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L’aveva detto. E alla fine, con un blitz, l’ha fatto. L’assessore regionale all’urbanistica Anna Marson ha messo nero su bianco quanto annunciato nelle settimane scorse: la Regione vigilerà sui Comuni, i regolamenti urbanistici che in alcuni casi hanno «bruciato» le previsioni pluriennali dei piani strutturali e l’autonomia che in diverse zone della Toscana sarebbe sfuggita al controllo.

Tutto questo è contenuto in poche righe. In una variazione al Dpef (documento di programmazione economica e finanziaria) approvata con una delibera di giunta il 12 luglio. Nella quale si stabilisce «di rivedere e perfezionare la legge 1 del 2005 (quella con le norme per il governo del territorio) per quanto concerne le relazioni fra Regione, Province e Comuni in merito alla redazione e approvazione degli atti di pianificazione e governo del territorio, al fine di assicurare un corretto ed efficace rapporto fra piani strutturali e regolamenti urbanistici e di accompagnare le autonomie comunali con adeguati strumenti di indirizzo, monitoraggio e valutazione».

Ma perché si tratterebbe di un blitz? Perché questa modifica, secondo il Pdl, è venuta dopo la fase di concertazione con le parti sociali e le associazioni, compresa quella dei Comuni, l’Anci. L’ultimo tavolo prima della variazione che riporta poteri di controllo, indirizzo e valutazione sull’urbanistica in seno alla Regione si era tenuto il 21 giugno scorso. A rappresentare l’Anci era intervenuto il sindaco di Pontassieve Marco Mairaghi, ma di una simile (anche se annunciata sui giornali e in Consiglio regionale) variazione quel giorno non se ne parlò, come si legge sui verbali della riunione.

La mossa della Regione è preliminare. Ma con due certezze importanti: si farà in fretta (il Dpef dovrebbe essere approvato entro la fine di luglio) e ci sarà la revisione della legge 1 sul governo del territorio (per la felicità della Rete dei comitati toscani, era la prima loro richiesta ufficiale a Rossi e Marson). Con in più, scritti neri su bianco nel Dpef altri principi dell’inversione di tendenza nell’urbanistica toscana: il potenziamento del riuso e della riqualificazione dei volumi edilizi esistenti; la tutela del territorio rurale; la definizione del pianto integrato territoriale rendendo effettiva la salvaguardia, la valorizzazione e la riqualificazione dei paesaggio regionali e l’adeguamento degli strumenti conoscitivi dello stato del territorio regionale (in primis il progetto di una nuova cartografia). Sulla carta insomma un bel giro di vite alla nuova edilizia.

Un blitz— dove è stata cancellata anche la soppressione delle Comunità Montane ma non un suo possibile «superamento» in favore delle Unioni dei Comuni — appunto, per il consigliere regionale del Pdl Nicola Nascosti: «Le comunità Montane non saranno soppresse e con le Unioni dei Comuni nascerà una nuova sovrastruttura. Sull’urbanistica invece la "sovietizzazione" tanto temuta dal presidente della Provincia di Firenze Andrea Barducci si è realizzata con il commissariamento delle politiche urbanistiche dei Comuni introdotto in un vero e proprio blitz dopo la concertazione a cui aveva partecipato anche l’Anci. La linea Marson è stata introdotta in maniera subdola». Per tutto il gruppo del Pdl però c’è di più in questo Dpef: «Una crisi istituzionale senza precedenti». «La giunta — ha detto il capogruppo Alberto Magnolfi — ha portato avanti la concertazione infrangendo le regole statutarie. Rossi contravvenendo allo statuto non ha presentato al tavolo delle parti sociali ed economiche gli atti di indirizzo del consiglio. Così si inficia la procedura. Ci riserviamo di impugnare il tutto davanti alla commissione di garanzia».

La struttura è da accampamento militare. Una copertura metallica, rivestita con un praticello in erba sintetica e ornata da vasi con vere piante rigogliose, che, a un clic di telecomando, scorre sui binari e svela ai bagnanti ciò che perfettamente mimetizzava nel verde di Roma: una piscina da 11 metri per 6 scavata nel terreno inviolabile dell’Appia Antica. Siamo al civico 219/a della "Regina viarum", che dal dopoguerra è (sarebbe) l’area archeologica più vincolata d’Italia. Invece il Parco è continuamente violato da costruzioni illegali e attraversato da 2000 macchine l’ora nelle ore di punta.

A scoprire il nuovo abuso nella villa privata, dopo le piscine dei circoli sportivi scovate e sequestrate due anni fa a via Appia nuova (Sporting Palace) e in via dell’Almone (Circolo tennis Acquasanta), sono stati gli archeologi della Soprintendenza statale. Oltre la recinzione della proprietà di Filippo Guani affacciata su uno dei punti più importanti di via Appia Antica, il tratto compreso tra i sepolcri romani di Claudio Secondo e quello della famiglia Rabiri, ecco brillare il blu di una vasca piena d´acqua. Ed è partita la denuncia alla procura per violazione dell’area protetta.

I padroni dei terreni (il 95% dei 3500 ettari del Parco è in mano ai privati) sono obbligati a chiedere il permesso anche per un gazebo estivo. O per una festa che preveda l’accensione delle fiaccole, visto il pericolo incombente di roghi. La proprietà della mega villa con piscina, nel 2008 aveva chiesto il permesso proprio per una cisterna interrata, utile "contro eventuali incendi". Permesso accordato. Ma invece del pozzo d’acqua piovana ecco una piscina. Di espedienti come questo sono piene le carte nelle migliaia di domande di sanatoria che ancora aspettano di essere respinte. Inoltre, l’Ufficio condono del Comune è paralizzato (la società che lo mandava avanti è fallita e ha lasciato a casa 300 dipendenti). E ci ha pensato l’XI circoscrizione, presieduta da Andrea Catarci (Sel), con la Regione (durante la giunta di centrosinistra), a mettere a segno demolizioni nelle proprietà di Gaucci o del costruttore Scarpellini (un parcheggio accanto alla villa che fu della Mangano), mentre si attende di intervenire contro gli edifici illegali della "Posta del Borgo" nella tenuta della Farnesiana.

«E’ assurdo, sono ancora in piedi domande dei condoni dell’85, del ‘95 e del 2003» ha denunciato il sottosegretario Francesco Giro. E mancano i soldi per arricchire le proprietà demaniali e mettere così l’Appia al riparo degli abusi, anche recentissimi: costruzioni illegali favorite dalle voci di un "condono dei condoni" nella manovra finanziaria o dalla facilità offerta adesso dalla "Scia" ("Segnalazione certificato inizio attività", al posto della vecchia "Via"), nonostante proprio ieri il ministro Bondi abbia assicurato che l’articolo 49 "prevede l’esclusione dei casi in cui sussistano vincoli ambientali, paesaggistici o culturali". «La soluzione è nell’articolo 31 del testo unico – spiega Massimo Miglio, protagonista di molte battaglie contro l’abusivismo al servizio del Comune e della Regione durante le giunte di centrosinistra – che prevede l’acquisizione del fabbricato illegale. Con la proprietà di Cavicchi davanti all’Acquedotto dei Quintili l’acquisizione è già avvenuta. E in questo modo si fa soprattutto una convincente azione deterrente».

Meno bus e metro o aumenti di biglietti e abbonamenti compresi tra il 36 e il 72%. La manovra che stringe il collo agli Enti locali, rischia di ridurre ai minimi termini il trasporto pubblico e lascia solo due alternative alle aziende: la riduzione del servizio o un ritocco record delle tariffe.

Secondo l´Asstra, associazione che riunisce le aziende del trasporto pubblico, potrebbero scendere dagli autobus, dalle metropolitane, dalle ferrovie locali oltre 270 milioni di passeggeri ogni anno, pari a circa 740mila persone al giorno. In gran parte sono pendolari e studenti che di fronte ai tagli e ai rincari, potrebbero scegliere di abbandonare i mezzi pubblici preferendo quelli privati, andando così ad ingrossare il già folto esercito degli automobilisti che ogni giorno si infilano nel traffico contribuendo all´inquinamento delle grandi aeree urbane.

Se il dimagrimento previsto dalla manovra imporrà a regime una riduzione pari al 10% delle risorse per il trasporto pubblico girate alle Regioni (e a cascata a Comuni e Province), si potrebbe arrivare ad un calo parallelo di 196 milioni di km in meno percorsi all´anno per autobus e metro e di 3,9 milioni di treni/chilometro in meno per le ferrovie regionali, esclusa Trenitalia. Ma la sforbiciata al settore potrebbe essere molto più pesante e rendere plausibile una diminuzione delle risorse del 20% per il servizio oggi offerto alla collettività. In questo caso la rimodulazione delle linee registrerebbe un saldo negativo di 392 milioni di chilometri offerti nel trasporto locale e meno 7,8 milioni di treni/chilometro.

«I tagli previsti dalla manovra sono la condanna a morte del sistema dei trasporti pubblici locali come lo conosciamo oggi in Italia» spiega Marcello Panettoni, presidente di Asstra, «la nostra è una previsione né fosca, né terroristica, né tantomeno politica, ma solo realistica e concreta affinché la politica e i cittadini sappiano a cosa si va incontro». In queste ore le aziende stanno pensando ad un piano "B" che non penalizzi i passeggeri: ma l´unica strada praticabile passa per un aumento delle tariffe. E che aumento: se la manovra ridurrà le risorse del 10%, le aziende saranno costrette a incrementare le tariffe del 36%. Ad esempio, un biglietto a tempo che oggi costa 1,04 euro schizzerebbe a 1,40. Un abbonamento mensile passerebbe, (nell´ipotesi di un taglio del 10%) da 32 a 43,50 euro con un aggravio pro-capite di 130 euro l´anno. Tutti valori che potrebbero raddoppiare nell´ipotesi di una riduzione delle risorse al 20%.

Ma l´impatto della manovra potrebbe avere anche delle ripercussioni sul personale in forza delle aziende: se le risorse caleranno del 10% ci saranno 9.860 dipendenti in meno a livello nazionale, dei quali 8.120 addetti alla guida. Il doppio, nel caso di un taglio del 20%. Il dimagrimento forzato degli autoferrotranvieri sarebbe del 7,2% nei servizi urbani e dell´8,9% nei servizi extraurbani e ferroviari. Nel dettaglio, rischiano il posto tra i 40 e gli 80 addetti a Bari, fino a 256 a Firenze e sono a rischio licenziamento fino a 1100 dipendenti Atm e fino a 750 lavoratori delle Ferrovie Nord a Milano. A Roma (Cotral) nel mirino ci sono dai 271 ai 542 addetti, tra i 422 e gli 880 a Torino e tra i 242 e i 511 a Napoli.

Per sopravvivere, il vascello fantasma del governo Berlusconi getta i corpi in mare. Sono i corpi dei feriti dagli scandali, politici o affaristici, consumati alla corte del Premier e spesso nel suo interesse, e sacrificati quando sale l´onda dell´opinione pubblica e della vergogna istituzionale. Prima Scajola, poi Brancher, oggi Cosentino. Due ministri e un sottosegretario. Il Cavaliere che se ne disfa, sommerso dal malaffare che lo circonda, è in realtà l´uomo che li ha scelti, li ha nominati, se n´è servito fino in fondo. Lo scandalo riguarda lui, e la sua responsabilità.

Per quindici anni, davanti ad ogni crisi, Berlusconi reagiva attaccando, cercando uno scontro e una forzatura, alzando la posta, in modo da creare nel fuoco dell´emergenza soluzioni prepotenti, da cui il suo comando uscisse rafforzato, non importa se abusivamente. Oggi deve rassegnarsi all´impotenza, incassando una sconfitta dopo l´altra e certificando così che gli scandali non sono difendibili.

In più, su Brancher come su Cosentino il Premier perde una partita con l´opposizione del Pd, ma soprattutto con l´antagonista interno Fini. Si scopre che anche nel mondo monolitico del berlusconismo è possibile dire no, fare discorsi di normale legalità e di ovvio rispetto istituzionale, e si può vincere politicamente, al di là dei numeri.

In questo quadro diventa ancora più grave la vergogna delle intercettazioni. È umiliante vedere un intero governo impegnato a boicottare il controllo di legalità e la libertà di informazione quando si squaderna ogni giorno di più lo scandalo P3, che riporta a «Cesare» e ai suoi interessi, con la cupola che cerca di corrompere la Consulta per il Lodo Alfano. «Cesare» a questo punto vada in Parlamento, e parli della P3 e dei suoi uomini disseminati in quel mondo parallelo, tra Stato e affari, come all´epoca della P2. Con la differenza che allora c´era l´intercapedine della politica, oggi è saltata, e quel mondo è direttamente al potere: ma oggi come allora, «comandano per rubare, rubano per comandare».

Il cemento assedia il paesaggio italiano. Case su case, inaccessibili per chi ne ha bisogno: sono 4 milioni quelle costruite negli ultimi 15 anni, un milione quelle vuote nelle grandi città mentre cresce il disagio abitativo della popolazione, con oltre 110mila famiglie sfrattate negli ultimi due anni. Il mattone avanza, l’urbanizzazione corrode il territorio al ritmo di 500 chilometri quadrati in media ogni anno, mangia spazi pari a circa 3 volte la superficie del Comune di Milano.

È il risultato di una speculazione edilizia che non risponde alla domanda di case, che hanno prezzi inaccessibili per giovani, anziani, immigrati. Occorre cambiare rotta, denuncia Legambiente, che oggi presenta un dossier sul consumo di suolo in Italia, suggerendo proposte per rispondere ai problemi delle città e rilanciare il settore delle costruzioni che ha visto chiudere 15mila imprese edili.

«Le priorità sono l’housing sociale e la riqualificazione del patrimonio esistente», chiarisce il presidente Vittorio Cogliati Dezza. Tanti centri storici sono abbandonati, negli anni dell’urbanizzazione spinta i principali nemici del paesaggio, denuncia il dossier, sono diventati i centri commerciali, «avanguardie mandate avanti a colonizzare il territorio», chiarisce Cogliati Dezza; la crescita dissennata delle seconde case (il record è di Pragelato, Torino, dove sono il 92,25% ma anche sulle aree costiere), e politiche territoriali che hanno permesso la nascita di periferie dequalificate.

Usare un approccio nuovo sulle questioni edilizie e abitative, suggerisce Legambiente, e sostituire al modello di sviluppo centrato sul mattone uno attento all’innovazione energetica e tecnologica che punti al recupero del patrimonio edilizio, fermi il consumo di suolo, risponda alla domanda abitativa. «Se i costruttori lo hanno compreso, le principali resistenze vengono dal decisore politico», dice il presidente. «Dall’inizio dell’anno ci sono stati otto tentativi di far passare un nuovo condono e gli enti locali sono chiusi davanti a questa prospettiva perché gli oneri di urbanizzazione sono l’unica fonte di finanziamento». Anche se l’Italia è uno dei paesi con i vincoli paesaggistici più diffusi (il 47% del territorio), il consumo di suolo ha superato il 7%: «un dato significativo per l’orografia del paesaggio perché si concentra in poche aree abitabili», precisa Cogliati Dezza. Alcune stravolte dall’urbanizzazione. Come il paradosso Liguria, con oltre il 45% di superficie consumata in soli 15 anni.

«Non permettiamo a nessuno di dire che siamo strumentalizzati». Conferenza stampa a Roma dei comitati cittadini aquilani: «La nostra città sta morendo e questo vale per tutti, a destra, a sinistra, al centro».

