Vittorio Sgarbi, Andrea Carandini ed altri fans del direttore generale per la valorizzazione dei beni culturali, Mario Resca, ci spiegano in questi giorni perché i Bronzi di Riace possono viaggiare.
Essi si guardano bene, tuttavia, dallo spiegare per quale ragione dovrebbero farlo. Ma è proprio quello il punto. Il problema vero del circo delle mostre-evento non è quello della tutela delle opere, che si può e si deve assicurare caso per caso respingendo sia le impuntature dei conservatori, sia gli (assai più frequenti) abusi dei politici. Il problema vero è quale sia lo scopo, il beneficio, il senso ultimo di questa insensata «circuitazione di opere-icona» (eloquentissima perla di burocratese made in Resca).
Se i Bronzi di Riace partissero domani per un tour mondiale non ci sarebbero vantaggi per la conoscenza (si tratterebbe di un’operazione di marketing, non dell’occasione per rendere accessibile ad un vasto pubblico i risultati di una ricerca scientifica) e non ci sarebbero vantaggi per l’educazione pubblica (il concetto stesso dell’ostensione del singolo «capolavoro assoluto» è profondamente diseducativo e culturalmente desertificante).
Se poi il problema è che i visitatori a Reggio Calabria sono pochi, come si può affrontarlo mandando i Bronzi in tournée, piuttosto che — per dirne una— rifacendo la Salerno-Reggio? E chi può davvero pensare che se, poniamo, un canadese vedesse i due Atleti a Toronto, il giorno dopo correrebbe a comprare un biglietto per la Calabria? Il punto non è, dunque, stabilire se i Bronzi siano fragili o meno, ma comprendere che la costruzione del futuro non può passare attraverso la cannibalizzazione di un passato glorioso.
«Le spese di queste disposizioni saranno pagate dal territorio, che continua ad essere oggetto di autentici attentati. Penso all’imminente piano casa: chi potrà seguire le attività dei cantieri e assicurare che non vengano distrutti beni archeologici? Non siamo più in grado di svolgere il compito istituzionale per il quale siamo stati assunti. Cioè vigilare perché il patrimonio non visibile, quello ancora interrato, non venga cancellato o danneggiato... La prospettiva è il blocco totale del nostro lavoro».
A parlare, con evidente emozione nella voce, è Giorgia Leoni, presidente della Confederazione italiana archeologi, trecento iscritti tra i circa 30.000 professionisti che si calcola svolgano questo lavoro in Italia in modo continuativo (mancano cifre ufficiali poiché non esistono albi professionali). L’universo dei Beni culturali e la salvaguardia dei nostri tesori storico-culturali e paesaggistici si scontra ancora una volta con i tagli della Finanziaria. I funzionari del ministero assunti come archeologi e incaricati in massima parte di funzioni ispettive (anche qui si tratta di trecento persone) rischiano di non poter più lavorare. Né potranno farlo i loro collaboratori. In base all’articolo 6, comma 12, della legge vengono aboliti i rimborsi della benzina per gli spostamenti con mezzi privati per raggiungere i cantieri da controllare: grandi opere come le metropolitane urbane o la Tav, oppure piccoli interventi di privati nelle zone agrarie, i nuovi impianti eolici che presto dilagheranno in Puglia o in Molise, gli interventi per la viabilità (autostrade e strade provinciali o comunali).
Al taglio dei rimborsi segue anche un’altra precisazione: non sarà riconosciuta alcuna indennità di responsabilità civile nel caso di incidenti, se qualche funzionario dovesse comunque usare la propria automobile. Dunque nessuna copertura assicurativa. Spiega ancora Giorgia Leoni: «In teoria dovremmo usare i mezzi pubblici. Cioè tram, treni e bus. Non c’è problema se si deve raggiungere una zona urbana. Penso ai cantieri della metropolitana a Roma, per esempio, o a quelli milanesi, napoletani, fiorentini. Il nodo è tutto quel vastissimo territorio nell’interno della Penisola che costituisce il cuore del nostro paesaggio. Lì i cantieri agirebbero indisturbati senza le nostre ispezioni, che possono essere concordate o improvvise proprio per scongiurare guasti, vandalismi, ruberie, occultamenti. Non parliamo di clamorose cifre. I rimborsi, nella media, non superano i 20-30 euro mensili per funzionario». Immaginando, per abbondanza, più di 50 euro al mese per 300 funzionari, non si superano i 200 mila euro annui.
È stato il segretario generale del ministero Roberto Cecchi il 28 luglio a vietare i rimborsi. La prima circolare metteva ufficialmente al riparo i dipendenti dei Beni culturali da quelle restrizioni («questa amministrazione ha necessità di continuare a svolgere, senza interruzioni le proprie funzioni, previste da norme di rango costituzionale e ordinario, di tutela e salvaguardia del patrimonio culturale soprattutto attraverso lo svolgimento di una puntuale e intensa attività ispettiva di vigilanza e controllo estesa a tutto il territorio nazionale. Tale attività, considerate le esigenze di necessità e urgenza degli interventi ispettivi di verifica, che non possono sempre essere effettuati con le automobili di servizio, e tenuto conto dell’inaccessibilità di molti luoghi del territorio da parte dei mezzi di trasporto pubblico, viene effettuata anche mediante l’utilizzo del mezzo proprio da parte del personale preposto»). Seguiva la raccomandazione di ricorrere alle auto private solo in «caso di urgenza e con autorizzazione». Ma il 28 luglio, con poche e secchissime righe, lo stesso Cecchi ha sospeso la circolare vietando di fatto i rimborsi e l’uso dei propri mezzi, togliendosi però la soddisfazione di ricordare che a suo avviso la conversione in legge della Finanziaria non aveva alterato l’articolo 6 comma 12 che esenta dal divieto di rimborso chi ha compiti ispettivi. Voci interne al ministero assicurano che Cecchi sarebbe stato autorevolmente e insistentemente «convinto» dai vertici politici (lo stesso ministro Sandro Bondi?) a fare marcia indietro per evitare l’ennesima collisione col ministro per l’Economia, Giulio Tremonti.
Sta di fatto che fino a pochi giorni fa Cecchi, come dimostra la sua prima circolare, sottoscriveva un testo che, letto oggi, appare come un pieno sostegno alle rivendicazioni degli archeologi.
La categoria è compatta, preoccupatissima. E sempre meno motivata: i trecento archeologi ministeriali hanno un’età media elevatissima (53 anni) e chi va in pensione non viene sostituito pe r mancanza diturn over. La retribuzione, al massimo della carriera di funzionario (dirigente diventa solo chi è sopr i nt e ndent e ) non s uper a i 1.700 euro netti nonostante laurea, specializzazioni, dottorati e mille responsabilità sia tecniche che civili (non è facile decidere la sospensione di un lavoro in un cantiere, occorre una relazione approfondita e scientificamente ineccepibile, pena i ricorsi al Tar).
Avverte Rita Paris, archeologa della Soprintendenza speciale archeologica di Roma, direttore del museo di Palazzo Massimo ma anche responsabile della tutela dell’area dell’Appia Antica: «Siamo costretti a incrociare le braccia, la nostra categoria smetterà semplicemente di lavorare. Prendiamo il mio caso. Io devo controllare continuamente il funzionamento e il lavoro del personale alla Villa dei Quintili, a Cecilia Metella, a Capo di Bove. E poi ci sono i cantieri, inclusi quelli stessi della Soprintendenza sui quali vigilare. Non potremo più farlo: anche mettendo da parte i rimborsi, senza la copertura assicurativa io arriverei in macchina come un clandestino. Usare i mezzi pubblici è impensabile, in quelle zone archeologiche non esistono. La situazione è gravissima. Ma evidentemente così non appare ai vertici del mio ministero...».
