l’Unità
Sì ai bungalow del premier
«Ughetto» amplia villa Certosa
di Giacomo Mameli
Si poteva dire di no all'ampliamento di una megavilla nota in tutto il mondo per molte e squallide cronache piccanti e per modeste vicende politiche? Si poteva dire di no a una reggia costruita nella baia di Porto Rotondo tra il 1984 e il 1985 dal più inquisito faccendiere d'Italia e da lui, dal “recidivo Flavio Carboni, nato a Sassari il 14 gennaio 1932, nullatenente” venduta “in contanti” al presidente del Consiglio in carica, al padrone di tv e giornali, di squadre di calcio e assicurazioni, di panfili e colossi immobiliari? Gli si poteva dire di no negli stessi giorni in cui il premier, in insolita veste paterna, gongolava per una figlia neolaureata in una università privata magna cum laude? Certo che non gli si poteva rovinare la festa. Timbri apposti con la velocità delle fibre ottiche da funzionari non fannulloni. E “nel pieno rispetto delle leggi vigenti”. Anche perché la giunta regionale sarda del sempre meno sorridente Ugo Cappellacci aveva predisposto le scappatoie giuste per i potenti. Ed ecco il via alla costruzione di “due corpi di fabbrica per complessivi 800 metri cubi” pari a cinque bungalow superaccessoriati, fra i 32 e i 45 metri quadrati ciascuno, rifiniti di tutto punto. Così si conviene a chi primeggia in galanterie ospitando il premier russo Putin e consorte, il presidente Medvedev e signora, qualche parvenu dell'Europa dell'Est patito di nudismo, o il colonnello Gheddafi che abbandona il solleone del deserto libico per oziare davanti al blu smeraldo del mare e ai graniti di Punta Lada.
Silvio Berlusconi, a tempo di record, ha avuto dalla Regione Sardegna l'okay per l'ampliamento di una villa di 2.800 metri quadrati inserita in un parco sconfinato oggi di 50 ettari. Un ok siglato dalla commissione paesaggistica nominata dal governo di centrodestra a guida Cappellacci e dal suo assessore all'Urbanistica, Gabriele Asunis, uno dei personaggi finiti nell'inchiesta sull'eolico in Sardegna. Quell'Asunis che al telefono, parla amorevolmente col Flavio Carboni assolto per i suoi presunti rapporti con la banda della Magliana, ora in carcere per i traffici e lo “squallore” della P3. E non gli lesina l'uso di aggettivi del cuore, quelli che si usano per figli e mogli, nonni e zii, “caro e carissimo”, e al quale si manda ripetutamente via cavo “un forte abbraccio”. Il ligio assessore all'Urbanistica nominato per cancellare le regole varate dal centrosinistra guidato da Renato Soru poteva far dire di no a chi aveva acquistato Villa Certosa da Carboni, il “caro” signore che ostenta amicizie tanto potenti da poter far incontrare Cappellacci perfino “con i vertici dell'amministrazione americana”? Non è stato Carboni – riverito nei palazzi della Regione sdraiata a destra a organizzare il convegno (18-19 settembre 2009) al Forte Village di Pula per parlare ufficialmente di federalismo fiscale ma sospettano i giudici romani – per siglare il lerciume sull'eolico in Sardegna? E Cappellacci (anche lui – prima della scottatura e del pentimento dà sempre del “caro” e “carissimo” a Carboni) poteva negare la compartecipazione della Regione? Spicciolo più, spicciolo meno, è stata di 134 mila e 372 euro la somma che Pasquale Lombardi, il geometra accreditato come giudice tributario, oggi in carcere con Carboni e soci, ha dichiarato di aver impiegato per il summit delle tresche. Chi ha pagato? 50mila euro li ha certamente messi Cappellacci, pardon, la Regione che snobba i disoccupati della Vinyls e dell'Eurallumina. Gli altri 75mila l’instancabile «Flavio», tessitore di affari col coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini. Così tutto torna. Fra amici ci si intende. E poiché gli amici crescono è bene ampliare Villa Certosa. Acquistata 25 anni fa (da Carboni) per un miliardo e mezzo di lire con 28 stanze e 12 bagni. Oggi il prezzo è schizzato a 35 milioni di euro. E poi dicono che chi ci governa non sa fare i conti. Quelli propri.
la Nuova Sardegna
I bungalow a Villa Certosa saranno cinque,
coro di critiche al premier
di Mauro Lissia
«Questo episodio, l’uomo più ricco d’Italia e capo del governo italiano che chiede e ottiene di allargare la propria villa in Sardegna, è una nuova conferma del livello barbarico in cui è precipitata l’Italia»: parole di Edoardo Salzano, urbanista pianificatore di fama internazionale, padre indiscusso del piano paesaggistico regionale. Salzano è sconcertato: «La norma sul piano-casa è stato un fallimento a livello nazionale, è incredibile poi che alcune regioni l’abbiano applicata ancora prima che diventasse legge. Purtroppo la prima è stata la Toscana, amministrata dal centrosinistra. Ed è stata una decisione difficile da comprendere». Salzano però insiste sul caso sardo: «Questo fatto dimostra quanto Berlusconi tenga alla sua villa e spiega perchè il presidente del consiglio si sia impegnato così a fondo per sostenere la candidatura dell’amico Ugo Cappellacci».
L’ex assessore regionale all’urbanistica Gianvalerio Sanna ha la carta bollata sulla scrivania: «Sull’ampliamento di villa Certosa il parere della commissione al paesaggio conta soltanto come un parere, ma se l’ufficio regionale per la tutela del paesaggio darà il nullaosta all’intervento, che è l’atto rilevante, ricorreremo al Tar perchè si verificherà una chiarissima violazione del piano paesaggistico regionale». Sanna si era già fatto sentire nell’aula del consiglio quando, a maggio scorso, sono uscite sulla Nuova Sardegna le prime indiscrezioni sull’istanza di accesso al piano-casa presentata dall’Idra Immobiliare di Silvio Berlusconi: «Ho chiesto che gli atti mi venissero trasmessi immediatamente, perchè mi pare evidente che se l’amministrazione Cappellacci ha elaborato un secondo piano casa l’ha fatto perchè il primo era illegittimo. Poi si è rivelato illegittimo anche il secondo...». Sugli aspetti politici il giudizio è scontato: «Manca persino il pudore - taglia corto Sanna - ma ormai non c’è più da stupirsi di nulla, basta guardarsi intorno e vedere a quale punto è il nostro paese grazie a questi governanti».
Sulla stessa linea l’ex presidente della Regione Renato Soru: «Non ho commenti su questa vicenda, posso solo dire che difenderemo il piano paesaggistico in ogni sede, come abbiamo fatto finora». Anche Francesco Pigliaru, ex assessore regionale alle finanze e docente di economia, fa fatica a trovare le parole giuste per una valutazione dei fatti: «Il piano casa va nella direzione esattamente opposta a quella giusta, fa costruire di più anzichè di meno. Il fatto che ad avvantaggiarsene per primo sia Berlusconi è la conferma di quanto quella norma sia sbagliata». Indignazione anche a Italia Nostra, dove la responsabile giuridica Maria Paola Morittu appoggia pienamente l’idea di un ricorso ai giudici amministrativi: «Se riscontreremo profili di illegittimità lo presenteremo subito, questo è certo. Perchè abbiamo di fronte l’ennesima dimostrazione di come chi governa badi ai propri interessi piuttosto che al bene comune». La dirigente dell’associazione culturale contesta anche l’opportunità del piano-casa: «Le domande all’esame della commissione sono state soltanto trentacinque, il che la dice lunga sulla necessità di questa norma regionale, costata lunghissime discussioni e sedute del consiglio regionale a discapito di problemi reali della Sardegna. Non so, è una cosa talmente vergognosa che non si trovano parole sufficienti a esprimere il disappunto».
Caustico il commento di Stefano Deliperi, responsabile del Gruppo di intervento giuridico: «Nessuna sorpresa, ormai in questo paese quando si fa una legge si sa già in partenza chi sarà l’utilizzatore finale. In questo caso poi si tratta di una vera legge-porcata, destinata ad alimentare gli interessi di pochi e ben identificati speculatori. Ma come tutte le cose elaborate in fretta si è rivelata un fallimento totale. Doveva servire a chi ha già volumetrie e cantieri pronti, alla fine è servita soltanto a Berlusconi». Parla di fallimento anche Vincenzo Tiana, presidente regionale di Legambiente: «Ci siamo battuti contro il piano-casa e i fatti dimostrano che eravamo sulla strada giusta, quella legge è un disastro ed è stata pensata soltanto per alcune persone. Che altro potrei aggiungere? E’ una cosa deprimente, se ci saranno gli estremi ricorreremo al Tar».
Intanto si apprende che i bungalow progettati dalla società Idra Immobiliare per Villa Certosa sarebbero cinque, tra i 32 e i 45 metri cubi, per un totale di 800 metri cubi. Il piano-casa prevede la possibilità di aumentare la volumetria concessa del dieci per cento.
L’Italia dei valori: legge ad personam,
non c’è limite alla vergogna
I Verdi preparano il ricorso al Tar
«Presenteremo un ricorso al Tar Sardegna per chiedere che venga annullata l’autorizzazione paesaggistica rilasciata al presidente del Consiglio per l’ampliamento di Villa Certosa e la costruzione di numerosi bungalow»: lo dichiara il presidente nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli.
È una delle reazioni politiche a livello nazionale alla notizia, riportata ieri dalla Nuova, che Berlusconi potrà realizzare nuove costruzioni nella sua residenza Porto Rotondo. «A quanto ne sappiamo - aggiunge il leader dei Verdi - il progetto presentato per Villa Certosa è assolutamente insufficiente e per niente dettagliato. Inoltre, la normativa sul paesaggio in Sardegna vieterebbe anche solo la costruzione di un metro cubo sulle coste».
«In questo caso - prosegue Bonelli - è evidente il conflitto d’interessi di Berlusconi che avrà un vantaggio diretto ed economico da una norma da lui fortemente voluta e approvata: il piano casa, a cui ci siamo sempre opposti. Il valore di Villa Certosa aumenterà di diversi milioni di euro in barba a tutte le normative a tutela del paesaggio e dell’ambiente: l’assalto del cemento e della speculazione alle coste sarde è iniziato». «Berlusconi avrebbe dovuto astenersi dal chiedere l’autorizzazione per questo ampliamento - conclude il presidente nazionale dei Verdi -. In questo modo, ancora una volta, dimostra di preoccuparsi più dei suoi interessi che di quelli del Paese».
Indignata anche la reazione dell’Italia dei valori, affidata al capogruppo alla Camera del partito di Di Pietro, Massimo Donadi: «Alla vergogna non c’è mai limite. Berlusconi ha ottenuto il via libera per la costruzione di alcuni bungalow a Villa Certosa grazie a un piano casa regionale del suo fidato governatore Cappellacci. A quanto pare le richieste sono state poco più di venti, e tutte da hotel, villaggi turistici o ville private. A cosa serve la costruzione di bungalow in una villa già enorme e che ha già usufruito in passato di costruzioni abusive coperte poi dal segreto di Stato? E, soprattutto, il piano casa non era stato progettato per avere una stanza in più per i figli? Ancora una volta demagogia e propaganda nascondevano un’altra verità. Berlusconi aveva bisogno di una nuova legge ad personam, e questa volta se l’è fatta fare dalla Regione Sardegna».
Flop immobiliare e finanziario di privati fuori controllo, cementificazione e degrado. Lotte di potere tra i leader del Pdl. Infiltrazioni mafiose. La triste fine del quartiere Santa Giulia è l’immagine spezzata di Milano dopo 17 anni di governo delle destre. Eppure proprio in questi giorni all’ombra della Madonnina si prendono decisioni che valgono decine di miliardi. Le questioni sul tavolo sono tre. Expo 2015, con il braccio di ferro tra Letizia Moratti e Roberto Formigoni sull’acquisizione dei terreni di Rho-Pero che ospiteranno la fiera; il Piano di governo del territorio (Pgt), approvato dopo estenuanti sedute fiume, che spiana il terreno a banche e palazzinari; e i progetti edilizi già in atto (come i grattacieli storti di Citylife) o defunti prima di nascere (come Santa Giulia). Tre questioni enormi che muovono immense somme di denaro: i 25 miliardi della manovra di Tremonti a confronto sono poca cosa. E tra meno di un anno a Milano si elegge il nuovo (o il vecchio) sindaco.
Il giro del fumo
Dopo la fine della Milano delle fabbriche, la città produce aree dismesse da bonificare e rifiuti tossici da smaltire. Gli ex siti industriali diventano aree edificabili che il pubblico troppo spesso lascia all’iniziativa privata. Terreni degradati si trasformano magicamente in oro. Fanno bilancio, entrano in un gioco finanziario che ha come protagonisti immobiliaristi foraggiati dai maggiori istituti di credito e assicurativi. Due mondi che spesso si intrecciano. Non a caso sia Zunino che Salvatore Ligresti tramite la figlia Jommella (lui non può perché condannato ai tempi di Tangentopoli) in tempi diversi si sono seduti nel salotto buono di Mediobanca.
Intorno a questo giro ruotano gli interessi di imprese che si occupano di svolgere il lavoro che a cascata coinvolge una lunga serie di aziende in subappalto permeabili alla malavita. In cambio però l’economia gira, la città si trasforma in un cantiere a cielo aperto e c’è lavoro. E poco importa se la vivibilità della città soccombe sotto milioni di tonnellate di cemento e un milanese ogni due giorni viene ucciso dallo smog, come ha appena dimostrato un’agghiacciante ricerca dell’Università di Milano. Finiscono nel mirino anche le aree occupate dai centri sociali, i campi rom sgomberati a centinaia e persino i terreni «occupati» da fabbriche ancora al lavoro (il caso Innse dell’estate scorsa). Il gioco fino a ieri funzionava per quasi tutti. La pax fomigoniana si è basata anche sulla gestione dei rapporti tra Compagnia delle opere e Cooperative più o meno rosse nella spartizione della torta dei lavori.
Un modello che non è stato ostacolato né dal centrosinistra, che per anni al Pirellone ha sposato l’astensione, né dall’ex presidente della Provincia del centrosinistra, Filippo Penati: dopo aver perso disastrosamente con Formigoni è stato nominato vicepresidente fantasma del nuovo consiglio regionale eletto in aprile. In questo contesto si sono mossi prima l’ex sindaco del Pdl, Gabriele Albertini, e poi Letizia Moratti. L’ex sindaco ha dato l’ok ad una serie di progetti edilizi faraonici senza alcun piano della città. Sono nati così i progetti della Hines nell’area Garibaldi Repubblica, Citylife all’ex Fiera, i progetti di Zunino a Santa Giulia e alla ex Falck di Sesto San Giovanni. Poi i progetti sugli ex scali ferroviari. Letizia Moratti ha cercato di dare un immagine unitaria e grandiosa di questo sterminato cantiere in mano ai privati.
Ha vinto la sfida per Expo 2015 e sono cominciate a circolare immagini futuribili della Milano dei sogni. Poi ha messo a punto il Piano di governo del territorio, il primo piano regolatore dal 1980 che però più che regolare mette nero su bianco una vera e propria deregulation. Tutto bene? Non proprio. Il gioco del mattone si è spezzato. La crisi mondiale nata sui subprime legati alle case ha portato alla stagnazione del settore, sia sul piano finanziario che su quello dell’economia reale ulteriormente depressa dall’aumento di precarietà e cassa integrazione, dal blocco dei mutui e dai tagli dello Stato - dalla scuola alla manovra. Tira solo il mercato delle case di lusso. L’offerta supera la domanda e alcuni grandi progetti finiscono malissimo, come è accaduto a Santa Giulia, o barcollano, come Citylife. Pochi giorni fa anche Salvatore Ligresti, che di Citylife è il padrino, ha dovuto mettere in vendita uno dei gioielli di famiglia, la storica Torre Velasca. Nello stesso tempo, e di conseguenza, si complica il quadro politico e i rapporti tra i diversi leader del Pdl diventano sempre più tesi; la Lega cresce insidiando le posizioni di potere degli alleati, mentre il centrosinistra finora ha collezionato solo sconfitte.
Piano, troppo piano
Sul Piano generale del territorio (Pgt) il Pdl ha già rischiato il crollo, diviso tra l’area ciellina e quella laica. Il piano che lo stesso sindaco ha definito come il suo provvedimento più importante, è stato approvato dopo 7mesi: 55 sedute cui spesso è mancato il numero legale, con estenuanti tour de force di 15 ore filate. Il voto finale è arrivato alle 4 del mattino del 14 luglio. Si basa su quattro principi. La perequazione: una sorta di borsa delle volumetrie che possono essere comprate e cedute da un terreno all’altro. La fine della destinazione d’uso, per cui si costruirà senza dover dire cosa e in che contesto. La sussidiarietà dei servizi, secondo cui il pubblico se ne occupa solo laddove i privati non possono o non hanno interesse di arrivare.
E la densificazione. Si è partiti con l’assessore all’urbanistica Masseroli che fantasticava 700 mila nuovi milanesi in 20 anni. Mese dopo mese la cifra si è ridotta e ora non si fanno più previsioni. Grazie al crescere delle tensioni interne al Pdl, l’opposizione è riuscita a strappare alcuni importanti modifiche. Il lavoro dei consiglieri Patrizia Quartieri, Giuseppe Landonio e Milly Moratti, ha trovato un punto di incontro con la posizione fino a qualche mese fa più morbida del Pd, che ha deciso di dare battaglia guidato dal capogruppo Pierfrancesco Majorino. L’opposizione per una volta unita ha battuto un colpicino e ha portato a casa cambiamenti importanti. Il 35% delle costruzioni per l’housing sociale.
L’aumento delle aree verdi. La non edificabilità del Parco Sud, un enorme polmone verde e agricolo alle porte della città, anche se le volumetrie di quei terreni potranno sempre essere scambiate per costruire altrove; e anche se il presidente della provincia, Guido Podestà, ha invece aperto a interventi immobiliari, in linea con la politica del suo predecessore Penati (Pd). Adesso i cittadini sono chiamati a fare le proprie osservazioni e l’approvazione definitiva del Pgt, se arriverà, sarà ormai in piena campagna elettorale.
Un bel problema per il sindaco, Il giorno dopo il voto in notturna, Moratti sorridente si è appropriata di queste modifiche come fossero farina del suo sacco. E continua a fantasticare la Milano che non c’è. Ha annunciato per il 2035, 11 linee metropolitane (al momento si fatica a vedere la fine delle linee 4 e 5), decine di nuovi parchi, asili, scuole e servizi in ogni quartiere ameno di un chilometro dal portone di casa, una circle line intorno alla città, mentre il progetto di un faraonico tunnel da Rho a Linate è stato stralciato,ma non dimenticato.
Castelli in aria
Chi finanzierà queste opere immense che il sindaco continua a vaticinare? Le animazioni virtuali della Milano del futuro continuano a scorre come sogni. Si aprono fantomatiche vie d’acqua, poi scompaiono, sorgono e spariscono grattacieli e fantomatici Central park. In vista della campagna elettorale cambia anche il look di donna Letizia. Dal tailleur ad un immagine più casual, il sindaco si fa fotografare sul suo terrazzo con piscina vista Duomo, dove coltiva pomodorini bio. Si appella giocherellando all’orgoglio dei milanesi, perché votino sul sito del Monopoli per inserire Milano tra le nuove caselle della versione italiana del gioco. Confessa di pattugliare le zone della sua città in incognito, travestita come Serpico, insieme al rampollo di famiglia.Ma la realtà la perseguita, la bolla del mattone rischia di scoppiare da un momento all’altro sotto le spinte della crisi, delle indagini della magistratura e della litigiosità del Pdl. Da troppo egemone nell’area più ricca del paese.