Nei filmati si vedono i sindaci, il sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, altri sindaci con la fascia tricolore, i vigili urbani con i gonfaloni, schiacciati, strattonati. Si vedono persone anziane, in particolare uno, con la paglietta sulla testa, che batte le mani ironicamente. Si vedono tanti ragazzi e ragazze giovanissimi con gli zainetti sulle spalle. Tutti a viso scoperto, tutti con le mani nude alzate. Poi la sorpresa, quando arrivano le manganellate: «Che c.. fate?». Si vedono i due ragazzi inermi a cui le manganellate hanno spaccato la testa e i giornalisti a cui viene impedito di lavorare. Sono centinaia i filmati prodotti dai comitati, da giornalisti e dalla Digos. Nessuno dei manifestanti del 7 luglio a Roma ha compiuto atti aggressivi. È una cosa dimostrata indirettamente dai nomi degli stessi denunciati: un romano, reo di aver prestato ai manifestanti aquilani il furgoncino su cui sono stati piazzati i megafoni, un aquilano che è quello che ha firmato la richiesta di autorizzazione.

Nella sala del mappamondo della Camera dei Deutati sono tre donne, dalle storie diverse, a raccontare ai giornalisti e ai deputati presenti, da Bruno Tabacci a Paola Concia, da Giovanni Lolli a Mantini, la «verità dei fatti». Sara Vegni, portavoce del centro sociale 3 e 32, Anna Lucia Bonanni, insegnante, Giusi Pitari, prorettore dell’università dell’Aquila.

SCORTATI

«I nostri 43 pullman, a cui si sono aggiunti gli aquilani in macchina e quelli che hanno utilizzato i mezzi pubblici, sono stati scortati dai mezzi della Questura de l’Aquila fino alla barriera di Roma est. A quel punto siamo stati accompagnati dai mezzi della questura di Roma, facendo un itinerario lunghissimo. Così siamo approdati a Roma, a piazza Venezia, dove abbiamo trovato polizia e carabinieri in assetto antisommossa». Comincia così il racconto collettivo che prosegue: «I non aquilani che sono venuti alla manifestazione sono persone che conosciamo, che sono stati con noi, per solidarietà, fin dal 6 aprile 2009. Non permettiamo a nessuno di dire che siamo stati strumentalizzati». Strumentale è, invece, fare di tutto per oscurare le nostre ragioni: «Il miracolo a l’Aquila non c’è stato. L’unico miracolo aquilano siamo noi che resistiamo in una città che non c’è più. Non c’è più nella zona rossa del centro storico ma non c’è più nemmeno nelle periferie, dove i pochi che resistono vivono senza servizi e senza negozi».

Una città che non esiste più né «per la destra, né per il centro, né per la sinistra», è per questo «che il nostro corteo voleva raggiungere il Senato e palazzo Chigi». I palazzi del potere, non la «residenza privata di palazzo Grazioli. Via del Plebiscito era per noi, in un corteo dove c’erano anziani, la via più breve per raggiungere il Senato».

Sono ancora poche le possibilità di lavoro in agricoltura per chi deve partire da zero e la politica dovrebbe farsi carico di agevolare il ritorno alla terra, ora che la ricerca di nuovi stili di vita inverte i flussi migratori fra le città e le campagne. Dovendo raccontarvi il mio percorso culturale e professionale devo premettere che mi ritrovo in una fase della vita in cui credo di avere messo in discussione tante certezze, aprendomi a delle scelte un po’ incerte ma senz’altro molto stimolanti. Non è facile riassumere in poco tempo il percorso di una vita, ma cercherò di farlo in poche parole, soprattutto per lasciare spazio ad altri interventi.

Mi occupo da quasi trenta anni dell’allevamento della vacca da latte e ho trascorso parecchio tempo in un mondo prevalentemente maschile, questo mi ha aiutato a pormi degli obiettivi cercando di migliorare le caratteristiche genetiche e produttive della mia mandria, ma ha anche contribuito ad accettare dei criteri di produzione e allevamento che negli ultimi anni mi mettevano a disagio e mi lasciavano insoddisfatta. D’altronde con tre figli, un marito, i nonni da seguire, l’orto, la stalla, un po’ d’impegno sociale e di attenzione alla politica del quotidiano, grossi spazi di tempo per ripensare o meditare sulla mia professionalità non ne rimanevano.

Soprattutto non ricevevo stimoli, ero uscita dall’università avendo appreso che la vacca da latte è una macchina eccezionale per trasformare erba e foraggi in latte e formaggi, ma le tendenze moderne mi spingevano a produrre grosse quantità di trinciato di mais, e a produrlo con i mezzi più moderni.

Apportando concimazioni chimiche al terreno, e lottando contro le malerbe con l’uso dei diserbanti chimici. Così ho incominciato a ripensare agli anni di studio, alla tesi di gruppo che avevo svolto in Val di Scalve, e mi sono accorta che i risultati del mio lavoro erano già stati superati dopo qualche anno di pratica agricola. Avevo con i miei compagni avviato la bellissima esperienza di gestire per pochi mesi una piccola stalla in cui svezzare con un sistema precoce le vitelle che, degli allevatori esageratamente fiduciosi, ci avevano affidato e alcuni anni dopo, nella mia stalla, ritornavo io stessa a usare il latte di vacca nello svezzamento e abbandonavo il latte artificiale.

La situazione del mercato, le quote, avevano ribaltato in poco tempo i risultati economici della mia tesi. Nonostante un dubbio avesse incominciato a farsi strada nella mia testa, ho continuato a rincorrere indici genetici, morfologici, produttivi, a compiacermi dei risultati ottenuti, però tanto più le mie vacche diventavano produttive più aumentava il divario tra il prezzo del latte e i costi sostenuti per produrlo. Avviata la stalla nel 1980 con una ventina di ettari siamo riusciti negli anni a raddoppiare la superficie coltivata passando dall’agricoltura convenzionale all’integrata, producendo la base foraggera della razione ma dovendo comprare all’esterno una grossa quota di mangimi.

Con la costante ascesa del prezzo dei mangimi, causato in parte dagli effetti climatici e dalle estati siccitose (problemi di aflatossine nel mais) e dalle speculazioni finanziarie nell’anno in cui il petrolio superò i cento dollari a barile, la gestione economica della stalla è diventata sempre più problematica. In questa situazione molti allevatori hanno continuato a credere nella crescita infinita, ad aumentare i capi, altri a chiudere, qualcuno a cercare altre vie. Io cercavo fiduciosa di resistere, un po’ perché ogni tanto guardavo la foto della stalla di brune dei miei nonni che durante i tempi della guerra erano riusciti a far studiare cinque figli mantenendoli al collegio, e un po’ perché ho sempre creduto che la piccola azienda zootecnica costituisca una forma di presidio e di difesa del territorio.

Fu la scelta di mio marito di trasformarci in azienda agrituristica a innescare il primo cambiamento, e a qualificare la nostra attività avviando dei contatti molti positivi con altre aziende.

Come spesso succede l’aprirsi a nuove idee e a contatti con l’esterno arricchisce enormemente il proprio bagaglio culturale e così mentre lui creava un Consorzio Agrituristico e incominciava una collaborazione nel comitato agricolo del Parco Sud, io decidevo di dedicare del tempo all’associazione Donne in Campo e alla creazione di un distretto equo solidale del Sud Milano (DES).

L’incontro con il DES, che ha come sostenitori molti gruppi di acquisto solidali, consumatori che prediligono il biologico, e la mia partecipazione a un seminario di Terra Madre sui cambiamenti climatici e l’agricoltura ecocompatibile, ha poi indirizzato la scelta più recente, e cioè la conversione all’agricoltura biologica.

Questa scelta comporterà da una parte una riduzione del numero di capi per ridimensionare il peso del carico animale sulla superficie coltivata, e dall’altra la ricerca di un diverso sbocco del latte prodotto che in parte verrà probabilmente caseificato e consumato all’interno del distretto. Ma comporterà anche la riduzione della coltivazione del mais, e l’avvicendamento di nuove colture con cui aumentare le produzioni proteiche riducendo drasticamente l’acquisto dei mangimi. Ce la faranno le mie vacche così selezionate negli anni?

Per adesso almeno le asciutte si godono il pascolo e hanno imparato a mangiare l’erba… Il resto sarà una sfida perché se un tempo pensavo che potessero essere biologiche le aziende che territorialmente erano favorite dall’essere isolate dai grandi centri urbani, ora ritengo che il cercare di produrre alimenti biologici all’interno delle fasce perturbane diventi una forma di presidio agricolo di fronte all’eccessiva urbanizzazione e al devastante consumo di suolo. E’ ormai fondamentale creare sinergie con i cittadini più attenti e sensibili alla difesa dei beni comuni prima che” la città cancelli la campagna “, come ha recentemente scritto in una sua relazione l’urbanista Edoardo Salzano. Certamente, l’ho capito in questi ultimi mesi andando a visitare aziende biologiche, questa è una scelta che ancora oggi pochi allevatori possono capire, ma certamente molto si potrebbe fare per cercare di diminuire l’uso delle sostanze chimiche in agricoltura, concimi, diserbanti, insetticidi, pesticidi, erbicidi, razionalizzando l’uso dei farmaci e dei presidi sanitari, ma soprattutto molto si deve fare per ridurre l’impatto dei combustibili fossili usati in agricoltura.

L’agricoltura industrializzata, basata sulla chimica, sui combustibili fossili, sui sistemi alimentari globalizzati, che si fondano a loro volta sui trasporti ad alta intensità energetica e a lunga distanza, ha un impatto negativo sul clima. I sistemi agricoli multifunzionali e biodiversi e i sistemi alimentari localizzati sono essenziali per garantire la sicurezza alimentare in un’era di cambiamento climatico. Le battaglie di Vandana Shiva per difendere i diritti dei contadini indiani nel continuare a prodursi le loro sementi, nel rifiutare le colture OGM e nel richiedere l’accesso all’acqua, non sono poi così lontane dalle nostre realtà, perché tutti i difetti delle monocolture industriali si stanno evidenziando ormai sempre di più. Il diffondersi della diabrotica da una parte, e la moria delle api dall’altra sono segnali preoccupanti di uno squilibrio creato dalla diffusione del seme conciato con prodotti dannosi all’ambiente e il cui uso, è dimostrato, è assolutamente inutile adottando tecniche agronomiche appropriate e il ripristino delle rotazioni colturali.

La direttiva nitrati, che in Italia come sempre si cerca di rimandare, ci impone delle riflessioni profonde sui metodi di allevamento, e sulle scelte programmatiche che hanno teso ad accorpare e a ingrandire le aziende agricole dimenticando nozioni fondamentali che impongono il rispetto degli equilibri tra la fertilità della terra, il suo sfruttamento e la densità di animali allevati. Ripensando agli anni dell’Università ricordo alcuni insegnamenti fondamentali ma l’esperienza più significativa è stata senz’altro quella delle tesi di gruppo. Ci insegnò a lavorare insieme, a progettare il piano di sviluppo della Comunità Montana, a rapportarci con gli allevatori, a far uscire dalla facoltà i docenti più disponibili e portarli sul territorio, a misurare le nostre nozioni sulle consuetudini delle pratiche agricole tradizionali, un’esperienza unica che non credo sia paragonabile al tirocinio che venne poi proposto agli studenti prima di laurearsi.

Se dovessi dare un consiglio ai ragazzi che studiano oggi agricoltura, li inviterei a rendersi più partecipi per difendere i beni comuni che l’amministrazione pubblica e la politica governativa continua a sacrificare in nome di un progresso e uno sviluppo che emargina i più deboli e arricchisce sempre gli stessi. Aria, terra, acqua, elementi fondamentali per garantire il vostro futuro sono sempre più mercificati.

L’aria sempre più inquinata, la terra consumata, l’acqua privatizzata, non scordiamoci che l’agricoltura, con le attività forestali, è indispensabile alla sopravvivenza umana, occorre garantire nuovi spazi e con coraggio avvicinarsi alle attività agricole.

Vorrei concludere con un commento di Carlin Petrini che proprio all’inaugurazione dell’edizione di Terra Madre del 2008 più o meno disse: “Se l’economia mondiale è messa in crisi da meccanismi che hanno premiato virtuosismi finanziari e accentuato i problemi della carenza di cibo e il dramma di intere popolazioni, è attraverso una nuova rivoluzione industriale che si potranno dare nuove risposte alla crisi dei modelli di sviluppo fin qui proposti, ma questa rivoluzione sarà fatta dai contadini di tutto il mondo che produrranno beni non effimeri riportando la terra e le sue risorse al centro dell’attenzione.”.

Da Cascina Isola Maria.

A settembre Emergency aprirà un poliambulatorio a Marghera, nella palazzina comunale di via Varè, ex sede del Centro di salute mentale dell’Asl 12. Dopo quella di Palermo, sarà la seconda struttura di questo tipo in Italia targata dall’organizzazione fondata da Gino Strada. «Il nuovo servizio - ha dichiarato polemicamente Strada - offrirà cure gratuite ai molti migranti che approdano in Veneto e hanno difficoltà ad accedere ai presidi sanitari pubblici».

«Benché sia questo l’obbiettivo principale, la nuova struttura sanitaria sarà aperta anche per le persone di questo nuovo Paese del terzo mondo, l’Italia. Prima o dopo saremmo costretti noi ad andare nei Paesi da cui fuggono queste persone per chiedere ospitalità, visto come qui si stanno svilendo i diritti e la dignità delle persone».

L’idea del poliambulatorio di via Varè non è piaciuta ad Antonio Cavaliere, consigliere comunale del Pdl che ha firmato un’interrogazione al sindaco Giorgio Orsoni molto critica su tutta l’operazione. In sintesi, il rappresentante del centrodestra vede il poliambulatorio di Emergency come un inutile doppione dei servizi simili istituzionali dell’Asl 12 e del privato sociale (Caritas e Misericordia) che potrebbe comportare delle spese superflue da parte del Comune a cominciare da quelle per il restauro dello stabile. Inoltre, Cavaliere teme che il nuovo presidio sanitario di via Varè possa comportare problemi di sicurezza sociale e sanitaria. Il consigliere comunale sostiene che non c’è alcun bisogno di creare un ambulatorio specifico per gli extracomunitari senza permesso di soggiorno perché l’ordinamento italiano impone alle strutture pubbliche di erogare le prestazioni sanitarie a tutti senza distinzioni. «La Costituzione italiana - evidenzia Cavaliere - garantisce la tutela alla salute come diritto fondamentale dell’individuo e stabilisce l’obbligo delle cure gratuite agli indigenti. Inoltre, non ci sono problemi particolari per i clandestini perché la legge non costringe il medico a denunciare chi è privo di permesso di soggiorno ma al contrario gli impone di curare chi ne avesse la necessità. Poi ovviamente il medico è libero di decidere come comportarsi in casi del genere». Il politico, inoltre, a sostegno del suo punto di vista cita una nota con cui la Regione Friuli Venezia Giulia ha motivato la contrarietà a strutture analoghe a quelle di Emergency nel proprio territorio. «È ovvio - afferma il consigliere comunale - che il legislatore abbia posto quale indirizzo prioritario quello di assicurare l’assistenza ai cittadini stranieri presenti nel territorio nei presidi pubblici e privati, così come previsto dal testo unico sull’immigrazione ma è anche vero che spetta alle Regioni individuare le relative modalità nell’ambito della propria competenza».

ESCLUSE DALL’ART.49 LE MATERIA DISCIPLINATE DAL CODICE DEI BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO

Italia Nostra, prendendo atto che è stata accolta la propria richiesta di escludere dal dispositivo dell’art. 49 della “Manovra” (ddl 2228) - S.C.I.A. (segnalazione certificata di inizio attività) - le materie disciplinate dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio, ringrazia i parlamentari di tutti gli schieramenti che si sono adoperati per arginare lo smantellamento del sistema della tutela, come garantita dall’art. 9 della Costituzione.