In questo caso si può proprio dire che il cuore batte dove il dente duole. E duole molto a Ponte San Pietro, nel Bergamasco, dove si cerca di salvare un’area verde e una villa settecentesca, oppure a Pavia, con la bella piazza Castello che rischia di subire l’oltraggio di un parcheggio interrato, o ancora a Lonate Pozzolo, su cui incombe il progetto della terza pista di Malpensa, da fare sconvolgendo un’antica strada nella foresta. E per Milano c’è Villa Litta ad Affori da tener presente, con la sua meravigliosa biblioteca rionale insediata in stanze affrescate e magistralmente restaurate, in cui ci si sente protagonisti di un altro tempo, mentre gran parte del resto dell’antico palazzo è in condizioni di incomprensibile abbandono.
A metà del cammino i risultati sono parziali ma già interessanti, e si può comunque continuare a votare fino al 30 settembre per esprimere un’opinione e far sentire la propria voce. Sono 11mila le segnalazioni che riguardano la Lombardia arrivate al Fai per il censimento «I luoghi del cuore», 60mila a livello nazionale. E nella nostra regione i luoghi più amati da salvaguardare sono non solo quelli che piacciono per la loro bellezza ma soprattutto quelli minacciati da speculazioni che rischiano concretamente di stravolgere e snaturare per sempre siti storici e ambientali. I cittadini non vogliono e lo dicono così, mandando una segnalazione al Fai, impegnato nella quinta edizione del censimento.
Fino ad ora nella classifica lombarda al top delle segnalazioni si trovano l’Isolotto e l’area di Villa Mapelli Pozzi a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo: il primo «Luogo del cuore», una delle ultime aree verdi del Comune, dove fioriscono otto specie di orchidee spontanee e si vorrebbero edificare 38 villette, ha raccolto 1.691 voti; il secondo, villa settecentesca che rischia di essere compromessa da un insediamento commerciale di 9mila metri quadrati, 1.668. Ma c’è anche, al terzo posto con 1.398 segnalazioni, il castello Visconteo di Pavia, di fronte al quale si vuole costruire un parcheggio interrato di tre piani. Mentre al quarto - 1.166 voti - c’è una strada poco conosciuta, antico collegamento tra Lonate e la frazione Tornavento, che si immerge in una foresta ancora intatta dove i mezzi a motore non hanno accesso: è via Gaggio, che potrebbe essere spazzata via dalla terza pista del vicino aeroporto.
Al quinto posto della classifica arriva anche Milano - 781 voti - con Villa Litta Modignani ad Affori, patrimonio cittadino da salvaguardare che necessita di interventi di recupero urgenti. E un altro scempio che potrebbe avvenire è la distruzione del romantico paesaggio di brughiera (gli inglesi se lo terrebbero ben stretto) compreso tra Senna Comasco, Capiago, Cantù e Orsenigo. Destinato a sparire se venisse realizzata la variante fuori terra del secondo lotto della nuova tangenziale di Como, dicono i cittadini, che hanno segnalato la volontà di mantenere intatto questo luogo naturale.
Chi vuole votare il "suo" posto del cuore lo può fare fino alla fine di settembre compilando le cartoline nelle sedi Fai o nelle filiali di Intesa San Paolo, partner in questa avventura, e imbucandole; ma anche visitando il sito, oppure con Messenger e su Msn.
Rieccoli. Erano stati presentati il 29 dicembre come «progetti aggiuntivi» a quello dell’ospedale al Mare al commissario Vincenzo Spaziante. Una darsena davanti alla spiaggia di San Nicolò e il Monoblocco a uso turistico. Accantonati dopo le proteste. Adesso sono di nuovo sul tavolo, vero asso nella manica delle tre imprese che hanno acquistato l’ex Ospedale (Mantovani, Condotte, Est Capital). Unico modo, sembra, per evitare la bancarotta del Comune.
Nei giorni scorsi il rappresentante della cordata che ha acquistato l’ex Ospedale al Mare, l’ingegnere Piergiorgio Baita, ha fatto cortesemente sapere a Ca’ Farsetti che non ha intenzione di pagare le bonifiche per la «sorpresa» amianto trovata sotto i terreni dell’ospedale. «Si è scoperto che l’ospedale è più inquinato di Marghera», dice un addetto ai lavori. Costi della bonifica, circa 10 milioni che le imprese non intendono pagare. Se non pagano, il rogito slitta e si blocca tutto. Il Comune non può incassare i soldi per il Palazzo del Cinema e i 40 milioni di euro che ha già messo in bilancio. Dunque, si chiude per bancarotta e arriva il commissario. Una situazione drammatica. Chi ha venduto un terreno senza farci le analisi? Chi lo ha acquistato senza sincerarsi che fosse a posto? E, ancora: chi ha messo in piedi un progetto da centinaia di milioni di euro senza le garanzie appropriate? Materia di inchieste e approfondimenti futuri.
Intanto il tempo stringe, c’è da far quadrare un bilancio legato mani e piedi alla grande operazione immobiliare. Chi pagherà i 10 milioni della bonifica? Il Comune per ora non ha intenzione di far causa all’Asl, la Est Capital di Gianfranco Mossetto (alleata con Mantovani e Condotte) non ha intenzione di vedere sfumare l’affare. Ed ecco l’offerta, ancora non ufficiale, esaminata ieri sera durante un vertice a Ca’ Farsetti dal sindaco Giorgio Orsoni con i suoi tecnici. La situazione si sblocca, dicono in sostanza le imprese, se arriva il via libera ai due «progetti aggiuntivi». La grande darsena in mare, attaccata al molo sud del Lido, davanti alla spiaggia libera di San Nicolò. Occorre scavare e realizzare un porticciolo. Un grande business. Che andrebbe unito al «cambio d’uso» del Monoblocco. Il Comune aveva rassicurato i comitati che quell’edificio sarebbe rimasto a uso sanitario. Ma nel mezzo di nuova residenza, hotel, piscine un centro sanitario potrebbe stonare. Meglio spostarlo altrove e trasformare anche il Monoblocco in appartamenti per turisti. Secondo business.
Ma le proteste al Lido aumentano, anche sull’utilizzo della grande area verde della Favorita, anche questa venduta ai privati. Che si fa? Il sindaco Orsoni ha annunciato una decisione nei prossimi giorni. Ma la strada è quasi obbligata: via libera all’ennesima grande opera affidata a Mantovani, Condotte, Est Capital per «scongiurare» la bancarotta del Comune. Il cui peso politico è in calo, a vantaggio di quello delle grandi imprese.
Il Business
Mantovani pigliatutto
Imprese pigliatutto. Mantovani, Sacaim, Est Capital, Condotte. Tutti nelle loro mani i grandi progetti dell’area veneziana. La Mantovani al Mose, ma anche al tram, al passante, a Fusina, alla nuova piattaforma in mare voluta dal Porto. Sacaim al palazzo del Cinema e ai terminal. Est Capital, la finanziaria dell’ex assessore Mossetto sulle villette al Forte di Malamocco, Des Bains ed Excelsior, Ospedale al Mare. (a.v.)
Una manovra correttiva, quella approvata definitivamente con il voto di fiducia dalla Camera dei deputati, iniqua anche dal punto di vista ambientale, che tenta di rendere impotenti le amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente e del paesaggio e fornisce una serie di strumenti alle cricche e ai furbetti che vogliono depredare il territorio e contribuire ad imbruttire ancora di più il nostro Bel Paese: lo sostiene il WWF che aveva chiesto a Camera e Senato di cambiare le disposizioni più discutibili.