Santa Giulia fa ballare i politici lombardi
«Se c’è un’inchiesta che può far paura a Formigoni è Santa Giulia». Da due anni questa voce circola con insistenza a destra e sinistra. Una voce che appare meno inverosimile dopo il clamoroso sequestro di uno dei più grandi cantieri d’Europa (1,2 milioni di metri quadrati) per ordine della procura di Milano per l’inquinamento delle falde acquifere. Ma c’è di più. L’inchiesta sull’area ex Redaelli-Montedison, che avrebbe dovuto ospitare l’avveniristica «città ideale» di Zunino, si intreccia con le recenti retate che hanno portato all’arresto di 300 affiliati alla ‘ndrangheta che operavano in Lombardia. La bonifica di Santa Giulia era affidata dalla Regione a Giuseppe Grossi senza le dovute fidejussioni in caso di mancanze nei lavori.
Il «re delle bonifiche» gestisce appalti di bonifica anche in molte altre aree della regione, come l’ex fabbrica chimica Sisas di Pioltello. Grossi era già stato arrestato a ottobre per frode fiscale nell’ambito dell’inchiesta dei pm Laura Pedio e Gaetano Ruta. Con lui arrestarono Rosanna Gariboldi, assessore provinciale pavese del Pdl. La signora accusata di riciclare i soldi di Grossi (in totale l’inchiesta riguarda 22 milioni di fondi neri) ha patteggiato la pena. Gariboldi è la moglie di Giancarlo Abelli, parlamentare del Pdl, ex assessore lombardo, vice coordinatore nazionale del Pdl e fedelissimo di Formigoni. Abelli era colui che nominava i dirigenti Asl, come Carlo Chiriaco, il direttore della Asl di Pavia arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta e che di Abelli parla nelle intercettazioni della Dia.
Un filone dell’inchiesta riguarda anche l’ex assessore del Pirellone Massimo Ponzoni. La magistratura sospetta che i contatti tra politici e sospetti mafiosi servissero anche a raccogliere voti. È emerso anche il nome dell’uomo più votato della Lega per il consiglio regionale, Angelo Ciocca, 35 anni di Pavia. Avrebbe avuto rapporti con l’avvocato tributarista Pino Neri, arrestato per concorso in associazione mafiosa. Un fatto imbarazzante che impedisce ai «duri» di via Bellerio di fare troppo i «puri» nei confronti degli alleati del Pdl. Sul tavolo del procuratore aggiunto Ilda Bocassini è finito anche il fascicolo su uno strano suicidio. Pasquale Libri, 37 anni, funzionario degli appalti dell’ospedale San Paolo di Milano qualche giorno fa si è buttato dalla tromba delle scale.
L’uomo era stato intercettato mentre parlava con Chiriaco con cui fra l’altro discuteva dello zio di sua moglie, Rocco Musolino, boss dell’Aspromonte. Il 12 gennaio scorso Libri partecipò ad un incontro con altri presunti affiliati delle cosche in via Pirelli 27, a Milano, sede elettorale del candidato Pdl alle regionali, Angelo Giammario. La Lombardia non è la Calabria, da nessun punto di vista. Il fatto che le organizzazioni mafiose siano presenti tra i tanti attori dei giochi politici e d’affari milanesi non è una novità. Ma queste vicende stanno intaccando lo strapotere del Pdl e dei suoi alleati. «Formigoni finora non è toccato – spiega Luciano Muhlbauer, ex consigliere regionale del Prc tra i primi a denunciare la gravità della questione morale al Pirellone -ma le indagini della magistratura, che è sempre nel mirino di Berlusconi, possono far scoppiare le tensioni sempre più evidenti tra le varie anime della destra».
Nel deserto di Santa Giulia, intanto, 1.887 famiglie ricevono rassicurazioni dal sindaco Moratti e dall’assessore Masseroli, gli stessi che fino a un mese fa dicevano che le bonifiche erano in regola. E che ora danno la colpa all’Arpa e al Pirellone. Alcuni abitanti non amano i riflettori, temono che a questo punto saranno ancora più soli. Il sequestro li ha privati anche di un parco e di un asilo (nel 2005 era già stato chiuso perché ai bambini stranamente piangevano gli occhi). Si pensa ad una azione legale collettiva. Mentre le istituzioni, Comune, Provincia e Regione, Arpa, oltre che Risanamento - la società di Zunino che deve gestire il suo fallimento - si rimpallano le responsabilità. E intanto le acque viaggiano nel sottosuolo e possono inquinare con i loro elementi cancerogeni pozzi a distanza di 30 chilometri. Resta solo da capire se i camion che scaricavano scorie nella notte trasportavano materiale proveniente da altre discariche o scavi,magari da altre speculazioni edilizie.
Fatto non improbabile visto che in quei diversi siti spesso operano in subappalto le stesse ditte sotto inchiesta. L’altro giorno in Prefettura a Milano era ospite la commissione nazionale sui rifiuti presieduta daGaetano Pecorella. La stessa commissione che il giorno del sequestro stava sentendo come esperto Claudio Tedesi, il direttore dell’Asm di Pavia coinvolto dall’inchiesta. Pecorella ha lanciato l’allarme per l’infiltrazione mafiosa nello smaltimento dei rifiuti in Lombardia, «anche nelle grandi società». Proprio a casa del prefetto Lombardi, colui che un mese fa aveva detto che la ‘ndrangheta in Lombardia non esiste.
Grazie al piano-edilizia della Regione, ispirato al piano-casa lanciato dal governo nazionale, Silvio Berlusconi potrà realizzare una serie di bungalows immersi nel verde dello sterminato parco di Villa Certosa.
La commissione paesaggistica regionale ha esaminato l’istanza di ampliamento della volumetria presentata a maggio scorso dalla Idra Immobiliare, la società del premier proprietaria della residenza principesca di Porto Rotondo, e ha concesso il nullaosta all’intervento. L’organo di controllo presieduto dall’artista Pinuccio Sciola non ha rilevato elementi di incompatibilità dal punto di vista paesaggistico, quindi se i nuovi metri cubi proposti saranno in linea con le norme regionali i lavori di costruzione potranno partire.
Scarne le indicazioni sulla qualità del progetto: «Si tratta di alcune strutture staccate dal corpo centrale della residenza - spiega Sciola - inserite in uno spazio immenso, non c’era alcun motivo per negare il parere positivo». Le norme del piano paesaggistico regionale vieterebbero anche la posa di un solo mattone nell’area privata di Berlusconi così come in qualsiasi altro tratto di costa, ma le deroghe contenute nella prima formulazione del piano-casa o piano-edilizia - come preferisce chiamarlo l’assessore regionale all’urbanistica Gabriele Asunis - hanno spianato la strada alle nuove esigenze di ospitalità manifestate dal presidente del consiglio, mentre una ventina fra i trentacinque progetti presentati all’esame della commissione sono stati bloccati: «In prevalenza sono progetti illeggibili - avverte lo scultore di San Sperate - dai quali non si capisce che cosa i proprietari vogliano fare nel proprio immobile. Ho visto fotografie e disegni di case costruite negli anni Sessanta e Settanta praticamente in riva al mare, che ora si vorrebbe allargare o modificare. Molti di questi progetti siamo stati costretti a rispedirli al mittente, per altri abbiamo richiesto approfondimenti». Finora solo una decina di istanze ancorate al piano-edilizia hanno superato il vaglio della commissione, fra queste il progetto della Idra Immobiliare di Silvio Berlusconi. Che ora avrà a disposizione nuovi spazi da offrire ai suoi ospiti, sempre numerosi d’estate e anche nei mesi meno caldi. Spazi da costruire legalmente, dopo la fase degli abusi sfociati in un processo penale finito con il proscioglimento dell’amministratore della società del premier: le opere risultavano ormai condonate.
«L’esame di questi progetti di ampliamento - osserva Sciola - è solo una delle competenze della commissione per il paesaggio. E’ normale che si parli delle cose che riguardano Berlusconi in Sardegna, ma vorrei che si aprisse un confronto tra i comuni e la Regione per affrontare una volta per tutte il problema dei rifiuti di cui è disseminata la Carlo Felice, così come altre strade dell’isola. E’ una situazione assurda che si potrebbe risolvere in una settimana se esistesse la volontà di discuterne seriamente per trovare una soluzione concreta». Situazione che La Nuova Sardegna ha denunciato di recente con un ampio servizio-inchiesta e sulla quale non si registrano passi avanti: «La Sardegna resta un’isola bellissima - insiste Sciola - ma proprio per questo è urgente che il suo paesaggio venga difeso dal degrado».
Sull’argomento vedi su eddyburg, tra l’altro, gli articoli di Sandro Roggio , Costantino Cossu e Mauro Lissia
Coprifuoco anche al Corvetto. Dopo Sarpi e via Padova arriva l’ordinanza anti-degrado per un altro quartiere: in questo caso il giro di vite riguarderà soprattutto i bar, che dovranno chiudere tassativamente a mezzanotte contro le 3 di notte attuali. Il provvedimento, deliberato ieri dalla giunta comunale, scatterà il primo agosto e resterà in vigore fino al 16 ottobre in fase sperimentale.
L’amministrazione ha inoltre deciso di prorogare i divieti per la zona Sarpi e per via Padova, in scadenza il 31 luglio. La prima ordinanza è stata prolungata fino al 31 gennaio 2011, la seconda - così come per l’area del Corvetto - avrà valore fino al 16 ottobre. «Noi le avremmo firmate tutte fino alla fine dell’anno, ma abbiamo accolto una richiesta della commissione dei pubblici esercizi», puntualizza il vicesindaco Riccardo De Corato.
L’intenzione di estendere i divieti per la sicurezza era già stata manifestata dal sindaco, che ha spiegato di aver pensato alle ordinanze dopo aver visitato personalmente i quartieri di notte, camuffata per non essere riconosciuta: «Sono andata con mio figlio e con la scorta — ha sottolineato Letizia Moratti— Tutti quanti travestiti». Un provvedimento analogo, e certo non è un caso, è già allo studio anche per la zona Imbonati.
| Foto di F. Bottini |
Ma il passo immediato riguarda il quartiere Corvetto, in particolare il piazzale, via Ravenna, viale Martini, piazzale Gabrio Rosa, viale Omero, via Barabino, via dei Cinquecento, via Pomposa, via dei Panigarola, via Mompiani, via Polesine, piazzale Ferrara, via Comacchio, via Mincio, via Bessarione, via Romilli, via Salò, via Riva di Trento (nel tratto tra Bessarione e Romilli), piazza Bonomelli, piazzale Angilberto, via Osimo, corso Lodi (nel tratto compreso tra via Brenta e piazzale Corvetto), via Marocchetti. Lo schema dell’ordinanza è lo stesso già collaudato in Sarpi e via Padova. Per quanto riguarda gli affitti, si ribadisce per i proprietari l’obbligo di depositare il contratto al comando dei vigili e per gli occupanti degli alloggi di depositare l’apposita scheda entro 15 giorni. Riconfermato inoltre l’obbligo per gli amministratori di segnalare eventuali situazioni anomale.
La sanzione per i trasgressori è di 450 euro.
La seconda parte del provvedimento riguarda invece gli orari dei pubblici esercizi. I centri massaggi, che oggi non sono soggetti a vincoli orari, potranno rimanere aperti dalle 7 alle 20. I phone center dalle 7 alle 22. I bar, «compresi quelli che fanno attività di pubblico trattenimento oggi ammesso fino alle 3», per esempio i locali del karaoke, dalle 6 alle 24. E’ stata inoltre anticipata di un’ora, cioè a mezzanotte, la chiusura di take-away, pizzerie al taglio, kebab: questi esercizi, inoltre, non potranno vendere bevande da asporto oltre le 20, se non in contenitori di plastica o carta. Vietata ogni forma di commercio itinerante. Anche per il mancato rispetto dei limiti stabiliti dal Comune per gli esercizi pubblici è prevista una sanzione di 450 euro.
«Le ordinanze — sottolinea il vicesindaco, Riccardo De Corato — sono un’ulteriore iniezione di sicurezza per il quartiere Corvetto. La proroga delle ordinanze per via Padova e Sarpi è frutto invece dei positivi risultati raggiunti. In particolare il controllo sugli affitti, grazie a 1319 schede autocertificative presentate alla polizia locale, ha portato alla luce situazioni di sovraffollamento dovute a clandestini e pericolose irregolarità».
Il vicesindaco segnala infine che le violazioni sugli orari degli esercizi pubblici sono state finora 113: 90 nell’area di via Padova, dove l’ordinanza è in vigore dal 28 marzo, e 23 nel quartiere Sarpi. «Numeri che indicano un sostanziale rispetto delle disposizioni — dice — che a conti fatti non sono così pesanti come qualcuno sosteneva».
postilla
Lo stile, manco a dirlo, scimmiotta al peggio il mai dimenticato George Dabliù che di fronte al riscaldamento globale individuato e ribadito dagli scienziati, chiamava alla Casa Bianca uno scrittore di fantascienza per autoconvincersi al noto, micidiale immobilismo. Immobilismo che poi genera o rafforza vari mostri: nel caso del riscaldamento globale tutte le possibili scappatoie e ritardi, a favorire i soliti noti e preparare l’allegra strage dei poveracci, in quello delle politiche urbane a spianare la strada al binomio sprawl -riqualificazione a senso unico. Ovvero da un lato espulsione degli indesiderati (più o meno tutti, salvo gli elettori solventi del centrodestra) verso le sconfinate praterie padane, da riempire di villettopoli/campi profughi con comodo svincolo, dall’altro con un altro deserto pronto da “valorizzare”. Coi coprifuoco milanesi, siamo se possibile, anche un passetto più indietro rispetto agli sventramenti ottocenteschi o alle modernizzazioni forzate dell’urban renewal postbellico, perché non esiste alcun motivo, salvo le solite squallide tesi fascistoidi da uomini veri, che vogliono snidare il male eccetera eccetera. Basta togliere di mezzo questi ideali hitleriani da fumetto di serie Z, per scoprire la solita sbobba: una scusa qualsiasi per levare di torno la vita di un quartiere, e trasformarlo in un deserto su cui speculare dopo il “risanamento sociale”. Dato che il risanamento vero, cioè mettere in campo politiche di inclusione, convivenza di fasce di reddito disomogenee, micro-sviluppo economico, costa fatica e non coincide con i soliti interessi degli amici, meglio il risanamento patacca, un po’ simile a quello delle finte bonifiche sulle aree industriali. Si solleva un po’ di polverone, si falsificano le carte (ovvero si presentano grandi risultati in termini di fermi e sgomberi, senza spiegare a cosa servono), e il gioco è fatto. Un quartiere dopo l’altro. Possibile che anche su questo non ci siano risposte diverse dalla solita solidarietà, che mette la coscienza a posto ma lascia al loro posto anche tutti i problemi che poi giustificano la discesa in campo degli amministratori imbecilli e degli speculatori che li manovrano? (f.b.)
Dopo il Passante di Mestre, la Pedemontana e una serie di altre opere. Il Veneto del neogovernatore Zaia fa i conti con sette miliardi di euro di superstrade, tangenziali e raccordi. Pagate con il sistema del project financing Dietro l'angolo l'ombra di Tangentopoli
Mega-progetti con il sistema del project financing. Un «pacchetto» di lavori che sembra costruito su misura. Tanto più che rispuntano alcuni protagonisti della Tangentopoli veneta degli anni Novanta. Una strada a senso unico per «rivoluzionare» la viabilità? L'assessore Renato Chisso (Pdl) non si accontenta del Passante di Mestre e rilancia il programma messo a punto dalla vecchia giunta Galan. Come per il «portafoglio» dei nuovi ospedali, la Lega Nord reciterà davvero il ruolo di impietoso garante?
Stretto fra la crisi economica e l'attesa del federalismo, il Veneto del nuovo governatore Luca Zaia fa i conti con 7 miliardi di euro di superstrade, tangenziali, grandi raccordi. Si chiama «finanza di progetto»: la partecipazione dei privati alle opere di interesse pubblico che la Regione non è più in grado di appaltare. Così si è costruito a Mestre l'ospedale nuovo di zecca che si affaccia su via don Giussani. La sanità veneta dell'era Galan ha messo in cantiere anche gli ospedali di Schio, Asolo e della Bassa padovana. Giusto prima che calasse il sipario sui tre lustri del governatore berlusconiano, ecco firmato in pompa magna anche il "preliminare" del nuovo ospedale di Padova (1,7 miliardi) dove però è sempre a zero l'integrazione fra Azienda ospedaliera, Usl 16 e Università.
Sul fronte della viabilità è intervenuto il consigliere regionale Mauro Bortoli (Pd) che ha depositato una documentata interrogazione, facendo andare su tutte le furie l'assessore Chisso. «I soggetti individuati dalla Regione come promotori rientrano nella ristretta cerchia dei poteri forti del mondo economico veneto. In particolare, eclatante è il caso della Mantovani Spa finora promotrice di tutte le tre operazioni cui ha partecipato (prolungamento A27, nuove tangenziali e indirettamente nella Via del Mare). I promotori contano sul diritto di prelazione. Perfino in caso di sconfitta nella gara, viene riconosciuto dal vincitore l'importo delle spese dichiarate nella predisposizione dell'offerta. E nel 2007 la Mantovani ha registrato utili per 13,5 milioni contro i 500 mila euro del 2001...» afferma Bortoli. E dubbi pesanti sul conto economico, perfino del Passante di Mestre: «In teoria, il project financing serve al pubblico per favorire l'attuazione di infrastrutture perché il codice dei contratti assegna ai privati il rischio d'impresa e di mercato. In pratica, la bilancia é tutt'altro che in equilibrio: il Passante nel 2009 ha registrato il 30% in meno di traffico, con conseguente sforamento del piano finanziario e intervento della Regione a ripianare il deficit».
Chisso non era abituato a farsi controllare. Tanto meno nel merito dei conti. Ed è sbottato con una dichiarazione inferocita: «Bortoli non può mica calunniare per sentito dire. Si informi e dica almeno cose fondate. Simili affermazioni sono prive di qualunque fondamento. Nessuna convenzione regionale prevede che se i ricavi sono inferiori alle previsioni, vi sia un ripiano con un contributo della Regione o con aumento delle tariffe. Le convenzioni prevedono, invece, che in casi eccezionali i concessionari possano richiedere la revisione della convenzione come del resto espressamente indicato dall'art. 143, comma 8, del codice dei contratti».
Bortoli ha mantenuto il punto: «Confermo tutto, anche perché ciò che sostengo rientra nelle decisioni della giunta regionale. Il Passante? È vero che non è stato realizzato in project financing: tuttavia è un esempio dei rischi che potranno esserci sugli equilibri del bilancio regionale. Il piano economico finanziario del Passante non è in linea per Galan, che ha manifestato il suo disappunto in più occasioni e pubblicamente. Chi dovrebbe informarsi meglio è l'assessore Chisso».
