siracusano, uomo-record dell’immersione in apnea: «Avrei da ridire anche sul primo porto ma capisco che non ci si può schierare sempre contro tutto e tutti. Invece sul secondo non se ne parla neppure. Mi pare solo sporco business. Siracusa meriterebbe maggior rispetto anche perché non è mai stata realizzata una vera campagna di esplorazione del fondo: qui, nel 412 avanti Cristo, Siracusa sconfisse Atene nella grandiosa battaglia navale. Lì sotto chissà quanti resti di navi si potrebbero trovare». Per questa ragione Alessandra Mottola Molfino ha pronto un esposto all’Unesco, visto che dal 2005 Siracusa fa parte della lista dei bei considerati Patrimonio culturale dell’umanità: «Quel secondo porto sembra fatto apposta per far attraccare le navi da crociera da centinaia di passeggeri. Un turismo mordi e fuggi che non porta ricchezza ma allontana quello pregiato».

Gli ambientalisti locali sono in fermento. Lucia Acerra, presidente di Italia Nostra-Siracusa: «L’impatto di questa seconda struttura portuale altererà irrimediabilmente l’armonica linea del bacino portuale. Ricordo che sul porto c’è il vincolo paesaggistico del 1988». Un vincolo studiato ai tempi dal funzionario della soprintendenza architetto Antonio Pavone e poi firmato dall’allora soprintendente Giuseppe Voza, creatore del museo archeologico cittadino «Paolo Orsi». Il quale assicura: «Nessuno vuole musealizzare Siracusa né bloccare uno sviluppo intelligente capace di confrontarsi col nostro retaggio culturale. Ma non siamo Singapore, non c’è bisogno di due porti turistici». Aggiunge Amedeo Tullia, anche lui archeologo: «Quell’opera altererebbe sostanzialmente l’aspetto storico del porto e lo renderebbe illeggibile. Per non dire del contraccolpo sulle correnti marine e sulla stessa pesca».

Il progetto del secondo porto ha impensierito anche i responsabili del primo del Gruppo Acqua Pia Antica Marcia, che tengono a precisare di aver «sempre manifestato la più ampia apertura sul progetto della Spero a condizione che non vengano lesi i diritti consolidati» del primo porto. Comunque le dimensioni e la collocazione del molo centrale di sopraflutto comprometterebbero l'accesso al primo porto turistico e la fruibilità dei servizi. Dice Oreste Braga, amministratore del settore portuale della Società di Caltagirone: «Abbiamo formulato alcune osservazioni alle autorità amministrative competenti e lo stesso Assessorato regionale Territorio e Ambiente ha ritenuto di dettare alcune prescrizioni la cui legittimità è stata confermata da una pronuncia cautelare del Tribunale amministrativo regionale di Catania».

Invece il sindaco Paolo Visentin, centrodestra, ribatte con decisione: «Il secondo porto turistico sta seguendo tutte le procedure ed è stato ammesso alla seconda fase delle valutazioni di legge. Navi da crociera? Italia Nostra sbaglia, quel porto ospiterà solo barche da diporto, i natanti più grandi attraccheranno al Porto Grande e non vedo alcuno scandalo, anche quel turismo serve. Capienza sovradimensionata? Il porto di Caltagirone ospiterà solo nautica di alta qualità, qui le condizioni saranno diverse». E l’impatto con la storia del porto? «Possiamo benissimo mummificare tutto. Ma a un prezzo sociale enorme. Noi dobbiamo portare turismo a Siracusa, trasformare il nostro patrimonio in occasione anche economica. Siracusa ha fame di occupazione, il porto può offrirne. Non vedo perché non si possa fare, nel pieno rispetto delle regole».

Postilla

Nel consueto stile cerchiobottista tipico del Corrierone, ed ancor più dell’articolista, la sacrosanta denuncia (ma l’ultima parola, come si noterà, è lasciata al sindaco cementificatore) del devastante progetto del secondo porto turistico a Siracusa, eclissa e anzi finisce per giustificare lo scempio che si sta per abbattere sul bacino portuale della città siciliana.

Il cosiddetto primo porto turistico in corso di costruzione ad opera della società di Francesco Bellavista Caltagirone è infatti altrettanto devastante di quello ora contestato: prevede l'interramento di un'area di grande importanza archeologica con annessa costruzione, sopra l'interramento, di alberghi del medesimo Caltagirone, oltre a dragaggi, moli ecc.

Il progetto fu approvato in spregio a vincoli e pronunciamenti (fra cui uno del consiglio regionale dei BBCC) nel silenzio quasi generale degli organi di tutela e delle associazioni ambientaliste. Il Soprintendente del Mare Sebastiano Tusa, potenziale oppositore, fu escluso illegittimamente dalla conferenza dei servizi e addirittura un provvidenziale provvedimento ad hoc tolse, per l’occasione, alla Soprintendenza del Mare, la competenza sui porti della Sicilia, per poi decadere: ma ormai il danno era fatto e la conferenza dei servizi aveva approvato il porto di Caltagirone.

L’avidità di speculatori e amministratori è però tale che i progetti sono raddoppiati, in nome del consueto paradigma, secondo il quale le risorse del nostro patrimonio culturale e paesaggistico vanno spremute a fini turistici quanto più possibile, anche se ciò, come inevitabilmente succederà anche in questo caso, ne provoca il degrado e la perdita in tempi sempre più accellerati.

La vicenda dei due porti di Siracusa, oltre a sottolineare ancora una volta l’insensatezza della frenesia cementificatoria che si sta abbattendo sulle nostre coste, evidenzia una preoccupante schizofrenia presente anche in chi dovrebbe tutelare e denunciare – senza distinzioni- chi sta deturpando, ad esclusivo scopo speculativo, uno dei porti storicamente più famosi di tutto il Mediterraneo.(m.p.g.)

Il nucleare è cosa buona e giusta. L’undicesimo comandamento suonerebbe così, secondo l’opuscolo dalmessianico titolo Energia per il futuro:quarantasette pagine di omeliaincondizionata a favore dell’energiadell’atomo, confezionate dallaMAB.q– agenzia che cura la comunicazionedell’Enel – e distribuite urbiet orbi in allegato con i periodici ufficialidi diverse diocesi italiane, daOristano a Trento, da Agrigento a Padova.

La benedizione atomica, si legge nell’opuscolo, arriverebbe proprio dal Pontefice il quale «ha auspicato l’uso pacifico della tecnologia nucleare ». Nessun dubbio: qualche riga più in là emerge ancora più netto l’orientamento della Chiesa, «la cui posizione ufficiale in materia è stata espressa dal cardinale Renato Raffaele Martino, presidente emerito del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace: “La Santa Sede è favorevole e sostiene l’uso pacifico dell’energia nucleare, mentre ne avversa l’utilizzo militare”».

Seguono quaranta e più pagine di spot cuciti addosso all’idea che l’atomo sia una scelta salvifica: pulita, sicura, poco costosa, capace di rinfilare l’Italia dentro i tetti fissati dal protocollo di Kyoto. Peccato che se e quando si metteranno in moto i reattori nucleari, l’Italia sarà già in ritardo per il rispetto degli accordi sul clima. Matant'è: quale sponsor migliore, per l’atomico made in Italy, di un viatico religioso? SCOPRI LO SPONSOR I giornali delle diocesi prendono le distanze dai contenuti: nonsono stati loro a redarre l’opuscolo, si sono limitati a ospitarlo come una pubblicità, anche se in nessuna pagina sta scritto che si tratta di un’inserzione a pagamento e men che meno da chi è finanziata. Per capire chi in realtà abbia firmato questa operazione di sdoganamento catto- nucleare, facendola passare per un’obiettiva e asettica informazione, bisogna scivolare fino all’ultima pagina.

Qui, nel retrocopertina, si scopre che a curare la pubblicazione è stata tale MAB.q, ermetica sigla dietro cui si nasconde l’agenzia di comunicazione di Egidio Maggioni, responsabile del Centro Tv Vaticana, che nel suo portafoglio clienti vanta un intero filone religioso – Radio Vaticana, Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport, Teleradio Padre Pio, Azione Cattolica, Comune di Lourdes – ma anche nomi di peso come Fondazione Cariplo, Regione Lazio ed Enel. Enel, appunto, che della torta nucleare si accaparrerà una fetta consistente: suoi quattro degli otto reattori che sorgeranno in Italia. L’Ente nazionale energia elettrica nell’opuscolo figura più o meno come una comparsa nei titoli di coda, sfuggente, pressoché invisibile: risulta aver messo a disposizione solo il suo archivio fotografico ed offerto la collaborazione di un suo esperto, ma è intuibile chi abbia ispirato il progetto, attraverso il suo braccio operativo Sviluppo Nucleare Italia. Ed è intuibile che MAB.q sia l’anello di congiunzione tra l’Enel e la Chiesa. Del resto, quando Radio Vaticana aprì le porte alla pubblicità, è stato proprio il gigante dell’energia elettrica l’inserzionista di punta.

Quanto abbia fruttato l’allegato ai periodici diocesaninon è dato sapere: alcuni di loro, di fronte alle proteste dei lettori, si sono affrettati a prendere il largo dai contenuti e a giustificare la scelta con le difficoltà economiche causate dall’abolizione delle tariffe postali agevolate per la stampa. Nessuna smentita o distinguo sono arrivati invece dal Vaticano, a cui non potrebbe essere sfuggita una strumentalizzazione, se di questo si trattasse, delle parole del Papa, a cui viene attribuita una netta posizione pro-nucleare. Singolare, e chissà quanto casuale, è poi notare che nella geografia scomposta della distribuzione del libretto compaiano alcuni fra i territori più accreditati per l’installazione delle centrali come Oristano, che si candida a ospitare un impianto nella piana di Cirras, e Agrigento, dove designato sarebbe il centro di Palma di Montechiaro. Qui, semmai dovessero sorgere, i reattori saranno avviati con tanto di aspersione dell’acqua santa.

Firmate la petizione di eddyburg.it IL TERRITORIO DEL NUCLEARE

Gli sos via sms dal deserto di Libia non fanno suonare le sirene d’allarme né a Palazzo Chigi né alla Farnesina. L’Italia della gente di buona volontà, l’Italia delle organizzazioni non governative rilancia le richieste d’aiuto disperate che arrivano dal centro di detenzione di Braq, vicino a Sebah, nel mezzo del Sahara, dove attualmente la temperature raggiungono i 50 gradi: lì, nudi da giorni, molti coperti del proprio sangue, pestati, feriti, 245 rifugiati eritrei, fra cui 18 donne e bambini, rischiano la vita, in condizioni di detenzione durissime, dopo essere stati trasferiti per punizione dal campo di Misurata. La vicenda è stata segnalata e seguita, in questi giorni, con particolare attenzione dell’Unità. Le voci da Braq sono frammentarie, ma tutte danno un quadro allucinante di maltrattamenti e precarietà: alcuni detenuti per la disperazione avrebbero tentato il suicidio bevendo acido.

Il Cir, il Consiglio italiano dei rifugiati, e altre sigle si fanno megafono dei disperati appelli all’intervento internazionale dei rifugiati eritrei, in particolare “dopo i maltrattamenti subiti negli ultimi giorni”. Ma dai palazzi del Potere, fedeli alla consegna dell’amicizia con il regime del dittatore libico Muhammar Gheddafi e rispettosi del principio di non ingerenza, non vengono echi. Intendiamoci, in casi come questi la discrezione può essere la scelta giusta: proprio il Cir dichiara di “avere motivo di pensare che il governo italiano si stia muovendo”, dopo una telefonata del ministro degli Esteri Franco Frattini al presidente del Cir Savino Pezzotta. E alla Farnesina non si esclude una presa di posizione europea.

Ma non c’è tempo da perdere. Amnesty International denuncia i pericoli cui i rifugiati eritrei andrebbero incontro se fossero ‘deportati’ in patria: “la tortura, la punizione riservata ai colpevoli di ‘tradimento’ e ‘diserzione’” e la vita. Per loro, la cosa più sicura sarebbe il trasferimento in Italia e un’accoglienza nel nostro Paese. Ma siamo ben lontani da una prospettiva del genere: da quando la Libia ha chiuso l’ufficio dell’Onu per i rifugiati a Tripoli, le prospettive di quanti vogliono fuggire a regimi repressivi o semplicemente alla povertà sono peggiorate.

Nell’immediato, le organizzazioni umanitarie chiedono di potere rendere visita al centro di Braq e di potere prestare cure di emergenza agli eritrei feriti e a quanti hanno contratto malattie infettive. Poi c’è la preoccupazione di evitare che siano rimpatriati, nel rispetto del principio internazionale del ‘non respingimento’ verso Paesi a rischio tortura e di maltrattamenti. Un’annunciata visita dell’ambasciata di Eritrea a Tripoli nel centro di Braq è considerata una minaccia di deportazione, o di rappresaglia contro le famiglie dei rifugiati rimaste in Eritrea: dei contatti diplomatici in corso danno notizia fonti dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni a Tripoli. Dal Parlamento, vengono richieste di spiegazioni al ministro Frattini e al ministro dell’interno Alberto Maroni, che, più della situazione in Libia, s’interessa del rischio d’immigrazione via Malpensa: “È la nuova Lampedusa”, dice, in base a uno studio secondo cui con 15mila euro si compra un passaggio aereo da un Paese extracomunitario a un grande scalo Ue – una cifra da capogiro, per i disperati delle carrette del mare’.

“Dobbiamo risolvere il dramma degli eritrei in Libia e dobbiamo anche evitare che casi del genere si ripetano”, afferma il senatore Pd Roberto Di GiovanPaolo. Sotto accusa è l’accordo con la Libia, fiore all’occhiello del Governo Berlusconi, perché riduce il flusso dei clandestini, a detrimento, però, dei principi umanitari. “L’intesa con Tripoli non funziona – denuncia Di Giovan Paolo-: quando venne firmata, perché non si parlò anche di diritti umani?”

La fase più tragica dell’odissea dei 245 rifugiati eritrei cominciò il 30 giugno: dopo un tentativo di fuga la sera prima, un centinaio di soldati e poliziotti libici, pesantemente armati, fecero irruzione nel centro di detenzione di Misurata. Dopo un pestaggio seguito dal ricovero di 14 detenuti, tutti i malcapitati furono caricati su due container e trasferiti con un viaggio blindato di 12 ore a Sabha. Lì, le condizioni di detenzione sono drammatiche: sovraffollamento, acqua e cibo insufficienti, servizi igienici inadeguati.

STORIE

A caro prezzo

Più è privata e più costa

di Andrea Palladino

La multinazionale romana Acea aumenterà le bollette fino al 20% per accontentare gli azionisti. E non anticiperà gli investimenti nelle zone in emergenza idrica. Ma, non avendo rispettato il contratto con i comuni della Provincia, dovrebbe pagare una penale di 20 milioni di euro. Che potrebbero servire a diminuire i costi per i cittadini. Ma i sindaci la salvano: rivedremo la regola

Il diavolo si nasconde nei dettagli, dice un vecchio detto. E a volte in una banale bolletta dell'acqua si può scoprire la più grande balla che viene raccontata da qualche anno a questa parte: la gestione privata e il mercato sono l'unica vera soluzione per salvare i nostri acquedotti.

Conviene partire dalla fine della storia, dalla fattura che arriva nelle case italiane. Più precisamente dei romani, la cui acqua è fornita da tempo immemorabile da Acea, società divenuta nel frattempo privata e primo gestore italiano.

Il prezzo è giusto?

La bolletta dell'acqua si basa su una variabile indipendente, vero totem della gestione privata: il ricavo garantito per il gestore. Poco importa se c'è la crisi, ad Acea - così come ad Hera o Iride, ad Acqualatina o alla calabrese Sorical - alla fine dei conti gli utili devono essere garantiti. L'esempio più classico di come il prezzo dell'acqua si basi sui diabolici meccanismi del ricavo garantito viene da Firenze, dove il sistema idrico è gestito da Publiacqua, società controllata da Acea Holding. Quando i fiorentini iniziarono a risparmiare l'acqua, la società chiese di aumentare il prezzo per compensare la flessione della vendita.

Qualcosa di simile accadrà a Roma. Dal primo gennaio 2011 la società romana potrà fatturare solo i metri cubi realmente erogati e non una cifra a forfait, un sistema che ha garantito finora un ricavo stabile e sicuro ad Acea. Un atto dovuto, visto che in questo senso la legge parla chiaramente. Ma facendo i conti la società si è accorta che avrebbe incassato meno di quanto dovuto ed ha chiesto di aumentare la tariffa, con un incremento che in alcuni casi potrebbe arrivare al 20%. Chi comanda sul tavolo alla fine sono i conti, gli utili e gli azionisti.

Se la qualità sparisce

Il prezzo dell'acqua nella capitale d'Italia ha però qualche dettaglio - decisamente significativo - in più. Il contratto che regola la gestione del servizio idrico - approvato dai consigli comunali di 74 comuni della provincia oltre che di Roma - prevede un sistema per garantire l'efficienza di Acea. C'è un parametro nel costo dell'acqua - chiamato Mall - che dovrebbe diminuire il ricavo riconosciuto ad Acea quando qualcosa non funziona. In sostanza ogni anno, secondo il contratto in vigore, il gestore deve presentare i dati sui reclami, sulle interruzioni del servizio, sulla riduzione dell'erogazione dell'acqua e su altri parametri che misurano la qualità. Alla fine - si legge sempre nel contratto - ne deriva un numero in grado di ridurre i soldi che verranno dalle bollette.

Dal 2003 - anno della convenzione con Acea - ad oggi questo parametro non è stato mai applicato. Il perché lo spiega un documento preparato dalla segreteria tecnica operativa dell'Ato 2 e distribuito ieri ai sindaci della provincia di Roma: «Fino ad ora nonostante le numerose richieste il gestore non ha integrato tutte le informazioni necessarie per il calcolo di tali parametri e risulta quindi impossibile, a meno di simulazioni, calcolare il valore reale del parametro Mall». E subito dopo l'organo tecnico che si occupa di vigilare sulla gestione di Acea prova a fare due conti: «Tale simulazione, se fosse confermata, comporterebbe una penale di circa 20 milioni di euro all'anno». In altre parole, se il contratto con Acea fosse stato rispettato e si fosse calcolato il parametro che misura la qualità del servizio, alle famiglie di Roma e provincia l'acqua sarebbe costata 20 milioni di euro in meno. Un cifra che potrebbe arrivare - secondo il calcolo teorico realizzato dai tecnici - a 160 milioni di euro, considerando il periodo dal 2003 al 2010. Cifre difficili da confermare, visto che fino ad oggi Acea non ha fornito tutti i dati richiesti e dovuti.