Sono almeno 6 i grimaldelli per i ladri di territorio segnalati dal WWF: i tagli ai parchi; l’accatastamento delle case fantasma, che rischia di aprire la porta al terzo condono edilizio; le conferenze di servizi con il silenzio-assenso mascherato anche per la pronuncia delle autorità ambientali; la messa all’angolo dei soprintendenti sulle autorizzazioni paesaggistiche; la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) e le Zone a burocrazia zero nel Mezzogiorno assediato dalle mafie che, azzerando i controlli, rischiano di amplificare i meccanismi, già esistenti, di anarchia territoriale.
Messi insieme fanno sì che con l’effetto-Manovra l’Italia diventi un Paese non solo meno ricco dal punto di vista economico-finanziario ma anche dal punto di vista ambientale.
Nello specifico, gli atti "contro natura" contenuti nel decreto legge 78/2010 prevedono:
Tagli ai parchi
Ammonta a circa 54 milioni di euro il finanziamento destinato prima della manovra ai 23 parchi nazionali e alle 13 riserve naturali dello Stato. Con il dimezzamento dei finanziamenti per gli enti vigilati dallo Stato gli enti parco non potranno presidiare più il territorio tutelato e garantire l’integrità a difesa della biodiversità dagli attentati degli speculatori e dei bracconieri. Il WWF Italia chiede nel primo provvedimento utile di reintegrare il finanziamento previsto per il 2010, come auspicato e richiesto dallo stesso Ministro Prestigiacomo.
Case fantasma
Sono 2.868.000, secondo l’ultimo censimento dell’Agenzia del Territorio le unità immobiliari non accatastate, e solo meno del 10% sarebbero in regola dal punto di vista urbanistico, ma il Governo non spiega cosa succederà a coloro che a fine anno, avendo compiuto un abuso sostanziale in violazione delle nome urbanistiche, accederanno, autodenunciandosi, alla sanatoria fiscale. Il meccanismo innescato dal Governo rischia di costringere l’autorità pubblica a concedere l’ennesimo condono edilizio annunciato. Il WWF chiede di chiarire che gli abusi non sono tollerati e che questi vengano abbattuti.
La museruola alla tutela
Se le amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente, della pubblica incolumità e della salute non rendono il proprio parere esplicito nei tempi ristretti delle conferenze dei servizi, tale silenzio sarà interpretato come tacito consenso ed i Soprintendenti, già impotenti da anni per i tagli del personale, dovranno fornire l’autorizzazione paesistica a comando. Per il WWF erano più che sufficienti le norme di semplificazione vigenti (legge n. 241/1990), a fronte delle necessità ineludibile di controllo e vigilanza sul territorio per tutelare adeguatamente i diritti alla salute e all’ambiente garantiti dalla Costituzione.
Mano libera sul territorio
Il passaggio dalla DIA - Dichiarazione di Inizio Attività, alla SCIA – Segnalazione Certificata di Inizio Attività consente al cittadino, eliminando anche il filtro della validazione di un professionista, di procedere in totale autonomia eludendo qualsiasi autorizzazione pubblica e, quindi, ogni controllo preventivo. Diventa quindi illusorio, visto lo stato dei controlli in Italia, verificare ex-post cosa sia realmente avvenuto (anche se sulla carta si escludono le aree vincolate). Ciò è valido anche per le Zone a burocrazia zero situate, tra l’altro, in un’area a rischio come il Mezzogiorno. Per questo il WWF ha sostenuto e sostiene che era più che sufficiente la DIA.
Treni merci addio. L’Italia si avvia a conquistare anche il record di primo paese d’Europa senza un servizio cargo pubblico su rotaia. Il traguardo non è lontano e le Ferrovie fanno di tutto per raggiungerlo il più in fretta possibile. I dati forniti al Fatto dagli operatori del settore sono molto negativi. Secondo Giacomo Di Patrizi, presidente di FerCargo, l’associazione delle imprese del trasporto merci, dal 2006 al 2010 il traffico è sceso da 68 milioni di treni al chilometro a 42 milioni. Nel 2009 il calo è stato superiore al 30 per cento e quest’anno è previsto un altro arretramento dell’8. La quota di traffico su ferro è ormai appena il 6 per cento del totale delle merci trasportate, la metà della media europea. Su questa Waterloo dei binari pesa ovviamente la crisi economica, ma l’arretramento è ormai strutturale, frutto soprattutto di una scelta deliberata dalle Fs assecondata, di fatto, dal governo. Sono anni, per la verità, che la divisione merci Fs zoppica vistosamente, ma il fenomeno ha avuto un’accelerazione negli ultimi tempi ed è andata del tutto delusa la speranza che l’arrivo di un “ferroviere” alla guida dell’azienda dei treni, un tecnico come Mauro Moretti, potesse invertire la tendenza e riportare gradualmente anche il cargo italiano verso livelli europei. Alla fine del primo mandato e all’inizio del secondo, il bilancio dell’era Moretti per le merci è in netto passivo. Il nuovo amministratore tratta il settore come una cenerentola, peggio, come una zavorra di cui liberarsi perché non fa utili, proprio come il trasporto pendolari e quello passeggeri sulle lunghe percorrenze. Per Moretti, e per il governo che gli lascia mano libera, solo i treni redditizi, i Freccia Rossa , Argento e similari, sono meritevoli di attenzione. Con buona pace della natura pubblica delle Fs, azienda di proprietà del ministero dell’Economia, tenuta all’erogazione di un servizio universale per i cittadini e le merci.
IN CONTROTENDENZA
Sintetizza il presidente FerCargo: “Ci stiamo avviando verso l’estinzione del trasporto merci su ferro; il governo consente al gestore dell’infrastruttura, la società Rfi delle Ferrovie, di ridurre il numero di scali disponibili e di porre maggiori vincoli e pretendere prezzi più alti per l’accesso a quelli rimasti disponibili”. Durissima anche Assoferr, l’associazione degli operatori ferroviari intermodali: “Le Fs pensano solo all’Alta velocità passeggeri che sta progressivamente distruggendo il sistema ferroviario merci italiano sia convenzionale sia intermodale”. Per Giovanni Luciano, segretario trasporti Cisl, “il trasporto merci è dimenticato proprio nel momento in cui in Europa tutti puntano sui trasporti puliti”. Moretti finora ha affrontato il tema con una logica più da contabile che capo azienda. Invece di riorganizzare il servizio per renderlo più efficiente e conveniente, si è concentrato sul contenimento delle perdite, obiettivo senz’altro lodevole, ma strategicamente asfittico. Rispetto a un rosso di 300 milioni e passa di euro all’anno, ora la divisione merci Fs viaggia sui 200. Ma dal punto di vista dell’economia dei trasporti non è un gran risultato, perché sull’altro piatto della bilancia ci sono migliaia di imprese costrette a trasferire le merci dai treni alla strada con costi maggiori.
IL MOMENTO DEI TIR
Da aprile a queste aziende le Fs negano la possibilità di spedire singoli carri costringendole ad organizzare un treno completo. Ovvio che soprattutto le medie e piccole abbiano rinunciato ai binari e obtorto collo si siano rivolte ai padroncini dei camion e dei tir. Ancora nessuno sa quanto costerà al sistema Paese questo spostamento forzoso anche in termini di sicurezza sulle strade. Di certo, però, il costo economico complessivo sarà di gran lunga superiore dei 100 milioni di euro di minori perdite incamerati dalle Fs. E mentre le Ferrovie si ritirano dal mercato italiano, comprese le aree ricche del Nord, al loro posto si fanno avanti i colossi europei che fiutano l’affare, da Deutsche Bahnhof, le ferrovie tedesche, a Sncf, i francesi, alle ferrovie svizzere. Nel Centro e nel Sud, inoltre, è tutto un proliferare di nuove società cargo private, almeno una decina, impegnate a occupare il vuoto lasciato dall’azienda di Moretti.