Proprio questa polemica ha rimesso sotto i riflettori il «giro» delle imprese votate ai cantieri pubblici. Mantovani Spa significa imbattersi nell'ingegner Piergiorgio Baita. Comincia la carriera alla Furlanis, l'impresa di costruzioni guidata da Giovanni Mazzacurati, il futuro presidente del Consorzio Venezia Nuova. Dopo un passaggio a Italstrade, Baita si concentra sugli appalti: è il vero stratega del Consorzio Venezia Disinquinamento. Cantieri in laguna e «pulizia» degli acquedotti veneti. Alessandra Carini, firma di punta del gruppo Espresso in Veneto, evidenzia la geopolitica degli anni Novanta: «Il Consorzio era controllato dalla veneziana Iniziativa (al vertice Orazio Rossi), che doveva essere il cilindro dal quale fare uscire progetti e soldi per le infrastrutture e che diventa una sorta di salotto buono delle imprese di costruzioni dove siedono Maltauro, Grassetto, Ligresti e Dino Marchiorello, allora presidente degli industriali veneti e di Antonveneta. Anche Baita ha solide amicizie politiche: è braccio destro di Cremonese, doroteo, presidente della giunta regionale. Anche lui finisce travolto dalla Tangentopoli veneta: Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani lo fanno arrestare nell'ambito dell'inchiesta che svela la spartizione degli appalti tra i socialisti di Gianni De Michelis e i democristiani di Bernini e Cremonese. Parla con i giudici per ore, svelando i meccanismi di distribuzione degli appalti. Ne esce con un'assoluzione».
Baita si trincerò dietro il ruolo di esecutore dei compiti assegnati dall'impresa. Allora, in Veneto, si poteva lavorare solo con la «benedizione» dei partiti. Le Procure fecero crollare gli imperi edilizi di Tangentopoli, anche grazie ad altri top manager come Baita che scaricarono le responsabilità penali. Si disintegrò la Grassetto che aveva monopolizzato Padova, mentre a Vicenza non fu semplice sopravvivere per la Maltauro. All'epoca, fece scuola l'ordinanza di un magistrato sull'inconsapevole trasporto di valigette anche per conto delle cooperative...
Vent'anni dopo, in Veneto sembrerebbero esserci i presupposti per una specie di replica riveduta e corretta. Ancora lavori con i soldi pubblici. Di nuovo, imprese in pole position. E setacciando le sigle dei consorzi affiorano le storiche alleanze con le coop. E' la politica business oriented che non è mai stata solo il marchio di fabbrica del centrodestra. Il mercato dei lavori pubblici nelle sette province vale 3 miliardi all'anno. La Regione, da sola, finanzia lavori per 700 milioni. E nel 2008, secondo i dati ufficiali, oltre il 65% delle opere pubbliche sono state realizzate proprio in project financing. Alla vigilia delle elezioni di marzo, la fotografia del comparto sanitario era più che eloquente. In Lombardia il «modello Formigoni» che stempera il pubblico grazie alla Compagnia delle Opere aveva previsto 17 progetti del valore di oltre 1,2 miliardi. Il Veneto segue a ruota con 6 progetti da 846 milioni. La Toscana "rossa", invece, non va oltre 546 milioni.
Una tendenza precisa, spesso e volentieri alimentata da una sorta di «unità nazionale» già sperimentata in Veneto. A Padova lo stadio delle tangenti e il palazzo di giustizia furono concepiti, approvati e costruiti proprio sull'onda del «pentapartito democratico». Adesso si replica con il Grande Raccordo Anulare, naturalmente in project financing, grazie alla sintonia istituzionale fra Vittorio Casarin (ex presidente della Provincia che guida la società promotrice) e il sindaco Flavio Zanonato. Nella Gra Spa, infatti, il 4% delle azioni risulta detenuto proprio dalle imprese costruttrici: Mantovani Spa è di nuovo la capofila. Insieme al Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna e ad un altro pool di società del settore edilizio che il 22 dicembre 2006, nello studio del notaio Nicola Cassano, si sono costituite nel Consorzio Gra imprese padovane. Una sintomatica alleanza locale, visto che si tratta di sei sigle e personalità tutt'altro che marginali. Intercantieri Vittadello, Alissa Spa e Fratelli Gallo Srl sono imprese dell'Alta padovana, quanto Road Spa di Cittadella che fa capo alla famiglia del futuro presidente di Confindustria Massimo Pavin. Con loro il Consorzio stabile Consta che riunisce la galassia che fa capo alla Compagnia delle Opere (da Mattioli a Ste Energy, dalle coop sociali Giotto e Tintoretto a Geobasi). Infine, la Sicea Spa di Vigonza che significa Rizzani De Eccher ovvero chi ha fatto viaggiare il prototipo del tram targato Lohr. Ma anche Leonardo Cetera, il manager della Grassetto che negli anni '90 fu spazzata via da Tangentopoli. Era tornato in auge come presidente dell'associazione costruttori edili; compare, puntualmente, ad ogni "snodo" degli affari con le amministrazioni locali.
E' la strada maestra dell'economia opaca. In Veneto, si procede con la cara vecchia concertazione. A Vicenza, la pianificazione urbanistica della giunta Variati non può prescindere dalla professionalità del mancato sindaco di centrodestra. A Venezia, il restyling del Lido è nelle mani di una società costituita dall'ex assessore alla cultura. E nessuno ha voglia di preoccuparsi degli «strani» flussi di denaro che alimentano il mercato immobiliare, ultima frontiera del modello veneto. Prima, sempre i soliti? Anche nella Regione di Zaia?
Due ministri della repubblica, Tremonti e Ronchi, in una conferenza stampa a palazzo Chigi, hanno tentato di confondere le acque. Tremonti: «L'acqua appartiene al popolo», ma «su materie che riguardano i trattati non ci può essere referendum abrogativo».
Se avessimo una classe di governo seria non saremmo costretti ad assistere alle insopportabili manifestazioni di arroganza e di superficialità ormai usuali dopo le conferenze stampa. Se avessimo una classe di governo seria, potremmo godere quanto meno del rispetto per una percentuale significativa del corpo elettorale che dice concretamente basta all' ideologia mercatista e che chiede una riflessione vera sul punto in cui ci hanno portato le privatizzazioni. Se avessimo una classe di governo seria non avremmo un ministro saltimbanco che prima inventa la finanza creativa e cerca di vendere pure il Colosseo, poi si pente e attacca mercatismo e banche, e adesso, richiamato all' ordine dai poteri forti che serve da sempre, si schiera con il collega Ronchi facendo propria l'incredibile menzogna per cui l'Europa imporrebbe di privatizzare il servizio idrico.
Se avessimo una classe di governo seria, i ministri di destra eviterebbero di prendere il giro il popolo sovrano, e si sciacquerebbero la bocca (con fresca acqua pubblica) ogni volta che lo nominano al solo scopo di saccheggiarlo.
Se avessimo un classe di governo seria si arresterebbe ogni privatizzazione almeno fino alla pronuncia della Corte Costituzionale sul Referendum (che ha raccolto oltre 1,4 milioni di firme) e si aprirebbe una discussione approfondita studiando i contributi di tanti che, senza interesse personale, denunciano quindici anni di privatizzazioni truffaldine.
Se avessimo una classe di governo seria si abbinerebbe il voto referendario a quello amministrativo di primavera, risparmiando milioni ai contribuenti e garantendo un dibattito politico vero, finalmente sul merito delle questioni.
Nei prossimi mesi si accelereranno le gare sui servizi pubblici (non volute dall'Europa ma dalla nostra classe di governo, di destra e di sinistra , come a Torino per Gtt) per privatizzare il più possibile battendo sul tempo il referendum. Si farà di tutto per non far votare il popolo sovrano e se si voterà sarà a fine giugno sperando che tutti siano al mare (sulle spiagge a pagamento del federalismo demaniale!).
Tremonti nervosetto esterna. Sa che l'acqua sciacquerà le sue ambizioni di premierato al guinzaglio dei poteri forti e dei razzisti del nord. Ha letto troppi libri per non sapere che quando muta l'egemonia culturale tramontano i sogni di potere fondati su quella vecchia. E l'egemonia è ora davvero mutata.
«Dimissionata» la coppia dei fondatori, Gigi Sullo e Anna Pizzo, è uno strappo storico quello che lacera Carta, il settimanale nato per separazione consensuale da una costola del manifesto. Tra le onde della crisi e dei tagli all'editoria, i fondatori immaginavano un 2011 praticamente «a carta zero», con un quotidiano on line a pagamento e un mensile. Ma la redazione ha detto no: «Stiamo lavorando per far sopravvivere il giornale, non serve un altro quotidiano, ma la nostra linea non cambia»
L'asfissia cui questo governo ha condannato il giornalismo indipendente miete le prime vittime. Difficile leggere altrimenti il tormento che sta vivendo una delle creature più vicine al manifesto per cultura, storia e storie individuali. Parliamo del settimanale Carta e dell'annessa rete dei Cantieri sociali, nata in parallelo alla gestazione di quello che alla fine del '98 fu pensato come un mensile di «comunicazione sociale» allegato al manifesto del giovedì.
Nella sede di via dello scalo di San Lorenzo dove la sala conferenze è intitolata a Luigi Pintor, per la prima volta dopo dodici anni di direzione unica e ininterrotta a curare la fattura del settimanale non c'è più Pierluigi Sullo e non c'è nemmeno l'altra fondatrice Anna Pizzo. Non solo perché il giornale a giugno ha dichiarato lo stato di crisi e prepensionato i due fondatori, coppia inseparabile nella vita e sul lavoro, prima al manifesto per oltre vent'anni poi nella nuova impresa editoriale dopo una «separazione consensuale» dal quotidiano comunista, di cui Sullo è stato anche vicedirettore (per quattro anni nella prima metà dei '90, con Rina Gagliardi prima e con Guido Moltedo poi, direttore Pintor).
La questione è molto più seria e divide la piccola comunità dei sostenitori e lettori di Carta, che in parte condividono con il manifesto abbonamenti o acquisto in edicola, e comunque una certa visione «eretica» della politica a sinistra. Il 5 luglio scorso infatti il Consiglio di amministrazione della cooperativa ha accettato (a maggioranza, unico voto contrario quello di Pizzo) le dimissioni, presentate a voce e non per iscritto, di Sullo. Al suo posto il cda ha nominato nuovo direttore Enzo Mangini, che all'epoca della «scissione» dal manifesto era stagista alla redazione esteri di via Tomacelli. Di fronte alla particolarità della situazione in cui si trovano, i redattori (in tutto 14 persone tra giornalisti e non giornalisti, tutti under 40 tranne l'altro ex manifestino e co-fondatore Marco Calabria, la redazione più giovane del panorama editoriale italiano) ci tengono però a far sapere che «in questo momento di crisi ci assumiamo tutti la responsabilità della rotta politico-editoriale», in una sorta di direzione collettiva e autogestionaria. Un effetto collaterale dello scossone e dell'irrigidimento dei rapporti sono state le successive polemiche dimissioni di Anna Pizzo dal cda.
Nel piccolo mondo dell'editoria di sinistra, si tratta di una rottura epocale. Perché quando si parla di Carta a torto o a ragione si pensa immediatamente a Gigi e Anna. Erano loro il volto «esterno» del giornale, il primo con i suoi articoli di fondo, la seconda con un'attività interna-esterna che l'ha portata a fare la portavoce del Genoa social forum al tempo del G8 del 2001 e dal 2005 la consigliera regionale del Lazio, sempre in «quota» Carta e versando da buona militante la metà dello stipendio al giornale.
Ma cos'è che ha portato a un avvicendamento così repentino e burrascoso, al punto che i due giornalisti finiti in minoranza parlano di «colpo di staterello, purtroppo senza banane» che ha portato al «dimissionamento» di Sullo, aggiungono che «un cornicione del peggiore realismo socialista ci è caduto sulla testa» e si chiedono come un collettivo nato sull'idea di andare oltre le forme della politica delle sinistre novecentesche e sull'onda dello zapatismo possa di colpo convertirsi «nell'imitazione grottesca di un gruppuscolo marxista-leninista dei tardi anni settanta?».
Volendo soprassedere sul più generale calo delle vendite e sulla recessione globale, e perfino sulla bonaccia dei movimenti sui quali il giornale aveva surfato con relativo successo per un decennio, nella trincea di San Lorenzo parlano di una più immediata doppia crisi. Anzi tripla, se si considera che all'incertezza sui contributi all'editoria per il 2010 (i 400 mila euro del 2009, l'80% del totale, sono stati anticipati da Banca Etica grazie alle fideiussioni rilasciate da tutti i soci) va sommato un duplice blocco della pubblicità. Proviamo a spiegarci meglio. Rifiutando le inserzioni dellemultinazionali e quelle non considerate «etiche», un giornale come Carta si alimenta soprattutto degli spot degli enti locali. Che affluiscono in due modi: per via diretta, sotto forma di pubblicità istituzionali; e per via indiretta, da parte di associazioni e cooperative sociali che pubblicizzano iniziative realizzate con contributi pubblici. Massacrati dai tagli di Tremonti, gli enti locali hanno serrato la cassa e non pagano nemmeno ciò che era già dovuto. Le associazioni e coop sociali fanno altrettanto, in attesa che si sblocchino i finanziamenti pubblici. Da qui la triplice asfissia, con conseguenti problemi a pagare fornitori, distributori e stipendi ai redattori, fermi a quattro mesi fa. Una situazione non dissimile alla nostra e, per rimanere nell'ambito del giornalismo di sinistra, a quella di Liberazione, il giornale di Rifondazione comunista impegnato in una difficile estate di sottoscrizione straordinaria per non essere soffocato a sua volta.
La grave crisi finanziaria era stata esplicitata da Sullo e Pizzo con uno slogan a effetto: Carta Zero o zero Carta? Nelle intenzioni dei fondatori, il 2011 avrebbe dovuto essere l'anno zero di Carta, a zero carta o quasi, per evitare che si arrivasse a una zero Carta per davvero. Gioco di parole apparentemente contorto ma efficace che, pubblicato in versione estesa sul settimanale e poi sviluppato sulla rubrica settimanale sul manifesto, ha fatto esplodere la redazione, da qualche anno traslocata in una bella sede nel quartiere rosso-antagonista di San Lorenzo, purtroppo affacciata su quell'ecomostro chiamato Tangenziale, dopo una prima fase in un appartamento al Villaggio Olimpico. Il progetto, esplicitato per la prima volta da Sullo a un incontro alla comunità delle Piagge di Firenze su «Democrazia km0», prevedeva un quotidiano on line a pagamento e la trasformazione del settimanale in mensile, proposta poi meglio specificata in un alleggerimento del settimanale agganciato a un mensile. Un modo, nelle intenzioni, per sfuggire all'impasse finanziaria che si è materializzata a giugno. Un ritorno al passato, dunque, vale a dire al mensile disegnato dal grande Piergiorgio Maoloni (che ne ha accompagnato le successive evoluzioni fino alla sua scomparsa nel 2005), per un anno allegato al manifesto (da fine '98 a fine '99) e poi mantenuto tale fino alla vigilia del G8 di Genova, quando la crescita del movimento no global spinse a osare il settimanale. E contemporaneamente uno sguardo al futuro, convinti che «un'altra politica esista, sia molto vasta e più robusta di quanto si riesca a vedere, ma frammentaria, diffidente di ogni forma di organizzazione e che per di più tende ad adoperare mezzi di comunicazione molto diversi da quello - tradizionale nella forma - che Carta aveva scelto alla vigilia di Genova, nel 2001, un settimanale cartaceo diffuso nelle edicole», come Sullo ha scritto in una lettera inviata a chi gli chiedeva delucidazioni sull'accaduto. Una fuga troppo in avanti, per la redazione, dettata dall'urgenza economica piuttosto che da un progetto meditato: «Ci siamo chiesti perché un altro quotidiano visto che, come ci hanno fatto notare diversi lettori, esiste già il manifesto. Avevamo già provato a farlo in maniera gratuita e non è andato bene. Potremmo invece usare il sito in maniera diversa».
Il progetto di Sullo e Pizzo è così naufragato ancora prima di nascere. Non era mai accaduto in un giornale le cui svolte avevano sempre visto protagonisti i due fondatori e che non ha mai slegato i suoi contenuti da battaglie politiche e discussioni teoriche alimentate e sostenute dalla rete dei Cantieri sociali: dal dibattito di inizio millennio innescato da un libro di Marco Revelli su come andare «oltre il Novecento», motivo di aspre polemiche con il manifesto, all'ultima discussione avviata da un illuminante articolo di Guido Viale sulla «dittatura dell'ignoranza», passando per la partecipazione attiva al primo Social forum di Porto Alegre e al sostegno alla nascita della Rete del Nuovo Municipio, il sostegno attivo alle lotte territoriali (dai No Tav ai No Ponte), la promozione dei consumi alternativi e dell'equo e solidale, i dibattiti su come cambiare il mondo senza prendere il potere, fino all'adesione ultima al comitato referendario per l'acqua pubblica. Un modello di giornalismo «interno» ai movimenti sociali che Carta non intende abbandonare, anche se per Sullo il segnale che il giornale avesse perso la propria carica ideale sarebbe arrivato quando la redazione non avrebbe aderito con convinzione alla campagna sul «chilometro zero» e prima ancora quando la redazione si sarebbe arroccata su se stessa non facendo partecipare alla cooperativa la rete di lettori-amici-compagni-sottoscrittori dei Cantieri sociali. Ancora: per l'ormai ex direttore l'obiettivo dei suoi ex compagni sarebbe chiaro: chiudere onorevolmente. «Hanno deciso che il senso di Carta, il suo messaggio, è ormai defunto» e che «la cooperativa non è più in grado di continuare ad esistere», per cui «il motto è: si salvi chi può». Accuse rispedite al mittente dalla redazione: «Stiamo lavorando per far sopravvivere il giornale, la nostra linea non cambia. Continuiamo a pensare alla costruzione di una società 'altra' fuori dal capitalismo», dicono. E danno appuntamento alla seconda edizione del «Clandestino day», giornata antirazzista l'anno scorso celebrata in 60 città. Ci vediamo il 24 settembre. Confidando di riuscire a riprendere fiato, contando anche sull'aiuto dei lettori, invitati ad abbonarsi e a organizzare iniziative di sostegno.
Fra tutti i beni comuni, quelli cioé che appartengono all’intera collettività e vanno considerati quindi inalienabili, i parchi pubblici sono (insieme alle oasi naturali e marine) i più preziosi per l’umanità. Non solo ovviamente per la difesa dell’ambiente e della salute. Ma anche perché, essendo cespiti praticamente irriproducibili, costituiscono un patrimonio di valore inestimabile, unico e irripetibile sia per le generazioni presenti sia per quelle future. Non c’è bisogno dunque di essere ambientalisti, più o meno estremisti, massimalisti o catastrofisti, per insorgere contro i tagli alla gestione dei parchi che il governo intende introdurre attraverso la manovra finanziaria. Dopo aver raccontato agli italiani la favola che la crisi ormai era passata e anzi non c’era mai stata perché (come vagheggia tuttora il nostro presidente del Consiglio) siamo il Paese che sta meglio in Europa, ecco che la mannaia della maggioranza di centrodestra minaccia di abbattersi sulla principale ricchezza nazionale: l’ambiente, il territorio, il paesaggio. E per di più, con immediate ripercussioni sull’industria del turismo che resta pur sempre la nostra risorsa economica primaria.