La risposta la società l'ha data ieri durante la conferenza dei sindaci dei comuni della provincia di Roma. «Quel parametro non ci piace», ha spiegato l'amministratore delegato di Acea Ato 2 Sandro Cecili. E subito è arrivato l'assist da chi avrebbe dovuto far rispettare quella regola: rivedremo il sistema, hanno spiegato dal tavolo della presidenza dell'Ato 2.

L'utile è sacro

Il presidente della provincia di Roma Nicola Zingaretti ha un ruolo importante nella gestione dell'acqua nella zona di Roma. Coordina l'autorità d'ambito e rappresenta i comuni nell'assemblea dei soci di Acea Ato 2. Non ha un gran potere in realtà, visto che Acea Holding ha in mano il 97% del pacchetto azionario, lasciando il resto diviso tra provincia e i 74 comuni gestiti. Sarà forse per questo che la sua proposta di anticipare gli investimenti nelle zone dove l'emergenza idrica dura da anni è caduta nel vuoto. Di fronte ad un utile milionario la provincia di Roma aveva chiesto che il 50% fosse utilizzato come anticipo di cassa per intervenire subito. Nessun regalo, ovviamente, perché quei soldi «Acea li avrebbe integralmente recuperati con la tariffa nei prossimi anni», come spiega l'assessore provinciale all'ambiente Michele Civita. Ma Acea Holding - che ha il controllo pressoché totale della società che gestisce l'acqua in provincia di Roma - ha risposto con un no secco: quei soldi vanno agli azionisti. In fin dei conti loro l'acqua la vendono, e a che prezzo.

ACQUA IN BOCCA

Quando speculazione edilizia ci cova

di An. Pal.

L'interesse dei palazzinari romani per Acea - primi fra tutti il gruppo Caltagirone, divenuto primo socio privato - non ha solo un valore speculativo, legato ad investimenti in un settore a ricavo garantito. Acqua e cemento sono in realtà strettamente legati. Nessun piano di espansione urbanistica può funzionare se dove arrivano i palazzi non dovessero esserci acquedotti e fognature. Sapere dove realizzare condomini, villette e lottizzazioni significa avere la certezza della presenza - più o meno futura - dell'acqua. E a volte è proprio su questo versante che giocano i gestori delle risorse idriche. Sta accadendo proprio in questi giorni ad Aprilia.

«Festa d'Aprilia» era il titolo che annunciava la scelta rivoluzionaria del comune in provincia di Latina. Il consiglio comunale a fine aprile aveva votato una delibera chiara e netta: Acqualatina deve restituirci gli impianti, visto che non abbiamo mai approvato la convenzione di gestione. La società privata partecipata da Veolia non rispose. È rimasta silenziosa, aspettando, come si dice, il cadavere del nemico scorrere sul fiume. Qualche giorno fa lo stesso sindaco che aveva promosso quella delibera, il socialista D'Alessio, ha garantito di voler cedere ad Acqualatina una nuova parte di fognatura. Il motivo di questa scelta è presto detta: senza quell'atto tanti costruttori non potranno avere l'abitabilità e vendere gli appartamenti appena realizzati. Senza acqua e senza fogne l'espansione edilizia non sarebbe possibile.

Qualcosa di analogo accade anche in provincia di Roma. Ci sono città nella zona a sud della capitale dove i depuratori servono solo la metà della popolazione. È il caso di Velletri, dove decine di cantieri sono stati realizzati in una zona con fogne a cielo aperto, senza collegamento alla depurazione. Quando chi comprerà quegli appartamenti andrà da Acea, si vedrà negare l'allaccio dell'acqua. E se il sindaco non vorrà trovarsi davanti alla porta i palazzinari infuriati dovrà contrattare con il gestore romano gli interventi.

Lo stesso - in scala maggiore - avviene con l'acqua potabile. Migliaia di persone si stanno spostando dalla capitale verso i Castelli romani, zona in eterna emergenza idrica e con la maggiore speculazione edilizia della regione Lazio. E le chiavi dell'acquedotto sono in mano ad Acea.

POLEMICA

Chiamparino, non privatizzare i servizi pubblici

di Ugo Mattei

Come ben noto è in corso una campagna referendaria volta alla ripubblicizzazione del servizio idrico integrato su tutto il territorio nazionale. Tale campagna chiama in modo chiaro e non ambiguo l'elettorato a pronunciarsi sull'inadeguatezza della società per azioni (anche a capitale interamente pubblico) e della logica privatistica ed aziendalistica che essa sottende nella gestione del servizio idrico integrato. Si chiede fra l' altro l'abrogazione completa dell'art 15 del cosiddetto decreto Ronchi. Il servizio idrico integrato è una specie del più ampio genere servizio pubblico, ed il decreto Ronchi infatti non riguarda il solo servizio idrico ma tutti i servizi pubblici di interesse economico. Ne segue che allo stato attuale si trova sotto esame referendario una parte cospicua della normativa ai sensi della quale sono messi a gara i servizi pubblici. I dati raccolti in tre anni di lavoro presso l'Accademia Nazionale dei Lincei e pubblicati nel volume "Invertire la rotta. Idee per una riforma della proprietà pubblica" (a cura di Mattei-Reviglio e Rodotà per il Mulino, 2007) mostrano come quasi vent'anni di privatizzazioni in Italia abbiano comportato dei fenomeni generali e costanti: aumento dei prezzi al consumo; declino negli investimenti; aumento del budget per la pubblicità; aumento degli stipendi dei managers; aumento delle spese per le parcelle di servizi professionali quali studi legali e consulenti vari.

La visione politica del movimento referendario (che ha raccolto ormai oltre un milione di firme) è quella di far rivivere in Italia le condizioni per una piena attuazione dell'art. 43 della Costituzione, quello che governa la riserva e il trasferimento di attività naturalmente monopolistiche (come il servizio idrico) o di primario interesse generale (e qui potrebbero aprirsi scenari entusiasmanti, dalla riconversione di Termini Imerese e Pomigliano ai trasporti urbani) a «comunità di utenti e di lavoratori».

Purtroppo la lettura della delibera comunale di Torino che vuole «mettere a gara» l'intero settore del trasporto pubblico urbano (Gtt) non senza avervi prima scorporato, con un' operazione di puro diritto societario, la metropolitana (servizio per sua natura in perdita e quindi assai meno appetibile per il privato) mostra l'arretratezza che ancora domina i principali partiti del centrosinistra. La logica che informa la delibera è infatti quella puramente aziendalistica (e privatistica) nel merito, nel metodo e (ancor più fastidiosamente) nella retorica. La clamorosa superficialità giuridico-politica dell'operazione è denunciata anche dall'Agenzia per i servizi pubblici locali del Comune di Torino (un organismo indipendente di consulenza giuridico-amministrativa) nel suo parere a proposito del proposto «contratto di servizio per l' erogazione dei servizi relativi alla mobilità urbana», redatto in esecuzione della delibera comunale. Il contratto infatti sembra un caso di scuola dell'incapacità per il «principale» (il Comune) di governare le «asimmetrie informative» che favoriranno l'«agente» (la società di diritto privato che gestirà la mobilità). Purtroppo i problemi tecnico-giuridici segnalati dall'Agenzia non sono rimediabili con meri cambi del testo contrattuale per il semplice fatto che le contingenze future in una materia tanto complessa quanto la mobilità urbana non sono prevedibili e governabili ex ante. Questo limite strutturale del diritto dei contratti a governare il rapporto fra principale ed agente è ormai arcinoto nella letteratura giuridica ed economica (che infatti sempre più spesso propone il trust).

Purtroppo nel nostro sistema istituzionale "tornare indietro" dopo una privatizzazione fallimentare è estremamente difficile. Infatti le garanzie contro l'espropriazione per pubblica utilità tutelano il privato contro il ritorno al pubblico. In sostanza a Torino un'amministrazione comunale in scadenza muove passi irreversibili verso la privatizzazione di un servizio pubblico essenziale quale il trasporto locale (che andrebbe governato con la stella polare dell'ecologismo e non certo dell'aziendalismo) proprio mentre è in corso un processo referendario volto a cancellare il presupposto fondamentale (legge Ronchi) che legittima quest'azione.

Mi pare ci sia più di una ragione giuridica, politica e di opportunità perché Chiamparino rinunci al suo proposito e perché, più in generale, la cittadinanza si attivi per impedire questi colpi di coda del grande saccheggio del pubblico a favore del privato: a Torino come altrove i sostenitori politici dell'aziendalismo stiano disperatamente tentando di battere sul tempo Corte Costituzionale e referendum.

Non ha avuto molto risalto sulla stampa la dichiarazione del sindaco di Arcore, Marco Rocchini di tre giorni fa. Ha affermato che visto che il suo comune –come tutti gli altri- è strozzato dal patto di stabilità e dai tagli alla finanza locale, ha dato l’assenso al cambio di destinazione d’uso a 30 ettari di terreni agricoli che ricadono nel parco del Lambro. Sopra quei terreni, l’immobiliare Idra della famiglia Berlusconi realizzerà 400 appartamenti, qualcosa come 1.200 nuove persone. Si chiamerà Milano 4, in onore e ricordo di Milano 2 e 3 dello stesso ideatore-benefattore, Silvio Berlusconi.

Facciamo un po’ di storia e di conti. Berlusconi acquista i terreni agricoli negli anni ’80 ed il loro valore di mercato all’epoca si aggira ragionevolmente intorno a 5 miliardi di lire. Con la variante che si vuole approvare si concedono 150 mila metri cubi di residenze: un valore immobiliare pari ad almeno 200 milioni di euro.

Certo ci sono dei trascurabili intoppi da superare. I terreni sono ancora classificati agricoli e occorre fare una variante “francobollo” che li renda edificabili. Che problema c’è? Le leggi ci sono e il sindaco è dello stesso partito del proprietario dei terreni, e questo aiuta. C’è poi la seccatura di dover togliere il vincolo del parco, ma anche qui non sembra ci siano ostacoli insormontabili: basta con i vincoli che bloccano lo sviluppo. Sono infatti favorevoli l’assessore all’urbanistica della provincia di Monza Antonino Brambilla, e il presidente del Parco Valle del Lambro.

Visto che l’incidenza dell’area sul costo delle abitazioni è pari al 15-20 % del totale, quei terreni pagati trent’anni fa 2,5 milioni di euro ne valgono oggi 30 – 40. Un bel colpo davvero!. Solo con la variante urbanistica si guadagnano 30 milioni. E poi dicono che il nostro presidente del Consiglio non sia bravo.

A questo punto la commedia degli inganni appare con i contorni più chiari, perché il sindaco Rocchini afferma che il comune beneficerà delle seguenti opere a totale carico del benefattore: restauro e sistemazione di villa Borromeo col suo parco, piste ciclabili, sottopassi per gli attraversamenti ferroviari, ristrutturazione della stazione ferroviaria della Buttafava, un centro per anziani e abitazioni da affittare a canoni agevolati. Il valore di queste contropartite, affermano le cronache, è pari a 20 milioni di euro, e cioè meno di quanto il privato guadagna solo con la variante, poi verrà il resto dell’affare.

Un vergognoso esempio di urbanistica contrattata e di conflitto di interessi, perché non si deve andare molto lontano per trovare chi toglie i finanziamenti ai comuni per realizzare opere pubbliche normali come la manutenzione delle stazioni o il restauro della villa Borromeo. E’ sempre lui, il presidente del Consiglio Berlusconi. Un fatto così non sarebbe accaduto in nessun paese della civile Europa: da noi si accetta ormai ogni nefandezza.

E per finire lo scandalo più grave. La recentissima proposta governativa di variazione dell’articolo 41 della nostra Costituzione contiene anche una proposta di cambiamento dell’articolo 118, quello che regolamenta l’attività urbanistica delle regioni e degli enti locali. La proposta è la seguente (comma 3): “In materia urbanistica lo Stato, le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge costituzionale provvedono anche ad adeguare le proprie normative in modo che le restrizioni del diritto di iniziativa economica siano limitate allo stretto necessario per salvaguardare altri valori costituzionali”.

L’Italia lasciata in mano alla più feroce speculazione edilizia, altro che libertà d’impresa. Questo è l’obiettivo del Partito delle libertà.

Scambiare una balla (di fieno) con un mattone. Primo, si prende l'ultimo polmone verde di Milano e gli si attribuisce un indice di edificabilità. Secondo, si trasferiscono in città i diritti a costruire appena creati, dando il colpo di grazia a una metropoli già soffocata. Perequazione, la chiamano, e in origine aveva un fine nobile: salvare le zone degradate e costruire altrove. Ma a Milano si sta votando un Piano di Governo del Territorio (Pgt) che, insieme con i progetti già approvati, riverserà sulla città 80 milioni di metri cubi di cemento. Case per 400 mila abitanti, quando, secondo lo stesso Comune, la popolazione da qui al 2030 aumenterà di sessantamila al massimo.

Ma ieri pomeriggio la società civile dell'ex Capitale morale non si è lasciata fiaccare dal caldo e si è ritrovata davanti a Palazzo Marino, la sede del Comune, dove si vota il nuovo strumento urbanistico. Una manifestazione con il sapore malinconico della testimonianza, perché la giunta di Letizia Moratti ha già deciso. Il Pgt è l'emblema di tante questioni irrisolte. Per dirla con Milly Moratti, consigliere comunale di opposizione, "il piano urbanistico è una prova di violenza del centrodestra che schiaccerà l'opposizione". Si va avanti come rulli compressori, il modello della "fiducia" di Montecitorio fa scuola. "Il Pgt – continua Moratti – segue un mosaico di richieste. Non dei cittadini, però, ma dei potenti". I nomi sono sulla bocca di tutti: Ligresti, con tutte le sue società in cui siede la famiglia La Russa. Poi i grandi del mattone e i nuovi principi dell'economia milanese: le cooperative, da Cl a quelle rosse.

NELLE GRANDI STORIE si parte da una vicenda minima: siamo nella periferia Sud, dove la città cede alla campagna. Qui ti ricordi che le radici di Milano non sono nelle fondamenta dei grattacieli che crescono ovunque, dal progetto City Life (doveva diventare "il Central Park di Milano" e si è trasformato in una colata) alla Porta Garibaldi. Alle sedi della nuova Regione che Formigoni vorrebbe lasciare come simbolo del suo passaggio. Milano affonda le radici nella Pianura: in piazza Duomo, come ricorda lo scrittore Luca Doninelli, "fino a pochi anni fa nelle notti d'estate arrivava il profumo del grano falciato". Oggi c'è solo puzza di smog, il Pm10 che ti avvelena.

Alle porte di Milano c'è la Cascina del Campazzo, oggetto di contesa tra due uomini: Andrea e Salvatore. Andrea, 58 anni, è il signor Falappi che da decenni con la sua famiglia coltiva la terra. Salvatore è Ligresti, 78 anni, l'uomo che a Milano ha costruito più di chiunque altro e oggi è proprietario della cascina. Ecco il paradosso: Ligresti è forse il più grande proprietario terriero del milanese. Verrebbe da gridare al miracolo, alla conversione sulla via di Binasco (comune dell'hinterland): dal mattone all'agricoltura. Non è così. Basta guardare le mappe: la provincia di Milano è un'enorme macchia grigia (in Lombardia il cemento si mangia ogni giorno dodici ettari di vegetazione), ma tra Milano e Pavia è sopravvissuto un polmone verde di 46.300 ettari. Eccolo, il Parco Sud. Così da anni i grandi immobiliaristi, Ligresti in testa, ci hanno puntato gli occhi sopra. Oggi forse la grande occasione è arrivata: il Pgt. E il paradosso, come racconta l'ambientalista Michele Sacerdoti, è che la manovra rischia di passare come un salvataggio. "La parolina magica – spiega Sacerdoti – è 'perequazione'. Si prende l'area vincolata del Parco, le si attribuiscono indici di edificabilità. Poi si proclama di voler salvare il verde trasferendo il diritto a costruire nella città che già scoppia". Basilio Rizzo, consigliere comunale nella lista per Dario Fo, sorride amaro: "In Comune dicono che si faranno ‘atterrare’ i nuovi volumi in città. Un capolavoro: Ligresti e colleghi potranno costruire milioni di metri cubi”.

MA È SOLO L'INIZIO: “Qui non si tratta soltanto di un'operazione immobiliare, ma anche finanziaria, che consentirà ai costruttori in difficoltà di rimettere in piedi i bilanci”, racconta Milly Moratti. Aggiunge: “I diritti di edificazione potranno infatti iscriversi in una ‘borsa’ apposita”. Si potrà costruire altrove oppure rivendere. Indifferente a chi, non importa se da anni l'Antimafia lancia allarmi.

Poi c'è la fetta per le cooperative. È certo un caso che l'assessore all'Urbanistica del Comune, Carlo Masseroli, sia un ciellino, e dallo stesso ambiente provenisse il predecessore, Maurizio Lupi (oggi vicepresidente della Camera). Ma che vantaggio avranno le cooperative? Sacerdoti non ha dubbi: "Si dice che il piano è utile anche per i meno abbienti, che il 35 per cento delle costruzioni sono destinate al social housing". E non è vero? "Solo il 5 per cento diventeranno vere case popolari. Un buon 20 per cento sarà affidato alle cooperative – bianche e rosse – che magari venderanno a prezzi ridotti, ma comunque a famiglie con un reddito fino a ottantamila euro l'anno. Non è edilizia popolare". Masseroli promette 3 milioni di metri quadrati di verde... "Basteranno appena per i nuovi abitanti, la quota pro capite resta bassa".