L’impostazione del capo Fs, però, piace all’azionista unico, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che infatti tace e quindi acconsente. Il governo fa anche di peggio: non solo si rende complice della ritirata dai binari, ma favorisce in tutti i modi i padroncini dei camion. Molto più di altri esecutivi del passato, il governo Berlusconi ha scelto la strategia della gomma foraggiandola con la bellezza di circa un miliardo di euro di incentivi all’anno. A cui di recente ha aggiunto un altro regalo, infilato quasi di soppiatto nel decreto per la privatizzazione della compagnia di navigazione Tirrenia.
TARIFFE MINIME
Il dono si chiama “provvedimento sulle tariffe minime” e permette alle società di trasporto e ai camionisti di fissare un prezzo al di sotto del quale non è consentito scendere. In pratica è un assist alle intese di cartello, contro gli interessi di chi spedisce le merci. Il giorno prima dell’approvazione il presidente dell’Antitrust, Antonio Catricalà, di solito prudente e misurato, è arrivato addirittura ad invitare i parlamentari a non votare a favore del testo preparato dal governo. E anche Confindustria ha criticato la scelta, mentre il senatore Luigi Zanda (Pd) se l’è presa con il malcostume di mimetizzare provvedimenti importanti come questo all’interno di altri testi.
Il sottosegretario alle Infrastrutture, Bartolomeo Giachino, ha sostenuto la scelta pro-padroncini con un’argomentazione da antologia: “L’Italia è un paese in cui l’autotrasporto dispone di un potere e di armi che nessun altro ha nell’economia”. Come i camionisti ai tempi del colpo di Stato di Pinochet in Cile, insomma. Siccome gli autotrasportatori dell’Unatras stavano minacciando il blocco dei Tir ad agosto, con una botta di coraggio decisioni-sta il governo ha deciso di affrontarli cedendo. Li ha accontentati in pieno, fornendo loro, oltretutto, altre munizioni per presentarsi più forti al prossimo scontro e al prossimo inevitabile ricatto.
La nuova Legge speciale dovrà garantire la realizzazione di nuove infrastrutture, a cominciare dal terminale portuale e dalla sublagunare. Reintrodurre gli sgravi fiscali bocciati dall’Europa e permettere la vendita delle valli da pesca demaniali ai concessionari.
C’è anche questo nelle 40 richieste dei «portatori di interessi» pubblicate ieri sul sito del ministro Renato Brunetta. Una raccolta di proposte che ora potrebbe diventare legge. Ma intanto è scoppiata la polemica. Italia Nostra, associazione per la tutela del territorio che ha da sempre espresso posizioni molto critiche sulla filosofia di questa nuova legislazione, si è vista escludere il suo contributo dall’elenco. «Un atto di scortesia e scorretteza istituzionale», commenta in una lettera inviata al ministro la presidente della sezione veneziana Lidia Fersuoch, «abbiamo presentato il contributo per tempo e non vorremmo pensare a un’esclusione dettata dai rilievi critici alla sua impostazione». La critica di Italia Nostra è che il nuovo impianto legislativo invece di tutelare il territorio potrebbe dare il via ad altre grandi opere, a cominciare proprio dalla contestata sublagunare. Non era questo lo spirito con cui erano nate le Leggi Speciali del 1973 e 1984, ancora in parte inattuate. Oggi il quadro è cambiato dice Brunetta, bisona pensare alla Venezia del futuro. Ecco allora l’elenco delle richieste. Gli industriali di Luigi Brugnaro, l’Autorità portuale di Paolo Costa, la Camera di commercio di Giuseppe Fedalto e la Save di Enrico Marchi puntano sulle infrastrutture. Sublagunare e terminal portuale che il ministro Matteoli è pronto a finanziare.La Curia (Antonio Meneguolo) chiede fondi per la manutenzione del suo patrimonio edilizio, chiese e campanili. Più prudenti i Comitati privati, che invitano a «riflettere bene sulla sublagunare e le sue conseguenze». Venice in Peril Fund (Anna Somer Cocks) ricorda che anche con il Mose il problema delle acque potrebbe non essere affatto risolto visto l’aumento del livello dei mari. «La manutenzione di una città sull’acqua», scrive, «è la priorità».
I gondolieri (Aldo Reato) chiedono tutela per la tradizione e il divieto del traffico pesante nei rii. Il presidente degli architetti Antonio Gatto (membro della Salvaguardia) chiede di valorizzare la commissione di cui fa parte. Gli albergatori (Ava) mettono in guardia dall’aumento del turismo e invitano a rottamare i vecchi hotel e a mettere un freno alla trasformazione della città. Dall’Ance (associazione costruttori) viene un invito a valorizzare le piccole imprese locali, dopo anni di monopolio del concessionario Consorzio Venezia Nuova. Ca’ Foscari punta sul clima e la ricerca per nuove energìe.
L’associazione dei notai (Carlo Bordieri di Jesolo) chiede che venga trasferita ai concessionari la proprietà delle valli da pesca. Battaglie degli ambientalisti di decenni spazzate via. «Con il Mose», insiste il rappresentante di Confagricoltura Franco Fantin, «l’apertura delle valli non serve più». Tra i contributi mancano quelli della Regione e del Comune («Ma con Orsoni siamo in piena sintonia», assicura Brunetta. La sintesi e la proposta saranno presentate in settembre. Di soldi però non si parla più. Assicurati i finanziamenti al Mose (5 miliardi il costo delle dighe, manutenzione esclusa), non c’è traccia dei 42 milioni di euro promessi tre anni fa dal governo al Comune per la manutenzione della città.
CORTINA D’AMPEZZO (Belluno) — Sono patrimonio dell’Unesco, ma a prezzi stracciati. Le Dolomiti, le montagne di Cortina, tra le vette più famose dell’orizzonte alpino, santuari della storia dell’alpinismo e mete classiche del turismo estivo e invernale, valgono anche meno di un posto macchina, nel centro ampezzano. Quassù il mattone è il più caro d’Italia, con prezzi delle case da capogiro, oggi realisticamente tra i 17 e i 23 mila euro al metro quadrato, ma la roccia, per quanto blasonata e sublime, che si infiamma nell’enrosadira all’alba e al tramonto, è in liquidazione.
Ecco allora che tra i beni demaniali che lo Stato intende dismettere per trasferirli agli enti locali a cominciare dai Comuni, il più caro, si fa per dire, è il monte Cristallo, valutato 259 mila euro, ma Tofane e Rocchette assieme già scendono a 175 mila e il Faloria con il Sorapiss a 22 mila. La Croda del Becco, il Col Rosà, il Lavinores e la Croda d’Antruiles, un quartetto nel Parco d’Ampezzo, valgono insieme 11.929 euro, più o meno il prezzo di un’utilitaria. Fatti i conti un appartamento di 100 metri quadrati a Cortina, se ti va molto bene, lo paghi un milione e 700 mila euro.