Su una "voce" complessiva di circa 50 milioni di euro all’anno, equivalente ad appena un caffè in dodici mesi per ogni italiano, il dimezzamento dei fondi per le aree protette previsto dal governo non può essere soltanto un taglio, una misura di carattere finanziario. Quali che siano le necessità e le intenzioni effettive, appare in realtà come una punizione, uno sfregio o addirittura un atto di vandalismo contro ciò che resta del Belpaese. Non c’è proporzione infatti tra il risparmio e il danno, tra il vantaggio contabile e la perdita ambientale: tanto più che l’abbandono o la chiusura dei parchi pubblici aprirebbero inevitabilmente la strada ai bulldozer della speculazione edilizia e alle ruspe dello sfruttamento indiscriminato. A meno che non sia proprio questo l’obiettivo inconfessato della scure governativa. Le aree protette sono un giacimento di boschi, alberi, piante, fiori, coste e spiagge, fiumi, laghi e ruscelli. L’habitat naturale di animali selvaggi e uccelli, stanziali e migratori. Un deposito, insomma, di quella biodiversità celebrata proprio quest’anno a livello internazionale. E dunque, per tutti noi cittadini di questo Paese, un "caveau" al pari di quello in cui la Banca d’Italia custodisce le riserve d’oro.
Ma si può compromettere un patrimonio del genere per un caffè a testa all’anno? Valgono di più i parchi pubblici o le famigerate "auto blu" della casta? E perché, prima di dimezzare le risorse per le aree naturali protette, non si dimezza il numero dei parlamentari e dei loro portaborse; quello dei consiglieri regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali; o magari i rispettivi emolumenti e le relative indennità? L’assalto ai parchi è l’ultima invasione barbarica a cui dobbiamo assistere sotto il berlusconismo. L’ultima in ordine di tempo, ma auguriamoci che sia l’ultima in assoluto.
La piazza di Sant’Ambrogio a Milano è tutelata come bene culturale. Perché è un elemento essenziale nella struttura millenaria urbana, spazio pubblico inedificato, costituito e fondato sui sedimenti della storia della città. A fianco della basilica dedicata al santo protettore, un’area sacra, copre un cimitero protocristiano. Non può essere adibita ad usi incompatibili con il carattere storico – artistico e che compromettano la stessa integrità fisica del bene. Lo vieta testualmente e lo punisce il codice dei beni culturali. Italia Nostra crede perciò che la piazza di Sant’Ambrogio non possa essere svuotata per far posto, nella artificiale profonda cavità, ai cinque piani di un parcheggio automobilistico ed essere trasformata nella soletta cementizia di copertura del vasto edificio, rivelato in superficie dalle rampe veicolari di entrata e uscita, dalle griglie di aerazione, dagli ingombranti volumi tecnici di servizio. Italia Nostra crede che questa sia la distruzione irreparabile di un bene culturale. Ha perciò richiamato l’interesse della Procura della Repubblica e ora si oppone alla richiesta di archiviazione, motivata con il mero rinvio alla valutazione discrezionale, ritenuta insindacabile, della istituzione della tutela, la soprintendenza, che ha approvato un simile intervento. Italia Nostra attende la decisione del Giudice per le indagini preliminari: neppure la soprintendenza può legittimare radicali trasformazioni fisiche di un bene culturale che il “Codice” espressamente vieta e punisce come reato.
Roma, 23 luglio 2010
Il più storico, originale e centrale dei grattacieli italiani è per un terzo sfitto e... lo mettono in vendita. Sembra una parabola, una metafora dei tempi che viviamo e della contraddizione crescente nell´economia dell´edilizia. Mentre si inaugurano o costruiscono o progettano torri sempre più alte tra la Stazione Centrale e la vecchia Fiera, tanto da poter immaginare che tra non molto una gigantesca cortina potrebbe fare da sfondo al Castello e impedire la vista delle Alpi dalla terrazza del Duomo, mentre si vara un Piano di governo del territorio che punta a "ridensificare" Milano riempiendola di nuovi alloggi e uffici, Salvatore Ligresti apre le procedure per vendere la Torre Velasca.
Forse sono soldi che servono per tappare i buchi aperti da altre avventure immobiliari? O addirittura per finanziarne di nuove? Di certo non è un segno di vitalità del mercato immobiliare, come avrebbe potuto essere fino a qualche anno fa un passaggio di mano nella proprietà del fungone modernista adiacente a Piazza Missori. Non è dato sapere quanto i milanesi amino la Torre Velasca, ma almeno si tratta di un edificio originale e in larga misura autoctono.
Secondo Gae Aulenti ora la Torre rischia cattive ristrutturazioni, se non addirittura demolizioni, e chi organizza l´Expo dovrebbe muoversi per salvarla. («Tagliamo uno dei grattacieli previsti e destiniamo le risorse per il restauro della Velasca»). È una provocazione che può avere un senso nel ripensare la grande occasione dell´Esposizione universale. Il recupero del vecchio piuttosto che la costruzione del nuovo. La gente che si riappropria della Milano vera. Quella più antica, che è anche la più moderna.
Oltre al riferimento a Expo, potrebbe esserci quello agli uffici comunali. La Giunta Moratti ha recentemente avviato le procedure per dotarsi di un grattacielo di almeno 30 piani. Come la Regione. La motivazione è la stessa che ha portato al Pirellone-bis: sarebbe efficiente e risparmioso dismettere sedi sparse in proprietà o in affitto e concentrarle in un palazzo molto verticale. A parte il fatto che i conti economici ed energetici dell´operazione torre Formigoni non sono mai stati verificati (Tremonti la cita spesso come esempio di spese pazze) la Moratti dovrebbe tener conto che la costruzione di grattacieli a Milano sembra oggi molto impopolare. Un sondaggio recente ha dato risultati schiaccianti («Piace l´idea di una Milano con nuove costruzioni, sviluppata in altezza?» 80% di no, con punte del 90% nei ceti popolari e nelle fasce d´età più alte). Se il Comune è proprio convinto che gli serve una torre, compri la Velasca. Non è possibile (né ammissibile) che un nuovo grattacielo ben fatto costi di meno.
La Repubblica ed. Milano
Una città costruita sui veleni
di Davide Carlucci
Chi ha chiuso un occhio sui veleni di Santa Giulia? È il grande interrogativo all’indomani del sequestro dell’avveniristico quartiere nella zona sud est di Milano, ai confini con Rogoredo. La Guardia di finanza - insieme all’Asl e al Corpo forestale dello Stato - ha posto i sigilli dopo che l’Arpa ha consegnato una relazione-shock dalla quale è emerso l’altissimo livello di contaminazione del terreno e delle falde acquifere. Le concentrazioni di sostanze cancerogene come il tricloroetilene sono risultate fino a cento volte superiori ai limiti di legge - 116,50 milligrammi per litro a valle contro l’1,5 consentito - nella prima falda. Un po’ più leggere le concentrazioni nella seconda falda, a venticinque metri di profondità. Ma non meno preoccupanti: a quel deposito sotterraneo attingono anche le acque pubbliche. «Per ora non ci sono pericoli per la popolazione - avverte comunque Giuseppe Sgorbati, direttore dell’Arpa - ma potrebbero essercene in futuro se non si interverrà con una vera bonifica».
Ma come mai i tecnici non se ne sono accorti prima? È la domanda che pone, tra le righe, il giudice Fabrizio D’Arcangelo, firmatario del provvedimento di sequestro, quando parla delle «numerose anomalie, sia sul piano procedimentale-amministrativo, sia su quello tecnico della esecuzione della bonifica evidenziate dall’Arpa». L’Agenzia regionale protezione ambiente - che in passato, all’epoca dell’intervento, avrebbe dovuto vigilare sulla correttezza dello smaltimento dei rifiuti degli impianti Montedison e delle acciaierie Redaelli - ha fornito la sua ricostruzione. «Secondo l’Arpa - scrive il gip - all’atto della formalizzazione dell’accordo di programma e della convenzione del 2004/2005, atteso che il progetto coinvolge tutta l’area ex Montedison e non solo le aree già bonificate e collaudate per uso industriale, e posto che nel progetto parte di queste aree diventavano ad uso residenziale, sarebbe stato necessario sottoporre l’area a un’indagine preliminare». Lo imponeva lo stesso regolamento d’igiene del Comune per un cambio di destinazione d’uso di un’area considerata insalubre.
Ma nel caso di Santa Giulia, invece, è stato previsto un piano di gestione delle terre e un piano di scavi sotto le fondamenta dei palazzi, che non prevedeva l’analisi delle contaminazioni sotto il parco trapezio e nella falda. «Nella normativa vigente - scrive il gip - il piano scavi può essere eseguito solo su terreni non inquinati o già bonificati e certificati. In questo caso l’area di conduzione del piano scavi è diversa rispetto a quella nella quale era stata condotta la bonifica tra il 1993 e il 1996». L’errore, insomma, secondo l’Arpa è stato soprattutto del Comune e, in seconda analisi, della Provincia. Restano così le parole di Cesarina Ferruzzi che, interrogata, ha spiegato che«effettivamente l’area era molto inquinata e per altro molto vicino alla città" aveva aggiunto: "La presenza di materiali inquinanti di diversa tipologia determina un inquinamento molto più grave perchè c’è una miscela di vari principi inquinanti, una sorta di bomba biologica". Quanto ai costi la manager del gruppo aveva affermato "praticamente il costo della bonifica sarebbe stato doppio". Anche Grossi sul punto aveva dichiarato: "se si fosse fatta una bonifica si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro e forse non sarebbero nemmeno bastati in ragione delle dimensioni dell’area".
Grossi: falda inquinata, si sapeva ma ripulirla sarebbe costato troppo
Scoppia il caso Montecity. L’area dell’ex Montedison, quella dove doveva sorgere la città "ideale" di Zunino e dove già sono abitate palazzine e c’è il centro Sky, è stata posta sotto sequestro. Nel terreno infatti sono presenti inquinanti pericolosi, la falda avvelenata da sostanze nocive all’ambiente e alla salute, anche cancerogene. Tutto per una mancata bonifica. In più, l’Arpa lancia un’accusa al Comune: «Avrebbe dovuto controllare meglio prima di dare il via libera al progetto». L’inchiesta è coordinata dai pm Laura Pedio e Gaetano Ruta.
Nell’interrogatorio del 18 dicembre 2009 il re delle bonifiche dà una spiegazione del suo operato: «Per rendere gli investimenti convenienti e favorire il recupero delle aree ex industriali è necessario che ci sia un ritorno economico finanziario...». Senza alcun commento, il giudice Fabrizio D’Arcangelo riporta questo passaggio nel decreto con cui dispone il sequestro dell’area di Santa Giulia. Per Grossi è l’ultima tegola. Ora i pm Laura Pedio e Gaetano Ruta non gli contestano più soltanto la frode fiscale, ma l’avvelenamento delle acque, per il quale è prevista una pena fino a 15 anni.
In libertà da aprile dopo sei mesi di custodia cautelare, il cuore ancora sotto controllo dopo l’intervento chirurgico di un anno fa, Grossi continua a scegliere il silenzio. «La vicenda giudiziaria e le condizioni di salute fanno sì che lavori molto meno di prima», dicono dal suo entourage. Ma per Edoardo Bai, esperto di bonifiche per Legambiente, non è così: «Le aziende collegate a lui hanno continuato a fare affari nel campo delle bonifiche, come se nulla fosse accaduto». Contando come sempre, fa capire Bai, sulla benevolenza del governatore Formigoni. L’esponente ambientalista si riferisce alla vicenda della Sisas di Pioltello, una delle tante bonifiche affidate a Grossi (se ne potrebbero citare tante altre, dall’ex zuccherificio di Casei Gerola, in provincia di Pavia, al sito inquinato dalle melme acide di Cerro al Lambro, nel sud Milano). La Sisas è una Santa Giulia al cubo: la bonifica dei terreni, contaminati in modo ancora più pesante, non è mai stata fatta, e i fondi stanziati sono stati sperperati dai vecchi proprietari, i Falciola, il cui patròn, Luciano, è stato condannato giovedì a cinque anni e sei mesi di carcere. La corte di Giustizia europea per questo commina all’Italia una multa da dieci milioni di euro e la Regione, per evitarla, affida a Grossi l’incarico di bonificare l’area. Travolto dalle inchieste, l’imprenditore deve ritirarsi dall’affare senza aver completato il recupero. Nonostante questo la Regione, fa notare Legambiente, sta per preparare una delibera con la quale "liquida" a Grossi 20 milioni di euro per i lavori già effettuati.
Per diversi rivoli i destini di Grossi, inoltre, s’incrociano con quelli dei fedelissimi di Formigoni. Rosanna Gariboldi, moglie di Giancarlo Abelli - l’uomo più vicino al governatore del Pdl - ha patteggiato due anni, con pena sospesa, per aver riciclato proprio una parte dei fondi dell’evasione realizzata grazie alla mancata bonifica di Santa Giulia. Ieri, con il sequestro di Montecity, Grossi trascina con sé nei suoi guai giudiziari anche l’ingegner Claudio Tedesi, uno dei professionisti a cui più ha fatto ricorso. Tedesi, che ha gestito interventi importanti in tutt’Italia, dalla Fibronit di Bari a Bagnoli, direttore generale delle Asm di Vigevano e di Pavia, è considerato vicino ad Abelli. «Sono stato democristiano ma di Abelli sono amico solo sul piano personale - dice lui - ora non ho tessere di alcun tipo. L’area di Santa Giulia? Risultava già bonificata già quando sono arrivato io. Non rientrava nei miei compiti».
la Repubblica ed. Milano
La paura di mille famiglie "È a rischio anche l’asilo?"
di Massimo Pisa
Guardano Montecity dal fondo del Parco Trapezio, giardinetti dalla sghemba forma dove scivoli, altalene e giostre sono ancora in gabbia e fanno compagnia a tubi a vista e mucchietti di terriccio non ancora lavorato. «Lo aprono a settembre, l’asilo? Resta chiuso? Hanno messo i sigilli anche lì, che non lo vediamo?». Gli interrogativi sono di due nonne che passeggiano a metà pomeriggio all’ombra dei palazzoni di via Cassinari, proprio sotto il terrapieno che copre i box interrati e nasconde parzialmente alla vista l’asilo. Che qui, a Santa Giulia, dove il tasso di carrozzine e bimbi che sfrecciano con gelato in mano è notevole, aspettavano tutti con trepidazione, e ora chissà.
La notizia dei sigilli della Finanza ai cantieri sorprende e manda di traverso la pausa postprandiale a parecchi residenti, che la radio non l’avevano ascoltata e nemmeno la tv, su Internet non c’erano andati e ora sgranano gli occhi. Come Bernadette, ungherese, 36 anni, pancione con sorellina in arrivo («Sono al settimo mese») per il piccolo Davide che va in giro con la bici a rotelle. «E certo che sono preoccupata - spiega - anche perché a questo asilo dovevo iscrivere mio figlio. Stiamo qui da un anno e del terreno inquinato non sapevo nulla: sul contratto di acquisto della casa avevano specificato la bonifica. Come si vive qui? Bene, nonostante la polvere dei lavori, i recinti ai giardini e qualche box scassinato. Tranquilli, almeno fino ad ora». Jacopo e Ylenia, 41 e 30, apprendono mentre scaricano la spesa dall’auto: «Siamo qui da gennaio, in affitto. I servizi ci sono e si sta benissimo, con qualche piccolo furto come in tutti i condomini nuovi. Stavamo decidendo se comprare o meno. Beh, ora vedremo... «. La sicurezza dei condomini, anche in un giorno come questo, è l’unico tema che vedi fisicamente trattato in pubblico: sui portoni si invita a denunciare i furti («Coloro i quali hanno subito il danno sono cortesemente invitati a sporgere regolare denuncia alla P. s. «), si annuncia l’ingaggio di una società di vigilanza privata ma non c’è traccia di cromo esavalente o di falda avvelenata, non ora.
Come se il problema fosse alieno, distante da questi recinti e dai terrazzoni trompe l’oeil. Vanessa Yoshimura, nippobrasiliana di 29 anni, scarrozza i due pupi di 4 anni e 2 mesi ed è un manifesto di ottimismo. «Ho saputo da una mail di mio marito: "Merda, mettono i sigilli". Ma non sono spaventata, le verifiche sul terreno della scuola le faranno. Non possiamo disperarci, no?». Bellangela Cappelluti («Nome di mia nonna, era di Molfetta, nome unico») vanta le virtù dei suoi due balconi che rinfrescano i suoi 62 anni e quelli di suo marito. «Senta, qui si sta bene. È tranquillo, non c’è traffico, non c’è l’inferno del Corvetto dove abitavo prima, solo il fischio dei treni. Certo, queste notizie non fanno piacere. Però dicono che l’acqua dei nostri rubinetti non c’entri. E io bevo solo minerale. Frizzante». Franco Fumagalli, chirurgo 53enne, a passeggio con figlia e cagnetta, racconta il suo anno e mezzo a Santa Giulia quasi rivendicandolo: «Ogni giorno è andato un po’ meglio, continuano ad aprire negozi, ci sono i mezzi, il campetto da basket qui dietro. Non hanno fatto le bonifiche? È la vecchia storia: questo è un problema di tutta la Lombardia, non solo del quartiere».
A tremare, soprattutto, sono i polsi dei nonni. Di Manrico Hintereger, 67 anni asciuttissimi, che abita in via San Venerio, «sono le case delle Acli, qui dietro, ma i miei nipoti vengono a giocare in queste strade, respirano quest’aria. E chissà cosa trasportavano, quei camion che andavano e venivano dalla Germania, quando il cantiere era aperto». Di Angelo Misani, capogruppo pd in consiglio di zona, figlio e nipoti in appartamento con vista boulevard: «Preoccupatissimi, sì. Non sappiamo nemmeno cosa faranno di questi cantieri. E dire che era venuto l’assessore Masseroli, pochi mesi fa, a rassicurare tutti».
Gli arrabbiati (per i veleni) e gli scettici (sui veleni). Chi teme catastrofi e chi si fa bastare le rassicurazioni dell’Arpa, anche sul web, sul forum (santagiulia. forumup. it) che raccoglie le voci del quartiere. Ci sono due anime, e pensieri misti, questa notte a Montecity.
Corriere della Sera
Quartiere sequestrato per inquinamento
di Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella
«Veleni nella falda acquifera, ci sono rischi per la salute». Sequestrato dai giudici di Milano il quartiere Santa Giulia. L’accusa indica una mancata bonifica dell’area Montecity-Rogoredo. Nell’acqua ci sarebbero sostanze e rifiuti tossici. I terreni furono comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino e riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi firmato dall’architetto Norman Foster.
«Se si fosse fatta una bonifica dell’area Montecity-Rogoredo si sarebbero dovuti spendere 400-500 milioni di euro», e invece «per rendere gli investimenti convenienti — testimonia ai pm l’imprenditore delle bonifiche ambientali Giuseppe Grossi — è necessario ci sia un ritorno economico e finanziario». Così, a dispetto dei lavori commissionati dall’immobiliarista Luigi Zunino a società di Grossi e da queste subappaltati alla Edil Bianchi srl e alla Lucchini Artoni srl, nessuna efficace bonifica è stata fatta in questo milione e 200mila metri quadrati a sud-est di Milano dismessi nel 1985 dalla chimica Montedison e dalla siderurgia Redaelli, comprati nel 1998 dal gruppo Risanamento di Zunino, e dal 2003 riconvertiti in un progetto urbanistico da 1,6 miliardi con la firma dell’architetto Norman Foster. E nessuno tra Comune-Provincia-Regione, in un «procedimento amministrativo» costellato da «numerose anomalie», ha controllato l’attuazione della bonifica da ddt e pesticidi.