Non è finita. Il grande regalo alle cooperative è nel "Piano dei servizi", scuole, strutture sanitarie, tanto per dire. "Il documento si apre con una citazione di don Giussani", sostiene Sacerdoti. Ma in concreto che cosa succederà? "Il Comune rinuncia ai nuovi servizi che passeranno ai privati". Alle cooperative. Il nuovo Pgt andrebbe letto riga per riga. Così scopri che il Comune lascerà quasi carta bianca ai privati: “Spariranno le destinazioni d'uso”, conclude Sacerdoti, “E si potranno elevare i palazzi: addio all'antico divieto di costruire case più alte della larghezza della strada. No, gli edifici potranno alzarsi al livello del più alto nelle vicinanze”.

ORMAI GLI ALBERI a Milano non sono più di alti 30 piani, come diceva Celentano. Ne hanno 80. Intorno alla Madonnina "atterrerà" l'equivalente di 800 Pirelloni. Almeno, però, quello lo aveva disegnato Giò Ponti. Adesso ci pensa Arata Isozaki, che per City Life ha rifilato alla città un progetto già disegnato per Tokyo. Un buon simbolo della Milano di oggi, un grattacielo "usato".

Caro direttore, nel Comune di Milano si nasconde un incendiario molto più pericoloso di quel Nerone dell´Impero romano: si tratta della giunta terroristica milanese che, essendosi emancipata nel male, non usa il fuoco per distruggere. Le fiamme, pur se devastanti, una volta spente si estinguono senza lasciare traccia sull´autore dello scempio. E ciò risulterebbe deprimente per gli abitanti dell´inferno comunale che, non potendo dire quello scempio l´ho fatto io, hanno ben pensato di firmare i nuovi sfaceli con una colata di cemento che non avrà precedenti nella storia.

Pare che Milano abbia perso più di 700.000 abitanti negli ultimi anni (perché le condizioni di vita sono troppo costose, non adatte alle coppie giovani con bambini che crescono asmatici e allergici in una città inquinata oltre ogni norma, poverissima di verde e quel poco di bellezza rimasta ha già un piede nella fossa), perciò non si capisce la velleità del Comune di Milano (sindaco, giunta e consiglieri di maggioranza) di preventivarne il ritorno di circa mezzo milione, se non per soddisfare i bisogni degli investitori immobiliari, considerando inoltre che il tipo di costruzioni non sono alla portata della maggioranza delle persone che vivono di stipendio.

È così che coi lineamenti di Ligresti, la giunta ci mostra il suo nuovo spaventoso sembiante: con la scusa di salvare l´economia, il Comune ha deciso di rendere edificabile gran parte del Parco Sud. Ma non basta. L´inghippo è molto più diabolico. L´edificabilità del Parco Sud sarà virtuale. Ma cosa significa? Milano è stata così assassinata che forse sarebbe indecente e vergognoso da parte del Comune rendere edificabile ciò che, per gli spazi ormai ridotti all´impossibile, non potrebbe essere edificabile. Per cui urge una legge per continuare a distruggere. Ecco perché si è deciso di rendere edificabili milioni di metri cubi dividendoli in tanti mattoncini pari ad occupare gran parte del Parco Sud e metterli in banca come dei lingotti d´oro. Che a piacere se ne possono prelevare tanti quanti ne servono per la costruzione di un nuovo mostro, non necessariamente al Parco Sud, anche in Piazza del Duomo, visto che la legge lo permetterebbe.

L´ambigua banda comunale si difende col dire che il Parco Sud sarà sì edificabile ma rimarrà agricolo. Ma allora perché renderlo edificabile vi domanderete voi milanesi. Perché quando spunterà il nuovo "albero di 200 piani" in Piazza Castello e qualcuno dovesse reclamare, il Comune gli risponderà: «C´è un decreto che dice che noi possiamo lapidare Milano fino all´ultimo metro di edificabilità. E, siccome la cubatura a nostra disposizione, è grande come il Parco Sud, noi lapidiamo».

Inferno Libia. Il dramma dei respingimenti

Sms dal lager nel deserto:

di Umberto De Giovannangeli

Siamo profughi innocenti non fateci morire qui Disperato appello degli eritrei prigionieri nel carcere di Brak: «Rinchiusi in celle sotterranee, colpiti da malattie o torturati. Vi chiediamo accoglienza»

Voci dall’inferno. Un appello disperato, una angosciante richiesta di aiuto. Non ascoltar la significa essere complici dei carnefici. Poche righe che danno conto di una situazione drammatica. Quella dei 200 eritrei deportati nel lager di Brak, nel sud della Libia. «Signore, signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da malattie contagiose, la tortura è una prati ca comune e, quel che è peggio, sia mo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo soffrendo e morendo. Questi profughi innocenti stanno perdendo la speranza e rischiano la morte. Perché dovremmo morire nel deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove venivamo torturati e uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non voglia mo morire qui e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro. Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni umanitarie interessate».

L’Unità lo ha fatto. Inoltrandolo anche a chi ha l’autorità per poter intervenire sulle autorità libiche: il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi; il ministro dell’Interno, Roberto Maroni; il ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro», invocano i 200 segregati nel Sahara. Quel luogo può, deve essere l’Italia. Ne hanno il diritto, hanno i requisiti per ottenere l’asilo. L’alternativa è scritta in quella disperata richiesta di aiuto: «Stiamo soffrendo e morendo. Stiamo perdendo le speranze. Qui moriremo nel deserto. E a casa ci aspetta la tortura o la morte».

Chiedono aiuto. E di far conosce re la loro storia. L’Unità lo ha fatto, in solitario per alcuni giorni. Il messaggio è riuscito ad uscire dalle celle del centro di detenzione di Brak, 80 chilometri da Sebah, nel Sud della Libia, dove dal 30 giugno scorso si trovano oltre 200 eritrei deportati dal centro di detenzione per migranti di Misurata, nel quale sono rimasti una cinquantina di loro compagni di sventura, tra cui 13 donne e 7 bambini. Il gruppo era stato deportato su tre camion container come «punizione» a seguito di una rivolta scoppiata il giorno prima fra i detenuti che non hanno voluto dare le proprie generalità a diplomatici del loro Paese per paura di essere soggetti a un rimpatrio forzato. E per molti di loro rimpatrio equivale a una condanna a morte o, se va bene, ai lavori forzati.

A gestire le sorti dei 200 eritrei nel Centro di detenzione di Brak, che dipende da quello di Sebah, secondo quanto riferiscono fonti non governative locali, sono in questo momento i militari e non il normale circuito della polizia penitenziaria. Mentre nel carcere l'emergenza umanitaria si fa sempre più pressante sono in corso a Tripoli «incontri fra diplomatici eritrei e ufficiali governativi libii», riferiscono fonti dell'Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di Tripoli, «per arrivare a una soluzione che permetta ai reclusi di lasciare al più presto il carcere di Brak».

Quel sms interroga le nostre coscienze. Chiama alla mobilitazione. Pretende una risposta dai ministri Maroni e Frattini. Una risposta che tarda a venire. Come tarda la riapertura l’ufficio dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) in Libia. Tra quei 245 segregati in un lager, ci sono anche una parte degli eritrei respinti dalla Marina militare italiana nell'estate 2009. Intercettati sulla rotta di Lampedusa. E rispediti indietro. All’inferno. «I rifugiati sono sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche», ricorda in un comunicato il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). «Stiamo soffrendo e morendo..». Qualcuno li ascolterà?

Intervista a Amos Luzzatto

L’Olocausto «Noi ebrei abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il principio nefasto del non tocca a me»

di Natalia Lombardo

«Non giriamo la testa. L’indifferenza è un virus, lo dimostra la Shoah» - L’ex presidente degli ebrei italiani: «Giusto l’appello dell’Unità. L’immigrazione non è un fatto di ordine pubblico. Servono ponti e non Muri»

L’indifferenza. Il voltare la testa dall'altra parte “tanto non tocca a me...”, tutto questo noi ebrei lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle con la Shoah. L'indifferenza è un virus letale per la coscienza civile di un individuo, di una comunità, di un Paese. E lo è anche pensare che il tema dell'immigrazione sia in primo luogo un problema di ordine pubblico e non invece, come dovrebbe essere, un problema di soccorso pubblico; d'integrazione e non di respingimenti, di “ponti” da realizzare e non di “muri” da innalzare. Ed è per tutto ciò che trovo lodevole e condivisibile l'iniziativa assunta da l'Unità a favore dei 245 cittadini eritrei detenuti, in condizioni degradate e degradanti, in un carcere libico». Ad affermarlo è una delle figure più rappresentative dell'ebraismo italiano: Amos Luzzatto. «Occorre afferma l’ex presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppare una iniziativa che metta l’accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e al centro anche degli accordi internazionali che l’Italia sottoscrive». In questa battaglia di civiltà, rileva Luzzatto, un ruolo di primo piano devono averlo i media che «non sono solo espressione dell’opinione pubblica ma al tempo stesso la formano».

Duecentoquaranta esseri umani, tra i quali donne e bambini, sono da giorni detenuti in condizioni disperate, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, in un lager libico. Cosa c'è dietro l'indifferenza che circonda questa tragedia?

«C'è il principio, nefasto, che non tocca a me e quindi giro la testa dall'altra parte; un modo di pensare e di agire che ha avuto il suo peso ai tempi delle deportazioni della Shoah. È un clima, un atteggiamento che non sono ancora passati. L'indifferenza alimenta il pregiudizio e viceversa. Per questo ritengo che un appello all' opinione pubblica quale quello lanciato da l'Unità sia importante e doveroso sostenerlo, soprattutto se è vero che si tratta di persone che, almeno in parte, avrebbero diritto all' asilo politico».

L'indifferenza si rispecchia anche, tranne lodevoli eccezioni, anche sui media.

«Un fatto davvero preoccupante. I media, al tempo stesso, esprimono e formano l'opinione pubblica. Sottovalutare o addirittura tacere su eventi drammatici come questo non contribuisce certo a formare una coscienza civica più matura e aperta».

Questa indifferenza significa che i più deboli, gli indifesi, fanno meno notizia di altro e altri...

«Non si tratta solo dei più deboli. Si tratta di tutti coloro che non hanno influenza su quello che si ritiene essere l'interesse concreto e materiale del nostro Paese».

Ma non è nell'interesse del nostro Paese salvaguardare i diritti umani in Paesi, come la Libia, con cui l'Italia ha sottoscritto un Accordo di cooperazione?

«Sì, dovrebbe esserlo...».

Ma cosa lo impedisce?

«Due cose: la prima, inafferrabile, è la cultura con la quale si analizza e si reagisce alle notizie internazionali. Questa cultura generale, anch'essa in buona parte indotta, induce molto spesso all'indifferenza e ad una malintesa neutralità. C'è poi un secondo aspetto sul quale ho difficoltà a pronunciarmi...».

In cosa consiste questo aspetto?

«C'è da chiedersi fino a che punto la nostra politica estera presti attenzione a fatti come quello che l'Unità ha contribuito a far emergere».

La vicenda dei 245 cittadini eritrei riporta di attualità il tema dell'immigrazione. È pensabile poter affrontare e risolvere questo fenomeno solo in termini di ordine pubblico e di sicurezza?

«Direi proprio di no. E lo dico non sottovalutando affatto la questione della sicurezza. Il fenomeno dell'immigrazione non è prioritariamente un problema di ordine pubblico, ma di soccorso pubblico. Finché non si opera questo cambiamento profondo di angolo di giudizio, problemi come quello di cui stiamo parlando, si moltiplicheranno».

Solidarietà. E un termine che ha ancora un senso compiuto, reale, un suo diritto di cittadinanza in Italia?

«Io credo di sì, ma ritengo anche che non trovi ancora i canali più adeguati per esprimersi in maniera efficiente, incisiva. È un problema di canali di comunicazione e di iniziativa da costruire, mettendo l'accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e anche degli accordi internazionali che l'Italia sottoscrive».

«I media diano spazio al caso

Rischiamo un auto-bavaglio»

di Natalia Lombardo

I grandi giornali ignorano il dramma dei 245 eritrei detenuti in condizioni disumane in Libia. L’Unità ha acceso un faro sulla vicenda, ripresa da pochi tg e alcuni quotidiani. Natale, Fnsi: «È un auto-bavaglio».

Quando il bavaglio è nella testa: ci sono notizie che i grandi giornali ignorano o relegano nelle venti righe di un box. Avviene in questi giorni sulla drammatica vicenda dei 245 eritrei detenuti come bestie nel carcere libico di Brak, denunciata da l’Unità il 2 luglio. Silenzio sui grandi giornali, dal Corriere della Sera a La Stampa, un box «il caso» su la Repubblica di ieri. Un meccanismo che Roberto Natale, presidente della Federazione della Stampa, definisce di «autobavaglio. Non è solo un problema di censura, ma anche di autocensura». Un silenziatore «non imposto da alcuna legge». Così destini segnati non hanno «dignità di notizia», mentre «un tg dedica un servizio su come si aprano le bottglie di champagne con un colpo di sciabola...».

SILENZIO STAMPA

Ieri dal deserto è arrivato l’ultimo grido afono per sms: «Stiamo morendo, aiutateci». A rompere il silenzio ad alta voce, nel deserto dell’informazione italiana, è stata l’Unità venerdì scorso, raccogliendo l’appello dei detenuti comunicato da un sacerdote, accendendo un faro sulle loro condizione disumane nel buio di tre celle.

Il primo luglio il manifesto ha raccontato la prima tappa infernale degli eritrei a Misratah, altri articoli sono usciti fino a ieri. Il 2 luglio il Tg3 ha ripreso la notizia «gridata» a ragione da l’Unità già nell’edizione delle 14 con un lungo servizio e la voce di chi sta vivendo il dramma, approfondito la sera su Linea Notte. Notizia e servizi anche su RaiNews e Sky. Ieri l’Avvenire, quotidiano della Cei, ha riservato una pagina alla «sorte dei respinti»; Terra, quotidiano ecologista, un ampio riquadro alla voce «diritti umani». Diritti che si restringono su Repubblica, spariscono sugli altri giornali, anche quelli agguerriti nel difenderli. Il 2 luglio la notizia è stata rilanciata dalle agenzie di stampa e ripresa da numerosi parlamentari Pd, Idv, Udc e radicali, oltre ai Verdi e qualche voce nel Pdl; nel governo solo il sottosegretario Boniver.

Roberto Natale parla di qualità dell’informazione: tanto più in piena battaglia per la libertà di stampa non ci si può imbavagliare da soli. Ma c’è qualcosa di più profondo, secondo il presidente Fnsi, che si richiama alla «Carta di Roma varata due anni fa, che definisce i termini corretti da usare», ma anche l’attenzione ai temi. Sull’immigrazione «in questi anni la società e la stampa italiana sono state investite dalla campagna dell’osservazione sicuritaria. Ma grandissima parte della nostra informazione ha riportato senza commenti la cifra fornita dal ministro dell’Interno Maroni alla Festa della Polizia: ha vantato l’abbattimento del 90% degli arrivi di migranti come un successo del governo. Ecco, nessuno dei nostri giornali si è chiesto da cosa derivasse questa cifra, o che fine abbiano fatto gli immigrati. La risposta ora c’è, ed è drammatica».

Ma «se il rispetto della vita umana non è solo retorica, si deve avere attenzione su vite che spariscono nel nulla, anche in conseguenza delle politiche italiane sui respingimenti», conclude Natale.

«Italiani, ribellatevi.

O sarete responsabili come nelle colonie»

di Dagmawi Yimer

Dagmawi, protagonista del film di Segre «Come un uomo sulla terra», racconta in prima persona l’inferno della Libia

Mi appello al governo italiano e a quello libico, in nome di tutti gli eritrei, i somali e gli etiopi che in questo momento stanno soffrendo in Libia. So benissimo cosa vuol dire essere nelle mani della polizia libica. Uso le ultime parole che mi rimangono, perché anche le parole finiscono quando non avviene nessun cambiamento. Io l'ho vissuto sulla mia pelle: i maltrattamenti nelle carceri libiche, gli schiaffi, le bastonate, gli insulti dei poliziotti libici. Anche io sono stato deportato dentro un container, durante un giorno e mezzo di viaggio, verso il carcere di Kufrah, con altre 110 persone, ammucchiate come sardine. Con noi c'erano anche otto donne e un bambino eritreo di quattro anni. Si chiamava Adam. Chissà che fine ha fatto quel bambino, chissà se è riuscito a salvarsi dalla trappola italo libica, chissà se sua mamma non è stata violentata dai poliziotti libici davanti a lui... Se è sopravvissuto, ormai avrà otto anni, e comincerà a capire piano piano che razza di mondo è riservato a lui e a tanti altri come lui.

Veniamo da paesi dove l'Italia non ha ancora fatto i conti con i suoi massacri durante il periodo coloniale e dove ancora oggi, dopo mezzo secolo, usa i libici per combattere gli eritrei, come all'epoca delle colonie usava gli eritrei per combattere i libici. È vero che la libertà di questi miei fratelli minaccia il benessere dei cittadini europei? È vero quindi che un accordo per il gas e il petrolio vale di più delle vite umane e della loro libertà naturale? Perché l'Italia, da paese civile, non ha previsto nell'accordo con la Libia il minimo rispetto dei diritti "inviolabili" degli esseri umani invece di chiudere un occhio e vantarsi di aver bloccato l'emigrazione via mare? Mi ricorda la stessa ipocrisia con cui Mussolini fece credere al suo popolo che l'Italia avesse stravinto sugli abissini senza dire nulla sui mezzi che avevano portato a quelle vittorie, ovvero tonnellate e tonnellate di gas utilizzate senza pietà per sterminare i civili. Il tono del governo è lo stesso, oggi come allora, ed è la stessa la reazione della gente.

Se ripenso a Adam il bambino di quattro anni che era con noi sul container, mi chiedo: quale era la sua colpa? Mi ricordo che ogni tanto l'autista del container (Iveco) si fermava per mangiare o per i suoi bisogni, mentre 110 persone urlavano per il caldo infernale del Sahara, per la mancanza d'aria, che a malapena entrava mentre il camion era in movimento. Il piccolo Adam lo tenevamo vicino al buco da dove entrava un po' d'aria da respirare... mentre chi si trovava in fondo al container si agitava disperatamente, urlava, piangeva. È possibile vedere ancora deportazioni di massa dentro i container?