Italia Nostra ribadisce la propria ferma opposizione all’introduzione dell’istituto della S.C.I.A, che ulteriormente indebolisce la funzione pubblica di governo del territorio e della città e si rivela l’ennesima aggressione al Paese perché lascia indifeso il nostro patrimonio di fronte alle peggiori speculazioni. La S.C.I.A. è una minaccia gravissima e incivile.

Roma, 14 luglio 2010

Cinquanta euro a pezzo. Sono prezzi da saldi stagionali quelli previsti dalla nuova versione dell´archeocondono. La proposta di legge numero 3540, depositata alla Camera dei deputati, reca come titolo «Disposizioni per il censimento e la riemersione dei beni archeologici in possesso di privati». Pagando appena cinquanta euro per «spese di registrazione e di catalogazione», chiunque possegga un reperto archeologico mai denunciato può mettersi tranquillo: verranno estinti i reati commessi. Quelli, appunto, di detenzione illegale di un bene archeologico.

Una sanatoria. Un colpo di spugna radicale su una delle piaghe che affliggono il patrimonio d´arte del paese. E che va in direzione opposta rispetto agli sforzi che si compiono per far rientrare in Italia opere trafugate ed esposte nei musei di diversi paesi. Al momento è una proposta di legge, ma sono in molti a sospettare che il vero obiettivo fosse di infilarlo nel maxi emendamento del governo alla manovra finanziaria. Finora l´operazione non è riuscita. Sollecitato da un allarme lanciato da Manuela Ghizzoni, pd, il relatore della manovra, Antonio Azzollini, pdl, ha smentito che l´archeocondono fosse fra gli emendamenti. Ieri, però, è intervenuto Fabio Granata, pdl legato a Gianfranco Fini, che ha di nuovo messo in guardia.

Tutta la vicenda è comunque misteriosa. Il testo presentato alla Camera è firmato da cinque deputati del Pdl, Giuseppe Marinello, Gioacchino Alfano, Roberto Antonione, Marco Marsilio e Gerardo Soglia. Marinello non è nuovo a iniziative del genere, essendo stato autore nel 2004 di un progetto analogo, insieme a Gabriella Carlucci. Questa proposta è sostanzialmente diversa rispetto a un altra circolata qualche giorno fa (e di cui Repubblica aveva scritto). Ed è molto più favorevole a chi possiede una ceramica attica o etrusca. Prevede infatti che, dichiarato il possesso di un bene, di quel bene si diventi a tutti gli effetti proprietario (nell´altro testo si parla di "depositario"). E che dunque quel bene possa essere venduto. D´altronde nella relazione che introduce gli articoli, si legge che fra gli obiettivi c´è quello di riavviare in Italia il mercato dell´arte e di tutelare il collezionismo, compresso da norme illiberali e da una «cultura del sospetto». Che ostacolano un diritto definito «inalienabile», quello di possedere reperti, cioè «un´espressione del gusto e della sensibilità artistica».

Stando alla proposta di legge, chiunque possegga collezioni archeologiche, anche all´estero, può comunicarlo alla Soprintendenza, la quale semplicemente prende atto. All´articolo 11 si stabilisce che «le spese di registrazione e di catalogazione sono fissate in 50 euro a pezzo» (nell´altro testo circolato si pagava il 30 per cento del valore e la Soprintendenza poteva contestare la valutazione). 50 euro si pagano anche per dieci pezzi di collezioni numismatiche. Poi, come al supermercato, ci sono le offerte: «I frammenti ricomponibili sono considerati come pezzo unico». Cioè sempre 50 euro.

«Digli a tuo fratello di non preoccuparsi perché tra due giorni gli facciamo un bel regalo». È la frase che il killer del clan dei Casalesi Giuseppe Setola dice a Luigi Ferraro fratello di Nicola Ferraro dirigente dell´Udeur e all´epoca dei fatti, presidente della Commissione permanente della Regione Campania, l´organismo che controlla la trasparenza degli affari istituzionali regionali.

Il regalo a cui fa riferimento Setola è tappare la bocca a un imprenditore che sta raccontando tutti i rapporti tra camorra e politica, tutti gli affari. Tappargliela per sempre. Ammazzarlo. E così la camorra fa il regalo a Nicola Ferraro uccidendo con 18 colpi Michele Orsi, 17 al corpo l´ultimo in faccia. Lo ammazzano nel giugno del 2008 impedendo così che Orsi imprenditore che la camorra aveva reso potente potesse - come aveva iniziato a fare - raccontare come funziona la politica italiana, come funzionano gli appalti, come le banche decidano di dare credito in base alle volontà dei loro maggiori clienti: i boss. Come i voti siano soltanto pacchi da spostare su un nome piuttosto che un altro e prescindano da qualsiasi programma politico.

Eppure di questa inchiesta della Dda di Napoli realizzata da Antonello Ardituro e Leandro Del Gaudio coordinati dal Pm Cafiero De Raho e le cui indagini per anni sono state fatte dai Ros di Napoli non se n´è parlato. I media l´hanno ignorata. Un cenno al telegiornale come soliti ed ennesimi arresti di criminali. Mentre invece queste indagini sono la dimostrazione oggettiva che la democrazia italiana sia completamente avvelenata dai capitali criminali, che migliaia di persone per garantirsi uno stipendio vendono il proprio voto a ras politici che si spostano da una parte o dall´altra a seconda di quanta disponibilità agli affari abbia lo schieramento politico di turno. Una inchiesta che mostra i meccanismi, le logiche, i poteri veri. Attraverso la gestione delle provincie i clan arrivano a mettere le mani su bottini milionari e a governare l´intero paese.

La Campania fu regione fondamentale assieme alla Calabria sia alle elezioni che videro vincere il centrosinistra sia alle ultime che hanno visto l´egemonia del centrodestra. Di chi furono i voti fondamentali? Chi li ha dati? Dov´è caduto il governo di centrosinistra? A Caserta. Il sottosegretario allo sviluppo che secondo le accuse della Dda di Napoli è un uomo del clan dei casalesi Nicola Cosentino è casertano. Attraverso la ferita di questa provincia passano gli affari più grossi e marci che se si percorrono sino infondo portano direttamente a Roma, a Milano, ai grandi affari nazionali e europei. Questa inchiesta è una delle più sconvolgenti dimostrazioni di come la camorra comanda su impresa e politica riuscendo letteralmente a determinare equilibri elettorali e gestione dei posti di lavoro. Il meccanismo è rodato e immutabile.

Il clan gestisce gli appalti attraverso la potenza economica delle proprie imprese e coordinandosi con politici. che loro stessi creano. L´assegnazione degli appalti in gran parte della Campania viene decisa dal clan a tavolino con un meccanismo che si chiama "rotazione". Ossia assicurata alle varie imprese compiacenti, per cui di volta in volta si sceglie chi vincerà. Un meccanismo che non permette il monopolio: una azienda che vuole vincere gli appalti può farlo se decide di entrare in rotazione, paga una serie di quote al clan, assume persone, sceglie materiali del clan e a qual punto può partecupare alla rotazione, entra nel sistema. Il clan con la complicità dei pubblici funzionari si fa indicare le imprese che hanno "preso visione"del bando: se ci sono imprese non del sistema, vengono avvicinate e allontanate.

L´Udeur di Clemente Mastella è lo strumento non solo attraverso cui le organizzazioni criminali cercano di entrare direttamente nella disputa politica ma l´interfaccia attraverso cui poter incontrare anche politici Nicola Ferraro infatti tratta anche con esponenti del Pd come racconta il pentito Di Caterino:

«Nicola Ferraro, infatti, era molto legato al sindaco di Villa Literno, Enrico Fabozzi (ora consigliere regionale Pd) e quindi era in grado, per quanto a nostra conoscenza, di incidere nella aggiudicazione di questo appalto del valore di circa un milione di euro. La trattativa ha visto, poi, successivi incontri nei quali Luigi Ferraro ha dato la disponibilità per far vincere questo appalto alla persona da noi indicata. Ci ha detto, quindi, di recapitargli la busta con l´indicazione del nominativo della ditta rassicurandoci che non ci sarebbero stati problemi. Ho saputo, successivamente, che effettivamente l´appalto era stato aggiudicato alla persona da noi indicata e che i lavori poi sono stati effettivamente svolti».

Le intercettazioni di questa inchiesta che - se passasse la legge bavaglio questo giornale non potrebbe mostrarvele - sono davvero esplicative più di qualsiasi analisi o descrizione. Questa di seguito è l´intercettazione avvenuta nella Mercedes di Nicola Schiavone cugino dell´omonimo Nicola Schiavone figlio di Sandokan, parla con la sua fidanzata Raffaella.

NICOLA = no lunedì devo andare su un Comune là?

RAFFAELA = eh...

NICOLA = perché... dovremmo incominciare a lavorare noi, dovrei lavorare io... tutto sta a conoscere questo Sindaco qua, e vedere un po´ come funziona no? poi quando ci sta qualche cosa... dato che ci sta uno di Casale, che ha l´amicizia con il Sindaco, questo di Casale dice, è un politico no? dice qua, questo ehhh ti presento a mio nipote, questo e quello là che deve lavorare, dato che è la stessa corrente politica inc.. questo di Casale è assai più forte del Sindaco, hai capito? Allora è grosso capito? Nicola, Nicola Ferraro. Come non sta nella politica, alla faccia del cazzo….. insieme a Mastella… sta

La fidanzata non capisce chi è questo politico che presenta Schiavone ai sindaci dei paesi e gli fa vincere gli appalti e allora Schiavone gli cita il soprannome Focone, ogni persona in provincia è nota per il soprannome non per il nome.

La camorra sa benissimo su chi puntare. E quindi sceglie tra i politici quelli più scaltri, ambiziosi, furbi, capaci di saper intrattenere relazioni e di voler crescere. Di Luigi Ferraro, Nicola ha una pessima considerazione lo considera un animale incapace. Ma poi continua. Qui li giovane figlio del boss spiega esattamente il modo di costruire un politico

NICOLA = bravissima, mo´ cosa succede, succede che quando tu diventi Sindaco no? la politica è come una carriera... giusto? tu incominci a candidarti come consigliere, poi ti candidi come Sindaco, poi ti candidi alla provincia, poi ti candidi alla Regione e poi ti candidi al Governo, o no... è una scaletta...

RAFFAELA = è una scala dai...

NICOLA = mo´ il Sindaco... il Sindaco ha, sta nello stesso partito di Focone, mo´ Focone sta candidato alla Regione, ha vinto, hai capito o no?

NICOLA = eh, che lavorano per lui, perché Nicola Focone ha l´immondizia a tutte le parti, il camion che viene a prendere l´immondizia a Casapesenna..

RAFFAELA = tutti di Focone sono...

NICOLA = sono tutti di Focone vengono tutti da Casale

RAFFAELA = inc..

NICOLA = sempre... ma non li ha solo qua, lo ha presente a 30-40 comuni...

Tutte le gare sono corrette formalmente ma gli appaltatori sanno già quanto devono offrire per vincere. Tutte le imprese hanno il certificato antimafia, tutto formalmente in regola. Tutto gestito dai clan. Le elezioni del 2003, 2004 e 2005 in terra di camorra sono state gestite dal clan Schiavone ed anzi direttamente da Nicola Schiavone il figlio di Sandokan. L´inchiesta dimostra questo. Il fallimento della democrazia in territorio campano. Il personaggio chiave di tutto continua ad essere Nicola Ferraro tratto in arresto dai carabinieri ieri.

La campagna elettorale di una parte del centrosinistra (e poi del centrodestra alle ultime elezioni) la gestisce direttamente la camorra. Essere un politico del clan ha i suoi vantaggi e Nicola Schiavone lo spiega sempre mentre non sa di essere intercettato.

NICOLA= Focone(Nicola Ferraro) può mai essere che se ci può fare un piacere non ce lo fa a noi?!...

RAFFAELA= eh... certo...

NICOLA= il fratello si è sposato la cugina di mio padre, gli siamo compagni, lo facciamo venire a casa, sa che lo votiamo, sa che gli facciamo gli altri voti...

RAFFAELA= inc..

NICOLA=per la faccia di Sandokan, la che.... Sandokan lo ha fatto arricchire...

Quando il clan riesce a far vincere Ferraro si incontrano a festeggiare. Tutti i camorristi si confrontano, ognuno aveva il suo candidato, ma ha vinto quello della famiglia Schiavone. Il giorno precedente alla citata festa elettorale, Nicola Schiavone commentava con la propria fidanzata l´organizzazione approntata per omaggiare il candidato e gli esatti motivi per i quali il convivio era stato organizzato col consenso della famiglia del capo clan Sandokan. I ros pedinano Nicola Ferraro e scoprono che si incontra con il clan Schiavone. Notano persino che il clan quando lui arriva a Casal di Principe gli fornisce dei guardiaspalle.

Tutto passa per i casalesi. Anche l´ospedale. Decidere gli infermieri, i medici, i macchinari, la mensa. Tutto passa per le loro decisioni. E la borghesia cittadina casertana che da anni finge di non avere a che fare con i casalesi si rivolge a loro. Il 7 febbraio 2006, alle ore 18.56, veniva registrata una telefonata tra Ferraro e Federico Simoncelli, ex assessore all´ambiente della Regione Campania: Simoncelli chiedeva a Ferraro di potersi interessare per dare seguito ad una richiesta dell´avvocato Franco Schiavo, di Caserta, il quale aveva un´esigenza connessa al futuro professionale del proprio figlio medico. Tale soggetto - a dire del Simoncelli - aveva una raccomandazione personale dell´onorevole Mastella.

L´avvocato Schiavo aveva un figlio medico, provvisoriamente assunto presso l´Azienda Ospedaliera San Sebastiano di Caserta, quale dirigente del reparto di Urologia. Nel mese di marzo 2006 il contratto di lavoro sarebbe scaduto e l´avvocato Schiavo chiedeva a Ferraro di interessarsi affinché il proprio congiunto fosse assunto a tempo indeterminato tramite il già preannunciato e non ancora determinato concorso pubblico. Ferraro se ne occupa, chiama il direttore dell´ospedale di Caserta e come se fosse un suo dipendente gli impone il nome di Maurizio Schiavo come urologo dell´ospedale di Caserta. La camorra decide anche le carriere sanitarie. Ferraro alza ancora il tiro e non teme ostilità da Annunziata il direttore dell´ospedale di Caserta che gli aveva detto di essere stato contattato da diversi soggetti, alcuni dei quali definiti testualmente: «massoni.. delinquenti.. mascalzoni.. cornuti e ricchioni». Ferraro e quindi i casalesi vogliono gestire direttamente l´Azienda Ospedaliera di Caserta. Tenta di imporre alla direzione sanitaria un altro medico di propria fiducia: Carmine Iovine già direttore medico di presidio dal 2003 è il cugino del boss latitante Antonio Iovine e fratello di Riccardo Iovine arrestato per aver dato ospitalità al killer in latitanza Giuseppe Setola.

Ferraro contattava il Direttore Generale Annunziata per concordare un appuntamento e promuovere la candidatura del cugino del boss. Annunziata assicurava la propria collaborazione e sottolineava la propria volontà a non contrastare l´orientamento dei vertici del partito. Ma arrivano i guai, sta per nascere il conflitto tra la moglie di Mastella e Annunziata che porterà alla caduta del governo di centrosinistra. Carmine Iovine non viene più messo al suo posto, resterà a lungo capo del personale. Troppa luce nazionale, troppa attenzione. E quindi si ferma il progetto.