Risultato: nelle acque della «falda sospesa» (tra i 4 e gli 8 metri di profondità) e nella «prima falda» (da 10 a 35 metri) il giudice Fabrizio D’Arcangelo rileva, sulla scorta dei dati dell’Agenzia regionale per l’ambiente (Arpa) e del Nucleo ambiente dei vigili urbani, «concentrazioni notevolmente superiori ai limiti di legge» (oltre 20 volte nella prima falda, 100 volte nella falda sospesa) di «sostanze tutte pericolose per l’uomo» in quanto «cancerogene (tricloroetilene, tetracloroetilene, tricloroetano, manganese, cadmio, cromo esavalente), pericolose per l’ambiente (cloruro di vinile, arsenico), tali da mettere a rischio la fertilità e provocare danno ai bambini non ancora nati (cadmio e cromo esavalente)».
Ieri Arpa eMetropolitana milanese (che gestisce l’acquedotto) in comunicati ufficiali hanno assicurato che «l’inquinamento al momento non costituisce un elemento di rischio sanitario per i residenti» e «l'acqua nelle loro abitazioni è indenne da ogni contaminazione». Ma il giudice D’Arcangelo, per le ipotesi di reato di «avvelenamento delle acque» e «gestione di rifiuti non autorizzata», ieri ha ordinato alla Gdf di Milano il sequestro preventivo di tutta l’area non edificata nel quartiere proprio sulla base delle relazioni sollecitate all’Arpa dai pm Pedio e Ruta.
«La prima falda oggetto di indagine — ha risposto l’Arpa ai pm il 9 giugno — viene captata e utilizzata a scopo idropotabile dall’acquedotto del Comune anche in aree limitrofe a quelle in questione, a riprova del suo ampio utilizzo anche attuale». In particolare «a ovest è presente la centrale Martini dell’acquedotto, i cui pozzi presentano in alcuni casi filtri che partono da 30 metri di profondità senza strati argillosi soprastanti, che quindi captano inequivocabilmente la prima falda oggetto d’indagine»; mentre «idrogeolo-gicamente amonte del sito ci sono le opere di captazione facenti capo alle centrali Ovidio e Linate dell’acquedotto, che riforniscono di acqua potabile il nuovo quartiere di Santa Giulia».
Il sequestro ha tre tipi di conseguenze: giudiziarie, economiche e politiche. Le prime risiedono nella gravità dell’ipotesi (punita in Corte d’Assise con 15 an ni) notificata ieri agli indagati Zunino, Grossi, al direttore dei lavori Claudio Tedesi (oggi a capo dell'Asm di Pavia), al responsabile di cantiere Ezio Streri, agli amministratori di "Santa Giulia spa" Silvio Bernabè e Davide Albertini Petrone, al rappresentante della "Lucchini Artoni" (Vincenzo Bianchi) e ai capo cantiere e rappresentante della "Edil Bianchi" (Alessandro Viol e Bruno Marini).Pesante anche il contraccolpo economico, non tanto perché Risanamento ha perso in Borsa l’8%, quanto perché le banche esposte con Risanamento per circa il 60% dei suoi 3,2 miliardi di debiti (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Bpm, Banco Popolare), e che nel novembre 2009 avevano salvato il gruppo di Zunino dal fallimento chiesto in luglio dalla Procura al tribunale fallimentare, ora devono svalutare un’area stimata un anno fa (forse già generosamente) un miliardo, e preventivare oneri aggiuntivi.
Qui si incrocia il riverbero politico: il giudice rimarca non solo che «sono venuti a mancare i principali strumenti di controllo» da parte degli enti pubblici (come sui «500 mila metri cubi di scavi in più rispetto alla convenzione con il Comune»), ma anche che «non sono state versate le fidejussioni previste dalla normativa a tutela degli enti pubblici», cioè le garanzie finanziarie che avrebbero dovuto essere prestate alla Regione in misura non inferiore al 20% del costo stimato della bonifica. E così al danno, e al pericolo per la salute, si aggiunge ora la beffa: «Alla luce della riscontrata contaminazione della falda — constata infatti il giudice —, gli enti pubblici non hanno ad oggi risorse finanziarie per intervenire in sostituzione nel caso di mancato intervento del soggetto interessato».
Unmilionequattrocentounmilaquattrocentotrentadue (1.401.432) persone costituiscono una rappresentanza diretta ed autentica del popolo sovrano. Questi rappresentanti, firmatari dei tre referendum per l'acqua bene comune, chiedono alla Corte Costituzionale che il popolo possa finalmente pronunciarsi, tramite referendum abrogativo, su un tema politico di importanza fondamentale: chi ed in nome di quali interessi deve gestire il nostro patrimonio pubblico e curare i nostri "beni comuni"?
Da oltre vent'anni, un'altra rappresentanza del popolo, quella indiretta e cooptata che siede in Parlamento, utilizza un "male comune", il debito pubblico, per giustificare il trasferimento ad interessi privati di risorse ingentissime accumulate con anni di sacrifici del popolo sovrano. Questi trasferimenti, avvengono, a prezzo vile, sotto forma di privatizzazione di monopoli pubblici travestiti da liberalizzazioni del mercato (Autostrade, Ferrovie, Alitalia, Telecom...). Esse favoriscono i soliti noti e non hanno portato alcun apprezzabile sollievo ai conti pubblici. Progressivamente il patrimonio di noi tutti è stato affidato ai Consigli di Amministrazione di società di diritto privato che non devono rispondere a nessuno salvo che ai loro azionisti. Sono aumentati così gli stipendi dei manager pubblici e i budget per la pubblicità (che creano potere mediatico) mentre gli investimenti a lungo termine sono crollati ed il debito pubblico non si è ridotto.
Per anni la "rappresentanza cooptata" ha fatto di tale cessione della sovranità economica ai Consigli di Amministrazione, un vessillo trionfale, da sventolare nella grande crociata ideologica contro il settore pubblico, le sue inefficienze ed i suoi sprechi. Per anni i cantori della privatizzazione hanno imperversato sui principali giornali ripetendo che questa politica ci avrebbe consentito di competere sul mercato globale, di restare in Europa, di trovare i soldi per fare le riforme, di crescere.
Poi c'è stata la crisi e sebbene molti continuino con quelle sciocchezze, la forza retorica ed il prestigio di privatizzazioni e C.d.A. è drammaticamente crollata. Perfino Tremonti ha cominciato a polemizzare con il mercatismo e con le banche. Il ministro Ronchi ora privatizza acqua e servizi pubblici ma nega di volerlo fare. Incredibile cambiamento culturale in pochi mesi : il pensiero unico ha perso l'egemonia.
Il popolo sovrano a differenza dei suoi rappresentanti cooptati non ha conosciuto i benefici dell' amicizia con gli interessi finanziari forti, ma solo la miseria economica e culturale generata dalla collusione fra potere politico e capitale. Ha visto abbastanza: con l'acqua vuole lavare l'onta. 1.401.432 rappresentanti autentici del popolo sovrano chiedono di invertire la rotta. Queste persone vogliono ricostruire, partecipando direttamente e senza più delege, un settore pubblico in cui prevalga l'interesse comune: oltre il liberismo e oltre lo statalismo. Una sfida per la sinistra. Il manifesto si sta attrezzando per raccoglierla.
Una viittoria veramente inaspettata: 500mila sembravano già un obiettivo difficile. E' solo il primo passo: il secondo, che è indispensabile, è vincere i tre referendom. A questo fina ciascuno dei firmatari della richiesta deve ottenere altre 21 perssone a votare per i referendum. Il secondo passo è quello di utilizzare la rete capillare che si è costituita (er la capacità di protagonismo di tante cittadine e cittadini) per scongurare la minaccia del nuclare. Il terzo passo è sostituire, alla vecchia, una nuova politica. Al lavoro
Profeticamente, Roberto Saviano ha scritto in Gomorra: «La Costituzione si dovrebbe mutare. Scrivere che si fonda sul cemento e sui costruttori. Sono loro i padri. Non Parri, non Einaudi, non Nenni, non il comandante Valerio». «Cementifici, appalti e palazzi quotidiani: lo spessore delle pareti – prosegue Saviano – è ciò su cui poggiano i trascinatori dell´economia italiana». Proprio questo sta accadendo. Il 4 giugno Tremonti annuncia l’intenzione di modificare l’articolo 41 della Costituzione, secondo cui «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»: secondo il ministro, invece, bisogna «uscire dal Medioevo per liberare le imprese». Il "nuovo" articolo 41 deve cancellare i controlli, imporre una totale deregulation.
E infatti l’8 luglio il senatore Azzollini presenta al Senato un emendamento alla "manovra" economica secondo il quale il costruttore può avviare cantieri senza alcun permesso, producendo contestualmente un’autocertificazione ("segnalazione certificata di inizio attività", o s.c.i.a.), valevole anche nelle aree vincolate, e lasciando alle amministrazioni l’opzione di un controllo ex post. Proprio come se la riforma costituzionale vagheggiata da Tremonti (che le Camere non hanno nemmen principiato a discutere) fosse già passata. L’Italia diventerebbe così, secondo la profezia di Saviano, una Repubblica fondata sul cemento. Peggio: anche in caso di falsa dichiarazione, con l’emendamento Azzollini i lavori già iniziati sarebbero "blindati", consolidandosi 30 giorni dopo la dichiarazione (anche se falsa), e senza sanzioni né per l’impresa né per il costruttore, a meno che le amministrazioni non dimostrino «un danno grave e irreparabile per il patrimonio artistico, l’ambiente, la salute». Insomma, piena licenza di abusivismo per i danni ambientali "di modica quantità" (a giudizio delle stesse imprese); un’escalation brutale anche rispetto ai condoni edilizi che abbiamo subito.
Lo abbiamo scritto in queste pagine (12 luglio): questa norma violerebbe principi fondamentali della Costituzione come la tutela del paesaggio (art. 9), il principio di utilità sociale dell’impresa e della proprietà (artt. 41 e 42), la centralità e dignità sociale della persona (artt. 2 e 3). L’appello di Repubblica non è rimasto inascoltato: oltre a Italia Nostra, che già aveva manifestato viva preoccupazione alla prima e meno aggressiva versione della "manovra", il Fai e Wwf invitarono Bondi a esprimere «un civile sdegno» contro questo «vero e proprio assoluto Far West». Altre voci si unirono subito, dall’opposizione ma anche dalla maggioranza, come l’onorevole Fabio Granata, che parlò di «minaccia gravissima e incivile per paesaggio e ambiente», mentre il ministro Bondi si dichiarava «sorpreso» dall’emendamento, prodotto «senza che il Ministero ne sia stato informato». Ma è stato l’intervento del Quirinale che ha convinto il governo a correggere gli aspetti più perversi della proposta, richiamando con fermezza i valori della Costituzione. Grazie all’efficace esercizio della moral suasion, nella nuova versione la s.c.i.a. non si applica nelle aree vincolate; i termini di reazione delle amministrazioni si estendono da 30 a 60 giorni; si introducono sanzioni, senza limiti di tempo, per le dichiarazioni mendaci; infine, si cancella l’assurdo limite all’intervento delle amministrazioni, non più limitato ai soli danni "gravi e irreparabili".
L’intervento del Colle ha depotenziato gli aspetti più pericolosi di una norma anticostituzionale. Ma la partita non è chiusa: la s.c.i.a. infatti resta, anche se escludendo le aree vincolate. Come ha scritto Giuseppe Galasso sul Corriere (17 luglio), la "legge Galasso" (1985), poi recepita nel Codice dei Beni Culturali (2004), considera il paesaggio come un insieme organico «nella sua storica e fisica configurazione», affidandone la tutela non al solo strumento del vincolo, ma alla pianificazione paesistica. «La trama dei vincoli è una groviera largamente perforabile e perforata, per cui la riserva è importante ma non rassicurante». Si aggiunga che la s.c.i.a. può essere impunemente applicata in tutte le aree sensibili non vincolate, per esempio nelle zone sismiche senza vincolo paesistico, che in Italia sono enormemente grandi, o nelle "zone insalubri" dove insediamenti industriali a rischio, depositi di carburante e così via potranno essere ampliati a dismisura senza il minimo controllo: con una "segnalazione" autocertificata, appunto. Solo l’abolizione di ogni forma di s.c.i.a., cioè il ritorno alla procedura corrente in tutto il territorio, sarebbe tranquillizzante.
Ma c’è da scommettere che non sarà così. Quali siano le intenzioni di chi ci governa lo si vede nel Lazio, dove l’assessore all’urbanistica della Regione Luciano Ciocchetti ha appena annunciato una "rivoluzione in dieci mosse": via libera agli interventi nei centri storici, nelle zone agricole e nei condomini; «abbandono del concetto di adeguamento sismico»; ampliamenti consentiti in sopraelevazione, anche oltre il limite di mille metri cubi, e questo per «coinvolgere maggiormente Roma, oggi tagliata fuori dalla legge» (Il Sole, 14 luglio). Tutto, pur di costruire. In un Paese dove un milione di case risultano vuote (così il rapporto Legambiente diffuso il 15 luglio), e che mantiene saldamente il primato europeo nell’abusivismo edilizio, il partito del cemento continua a imperare. Abbiamo il più basso incremento demografico d’Europa e insieme il più alto consumo di suolo: eppure chi ci governa sembra credere che "il mattone" sia l’unica forma nota di investimento produttivo.
Questa mentalità arcaica, che distoglie capitali da forme ben più dinamiche di investimento, non solo frena lo sviluppo del Paese, ma ne distrugge la risorsa più preziosa: il paesaggio e l’ambiente. Secondo la Corte Costituzionale (per esempio nella sentenza nr. 367 del 2007), il paesaggio incarna valori costituzionali «primari e assoluti», che sovrastano qualsiasi interesse economico, e perciò esige «un elevato livello di tutela, inderogabile da altre discipline di settore». È ribadendo questi valori che si deve rispondere a miserevoli espedienti come la s.c.i.a., alla sciatta deregulation di una Costituzione immaginaria scritta col cemento.
Mettete il Parco Sud al centro dell’Expo
di Stefano Pareglio
Lo scorso anno Repubblica Milano ospitò la proposta di Battisti e Deganello per un’Expo diffusa, non rinchiusa nel recinto espositivo, che reimpiegasse strutture esistenti senza consumare aree libere. Che si diluisse nella città rivitalizzandola per (almeno) sei mesi. Che lasciasse in eredità spazi pubblici, alberghi low cost e magari residenze universitarie. Pareva un ragionamento di buon senso, ma non è stato preso in considerazione. Oggi registriamo il ritardo di M5 e soprattutto M4, anche se il recente Pgt, sconnesso dalla realtà, rilancia con una "circle line" e ben 10 linee di metropolitana. Assistiamo allo spegnersi di Ecopass, mentre Tem e Brebemi si preparano a portare nuovo traffico alle soglie della città. Vediamo apparire, e sparire, un fantascientifico tunnel urbano. E prendiamo atto che le suggestive vie di terra e d’acqua sono ormai sepolte, o naufragate, a seconda del caso.
Non si ragiona sul tema di Expo 2015, ma si baruffa sulla governance e sui tagli di bilancio. La querelle è ora rivolta alle modalità e ai costi per acquisire le aree e per attrezzare il sito espositivo: ulteriore testimonianza che è il lato "fisico" di Expo, quello che davvero interessa.
E allora chiediamoci: è opportuno, di questi tempi, e a questo punto, spendere qualche centinaio di milioni di euro (pubblici) per "valorizzare" aree libere in gran parte di proprietà privata? Le grandi serre bioclimatiche (250 anni dopo Kew Gardens, in piena era Internet), e l’orto globale, saranno sufficienti per attirare 20 milioni di visitatori? Chi assicurerà l’equilibrio economico di tali strutture, una volta terminato l’evento?
La risposta è sempre la solita: serve più sobrietà. Va preso atto che le risorse e soprattutto i tempi disponibili già impongono una (ulteriore) riduzione di scala del progetto. E suggeriscono l’adozione di un diverso modello espositivo: vediamola come un’opportunità. L’Italia è conosciuta nel mondo per la bontà e la varietà dei suoi prodotti agroalimentari. La Lombardia è la prima regione agricola in termini economici e occupazionali (70mila strutture, 200mila lavoratori, indotto compreso). Ogni città o paese ha un "suo" prodotto: insaccati e formaggi dalla pianura fino agli alpeggi montani, riso nel pavese, vini in Franciacorta, in Valtellina e nell’Oltrepo, olio e limoni sul Garda e via elencando. Prodotti di grande qualità. Milano è il secondo Comune agricolo d’Italia, con 130 imprese agricole e 3mila ettari coltivati nel cuore del Parco Agricolo Sud, che abbraccia 62 Comuni, si estende su 45mila ettari e conta ben 1.400 aziende. Un Parco occupato da svincoli autostradali e da inguardabili lottizzazioni, ma anche da splendide abbazie, castelli, ville e cascine. Che è luogo di svago e di educazione alla natura per centinaia di migliaia di persone, oltre che insostituibile polmone ecologico.
A questo straordinario patrimonio, da tutelare senza tentennamenti, il nuovo Pgt di Milano prospetta di assegnare (regalare, sarebbe meglio dire) indici di edificazione da trasferire nella città, senza neppure la giustificazione di un credibile progetto di parco (e neppure di città). Nessuno, al di là della retorica, pare interessato a cogliere l’opportunità di Expo per fare del Sud Milano un paradigma dell’agricoltura metropolitana europea del XXI secolo, chiamata a rispondere alle sfide dell’urbanizzazione, dell’evoluzione demografica e sociale, della caduta dei redditi agricoli, delle nuove domande del mercato (salubrità, qualità, tracciabilità, filiera corta, vendita diretta) e della fornitura di beni e servizi pubblici. In altri termini: più che accanirsi sulle serre di Rho-Pero, bisognerebbe realizzare un moderno padiglione virtuale, en plein air e a basso costo nel Sud Milano. E ripetere poi questa operazione in altri territori della Lombardia (e del Paese), affinché possano esporre la propria identità, fatta di prodotti, di paesaggio e di cultura, nella vetrina planetaria di Expo. Si avrebbe anche il vantaggio di attivare un’offerta sicuramente più attrattiva per i 20 milioni di persone attese tra cinque anni.
Serre Expo in ritardo Sala convoca un vertice dei tecnici
di Alessia Gallione
È ancora una volta legato all’incognita dei terreni, il futuro di Expo. A quel milione di metri quadrati di Rho-Pero che, dopo oltre due anni dalla vittoria di Parigi, rimane nelle mani dei proprietari privati. Perché mentre va in scena lo scontro politico tra Comune, Provincia e Regione che oggi torneranno a riunirsi per trovare un accordo sulle aree, gli agronomi che hanno studiato come realizzare le serre e i grandi appezzamenti con i paesaggi naturali e le colture di tutte le latitudini non hanno ancora neppure potuto fare i test necessari per la fase operativa. Sono loro, gli esperti, a esprimere preoccupazione per i tempi sempre più stretti. Ma il sindaco Letizia Moratti assicura: «Sala se ne sta già occupando e stiamo lavorando continuando a studiare anche esperienze simili già presenti in Europa come l’Eden Project in Cornovaglia». Perché se anche il progetto-serre potrà essere sbloccato definitivamente quando arriveranno i terreni, la società disegnerà un nuovo percorso per l’orto globale. «Siamo fiduciosi che a breve arrivi una soluzione per le aree», dice il neodirettore generale della società di gestione Giuseppe Sala. È lui, il manager appena chiamato alla guida del 2015, che adesso convocherà «al più presto riunione con gli esperti» per capire tempi e modi.