Quando ci hanno arrestato poi, i libici non ci hanno chiesto perché fossimo in Libia e cosa volessimo. Eravamo semplicemente la preda dei poliziotti, eravamo donne da stuprare e uomini da bastonare. Pochi giorni fa ho incontrato una persona che lavora a Tripoli e mi ha detto che tra gli ultimi respinti in mare verso la Libia c'era una ragazza di 22 anni che è stata violentata dai poliziotti libici appena arrestata. Alla fine è riuscita a evadere, corrompendo una guardia, ma ora è incinta e non vuole far nascere un figliastro di cui non conosce nemmeno il padre... Perché tutto questa indifferenza verso la sofferenza degli altri, oltretutto provocata dall'Italia stessa? Dov'è la "civiltà" di un paese che finanzia un soggetto terzo per eseguire il lavoro sporco e lavarsene le mani come Pilato? Quando smetterà l'Italia di essere il "mandante" di queste violenze?

Guarda caso poi, dopo la "deportazione" i poliziotti libici ci vendettero per 30 dinari a testa (circa 18 euro) agli intermediari che poi ci riportarono sulla costa.

Anche noi abbiamo dei genitori che piangono pensando alle sofferenze che viviamo. Ma anche noi avremo giustizia per tutto quello che stiamo subendo. Oggi paghiamo il prezzo che i vostri governi hanno deciso di pagare per far godere al "popolo" la sicurezza energetica. Ma le lacrime e il sangue versato non saranno dimenticati. Uso le ultime parole che mi sono rimaste, l'ultima energia dopo due anni di battaglia su questo tema ma spero di poterlo avere ancora. Ho girato l'Italia, partecipando a centinaia di incontri e di proiezioni (di "Come un uomo sulla terra", ndr.) e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto vedere la loro indignazione e la loro vergogna di essere rappresentati da questi governi ipocriti.

Ma mi chiedo: se io che grido da qui non ho ascolto, figuriamoci i miei fratelli che stanno nella bocca del lupo. Ma continuo a gridare lo stesso e dico: Italia tu che sei civile e potente guarda queste persone e ricordati cosa hai fatto ai loro nonni..

Chiediamo al Governo di intercedere per loro

Adottiamo un profugo

di Carlo Lucarelli e Giancarlo De Cataldo

Nessuno sa quanti fra i trecento eritrei detenuti a Sebha abbiano diritto all’asilo politico in quanto rifugiati. Nessuno sa, perché nessuno domanda. Nessuno sa, neppure, se fra quei trecento c’è qualcuno non che ha tentato di entrare in Italia e non c’è riuscito. Nessuno sa, perché nessuno ha accertato. Ma cambierebbero le cose, se l’accertamento ci fosse stato? Perciò, quando qualcuno ci verrà a dire che non c’era certezza che fra quei trecento la maggioranza non fosse fatta di ladroni, disertori, pregiudicati comuni, e non potenziali rifugiati, e che magari, in apparenza, l’Italia non c’entra, noi dovremo rispondere: è vero, non c’è certezza, non è stato possibile raggiungerla, questa certezza. Ma che l’Italia non c’entri, beh, questo è un altro discorso. È vero, manca la prova che siamo stati proprio noi a rimandare a Gheddafi «quegli» eritrei. Manca però anche la prova contraria: che non siamo stati noi. Da anni i nostri governi

menano vanto dei successi delle politiche dei respingimenti. Che, di per sé sole, ci mettono al riparo dalle domande, diciamo così, «pericolose». Appena qualche drappello di (potenziali) profughi si affaccia alle nostre coste, non gli diamo tempo di aprire bocca, esibire documenti, contattare organizzazioni umanitarie, enti internazionali, i parenti che (forse) qualcuno di loro ha in Italia. Appena certe sagome scure e disperate si profilano all’orizzonte delle nostre sicurezze, le intercettiamo e le consegniamo alle affettuose cure del governo libico. Interveniamo in prevenzione. E lo facciamo perché è così che stiamo trattando, da anni, la materia dell’immigrazione: con una guerra preventiva. E in guerra, si sa, non solo non si va tanto per il sottile: anche se esistono leggi che regolamentano il diritto bellico, e le convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra prevedono trattamenti sicuramente più umani di quelli ai quali sono assoggettati, oggi, gli eritrei temporaneamente detenuti da Gheddafi.

Molti di quegli eritrei, soprattutto quei ragazzi e quelle ragazze destinati, per esempio, al servizio militare a tempo indeterminato nel deserto della Dancalia – che significa spesso morirci, in quel deserto fuggono da una situazione economica e politica durissima e non hanno altro modo per andarsene che quello di sfidare lunghe marce attraverso altri deserti, di sabbia e di acqua, e arrivare da qualche parte da «clandestini». E al ritorno non trovano altro che galera – in Libia o a casa loro e spesso un destino peggiore.

Eppure, ci sono ottime ragioni per immaginare che, nel caso dei detenuti eritrei, la nostra responsabilità di italiani sia persino maggiore che in altri casi. L’Eritrea è stata a lungo colonia italiana. Siamo stati insieme, noi ferengi e loro abescià per ottanta anni e continuiamo spesso a stare insieme anche adesso, noi che siamo stati allevati da tate con lo scialle bianco sulla testa, noi che siamo nati laggiù e loro che sono nati qui, noi che ci siamo innamorati insieme, sposati e fatto figli. Se fossimo un paese con una memoria e con una coscienza dovremmo conoscere il suono dei nomi di quegli eritrei che abbiamo respinto e conoscere le città da cui vengono come conosciamo quelle da cui verrebbe un turista americano o europeo. Nel bene e nel male siamo stati fratelli per tanto tempo e sempre nel bene e nel male abbiamo condiviso un pezzo di storia.

Un certo pensiero di Destra, oggi abbastanza in voga, tende a dipingere il colonialismo italiano come una magnifica avventura di civiltà e progresso. Ci amerebbero ancora perché siamo (siamo stati) brava gente. E tutto ciò sarebbe testimoniato dalla presenza di una vasta e ramificata colonia di eritrei/ italiani tuttora legati sia a quel Paese che al nostro. Gli eritrei, insomma, sono ragazzi «nostri». Proprio perché noi, quando fummo colonialisti, lo fummo in modo meno aggressivo di altre potenze. Non a caso, nei giorni scorsi, il Belgio ha chiesto scusa al Congo, e i nostri organi di stampa singolarmente silenti sulla tragedia dei trecento di Sebha hanno sottolineato con enfasi l’avvenimento. I Belgi erano cattivi, noi eravamo «buoni». Perciò gli eritrei ci amano. Ne siamo davvero certi? Proviamo a pensare che cosa ne pensano quegli uomini rinchiusi in container 50 gradi all’ombra in una delle estati più calde del secolo? Che cosa pensano di noi italiani brava gente? Che cosa racconteranno ai loro figli di noi, se riusciranno a scampare al destino che pare ineluttabilmente attenderli? Al netto di ogni considerazione, ci sono trecento esseri umani che potrebbero morire da un momento all’altro. Ucciderli non risolverà il problema dell’immigrazione, refrattario a ogni «soluzione finale», e finanche intermedia. Continueranno a cercare vie di fuga e di libertà, spinti dal bisogno e dalla disperazione, oppressi da dittature vergognose.

Come fecero i nostri padri quando combattevano per l’indipendenza dell’Italia. I nostri padri che trovarono accoglienza, quand’erano migranti e disperati. Senza quell’accoglienza, oggi l’Italia non esisterebbe. Nemmeno quella che si autodefinisce «padana». I credenti, così attenti alla vita potenziale da preservare ad ogni costo, potrebbero sposare una battaglia per la salvezza di vite reali, concrete, vite di oggi, di qui e adesso. I nostalgici del buon colonialismo di un tempo potrebbero passarsi una mano sulla coscienza e decidere che, sì, in fondo, gli eritrei che ci hanno dato tanti shumbashi e tanti bravi zaptiè, ascari e quant’altro venuti a morire nelle nostre guerre, una mano la meritano. Chi invece quell’epoca non la rimpiange ma la critica potrebbe passarsi anche lui una mano sulla coscienza e fare ammenda delle nostre colpe aiutando adesso quel paese e quella gente che lasciammo allora al suo destino.

Immaginiamo già le obiezioni prevedibili a questa sortita: ecco gli scrittori einaudiani, ecco i fighetti radical-chic che si lavano la coscienza con tante belle parole mentre noialtri lavoriamo per tenerci, tutti, e Lucarelli e De Cataldo per primi, al riparo dall’orda nera. E sta bene. Facciamo una proposta concreta. Chiediamo agli scrittori, ai giornalisti, ai religiosi, agli spiriti liberi con i quali in questi ultimi giorni abbiamo condiviso la battaglia contro la «legge bavaglio» di fare un gesto di buona volontà. Chiediamo tutti insieme al nostro Governo di adoperarsi perché i trecento siano trasferiti in un luogo più umano. Chiediamo che siano comunicati i nomi dei trecento, e copie dei loro documenti. Chiediamo che si attivino le procedure per la concessione del diritto d’asilo, nei casi previsti dalla legge. Chiediamo di accertare chi ha parenti in Italia che potrebbero garantire per loro. Ci dichiariamo pronti ad «adottare» un profugo e la sua famiglia. Chiediamo, come dicono gli avvocati, «in estremo subordine», di non lasciarli morire.

Don Paolo Gessaga la spiega così, quasi con uno slogan pubblicitario: «La povertà non è più "senza fissa dimora"». La povertà è accanto a noi. Diffusa e afona, al pari della diseguaglianza. «È meno apparente, ma è più profonda», aggiunge il sacerdote che ha fondato la catena degli empori della Caritas. Dalla sua parrocchia di San Benedetto in via del Gazometro a Roma, nel quartiere popolare Ostiense, questo cinquantenne arrivato dal varesotto, vede, e tocca, da vicino le nuove povertà e le nuove diseguaglianze, coda velenosa della Terza Depressione mondiale come l´ha chiamata il premio Nobel per l´economia Paul Krugman. La crisi ha accentuato le diseguaglianze e frantumato anche la middle class italiana. Siamo diventati tutti americani. E l´Italia, in termini di reddito, è un paese sempre più diseguale: ricchi e poveri, giovani e anziani, uomini e donne, nord e sud. L´eguaglianza non c´è più, né si ricerca, e le distanze si allargano. Lo dice Don Paolo, lo certificano l´Ocse e la Banca d´Italia. Peggio di noi, tra le nazioni cosiddette sviluppate, solo il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Stati Uniti e la Polonia.

E forse non è neanche più un caso che l´indice per misurare il tasso di diseguaglianza nella distribuzione del reddito sia stato definito nel secolo passato da uno statistico-economista italiano: Corrado Gini. Forse era già quello un segno premonitore. Ecco, il "coefficiente Gini" ci dice quanto siamo peggiorati. E peggioreremo ancora se è vero che la discesa ha subito un´accelerazione con la recessione precedente, quella dei primi anni Novanta. Meno profonda di questa e più celere nell´abbandonarci, però. «L´esperienza del 1992-93 quando l´economia italiana attraversò una fase severamente negativa, suggerisce che a una crisi economica può seguire un persistente aggravamento della diseguaglianza», ha scritto l´economista della Sapienza di Roma Maurizio Franzini, nel suo recente libro "Ricchi e poveri" (Università Bocconi editore). Basterà aspettare i prossimi mesi.

Più basso è l´indice Gini più eguale è la società. Il nostro indice Gini arriva a 35. In Polonia è 37, negli Stati Uniti 38, in Portogallo 42, in Turchia 43 e in Messico 47. La Francia ha un coefficiente del 28 per cento e la Germania, nonostante gli effetti della riunificazione est-ovest, è al 30. In alto i paesi dell´uguaglianza, l´Europa del nord: la Danimarca e la Svezia con un coefficiente Gini del 23 per cento.

C´è anche un altro modo per misurare la diseguaglianza, dividendo la popolazione in decili: il 10 per cento più ricco e il 10 per cento più povero per poi calcolare quante volte il reddito del primo gruppo supera il secondo. Anche qui siamo messi male, malissimo: gli italiani più ricchi hanno un reddito superiore di dodici volte quello dei più poveri. Certo, in Messico questo rapporto sale a 45, ma nella vecchia Europa ci supera solo la Gran Bretagna con un rapporto che sfiora il 14, mentre la Germania è al 6,9, la Spagna al 10,3, la Svezia al 6,2. Conclusione di una ricerca dell´Ires appena uscita ("Un paese da scongelare", di Aldo Eduardo Carra e Carlo Putignano, edito da Ediesse): «In Italia i ricchi sono più ricchi, il ceto medio è più povero e i poveri sono molto più poveri». E così, in un decennio le diseguaglianze si sono accresciute di oltre cinque punti. Il coefficiente Gini era 29 nel 1991, poi è salito al 34 nel 1993. E ora - si è visto - è al 35. Ma nulla fa pensare che si fermi lì. Anzi: tutto fa pensare il contrario. Altri paesi - la Spagna, per esempio - si sono mossi in direzione esattamente opposta.

La ricchezza è saldamente nelle mani di pochi e lì ci rimane, impedendo la mobilità sociale, condizionando le carriere, costruendo pezzo per pezzo una parte della nostra gerontocrazia. Secondo l´ultimo dato della Banca d´Italia contenuto nella periodica indagine su "I bilanci delle famiglie italiane", il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede quasi il 45 per cento dell´intera ricchezza netta delle famiglie. Un livello rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi quindici anni.

Partecipiamo non sempre consapevolmente a un processo di divaricazione che spinge la classe media verso il basso, i super-ricchi verso l´alto e affonda i più poveri. «Che oggi sono anche in giacca e cravatta, basta guardare come sono cambiate le persone che almeno una volta al giorno vengono a mangiare alla Caritas», racconta Don Paolo da quello che è un osservatorio strategico anche perché Roma è fondamentale nell´attribuire al Lazio il primato negativo della regione più diseguale d´Italia con il 33,9 di coefficiente Gini. Pesano, nella Capitale, ma non solo qui, il caro-casa e la precarietà del lavoro. In alto, la regione italiana dell´eguaglianza è il Friuli Venezia Giulia, regione a statuto speciale, laboriosa e dal benessere diffuso. L´eguaglianza è anche questo. E, probabilmente, è anche uno dei fattori che porta la provincia di Trieste a un triplo primato: l´età media più elevata tra le province del nord-est, la più alta percentuale di anziani oltre il 65 anni (30,2 per cento), e l´incidenza più elevata di residenti con 80 anni e più (11,2 per cento). Anche nel 2028 - secondo la Fondazione Nord-Est - Trieste manterrà i primati. Perché l´eguaglianza - è la tesi originale che Richard Wilkison e Kate Pickett illustrano nel loro "La misura dell´anima" (Feltrinelli) - migliora «il benessere psicologico di tutti noi». Di più, secondo i due studiosi: «Tanto la società malata quanto l´economia malata hanno le proprie origini nell´aumento della diseguaglianza». E infatti due economisti come Jean-Paul Fitoussi e Joseph Stiglitz pensano che all´origine della grande crisi provocata dai mutui subprime ci sia proprio l´aumento delle diseguaglianza che, ad un certo punto, ha fatto implodere il sistema finanziario.

Di certo tra i frutti di questa "economia malata" ci sono i working poor, i lavoratori poveri, più tute blu che colletti bianchi, ma ci sono anche - lo abbiamo visto - gli impiegati, la classe di mezzo. Un fenomeno che in Italia non avevano ancora conosciuto in queste dimensioni ma che è anch´esso conseguenza di una diseguaglianza crescente. Tra gli operai i "poveri" sono il 14,5 per cento. Percentuale che si impenna fino a sfiorare il 29 per cento nelle regioni meridionali. Il "caso Pomigliano" ha fatto riscoprire la classe operaia e anche la distanza abissale di reddito tra l´amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, e i suoi turnisti: il primo guadagna 435 volte di più dei secondi.

Nemmeno la recessione è stata, ed è, uguale per tutti. I giovani stanno pagando più caro. È l´Istat che lo certifica nel suo Rapporto annuale: «La crisi ha determinato nel 2009 una significativa flessione dei giovani occupati (300 mila in meno rispetto all´anno precedente), i quali hanno contribuito per il 79 per cento al calo complessivo dell´occupazione». Un giovane su tre è senza lavoro. Un giovane - ricordano Tito Boeri e Vincenzo Galasso nel loro "Contro i giovani" (Mondadori) - guadagna il 35 per cento in meno di chi ha tra i 31 e i 60 anni (era il 20 per cento negli anni Ottanta). Ecco: così, partendo dal basso, si costruisce un paese diseguale.

Qualche articolo di stampa ha commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che il PGT in discussione a Milano ne segnerà il destino urbanistico per i prossimi venti-trent’anni: i giornali non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e assai probabilmente illegittima, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le p

revisioni del PGT di Milano cesseranno di avere effetto verso il 2016. Ciò nonostante le quantità edificatorie messe in gioco corrispondono effettivamente ad un ritmo di crescita che è dell’ordine di tre-quattro volte quello ritenuto sostenibile da realtà socio-economiche ben più solide e strutturate di quella italiana, anche se per qualche verso comparabili con quella lombarda, come quella della Repubblica Federale Tedesca, che ha imposto alle amministrazioni locali un consumo di suolo massimo di 1,34 mq/abitante/anno (cioè 30 ettari al giorno per l’intera RFT). Se applicassimo quel parametro alla situazione milanese il PGT dovrebbe consentire la nuova urbanizzazione di 8-9 milioni di mq, mentre ne prevede invece quasi 32 milioni di metri quadri. Vale a dire, appunto, un consumo urbanizzativo di suolo che la Germania riterrebbe sostenibile in un orizzonte temporale di venti-venticinque anni. Su quelle aree alla densità geografico-urbanizzativa attualmente in atto a Milano (comprendendo cioè il consumo di suolo per reti infrastrutturali e attrezzature generali), che è di oltre 90 mq/abitante e che, come constatiamo quotidianamente, produce una qualità di vita piuttosto congestionata, si può stimare una nuova quantità edificatoria dai 10 ai 17 milioni di metri quadri di superficie lorda abitabile (sia residenziale che terziaria), a seconda dell’indice di affollamento previsto (1 utente ogni 30 o 50 mq abitabili). Gli stessi dati del PGT (in genere piuttosto propensi alla sottovalutazione) stimano una quantità abitabile di nuova realizzazione di 12-13,5 milioni di metri quadri. E’ assai interessante rilevare, inoltre, che l’ulteriore residua superficie di suolo ancora urbanizzabile dopo quella messa in gioco dal PGT è di altri 8 milioni di metri quadri: cioè, dopo questo PGT ci resta nuovo suolo urbanizzabile solo per un altro PGT, ma se ci acconciamo a comportarci come la prudente Germania.