I criteri che l’agenzia dello Stato ha applicato per dare un valore d’inventario alle montagne sono cose per gli addetti ai lavori, fatto sta che per alcune cifre si spacca addirittura l’euro a metà. «Ci interessa solo che ritornino ai legittimi proprietari — dice Andrea Franceschi, sindaco di Cortina —. Noi le montagne non dobbiamo pagarle, ci verranno attribuite a titolo gratuito e di certo, una volta nostre, non le venderemo, dal punto di vista morale le sentiamo già nostre: che valgano un euro o 100 milioni è la stessa cosa. Credo che Cortina abbia dimostrato di saper tutelare il proprio territorio. Probabilmente sono finite nel calderone di altri beni di proprietà demaniali, come caserme, stazioni, immobili dismessi». «La cosa mi colpisce profondamente — ribatte Ernesto Majoni, direttore dell’Istituto culturale ladino delle Dolomiti — capisco che il demanio abbia i suoi metodi per calcolare i valori, ma la cosa ha del grottesco. Questi monti sono patrimonio dell’Unesco, i valori delle nostre montagne non sono misurabili in termini di ambiente, storia, patrimonio culturale, fruibilità turistica. Mettere in mano ai Comuni la possibilità di disporre di questi beni mi preoccupa. Se qualche Comune ha bisogno di far cassa utilizzandoli, magari troverebbe anche chi li compra. Mi auguro che la vigilanza sia attenta».
Sia pur rari e contenuti, non mancano in passato esempi in cui il Comune di Cortina ha venduto zone rocciose: «Per costruire le stazioni in quota della funivia della Tofana, per esempio», conferma Siro Bigontina, vicepresidente dell’Unione dei Ladini d’Ampezzo, coordinatore del comitato che ottenne il referendum per il passaggio di Cortina al Trentino-Alto Adige, che però si dice «molto soddisfatto del ritorno delle montagne in proprietà ad Ampezzo». Ma perché Cortina ha le sue montagne nella «lista della spesa» che lo Stato vuol dismettere, mentre l’Alto Adige e il Trentino no? È Bigontina a spiegarlo: «Si tratta di un’anomalia. La questione si trascina dal primo conflitto mondiale. Fino allora Cortina apparteneva all’Austria e con l’annessione all’Italia le sue montagne sono finite al demanio. Lo stesso è accaduto per il piccolo comune bellunese di Livinallongo. I nostri vicini altoatesini e trentini invece, le hanno riottenute in proprietà quando è stato redatto lo statuto speciale per le Provincie autonome di Trento e Bolzano». Quindi per esempio per le Tre Cime di Lavaredo, il Catinaccio o il Sassolungo il problema non esiste. La loro dignità è salva.
Da quell'anno, cominciammo a temere l'agosto. E le stazioni. Il primo, fino ad allora, era solamente il mese troppo azzurro e troppo vuoto; le stazioni d'agosto erano solo piene di gente sudata e di treni in ritardo; che Bologna simbolo comunista e nodo ferroviario potesse essere sede di un attentato, era venuto in mente solo a Guccini, raccontando di tempi mitologici in cui esistevano anche i ferrovieri anarchici e la loro protesta alla fine veniva deviata su un binario, appunto, «morto».
Il 2 agosto 1980 L'Unità in edizione straordinaria intitolò «Strage fascista», quando si parlava ancora dell'esplosione di una caldaia. Il comune di Bologna, che ricostruì i luoghi esattamente come erano un attimo prima, in tempi di record, mise una lapide con tutti i nomi e l'età dei morti e la intitolò alle vittime del «terrorismo fascista». Avevano ragione sia il giornale che il comune.
Per i morti bambini, vennero piantati degli alberi in un giardinetto in periferia e ognuno aveva una targhetta con il nome del bambino alla base. Adesso quelle targhette non si possono più leggere perché sono cresciute con gli alberi e stanno, piccolissime, molto in alto. E' incredibile quanto velocemente crescano gli alberi.
Appena pochi mesi dopo l'attentato, per ordine di un certo Licio Gelli di cui allora nessuno conosceva l'esistenza, ma la cui P2 collezionava una bella fetta dei vertici delle istituzioni italiane, alti ufficiali del servizio segreto militare (allora si chiamava Sismi) collocarono una valigia piena di esplosivo, sul treno Taranto Milano. I carabinieri, insospettiti, la trovarono. Toh, era lo stesso esplosivo usato per la strage di Bologna e nella valigia c'erano due biglietti aerei internazionali intestati a due neonazisti, un francese e un tedesco. Ma che bravi. Sapevano qual era l'esplosivo. Sapevano che le indagini avevano già individuato gli attentatori materiali e l'ambiente (il loro) che li aveva guidati fino a mettere una valigetta nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna, con un timer di circa venti minuti di tempo, il tempo necessario per scappare. Ma adesso quella scoperta li avrebbe scagionati. Pensavano. Ad organizzare tutta la messa in scena non furono due infiltrati, ma un generale e un colonnello. Vennero scoperti.
Questa era l'Italia di trenta anni fa. Due anni prima Aldo Moro (il più importante uomo politico italiano, che aveva portato il partito comunista nel governo e si apprestava a diventare presidente della Repubblica) era stato rapito dalle Brigate Rosse, tenuto 55 giorni nel centro di Roma e infine ucciso. Pochi mesi prima il più importante uomo politico italiano dopo Moro, Giulio Andreotti, era volato in gran segreto a Palermo per parlare a quattr'occhi con i capi della mafia siciliana e ne era uscito svillaneggiato. Un anno prima, il più importante banchiere italiano, Michele Sindona, che custodiva i denari della mafia, aveva inscenato un finto rapimento per far credere che i comunisti lo volevano morto. Trentacinque giorni prima, il 27 giugno, il volo Itavia Bologna Palermo era stato abbattuto in volo (81 morti) e tutto il governo si era dato da fare per dire che si era trattato di un incidente. Quattro giorni dopo, il 6 agosto, a Palermo era stato ucciso dalla mafia il procuratore capo di Palermo, Gaetano Costa. Si era fermato ad una bancarella di libri usati, ma lo seguivano due killer in motocicletta. Trentotto giorni dopo, il dieci settembre l'amministatore delegato della Fiat, Cesare Romiti annunciò che voleva licenziare 15.000 operai della Fiat, accusati di essere indisciplinati, praticamente dei terroristi, e di lavorare troppo poco. Poi a novembre arrivarono i tremila morti del terremoto in Irpinia. E voi direte: sì, ma quello fu un fatto naturale. Vero, ma è anche vero che fu l'occasione che permise alla camorra napoletana di acquistare una bella fetta di potere economico nel meridione.
Che anno fu! Che si sono persi, per sapere di che pasta è fatta l'Italia, quelli che nel 1980 non erano nati o non avevano l'età per ricordare! Io mi ricordo che il capo del governo era allora Francesco Cossiga (poi diventato addirittura presidente della Repubblica), che nel corso degli anni si fece conoscere per stravaganti affermazioni. Che l'ubicazione della prigione di Moro era a conoscenza dei vertici del Pci e della Cgil, (lui all'epoca era il grottesco ministro degli Interni che avrebbe dovuto salvare il prigioniero); che i pubblici ministeri antimafia erano dei cretini pericolosi, che la massoneria era una meritevole associazione, che lui da giovane aveva preso le armi per lottare contro il comunismo, e che la strage di Bologna era stato un banale incidente di percorso nel trasporto d'armi del terrorismo palestinese.
Nel 1980 scoprimmo che, qui da noi, si poteva mettere una bomba in una stazione ferroviaria nel giorno in cui tutti prendono il treno per andare in vacanza. E non sapevamo che i nostri servizi segreti fecero di tutto per salvare i colpevoli dell'attentato. E ancora adesso lo fanno.