Ma la domanda che viene da tutto questo è: com´è possibile che tutto questo lasci indifferente un paese? Com´è possibile davvero che si blateri che raccontare queste storie sia un modo per diffamare il territorio? Quando gli affari, la corruzione estrema ha ormai eliminato la possibilità di sviluppare una politica sana. Una impresa libera dai clan. Quando non sembra esserci altra alternativa che o corrompersi o emigrare. Non sembra altra soluzione che pensare alla possibilità che le istituzioni politiche campane siano tutte commissariate, dalla provincia alla regione sino a quando non riusciranno a garantire un minimo sufficiente di legalità. I casalesi hanno un´espressione per giustificare la loro ossessione di comandare "il mondo è di chi se lo merita" sarebbe bellissimo se il merito smettesse di essere questa dannata capacità di corruzione e violenza. E merito potrebbe essere interrompere questi meccanismi. Ma per interromperli bisogna conoscerli e continuare a raccontarli e contrastarli rompendo questa gigantesca omertà che si declina tra chi ha paura di raccontare e chi non vuol sapere. Solo così rimane accesa una speranza di cambiamento.

«E' una deregulation pericolosa, che ostacola una reale e necessaria semplificazione. Anziché semplificare, il nuovo atto contenuto nella manovra Tremonti apre una prospettiva di contenzioso notevole, e costringe le Regioni e gli enti locali a rincorrere affannosamente le cosiddette "innovazioni" che generano solo incertezza, distogliendole dall'applicarsi a introdurre plausibili e effettive semplificazioni , come già previsto dalla Regione Toscana». Così l'assessore regionale all'urbanistica Anna Marson definisce l'articolo 49 della manovra finanziaria del Governo, da oggi in aula al Senato, che prevede l'introduzione della "Scia", cioè la "Segnalazione certificata di inizio attività" che vale per tutte le autorizzazioni, e quindi anche per le autorizzazioni edilizie. 

In ambito edilizio con la "Dia" ("Dichiarazione di inizio attività") è già prevista da tempo una procedura semplificata per gli interventi sul patrimonio esistente, ferma restando l'autorizzazione paesaggistica. Il recente Dl 40/2010 ha ulteriormente semplificato il quadro prevedendo per alcune tipologie d'intervento l'attività edilizia libera o la semplice comunicazione di inizio lavori.
«Tra gli aspetti preoccupanti della "Scia" - aggiunge Marson - c'è il fatto che il controllo può esercitarsi per via ordinaria solo entro 30 giorni (a posteriori rispetto all'inizio dei lavori, che possono essere avviati contestualmente all'invio della segnalazione) e, dopo tale termine, solo in presenza di "danni gravi e irreparabili" al patrimonio "previo motivato accertamento dell'impossibilità di tutelare comunque tali interessi". Si tratta di un vero colpo di mano rispetto a tutte le procedure e le tutele vigenti che espone alle peggiori azioni speculative il nostro patrimonio territoriale».

Edilizia, proteste contro il silenzio-assenso. Bondi si dice «sorpreso» della norma, con cui oltre la Dia viene eliminato anche il Durc che attesta la regolarità contributiva delle imprese. E spunta l’«archeocondono»

Il Pdl approfitta della manovra per accelerare sul «fai da te». Monta la protesta contro la deregolamentazione in materia edilizia, che con l’abbandono dei permessi ambientali per costruire fa svanire anche il Durc, l’unico documento delle imprese di regolarità contributiva. E spunta pure l’archeocondono. Qualcuno nel Pdl (un’anima interessata?) l’ha preparato con cura: una sanatoria sotto forma di emendamento per chi possiede reperti archeologici illegittimamente. Al Belpaese mancava solo questa. Il relatore di maggioranza, Antonio Azzollini, nega recisamente la sua esistenza, il Pd (che ne è in possesso) si appella al presidente Napolitano e annuncia: «Continueremo a vigilare affinché qualche manina non lo inserisca», dice Manuela Ghizzoni della commissione Cultura della Camera, che allega anche il testo dell’emendamento circolato in questi giorni dal titolo «Disposizioni in materia di emersione e catalogazione di beni archeologici, nonché revisione delle sanzioni penali». Perché è chiaro: «Così si autorizza il saccheggio delle necropoli e dei siti archeologici italiani».

Archeocondono ed Evasione

Se l’archeocondono resta un’ipotesi devastante, in materia edilizia e dintorni quello che al momento non è stato ritirato è l’emendamento che trasfigura la Dia nella Scia, che non è più un’autorizzazione vera e propria con tanto di sanzioni per iniziare a costruire, ma una semplice comunicazione di avvio del cantiere. E che non prevede per i lavori privati, come invece faceva la Dia, l’obbligo di allegare il Durc, che il committente deve trasmettere all’amministrazione comunale, uno dei pochi strumenti in mano allo Stato per accertare la regolarità contributiva delle imprese edili. Tradotto: non solo sarà possibile costruire senza avere i permessi ambientali, ma pure evadendo allegramente (in qualche modo legittimamente) il fisco. Altro che lotta all’evasione fiscale sbandierata da Tremonti. I sindacati ne chiedono l’immediato ripristino, e lo fa anche l’Ance, l’Associazione dei costruttori edili, che tra l’altro domani si riunisce in assemblea davanti a Berlusconi. Le domande per lui da un settore continuamente mortificato saranno tante.

«È fondamentale ripristinare l’obbligo del Durc per contrastare il sommerso dice una nota dell’Ance Va mantenuta alta la guardia sulla regolarità delle imprese, con ogni azione necessaria a prevenire e combattere fenomeni di lavoro sommerso, soprattutto nell’attuale fase di crisi» in cui, ancor più di prima, le imprese fanno incetta di lavoratori rumeni, polacchi, africani di cui non resta mai traccia. Un dato per inquadrare il fenomeno: nel 2008 l’evasione ed elusione fiscale e contributiva nel settore era stimata intorno ai 6 miliardi di euro, e oggi è salita a 10 miliardi, ovvero poco meno della metà dell’intera manovra economica.

Eliminare il Durc, insomma, equivale a fare un passo indietro rispetto alle disposizioni oggi in vigore, «frutto della condivisione di tutte le associazioni datoriali di settore insieme ai sindacati di categoria». Proprio quest’anno, ad aprile, col rinnovo del contratto edile, il documento era stato migliorato, legando il suo rilascio ad una verifica della congruità del numero di lavoratori impegnati, dichiarato dall’impresa per ciascun cantiere di lavori pubblici e privati. Ma, con l’avvento della Scia (Segnalazione certificata di inizio attività, in sostanza il silenzio-assenso sull’avvio dei cantieri) al posto della Dia (Dichiarazione d’inizio attività), arrivata con un emendamento presentato da Azzollini venerdì sera in Commissione Bilancio al Senato, l’esistenza stessa del Durc viene messa in discussione.

Anche la Scia, comunque, resta molto controversa, osteggiata anche da molti nella maggioranza e nello stesso governo: «Desta sorpresa dice il ministro per i Beni culturali Sandro Bondi l’approvazione di un emendamento che estende la Scia anche per gli interventi sui beni culturali e paesaggistici, senza che il ministero sia stato informato». La Scia ha scatenato le proteste dell’opposizione, degli ambientalisti (che parlano di «scempio»), del direttore della Normale Salvatore Settis, ma anche del Fai e del Wwf, che si sono appellati proprio a Bondi perchè respinga l’emendamento.

«Un grande regalo alle imprese senza regole né legge»

Intervista a Walter Schiavella. Il segretario della Fillea denuncia la «deregulation» contenuta nella manovra E i costruttori dell’Ance concordano

Le risposte che la manovra offre sono l’esatto opposto di quello che il settore chiede da tempo. Rappresentano un regalo alle imprese irregolari, affondano ancora di più quelle regolari, e permettono il lievitare di evasione ed elusione fiscale. Perché, ricordiamolo: quello edilizio è uno dei terreni prediletti in cui le mafie reinvestono». L’allarme è forte, di quelli che una società civile dovrebbe raccogliere. Lo lancia Walter Schiavella, segretario degli edili Cgil, ma concorda anche l’Ance, l’Associazione delle imprese, che domani riunisce la sua assemblea nazionale cui dovrebbe partecipare anche Berlusconi. Su un settore già sfiancato dalla criminalità organizzata e dalla crisi (a marzo 2010 registrate 7mila imprese in meno rispetto all’anno prima, -9%, e circa 100mila lavoratori in meno), piomba con la manovra la nuova deregulation del Pdl: basta autorizzazioni per costruire, e con esse basta Durc, il Documento che attesta la regolarità contributiva dell’azienda di cui la stessa Ance chiede la reintroduzione, e che ha permesso l’emersione di migliaia di posizioni lavorative. «Per noi sicurezza, legalità, regolarità sono aspetti legati a doppio filo, e quel filo è il Durc, sperimentato nel post terremoto in Umbria, dove permise la ricostruzione senza che un solo cantiere fosse irregolare».

Il mantra del Pdl è “troppa burocrazia, semplifichiamo”.

«Paradossale. In edilizia non c’è nulla da semplificare, semmai il contrario: bisogna definire nuove regole per accedere ad una professione che oggi non necessita di alcun requisito, costruire soglie d’accesso che leghino qualità e minimi criteri. Infatti in Italia le imprese edili sono il doppio rispetto a Francia, Germania, Spagna: circa 600mila, cui si aggiunge l’esercito delle partite Iva, che solo tra il 2006 e il 2008 sono aumentate del 208%, tra stranieri e italiani. Un quadro che ha prodotto l’aumento esasperato della concorrenza, e un’impennata degli sconti nelle gare d’appalto: ribassi del 50-60% non sono più casi rari. Ma un’impresa sana, regolare, quando mai può vincere un appalto al massimo ribasso?».

Lavoro nero ed evasione fiscale: qual’è la situazione nei cantieri?

«Sono in costante crescita part-time, che nei cantieri non ha alcun senso, sottoinquadramento, la riduzione delle spese per la sicurezza e il ricorso al lavoro nero (300mila persone stimate nell’edilizia), con cui le imprese cercano di ridurre i costi. Oggi siamo a circa 10 miliardi di evasione ed elusione fiscale e contributiva. Quasi la metà della manovra. È chiaro che la presunta battaglia all’evasione di cui parla il governo è solo uno specchietto per le allodole: perché proprio là dove l’evasione si annida, si eliminano i già pochi strumenti per farla emergere».

Torniamo alla manovra: oltre all’abbandono delle autorizzazioni e del documento di regolarità, quali altri punti coinvolgono il settore?

«I tagli a Regioni ed Enti locali, che rappresentano oltre un terzo del mercato pubblico. La conferma del patto di stabilità blocca tutte le opere sotto la soglia dei 5 milioni di euro. E lo stop al turn over significa ridurre i già pochi ispettori (tra ministero e Asl non arrivano a 3mila), quindi i controlli nei cantieri. Questo governo non ha fatto nulla per l’edilizia, a parte portare a 52 settimane la richiesta massima di cassa integrazione, come previsto per gli altri settori. Del resto, il dato del ricorso alla cig è in diminuzione: i lavoratori non hanno più nemmeno quella, sono solo disoccupati».

La Repubblica ed. Milano

La lunga notte dell’urbanistica

di Luca Beltrami Gadola



Questa specie di calvario che è l’approvazione del Piano di governo del territorio sembra veramente non finire mai e, nella storia delle delibere adottate negli ultimi anni dal Consiglio comunale milanese, non ne ricordo una altrettanto travagliata.

Già questo sta a indicare di quanto poco consenso goda questo nuovo strumento urbanistico, poco consenso che è rispecchiato anche dalla sua poca notorietà presso il grande pubblico.

L’opposizione, pur con qualche grave sbandamento, sta conducendo la sua battaglia e, opposizione a parte, lo spettacolo del Consiglio che alle quattro del mattino, in un’aula praticamente deserta nei banchi del governo cittadino, delibera sul futuro di Milano, dovrebbe indurre tutti a una riflessione sulla serietà di adunanze consiliari che durano venti e più ore consecutive. Ammettiamo pure che molti degli emendamenti avessero lo scopo di tirare in lungo, ve ne sono invece molti che richiederebbero grande attenzione.

A margine di questo calvario sono state spese opinioni di difficile comprensione come questa, apodittica: «Meglio un brutto Pgt, ancorché emendato, che andare avanti con il vecchio Piano regolatore». Nessuno ha spiegato compiutamente quest’affermazione se non adducendo a sostegno della sua tesi una cosa sola: i tempi son cambiati e tanto rapidamente che ci vuole uno strumento agile e snello che consenta di seguire le mutazioni della città. Pregherei i sostenitori di questa tesi di andarsi a riguardare il Pgt, quello oggi in discussione, e spiegare al colto e all’inclita, meglio sarebbe dire agli informati e agli ignari, dove sta quest’agilità in un documento di migliaia di pagine.

Non è detto che questo documento arrivi in porto, perché vi sono ancora alcuni determinanti passaggi per la sua definitiva adozione, ma mi domando alla fine che diavolo di documento sarà. La legge 18.6.2009 n.69 su semplificazione e altro, ma anche molti precedenti provvedimenti e direttive ministeriali e circolari della Presidenza del Consiglio, hanno vanamente raccomandato ai legislatori che i testi amministrativi fossero chiari e tenessero conto della specificità degli operatori cui sono indirizzati. Molte Regioni hanno emanato norme e raccomandazioni alle amministrazioni locali perché si muovessero in tal senso: la Lombardia, che sappia io, no. Sarebbe bene lo facesse prima dell’adozione definitiva del Pgt milanese che, per com’è steso, non rispecchia certo le caratteristiche che da più parti si auspicano: chiarezza, semplicità e concisione.

Queste caratteristiche sono anche quelle che garantirebbero la nuova norma da continui ricorsi ai Tribunali amministrativi, fatti salvi i ricorsi di legittimità, insomma eviterebbero almeno le infinite liti sugli aspetti interpretativi ma anche, quel che è più importante, le furbizie di qualche funzionario troppo sensibile agli interessi di una parte soltanto dei cittadini o per affiliazione politica o per altre meno nobili ragioni. Il sindaco in questi giorni ci ha anticipato che farà la sua campagna elettorale – a spese del Comune – illustrando i risultati raggiunti, senza dubbio anche parlando di Pgt e di là dalle solite affermazioni, anch’esse apodittiche, che ci dirà al riguardo?

Il Corriere della Seraed. Milano

Innse, dalla lotta sul tetto ai turni di lavoro notturno

di Andrea Galli



Certe sere si tira l’alba perché non bastavano primo e secondo turno, ora c’è anche il terzo. E non si sa se tutti riusciranno a fare le ferie, dipende dalle urgenze della produzione. All’Innse, un anno dopo, oggi si lavora anche di notte.

Ogni tre giorni in media arriva un curriculum, certe sere si tira l’alba perché non bastavano primo e secondo turno ora c’è anche il terzo, il prossimo mese sono previste due settimane di ferie e non è detto che tutti le faranno, bisogna vedere. Bisogna vedere se ci saranno commesse urgenti, come a esempio le enormi valvole per metanodotti e gasdotti in fabbricazione.

All’Innse, un anno dopo, è così, proprio così: si lavora, tanto, anche di notte — il terzo turno inizia alle 22.30 e finisce alle 6.30 —, da fuori lo sanno, e in portineria si presentano quarantenni e cinquantenni altrove licenziati, una decina al mese, magari all’Innse assumeranno a settembre, nel settore amministrativo, si viene a sapere, e non fra gli operai. Anche i simboli, i modelli, e la Innse lo è — quanti l’hanno copiata e mutuata in altre aziende, cassintegrati saliti sui tetti, trincerati in presidi —, anche i simboli e i modelli in fondo hanno dei limiti. E comunque l’organico è al completo. Ci sono, gli operai. Ci sono sempre stati. Il problema è che mancava il padrone. «Buono o cattivo non importava, ci serviva un padrone, volevamo un padrone. Sì, fa strano a dirlo. Però è la verità» racconta Max Merlo.