A queste quantità edificatorie vanno aggiunte le nuove edificazioni negli ambiti già urbanizzati che, come dimostrano alcune simulazioni recentemente illustrate all’Ordine degli Architetti di Milano, con densità edificatorie superiori ai 7 mc/mq, alcuni stimano possano produrre altri 12 milioni di metri quadri edificatori abitabili. E’ assai difficile credere che tutte queste quantità possano davvero realizzarsi nel prossimo quinquennio, anche in considerazione delle iniziative immobiliari già in atto e della difficile situazione economico-finanziaria. In realtà ciò che il PGT prefigura è una vasta prateria di iniziative immobiliari nella quale la finanza possa scorrazzare acquisendo diritti edificatori virtuali (dei veri e propri futures speculativi, cui possono accedere solo coloro che hanno una dimensione economica in grado di attendere nel medio-lungo periodo la ripresa dei mercati), e che con il meccanismo dei cosiddetti scambi perequativi non si sa dove, come e quando si consolideranno in forme insediative. Ma al Comune questo sembra non importare gran che: l’importante è far girare il business.

In fondo è quello che già era accaduto con il sovradimensionamento dei PRG negli anni Cinquanta-Sessanta, e per alcuni la nostalgia sembra davvero irrefrenabile, se si è avuto il coraggio di rievocare, rivalutandolo, il cosiddetto “rito ambrosiano”, tempo addietro simbolo di pratiche consociative deteriori tra amministratori pubblici e interessi speculativi. Basti dire che per garantire l’attuale livello della rendita fondiaria (900-1.200 Euro/mq abitativo realizzabile) basterebbe un indice edificatorio di 0,40 mq/mq ad uso privato, mentre il PGT promuove senza alcuna contropartita usi edificatori privati di 0,65 mq/mq, cui si aggiungono le quantità edificatorie per l’edilizia sociale e per la premialità ambientale, sino a spingere la densità edificatoria a superare 1 mq/mq. Nei casi dei grandi operatori pubblici di trasformazioni urbane (gli ex scali ferroviari, le ex caserme, ecc.), bisognerebbe perseguire negli accordi di programma un meccanismo di alienazione dei patrimoni fondiari al ribasso sulla quota di edificazione privata che stabilizza la rendita attuale, anziché al rialzo sul suo valore. Ma è il Comune stesso, invece, ad incentivarne l’omologazione al comportamento degli speculatori immobiliari nella ricerca della massimizzazione delle rendite.

Quella che domina è la legge della prateria: chi è più rapido ad impossessarsene è quello che detta la legge. Come nei peggiori western, la banda degli allevatori (di rendite) spadroneggia sui cittadini che non sanno più a chi rivolgersi perché anche lo sceriffo fa finta di non vedere, quando non è della congrega o sul libro paga dei potenti. E’ quello che sta accadendo attorno alle aree di Expo, dove gli appetiti speculativi che aleggiavano nella contesa tra Fondazione Fiera/Cabassi e SOGE attorno all’agognato indice edificatorio di 0,65 mq/mq (il che vorrebbe dire ottenere una rendita fondiaria di 600-700 milioni di Euro da un’area acquisita a prezzi agricoli e oggi già rivalutata a 200 milioni), rispuntano in capo alla futura Newco regionale.

Per quanto grande possa essere il potere di convincimento/condizionamento dell’istituzione Regione, anche in caso di un Accordo di programma in vista dell’evento Expo 2015, la decisione sull’uso finale delle aree resta in capo al Comune di Milano, che dovrà esprimersi al riguardo già in occasione del PGT. Ecco un banco di prova concreto per verificare, al di là di divisioni ideologiche e schieramenti strumentali, dove risieda la volontà reale delle forze politiche e dei programmi amministrativi di farsi difensori civici dell’interesse collettivo della città.

Infatti, se non si vuole ridurre la discussione sull’assetto urbano che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore, di questo o di quell’architetto di grido, occorre avere il coraggio di rivendicare alle scelte dell’amministrazione pubblica la responsabilità che una collettività si assume nei confronti della conformazione urbana di cui intende dotarsi, e che non può essere appannaggio delle preferenze e delle convenienze della proprietà immobiliare o di decisioni burocratiche sulla corrispondenza al valore economico dovuto, sullo sgravio degli uffici tecnici da compiti esecutivi cui sarebbero impari, sulle garanzie “chiavi in mano”.

Un tempo la sinistra vedeva nel contenimento della rendita fondiaria non solo la possibilità di destinare nuove risorse ad usi più produttivi e socialmente più utili, ma anche di rivendicare una democrazia nelle decisioni su quel bene primariamente pubblico e collettivo che è l’uso della città, del territorio, dell’ambiente. Oggi, in questa frenesia di privatismo che sembra coinvolgere in consiglio comunale sia la maggioranza che gran parte dell’opposizione, nemmeno le idee sono più di libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico. Esse, invece, in questo modo appartengono privatamente a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono, cioè, liberi di discutere solo le impostazioni progettuali e insediative dell’acquirente con cui il proprietario delle aree ha stretto un contratto, di chi – col più caro prezzo pagato – si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee della città e suo interlocutore unico.

L’associazione “Vivi e progetta un’altra Milano” che già da tempo si è opposta al “banco di prova” di questo modo di concepire la città, cioè il progetto Citylife sull’area dell’ex Fiera di Milano, ha promosso un appello perché l’Amministrazione comunale indirizzi le proprie scelte verso una concezione civile e ragionevole dell’assetto urbano cui ha corrisposto una vasta adesione non solo da parte degli addetti ai lavori (urbanisti e architetti, tra cui Gregotti e Gae Aulenti), ma anche tra gli esponenti di altri settori della cultura (scrittori, poeti, editori, avvocati, scienziati di vasta di fama al più alto livello, quali l’Accademia dei Lincei), preoccupati degli effetti disastrosi che altrimenti si riverserebbero sulla città.

Di fronte a questa vasta mobilitazione, che avrà una propria pubblica visibilità lunedì 5 alle 18 davanti a di Palazzo Marino dove sarà in riunione il Consiglio comunale, suonano quanto mai ridicole le imprudenti affermazioni dell’Assessore all’urbanistica Masseroli, secondo il quale “il Consiglio comunale è anni-luce più avanti di questi intellettuali retrò”. Quanti vogliano unire la propria voce all’appello possono inviare il proprio nominativo e qualifica a
mastro.donato.rolando@tiscali.it

Cappellacci sulla graticola

Manovra, cancellata la Conservatoria delle coste



Dopo la batosta elettorale, i franchi tiratori. La giunta Cappellacci e il centrodestra sono sull’orlo di una crisi, almeno di nervi. Il terremoto della bocciatura del Piano casa-bis anticiperà la verifica politica e forse il rimpasto. Nuove tensioni Cappellacci-Asunis. L’opposizione tuona: «Se non siete in grado di governare è meglio che andiate a casa». La giunta reagisce varando la manovra correttiva e tagliando quattro Agenzie, tra cui la Conservatoria delle coste.

Senza cemento la giunta è a rischio

Dopo la batosta elettorale, i franchi tiratori. La giunta Cappellacci e il centrodestra sono sull’orlo di una crisi, almeno di nervi. Il terremoto provocato mercoledì dalla bocciatura del Piano casa-bis in Consiglio regionale ha fatto salire ulteriormente la tensione politica: per ironia della sorte il cemento della maggioranza ha ceduto proprio sulla cementificazione. Il caso ha provocato anche un nuovo scontro a distanza tra il presidente e l’assessore Gabriele Asunis, tanto che l’opposizione di centrosinistra, con il capogruppo del Pd Mario Bruno in prima fila, ha tuonato: «Se non siete in grado di governare è meglio trarne subito le conseguenze e andare a casa».

La maggioranza caduta su un provvedimento considerato strategico è ormai a un bivio: rilancio o crisi politica vera e irreversibile ad appena un anno e mezzo dalle elezioni regionali. Il pericolo lo ha avvertito con lucidità il decano dei consiglieri, Mario Floris, leader dell’Uds: «Sento che qualcuno pensa di risolvere tutto con un rimpasto di giunta, io dico che è l’ultima cosa a cui pensare: prima vanno affrontati i problemi politici e vanno aggiornati il programma e le priorità. Non bisogna fare finta di niente, occorre forse rivedere anche gli assetti e va costruito un rapporto con la minoranza sulla crisi economica e sulle riforme». Già martedì nel vertice di maggioranza, Floris aveva posto l’esigenza il tema di una «verifica vera e profonda».

Ugo Cappellacci, che sta cercando di non finire sulla graticola, è apparso in sintonia con la linea di Floris. Senza citare l’incidente in Consiglio, il presidente, nell’annunciare la manovra correttiva varata ieri sera dalla giunta, ha dichiarato che si «apre una stagione di grande responsabilità per l’intera classe dirigente sarda per affrontare questa stagione difficile con comportamenti coerenti e il massimo di condivisione generale». Il governatore sembra annunciare una svolta e ha così segnalato nuovamente una presa di distanze dall’assessore all’Urbanistica, Gabriele Asunis, il presentatore del testo bocciato dal Consiglio. Ieri mattina Asunis ha cercato di minimizzare l’accaduto: la comparsa dei franchi tiratori non è contro la giunta, ha dichiarato, ma «fa emergere i malumori della coalizione» perché «siamo in un momento politico di grande fibrillazione» con «lo stato di malessere che coinvolge alcune forze politiche».

Il coordinatore e il capogruppo del Pdl, Mariano Delogu e Mario Diana, hanno detto che una riunione della maggioranza «è indispensabile» per «avviare un confronto che valga ad evitare il ripetersi di situazioni analoghe che potrebbero condizionare in maniera del tutto negativa l’azione della giunta e del Consiglio». E hanno detto stop a «sgradevoli diatribe», occorre «un rilancio dell’azione politica dell’esecutivo e della maggioranza, con iun’univoca assunzione di responsabilità da parte di tutti».

D’accordo i sardisti, che con il capogruppo Giacomo Sanna hanno respinto il sospetto di aver votato contro la giunta: «I numeri sono ben altri». Quanto al chiarimento: «Poteva già partire martedì e in ogni caso si deve concludere entro luglio, anche con la verifica di giunta. Nessuno pensi alle vacanze».

Si è detto preoccupato anche uno dei leader dei dissidenti del Pdl, il finiano Ignazio Artizzu: «Il Pdl ha tenuto, è stato un episodio grave, il Piano casa andava completato, era un impegno con gli elettori, sono messaggi politici che fanno male alla coalizione».

In mattinata i leader consiliari del centrosinistra hanno tenuto una conferenza stampa per denunciare «il fallimento della giunta e della maggioranza di centrodestra». Secondo Mario Bruno (Pd), Carlo Sechi (Sel), Adriano Salis (Idv) e Chicco Porcu (Pd) l’opposizione è disponibile a confronti serrati sui temi vitali dell’isola, ma il centrodestra «ossessionato dal cemento, è assolutamente inadeguato».

Si voleva recuperare Costa Turchese. E non solo

Il provvedimento poteva salvare tra i tanti altri i progetti in posti di costa pregiata a Teulada, Villasimius e S.Caterina di Pittinurri

Il progetto berlusconiano di Costa Turchese, vietato dal Ppr della gestione di Renato Soru, sarebbe diventato realtà se la legge-bis del Piano casa sardo fosse stata approvata. Ma non era certo l’unica lottizzazione che la giunta, non trovando però il pieno consenso della maggioranza, voleva recuperare. Le nuove norme, eliminando alcuni vincoli, avrebbero consentito di sbloccare, ad esempio, il villaggio dei Benettom sulla Costa di Teulada, le “micro” lottizzazioni a Santa Caterina di Pittinurri e il villaggio di Cala Giungo, a Villasimius, dell’editore-costruttore Sergio Zuncheddu. Il quale, secondo quanto dichiarato dagli esponenti dell’opposizione, sperava anche in una modifica delle procedure del Piano casa per gli ampliamenti: nuove procedure di cui avrebbe avuto bisogno un suo mega-progetto cagliaritano a Santa Gilla.

Il piatto grosso delle lottizzazioni da sbloccare era servito da uno dei numerosi commi del disegno di legge dell’assessore Gabriele Asunis, stoppato mercoledì dal Consiglio regionale con una quindicina di franchi tiratori. Il Ppr aveva previsto che non potessero essere realizzate le lottizzazioni convenzionate ma senza l’avvio delle opere di urbanizzazione. Il ddl del Piano casa-bis faceva cadere, tra gli altri, questo vincolo. L’ex assessore Gian Valerio Sanna (Pd) ha detto che «è stata bocciata una politica arrogante e clientelare che ha evitato il confronto con l’opposizione e di prendere in giro settori della maggioranza, mentre per uscire dalla crisi servono franchezza e dialogo».

Manovra, tagliata la Conservatoria delle coste

Cancellate altre 3 Agenzie, l’esecutivo vara le correzioni al bilancio

Taglio della spesa regionale per 380 milioni, eliminazione di una parte dei residui passivi, cancellazione della Conservatoria delle coste e di altre 3 Agenzie (Entrate, Sardegna Promozione e Osservatorio Economico). Sono i principali contenuti della manovra correttiva approvata ieri sera dalla giunta Cappellacci. Che ha tenuto a sottolineare: «Abbiamo confermato le scelte strategiche poste alla base dell’azione di governo per lo sviluppo, le infrastruttrure, il contrasto alla povertà, le politiche per il lavoro».

Rispetto alle anticipazioni dei giorni scorsi la sorpresa è stata la cancellazione delle quattro agenzie, tre delle quali (Conservatoria, Sardegna Promozione e Agenzia delle Entrate) erano state introdotte dalla giunta di Renato Soru. Secondo quanto è stato chiarito ieri sera dalla stessa giunta, loe funzioni delle quattro agenzie saranno assegnati a servizi della presidenza o di alcuni assessorati.

Come sarà accolta la manovra? lo si vedrà in Consiglio regionale non appena l’assessore Giorgio La Spisa presenterà gli emendamenti al collegato alla Finanziaria. «La manovra - ha spiegato Cappellacci lanciando un chiaro messaggio politico dopo la comparsa dei franchi tiratori in Consiglio - introduce azioni strutturali finalizzate a una maggiore razionalizzazione della spesa, privilegiando lo sviluppo e il mantenimento delle azioni di governo volte a contrastare l’emergenza economico-sociale. Quella che si apre è una stagione di grande responsabilità: con la proposta che presentiamo al Consiglio vogliamo testimoniare dell’attenzione non solo per le fasce più deboli ma anche per tutte le azioni richieste da una visione strategica dello sviluppo; la responsabilità è quella che deve assumere l’intera classe dirigente sarda per affrontare questa stagione difficile con comportamenti coerenti e il massimo di condivisione generale».

«Il bilancio di previsione per il 2010 - ha detto La Spisa - è stato elaborato nel 2009 sulla base di previsioni di entrate derivanti dalle quote di compartecipazione al gettito fiscale che oggi devono tener conto della crisi economica: il calo del Pil produce la diminuzione delle riscossioni di imposte e conseguentemente delle spettanze della Regione. La manovra approvata dalla giunta si rende necessaria nel 2010 proprio perché la nostra è una Regione a statuto speciale che ha entrate originarie e non derivate, come le altre Regioni. A fronte delle riduzioni di entrate occorre puntare al contenimento della spesa dell’anno in corso e quella per il 2011 verrà raggiunta attraverso cancellazioni di alcune spese di minore importanza o col differimento delle stesse a esercizi successivi».

Postilla



La Conservatoria delle coste, insieme al Piano paesaggistico regionale, ha costituito il più prezioso contributo della giunta di Renato Soru alla difesa e alla messa in valore (il termine “valorizzazione” non piace né a eddyburg né a Soru) dei residui paesaggi della costa della Sardegna. Essa è stata costituita sul modello inglese del National Trust e quello francese del Conservatoire du littoral ; acquisisce beni immobili mediante trasferimento dalle proprietà pubbliche, donazioni da privati e – dove ve n’è l’opportunità e le risorse – acquisizione diretta. Si occupa poi della gestione sociale dei beni acquisiti, per garantirne, insieme alla più rigorosa tutela, anche la fruizione culturale.

Decidere la chiusura della Conservatoria delle coste rivela la meschinità politica e culturale dell’attuale giunta sarda, mossa da due obiettivi concorrenti: fare un dispetto a chi ha promosso la bocciatura il loro “piano casa” e ha difesso il piano paesaggistico, e contemporaneamente cancellare una istituzione che, attuando modo intelligente e moderno la protezione del bene comune costituito dal paesaggio, ostacola il suo saccheggio da parte dei soliti padroni. Nel caso specifico, questi ultimi sono ben rappresentati dai titolari delle lottizzazioni interrotte dal piano paesaggistico (che il “Piano casa” avrebbe voluto ripristinare), di cui parlano le cronache qui sopra.

A questa vicenda bisogna che la Sardegna, l’Italia, l’Europa e tutto il mondo civile reagiscano esprimendo la più radicale critica allo spegnimento della Conservatoria delle coste.