Dovranno rappresentare una delle eredità di Expo: i cinque "agrosistemi" che riprodurranno, sotto tre serre alte fino a 50 metri e su due vasti appezzamenti, tutti i climi e le colture del mondo. Dalla foresta pluviale alla tundra fino al deserto. Una scommessa perché saranno il biglietto da visita dell’Esposizione che vuole attirare 20 milioni di visitatori non con architetture e grattacieli, ma con il tema stesso della manifestazione - l’alimentazione - che diventa parte integrante del sito espositivo. Perché il progetto conservi le ambizioni promesse sulla carta, però, per gli agronomi che lo hanno impostato bisognerà partire al più presto. Una necessità che la società di gestione adesso ascolterà. Un nuovo corso, quello intrapreso da Expo spa. Che proprio domani formalizzerà la nomina di Sala ad amministratore delegato. Il consiglio di amministrazione servirà per fare il punto anche sui fondi: i soldi in cassa permettono di andare avanti fino a settembre.
È la giornata di oggi, però, a rivelarsi come decisiva per i terreni. Letizia Moratti, Roberto Formigoni e Guido Podestà si incontreranno per discutere un nuovo piano formulato da Fondazione Fiera e gruppo Cabassi. Prove tecniche di compromesso dopo che anche il Pirellone, da sempre favorevole all’acquisto, potrebbe dire sì al comodato d’uso. A patto però, continua a ripetere la Regione, che il guadagno per i privati, una volta che avranno la possibilità di costruire, non sia eccessivo e non superi i 100 milioni.
Nota: sul medesimo argomento si vedano anche gli articoli riportati recentemente su questo sito, a partire dal piccolo contributo del sottoscritto e relativi links (f.b.)
Domani saranno presentate oltre un milione e 400mila firme certificate alla Corte di Cassazione, in una giornata che si preannuncia come una bellissima festa per celebrare un primo grande risultato raggiunto dal movimento per l'acqua bene comune. Ricevute le firme, la Corte di Cassazione dovrà verificare la regolarità formale di almeno 500.000 fra quelle che le verranno consegnate. Ciò fatto, dovrà trasferire il dossier alla Corte Costituzionale, chiamata a verificare l'ammissibilità dei tre quesiti ai sensi dell'art.75 Cost. Questa disposizione che disciplina il nostro più importante istituto di democrazia diretta prevede non possano essere sottoposti a referendum le leggi «tributarie, di bilancio, di amnistia, di indulto e di autorizzazione alla ratifica di trattati internazionali».
Davanti alla Corte Costituzionale, che dovrebbe affrontare la questione nelle prime settimane del 2011, non si svolgerà un vero e proprio processo formale, come negli ordinari ricorsi di costituzionalità. In materia referendaria il rito è più informale, sebbene sia invalsa la prassi di accogliere le memorie presentate dai comitati promotori o da altri gruppi interessati e non si esclude possano essere ascoltati oralmente avvocati di parte o dello Stato. In materia referendaria la Corte è pienamente sovrana del proprio rito, a conferma del ruolo quasi-legislativo e di alta discrezionalità politico-costituzionale che essa svolge, insieme al corpo elettorale rappresentato dai promotori, in quell'istituto di democrazia diretta che è il referendum. In questo giudizio ogni quesito è indipendente e viene valutato nel proprio merito specifico. Qualora uno o più referendum siano ammessi il successivo passaggio è quello della cosiddetta «indizione», un istituto che coinvolge nella scelta della data il Ministero degli interni e il Presidente della Repubblica. Il referendum dovrà essere indetto in una domenica compresa fra la metà di aprile e la metà di giugno del 2011 e sarà valido qualora vi partecipino il 50% più uno degli aventi diritto al voto. Se, raggiunto il quorum, il numero dei «sì» dovesse essere superiore a quello dei «no», le disposizioni legislative oggetto di referendum verranno abrogate con effetto dalla data di pubblicazione dell'esito sulla Gazzetta Ufficiale.
Il referendum verrà rinviato di un anno qualora le Camere vengano sciolte, mentre non sarà effettuato se dovesse essere promulgata una legge che ne accoglie sostanzialmente il risultato proposto dai promotori o ancora nel caso in cui l'atto avente forza di legge contro cui esso viene promosso venga dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale. Tutte e tre queste possibilità esistono concretamente nel caso dell'acqua bene comune dato, nei primi due casi, il clima politico rissoso (scioglimento Parlamento) e truffaldino (leggina scippo ad hoc). Inoltre, come noto, cinque Regioni hanno presentato ricorso contro la cosiddetta Legge Ronchi chiedendo l'integrale abrogazione dell'art 15. Certamente la decisione su queste cause, già iscritte al ruolo della Consulta, verrà calendarizzata prima di quella sui Referendum e nel caso di accoglimento dei ricorsi regionali il primo quesito verrà escluso. Tale eventualità circoscriverebbe il lavoro di quanti fra noi stanno preparando la memoria di fronte alla Corte ai soli secondo e terzo quesito, che sono peraltro quelli maggiormente caratterizzanti la battaglia del Forum. Infatti l'abrogazione del solo Decreto Ronchi (primo quesito e quesito Idv) lascerebbe la situazione com'è oggi e quindi consentirebbe il mantenimento della logica privatistica ed aziendalistica nella gestione dell'acqua (eviterebbe cioè soltanto la grande svendita di fine 2011). Sono invece il secondo e terzo quesito, rispettivamente sui «modelli di gestione» e sulla «remunerazione del capitale investito», a creare le premesse per un'autentica gestione dell'acqua come «bene comune», da governare fuori dalla logica del profitto e con strumenti informati alla logica della sola pubblica utilità e non a quella aziendalistica. La presenza del secondo e del terzo quesito caratterizza la vera e propria «inversione di rotta» proposta dal Forum italiano movimento per l'acqua.
La presenza di questi due quesiti inoltre mi pare garantisca la battaglia referendaria in corso contro «colpi di mano» parlamentari volti a scippare il popolo sovrano del suo potere costituzionale di decidere direttamente ex art 75. Infatti non è neppure immaginabile che con questa maggioranza (e questa opposizione Pd, Idv) si possa approvare una legge che nello spirito riproduca quella di iniziativa popolare già proposta dai Forum o che comunque segni una radicale ripubblicizzazione del servizio idrico integrato. Confideremmo quindi nella serietà della Corte Costituzionale che in un tal caso verrebbe immediatamente reinvestita della questione dai nostri comitati.
In ogni caso domani inizia una nuova fase. Essenziale è immaginare modi creativi di mantenere in strada la battaglia sull'acqua bene comune, per non disperdere il patrimonio inestimabile di attivismo e cittadinanza «viva» maturato in questi due mesi di raccolta firme. Ci sono già tante ipotesi che si stanno discutendo e di cui i nostri lettori saranno puntualmente informati. Ma ogni nuova idea a tal proposito sarà benvenuta e speriamo ne arrivino molte anche tramite la posta o il sito del manifesto.
P2, la versione din Tina
diAttilio Bolzoni
Soffocata nell´Italia delle trame, aggredita e offesa per la sua voglia di verità, sola, ha cominciato a scrivere dopo ogni incontro, ogni telefonata, dopo ogni colloquio avuto sin dall´inizio di quell´avventura che sarebbe durata tre lunghissimi anni. Lei li ha sempre chiamati «i miei foglietti», settecentosettantré appunti per ricordare tutto ciò che le accadeva intorno da quando - nel dicembre del 1981 - era stata nominata presidente della Commissione parlamentare d´inchiesta sulla loggia massonica P2.
È il diario segreto di Tina Anselmi, nel ´44 staffetta partigiana con il nome di "Gabriella" e poi deputata democristiana chiamata a indagare su quei 962 uomini - tanti i nomi ritrovati nelle liste sequestrate a Licio Gelli a Castiglion Fibocchi - che volevano imbrigliare la democrazia nel nostro Paese. Un elenco con dentro anche quarantaquattro parlamentari, un segretario di partito, due ministri, dodici generali dei carabinieri e cinque della finanza, ventidue dell´esercito e quattro dell´aeronautica, otto ammiragli, numerosi magistrati e poi giornalisti, direttori dei servizi segreti, banchieri, imprenditori come Silvio Berlusconi.
Dall´ottobre del 1981 al settembre del 1984 Tina Anselmi ha ordinato i suoi pensieri su carta, provando a legare uno all´altro i personaggi incrociati, confrontando testimonianze, annotando dubbi, sospetti, sensazioni. Documenti che sono rimasti nei cassetti della sua casa di Castelfranco Veneto, dove vive, fino a quando ha deciso di consegnarli alla giornalista e scrittrice Anna Vinci, conosciuta quasi un quarto di secolo prima. Racconta la Vinci: «Mi ha voluto lasciare qualcosa da trasmettere a tutti, mi ha sempre detto: prima o poi ti devo dare i miei foglietti perché non si è mai voluto fare chiarezza fino in fondo sui lavori della commissione». Nel diario segreto di Tina Anselmi c´è una testimonianza che va oltre quei centoventi volumi che hanno ricostruito la storia della P2, è un grido che cerca di perforare l´indifferenza che accompagnò la relazione conclusiva della commissione nel luglio 1984.
Qui di seguito pubblichiamo gli estratti più rilevanti degli appunti della Anselmi di cui siamo entrati in possesso. La maggior parte sono stati scritti dalla fine del 1981 alla primavera del 1983, alcuni sono datati anche 1985 e 1987, l´ultimo è del 28 luglio 1990. Affiora l´immagine di un´Italia che sembra non cambiare mai, quella di ieri come quella di oggi.
Lunedì 30 ottobre 1981
Ore 17,15 sono convocata dal presidente della Camera Nilde Iotti. Mi propone di assumere la Presidenza della Commissione inquirente sulla P2. È d´accordo anche il presidente del Senato Amintore Fanfani. Mi parla della storia dei vari tentativi (parlamentari che hanno rifiutato l´incarico, ndr). Chiedo quindici minuti di riflessione. Sento per telefono il presidente della Corte Costituzionale, Leopoldo Elia, e mi consiglia di accettare.
Torno dalla Iotti alle 17,30, e accetto. Parliamo del problema. Mi assicura ogni supporto della Camera per il lavoro. Mi telefona Fanfani per esprimermi solidarietà. Nella Iotti ho trovato un atteggiamento di piena fiducia, amicizia e volontà di aiutarmi, perché il compito non fallisca.
Mercoledì 5 dicembre 1981
Incontro con il Presidente Fanfani. I socialisti sono terrorizzati dall´inchiesta. Fare presto. Delimitare la materia. Chi vuole oggi le elezioni? Certamente, solo il Psdi. Gli altri sono meno decisi. [...]
5 dicembre 1981
Incontro con Leopoldo Elia. Punto da cui partire: Saragat (l´ex presidente della Repubblica, ndr) viene a sapere dei fascicoli del generale De Lorenzo contro di lui (affari, donne, ecc.). Saragat esige la destituzione di De Lorenzo.
Moro è più morbido. Rottura da allora nei Servizi segreti e nelle Forze armate.
Influenze della massoneria sui deputati, contro la candidatura di Moro a Presidente della Repubblica. Influenza sui deputati del sud, influenza Picella (Nicola, segretario generale della Presidenza della Repubblica fin dal tempo di Saragat, ndr) e Cosentino (Francesco, piduista, segretario generale della Camera dei deputati dal 1962 al 1976, ndr).
Data dell´ultimo viaggio in Usa di Moro.
Compito storico: con la giustizia determinare il cambiamento di una parte della classe dirigente del Paese, compresa quella della Dc. [...]
16 dicembre 1981
[...] Ho raccolto da amici voci provenienti dal Psi e da qualche Dc: c´è interesse a svalutare la Commissione, magari creando incidenti.
2 marzo 1982
Pci Ricci (Raimondo, deputato e membro della commissione parlamentare P2, ndr), lettera dei servizi segreti, non partecipa alla riunione.
Dopo l´arresto di Musumeci (Pietro, generale del Sismi, ndr) alla ripresa mancano i 2/3 dei commissari.
Il Pci si defila.
9 marzo 1982
Andò (Salvo, deputato socialista e membro della Commssione, ndr). La Commissione non deve assumere il problema dell´Eni-Petromin, altrimenti chiude.
Gelli ha offerto uno stabile con uffici e appartamenti a ministri e altri (lasciar perdere).
Psi Spano (Roberto, senatore, e membro della Commissione, ndr) dice a Di Ciommo (Gianni, segretario della Commissione P2, ndr): siamo tutti d´accordo perché la Commissione non vada avanti, è inutile continuare il gioco del massacro.
20 luglio 1982 ore 9,40
Sica (Domenico, giudice istruttore a Roma ndr). Si arriva alla migliore mafia: il boss siciliano Di Cristina..tre miliardi di titoli e di assegni in tasca, tutti i titoli fanno capo a Carboni (Flavio, l´imprenditore coinvolto nel caso Calvi e finito adesso nelle indagini sulla P3, ndr)
21 gennaio 1983
Telefono alle 16,00 a Ciriaco De Mita (il nuovo segretario della Dc, ndr), a casa, senza trovarlo. A chi risponde, dico di farmi cercare. Alle 18,00 non avendo notizie di De Mita, telefono a Fanfani e lo consiglio di sbarcare Pisanu (Giuseppe, sottosegretario al Tesoro, ndr). Mi dice di dirlo a De Mita. Gli do lo stesso consiglio. Vuol sapere perché. Non gli do nessun elemento, solo quello di un suo probabile coinvolgimento politico. Dopo un´ora mi ritelefona De Mita e mi passa Pisanu, mi chiede perché. Gli rispondo che non posso dirgli niente. Ascolti consiglio del segretario di dimettersi. Mi stupisce il fatto che De Mita si sia comportato così.
Si spiega forse col fatto che lui lo volle sottosegretario, contro il parere di Fanfani. [...]
Venerdì 28 gennaio 1983 ore 12,30
Incontro all´aeroporto di Roma l´onorevole Vittorio Olcese (deputato Dc e membro della Commissione P2, ndr). Mi dice di aver saputo da un «piduista pulito» che si sta preparando un nuovo attacco a me.
Mi consiglia di riprendere i rapporti con Corona (Armando, Gran Maestro del Grand Oriente d´Italia, ndr) perché quella è la strada per bloccare questa azione.
A mia richiesta, mi assicura che prenderà contatti con l´ambiente massonico e mi riferirà qualcosa di più preciso martedì.
8 febbraio 1983, ore 1,15
Esco da San Macuto con Di Ciommo e ci accorgiamo che siamo pedinati fino a casa mia da un uomo di statura piuttosto bassa, robusto, dell´età di quaranta, quarantacinque anni.
26 febbraio 1984
Padula (Pietro, membro Dc della Commissione P2, ndr) mi riferisce che in questi giorni il generale Grassini (Giulio, ex direttore del Sisde, ndr) ha voluto incontrarlo per dirgli che se a settembre non verrà nominato vice comandante generale dei CC., rivelerà i rapporti politici con Gelli e la P2.
10 maggio 1984, ore 18,30
Visita al Presidente Pertini. Mi ringrazia per quello che ho fatto per il Paese e per l´Italia. Mi conferma la sua stima e la sua amicizia, per il coraggio che ho. Annota che nel Palazzo non si avrà la volontà di andare a fondo e di accogliere la mia relazione.
28 luglio 1990
L´onorevole Bodrato (Guido, deputato Dc, ndr) mi racconta che nel colloquio avuto con Craxi, questi gli ha detto che Cossiga è ossessionato dal fatto dei rapporti che lui ha avuto con Gelli. Il generale Grassini era presente con Martini (Fulvio, ammiraglio e capo del Sismi dal 1984 al 1991, ndr) a questi incontri al ministero della Marina e ne ha parlato a varie persone. Questo avveniva anche nel periodo del rapimento Moro.
La breve stagione della dignità
di Sandra Bonsanti
La sera spegneva la luce nell´ufficio di San Macuto e si allontanava verso Piazza di Pietra con una cartella pesante, piena di fotocopie e manoscritti. Abitava in una sorta di convento che dava alloggio ad altre donne del mondo politico democristiano. La gente la fermava, la incoraggiava: «Vai, Tina, non guardare in faccia a nessuno». Il suo sorriso era quello da compagni di scuola, aperto, cordiale, complice. Alcuni di noi sapevano che in quella borsa di cuoio vecchio c´erano anche altri fogli, gli appunti per ricordare le cose più riservate. Era lì che forse aveva trascritto il consiglio dell´avvocato Agnelli: «Stia sempre attenta, signorina, il vero capo della P2 è l´onorevole X». Quel nome, inatteso, imprevisto, se lo andava ripetendo in cerca di una spiegazione, un collegamento. «Ma pensa te, proprio lui: il ministro!». le veniva da ridere e, spesso, rideva di quei luridi personaggi che avevano cercato di «svuotare le istituzioni, infiltrandosi e controllandole». Sorrideva di quei generali dei Servizi o dell´esercito che balbettavano risposte senza senso quando li inchiodava spietata: «Ma lei non si vergognava a pronunciare un giuramento segreto, dopo aver pronunciato quello per la nostra Patria?».
Tina era arrivata alla presidenza della commissione nei giorni più neri, quando non si capiva nemmeno se saremmo mai usciti dal fango scoperto ad Arezzo che toccava tutte le istituzioni, la politica, il cuore stesso della nazione. Non ci furono proteste rumorose davanti al suo nome, l´ex staffetta partigiana, la prima donna ministro nella storia italiana. Di lei si sapeva soprattutto che era stata molto vicina ad Aldo Moro e che, alla vigilia di un voto storico, aveva raccolto dalla sua voce un messaggio per i capi del Pci, poi trasmesso nella massima riservatezza.
Fu facile per noi cronisti restare affascinati dalla donna coraggiosa che ci dava il Grande Segreto della Repubblica nel nome di una trasparenza assoluta in cui credeva con fede religiosa. Furono anni difficili da raccontare. Alcuni commissari di diverso orientamento politico dedicarono al compito un impegno indefesso: penso a Massimo Teodori, Antonio Bellocchio, Giorgio Pisanò. Nessuno era perfetto, tutti sentirono il peso di quell´incarico e il loro contributo fu all´altezza della situazione. Tina sapeva di non potersi fidare di nessuno, ma non mostrò diffidenza e riuscì a tenere insieme una variopinta folla di parlamentari, giornalisti, esperti. Ci furono momenti in cui il compito pareva impossibile: quando si trattò di far ritornare dall´Uruguay l´archivio di Gelli.
Penso ai giorni in cui il mondo politico fece capire che era arrivato il momento di chiudere la Commissione. La vecchia morotea non si dava pace sul retroscena del sequestro Moro, gli avvertimenti anche internazionali, l´inadeguatezza delle indagini e quel gruppo di piduisti che al Viminale le dirigevano. Forse, ci pensa ancora oggi, tra i fiori di un giardino costruito là dove un tempo la sua famiglia coltivava i campi. Il momento più importante fu il voto quasi unanime con cui il Parlamento approvò i risultati finali. E nella storia di questo paese rimase scolpita l´immagine di una piramide in cima alla quale c´erano sicuramente Licio Gelli e i suoi protettori politici, ma sopra alla quale si appoggiava, rovesciata, un´altra piramide la cui natura e consistenza fu solo accennata con riferimenti a servizi segreti italiani e stranieri. Una piramide che simboleggiava l´Antistato, la grande congiura per imporre al paese il Piano di Rinascita.