Merlo è uno dei quattro del carroponte ed è anche quello di una fotografia. Partiamo da questa. Nella fotografia ci sono due persone. A sinistra Attilio Camozzi, a destra Merlo. Si stringono la mano. È il giorno della svolta. Camozzi guarda il fotografo, è un sorriso un po’ timido. Merlo guarda Camozzi e non ride, anzi è serissimo, pare perfino arrabbiato, forse è soltanto stanco. Sul carroponte rimasero otto giorni. Era l’atto estremo, e sarebbe stato nel bene o nel male l’ultimo atto. Ricordate?

Via Rubattino. Periferia di Milano. Uscita della tangenziale. Qualche metro proseguendo sulla sinistra ci sono i Martinitt; qui davanti, invece, si alzano, stendono e sbriciolano i capannoni scheletrici dell’ex Innocenti, dell’ex Maserati: è una zona di storia questa.

In mezzo ai capannoni, c’è il padiglione occupato dall’Innse. Ci fabbricavano presse. Poi il proprietario licenziò gli operai, cercò di portarsi via i macchinari, e successe il finimondo. I lavoratori occuparono, mandarono avanti la produzione in autogestione, fu resistenza, andarono sui giornali, in televisione, si svegliarono i sindacati e soprattutto i politici, in Prefettura s’aprì un tavolo, i quattro si arrampicarono sul carroponte e senza certezze, senza accordi, non sarebbero più scesi, giuravano; si fece avanti Attilio Camozzi, quello della fotografia con Merlo. Il Cavalier Camozzi, capo dell’omonimo gruppo industriale bresciano, acquisì l’attività della Innse.

Camozzi è uno di poche parole. A chiamarlo al telefono, dice «pronto» e dalla voce si capisce che vorrebbe subito chiuderla lì e passare al «d’accordo, arrivederci», è già passato troppo tempo. Figurarsi provare a chiacchierare un po’. Lo avevamo cercato alla fine di marzo, quando alla Innse avevano assunto due ragazzi a tempo determinato. Cavaliere, e le assunzioni? «Ma no, non diciamo niente, manteniamo un basso profilo». Ieri mattina, nuova chiamata. Cavaliere, abbiamo saputo del terzo turno, addirittura, non è un risultato clamoroso? «Ma no, non diciamo niente, manteniamo un basso profilo».

Più tardi, Camozzi farà chiamare dall’avvocato del Gruppo, il dottor Claudio Tatozzi. Avvocato, in fabbrica gira bene, no? «Ci sono tanti passaggi da completare. Dev’essere deciso come verrà riqualificata tutta questa enorme area sulla quale siamo presenti anche noi. Il Comune e la società proprietaria dei terreni debbono completare l’istruttoria, vediamo gli sviluppi. Le posso dire, in ogni modo, che per il Gruppo la Innse rappresenta un investimento tra i dieci e i quindici milioni di euro complessivi. L’operazione non è stata uno spot. C’è un obiettivo. A lungo termine. In questo progetto crediamo tantissimo».

La Innse è ridipinta a nuovo, giallo e grigio predominano, è stata fatta pulizia, c’è un’aria, un odore, di fabbrica, di tornio, di ingranaggi, di olio, che strano, a Milano, e di questi tempi, con la crisi. Possibile? Il dottor Pietroboni è il direttore dello stabilimento. Dice: «Piano, piano. Il nostro settore, quello della meccanica pesante, è stato colpito a lungo. La ripresa, dicono, avverrà a fine anno. Molto più probabilmente nel primo settembre del 2011. Abbiamo commesse per i prossimi due, tre mesi. Bastano? Non bastano. Puntiamo ad avere commesse per i quattro, cinque mesi successivi, scadenza che garantisce un certo margine».

C’è un operaio che tossisce, che sputa. «Lavoriamo moltissima ghisa al posto del ferro. Il motivo? Prendiamo commesse in ghisa anziché in ferro, se ne trova di più sul mercato e non tutti la vogliono lavorare... La ghisa mette in circolo una polverina che invade la gola, scende giù, ti uccide i polmoni».

Ci sono torni che hanno quasi un secolo. Li han fatti in America, altri in Germania. Non tutti funzionano. «A vero regime dovremmo essere molti di più, almeno centocinquanta operai» raccontano. Difatti metà stabilimento è vuoto, le luci spente, polvere e ruggine. Dicono che Camozzi sistemerà un mega impianto fotovoltaico sul tetto. Dicono anche attorno alla fabbrica sorgeranno alti palazzi e giardini, negozi e piste ciclabili. Il termine ultimo per firmare il progetto di riconversione dell’area è il 31 dicembre prossimo.

Le cose si complicano per il governo regionale. Al tempo della Prima Repubblica la crisi sarebbe esplosa. Improbabile la minimizzazione del clamoroso voto in consiglio contro il «Piano casa». Al centro di quel voto un tema, quello «edilizio», centrale nel programma elettorale di Ugo Cappellacci. In quell’altra epoca le questioni connesse al governo del territorio sono state spesso causa di dimissioni, e quegli argomenti, mai così decisivi nel confronto elettorale, emergevano con forza. Un rimpasto dovrebbe aggiustare tutto, si dice. Silenzio sulla principale materia del contendere.

Molti osservatori di questa recente fase avevano escluso un disaccordo oltre i piccoli fisiologici dissapori. Tutto liscio, con un presidente eletto direttamente dai sardi e così tanto sostenuto da Berlusconi che sul tema si è esposto molto e volentieri. Sua l’indicazione riassunta nello slogan «la libertà in Sardegna dopo le angherie di Soru». Il patto sembrava insomma cementato (il termine è appropriato) da una visione che la destra italiana - con rare eccezioni - dichiara attraverso il suo massimo esponente: il territorio luogo dei diritti a edificare, i vincoli esagerazioni di certa sinistra.

Grandi e piccole attese soddisfatte da questa facile visione: un pezzo di terra-una casa. Tutto sembrava andare nel verso giusto (l’assessore all’ urbanistica prescelto il più preparato per svolgere il difficile compito); grande compiacimento, come se la politica neoliberista avesse trovato un suo laboratorio ideale in questo piccolo pezzo di mondo. Invece le cose si sono complicate, e non poco negli ultimi mesi. Il percorso è diventato accidentato. Molti i fatti attorno alla stessa matrice, in una sequenza che ci vorrebbero quelli di blob per rendere evidenti con la dovuta efficacia le connessioni. Primo spazzare via il piano paesaggistico di Soru (con prudenza secondo alcuni, avanti senza esitazioni secondo i falchi). Quindi il piano-casa. Pensato a Roma sembrava fatto apposta per aprire varchi nelle regole urbanistiche in Sardegna, presentato in una versione e ripresentato. Troppo evanescente per dare risposte al bisogno inevaso di case, molto azzardato nel secondo capitolo, laddove tra l’altro è offerta surrettiziamente la soluzione a casi altolocati rimasti impigliati nelle norme del Ppr. Così a una parte degli alleati la linea svincolante è apparsa troppo sbilanciata, a favore di un’altra parte. Un doppio binario inaccettabile, perché un piano non si smonta con un articolo di legge, men che meno per rispondere a qualche pretesa, se per gli altri vale il lungo percorso verso un nuovo piano paesaggistico.

Nel blob c’è altro. Ci sono le sentenze su Cala Giunco - caso illuminante - che riaffermano la solidità del piano paesaggistico proprio in relazione ai vincoli che si vorrebbero sopprimere. Ci sono le ombre lunghe sul caso Tuvixeddu (le intercettazioni che spiegano alcuni retroscena, le richieste di rinvio a giudizio di cui si sa troppo poco). C’è il caso Is Arenas, doppia beffa per i sardi. E poi i gravi sospetti per gli affari legati all’eolico, Flavio Carboni suggeritore di quella linea spericolata è oggi in carcere con tutto ciò che sottintende.

Sembra la versione al mirto di ciò che accade a Roma, il paesaggio - fonte di grandi rendite - è il tratto dominante della politica dalle nostre parti. Le reazioni di un pezzo della maggioranza sono un segnale da non trascurare. Qualche dubbio sul rovesciamento di una linea giusta? Forse influisce lo smarrimento di chi ci guarda da fuori. Prima l’apprezzamento per la tutela orgogliosa del territorio. Ora il disorientamento per ragioni opposte; per gli eccessi, come ad esempio il furore contro la Conservatoria delle coste cancellata inopinatamente. Soru ha perso nella sua maggioranza, si è detto sinteticamente, perché concedeva troppo poco ai cacciatori di diritti a prendere dal paesaggio sardo; per il suo successore Cappellacci si vedrà.

La "manovra" del governo che in nome del federalismo mette in ginocchio le Regioni, e senza affrontare i nodi della corruzione e dell'evasione fiscale taglia selvaggiamente sanità, ricerca, scuola sta facendo un'altra vittima: il nostro paesaggio. 
Un'ecatombe annunciata già nel decreto-legge, che prevedeva (come ho scrittoil 31 maggio in queste pagine) una forma aggressiva di silenzio-assenso sulle autorizzazioni paesaggistiche, annullando di fatto le garanzie del Codice dei Beni Culturali (varato nel 2004 da un governo Berlusconi). In sede di conversione in legge, com'era prevedibile, la sbandierata necessità di un voto di fiducia si traduce anche su questo tema in licenza di uccidere, che prenderà posto nel maxi-emendamento "omnibus".
La Commissione Bilancio al Senato ha emendato, su proposta del presidente Azzollini (Pdl), l'art. 49 della "manovra" (ddl 2228), prevedendo di declassare la d.i.a. (dichiarazione di inizio attività) in s.c.i.a ("segnalazione certificata di inizio attività"), di fatto un'autocertificazione a cura dell'impresa o di un tecnico di sua fiducia, che elude ogni successivo controllo («l'attività oggetto della segnalazione può essere iniziata alla data della presentazione della segnalazione»). Si annienta in tal modo il sistema vigente invitando a edificare, anche in zone vincolate, senza alcuna autorizzazione, e lasciando alle pubbliche amministrazioni solo l'opzione di tentare un blocco dei lavori, purché entro 30 giorni o «in presenza di un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l'ambiente, la salute», e comunque sempre negoziando con l'impresa-committente (e autocertificante).


Questa norma è destinata a devastare il sistema, non a migliorarlo. Essa calpesta il principio (sempre confermato dalla legge 241 del 1990 ad oggi) secondo cui i meccanismi di accelerazione come il silenzio-assenso o la d.i.a. non possono mai riguardare beni e interessi di valore costituzionale primario come il patrimonio storico-artistico e il paesaggio. Principio riaffermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell'Amministrazione preposta non può aver valore di assenso» (sentenze 26 del 1996 e 404 del 1997). La nuova norma, se non fermata in tempo, avrebbe natura francamente eversiva: essa non solo capovolge la gerarchia fra un principio fondamentale della Costituzione (art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione») e la libertà d'impresa di cui all'articolo 41, ma dà per approvata una modifica dellarticolo 41 che le Camere non hanno ancora discusso.


È solo di un mese fa l'ipotesi Tremonti-Confindustria di modificare l'articolo 41 della Costituzione, che oggi garantisce la libertà d'impresa purché non sia «in contrasto con l'utilità sociale»: secondo la proposta di modifica «gli interventi regolatori dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali che riguardano le attività economiche e sociali si informano al controllo ex post». In questa proposta di controllo postumo, che equivarrebbe di fatto all'azzeramento di ogni controllo, è la radice del silenzio-assenso elevato a principio assoluto, della metamorfosi della d.i.a. in s.c.i.a.: in una Costituzione immaginaria, non nella Carta vigente.
Nell'emendamento che il voto di fiducia intende imporre brutalmente al Paese, la libertà d'impresa viene sovraordinata al pubblico interesse, e viene cestinato l'articolo 9 che prescrive la tutela del paesaggio legandola a un sistema di valori incentrato sull'utilità sociale, la dignità della persona umana (art. 3), i limiti imposti alla proprietà privata «allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (art. 42). Il pubblico bene viene calpestato, la tutela messa in sottordine rispetto all'unico diritto sovrano, quello di fare impresa a qualunque costo, anche inondando il territorio di cemento e di brutture, anche proseguendo lo spietato consumo di suolo già in corso (13 ettari al giorno cementificati nella sola Lombardia).
Al di sopra del paesaggio, che è bene comune di tutti, vien posta la fatturazione delle imprese, la cui pretesa autoresponsabilità spodesta tutti i poteri delle pubbliche amministrazioni. I controlli ex post, secondo i dettami di un "nuovo" articolo 41 della Costituzione di Lorsignori (opposta a quella vigente), occasionali e a campione, sarebbero del tutto inutili una volta arrecato il danno. Sulla base di semplici autocertificazioni, migliaia di pale eoliche devasteranno sull'istante anche i paesaggi più pregevoli, anche dove siano in corso azioni di tutela sinora efficaci, come è nel Molise ad opera della benemerita Direzione regionale dei Beni culturali: basterà una s.c.i.a. per rendere irriconoscibili l'antica città sannita di Sepino o il monte Caraceno, importante area archeologica, boschiva e paesaggistica con vista sul parco nazionale d'Abruzzo. Basterà una s.c.i.a. per evitare anche in futuro ogni controllo antisismico, preparando di fatto disastri futuri, pur di costruire (sempre mediante s.c.i.a.) "città nuove". Del resto, secondo il deputato Pdl Giorgio Stracquadanio, «L'Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile; il Governo avrebbe voluto fare una nuova università, una Harvard italiana, e ci è stato detto che volevamo cementificare». Menzogne come questa risuonano impunemente nell'aula di Montecitorio; una perversa Costituzione-fantasma, e non quella vera, detta l'azione di governo. Se non si corre velocemente ai ripari, muore il bene comune, muore l'etica della Costituzione, muore la legalità, la storia e l'identità del Paese.

Silenzio-assenso per chi vuole costruire

Azzerate le autorizzazioni ambientali

di Valentina Conte

Case, alberghi, ipermercati e infrastrutture: passa la norma fai-da-te - Pd e Legambiente: "Effetti devastanti per il territorio, via al banditismo urbanistico" - I Verdi: "Favoriti i grandi speculatori già beneficiati dal federalismo demaniale"

ROMA - Costruire, mai stato così facile. Da oggi non occorre più alcun permesso. Basta una banale segnalazione di inizio attività, certificata da un "tecnico abilitato", la Scia, e il gioco è fatto. Unico requisito: essere un´impresa. D´un colpo, spariscono dunque tutte le altre "carte": autorizzazioni, licenze, concessioni, nulla osta. E con loro anche le procedure e i controlli essenziali per la tutela del territorio e la lotta all´abusivismo. Sparisce così la Dia, applicata finora a ristrutturazioni e manutenzioni, sostituita e ampliata dalla Scia. Con il rischio che tirare su case, alberghi, ipermercati, persino infrastrutture alla fine diventi un´attività fai-da-te, facile e insicura.

Le nuove norme sono frutto dell´ultima opera di ritocco all´articolo 49 della manovra di Tremonti, martedì all´esordio in aula. Tema generale: la semplificazione. In base al principio "un´impresa in un giorno", si potranno inaugurare ristoranti, internet point, ma anche armerie e depositi di carburante con una semplice autocertificazione, senza controlli preventivi, senza chiedere permessi, neanche alla questura. In campo edilizio, la procedura è ancora più veloce. Si apre un cantiere, dove si vuole, segnalando l´intenzione a costruire e facendola certificare da un tecnico. Trascorsi trenta giorni senza che l´amministrazione abbia contestato quell´intenzione per carenza dei requisiti, il gioco è fatto, in attesa di eventuali controlli ex post.

Non solo. Le autorizzazioni paesaggistiche (rilasciate ora da sovrintendenze o regioni) vengono fatte rientrare nell´ambito della conferenza dei servizi e sottoposte dunque al principio del silenzio-assenso: se il parere non arriva entro i termini, è considerato positivo. Infine, anche ottenere la Via (valutazione di impatto ambientale) sarà più facile, perché rilasciata non più solo da ministero dell´Ambiente e Regione, ma "appaltata" a università ed enti pubblici.