Joachim Gauck era l’uomo del momento giusto, per la successione di Horst Köhler alla presidenza della Repubblica in Germania. Per aver conosciuto la paura quando era un pastore dissidente nella Germania comunista, sapeva quel che significa pensare con la propria testa, resistere, imboccare la stretta via della solitudine. Assieme a Havel, Gauck è uno dei rari dissidenti che non solo ha combattuto il totalitarismo comunista ma ha saputo guardare dentro se stesso, e intuire quello che può fare, di ogni uomo, un conformista o un ideologo, a seconda delle necessità e delle circostanze. Per dieci anni, fra il 1990 e il 2000, aveva diretto un’istituzione essenziale per la riunificazione tedesca e la rinascita della democrazia in Germania Est: l’autorità che archivia e mette a disposizione del pubblico gli atti della Stasi (servizi di sicurezza e spionaggio dell’Est). Ho conosciuto Gauck personalmente, prima e dopo l’89, e non lo ricordo alla ricerca di facili consensi. La tempesta della Ddr lo aveva fatto crescere, la più complessa tempesta della democrazia non l’aveva rovinato. Ambedue gli hanno dato speciali antenne, e uno speciale senso dell’umorismo. Nella breve campagna presidenziale parlava molto della crisi economica, e della paura che tornava ad affliggere gli animi («Sì, là fuori c’è da aver paura!»). Ed evocava l’insurrezione che nell’89 aveva infranto a Berlino muri e paure («Anche i tedeschi sono dunque capaci di far rivoluzioni!»).

Probabilmente sono questi i motivi per cui i tedeschi, se avessero potuto eleggere direttamente il capo dello Stato, lo avrebbero senza esitazione votato in massa. La Germania, capace di forza inaudita ma non di rivoluzioni, aveva un nuovo simbolo. Anche la stampa lo favoriva, anche i presidenti che più hanno lasciato tracce di sé, come Richard von Weizsäcker e Roman Herzog, avevano chiesto che sul nome di Gauck si formasse una vasta maggioranza, e che comunque i deputati votassero in piena libertà, senza badare alle discipline di apparati e schieramenti.

È strano come la partitocrazia e il pensiero corto abbiano infine avuto il sopravvento, lasciando cadere una personalità come Gauck e aprendo la strada alla nomina di un uomo certo onesto ma non eccezionale come Christian Wulff, ex presidente democristiano della Bassa Sassonia. È strano come sia stata un’altra cittadina dell’Est, Angela Merkel, a incaponirsi e battersi perché venisse affossato il candidato più apprezzato dai tedeschi e dalle loro teste pensanti. Ancor più strano è l’ignominioso connubio che si è creato, al momento del voto in Parlamento, fra il Cancelliere e la Linke, la formazione che raggruppa i fuoriusciti socialdemocratici di Lafontaine e l’ex partito comunista dell’Est. Un connubio non nuovo nella storia, che l’Italia dei governi Prodi ha conosciuto bene.

Solo in apparenza tuttavia l’affossamento di Gauck è una storia di stranezze e anomalie. Sono decenni che l’Europa non riesce a selezionare personaggi di spicco, e questa paralisi dell’immaginazione ha, almeno in Germania, radici al tempo stesso molto antiche e molto tedesche. Da un lato è il fastidio suscitato in ogni potente da personalità troppo forti, che non rientrano nei parametri partitici e sono una minaccia per lo status quo e i discorsi dominanti: in linguaggio moderno, non s’iscrivono del tutto né a destra né a sinistra. Appartengono non ai partiti, ma alle grandi occasioni. Nel quinto libro delle sue Storie, Erodoto sintetizza in una metafora l’arte di governo che il tiranno di Mileto, Trasibulo, insegna al giovane tiranno di Corinto: fai come se ti trovassi in un campo di grano - dice - taglia le spighe troppo alte!

Ma è anche una storia tedesca quella che abbiamo davanti, e per esser precisi una storia tedesco orientale. Difficile dire chi sia stato più stupido, ottuso, miope: se Angela Merkel o la Linke, che fino all’ultimo si è rifiutata di spostare il proprio voto su Gauck. Fatto sta che entrambi gli attori sono eredi della vecchia Germania comunista: un Paese che non ha avuto la possibilità di mutare e ripensare la propria storia, dopo la caduta del nazismo; che ha mantenuto e congelato il vecchio rapporto tedesco con l’autorità. In particolare, ha preservato quella meschinità pedante e filistea che opportunisticamente cerca rifugio in un suo nido protetto, pur di non correre pericoli personali e non osare il coraggio e l’isolamento. È lo spirito piccolo borghese che i tedeschi attribuiscono allo Spiesser: lo Spiesser non osa mai nulla d’ardito ma per convenienza si adatta, non cerca la verità ma si contenta di bugie, di frasi fatte, se necessario di dogmi indiscussi. Per parlare con Gauck, può divenire al tempo stesso un conformista e un ideologo, per paura o tornaconto.

La Merkel non ha una vita di dissidente alle spalle, e lo si vede. Il suo respiro e il suo sguardo sono corti e il raggio dei suoi interessi breve e egocentrico. Il momento che traversa è pieno di imprevisti precipizi, e rifugiarsi nel nido è la cosa che preferisce, se mantenere il potere è a questo prezzo. Meglio occuparsi di elezioni locali, piuttosto che pensare responsabilmente alla Grecia e al destino dell’Europa e dell’euro. Meglio far fuori un possibile concorrente come Wulff e promuoverlo a capo dello Stato, piuttosto che dare alla Germania un grande presidente. Meglio correre in Sudafrica e godere della vittoria tedesca ai quarti di finale, piuttosto che correre per una bella vittoria nel mestiere politico che è il suo. Lo Spiesser non pensa mai in grande, ma sempre in piccolissimo. Tina Hildebrandt e Elisabeth Niejahr sulla Zeit scrivono che la Merkel è incapace sia di imboccare la strada del coraggio sia di imboccare la strada della paura: l'unica cosa che sa fare è non imboccare strada alcuna. Günter Bannas sulla Frankfurter Allgemeine scrive che la Merkel segue il vento, non avendo una propria consistenza: «L’euro non sarebbe mai nato, se fosse stata lei cancelliere negli anni di Kohl. Mai avrebbe avuto il coraggio, che ebbe Gerhard Schröder nel suo partito, di imporre la riforma dello stato sociale e del diritto del lavoro che va sotto il nome di Agenda 2010».

Eppure la Merkel avrebbe trionfato, se avesse avuto un po’ d’immaginazione e non si fosse annidata nelle sue sparagnine aritmetiche di potere. È vero, erano stati i socialdemocratici e i Verdi a proporre la candidatura Gauck, aggiudicandosi per primi la mossa migliore e più inventiva. Ma Gauck è uomo difficilmente classificabile, e la Merkel avrebbe potuto metterci sopra il suo stampiglio, trasformando l’ex dissidente in un figlio dell’era Kohl: figlio riottoso, perché incontrollabile quando Kohl cadde in disgrazia, ma pur sempre figlio. La Merkel sarebbe divenuta di nuovo popolare, e avrebbe acquisito un’indipendenza verso il partito che ora, dopo la faticosa elezione di Wulff, ha finito col perdere. Ha scelto l’apparato contro il bene comune, la partitocrazia contro il parere di gran parte dell’opinione pubblica. Anche in questo è stata spiessig.

L’Europa barcollante ha oggi una persona così, alla propria testa. Ha una Germania che economicamente si trova a esser guida dell’Unione, ma che politicamente non sa pensare che in piccolo, assediata da conformismi e da calcoli avari. In realtà sono molti oggi i piccoli personaggi, in Europa. Le spighe più alte non mancano (l’ex premier belga Guy Verhofstadt, il tedesco Cohn-Bendit) ma la preoccupazione dei potenti è di reciderle se solo oltrepassano un poco la media. Quanto alla sinistra tedesca, la sua strada si fa impervia. Assieme ai Verdi, i socialdemocratici hanno dato prova di grandezza e fantasia, proponendo un personaggio per loro non comodo come Gauck. Ma l’alleanza con le sinistre postcomuniste, e con la loro radicale stupidità, diventa sempre più difficile ed è un regalo del tutto immeritato ai democristiani e alle destre.

Con questi ritmi nel 2050 i cantieri delle Grandi opere saranno ancora aperti. La previsione proviene da una fonte autorevole, anzi da una delle fonti più autorevoli in materia di costruzioni e infrastrutture, il Cresme, Centro di ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio. Nel 2009 l’istituto aveva calcolato che dopo quasi un decennio dall’avvio dell’operazione grandi infrastrutture prevista dalla legge Obiettivo varata nel 2001, l’avanzamento dei lavori era di appena il 10 per cento. Il rapporto 2010 che sarà consegnato tra qualche giorno alla Camera dei deputati registrerà un lieve incremento rispetto a quella cifra, ma il traguardo resta lontanissimo. Secondo i piani originari, invece, proprio nel 2010 tutti i lavori dovevano essere terminati. Un fiasco totale.

La legge Obiettivo non ingrana e non funziona. Quando fu lanciata, ai tempi del passato governo Berlusconi, la lobby potente dei grandi costruttori riuniti nell’Agi più l’Ance allora guidata da Claudio De Albertis, e il ministro dei Lavori pubblici dell’epoca, Pietro Lunardi, garantirono che grazie a quella norma innovativa e rivoluzionaria, l’Italia avrebbe conosciuto un secondo Rinascimento. Il gigantesco piano di infrastrutture programmate avrebbe ridato lustro e slancio al Paese dopo la lunga stagnazione e addirittura la regressione seguita alla fase eroica del Dopoguerra e a quella molto fruttuosa degli anni Sessanta.

Fu a quei tempi e in forza di quegli scintillanti piani di rilancio che Berlusconi cominciò a proporsi come l’“Uomo del fare”. Peccato più per l’Italia che per lui che le Grandi opere restino al palo e che nonostante tutte le chiacchiere stia scadendo a livelli infimi la dotazione infrastrutturale del Paese, un tempo tra le più efficienti e avanzate d’Europa. Se i lavori non procedono non è colpa dell’effetto Nimby (Not in my Backyard, cioè fate pure, ma lontano da casa mia) o dell’interdizione della lentocrazia, come spesso si cerca di far credere. L’opposizione delle comunità locali e la vischiosità delle procedure amministrative la loro influenza ce l’hanno, ma non sempre e non in maniera determinante.

Dopo un decennio di false partenze ormai è chiaro: è proprio la legge Obiettivo che non aiuta, sono i suoi meccanismi, i suoi presupposti e il suo impianto che non favoriscono la realizzazione delle grandi infrastrutture. Anzi, la rallentano a causa di un sistema imperniato su pochi general contractor, i contraenti generali, le grandi imprese che ormai sono diventate padrone ed arbitre della situazione, come di recente ha sottolineato anche l’Autorità per le opere pubbliche. Da Impregilo ad Astaldi, sempre le stesse aziende, sempre così poche che bastano le dita di due mani per contarle. Stando così le cose Berlusconi rischia di passare alla storia italiana delle infrastrutture non come l’“Uomo del fare”, ma come il “Grande rallentatore”. Lo stesso monitoraggio della legge Obiettivo è diventato un’impresa. Chi cerca di decifrarne il percorso si imbatte di anno in anno in difficoltà crescenti, in un tourbillon di opere che entrano ed escono dal programma, gonfiato e sgonfiato come una fisarmonica a seconda delle circostanze. Quando nel 2006 il centrosinistra vinse le elezioni e al governo andò Romano Prodi si posero almeno il problema di rimettere mano alla legge e di ricondurla ad un profilo di ragionevolezza, sfrondando lo sfrondabile e classificando come veramente grandi e quindi degne di entrare nel programma una manciata di opere davvero strategiche, non di più.

Ma anche quelle sono rimaste solo buone intenzioni e nel 2008 Prodi ha dovuto cedere la guida del governo di nuovo a Berlusconi. In appena due anni, da aprile 2007 ad aprile 2009, il numero delle opere in programma è ulteriormente aumentato di 31 unità (più 13 per cento circa), e ora le opere considerate fondamentali sono quasi 300. Di recente c’è stata un’altra bella infornata. L’edilizia carcera-ria, per esempio, e poi il nuovo programma di edilizia scolastica con l’appendice delle scuole dell’Abruzzo (226 milioni di euro). E ancora la ricostruzione degli edifici istituzionali delle zone terremotate e dell’università de L’Aquila (altri 400 milioni e passa), l’aeroporto Paolo Borsellino di Palermo, lo scalo Dal Molin di Vicenza, la ferrovia Sud-Est Napoli-Bari e l’adeguamento di tutta la rete ferroviaria meridionale, la strada Licodia-Eubea in Sicilia, la strada statale Picente, il sistema della flottiglia dei laghi del Nord, la tangenziale di Napoli e Pozzuoli, i nodi urbani di Bari e Cagliari. Con quali criteri sono state inserite queste opere? Nessuno lo sa. L’impressione è che entrate ed uscite rispondano a pressioni estemporanee di lobby e che l’inserimento di nuovi progetti più che al riammodernamento organico e programmato delle infrastrutture serva a dare argomenti di propaganda in campagna elettorale. L’unico aspetto che avanza in fretta e in modo inesorabile sono i costi: all’inizio il piano delle Grandi opere costava 125 miliardi di euro, alla fine 2009 eravamo a 320, ora siamo a 350 almeno, quasi il triplo, ma gli esperti prevedono che cresceranno ancora. Non è affatto chiaro dove potranno essere reperiti tutti quei soldi e di mese in mese aumenta il sospetto che ormai il piano infrastrutturale sia un guscio vuoto, un guazzabuglio in cui quasi più nessuno riesce a raccapezzarsi. La stessa relazione annuale preparata dal 2004 in poi per la Commissione lavori pubblici della Camera dal Cresme è un prezioso quanto snobbato documento di analisi, perché i deputati che dovrebbero usarla come il pane quotidiano, da tempo hanno preso a considerare tutto l’ambaradam delle Grandi opere come una macchina non più manovrabile, almeno dai banchi del Parlamento. Uno dei pochi che ancora in qualche modo riesce a padroneggiare la faccenda perché ha contribuito a far nascere il progetto e lo conosce come le sue tasche è Ercole Incalza, il tecnico di area socialista che già ai tempi della Prima Repubblica contava più dei ministri nel palazzo di Porta Pia sede dei Trasporti, dei Lavori pubblici e poi delle Infrastrutture. Di recente anche Incalza è finito nel vortice dello scandalo della cricca collegata a Diego Anemone per via di mezzo milione di euro che sarebbe uscito dalle casse della ditta del costruttore dei Castelli romani per l’acquisto di una casa del genero dello stesso Incalza, il quale in seguito allo scandalo ha simbolicamente offerto la sua testa al ministro Altero Matteoli ricevendo una pronta riconferma di fiducia.

Di fronte al fallimento palese di un progetto che non decolla, un governo con a cuore le sorti del Paese riprenderebbe in mano la faccenda riconsiderandola da capo a fondo. È abbastanza probabile, però, che non succeda e che la legge Obiettivo continui il suo opaco, lentissimo e costosissimo percorso. La conseguenza sarà che anche per ferrovie, strade, porti, tangenziali e metropolitane, l’Italia continuerà a perdere inesorabilmente terreno rispetto all’Europa.

Brutta impasse quello dei terreni. Così «congelata» e priva di sbocchi immediati che qualche socio dell' Expo sarebbe pronto a sfilare dal cassetto il piano B. Un piano concepito per le situazioni d'emergenza, e proprio per questo motivo ad alto rischio: rinunciare ai terreni di proprietà della Fiera e del gruppo Cabassi e traslocare Expo in un'altra zona di Milano. Nella mente degli artefici del piano di riserva, la nuova località ha un nome preciso: Porto di Mare, dove dovrebbe sorgere la Cittadella della Giustizia.

Un'area quasi doppia rispetto a quella di Pero-Rho che ha il vantaggio di essere già in mano pubblica (è del Comune). Ma rischiosissima dal punto di vista del Bureau International des Exposition che ha già ricevuto il dossier di registrazione (con il masterplan del sito a Pero-Rho). Proprio giovedì a Parigi, il monito del presidente del Bie, Pierre Lafon è stato chiarissimo: vietato modificare il dossier di registrazione. I sostenitori di Porto di Mare si dicono sicuri che il Bie potrebbe accettare un'eccezione del genere perché il terreno sarebbe disponibile subito e non si dovrebbe far altro che trasferire il masterplan nel nuovo sito.

Non è fantascienza. Il piano esiste anche se ha il sapore di un avvertimento. Come esistono gli attriti tra i soci di Expo sulla questione dei terreni. Lo scontro è durissimo. Il governatore Roberto Formigoni non molla sull'acquisto dei terreni. E nutre fortissimi dubbi di legittimità sulla proposta di comodato d'uso prediletta dal sindaco Letizia Moratti. La critica principale: così si favorirebbe il privato, con le aree che torneranno ai proprietari gonfi di volumetrie mentre le aree pubbliche resterebbero senza volumetrie e destinate a restare parco od orto botanico. Stesse perplessità che ha il Comune nei confronti dell’acquisto: perché dare una cifra tra i 170 e 200 milioni ai privati, quando quei terreni si potrebbero avere senza spendere un euro? Ma dietro la posizione della Regione ci sarebbe anche Infrastrutture Lombarde. Se i terreni venissero acquistati dalla newco con i soldi del Pirellone, Infrastrutture diventerebbe la stazione appaltante del sito Expo. Non solo per la realizzazione, ma soprattutto per il dopo evento.

Un braccio di ferro. Per chi sarà il dominus o la domina di Expo. Che potrebbe avere conseguenze disastrose. Fino ad arrivare alla decisione da parte della Regione di sfilarsi dalla partita. Non quella dei terreni, ma quella di Expo. Basta andarsi a rivedere le dichiarazioni di Formigoni di qualche giorno fa: «Se la maggioranza decide diversamente, vedremo...».

Non è originale parlare di periferie. Quotidiani e periodici ne descrivono da tempo lo stato penoso. Ma alla descrizione impietosa dello stato di fatto non sembra facile contrapporre un disegno propositivo. Occorre anzitutto liberarci dal diffuso equivoco per il quale periferia e centro sono entità contrapposte e antagoniste.

Allo stesso modo è errato pensare che periferia e territorio circostante siano sciolti da reciproci rapporti. È vero il contrario: periferia e centro-città sono parti di uno stesso organismo; così come lo sono periferia e territorio. Queste tre realtà socio-geografiche oggi non possono concepirsi separate e divise.