Nel 1992-1993 (quindi appena dodici anni dopo), visto che c'era stato il precedente della stazione, si pensò che in Italia si potesse andare oltre. Nel giro di soli sette mesi vennero fatte saltare un'autostrada, un quartiere popolare, due chiese storiche, una galleria d'arte a Milano, la più famosa collezione di dipinti a Firenze. Fu la mafia, no? Fu quel contadino analfabeta detto ‘u curtu, no? Non proprio. Vi propongo qui un'istantanea di quei tempi: Notte del 27-28 luglio 1993. Riunione d'emergenza del governo presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Oltre alle bombe, il paese è paralizzato da giorni da uno sciopero generale degli autostrasportatori, le merci scarseggiano nei supermercati. I ministri scoprono che da Palazzo Chigi non riescono a comunicare telefonicamente con l'esterno: tutte le linee sono bloccate... Poco prima è stata data notizia di un'automobile piena di esplosivo parcheggiata in piazza Colonna, a cento metri da palazzo Chigi. La macchina è stata resa innocua da un robot antiterrorismo. Ciampi reagisce con coraggio riconoscendo le vecchie e le nuove mani che guidano l'attacco. Decide allora di partecipare alla commemorazione della strage di Bologna del 2 agosto. Dove, di fronte "a un attacco complessivo a tutti i poteri dello Stato", dirà: «Nessun compromesso è possibile, né con il passato, né con chi cercasse di condizionare l'avvenire. Ce lo impedirebbero i nostri caduti: quelli di oggi, quelli di Bologna del 2 agosto 1980».
Ora che sono passati 30 anni, possiamo dire di essere pacificati? Possiamo andare tranquillamente a Bologna, mettendo nello zaino un mezzo chilo di memoria condivisa? Non credo, se si pensa che quei fatti del 1992-1993 appartengono alla memoria più intima del presidente della Repubblica Ciampi, e non alla memoria collettiva.
Senza governo né a Bologna, né a Roma, con la P2 che ha cambiato nome, sperando che l'agosto passi in fretta e senza danni; così nel 2010 andiamo a Bologna: a risentire la storia dello scoppio, a vedere le facce dei sopravvissuti, i racconti di chi è nato quell'anno, a considerare che posto è mai questo, dove forse saranno i nostri nipoti a sapere la verità.
posto è mai questo, dove forse saranno i nostri nipoti a sapere la verità.
Anche il 25 luglio è passato,ma senza regalarci una sorpresa come quella del 1943. Nonostante il berlusconismo si stia squagliando piuttosto indecentemente. Scaiola, Lunardi, Brancher, Cosentino, Dell’Utri, Bertolaso… Le donne di Papi, l’eolico, la cricca e i massaggi, le dichiarazioni di Ciancimino jr. e Spatuzza, il patteggiamento con lamafia al tempo delle stragi… All’Aquila sono state costruite diciannove new towns tre volte antisismiche, deturpandone irreversibilmente la bellezza paesaggistica al costo di costruzione più alto del mondo, mentre il centro storico, uno dei monumenti importanti d’Italia, è stato abbandonato al destino sancito dal sisma, un mucchio di rovine esposte al vento, al sole, alla pioggia. Regioni e Comuni sono contro la manovra finanziaria. La Fiat licenzia a Termini Imerese e Pomigliano, e delocalizza in Serbia. La disoccupazione giovanile presenta percentuali a due cifre. I tagli rischiano di mettere in ginocchio scuola, Università e sistema sanitario pubblico. Spazio pubblico, interesse pubblico, servizi pubblici; autonomia della cultura, dell’insegnamento e della ricerca; libertà di stampa, di opinione e di espressione artistica sono parole quasi fuori uso.
Berlusconi è al culmine del conflitto d’interessi: occupa da più di due mesi il Ministero per lo Sviluppo economico, che dovrebbe stipulare il nuovo contratto di servizio con la Rai. La misura del prestigio internazionale dell’Italia è data dalle relazioni privilegiate che abbiamo: con la Libia di Geddafi e la Russia di Putin. Il 25 luglio il fascismo non sarebbe caduto, senza l’impatto devastante del bombardamento di San Lorenzo del 19 luglio. E senza l’altro bombardamento di Roma del 24 agosto non ci sarebbe stato l’8 settembre. Oggi non siamo in guerra, ma non c’è mobilitazione politica. Senza battaglia d’opposizione, anche un governo in agonia può durare per sempre. Siamo arrivati al punto che le sorti delle battaglie parlamentari sembrano affidate più alle mosse di Fini, Bongiorno, Granata e Bocchino che a quelle di Bersani o di Di Pietro. Con almanacchi del futuro che spaziano fino ai governissimi, con tanto di formule con o senza Berlusconi. Astrologia e logica alla Don Ferrante, che le usava per non vedere il presente, per non riconoscere la realtà della peste.
Voglio dichiarare tutta la mia simpatia per le «Fabbriche» di Nichi, voglio partecipare alla sua battaglia, ma forse la sinistra non ha bisogno di un leader quanto di un progetto. Vendola da solo non basta se non si compiono chiare scelte di programma. Sia Prodi che Veltroni hanno insistito sull’importanza del programma, ma nella direzione sbagliata, quello di un fragile liberismo di sinistra per di più largamente immaginario. Le liberalizzazioni di Bersani, il «tre più due» spacciato come modello universitario europeo da Luigi Berlinguer, la riforma Bassanini che ha aperto la strada ai contratti privati nel pubblico impiego. Le lenti rosee dei nostri libero sinistri ha impedito loro di prevedere che ne avrebbe usufruito Mario Resca per trasformare il concetto di valorizzazione dei beni culturali in una grottesca insalata turistico-mercantile. In Italia occorre capacità di governo. Con leggerezza, naturalmente: perché quello che dobbiamo progettare non né la crescita industriale né la crescita edilizia, ma la diversa collocazione del nostro paese nel sistema internazionale.
Nel mondo globale, dell’Italia vale soprattutto quello che può mettere in moto la fabbrica dell’immaginazione e i consumi immateriali. Quindi, quello che resta del paesaggio, dei beni culturali e della nostra cultura. Non c’è da costruire ma da restaurare e sostituire, perdendo quantità a favore della qualità. C’è da smettere di guardare dal buco della serratura - come ci propone tutto l’armamentario della tv Rainvest, da Amici al Grande Fratello a Chi? - e ritrovare l’audacia dell’immaginazione creativa. Anche in politica: penso ad una legge come la «285» di Tina Anselmi ed al ruolo fondamentale che ha svolto all’inizio degli anni Ottanta, nell’allora nuovo intervento culturale degli Enti locali. Una mentalità dell’intervento pubblico che sostituisca la cura e la precisione del progetto alla logica della grande opera e dell’intervento speciale. La scelta netta, senza ambiguità di priorità come lavoro, istruzione, ricerca, cultura, innovazione, ambiente, messa in sicurezza del territorio, restauro del paesaggio.
Occorre un progetto coraggioso in cui la maggioranza del paese, che sta soffrendo l’agonia del berlusconismo, possa riconoscersi.
Camminare in silenzio per le strade de L’Aquila, quasi 200 persone venute da fuori, un soldato, due vigili urbani che ogni tanto si dispongono come per tenerti lontano dal rischio di un crollo, e il sindaco, davanti. Indica ma non deve spiegare. Camminare indossando il casco bianco con la scritta “visitatore”, che identifica il nuovo venuto. Ci sono caschi gialli qua e là, una decina. Ogni tanto qualcuno di loro si affianca, indica la porta socchiusa ma intatta di una casa colma di macerie (calcinacci, coperte, indumenti, pezzi di mobili, resti di un bagno, compatti come in una scultura sperimentale) e sottovoce ti dice: questa è casa mia. Lo dice al presente. I cani, all'inizio, ci stavano accanto, ai due lati. Hanno il collare sporco, incollato al pelo, il collare di cani che avevano una casa e un padrone. Adesso sono randagi. Conoscono i luoghi e gli odori, perciò sono miti e stanno il più vicino possibile agli esseri umani.