«Così salta tutta la normativa di tutela ambientale e il regime delle autorizzazioni in vigore da sempre in Italia, cancellando con un colpo di spugna l´articolo 9 della Costituzione e il Codice dei beni culturali, varato proprio dal governo Berlusconi», sbotta Salvatore Settis, archeologo e direttore della Normale di Pisa. «E poi come può l´università rilasciare la Via, se non ha alcun compito di tutela?», prosegue. «Eliminare la burocrazia e garantire tempi certi non può tradursi in un "tana libera tutti"», aggiunge Ermete Realacci, deputato Pd e presidente onorario di Legambiente. «Si introduce il far west urbanistico e si dà il via al banditismo edilizio», attacca il presidente dei Verdi, Angelo Bonelli. «Questa norma continuerà ad arricchire i grandi speculatori edilizi a cui il governo ha già incartato un regalo enorme con il federalismo demaniale che svende beni e terreni dei cittadini italiani per dare il via alla più grande speculazione edilizia della storia della Repubblica» prosegue Bonelli. «A fare le spese di questa politica sciagurata saranno ovviamente i cittadini onesti che hanno seguito le regole per costruirsi una casa, ma anche l´ambiente e il territorio italiano su cui insistono quasi 500 mila frane e che è letteralmente a pezzi, come dimostrano i disastri degli ultimi anni».

Si dice preoccupato anche Roberto Della Seta, capogruppo Pd in commissione ambiente del Senato: «Con questa norma, in pratica viene abolito il permesso a costruire e si introduce una sorta di condono preventivo. E non solo per le imprese. Anche i privati interessati possono fare una società e tirare su un villino. Così si rischia una nuova Punta Perotti». «E di vanificare anche le norme antisismiche, rafforzate dopo il terremoto dell´Aquila», gli fa eco Francesco Ferrante, senatore Pd, che insiste: «L´errore è pensare di risolvere la burocrazia con l´abolizione dei controlli».



Mille foto sugli scempi edilizi gli italiani rispondono all´appello

di Maurizio Bologni

SUVERETO - Il palazzo rosa che devasta lo sky line della Torre di Pisa e i silos che deturpano tanta campagna italiana, il campanile che Oliviero Toscani chiama rampa di lancio per missili e una pala eolica tra le vigne, tetre villette ed ecomostri, squallidi capannoni e mesti condomini "adornati" di antenne satellitari e bandiere dell´Italia. Dalla Toscana a Napoli, dalla Sicilia alla Brianza, tutto il brutto del paesaggio in mille foto scattate dagli italiani. E inviate a Oliviero Toscani e Salvatore Settis, animatori del progetto Nuovo Paesaggio Italiano. "Fate delazione, denunciate lo scempio" è l´appello. Primo step dell´iniziativa, ieri sera a Suvereto nella campagna toscana della Val di Cornia, dove Toscani, Settis e i loro tanti amici hanno srotolato davanti alla cantina Petra una striscia in vetroresina e legno, lunga cento metri e larga quasi due, che in double-face riproduce 500 immagini dello scempio italiano. Il rotolo è adesso un tunnel che rimarrà in mostra fino al 30 ottobre, completato da altre immagini e testimonianze di intellettuali all´ingresso dell´avveniristica cantina. «Quello che fu il Bel Paese - spiega Settis - è invaso dalle armate nemiche: ecomostri grandi e piccoli si insediano in valli, colline, dune, scenari naturali di grande bellezza, e li devastano irreparabilmente. Di fronte a questa peste, istituzioni, politici d´ogni colore, quasi sempre tacciono, complici del brutto che avanza». Il direttore della scuola normale di Pisa ha denunciato il caos e il vuoto normativo: «Ieri in Commissione Bilancio al Senato è stato votato un emendamento che cancella tutte le norme». E ha puntato il dito sul caso Sardegna: «Ci sono decine di villaggi abbandonati a pochi metri dal mare e intanto ne costruiscono di nuovi sulla spiaggia. Recuperino piuttosto quelli già esistenti».

Il brutto del paesaggio è dunque adesso una esposizione ma anche un cantiere aperto: arriveranno altre foto, si faranno altre mostre in tutta Italia dopo questa ospitata qui a Petra dall´imprenditore Vittorio Moretti.

Aggiudicare i lavori e accorciare la tabella di marcia. Il Pirellone vuole far ripartire il cammino della controversa autostrada regionale Broni-Pavia-Mortara, 65 chilometri d’asfalto a tagliare la Bassa e il Parco del Ticino per collegare l’Oltrepo a Pavia. Tra la A21 (Torino-Brescia) e la A7 (Milano-Genova) più le opere connesse, fino al Vercellese. Pensati, nelle intenzioni, per alleggerire il traffico locale ma osteggiati da ambientalisti (tra cui Fai e Legambiente) e cittadini che, invece, ne escludono ogni beneficio. Mercoledì la giunta regionale voterà la convenzione con cui Infrastrutture Lombarde affiderà i lavori alla Società autostrada Broni-Mortara, la SaBroM di cui i soci principali sono il gruppo Gavio e la Serravalle.

Un passaggio necessario, ora che il Tar ha respinto il ricorso degli altri due competitor. In particolare degli spagnoli Sacyr, vincitori della gara ma poi esclusi. In attesa del responso del consiglio di Stato, la Regione accelera sull’opera. Che sarà pronta prima: «Da quasi tre anni e mezzo, i tempi si sono ridotti a 2 anni e 9 mesi - annuncia Raffaele Cattaneo, assessore ai Trasporti - i lavori inizieranno nel 2012, la fine ad agosto 2015». E poi pedaggi ridotti, un canone annuo di concessione (42 anni) di 270 milioni e un investimento che sfiora il miliardo.

Il territorio, però, è in rivolta. «È un’alternativa alla A4 che riverserà 44mila veicoli al giorno aggravando il traffico - contesta Renato Bertoglio, coordinatore del gruppo Territorio di Legambiente pavese - serve un collegamento Nord-Sud e non Est-Ovest. E poi rovina le risaie della Lomellina e il Parco del Ticino». Che, però, a suo tempo, diede parere favorevole: «Ma condizionato - precisa la presidente Milena Bertani - Le nostre osservazioni agricole e ambientali furono accolte: la ritengo una vicenda chiusa, pur assicurando gli opportuni controlli sul rispetto delle prescrizioni». C’è anche una critica pratica. «È tutta rialzata di oltre due metri - denuncia Nicola Ghisiglieri del coordinamento contro la Broni-Mortara - ci sarà un grande movimento di terra che incrementerà il progetto cave della provincia pavese. Intanto noi aspettiamo di sapere l’esito dei quattro ricorsi fatti dai cittadini contro quest’opera inutile e troppo costosa».

Nota: per capire meglio di cosa si tratta, chi non l’avesse già letto può far riferimento al mio vecchio La Fabbrica dello Sprawl, riassunto “in chiaro” su Mall e scaricabile in pdf (f.b.)

Nei film più neri di Claude Chabrol, sono personaggi di infima origine - una governante analfabeta, una postina, una spogliarellista, un maestro alla deriva - a scombussolare d’un tratto i finti equilibridell’alta borghesia precipitandola nell’orrore o nella morte. Nel Buio nella mente, la governante analfabeta Sophie governa perfettamente la villa, ma l’umiliazione l’ha come prosciugata e i suoi sogni li sfama trangugiando cioccolata e Tv. I tenutari della villa sono serviti con la massima meticolosità fino al momento in cui ogni cosa barcolla e si rovescia: il padrone frana nella soggezione; il servo insorge e si fa padrone dell’universo. L’ignorante-analfabeta ha come un occhio in più; il colto e ricco borghese si scopre cieco. Non ha visto che la storia, quando i rapporti di potere s’immiseriscono, sono i domestici a farla.

È quello che sta succedendo in Francia, con lo scandalo Bettencourt. Un maggiordomo trattato senza rispetto registra in segreto le conversazioni private della padrona, e porta alla luce storie abiette di corruzione politica e di evasione fiscale. Una contabile-governante, anch’essa maltrattata e licenziata, decide di rivelare alla polizia e ai giornalisti le bustarelle molto voluminose che Liliane Bettencourt, multimiliardaria ereditiera dell’Oréal, distribuiva a deputati e ministri. La repubblica monarchica trema, i clandestini intrecci tra politica e affari vengono smascherati. Lasciando la magione a Neuilly-sur-Seine, il maggiordomo Pascal riferisce di «un’atmosfera divenuta malsana». Claire, la contabile, racconta l’arroganza dell’amante di Liliane, François-Marie Banier, e del suo manager finanziario Patrice de Maistre. Come in un classico film noir, i reietti riscrivono la trama.

Un’alta borghesia che si arrocca e si squilibra, uno Stato che domina a tal punto l’economia da servirsene senza scrupolo, un’osmosi tra servizio del pubblico e servizio del privato che caratterizza le élite (il passaggio assicurato da un ambito all’altro si chiama pantouflage), la rivolta infine della gente comune, delle petites gens: sono tutti elementi di una storia molto francese, costellata di ricchezze spudoratamente dissimulate e di conseguenti regicidi. Ma tante sono le somiglianze con quello che accade altrove, in Italia o in Grecia, e ovunque si assiste allo stesso spettacolo: una crisi economica che rende improvvisamente intollerabili la disuguaglianza di ricchezze e quella di fronte alla legge, una classe dirigente che difende i privilegi acquisiti reclamando l’impunità, una stampa e una magistratura che diventano essenziali garanti delle uguaglianze da restaurare e del diritto di sapere. Gérard Davet, su Le Monde, scrive che per i piccoli, gli emarginati, il giornalista è qualcuno che «parla in loro nome».

Yves Mény, che per sette anni è stato presidente dell’Istituto universitario europeo di Firenze e ha scritto libri fondamentali sulla corruzione e il populismo, scorge in quel che sta avvenendo un tratto particolarmente latino, oltre che francese. Tipicamente francese è il cumulo dei mandati: il parlamentare che mantiene un mandato locale è una pratica corrente. Tipicamente francese è anche la vicenda del ministro del Lavoro Eric Woerth: tesoriere del partito quando era ministro del Bilancio e ancor oggi, è sospettato di aver coperto l’evasione fiscale di Liliane Bettencourt e di aver ottenuto dalla padrona dell’Oréal somme illegali per il candidato presidenziale Sarkozy nel 2007. Ma la lunga permanenza in Italia spinge Mény a andare più a fondo, a vedere una più vasta e ramificata cultura dell’illegalità nell’Europa latina, fatta di criminosi conflitti d’interesse, di classi politiche incapaci di correggersi, di scarse difese immunitarie.

Nei paesi anglosassoni la separazione tra politica e affari è forse ancor meno netta, ma proprio per questo si escogitano antidoti che non si trovano in paesi come la Francia o l’Italia. È significativo, ad esempio, che non esista in francese (e nemmeno in italiano) il termine accountability: la cultura del render conto, dunque della legalità, che deve animare chi dirige il paese e senza la quale è impossibile si instauri fiducia fra cittadini e Stato, fra piccoli e grandi, fra meno abbienti e grandi fortune. Mény ricorda il ruolo essenziale che nelle democrazie funzionanti svolgono i due poteri di controllo e vigilanza che sono la stampa e la magistratura, l’opinione pubblica non disinformata e il rispetto non selettivo della legge. Le sentinelle che aiutano a sorvegliare sono chiamate nei paesi anglosassoni i whistleblower, letteralmente coloro che, dall’interno di un’azienda o una struttura di potere, suonano l’allarme in caso di trasgressioni ai vertici. La funzione ha precisi statuti e garanzie in America del Nord.

In tempi di crisi democratica grave la funzione del whistleblower fa riferimento all’opinione pubblica, attraverso i giornali che l’informano e la educano se possibile alla vigilanza. È il motivo per cui è contro la stampa indipendente che si scatena il risentimento di classi politiche o imprenditoriali assetate di impunità e esenzioni: perché il potere che essa impersona, se esercitato con spirito di indipendenza, è del tutto diverso dal potere dei governi, dei politici, dei partiti. Nel mirino del potere politico francese, in queste settimane, è un giornale online, Mediapart, diretto da un giornalista di investigazione che per anni ha lavorato a Le Monde, Edwy Plenel. Plenel già indispose enormemente Mitterrand, a metà degli Anni 80. Per aver indagato sul ruolo del Presidente socialista nello scandalo di Greenpeace (una nave dell’organizzazione diretta a Mururoa venne affondata con la dinamite dai servizi segreti francesi, nel 1985, causando la morte di un fotografo portoghese). Ora il suo giornale online è accusato di fascismo, di populismo, di speculare sulla crisi della democrazia, addirittura di affossarla.

Quel che colpisce è il timore reverenziale che molti illuminati hanno verso le pratiche occulte e la corruzione di una parte del potere francese. Anche qui, come in Italia, virtuoso è chi chiude possibilmente tutti e due gli occhi, chi invoca toni bassi e silenzio, chi preserva equilibri considerati troppo fragili per essere scossi, chi se la prende più con le sentinelle che suonano l’allarme che con i trasgressori. Centristi classici come Michel Rocard a sinistra e Simone Weil a destra hanno scritto un editoriale indignato su Le Monde, il 4 luglio, prendendosela con la stampa che denigra, denuncia, minaccia addirittura la repubblica asservendola e umiliandola. Analisi fini e approfondite le fanno alcuni isolati e la magistratura: è stato il tribunale di Parigi, l’1 luglio, a difendere la pubblicazione su Mediapart delle registrazioni del maggiordomo, statuendo che esistono casi «di interesse pubblico che mettono in primo piano il diritto all’informazione, e in secondo piano il diritto alla privacy».

Yves Mény sostiene che marasmi simili sono possibili perché nell’Europa latina è la cultura cattolica a dominare. La cultura cattolica assolve, stabilisce regole severe, ma non mette in moto né sconvolge la coscienza. Il politico o l’amministratore non possiedono un proprio intimo codice etico: solo il codice penale può fermarli, se la magistratura ha la necessaria indipendenza, e questo diminuisce drasticamente le difese immunitarie dalla malattia della corruzione. Solo verso l’elettore il politico si sente responsabile, ed è il suffragio universale a decidere della buona o cattiva reputazione del leader. È così che l’atmosfera nei palazzi di Francia diventa malsana, indignando i reietti di Chabrol e spingendo cittadini, giornalisti, magistrati a «fare Stato» al posto di chi lo sgoverna.

L’Aquila, un day after di rabbia

«Madri, padri... Quali infiltrati?»

di Jolanda Bufalini

Dopo la manifestazione di Roma la città è ancora incredula per le cariche delle forze dell’ordine e le manganellate. E non soddisfa la “mancia” del governo sull’esenzione delle tasse e sui tempi di pagamento.

Marco De Nuntis è un ragazzo che non ha mai fatto politica, è di Valle Pretara , un quartiere devastato dal terremoto, quasi tutto da abbattere. Vincenzo Benedetti l’ha conosciuto in ambulanza, il 7 luglio, a Roma, mentre tutti e due si facevano medicare i tagli da manganello. Vincenzo è un ragazzo del sud, viene da Bari e vive a L’Aquila dal 2008. Si definisce anarchico e a Parma ha fatto le lotte per la casa, ma «ho sempre lavorato, come mi hanno insegnato i miei genitori e mio nonno antifascista». Non si erano mai visti prima i due ragazzi che, secondo certe versioni, dovrebbero passare per “infiltrati” nella manifestazione degli aquilani a Roma.