Un tempo, in Europa, la periferia non si sapeva cosa fosse. Vi era solo la città murata, isolata in mezzo alla campagna e chiusa entro un recinto fortificato. Oggi, nell´anello periferico che circonda le città, si assiste a un disordinato e ininterrotto moltiplicarsi di costruzioni "a macchia d´olio". Un fenomeno che presenta terrificanti analogie con la malattia del nostro secolo: il cancro. Visto che ormai è impossibile eliminare il male commesso, che cosa si può ancora fare per arrestarlo?

La risposta è semplice: occorre interrompere le costruzioni all´interno sia del perimetro costruito, sia dell´anello periferico; e collocare i futuri insediamenti all´esterno della zona urbana, nel territorio ancora libero e poco edificato che si estende intorno, fuori e lontano dalla città. Ma a questi nuovi insediamenti occorre dare una forma conclusa; e mantenere tra di loro una distanza ragionevole, così da creare unità circoscritte e riconoscibili, separate da intervalli di campagna, da zone di verde agricolo, da parchi per ricreazione e svago. Altrimenti si verifica il pauroso fenomeno dello "sprawl" (che in urbanistica equivale ad "espandersi in modo disordinato"), ossia la proliferazione ininterrotta e spinta indifferentemente in tutte le direzioni; la copertura dell´intero territorio con una miriade di edifici dissimili, eterogenei, ammassati senza ordine né criterio; la scomparsa di ogni differenza fra aree costruite ed aree verdi.

Tutta la zona a Nord di Milano è ormai costruita fittamente, tanto da formare un´unica continua successione di fabbricati che si estendono dalla metropoli fino ai piedi delle Prealpi. La zona a Sud, al contrario, è ancora libera da costruzioni. Ma proprio per questo motivo deve essere lasciata intatta. E allora dove indirizzare lo sviluppo della città? In quale parte del territorio prevedere le future costruzioni? La risposta è elementare: i nuovi insediamenti vanno collocati entro un raggio di distanza che non sarà più metropolitano ma diventerà regionale; non più a ridosso dell´area urbanizzata, ma nell´ampia distesa della pianura lombarda.

Il problema urbanistico di Milano è costretto a trovare soluzione spostandosi sempre più lontano: partito dal centro città, prima si è esteso alla periferia, poi si è dilatato nel territorio, e ora raggiunge la regione. Qui sarà necessario coinvolgere anche le città di provincia e ritrovare un nuovo rapporto tra queste e la metropoli. Milano, capoluogo della Lombardia, soltanto se dirige il suo sviluppo verso l´intera regione, potrà un giorno risolvere i suoi problemi urbanistici.

Prima o poi si arriva sempre a una resa dei conti nella quale i fatti, le scelte e i comportamenti superano il fragile alibi delle parole e disvelano la vera natura delle cose. È così è stato anche per la giunta guidata da Ugo Cappellacci che, pur poggiando su piedi d’argilla, non ha mai saputo nascondere un cuore duro di cemento. In un singolare contrappasso, è così accaduto che, proprio in questi giorni, si sono concentrati eventi che hanno fatto affiorare crudamente la reale sostanza politica di questo esecutivo: l’offensiva (fallita) guidata dall’assessore Asunis su un “piano-casa 2” che creava percorsi agevolati per robusti investimenti immobiliari e la sforbiciata per “tagliare” ciò che viene ritenuto superfluo e far così quadrare i conti della Regione. Ebbene, in questo dimagrimento reso necessario per recuperare 380 milioni di euro, è stata cancellata anche la Conservatoria delle coste. Cioé quell’agenzia, nata dopo una lunga gestazione, che è stata considerata a livello internazionale come un gioiello, come l’espressione istituzionale di una filosofia politica che pone l’ambiente tra i valori primari di una cultura comunitaria.

E così, in una riunione di giunta, sono stati azzerati anni di lavoro, di riflessione e di progresso civile. È vero che la Conservatoria ha sempre avuto una vita difficile: è nata in un clima di diffidenza, se non proprio di ostilità, e fortissime sono state le resistenze che le hanno impedito di diventare adulta. Lo stesso ex governatore Renato Soru, che pure l’aveva pensata imitando l’esperienza inglese del National Trust e soprattutto quella francese del Conservatoire du littoral, si era dovuto muovere in un clima vischioso di tensioni nascoste.

Impossibile ora, in questi primi giorni d’estate, non declinare l’offensiva del “piano casa 2” con la cancellazione della Conservatoria delle coste. È il vero volto di una politica che ha selezionato molto chiaramente le sue priorità, ma ha soprattutto mostrato il suo vero Dna politico. E nella reazione inattesa del Consiglio regionale non è forse stato secondario il sospetto denunciato l’altro ieri dall’ex assessore Gian Valerio Sanna: il “piano casa 2” avrebbe aperto un’autostrada a operazioni come quella di Costa Turchese (targata Berlusconi) o di Teulada (Benetton e altri). Il sisma all’interno della stessa maggioranza è quindi intimamente politico. La cancellazione della Conservatoria delle coste è esattamente il rovescio del problema del “piano casa 2”. Proprio perché la Conservatoria è esattamente la negazione del dilagare del cemento sui litorali sardi. Ne consegue una valutazione forse un po’ velenosa, ma sicuramente fondata. E cioé che l’agenzia regionale, che doveva progressivamente creare lungo le coste una sorta di parco naturale asimmetrico e fruibile in un intelligente equilibrio tra tutela e sfruttamento dolce dell’ambiente, avrebbe potuto rappresentare un ostacolo, una fastidiosa complicazione per lo sviluppo di strategie edificatorie. Per questo era meglio liquidarla alla prima occasione. Tutto questo mentre nella vicina Corsica la tendenza è diametralmente contraria: il centrodestra, da decenni al potere, è stato clamorosamente spazzato via nei mesi scorsi dopo aver cercato di imporre il Padduc, una legislazione derogatoria che, in nome dello sviluppo economico, avrebbe consentito la cementificazione di tratti di costa. E dire che l’operazione era sponsorizzata dal presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy in prima persona. Non basta, i tribunali amministrativi francesi stanno bocciando tutti i piani urbanistici che cercavano di “bucare” la severa Loi littoral. È accaduto nei giorni scorsi a Pianottoli-Caldarello e a Bonifacio.

Ora, dunque, la Conservatoria delle coste viene cancellata. Senza uno straccio di dibattito, senza un minimo di confronto. Un atto politico molto eloquente.

E intanto fanno sentire la loro voce i collaboratori della Conservatoria. «Noi - scrivono in una lettera aperta - non abbiamo alcuna intenzione di rinunciare a quest’opportunità lavorativa e vogliamo realizzare, con i fatti, un’idea concreta di sviluppo nella ferma convinzione che rappresenti l’unica strategia possibile per la Sardegna». «Conservare il patrimonio costiero della Sardegna - dicono ancora - vuol dire seguire una scelta strategica capace di riattivare realtà fortemente compromesse dalla crisi che stiamo vivendo, attraverso un investimento a lungo termine che mantenga e valorizzi beni ambientali, storico-culturali e umani».

LETTERA APERTA PER LE COSTE DELLA SARDEGNA

Siamo i collaboratori dell’Agenzia Conservatoria delle Coste della Regione Sardegna. Siamo ingegneri, architetti, geologi, progettisti europei, biologi marini, naturalisti, esperti in turismo e comunicazione.

Solo due anni fa frequentavamo master e dottorati in tutta Europa, facevamo le nostre esperienze internazionali con un’idea in testa: quella di poter tornare in Sardegna per mettere a disposizione le nostre competenze e applicarle nella nostra terra.

Ci è stata data la possibilità di farlo attraverso il programma Master and Back, uno strumento messo a disposizione dalla Regione Sardegna a favore dei giovani sardi altamente specializzati, per evitare la dispersione di risorse umane e contenere la disgregazione sociale in atto sulla nostra Isola.

Abbiamo scelto di mettere la nostra professionalità a disposizione della Conservatoria delle Coste, accettando un contratto da precari, rinunciando a lavori da professionisti meglio retribuiti. Lo abbiamo fatto perché crediamo profondamente nell’idea di sviluppo che la Conservatoria oggi rappresenta, basato sulla gestione integrata delle aree costiere, sul riuso dei beni in stato di abbandono, sulla valorizzazione delle risorse locali, sul coordinamento con le principali iniziative in campo mediterraneo ed internazionale. In una parola: su un’idea di sviluppo sostenibile. Lo stesso sviluppo sostenibile di cui il più delle volte non si comprende il reale significato.

Oggi apprendiamo dalla stampa che l’Agenzia con la quale collaboriamo, per decisione della Giunta, verrà “cancellata”. La Conservatoria viene quindi considerata un ente superfluo da “tagliare” per favorire “scelte strategiche poste alla base dell’azione di governo per lo sviluppo, le infrastrutture, il contrasto alla povertà, le politiche per il lavoro”. La realtà è esattamente opposta.

Conservare il patrimonio costiero della Sardegna vuol dire seguire una scelta strategica capace di riattivare realtà fortemente compromesse dalla profonda crisi che stiamo vivendo, attraverso un investimento a lungo termine che mantenga e valorizzi i beni ambientali, storico-culturali, e umani che rappresentano i fattori produttivi primari della nostra economia.

Per questo è importante la creazione di posti di lavoro nel Sulcis legati alla realizzazione del primo ostello ecosostenibile della Sardegna, la cui riqualificazione è affidata ad imprese sarde e per la cui gestione si stanno tenendo i corsi per formare i giovani del territorio attraverso tirocini di alta formazione all’estero e renderli competitivi con il mercato europeo.

Non è di secondaria importanza il programma di sviluppo per l’Isola dell’Asinara, nella quale l’Agenzia sta realizzando un polo sperimentale sul turismo ad “impatto zero”, attraverso il recupero dei beni dismessi e la creazione di centri di turismo alternativo. Nel borgo di Cala d’Oliva, entro quest’autunno partiranno i bandi pubblici per la realizzazione di un ittiturismo, di un albergo diffuso e di un ristorante a filiera corta basato sull’offerta e sulla promozione di prodotti locali.

Portiamo avanti diverse azioni di educazione e di sensibilizzazione ambientale con scuole e comuni per la fruizione responsabile delle nostre spiagge affinché i sardi conoscano, apprezzino e si riapproprino del loro territorio.La manovra proposta dalla Giunta, finalizzata ad una “maggiore razionalizzazione della spesa” limiterà in realtà l’accesso diretto a fondi nazionali ed europei che hanno permesso di attivare il recupero delle torri costiere del patrimonio regionale, il progetto FOR ACCESS per la fruibilità delle fortificazioni costiere, il progetto PERLA per la sicurezza della balneazione e l’accessibilità alle spiagge, e il progetto GIRA per rilanciare l’economia dell’astice a Castelsardo, del polpo a San Vero Milis, e del riccio di mare a Buggerru ed Arbus rivolto a tutti gli operatori della pesca di questi territori costieri.

Le funzioni dell’Agenzia “saranno assegnate a servizi della presidenza o di alcuni assessorati”. Questa scelta è, a nostro avviso, un mezzo attraverso il quale si interromperebbero inevitabilmente le dinamiche che hanno permesso alla Conservatoria di diventare un esempio di efficienza e produttività, una fucina di idee che coniugano la tutela ambientale e lo sviluppo economico riconosciuta ed apprezzata a livello nazionale ed internazionale.

Noi, collaboratori dell’Agenzia Conservatoria delle Coste, non abbiamo nessuna intenzione di rinunciare a questa opportunità lavorativa, e vogliamo realizzare, con i fatti, un’idea concreta di sviluppo nella ferma convinzione che rappresenti l’unica strategia possibile per la Sardegna.

Claudia Dessy (geologo), Nicola Lecca (architetto), Matteo Lecis Cocco-Ortu (ingegnere), Elisa Mura (pianificatore), Noemi Murgia (turismo sostenibile), Antonello Naseddu (architetto paesaggista), Barbara Pintus (progettista europeo), Manuela Puddu (ricercatore), Tiziana Saba (biologo marino), Gabriele Sanna (naturalista), Maria Pina Usai (architetto).

Sulle dichiarazioni rilasciate dal presidente della Provincia, per ribadire che il nuovo Pgt comunale tutelerà in ogni modo il polmone verde più importante del milanese. “Serve una visione europea”

Corsico (2 luglio 2010) - “A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si indovina”: anche la sindaca di Corsico Maria Ferrucci usa una metafora, come ha fatto il presidente della Provincia Guido Podestà che l'altro giorno, di fronte all'assemblea di Assimpredil (associazione imprenditori edili), ha detto che il Parco sud non è un totem.

“Non sarà un totem – dice l'assessore all'Urbanistica, Emilio Guastamacchia – ma è sicuramente un bene comune e per questo va tutelato in ogni modo. Le dichiarazioni del presidente Podestà, che è anche presidente del consiglio direttivo del Parco sud, sul futuro dell'area verde destano preoccupazione a noi amministratori locali e lasciano aperti molti interrogativi”.

Ci sono troppi “appetiti” nell'area sud milanese, dopo che altre zone della cintura cittadina sono state già oggetto, negli ultimi decenni, di numerosi interventi edificatori.

“Gli adeguamenti di cui parla chi guida la Giunta di palazzo Isimbardi – prosegue Guastamacchia – potrebbero portare a ulteriori possibilità di edificazione, forse anche di ulteriore cementificazione in aree agricole oggi tutelate”.

Nessun arroccamento su posizioni anacronistiche o atteggiamenti ideologici, ma c'è la volontà di fare uno sforzo congiunto per assicurare un patrimonio di estrema importanza dal punto di vista ambientale. Di cui la città di Corsico è direttamente interessata.

“Nell'ambito della discussione sulle linee guida del nuovo Pgt – spiega l'assessore Guastamacchia - stiamo valutando come salvaguardare l’unica area agricola oggi presente in città, nei pressi della Cascina Guardia di Sotto, che ha un'estensione complessiva di quasi sessanta ettari. Per Corico questa è l’unica area ancora agricola e non urbanizzata, se si escludono i diversi parchi cittadini, di un territorio che registra l’indice di consumo di suolo più elevato di tutto il sud Milano. In uno studio recente dell’Osservatorio sul consumo di suolo, realizzato dal Politecnico di Milano e da Legambiente, la nostra città registra un indice superiore all’80% di territorio urbanizzato”.

Cosa si può fare? “Per il Parco sud – prosegue Guastamacchia - c’è la necessità di fare uno sforzo di immaginazione, per costruire una visione di ciò che l’immensa area agricola che racchiude il sud Milano può avere: l’idea che l’attività agricola sia ancora possibile in aree periurbane ci viene anche suggerita, oltre che offerta come esempio concreto, da molte realtà metropolitane europee”.

(QUI le dichiarazioni del Presidente della Provincia)

Ufficio stampa Comune di Corsico

telefoni 02.4860.1721 – 335.6671.574

e-mail c.trementozzi@comune.corsico.mi.it

Green Economy

Da Tremonti tagli e insulti

di r.pol.

Dall'assemblea di Coldiretti il ministro dell'economia carica a testa bassa le regioni del Sud, «cialtrone e irresponsabili» per lo spreco dei Fas. Il governo prepara lo smantellamento di parchi nazionali e aree protette. Sulle pensioni la correzione del «refuso» si rivela l'ennesimo bluff. Mentre un nuovo emendamento alla manovra taglia le tredicesime a magistrati, poliziotti e professori universitari. Una ruota che gira gira e torna sempre al punto di partenza: tagli alla spesa pubblica e impoverimento del ceto medio, di dipendenti e pensionati. È questo il lavoro della commissione bilancio del senato sulla manovra finanziaria.

Le poche promesse migliorative di partenza fatte da Tremonti sono completamente sparite nel corso del dibattito. Anzi, allo stato la manovra è peggiorata in modo significativo. All'ennesima scure sulle pensioni si sono aggiunti il dietrofront di relatore e governo sull'impegno a ripristinare le agevolazioni per le energie rinnovabili (certificati verdi) e il penoso giro di vite sulla soglia dell'85% per la pensione di invalidità. Le uniche aperture rimaste sono affidate a futuri decreti legislativi del governo. In sostanza, il parlamento non conta nulla: la destinazione del 30% dei risparmi sulla scuola destinati comunque all'Istruzione spetterà a un decreto futuro dell'Economia. E anche i risparmi per la fine dei certificati verdi dovrebbero andare a università e riduzione delle bollette ma saranno decisi chissà quando da Sviluppo ed Economia.

Ai tagli alla spesa si accompagna la scure contro gli enti locali. Tremonti ieri all'assemblea della Coldiretti ha detto che «l'agricoltura è la base di ogni altra attività economica. Senza di essa non esisterebbero né il commercio né l'industria» e ha di nuovo caricato a testa bassa le regioni del Sud accusandole di «cialtroneria» e «irresponsabilità» nello spreco dei fondi comunitari: «Basta, è uno scandalo pauroso prodotto dalle regioni meridionali, non se ne può più di questa gente che sa solo protestare e non sa fare servizio pubblico per i cittadini», sentenzia padanamente il ministro dell'Economia. La critica sarebbe pure giusta. Però è sospetta. Perché il governo - oltre ai tagli della finanziaria - si appresta a inasprire le aliquote Irpef (lavoratori) e Irap (imprese) per le quattro regioni che hanno «sforato» il rientro sulla sanità: Lazio, Calabria, Campania e Molise. Mentre Bersani accusa il ministro di divagare: «Tremonti dovrebbe spiegare perché il reddito agricolo è sceso del 20% nel 2009 invece di criticare le regioni». Per il Pd le modifiche sui tagli agli enti locali sono dirimenti. Ma il relatore Azzollini afferma che la questione è chiusa con l'emendamento che conferma i tagli lasciando ai governatori il compito di ripartirli tra di loro.

Lo scontro con gli enti locali insomma non si placa. Errani, Formigoni e Polverini - cioè i vertici della conferenza delle regioni - hanno incontrato ieri il presidente del senato Renato Schifani. Che ha promesso tempi e spazi adeguati nel dibattito sulla finanziaria. Ancora in alto mare invece il vertice chiesto dai governatori a Berlusconi.