Ma riconosci i randagi perché non chiedono, non stabiliscono alcun rapporto, si muovono a testa bassa e guardano, cauti, da sotto. Le strade de L’Aquila sono trincee che si fanno più strette. E da quelle trincee si diramano vicoli invalicabili. Vedi i resti di facciate bellissime, ma spaccate nei punti in cui si forma il sostegno dell’edificio. A mano a mano che i passaggi si fanno arrischiati, i cani si premono contro gli umani per non perdere il contatto, però non mendicano. Sanno con sicurezza che questo è un disastro e guardano in basso. C'è uno scambio di poche frasi, quasi senza voce nel corteo di caschi bianchi (“visitatore”) che va avanti fra le macerie. Nessuno dei visitatori si aspettava una distruzione così vasta e così intatta. Pietre levigate dai secoli, di un colore quasi rosa, cadute dall’alto, sono state accostate con ordine ai lati dei sentieri di polvere come tante nature morte.
Distese intatte di distruzione
Lo ha fatto il popolo della carriole, cittadini che prima sono stati cacciati come intrusi o ladri di tombe, e poi hanno sfondato e hanno vinto. Contro chi? Contro soldati, polizia, Protezione civile, che pure erano qui per prestare aiuto. Continui a camminare in un paesaggio di pietre che non finisce. Per un momento resti indietro, da solo, e ti rendi conto del silenzio. I silenzio de L’Aquila lo senti all’improvviso. È un silenzio vuoto, fermo, che riguarda lo spazio e il tempo. Un silenzio che non conoscevo.
Ti guardi intorno. Vedi la distesa intatta di distruzione. Ti rendi conto che, per uno strano effetto della pioggia, del sole, dell’aria, il paesaggio di macerie si indurisce, si radica nella terra, si trasforma in un “per sempre” come Pompei o Ercolano. In questa visita inaspettata, gli abitanti espropriati dalla violenza fisica del terremoto, prima storditi, poi abbandonati, si muovono come le sole guide autorizzate delle macerie. Contro ciò che ti hanno fatto credere giornali e telegiornali, le macerie sono tutto, la distruzione ha una forza che non è stata toccata. Meno che mai dai nuovi villaggi, dalle nuove casette dotate di Tv ma prive di ogni struttura sociale (ambulatorio, scuola, farmacia, bar). Sono altrove, sono raggiungibili – anziani o no –solo con mezzi propri. Le macerie sono L’Aquila. L’Aquila è solo macerie.
Sulle macerie adesso arrivano le cartelle delle tasse. E i mutui delle macerie sono tornate a scadenza. Sono tornati anche i cittadini che erano stati sistemati negli alberghi della costa a spese dello Stato. Ora c’è la crisi, basta spese, basta albergo. Le case dei nuovi villaggi ormai sono occupate, dopo la consegna con cerimonia. D'ora in poi non si dice più “protezione civile”. Si dice destino. Chi ha avuto ha avuto.
Il silenzio, qui, è come l’acqua di una inondazione: si espande, penetra, occupa tutto il tempo e tutto lo spazio che vedi intorno, bellissimo dopo la pioggia. Per questo all’improvviso, con passione e furore, la gente grida. Lo fa nel tendone che è l’unico luogo di incontro, l’unico spazio di assemblea pubblica, fra l’accampamento dei vigili del fuoco e l’unico bar aperto.
Un anno e tre mesi di eventi falsati
Chi grida? I cittadini, decisi a rompere il silenzio, decisi ad occuparlo, decisi a far tornare la vita lungo le trincee e i vicoli bloccati della natura morta che continua a restare L'Aquila. Ma stanno gridando anche contro l'altro silenzio, quello che – con bravura – è stato imposto a tutto il Paese facendo credere (con tutta la forza del conflitto di interessi, capace di bloccare tutte le fonti di notizie vere): “L’Aquila? Problema risolto. Niente da denunciare, se mai si deve celebrare l’intervento veloce e ringraziare il governo”. A chi gridavano l’altro giorno (27 luglio) i cittadini de L’Aquila sotto il tendone, nel mezzo della loro piazza vuota? Gridavano la storia incredibile di questa città dal terremoto in avanti, un anno e 3 mesi di eventi tragici e falsati. Li gridavano a 140 deputati del Pd, che avevano deciso di venire a L'Aquila per lavori interrotti in Parlamento a causa del voto di fiducia imposto dal governo sulla legge Finanziaria. Ho detto “gridavano” perché le voci erano alte. Ma erano limpide e logiche. Raccontavano con passione a chi ascoltava, i deputati del Pd.
Abitanti declassati ad audience
È una bella scossa, per gente eletta con un progetto politico, l’incontro con un’assemblea di persone vere che hanno le facce della realtà e rendono conto di ciò che non è stato mai fatto, di ciò non è stato mai detto. Soprattutto la morsa del silenzio, dell'abbandono, della Protezione civile che è diventata guardia civile, un organo separato che fa, bene o male, ma per conto suo, con i suoi editti, i suoi divieti, le sue regole mai spiegate, sempre imposte, tutto con il sigillo non discutibile, non partecipabile, dell’emergenza. Dentro il recinto invalicabile, le macerie da non toccare, la pianificazione arbitraria, la costruzione altrove, frutto di un progetto mai discusso: i cittadini fuori, resi passivi e in attesa, che possono ricevere “regali” (così dice il benefattore), ma non possono avere diritti. E fuori gli abitanti senza casa, declassati ad audience per un enorme spettacolo, che a momenti diventa una specie di Expo mondiale, con Obama e George Clooney.
Sulla natura morta de L’Aquila viene gettato il mega-show del G8 in cui tutto è immenso, pesante, ingombrante, costoso. E non riguarda gli aquilani. Riguarda il benefattore-costruttore-presidente Silvio Berlusconi. Berlusconi ha acceso tutte le luci, occupato tutto lo spazio, ha riservato ogni ruolo per sé, dalla vittima al santo, dal governante al salvatore, dallo statista al piazzista che offre – chiavi in mano – le abitazioni modello ai senza casa secondo una lista arbitraria. Lo scorta, nella nuova veste di polizia edilizia e mediatica, il suo alter ego della Protezione civile, Bertolaso, che apre strade e chiude strade, nega e concede secondo una sua classifica di ruoli da esibire nell’evento spettacolo. Tutto ciò gli aquilani della tenda in piazza hanno raccontato agli insoliti visitatori (uno solo, Giovanni Lolli, il loro deputato che non si è allontanato di un passo, che è stato il legame e il tramite contro il rifiuto giustamente sdegnato di questa gente per la politica) non come lamento, ma come prova dell’identità riconquistata, strappata a quel grande imitatore di se stesso che Sabina Guzzanti ci ha fatto vedere nel suo film.
Qualcosa è accaduto in quella tenda
E devi per forza incontrare il sindaco Cialente. È solo il sindaco di una città, e persino di un municipio, che non ci sono più. Ma non ha mai ceduto il ruolo né a Bertolaso, né a Berlusconi. Qualcosa è accaduto nella gita a L’Aquila. Lo si è capito dal parlare irruente, per una volta appassionato di Bersani in quella tenda. È stato lo choc di incontrare veri cittadini con un vero linguaggio e veri, tremendi problemi sul luogo del disastro, invece di trattare in lingua politica con altri politici. È stata una respirazione bocca a bocca che ha fatto risvegliare e sussultare la parte presente del Pd. Il beneficio che i deputati ne hanno tratto è molto più grande del più volenteroso contributo di presenza e partecipazione che hanno voluto dare, con una decisione insolita e fortunata. Lo prova la reazione immediata e persino affannata di Berlusconi. La sera del 29 luglio ha annunciato: “Io torno a L’Aquila, torno con Bertolaso”. Quando avrà notizie più precise non credo che lo farà.