A due giorni dal corteo che ha visto arrivare 45 pullman e 5000 aquilani a Roma non si placa la rabbia di chi ha visto e partecipato alla protesta nella Capitale. Nella città terremotata, abbacinata da un sole estivo che batte sulle rovine, si prepara l’assemblea cittadina di oggi, si discute on line una lettera da inviare al ministro degli Interni Marroni, dice: «Non infiltrati ma noi, madri padri, figli, figlie...». Figli e figlie che iniziano ad andare via: nella scuola di Pettino, il quartiere delle case popolari che ora sono da abbattere, le cinque prime elementari si sono ridotte a tre, i genitori chiedono il nulla osta per il trasferimento, diminuiscono in modo significativo le iscrizioni ai licei classico e scientifico.

La rabbia è anche per l’oscuramento delle ragioni della protesta e della esasperazione della città. Il sindaco Massimo Cialente, che partecipa al “laboratorio per la ricostruzione” organizzato dall’Istituto nazionale di urbanistica, spiega così l’esasperazione: «I ritardi sono ormai insopportabili. Noi non riusciamo a dare i soldi per lecase A e B, le case che hanno subito pochi danni. E sono praticamente bloccate le pratiche per le case E (quelle che hanno subito danni gravissimi). Ma il paradosso è che a questo punto si vorrebbe far credere che la responsabilità è degli enti locali, ma il comune dell’Aquila non ha potuto nemmeno chiudere il bilancio». Ormai, aggiunge, per molti esponenti della maggioranza «è come se fossi io il commissario alla ricostruzione». Ma il commissario non è lui, è il presidente della Regione Gianni Chiodi, che a Roma non c’era come non c’erano i parlamentari del Pdl: «Io sono vice, sono un sub commissario e sono disposto a diventare sub-sub commissario, purché la situazione si sblocchi».

A cominciare dal dramma delle tasse che gli aquilani dovranno iniziare a pagare con gli arretrati dal 1 gennaio prossimo. In 10 anni anziché in 5, è il piccolo risultato ottenuto dopo le proteste. Giovanni Lolli (Pd) fa notare la disparità di trattamento dei terremotati abruzzesi rispetto a tutte le altre situazioni. «Dopo il terremoto di San Giuliano, nel 2003 il presidente della Regione Molise Iorio ha esteso l’emergenza praticamente a tutta la regione, noi siamo stati persone serie e non abbiamo modificato di una virgola i confini del cratere definiti dalla Protezione civile. Il risultato, però, è che i terremotati del Molise, sebbene quel sisma abbia prodotto meno danni, sono molti di più dei terremotati aquilani». La tragedia più grande dopo il terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 paga, insomma, gli sprechi di altri: l’emergenza in Molise è durata sino a tutto il 2009. In Umbria e nelle Marche la ripresa è stata aiutata con uno sconto del 60% su tasse e tributi, ad Alessandria, dopo l’alluvione del 2009, è stato cancellato il 90 per cento delle tasse.

Sulla carta ci sono 2 miliardi della cassa depositi e prestiti ma di questi 387 sono già stati spesi e 350 andranno a rimborsare debiti già fatti, spiega Gaetano Fontana, il capo dell’Unità di missione. Dovrebbero arrivare, ma non ci sono ancora, 800 milioni di finanziamento diretto. Una cifra pari a ciò che serve per ripristinare la rete di gas, acqua e tutto ciò che in gergo è chiamato sottoservizi. Il comune de L’Aquila ha destinato a questo 12 milioni che solitamente sono assegnati ai comuni per opere più visibili come le iniziative culturali. Spera così di riportare un po’ di vita sul corso, la via simbolo dei portici e del passeggio, dove gli aquilani vanno ancora in queste sere d’estate, peni di nostalgia per una città che sta perdendo la speranza.❖

4 domande a Vincenzo Benedetti

«Mi hanno colpito alle spalle.

Per fortuna i video hanno ripreso tutto»

Vincenzo Benedetti ha una lunga garza a coprire i 12 punti provocati dalla manganellata che ha preso sulla testa. Lo incontriamo seduto davanti alla pizzeria dove lavora da quando è arrivato a L’Aquila, nel 2008. E non ha smesso nemmeno in questi giorni di impastare, nonostante il lungo sbrego sulla testa. «Per fortuna ci sono i video che mostrano tutto. Ero di spalle quando mi è arrivata la botta dai carabinieri. Fino a ieri non sapevo nemmeno chi mi avesse colpito».

Come mai sei venuto a vivere a L’Aquila? (sorride) «Avevamo scelto, con la mia ragazza, una città tranquilla». Dove vivi adesso?

«Abito in un camper che mi ha regalato il mio datore di lavoro. Anche se ho la residenza sono un aquilano di serie B. Abitavo in affitto, nel centro storico, e con Francesca pagavamo 600 euro di affitto. Oggi gli affitti sono alle stelle e io finora non ho avuto i contributi per l’autonoma sistemazione. Ma di questo non mi importa nulla, se sono andato a Roma a manifestare è perché vorrei giustizia per gli aquilani».

Qualcuno ha scritto che hai dei precedenti con la giustizia.

«Non in piazza con la polizia. Ho lavorato a Silvi Marina, dopo il terremoto, ma non mi trovavo bene e mi sono licenziato dopo un mese, il datore di lavoro non voleva pagarmi lo stipendio e mi sono preso una denuncia per minacce. Un’altra denuncia riguarda il fumo della cannabis... ».

E come ti trovi nel lavoro qui?

«Splendidamente, io sono arrivato quinto in Europa, nel maggio di quest’anno, al campionato dei pizzaioli. Purtroppo a voi giornalisti di questo non importa nulla, invece se prendi una manganellata sei su tutti i media».

Conferma il signor Giovanni, poliziotto appena andato in pensione: «Vincenzo è un bravissimo pizzaiolo e mio figlio è un ottimo cuoco. Hanno risollevato questo posto dove non veniva più nessuno in un modo straordinario». J. B.

Così l’Abruzzo viene ricacciato

nel Sud più profondo

di Vittorio Emiliani

Gli errori del governo hanno paralizzato l’economia regionale spingendola ai livelli più bassi dopo la crescita degli anni ’80 Il premier si è occupato solo di edilizia e anche qui ha sbagliato

«Svegliarsi a sud». È il groppo di paura che prende gli abruzzesi, gli aquilani in specie, nel gorgo di questa crisi per ora senza fine. Ci hanno messo decenni per staccarsi dalle retroguardie del Sud e per «vedere» il Centro. Ora temono di venire ricacciati indietro. Anche questo muove la protesta, la rabbia del popolo dei terremotati che ha invaso il centro di Roma, venendo repressa con assurda violenza davanti ai palazzi del potere. La vicinanza dell’Aquila a Roma, fondamentale per le «passerelle» di Silvio Berlusconi quale deus ex machina del post-terremoto, gli si ritorce contro, ora che errori e false promesse si svelano per ciò che sono.

Esito prevedibile dopo l’oggettivo successo nei soccorsi più immediati fin dal momento in cui Berlusconi si è rifiutato di tenere in conto le esperienze più positive di altri terremoti (Friuli e Umbria-Marche), di praticare la strada della partecipazione, di raccogliere così idee utili per una strategia mirata sulle realtà dell’Abruzzo e dell’Aquila. Ha imposto la propria linea «edilizia», come se il solo problema fosse quello di dare un tetto (non importa quale) a tutti. E neppure in questa impresa parziale e insufficiente è riuscito, nonostante il fragore mediatico montato sul Salvatore d’Abruzzo. Nessun discorso sulle priorità vere e utili fra case, fabbriche (di qualunque tipo) e chiese. Dilemmi che si erano giustamente posti in Friuli e in Umbria-Marche e che avevano consentito di non paralizzare economie ben più solide di quella aquilana.

Soltanto un presuntuoso, goffo ghe pensi mi. Coi risultati sconsolanti che ora allarmano i terremotati.

Negli anni 70 e 80 l’Abruzzo aveva risalito la china conquistando posizioni più vicine a quelle del Centro. Poi un rallentamento: -0,3% nella crescita del Pil fra ’95 e 2004, contro il +1 dell’Italia. Nel 2008 -0,4, meglio del Paese e di gran parte del Sud. Nell’anno precedente il sisma, l’Abruzzo risultava 13° nella graduatoria del PIL, con l’indice 83,5 (Italia=100) contro 93,0 dell’Umbria, la meno ricca del Centro, e contro il 71,2 della Basilicata, la meno povera del Sud. A conferma che il distacco dal Mezzogiorno si era mantenuto marcato e che il «sogno adriatico» di rincorrere le Marche poteva ancora essere coltivato. Pur fra crescenti problemi e squilibri interni. Come ben racconta il recentissimo lavoro di Paolo Mastri del Messaggero uno dei giornalisti più attivi e lucidi nel valutare Il quinto Abruzzo. La storia cambiata dal terremoto (Edizione Tracce, 2010). «Svegliarsi a sud. Raccontare il vero rischio dell’Abruzzo al bivio». Coi dati esposti prima ovviamente peggiorati dalla tragedia aquilana e dal blocco dell’economia. Mastri cita il dossier di gennaio di Bankitalia che individua i quattro fardelli della regione: povertà relativa, improduttività della pubblica amministrazione, disastro sanitario, ipoteca criminale sul ciclo del credito. Tali da neutralizzare i passi avanti fatti nella politica del lavoro e nella competitività dei sistemi territoriali. In pochi anni la criminalità a partire dalla vulnerabile costa pescarese si è estesa al punto da indurre le banche a rendere meno facili a tutti «le condizioni di accesso al credito». Freno gravissimo in una regione dalle tante mini-imprese e dalla elevata «mortalità» aziendale, specie a Chieti e all’Aquila. Mentre i tempi della ricostruzione e della rimessa in moto dell’economia si allontanano sempre più assieme al borioso «sogno del Cavaliere» lasciando macerie.

Se persino il Vaticano è lieto di «trasmettere il ringraziamento e il benedicente saluto di Sua Santità», allora si può davvero cementificare il cielo di Milano. «No-Spot city» è un mostro, devasta 40 chilometri quadrati del centro, demolisce una torre del Castello, s’alza per un miglio, è un enorme complesso di grattacieli, 200 milioni di metri cubi per un milione di abitanti. Lorenzo Degli Esposti, architetto e professore al Politecnico, ha depositato la Dichiarazione d’inizio attività nel 2009 (numero di protocollo: 473371), integrata da un’approfondita e assurda relazione tecnica. Risposte dal Comune? «Nessuna. Dunque, nulla osta. Per altro, il 19 novembre sono arrivati i "distinti ossequi" del Papa...». Ieri, l’architetto ha comunicato la data (simbolica) d’inizio lavori: 11 luglio 2010, ore 11.

Una picconata al Castello seppellirà il Pgt? È l’obiettivo. Lorenzo Degli Esposti dirige l’Architectural & Urban Forum, sostiene che «Milano deve crescere in modo critico e intelligente» e colpisce la città al cuore per «svelare» i rischi del Pgt: una provocazione intellettuale sostenuta da associazioni, storici e critici d’arte.

Trenta giorni e scatta il silenzio-assenso. Qui è passato un anno: «Qualcuno — continua Degli Esposti — si sarebbe dovuto accorgere che non sono proprietario delle aree, che il progetto devasta il Castello...». No: è passato inosservato. A Palazzo Marino dicono che qualche pratica è in ritardo, d’accordo, ma la legge e il diritto penale non si discutono, tutelano Milano e condannano la «No-Spot city»: «Non è che uno può svegliarsi e decidere di abbattere il Duomo». Qualcuno ha già fatto domanda?

Nell’esercizio delle prerogative a lui concesse da un decreto della Presidenza del consiglio del 14 maggio 2010, il ministro Brunetta si accinge a riscrivere la Legge Speciale per Venezia. Ciò significa decidere in che direzione vanno spostati i finanziamenti nazionali destinati alla salvaguardia e allo sviluppo anche economico e sociale della città. In una parola, tenere i cordoni della borsa, ossia decidere il destino di Venezia per i prossimi anni.

Il ministro ha fatto stilare dal suo ufficio un documento in cui disegna le grandi linee degli interventi da lui pianificati. Ha poi convocato trentaquattro realtà veneziane, ha consegnato loro il documento e ha concesso otto giorni di tempo per elaborare commenti ed eventuali altre proposte.

Nella sua risposta, allegata al presente comunicato, il Consiglio direttivo di Italia Nostra, sezione di Venezia, fa notare che le priorità indicate nel documento seguono una scala di valori antiquata e superata, che mette in primo piano l’economia (anzi, un certo tipo di economia, fondata su turismo, portualità e industria manifatturiera) senza neppure nominare la qualità della vita, che invece costituisce il punto dal quale parte e deve partire ogni pianificazione territoriale moderna e volta al futuro.

La revisione della Legge Speciale per Venezia dev’essere, a parere di Italia Nostra, l’occasione per rovesciare una scala di valori che ha portato al degrado della laguna e del territorio circostante. Partendo dall’idea di “un ambiente sano e non privato della straordinaria bellezza di cui la natura, l’arte e l’antica sapienza tecnica l’hanno dotato,” si può e deve disegnare il quadro di un’economia sana e anzi florida e stabile.

Pertanto Italia Nostra suggerisce di usare i fondi della legge speciale per voltare totalmente pagina anziché proseguire, come il ministro sembra suggerire, sulle strade in cui il secolo scorso ha incamminato la città. Occorre capacità di visione e vero entusiasmo innovatore. Noi crediamo che il turismo, se non controllato, può creare un’economia drogata ai danni della residenzialità, delle attività specializzate e della stessa vivibilità del territorio. Anche uno sviluppo del porto commerciale fino a dimensioni planetarie contrasta con la fragilità e la bellezza del territorio lagunare, costringendo tra l’altro a ulteriormente scavare i canali artificiali che già ora hanno provocato il degrado della laguna e la sua trasformazione in un braccio di mare. Infine, lo sviluppo di attività industriali manifatturiere di tipo arcaico non farebbe che inquinare inutilmente l’aria e l’acqua, dovendo poi soccombere alla concorrenza di Paesi emergenti

Italia Nostra propone dunque di usare i fondi disponibili per una bonifica reale e completa di Marghera e della gronda lagunare. Propone forti incentivi fiscali per attrarre in quell’ampio e in sé bellissimo territorio imprenditori e aziende dedite alle attività del futuro, come la medicina avanzata, la biologia molecolare, le nanotecnologie e la ricerca scientifica e tecnologica in generale.

Il quadro disegnato è quello di una città popolosa e attiva, aperta a un turismo qualificato e controllato nei numeri, con centri di attività principalmente sulla terraferma, raggiungibile dagli abitanti con mezzi acquei veloci, comodi e panoramici e sottratti all’invadenza turistica.

Italia Nostra spera vivamente che il governo nazionale non sprecherà quest’occasione, forse l’ultima per alcuni decenni, di ripensare il destino della città alla luce di quanto il mondo intero si aspetta.

Il Comitato direttivo di Italia Nostra, sezione Venezia, 9 luglio 2010

Lo sciopero della stampa pone al paese una domanda ancor più generale: è possibile continuare in questo modo? E´ possibile continuare a subire un deterioramento così accentuato e rapido del rapporto fra potere politico e cittadini? Una violazione così esplicita di regole consolidate, di norme essenziali, di principi costitutivi? Una violazione, va aggiunto, che il governo ha deciso di imporre anche se le sue argomentazioni erano sin dall´inizio poco credibili, spesso intessute di falsificazioni aperte (si pensi alle cifre sul numero degli intercettati). È ben difficile credere che la legge-bavaglio abbia a cuore la privacy dei cittadini: è quasi più facile convincersi che un anonimo benefattore abbia segretamente pagato la casa dell´ex ministro Scajola. O che ci fosse davvero bisogno di un ministero senza nome né ragione per l´imputato Aldo Brancher, la cui condotta ha illuminato bene il senso di impunità di questo ceto di governo. Più ancora, come ha scritto Stefano Rodotà, quella «legalità speciale» (o illegale) che il governo persegue per consolidare l´eversione quotidiana, lo stravolgimento quotidiano delle istituzioni.