«Una maggioranza politicamente in difficoltà è costretta a rinviare la conclusione dei lavori sulla manovra lasciando da parte i tanti, tantissimi nodi irrisolti», spiega il senatore del Pd Paolo Giaretta, relatore di minoranza della manovra. I lavori della Bilancio infatti si sono fermati e tutto è stato rinviato a lunedì.

Ecologia. Con i tagli aree protette a rischio

Il governo sega i parchi nazionali

di Luca Fazio

Per raccogliere le briciole segano anche i parchi, e per di più nell'anno internazionale dedicato alla biodiversità (anche se in pochi se ne sono accorti). Senza voler passare per catastrofisti, bisognerebbe chiedersi perché il governo, per risparmiare 25 milioni di euro, cifra di poco conto per il bilancio dello Stato, corre il rischio di smantellare le aree protette italiane che custodiscono il patrimonio più ricco di biodiversità a livello europeo (57.468 specie animali e 12.000 specie floristiche censite). La risposta sta nel fatto che l'Italia, nonostante questa ricchezza, è anche il paese europeo che consuma più territorio (ogni anno vengono asfaltati 250.000 ettari) e che continua a destinare meno risorse alla protezione della natura.

Dunque va letto nel segno della continuità il taglio di 25 milioni di euro previsto dalla manovra finanziaria che ieri ha costretto i presidenti dei parchi nazionali, rappresentati da Giampiero Sammuri, a sollevare alcune obiezioni per cercare di difendere le aree protette. Sono stati ricevuti al Senato da esponenti del governo e dell'opposizione facendosi strappare una promessa di interessamento, anche perché, a conti fatti, ogni anno i parchi italiani accolgono 35 milioni di turisti con un indotto notevole anche per le casse dello stato. Restando i tagli, insiste Federparchi, alcune aree protette invece saranno costrette ad essere smantellate. «Se passa questa manovra finanziaria - vanno al sodo i senatori del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante - molti dei 24 parchi nazionali italiani dovranno chiudere i battenti. All'articolo 7 è previsto il dimezzamento dei circa 50 milioni di contributi del Ministero dell'Ambiente, il che impedirebbe a molti enti parco semplicemente di pagare gli stipendi al personale». Da qui l'insensatezza della norma, insistono i senatori. «I parchi nazionali rappresentano un patrimonio ambientale di valore inestimabile e custodiscono le aree più pregiate del paesaggio italiano nelle quali si incarna una parte importante della stessa identità nazionale. Condannarli a morte è un atto di stupidità anche in termini economici, visto il contributo che il territorio protetto fornisce alle diverse economie, dal turismo all'agricoltura di qualità, che basano la forza sulla qualità ambientale e che incontrano una domanda crescente da parte dei cittadini».

Per Antonio Nicoletti, responsabile Aree protette di Legambiente, già oggi i parchi sono allo stremo e 25 milioni di euro in meno potrebbero essere letali. «Solo attraverso una nuova politica basata su concreti investimenti strategici e valorizzazione delle qualità territoriali - spiega - sarà possibile rilanciare con criterio la funzione degli enti preposti alla salvaguardia della natura e della biodiversità. La mannaia del maxi emendamento, invece, rischia di abbattersi non solo sulle esperienze positive di tutela del paesaggio e delle parti più fragili del nostro territorio, ma anche di condannare un pezzo dell'economia legata al turismo sostenibile, alle produzioni agroalimentari di qualità e alle attività educative e formative per i giovani».

A questo punto, per modificare la manovra sega parchi, bisognerà mettersi nelle mani del ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo. E questa, forse, non è una buona notizia

Bonelli (Verdi)

«Un attacco alla biodiversità che favorisce i privati»

di Luca Fazio

Altro che 25 milioni di risparmi, il governo Berlusconi vuole privatizzare anche i parchi nazionali. Ne è convinto Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, che annuncia un esposto alle istituzioni comunitarie prefigurando una violazione delle direttive europee per la tutela della biodiversità.

Individui addirittura una doppia regia, prima Matteoli e poi Prestigiacomo starebbero cercando di svendere un patrimonio della natura.

Come già aveva annunciato Matteoli, anche il ministro dell'Ambiente Prestigiacomo ha detto che ormai è giunto il momento di far entrare i privati nella gestione delle aree protette. Non sfugge a nessuno che tagliare i fondi e portare al collasso la gestione dei parchi non può che facilitare l'arrivo dei privati, che hanno tutto l'interesse a gestire e incrementare alcune attività all'interno dei parchi. La privatizzazione è sempre nella logica politica di questo governo. Questo processo porterebbe di fatto allo snaturamento della pubblicità delle aree protette, e di conseguenza allo scardinamento di alcuni principi di tutela in aree dove non sarebbe previsto alcun intervento.

Dove starebbe la violazione del patto sul rispetto della biodiversità?

L'Italia ha aderito alla convenzione internazionale di tutela della biodiversità, un protocollo che tra le altre cose ribadisce il contributo vitale delle aree protette. Quindi l'Italia ha sottoscritto un obbligo a sostenerle adeguatamente, è il contrario di tagliare risorse indispensabili.

Stai parlando del territorio più ricco di biodiversità...

Appunto. Nei parchi italiani vengono tutelate più di 57.000 specie animali tra invertebrati (56.168) e vertebrati (1.254). Anche il patrimonio vegetale è notevolissimo, circa il 50% della flora europea. C'è un altro aspetto non trascurabile che dice della ricchezza delle nostre aree protette: secondo una stima fatta da un istituto internazionale, sono indispensabili anche per il rispetto degli obiettivi europei in materia di emissioni, poiché ogni ettaro di territorio tutelato consente all'Italia di risparmiare 578 euro di costi relativi all'emissione di Co2, per un totale di 476 milioni di euro.

In più, le aree protette sono anche un business...

Per questo possono fare gola ai privati. Si calcola un giro di affari attorno ai 2 miliardi di euro all'anno, all'interno di un indotto legato al turismo e all'agricoltura che dà lavoro a 86.000 persone. Nei 2.450 centri visita transitano 35 milioni di visitatori all'anno, una cifra enorme. Il turismo naturalistico, nonostante la crisi economica, è in costante espansione. Per questo motivo mettere in ginocchio i parchi nazionali, oltre che insensato, potrebbe favorire i non indifferenti appettiti dei privati.

I rappresentanti di Federparchi, dopo l'incontro di ieri al Senato, si dicono fiduciosi circa la «restituzione» dei 25 milioni di euro di tagli. Ti aspetti un aggiustamento in questa direzione?

Non è la prima finanziaria che opera tagli sulle aree protette, l'hanno già fatto nel 2008. Piuttosto, credo che questo continuum porterà alla paralisi della gestione dei parchi. Se questo è l'obiettivo, mi aspetto poco.

Ieri sul Corriere della Sera, Gian Antonio Stella denunciava il nuovo tentativo (il terzo in cinque mesi) di parlamentari del Pdl per portare a casa il quarto condono edilizio. Il manifesto è stato in questi mesi in prima fila nel denunciare l’ennesimo regalo all’illegalità con numerosi articoli di Edoardo Salzano e di chi scrive. Finora le denuncie non sono servite ad interrompere la staffetta degli eletti del popolo amici degli abusivi. Primi in ordine di tempo (gennaio 2010) Nespoli e Sarro entrambi deputati eletti in Campania. Il primo sindaco di Afragola con una richiesta di arresti domiciliari. Dopo le elezioni regionali il testimone è passato a tre senatori, due dei quali padani e dunque senza interessi in materia, visto che la vicenda riguarda quasi esclusivamente il sud d’Italia. Terzo turno: il testimone torna alla Camera dei deputati altri tre campani, Cesaro, Petregna e Stasi, probabilmente alfabetizzati, avendo svolto ruoli negli organi della tutela statale.

La staffetta non si può fermare per due buoni motivi. Il primo è che il Pdl ha condotto la campagna elettorale per le regionali in Campania, in Calabria e a Fondi, nel sud del Lazio promettendo il condono. Hanno vinto grazie a queste promesse: è ovvio che cerchino di non perdere la faccia.

Ma oltre a questa, esiste stavolta una motivazione molto più seria. La manovra finanziaria di Tremonti è stata approvata con decreto legge ed è in vigore. Le lacrime e sangue che contiene sono state addolcite con il contentino del “Contrasto dell’evasione fiscale e contributiva” contenuto nel Titolo II. Tagliamo tutti i settori culturali e di ricerca, la scuola e i giornali indipendenti, ma finalmente facciamo sul serio conto l’evasione.

Nell’articolo 19 (Aggiornamento del catasto) si parla della questione emersa qualche tempo fa, e cioè del fatto che attraverso il confronto tra le mappe catastali e le recenti foto satellitari, i tecnici degli uffici del Catasto avevano scoperto che mancavano all’appello oltre due milioni di edifici sull’intero territorio nazionale.

Se togliamo i possibili errori, almeno un milione di case non sono state mai accatastate perché l’ultimo condono non permetteva la sanatoria degli abusi ricadenti nei parchi e nelle aree vincolate dalla legge Galasso. Esiste ancora la Costituzione che all’articolo 9 afferma che “La Repubblica tutela il paesaggio” e non è possibile condonare quegli abusi.

Finora la vicenda era rimasta sospesa. Anche le numerose ordinanze di demolizione emesse dalla magistratura non sono state eseguite sia per le proteste degli abusivi (ad Ischia e Lamezia Terme, ad esempio) sia perchè il Consiglio dei ministri ha da poche settimane sospeso le demolizioni in Campania fino alla fine del 2011. Ma adesso, al comma 8 del citato articolo c’è scritto che entro il 31 dicembre 2010 i titolari degli immobili non accatastati devono farlo obbligatoriamente. Se non lo fanno, il successivo comma 11 permette all’Agenzia del territorio di procedere d’ufficio.

Il catasto deve poi trasmettere le coordinate del nuovo edificio al comune “per i controlli di conformità urbanistico-edilizia”. E qui, come si comprende, sono dolori. Perché i comuni accerteranno che gli abusi ricadono in zona vincolata e non possono essere condonati. Devono dunque essere demoliti per legge. E’ questo articolo che non fa dormire sonni tranquilli ai parlamentari della destra. Ecco perché continua l’estenuante staffetta dei deputati e senatori Pdl. Devono uscire dal vicolo cieco in cui li ha cacciati la bulimia di consensi a tutti i costi e le strizzate d’occhio all’Italia illegale.

L’articolo di Stella può forse cambiare il corso delle cose. Se l’opposizione interpretasse finalmente la nausea che viene dalla popolazione onesta stanca degli scempi e delle sanatorie si potrebbe sconfiggere (per la prima volta nella storia repubblicana!) il partito dei condoni e riportare la legalità nel territorio. Del resto sarebbe ora: tutti i Dipartimenti investigativi antimafia affermano all’unisono che i capitali illegali vengono riciclati attraverso investimenti immobiliari e nell’abusivismo. Non è forse ora di interrompere questo male oscuro italiano?i

Il testo: sistemare entro sei mesi gli arretrati delle sanatorie del 1985, ’94 e 2003

L’altra volta, davanti alla strafottenza della proposta che voleva non solo riaprire fino al 30 marzo 2010 i termini della sanatoria 2003 ma estendere il colpo di spugna agli abusi nelle aree protette, il sottosegretario Paolo Bonaiuti si era precipitato a negare tutto: «Di nuovi condoni non se ne parla assolutamente: né fiscali, né edilizi». Anzi, aveva strillato, l’allarmata denuncia di quell’emendamento non era che «una trovata propagandistica creata ad arte dall’opposizione!». Una tesi ribadita dal ministero dell’Economia: nessun condono. E accompagnata dalle stupefacenti parole di Paolo Tancredi, che aveva giurato al nostro Mario Sensini che lui non sapeva nulla. Che manco aveva letto l’emendamento. L’aveva firmato così, perché gliel’avevano messo davanti: «Io sono un ambientalista... Mai e poi mai mi sarei sognato di proporre un condono edilizio. Dentro ai Parchi e alle aree protette, poi...». E tutti a giurare: ma no, è stato solo un equivoco, ci mancherebbe altro...

Roma Danni al paesaggio per gli abusi edilizi nel cuore della Capitale

Dieci giorni dopo, replay. All’ottava commissione della Camera si discute oggi una nuova proposta di legge: «Disposizioni per accelerare la definizione delle pratiche di condono edilizio al fine di contribuire alla ripresa economica». Vi si legge che entro sei mesi occorre sistemare tutti gli arretrati delle sanatorie del 1985, 1994 e 2003: «È noto che presso i comuni pendono, complessivamente, milioni di istanze di condono edilizio, che non vengono esaminate (ormai da oltre venti anni) per taluni ostacoli "burocratici"». Quali? «In particolare, la difficoltà dovuta a un’interpretazione eccessivamente rigida delle norme di tutela delle aree sottoposte al vincolo paesaggistico». Testuale. L’attesa, tuonano i deputati berlusconiani, è «estremamente pressante». Senza la concessione di quei benedetti condoni, gli abusivi infatti «non possono neppure procedere alla realizzazione di opere manutentive di restauro, di risanamento conservativo e di ristrutturazione di completamento». Cioè non possono far le rifiniture agli abusi. Ora, poiché i tre condoni si collegano in un «continuum» lungo «l’arco temporale che va dal 1983 al 2003» (proprio ciò che da anni dicono gli ambientalisti e che i promotori delle sanatorie, per ribattere alla Corte Costituzionale ostile ai «condoni permanenti» hanno sempre negato) è necessaria una «definizione». La quale «consentirebbe ingenti introiti per la finanza degli enti locali, a seguito del versamento dei contributi per costo di costruzione e oneri di urbanizzazione, nonché dei versamenti a titolo di sanzione per ritardato pagamento».

La Corte dei Conti ha già smentito questa tesi ricordando nel 2004 che gli oneri di urbanizzazione «da più parti sono stati quantificati in misura ben superiore a quella prevista»? Spallucce. Uno studio di Legambiente ha già dimostrato che dai condoni i comuni hanno incassato dal ’95 al 2003 4.429.436.000 euro spendendone per portare i servizi 9.664.224.000 e cioè oltre 5 miliardi di più? I tre tirano dritto: «A ciò si aggiungano gli introiti per gli enti locali e per lo Stato conseguenti alla regolarizzazione di tali immobili sotto il profilo fiscale e tributario...». Non solo: «Il vero "volano"» all’economia sarebbe «la possibilità di intervenire su milioni di immobili, che ormai abbisognano di rilevanti interventi edilizi manutentivi e strutturali, risalendo la loro costruzione ormai a decenni addietro». Sono abusivi? E vabbè... Sono stati tirati su in zone proibite? E vabbè... Sono da abbattere? E vabbè... Ecco quindi la leggina. Articolo 1: i comuni e le soprintendenze devono definire le pendenze «entro il termine di sei mesi». Articolo 2: «Il rigetto dell’istanza di condono presentata ai sensi del comma 1 deve essere motivato in relazione all’assoluta e insuperabile incompatibilità con il contesto paesistico-ambientale vincolato». Articolo 3: «Decorso inutilmente il termine di cui al comma 1 senza che il soprintendente per i beni architettonici e per il paesaggio abbia espresso il prescritto parere, l’amministrazione competente procede comunque all’adozione del provvedimento». Articolo 4: «La mancata adozione del provvedimento motivato di definizione delle pratiche di condono edilizio di cui al presente articolo è valutata ai fini della responsabilità dirigenziale o disciplinare e amministrativa, nonché ai fini dell’attribuzione della retribuzione di risultato dell’amministrazione competente». Traduzione: la mancata risposta va fatta pagare in busta paga a impiegati e dirigenti. Di più: «Resta salvo il diritto del privato di dimostrare il danno derivante dal ritardo della pronuncia dell’amministrazione indipendentemente dalla spettanza o meno del diritto al condono». Rileggiamo: «indipendentemente» dal fatto che l’abusivo abbia o no diritto al condono. Una sottolineatura significativa. «Di fatto è una riapertura perfino del condono del 1983. La maggioranza continua a mandare pericolosi segnali di tana libera tutti al Paese, che alimentano gli appetiti illegali e rischiano di regalare al nostro fragile territorio altre colate di cemento illegale», sbotta Ermete Realacci.

Difficile dargli torto. Basti ricordare come sia finita la «sanatoria delle sanatorie» tentata dalla regione Sicilia per rastrellare soldi dato che a larghissima maggioranza gli abusivi avevano solo avviato la pratica per il condono, pagando l’acconto del 10% necessario a sospendere inchieste e abbattimenti per poi infischiarsene del resto nella convinzione che il loro fascicolo sarebbe ammuffito nella polvere. L’autocertificazione offerta ai 400.000 «fuorilegge» era convenientissima. Il risultato fu questo: 1,1% di adesioni a Palermo, 0, 37% a Messina, 0,037% a Catania. Per non dire di Agrigento, dove i cittadini che scelsero di chiudere il vetusto contenzioso furono 3 ( tre!) su 12.000.

Ma davvero gli autori della proposta di oggi pensano che gli uffici pubblici che per anni hanno spesso tenuto bloccate apposta le pratiche per chiudere un occhio, evitare alla gente di dover pagare davvero tutto e non dare il via alle ruspe, possano oggi sistemare tutto in sei mesi? Che le sovrintendenze decimate negli organici e nei mezzi tecnici possano fornire risposte scritte per ogni singolo abuso? Assurdo. Sanno perfettamente che, se passasse la loro leggina, sarebbe sanato l’insanabile. Tanto più che tutti e tre vengono da un’area, quella tra Napoli e Caserta, che è una mostruosa metastasi cementizia cresciuta senza legge. La prima firmataria (lei pure «a sua insaputa»?) è Maria Elena Stasi, già prefetto di Caserta al centro di dure polemiche su un «buco» di ore nello scrutinio alle politiche 2006. Il secondo è Luigi Cesaro, proprietario immobiliare, deputato e (nonostante l’incompatibilità) presidente della provincia di Caserta. La terza è Giovanna Petrenga, già direttrice della Reggia di Caserta. Il messaggio che lanciano farà piacere a Nicola Cosentino, al quale sono vicini, ma anche alla buonanima di Totò. Che in una spettacolare scenetta declama: «Abusivi di tutto il mondo unitevi! Ci vogliono abolire! È un abuso! Abusivi: diciamo no all’abuso!».

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