Fu un breve ma intenso momento di dignità del nostro Parlamento che oggi, trent´anni dopo, non sarebbe in grado di esprimere personalità come quella di Tina Anselmi e di molti commissari che cercarono la verità oltre l´interesse del proprio partito. Oggi, quel che emerge della P3 fa pensare piuttosto a una piovra: una testa che configura il Potere assoluto, economico, politico, governativo, circondata da tentacoli, ispirati a una medesima filosofia, il disprezzo della Costituzione e delle libertà fondamentali.
Seguire la commissione Anselmi è stata più che una grande esperienza e più di una lezione di giornalismo: ci ha introdotto nei meccanismi più delicati della democrazia. Mostrò il volto più oscuro del potere, ma anche il sorriso e la serenità di chi ne è estraneo e dedica la sua energia a combatterlo. Tina Anselmi, che non ha mai messo piede in un salotto romano, veniva a cucinare a casa di noi cronisti il risotto col radicchio di Castelfranco, che ci portava nella grande borsa insieme ai fogli di quella storia che è semplicemente la storia della nostra Repubblica.
Nei primi anni del Novecento Gaetano Salvemini definì Giovanni Giolitti il «Ministro della malavita ». Come mai? Perché Giolitti usava i Prefetti per convogliare i voti degli elettori sui candidati governativi. Capirai. Quali termini bisognerebbe usare per definire oggi il Governo Berlusconi? Questo è il punto decisivo della diagnosi sul quale o ci si unisce o ci si divide. Fino a un paio di anni fa si potevano accumulare nei confronti di Berlusconi e del berlusconismo pile di critiche radicali, che tuttavia non mettevano ancora in dubbio la forza di resistenza oggettiva, istituzionale, del sistema. Oggi le cose si sono ulteriormente evolute, la massa delle critiche singole, per quanto puntuali, non basta più, c'è bisogno di ricorrere a un disegno interpretativo più generale.
Il criterio è semplice: non si sbaglia mai quando del Cavaliere si pensa il peggio. Questo peggio non è sempre stato lo stesso, si è evoluto nel tempo, ha persino cambiato forma, ma di sicuro è andato progressivamente sempre più aumentando, spinto da una inesorabile e senza sbocco, e perciò pericolosissima, pulsione autocentrata e autodifensiva. A che punto siamo oggi? Siamo al punto, -mi pare, - che i vari fenomeni di accerchiamento e di fibrillazione, la «persecuzione» dei giudici e le crepe nel suo stesso sistema di potere spingono, e sempre più spingeranno, il Cavaliere verso l'arroccamento nella cittadella assediata e verso una difesa «a tutti i costi» della propria persona e del proprio potere. «A tutti i costi»? Che vuol dire «a tutti i costi»? Vuol dire che: a) il Cavaliere non lascerà mai volontariamente il posto che occupa; b) sceglierà di volta in volta tutti gli strumenti utili e/o necessari per assolvere a questa missione autosalvifica. Tutti? Questo per ora non possiamo dirlo (dipenderà anche dal fatto che ne trovi, il che per fortuna non è detto). Quel che possiamo dire fin d'ora con assoluta certezza è che dal canto suo non avrebbe remore né morali né ideali né politiche a usarne di ogni tipo: e questo è già abbastanza per suonare l'allarme.
Insomma, se la diagnosi non è del tutto infondata, siamo entrati in una fase di vera e propria emergenza democratica. Se questa fase si prolunga, anche senza arrivare allo show down finale, il sistema corre il rischio di decomporsi e di tracollare (che è poi l'altra strada possibile di questo berlusconismo avviato a tirare le somme finali della propria esperienza). Del resto, nutrite pattuglie di guastatori lavorano contemporaneamente a mettere in crisi ognuna per sé, coerentemente con il quadro complessivo, le strutture portanti del nostro vivere civile: la giustizia, la scuola, l'università, la ricerca, lo stato sociale. Né si può sottovalutare, come fattore aggiuntivo del dramma italiano, la debolezza delle cosiddette opposizioni, un Pd scialbo e rinunciatario fino all'estenuazione, una sinistra radicale divisa e incerta, uscita di scena come non accadeva da un secolo.
Che fare? La strada più giusta sarebbe tornare al voto: sottoporre al giudizio del popolo italiano l'immonda fanghiglia in cui siamo sprofondati. Ma tutti ne sono terrorizzati: temono che le capacità reattive, la forza d'indignazione del popolo italiano - e questo è l'altro dato davvero catastrofico, - non siamo più in grado di cogliere e rifiutare i miasmi della fanghiglia. E, certo, se davvero il Cavaliere, con tali premesse, tornasse in sella con il favore del popolo italiano, il gioco sarebbe fatto: e per sempre.
Ed allora? Da più parti dell'estenuato centro-sinistra si levano voci a favore di un «governo di transizione». Transizione da cosa a che cosa? Beh, questo è troppo pretendere: a parte il cambiamento della legge elettorale (che in sé e per sé, certo, non sarebbe una cattiva cosa), si tratterebbe infatti di un governo senza programma. Un governo di «emergenza democratica», come io preferirei chiamarlo in presenza di una crisi verticale del nostro sistema democratico- rappresentativo, ovvero di «salute pubblica» (per usare, non del tutto casualmente, l'odiata terminologia giacobina), potrebbe invece ragionevolmente costituirsi e durare solo se avesse al proprio centro la ricostruzione delle condizioni minimali di funzionamento del sistema: il rispetto dei diversi ruoli e funzioni istituzionali; la separazione dei poteri; l'applicazione incondizionata delle prerogative di giustizia; la persecuzione rigorosa di ogni forma di malaffare e di corruzione; l'abrogazione immediata delle leggi liberticide o tutelatrici del marcio; la legge sul conflitto d'interessi; la restituzione di una condizione minimale del diritto nei rapporti fra capitale e lavoro. E, naturalmente, come premessa e al tempo stesso conseguenza fondamentale della svolta, l'espulsione di Berlusconi e del berlusconismo da ogni passaggio nella formazione e nelle attività di governo.
Esiste un fronte di forze politiche, parlamentari e no, che pervenendo dalla condivisione della diagnosi alla formulazione del programma, sia in grado/disponibile a coagularsi intorno a questa prospettiva? Mi pare di no. Ma se fosse vero il contrario, avrei piacere questa volta di essere smentito.
Oggi in Italia non è facile inquadrare la figura del contadino. È un mondo in parte sommerso e davvero molto sfaccettato. Quel che è sicuro è che sono pochi, sempre più anziani, spesso immigrati e tutti in grande difficoltà economica. Sono una categoria debole perché sono passati dall´essere quasi metà della popolazione attiva nel secondo dopoguerra a uno scarso cinque per cento: in termini di voti contano pochissimo e non è difficile capire perché siano una lasciati un po’ a se stessi. Oggi fare agricoltura è quasi regolarmente un’attività in perdita, i giovani non vogliono ripetere la vita dura dei loro padri e, se non si metteranno in atto cambiamenti rilevanti, non ci saranno grandi prospettive. Non è un caso che siano molti gli immigrati nelle nostre campagne, alcuni regolari e anche ben pagati, oppure irregolari in nero, braccianti per pochi euro. Però sono tutti molto preziosi, perché svolgono mansioni che nessuno sa o vuol più fare.
Insomma, si può dire che il contadino continui, nella sua miglior tradizione, a essere l’ultima ruota del carro. Da quando ha smesso di fare parte di una massa consistente, poi, ha anche perso appeal agli occhi dei politici, che fino a una ventina d’anni fa li corteggiavano regolarmente. Infatti chiedersi se il contadino è di destra o di sinistra oggi non ha più molto senso. Va dato atto alla Lega di aver prestato attenzione ad alcune rivendicazioni di una loro parte, quella più "industrializzata", ma credo che il contadino oggi si ponga in un contesto politico ben lontano dalle attenzioni dei partiti. È aggrappato alla terra e strozzato da un mercato senza pietà, vive isolato in campagne assediate dal cemento, dove praticare un po’ di socialità, anche solo per svagarsi, è impresa ardua.
Tuttavia questo suo essere "fuori categoria" può diventare una grande opportunità: sono sempre meno rari i casi di nuovi contadini, giovani, che attuano un’agricoltura rispettosa degli ecosistemi e che mettono in pratica forme di commercio originali per andare incontro ai cittadini. Usano Internet e vanno a vendere in città, nei mercati. Hanno studiato e continuano a studiare per rendere le loro produzioni migliori, sia dal punto di vista qualitativo sia in termini ambientali, facendo tesoro della tradizione ma con tanta creatività e spirito d’innovazione. Si può dire che siano i nuovi intellettuali della terra, gli ultimi baluardi che difendono il buono e il bello che sa generare il nostro Paese.
La speranza è che questa generazione cresca e diventi contagiosa, fornendo un modello nuovo a tanti ragazzi in cerca di un impiego che non sia alienante, che dia soddisfazione. Non dimentichiamo mai che i contadini producono il nostro cibo, tra le poche cose cui proprio non potremo mai rinunciare: sono un patrimonio di tutto il Paese ed è giusto che trovino alleati nei consumatori, i quali devono trasformarsi in co-produttori, amici dei contadini, i loro difensori per costruire insieme un nuovo sistema alimentare. Non escludo che in un territorio così fertile, poco esplorato e poco concupito dalla politica, possano nascere molti dei leader di domani, decisamente "fuori casta" e per fortuna "fuori categoria".
Una città da 140 mila abitanti con uno skyline composto da quattro torri che si stagliano contro il Resegone e la Grigna: ecco come potrebbe presentarsi la Monza del futuro. La variante al Piano di governo del territorio messa a punto dalla giunta di Marco Mariani debutterà in consiglio comunale solo dopo le vacanze estive. Tuttavia, fa già discutere. L'assessore all'Urbanistica, Silverio Clerici, che ha ricevuto la delega direttamente dalle mani dell'onorevole Paolo Romani, non si è limitato a illustrare i numeri del documento, ma ha anche una visione: «Mi piace l’idea di uno sviluppo verticale della città — spiega Clerici —, a patto però che avvenga nelle periferie. L'amministrazione ha messo a disposizione un certo quantitativo di metri cubi, adesso spetta ai privati avanzare proposte intriganti». La variante individua sei poli tematici: sanitario, tecnologico, sportivo, energetico, Expo 2015 (Cascinazza) e ricreativo.
Tre verrebbero identificati con delle torri: torre dello sport, dove inserire per esempio un palazzetto del ghiaccio, torre dell'energia rinnovabile con tetti verdi, sistemi di recupero delle acque piovane e aziende specializzate nel settore dell'energia rinnovabile e torre tecnologica, dove dare spazio ad aziende in grado di garantire ricerca sul fronte innovazione. A queste se ne aggiungerebbe una quarta, un albergo alto sessanta metri in via Borgazzi angolo viale Campania. Il tutto, però, in periferia — prosegue Clerici —. Se le avessero fatte in centro, invece, sarebbero state uno scempio». I numeri parlano di 3 milioni e rotti di metri cubi di residenziale (quasi due sono recupero dell'esistente), di 980 mila metri quadrati di terziario e produttivo e di uno sviluppo di circa 20mila abitanti in dieci anni. Il principio cardine è «urbanistica contrattata»: metri cubi in cambio di servizi e aree verdi attrezzate.
L'esempio è l'area della Cascinazza, zona sud di Monza, da anni al centro di roventi polemiche fra l'amministrazione comunale e l'ex proprietà, la famiglia Berlusconi. Su questo lotto di oltre 500 mila metri quadrati l'amministrazione ha autorizzato 400 mila metri cubi. Il 25% sarà di residenziale, il 75% potrà essere suddiviso fra terziario, produttivo ed espositivo. E per non perdere il treno di Expo 2015, si ipotizzata la realizzazione di uno o più centri legati all' esposizione universale. I privati dovranno realizzare un parco fluviale e un parco attrezzato di 15 ettari complessivi. Inoltre lungo l'asse viabilistico che corre di fronte alla Cascinazza è stato programmato la realizzazione di un boulevard delle industrie e degli artigiani, una specie di «viale vetrina» dove potranno trovare spazio le attività produttive della città.
I partiti di minoranza però non ci stanno e sono già partiti all'attacco. Alfredo Viganò, consigliere della lista Faglia, parla di «svendita del territorio e norme che esautoreranno il consiglio comunale» eMichel Faglia, capogruppo dell'omonima lista nonché ex sindaco, si chiede se «il documento non sia a rischio bocciatura da parte della Provincia», che ha appena detto no a tre insediamenti nel Vimercatese. «Ha lo stesso metro usato in passato — commenta Faglia —, questa variante non ha alcun futuro». Per Marco Mariani, però, non c'è alcun rischio — spiega il primo cittadino — e quelle zone vanno salvaguardate. Tuttavia, non c'entrano nulla con noi. Anzi, la variante al Pgt, oltre a piste ciclabili, asili nido e centro ricreativi, prevede ben 400 mila metri quadrati di verde attrezzato, fra i quali un mega parco proprio sulla Cascinazza».
Una rete di infiltrazione e corruzione dei magistrati era il primo piano d’azione organizzativo della cosiddetta P3. Non mi sorprende il fatto che nel disegno complessivo di stravolgimento di ogni regola del funzionamento del sistema istituzionale si sia intervenuti anche sulla magistratura e che ci siano state persone che hanno finito con l’aderire a questo disegno.
La magistratura non è diversa dal resto del paese, i rischi di inquinamento ci sono dappertutto, ma questa vicenda suggerisce immediatamente due considerazioni. La prima: chi ha tuonato e continua a tuonare contro la politicizzazione della magistratura si è reso protagonista di una operazione non solo di politicizzazione ma in qualche modo di asservimento a disegni esterni di singoli magistrati. In secondo luogo la forza di reazione della magistratura medesima la mette in una posizione di legittimità e di forza rispetto a tutti gli altri ambienti nei quali l’inquinamento non solo viene negato, ma i responsabili vengono difesi fino all’ultimo: e solo quando la pressione esterna dell’opposizione politica e dell’opinione pubblica si fa intollerabile si decide di intervenire.
Dunque da una parte un establishment che si difende in ogni modo, anche di fronte a prove clamorose di deviazioni dalla legalità, dall’altra la reazione immediata dell’Associazione nazionale magistrati e del Consiglio superiore della magistratura che invece subito chiedono che i responsabili di questa gravissima deviazione vengano messi fuori gioco.
Tutti ricordiamo che la corruzione e l’uso veramente politico della magistratura poggiavano in passato su una rete di protezione del malaffare politico: ricordo bene in proposito un articolo di "Repubblica" che riguardava la Procura di Roma e venne intitolato «il porto delle nebbie». Ci volle tempo, ci volle il rinnovamento interno alla magistratura perché quell’immagine venisse allontanata, e la magistratura riassumesse pienamente il compito di custode della legalità. Episodi rivelati in questi giorni ci dicono che si sta cercando di ripetere esattamente quel copione, cioè in un momento in cui la politica soffre il controllo dell’opinione pubblica e il controllo della legalità, si tenta di piazzare nei posti di responsabilità persone fidate per ricostruire la rete di protezione.
Non è un caso che proprio in questi giorni l’insistenza e la fretta intorno alla vicenda della legge bavaglio diventino rivelatrici. Forse all’inizio qualcuno aveva sottovalutato quella legge dicendo che tutto sommato era uno strumento che il presidente del Consiglio adoperava con la logica tradizionale delle leggi ad personam per evitare che intercettazioni sgradite potessero essere conosciute all’esterno. Questa lettura tutto sommato riduttiva è stata smentita, e mi pare che poi fosse evidente che l’obiettivo andava al di là della tradizionale legge ad personam. L’accelerazione sulle intercettazioni va di pari passo con la scoperta progressiva della corruzione diffusa, di questo - riprendo la famosa espressione di Silvio Spaventa - mostruoso connubio che si è determinato tra politica, amministrazione e affari. Un connubio non esterno al sistema di governo, non esterno al modo in cui la maggioranza funziona, ma del tutto interno e in qualche modo provocato da questa medesima maggioranza perché se c’è una differenza tra Tangentopoli e oggi è questa: Tangentopoli fu una vicenda che si determinò attraverso connivenze politiche composte da una rete di protezione, ma si trattava comunque di comportamenti fuori dalla legalità. Tutta questa vicenda che noi in questo momento abbiamo davanti agli occhi è stata dunque resa possibile dallo stravolgimento della legalità determinato dalle procedure che hanno sottratto agli ordinari controlli di legalità questioni rilevanti.
Quindi c’è una componente istituzionale di questo scandalo messa a punto attraverso un uso degli strumenti legislativi. In questo momento noi ci rendiamo conto dunque che c’era bisogno di tenere al riparo questo insieme di comportamenti illegali dall’occhio del pubblico e dall’occhio degli stessi magistrati. Quindi la legge sulle intercettazioni oggi acquista tutta la sua portata, non solo di legge ad personam, ma di misura fatta per difendere un sistema di governo che proprio in questi giorni sta mostrando tutti i suoi vizi e tutte le sue caratteristiche.
Tutta questa vicenda conferma la necessità non solo di opporsi ma di denunciare le caratteristiche proprie di questa legge sulle intercettazioni che è un pezzo essenziale di questa abnorme costruzione istituzionale di salvaguardia, abuso e privilegio. Prima si sono varate tutta una serie di norme per rendere opaco e non controllabile lo svolgimento di una serie di affari, e poi si cerca di approvare norme ulteriori per impedire che si possa svelare questa opacità e mettere in evidenza le caratteristiche del mostruoso connubio che stiamo vivendo.
Quattro milioni di abitazioni, 3 miliardi di metri cubi di cemento, 21 mila 500 chilometri quadrati di suolo consumato. Sono i numeri dell'aggressione all'ambiente e al paesaggio italiano realizzata negli ultimi quindici anni, dal 1995 al 2009, documentata dal dossier di Legambiente “Un'altra casa?”, presentato a Roma giovedi 15 luglio nella sede del Senato di Palazzo Bologna.
Un lavoro di grande spessore informativo che oltre ad utilizzare dati Arpa, Ispra e Istat si avvale di quelli raccolti dalle Regioni, rielaborati attraverso l'attività condotta dal Centro per le Ricerche sul Consumo di Suolo. Il risultato è un importante contributo alla conoscenza dei processi di trasformazione del territorio nazionale e dei problemi generati da un incontrollato e inarrestato sviluppo urbano ed edilizio.
Una dinamica quest'ultima per un verso assecondata da una politica di esasperata deregulation - la misura più recente è la Scia (segnalazione certificata di inizio attività) - che ha abbassato controlli, abolito programmazione e consentito uno sfrenato abusivismo; per l'altro sostenuta da una forte speculazione in grado di determinare un'impennata del valore degli immobili e dei canoni di affitto.