Libertà di stampa, autonomia della magistratura, etica della politica: l´intreccio fra questi nodi viene alla ribalta ormai da tempo, assieme all´uso spregiudicato del potere come schermo e scudo. Ed è evidente il cemento che lega nello stesso progetto la legge sulle intercettazioni, il lodo Alfano – nelle sue rinnovate versioni – e lo svuotamento progressivo di un Parlamento in cui il premier pur godeva di una larga maggioranza. Al centro della scena si erge da tempo un potere sempre più delegittimato, con una «politica del fare» andata in pezzi: lo denuncia in modo drammatico la sofferenza aquilana, che anche ieri gli abruzzesi hanno portato all´attenzione degli italiani.

C´è un nesso fortissimo non solo fra questi aspetti ma anche fra essi e il clima caotico che ha accompagnato e accompagna una legge finanziaria di grande importanza: la necessaria gravità e serietà delle argomentazioni è stata sostituita da un clima confuso, via via oscillante fra l´ultima spiaggia e l´assalto alla diligenza. Con l´irrisione del federalismo e al tempo stesso dell´equità sociale.

Nell´alternarsi di decisioni e di controdecisioni, di «refusi» e di smentite, l´elemento di rigidità è stato sin dall´inizio uno solo, l´impegno a non introdurre nessuna forma di tassazione. Nella demagogia del premier le tasse sono solo un modo per metter le mani nelle tasche degli italiani, ma la stretta economica rende ancor più chiare le conseguenze di questa deformazione (che è anche stravolgimento etico). Evitando scelte fiscali generali, dai parametri definiti, si finisce in realtà con il metter davvero le mani nelle tasche dei cittadini, e nella maniera più ingiusta: colpendo ulteriormente quella parte del paese che già paga realmente le tasse e lasciando sostanzialmente indenne la galassia dell´evasione. A questo rimandano le ipotesi variamente avanzate di riduzione degli stipendi nel pubblico impiego, con il blocco degli aumenti concordati o automatici (per non parlare del maldestro balletto sulle tredicesime). A questo rimandano i tagli alle Regioni, che mettono in difficoltà servizi essenziali. A fronte, intangibili, i 60 miliardi che costituiscono la annuale «tassa della corruzione», secondo le stime della Corte dei Conti: cioè la cifra sottratta alla legalità e ai cittadini dalle «cricche», dalle loro articolazioni e dai loro referenti politici. Più del doppio della manovra che sta lacerando la maggioranza e che graverà sugli italiani.

In questo quadro più ampio la mobilitazione contro la legge-bavaglio si è fatta realmente sentire. È stata, ed è destinata ad essere ancora, un punto di riferimento salutare e importante, e non accadeva da tempo. Eppure si ha l´impressione che vi siano ancora freni, afasie e incertezze che impediscono un pieno «prender la parola» dei cittadini, un loro più deciso «scendere in campo». Pesano stanchezze e disillusioni, pesa l´aver visto più volte svanire le proprie speranze di cambiamento. E pesa, va aggiunto, una forte inadeguatezza delle opposizioni sia sul terreno delle scelte immediate che nell´individuazione di una prospettiva più ampia. I due aspetti sono ovviamente intrecciati: apparirebbe surreale ogni discussione che non indicasse sin dall´avvio i discrimini da porre oggi, ora, per garantire legalità ed equità. Che non indicasse con chiarezza poche proposte e pochi irrinunciabili veti sui tre nodi principali: legge-bavaglio, legge finanziaria, lodo Alfano. Si può partire solo da qui per avviare quella discussione sul futuro che è scomparsa da tempo dalla agenda della politica, e che è la vera condizione per invertire una deriva.

La mobilitazione della stampa è un´occasione rara per rimettere in moto un processo e per permettere al paese di riflettere su se stesso. È stata rievocata in questi giorni una svolta politica di cinquant´anni fa, segnata dalla caduta del governo Tambroni e dal faticoso avvio di una stagione riformatrice. Fu centrale allora una mobilitazione di piazza senza precedenti ma andrebbe ricordato che anche i giornalisti fecero la loro parte mettendosi in gioco e pagando di persona. Pagò di persona Enzo Biagi, licenziato immediatamente dal settimanale che dirigeva, Epoca, per aver criticato il governo e la sua irresponsabile gestione dell´ordine pubblico. Si misero in gioco i giornalisti de Il Giorno, sfidando le fortissime pressioni esercitate allora da Tambroni su Enrico Mattei (presidente dell´Eni, che aveva la proprietà del giornale) e sul direttore Italo Pietra. Pressioni non platoniche, dato che il licenziamento del precedente direttore, Gaetano Baldacci, era stato deciso qualche mese prima proprio da un consiglio dei ministri. Eppure Il Giorno, l´8 luglio di mezzo secolo fa, fu il primo giornale non comunista a chiedere di fatto le dimissioni del governo: l´editoriale lo firmò Enzo Forcella, che l´anno prima aveva denunciato in un articolo memorabile - Millecinquecento lettori - la subalternità al potere di larga parte della stampa italiana di allora. Anche episodi come questi sono scritti nella storia del nostro giornalismo: gocce, se volete, ma capaci talora di lasciare il segno.

il manifesto

Terremoto sul capo

di Valentino Parlato

Quel che abbiamo visto ieri a Roma va oltre ogni immaginazione del peggio. Guardate le immagini, nonostante le omissioni del Tg1. Migliaia di cittadini dell'Aquila, sindaco in testa, vengono a Roma per protestare contro l'abbandono nel quale sono stati lasciati dopo il gran teatro del G8, la santificazione di Bertolaso, e Berlusconi in gloria con il casco. Sembrava di essere tornati ai tempi di Scelba, cariche e manganellate senza pietà. Terremotati e mazziati. Quelle immagini esprimono la ferocia e la rabbia di un capo che ha visto crollare tutti i suoi illusionismi con i quali era sicuro di aver conquistato la popolazione dell'Aquila. L'ha considerato un tradimento e dato via libera al pestaggio degli aquilani venuti a Roma per dire la verità, per dire che L'Aquila è distrutta e abbandonata a un destino di cancellazione dal vivere civile. Venuti per protestare, perché oltre al danno vivono la beffa della «manovra» che li vuole super-tassati.

Ma forse in questa rabbiosa ferocia di Berlusconi c'è anche la paura di essere arrivato alla fine della sua parabola. Si sente travolto dalle liti e dalle ambizioni personali dei suoi gerarchi, dall'opposizione delle Regioni (anche le sue) ai tagli, dalle difficoltà con Tremonti e Bossi, dai sondaggi che lo danno in calo. Ha perso il lume della ragione e probabilmente ha avuto anche la tentazione di mandare Bertolaso alla testa delle guardie che hanno manganellato gli aquilani.

Ma tutto questo che effetto avrà in un Italia politicamente disfatta? Dove il partito, che dovrebbe essere di opposizione, il Pd - come ha scritto Ida Dominijanni sul manifesto di martedì scorso - che sa solo delegare la salvezza al «ruolo guida del Capo dello Stato». Confessando così non solo una nascosta pulsione presidenzialistica, ma anche - e soprattutto - una dichiarazione di inesistenza. Questo partito, che quando è stato al potere, col secondo governo Prodi, ha saputo solo cercare di imitare Berlusconi e adesso, da quando (dovrebbe essere) all'opposizione non è mai stato in grado, non dico di mettere in difficoltà Berlusconi, ma neppure di aprire un serio e chiaro fronte di lotta, trangugiando tutto con malmostosa impotenza. Siamo a un punto limite, quel che ancora in questo paese c'è di sinistra, pur disperso e fuori della guida illusoria dei partiti, dovrebbe entrare in comunicazione, dovrebbe aggregarsi, chiedere conto e ragione al ceto politico che pure manda in parlamento.

Il popolo dell'Aquila ci ha dato un segnale forte. Bisogna scendere in campo, mandare al diavolo quei sepolcri imbiancati che dicono di rappresentarci. Non possiamo restare travolti e schiacciati dal crollo, inevitabile, di Berlusconi.

L’Unità

Questa violenza

di Luigi Manconi

Una giornata di ordinaria violenza istituzionale. Dentro e fuori il Palazzo, dentro e fuori il Paese.

Alle ore 15.45 di ieri, 7 luglio 2010, il ministro per i rapporti con il Parlamento nel corso del question time, rispondeva così agli interrogativi posti da Livia Turco: all’origine della tragedia dei 245 tra eritrei e somali rinchiusi nel carcere di Brak, vi sarebbe «un equivoco». Ai profughi sarebbe stato sottoposto un questionario per esse- re avviati a «lavori socialmente utili», ma gli eritrei e somali si sarebbero rifiutati, temendo che, attraverso quella procedura, venissero rimpatriati a forza. Da qui il trasferimento, in condizioni disumane, nel carcere di Brak.

Il grottesco infortunio di questa risposta del Governo, che riduce un autentico dramma umanitario alle dimensioni piccine di un fraintendimento, ha segnato questa giorna- ta di ordinaria violenza istituzionale. E, infatti, che cosa è più violento tra il comportamento brutale della polizia nei confronti dei cittadini de L’Aquila che manifestavano a Roma e la menzogna sulla sorte di quegli uomini in fuga da regimi totalitari? E, anco- ra, c’è qualcosa di più violento dell’ottusa indifferenza nei confronti di quei disabili che vedono ridursi drasticamente sussidi già miserevoli e previdenze economiche tanto esigue da risultare oltraggiose? Se osservata attraverso questi fatti - e attraverso lo sguardo di tanti soggetti deboli, terremotati o disabili o fuggiaschi - quella di ieri può sembrare davvero una giornata da fine regime. Dalla sudaticcia rincorsa a rattoppare, rappezzare, rappattumare una manovra che fa acqua da tutte le parti allo sfarinarsi di una maggioranza, tanto più imponente sulla carta quanto più goffa e arrancante nei fatti, dal ricorso irresponsabile alle forze dell’ordine (minacciate, a loro volta, da tagli micidiali) all’ostentato cinismo, nei confronti di quel principio universale che è il diritto d’asilo, si ha la sensazione di un sistema di potere che si avvia a un irreparabile declino.

Sarebbe un errore credere che questo significhi, quasi automaticamente, l’inizio di un tempo nuovo. La fine del berlusconismo è destinata a passare attraverso una crisi lunga e devastante, che non si limiterà a logorare i suoi protagonisti, ma che avrà effetti velenosi e conseguenze debilitanti per l’intera società. Per dirne una, la campagna ideologica contro lo straniero e quel sistema di interdizioni e divieti, obblighi e sanzioni che, tramite delibere di amministrazioni locali, intendono disciplinare la vita sociale, non sono revocabili né in breve tempo né attraverso semplici azioni positive. I guasti, e che guasti, hanno inciso in profondità nella mentalità condivisa, nelle relazioni sociali e nei modelli di vita. Proprio per questo è fondamentale che, da subito e in ogni spazio agibile, si operi per affermare un punto di vista diverso. La vicenda dei cittadini de L’Aquila è così importante proprio perché dimostra come la cosiddetta “politica del fare” si riduca a un osceno esercizio di retorica, dove - tra effetti speciali e cotillon - si cancella la vita vera delle perone. E la vicenda degli eritrei è, sì, una questione umanitaria, ma è anche molto di più: è in gioco la vita di quei profughi e, insieme, la nostra civiltà giuridica.

Terra

Non può durare

di Enrico Fontana

Emma Marcegaglia se l’è cavata con un colpo di telefono. Per i rappresentanti dei Cocer, i “sindacati” delle forze armate, è stata sufficiente una conferenza stampa. I cittadini de L’Aquila, invece, hanno dovuto invadere il centro di Roma, prendersi una buona dose di manganellate e non avere comunque la certezza di essere ascoltati. Ai rappresentanti delle associazioni dei disabili sono state risparmiate le botte, ma è la prima volta che devono scendere in piazza, tutti insieme, per difendere il diritto a una vita dignitosa. Il governo Berlusconi, quando si tratta di scegliere con chi trattare e chi lasciare fuori dalla porta, ritrova la sua vera identità. Forte con i deboli e debole con i forti. Le immagini di ieri, insieme alla minaccia di abdicazione ripetuta da giorni come un mantra dai presidenti delle Regioni, danno davvero l’idea di un governo alla sbando. E più che dall’iniziativa dell’opposizione parlamentare, è proprio dalla pancia del Paese che sembrano arrivare i segnali di un possibile disfacimento di questa maggioranza.

In evidente deficit di credibilità, con due ministri dimissionari (Scajola e Brancher), il titolare dell’economia impegnato in un rovinoso «Tremonti contro tutti», la stampa in rivolta contro la legge bavaglio, Berlusconi annaspa alla ricerca di una via d’uscita. E cerca come può di turare le falle. Senza una strategia, però. E si vede. Lui, che pure è uno stratega della comunicazione, commette errori grossolani. Ma come si fa, con la crisi che azzanna persino la spesa alimentare delle famiglie, da un lato consentire alla presidente della Confindustria di sorridere beata in tv dicendo «ho sentito al telefono Berlusconi e Tremonti, le nostre richieste sono state accolte» e dall’altro far prendere a manganellate i terremotati de L’Aquila, che chiedono una ragionevolissima solidarietà?

E che senso ha spingere le rappresentanze delle forze armate fino al punto di mostrare le stellette in tv per attaccare il governo, perché con i tagli della finanziaria mette in pericolo la sicurezza del Paese, per poi concedergli d’un colpo 160 milioni di euro in due anni?

Siamo al suk, altro che il rigore che pure sarebbe necessario per evitare l’assalto della speculazione finanziaria alla disastrate casse nazionali. Nei palazzi, Chigi e Grazioli indifferentemente, si mercanteggia con i “poteri forti” e nelle strade si fa la voce grossa con chi rivendica diritti e pretende risposte. Non può durare a lungo. O almeno si spera.

Postilla

I commenti di altri giornali, che abbiamo ascoltato a “Prima pagina”, avrebbero meritato di essere raccolti in quella specie di Colonna infame che abbiamo in questo sito, la cartella “Stupidario”. Ma a certi giornali non siamo abbonati né vogliamo farlo. Un nostro commento ai fatti di ieri e all’indignazione che hanno suscitato (fuorchè in quei giornali lì, e nelle televisioni del Padrone dello stato) riguarda la distrazione con cui la stampa ha seguito fin dall’inizio i fatti dell’Aquila, e con cui ancora oggi persevera nell’errore. La tesi prevalente è la seguente: il Governo, e Bertolaso in prima persona, all’inizio hanno fatto bene, poi hanno trascurato e sbagliato.

No, non è così: fin dall’inizio l’impostazione che è stata data al dopo terremoto è stata palesemente errata: qualcuno (pochi) l’ha denunciato fin dai primi giorni (aprile 2009), e la cartella di eddyburg dedicata all’evento lo testimonia. La corruzione, la speculazione, l’indifferenza per le condizioni reali, sono tutte cose che vengono dopo e sono in gran parte conseguenza degli errori di fondo, che sono stati denunciati (da pochi) fin dall’inizio: era già nelle scelta della mistificazione delle “New towns” alla Berlusconi anziché nella ricostruzione delle strutture urbane, fisiche e sociali; era già nella scelta della soluzione autoritaria e militaresca anziché quella che fa leva sugli enti locali e sulla popolazione. Continuare a dire oggi che “all’inizio andava tutto bene poi hanno cominciato a sbagliare” significa non aver capito nulla, e continuare a ingannare l'opinione pubblica.

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