A tale riguardo, nelle principali aree urbane e nei Comuni limitrofi, secondo Legambiente, si è continuato ad edificare in un quadro di rialzo dei prezzi che “prescinde totalmente dai costi di costruzione (nell'ordine di 4 a 1)”. Per Giovanni Caudo, docente all'Università di Roma TRE e uno tra i relatori del convegno, in questi anni le case sono “diventate di carta”, attratte nell'orbita del mercato finanziario per alimentare più la redditività delle imprese che non i bisogni effettivi delle famiglie.
Investire sul mattone è stato infatti vantaggioso per le aziende ma non per una parte importante della cittadinanza come giovani, immigrati, lavoratori precari e anziani, obbligati a pagare affitti più cari o a sobbarcarsi, a fronte di un reddito familiare in continua diminuzione, il peso di un mutuo per una casa acquistata sempre più fuori dal perimetro cittadino. D'altro canto, il boom delle costruzioni che ha contrassegnato il periodo passato ha visto paradossalmente emergere il fenomeno dell'aumento di case vuote nella città, stimate ad un milione, e il concomitante riaffacciarsi del disagio abitativo, testimoniato da un preoccupante incremento degli sfratti per morosità (110 mila in due anni, dal 2008 al 2009).
Un “disaccoppiamento tra il costruire e l'abitare” dunque, come lo definisce Vittorio Cogliati Dezza Presidente di Legambiente, che rende evidenti le contraddizioni del modello di cementificazione, giunto ormai alla fine di un ciclo espansivo. Mentre crollano le compravendite, chiudono le imprese (15 mila), cala l'occupazione del settore (200 mila senza lavoro), cresce l'invenduto si mostrano in modo palese i limiti e gli effetti deleteri di uno sviluppo centrato sul mattone che ha deteriorato la qualità della vita delle persone e accresciuto i rischi sul piano della sicurezza idrogeologica e sismica. Periferie urbane allargate in maniera disordinata senza servizi e trasporti, dispersione insediativa con edilizia di basso livello, proliferazione delle seconde case nelle zone costiere rappresentano i capitoli fondamentali dello scempio perpetrato ai danni dell'ambiente del Belpaese che non risparmia nessuna regione, dal Veneto alla Sardegna, assumendo forme fra le più disparate e innovative.
Stadi, centri termali, gran premi, sono, secondo Andrea Garibaldi, coautore del libro “La colata”, chiamato ad intervenire nell'incontro romano, i nuovi cavalli di Troia della cementificazione selvaggia e moderna, autorizzata da molti Comuni in cambio degli oneri di urbanizzazione.;Davanti a questa arrendevolezza del potere locale nei confronti del partito del mattone, sostiene Legambiente, va richiamata la funzione di indirizzo dell'autorità centrale su temi come governo del territorio, tutela dell'ambiente e del paesaggio, diritto alla casa e accesso ai servizi essenziali.
Diverse le proposte avanzate dall'associazione ecologista per cercare di frenare la deriva e mutare il corso degli avvenimenti. Prima fra tutte la creazione di un Ministero unico che si occupi nell'insieme della questione urbana e abitativa come succede in Europa, negli Stati Uniti, Russia, Cina e India. Poi, come in Germania, per fermare il consumo di suolo, è necessario stabilire “un numero massimo di ettari di territorio trasformabile ogni anno per usi urbani”. Infine, fare case efficienti ed innovative energeticamente, per chi ne ha realmente bisogno e a prezzi accessibili, anche rilanciando l'offerta di edilizia residenziale pubblica. “Si può uscire dalla crisi solo cambiando modo di vedere”, riassume Edoardo Zanchini, responsabile urbanistica Legambiente.
I nuovi barbari dilagano a Roma e nel Lazio. La povera Città Eterna non è mai stata così offesa, svilita a merce da vendere nel modo più cafone. È passata una linea di svendita dell’immagine stessa senza più freni. Se l’assessore alla Cultura, Croppi, e il sottosegretario ai Beni culturali Giro oppongono una qualche resistenza alle proposte più indecenti, è lo stesso premier, cantante discotecaro, ad autorizzare il caffè-discoteca nella Valle delle Accademie e dei Musei. E sono interessi potenti ad imporre a Villa Borghese lo sfregio del maxischermo per i Mondiali con atti vandalici diffusi. Come negare allora a Renato Zero la gloria di 6 concerti 6 nella stessa martoriata Villa? Andate al Circo Massimo, zona archeologica di pregio assoluto, e lo vedrete ridotto a luna-park. Salite sul Gianicolo e anche lì vi accoglierà un caffè-discoteca.
E pensare che l’eccellente lavoro svolto dalla Soprintendenza archeologica statale ha regalato al Museo dell’ex Collegio Massimo, diretto dalla brava Rita Paris, la sezione-gioiello degli affreschi della Villa romana della Farnesina. Da sindrome di Stendhal. Un’altra Italia avrebbe montato una “promozione” planetaria ad hoc (chissà se l’ex McDonald’s Resca ne ha saputo qualcosa).
Ora poi c’è il “nuovo” Piano Casa, rivisto a fondo dalla Giunta Polverini, col quale, per la prima volta dopo decenni, si consentiranno, nei centri storici, ampliamenti, demolizioni e ricostruzioni. Mentre l’emendamento Azzolini alla manovra tremontiana travolge ogni norma e consente di costruire ovunque. Italia rovinata dagli Italiani. Stavolta per sempre.
La neo-presidente del FAI, Ilaria Borletti Buitoni, protesta duramente, e dove la confina il “Corriere”? Pagina interna, due colonne, in basso. Alègher!
Mantova, splendida città sulla quale s’allungava l’ombra di una lottizzazione edilizia che avrebbe violato una città dichiarata patrimonio dell’Unesco, è salva. E stavolta, nella complessa storia di conflitti fra i costruttori, con i loro interessi, e le associazioni dei cittadini, impegnati nella difesa di quel paesaggio che la nostra carta fondamentale tutela, spunta anche il nome di Fabio De Santis, il provveditore alle opere pubbliche della Toscana arrestato nell’ambito dell’inchiesta sulla «cricca». Il principio da cui prende spunto questo caso è, ahinoi, il solito: «L’economia deve girare». E così i comuni, strangolati dalle finanziarie, si ritrovano con l’acqua alla gola, pronti a vendere i gioielli di famiglia. Tutto parte della lottizzazione della Lagocastello: 200 nuove villette in riva al Lago Inferiore che si affacciano sulle sagome del Palazzo Ducale dei Gonzaga, del castello di san Giorgio e della cupola di sant’andrea, entro la cui fabbrica si custodiscono le preziosissime reliquie del sangue di Gesù, recentemente popolarizzate, fra i non fedeli, dalle storie new age sul sacro Graal.
Una cornice di rara bellezza, dove i valori artistici di Filippo Juvarra e del Mantegna si iscrivono in un habitat lacustre prezioso, fra uccelli migratori, aironi e fiori di loto.
È su queste sponde aggraziate da salici piangenti e ibisco che il costruttore Antonio Muto della Lagocastello avrebbe voluto erigere le 200 nuove villette con vista sulla Basilica di Sant’Andrea. Una legittima decisione d’impresa, d’altronde, avallata da una concessione edilizia del 2005, quand’era a guida dell’amministrazione il sindaco di centro sinistra Gianfranco Burchiellaro. Fra lo sdegno di cittadini e intellettuali, tuttavia, fa marcia indietro il sindaco seguente, del Pd, Fiorenza Brioni. Nel frattempo, inoltre, la Soprintendenza, nel 2008, tre anni dopo, cioè, il rilascio della concessione edilizia, vincolava l’area. La faccenda finisce in tribunale: Muto si sente danneggiato, impugna il provvedimento della Soprintendenza e minaccia di chiedere danni al Comune per 80 milioni. Una richiesta di risarcimento in grado di mettere in ginocchio l’amministrazione. Mentre il Tar di Brescia deve decidere in merito alla legittimità del vincolo d’inedificabilità della Soprintendenza, si attiva un altro ricorso presso il Consiglio di Stato in merito alla decisione relativa all’obbligo di sottoporre a Valutazione d’impatto ambientale (Via) le villette, a fronte del pregio della zona di lottizzazione. La Via, in pratica, potrebbe salvare la sponda del Lago Inferiore, indipendentemente dalla legittimità dei vincoli della Soprintendenza. La questione, nel frattempo, passa, nella primavera di quest’anno, al neosindaco del Pdl Nicola Sodano. Il nuovo primo cittadino, anche per evitare i danni, cambia nuovamente rotta e sembra, forse, più propenso a lasciare che la Lagocastello finisca i lavori o a mediare sui risarcimenti.
Tutto, infatti, congiura a favore dell’impresa di Muto. Il Consiglio di Stato, infatti, affida una perizia proprio al neoarrestato Fabio De Santis il quale conclude che, per le villette, non è necessaria la Via. Il Comune sembra spacciato: se si dà il via alla lottizzazione, per risparmiare l’esoso risarcimento richiesto dalla Lagocastello, Mantova rischia di essere depennata dalla Lista Unesco. Questa infamia, d’altronde, già è capitata a Dresda per aver voluto fare un ponte sull’Elba che danneggiava l’immagine storica della città eternata da Bernardo Bellotto. Insomma, Mantova risparmierebbe sui danni a Muto ma pagherebbe in termini di perdita di privilegi e visibilità Unesco.
Lo scorso 5 luglio, infine, ecco la nuova sentenza dei giudici amministrativi che sconfessano le conclusioni di Fabio De Santis. La Via si deve fare, e l’altra sponda del Mincio, rispetto al centro antico, rappresenta un continuum paesaggistico-ambientale la cui protezione è un valore non comprimibile. Mantova, ora, è salva. La Via, infatti, non potrà che bocciare il progetto della Lagocastello, e il Comune è al riparo dalle richieste di risarcimento indipendentemente dalla sentenza sul vincolo d’inedificabilità.
Sulla vicenda di Mantova vedi anche su eddyburg gli articoli del 21/08/2008 (non firmato) e del (12/10/2006 (di Francesco Erbani)
Sono ancora poche le possibilità di lavoro in agricoltura per chi deve partire da zero e la politica dovrebbe farsi carico di agevolare il ritorno alla terra, ora che la ricerca di nuovi stili di vita inverte i flussi migratori fra le città e le campagne. Dovendo raccontarvi il mio percorso culturale e professionale devo premettere che mi ritrovo in una fase della vita in cui credo di avere messo in discussione tante certezze, aprendomi a delle scelte un po’ incerte ma senz’altro molto stimolanti. Non è facile riassumere in poco tempo il percorso di una vita, ma cercherò di farlo in poche parole, soprattutto per lasciare spazio ad altri interventi.
Mi occupo da quasi trenta anni dell’allevamento della vacca da latte e ho trascorso parecchio tempo in un mondo prevalentemente maschile, questo mi ha aiutato a pormi degli obiettivi cercando di migliorare le caratteristiche genetiche e produttive della mia mandria, ma ha anche contribuito ad accettare dei criteri di produzione e allevamento che negli ultimi anni mi mettevano a disagio e mi lasciavano insoddisfatta. D’altronde con tre figli, un marito, i nonni da seguire, l’orto, la stalla, un po’ d’impegno sociale e di attenzione alla politica del quotidiano, grossi spazi di tempo per ripensare o meditare sulla mia professionalità non ne rimanevano.
Soprattutto non ricevevo stimoli, ero uscita dall’università avendo appreso che la vacca da latte è una macchina eccezionale per trasformare erba e foraggi in latte e formaggi, ma le tendenze moderne mi spingevano a produrre grosse quantità di trinciato di mais, e a produrlo con i mezzi più moderni.
Apportando concimazioni chimiche al terreno, e lottando contro le malerbe con l’uso dei diserbanti chimici. Così ho incominciato a ripensare agli anni di studio, alla tesi di gruppo che avevo svolto in Val di Scalve, e mi sono accorta che i risultati del mio lavoro erano già stati superati dopo qualche anno di pratica agricola. Avevo con i miei compagni avviato la bellissima esperienza di gestire per pochi mesi una piccola stalla in cui svezzare con un sistema precoce le vitelle che, degli allevatori esageratamente fiduciosi, ci avevano affidato e alcuni anni dopo, nella mia stalla, ritornavo io stessa a usare il latte di vacca nello svezzamento e abbandonavo il latte artificiale.
La situazione del mercato, le quote, avevano ribaltato in poco tempo i risultati economici della mia tesi. Nonostante un dubbio avesse incominciato a farsi strada nella mia testa, ho continuato a rincorrere indici genetici, morfologici, produttivi, a compiacermi dei risultati ottenuti, però tanto più le mie vacche diventavano produttive più aumentava il divario tra il prezzo del latte e i costi sostenuti per produrlo. Avviata la stalla nel 1980 con una ventina di ettari siamo riusciti negli anni a raddoppiare la superficie coltivata passando dall’agricoltura convenzionale all’integrata, producendo la base foraggera della razione ma dovendo comprare all’esterno una grossa quota di mangimi.
Con la costante ascesa del prezzo dei mangimi, causato in parte dagli effetti climatici e dalle estati siccitose (problemi di aflatossine nel mais) e dalle speculazioni finanziarie nell’anno in cui il petrolio superò i cento dollari a barile, la gestione economica della stalla è diventata sempre più problematica. In questa situazione molti allevatori hanno continuato a credere nella crescita infinita, ad aumentare i capi, altri a chiudere, qualcuno a cercare altre vie. Io cercavo fiduciosa di resistere, un po’ perché ogni tanto guardavo la foto della stalla di brune dei miei nonni che durante i tempi della guerra erano riusciti a far studiare cinque figli mantenendoli al collegio, e un po’ perché ho sempre creduto che la piccola azienda zootecnica costituisca una forma di presidio e di difesa del territorio.
Fu la scelta di mio marito di trasformarci in azienda agrituristica a innescare il primo cambiamento, e a qualificare la nostra attività avviando dei contatti molti positivi con altre aziende.
Come spesso succede l’aprirsi a nuove idee e a contatti con l’esterno arricchisce enormemente il proprio bagaglio culturale e così mentre lui creava un Consorzio Agrituristico e incominciava una collaborazione nel comitato agricolo del Parco Sud, io decidevo di dedicare del tempo all’associazione Donne in Campo e alla creazione di un distretto equo solidale del Sud Milano (DES).
L’incontro con il DES, che ha come sostenitori molti gruppi di acquisto solidali, consumatori che prediligono il biologico, e la mia partecipazione a un seminario di Terra Madre sui cambiamenti climatici e l’agricoltura ecocompatibile, ha poi indirizzato la scelta più recente, e cioè la conversione all’agricoltura biologica.
Questa scelta comporterà da una parte una riduzione del numero di capi per ridimensionare il peso del carico animale sulla superficie coltivata, e dall’altra la ricerca di un diverso sbocco del latte prodotto che in parte verrà probabilmente caseificato e consumato all’interno del distretto. Ma comporterà anche la riduzione della coltivazione del mais, e l’avvicendamento di nuove colture con cui aumentare le produzioni proteiche riducendo drasticamente l’acquisto dei mangimi. Ce la faranno le mie vacche così selezionate negli anni?
Per adesso almeno le asciutte si godono il pascolo e hanno imparato a mangiare l’erba… Il resto sarà una sfida perché se un tempo pensavo che potessero essere biologiche le aziende che territorialmente erano favorite dall’essere isolate dai grandi centri urbani, ora ritengo che il cercare di produrre alimenti biologici all’interno delle fasce perturbane diventi una forma di presidio agricolo di fronte all’eccessiva urbanizzazione e al devastante consumo di suolo. E’ ormai fondamentale creare sinergie con i cittadini più attenti e sensibili alla difesa dei beni comuni prima che” la città cancelli la campagna “, come ha recentemente scritto in una sua relazione l’urbanista Edoardo Salzano. Certamente, l’ho capito in questi ultimi mesi andando a visitare aziende biologiche, questa è una scelta che ancora oggi pochi allevatori possono capire, ma certamente molto si potrebbe fare per cercare di diminuire l’uso delle sostanze chimiche in agricoltura, concimi, diserbanti, insetticidi, pesticidi, erbicidi, razionalizzando l’uso dei farmaci e dei presidi sanitari, ma soprattutto molto si deve fare per ridurre l’impatto dei combustibili fossili usati in agricoltura.
L’agricoltura industrializzata, basata sulla chimica, sui combustibili fossili, sui sistemi alimentari globalizzati, che si fondano a loro volta sui trasporti ad alta intensità energetica e a lunga distanza, ha un impatto negativo sul clima. I sistemi agricoli multifunzionali e biodiversi e i sistemi alimentari localizzati sono essenziali per garantire la sicurezza alimentare in un’era di cambiamento climatico. Le battaglie di Vandana Shiva per difendere i diritti dei contadini indiani nel continuare a prodursi le loro sementi, nel rifiutare le colture OGM e nel richiedere l’accesso all’acqua, non sono poi così lontane dalle nostre realtà, perché tutti i difetti delle monocolture industriali si stanno evidenziando ormai sempre di più. Il diffondersi della diabrotica da una parte, e la moria delle api dall’altra sono segnali preoccupanti di uno squilibrio creato dalla diffusione del seme conciato con prodotti dannosi all’ambiente e il cui uso, è dimostrato, è assolutamente inutile adottando tecniche agronomiche appropriate e il ripristino delle rotazioni colturali.
La direttiva nitrati, che in Italia come sempre si cerca di rimandare, ci impone delle riflessioni profonde sui metodi di allevamento, e sulle scelte programmatiche che hanno teso ad accorpare e a ingrandire le aziende agricole dimenticando nozioni fondamentali che impongono il rispetto degli equilibri tra la fertilità della terra, il suo sfruttamento e la densità di animali allevati. Ripensando agli anni dell’Università ricordo alcuni insegnamenti fondamentali ma l’esperienza più significativa è stata senz’altro quella delle tesi di gruppo. Ci insegnò a lavorare insieme, a progettare il piano di sviluppo della Comunità Montana, a rapportarci con gli allevatori, a far uscire dalla facoltà i docenti più disponibili e portarli sul territorio, a misurare le nostre nozioni sulle consuetudini delle pratiche agricole tradizionali, un’esperienza unica che non credo sia paragonabile al tirocinio che venne poi proposto agli studenti prima di laurearsi.
Se dovessi dare un consiglio ai ragazzi che studiano oggi agricoltura, li inviterei a rendersi più partecipi per difendere i beni comuni che l’amministrazione pubblica e la politica governativa continua a sacrificare in nome di un progresso e uno sviluppo che emargina i più deboli e arricchisce sempre gli stessi. Aria, terra, acqua, elementi fondamentali per garantire il vostro futuro sono sempre più mercificati.
L’aria sempre più inquinata, la terra consumata, l’acqua privatizzata, non scordiamoci che l’agricoltura, con le attività forestali, è indispensabile alla sopravvivenza umana, occorre garantire nuovi spazi e con coraggio avvicinarsi alle attività agricole.
Vorrei concludere con un commento di Carlin Petrini che proprio all’inaugurazione dell’edizione di Terra Madre del 2008 più o meno disse: “Se l’economia mondiale è messa in crisi da meccanismi che hanno premiato virtuosismi finanziari e accentuato i problemi della carenza di cibo e il dramma di intere popolazioni, è attraverso una nuova rivoluzione industriale che si potranno dare nuove risposte alla crisi dei modelli di sviluppo fin qui proposti, ma questa rivoluzione sarà fatta dai contadini di tutto il mondo che produrranno beni non effimeri riportando la terra e le sue risorse al centro dell’attenzione.”.
Da Cascina Isola Maria.