Guardando la facciata della Basilica di Santa Maria di Collemaggio simbolo della città dell'Aquila, leggermente nascosto alla sua sinistra, sorge il complesso dell'omonimo ex ospedale psichiatrico costruito tra il 1902 e il 1915. Una vera e propria piccola città sufficiente a sé stessa, uguale concettualmente agli altri manicomi costruiti in Italia in quell'epoca. Un patrimonio storico, architettonico e culturale diventato di inestimabile valore per una città d'arte ferita così profondamente dal sisma del 6 aprile e diventato insostituibile per tutte quelle associazioni cittadine che vi hanno trovato ospitalità. Un tesoro, di proprietà della Asl, che gli aquilani non vogliono perdere e su cui invece incombe un triste disegno: svenderlo con la scusa di tappare una piccola parte del buco della sanità abruzzese.
Il Colle del Maggio
Lo storico aquilano Raffaele Colapietra (comparso in numerosi film e documentari post-terremoo, compreso Draquila di Sabina Guzzanti) scrive: «...il primo Aprile 1932, a cinque mesi, come mio più degno e conveniente soggiorno, fui condotto al manicomio, a Collemaggio dove mio padre era stato chiamato a dirigere un reparto. Ero l'unico bambino in un mondo di adulti, di pazzi e di vecchi, un bambino che andava girando col suo triciclo in mezzo alle ranocchie ed alle papere in una sorta di bonaria e affollata fattoria dove arrivava l'odore acre del fieno della colonia agricola e la fragranza del pane appena sfornato...in quello che era allora un autentico villaggio di un migliaio di abitanti». Entrandoci ora - in quest'area che si estende per 150mila metri quadri, proprietà dell'Asl - pare che il tempo si sia fermato ai tempi che Colapietra descrive. Difficile non rimanere affascinati dallo stile delle maestose palazzine di inizio secolo, un tempo padiglioni della sofferenza, disposti su due lati per dividere la parte maschile da quella femminile. Un tesoro storico e architettonico immerso in una natura rigogliosa: tra gli enormi alberi presenti, dalla quercia al cedro del libano e dell' himalaya, all'ippocastano, all'abate rosso e bianco, al tiglio, vivono numerose specie di uccelli come l'allocco, la civetta, il picchio muratore e il picchio rosso e altri animali tra cui scoiattoli e ricci.
Quest'area di incantevole bellezza - che ha smesso di essere manicomio recependo la legge Basaglia nel 1991 - è diventata dopo il terremoto, grazie al lavoro delle associazioni che hanno trovato un posto al suo interno, uno spazio pubblico aperto a tutti, tra i pochi spazi di socialità rimasti oltre ai centri commerciali, fondamentale per il confronto di idee e progetti, motore propulsore per la partecipazione dei cittadini alla ricostruzione della città e dei villaggi del cratere sismico. Uno spazio pubblico necessario per dare una speranza al futuro. E a testimoniarlo sono i tanti giovani che da due giorni lo animano arrivando con tende e sacchi a pelo da tutta Italia per prendere parte al campeggio sul tema della giustizia ambientale e sociale organizzato dal centro sociale «CaseMatte». Uno spazio, però, dove nonostante tutto questo pende ancora la spada di damocle di una possibile vendita.
L'Aquila svendesi
Ad oggi quasi tutti i padiglioni presenti - inagibili dopo il 6 Aprile - sono rimasti in stato di abbandono e incuria come del resto alcuni di loro versavano già da prima. Questo nonostante l'assicurazione stipulata dalla Asl in caso di sisma, abbia fatto incassare all'azienda poco meno di 50 milioni di euro lasciando sperare a un pronto recupero dell'area anche in funzione strategica. Invece l'area dopo il terremoto viene inizialmente ignorata. A novembre si saprà che durante i mesi estivi erano altre le intenzioni e le trattative in corso. Invece di restaurare il patrimonio di Collemaggio con un intervento relativamente economico, si stava pensando ad una nuova sede per gli uffici amministrativi della Asl dell'Aquila con un appalto (mai partito) di 15milioni di euro per la cui assegnazione risultano indagati per corruzione vari imprenditori tra cui un ex assessore regionale. A settembre, piuttosto che recuperare gli edifici danneggiati, si decide allora di invadere l'area di container per dare un tetto transitorio, oltre che agli amministrativi, anche ad altre strutture già presenti nel complesso di Collemaggio prima del sisma, come l'unità territoriale dei medici di famiglia, diventati molto importanti dopo il terremoto, e il Centro di salute mentale.
Contemporaneamente, sbarca nell'area il comitato «3e32» che, nato subito dopo il sisma, in cinque mesi è diventato uno dei punti di riferimento più importanti per i giovani della città. E dà vita all'occupazione di «CaseMatte» recuperando l'ex-bar del manicomio lasciato all'abbandono da anni. Da fine agosto intanto hanno già ricominciato a vivere nell'area, ospitati in container abitativi donati dalla Protezione Civile del Trentino, più di una ventina di pazienti del centro di salute mentale fino ad allora rimasti nelle tendopoli.
Nel frattempo, con lo spoil system, la direzione dell'Asl è passata da Roberto Marzetti a Giancarlo Silveri il quale viene nominato col compito di riassorbire il buco che la Asl Abruzzo ha accumulato negli anni. L'area di Collemaggio viene dichiarata alienabile tramite cartolarizzazione per risanare il debito della sanità locale nonostante i ricavati della vendita di quel luogo siano vincolati per legge alla salute mentale. E nonostante altri progetti in tale ambito siano già stati approvati e finanziati. Come nel caso del progetto nominato «Ambiente, arte e salute» per il quale la regione stanziò nel 2006 (allora governata dal centrosinistra) circa tre milioni di euro, progetto che prevedeva un'integrazione multidisciplinare rivolta alla salute intesa come stato di benessere fisico, mentale e sociale e non solo come assenza si malattia o infermità. O nel caso del progetto dell' «Albergo in via dei matti» che prevede la ristrutturazione del padiglione Villa Edoarda con finanziamento Cipe del 2005, per il quale al 6 Aprile 2009 risultava già affidato l'appalto per i lavori e che ciò nonostante non viene fatto avanzare.
Un attacco politico
I ragazzi di 3e32 che intanto svolgono un'intensa attività sociale, culturale e politica vengono sostanzialmente ignorati e delegittimati anche quando sulla scrivania del manager arriva un progetto, già firmato da altri responsabili Asl, per due borse lavoro già assegnate dalla fondazione Basaglia ai pazienti del centro di salute mentale tramite l'unico soggetto capace di gestire attività lavorative nella zona, e cioè il comitato «3e32». Niente da fare. Il manager preferisce negare lavoro a due persone pur di non riconoscere il «3e32».
Si arriva così allo scorso Maggio quando il popolo delle carriole sbarca nell'ex manicomio entrando in un locale chiuso e agibile e mostrando come non vengano utilizzati preziosi stabili senza neanche una crepa e vengano lasciati abbandonati, ancora stoccati, diversi materiali sanitari. Il manager Silveri va su tutte le furie annunciando lo sgombero di «CaseMatte» e asserendo che il debito della sanità nel frattempo è stato sanato e che gli unici acquirenti di una possibile vendita sarebbero il Comune o l'Università. Ma mentre nessuna trattativa di vendita è ancora decollata, la scorsa settimana la direzione ha deciso che il Distretto sanitario di L'Aquila, da sempre collocato a Collemaggio debba essere spostato a Paganica, in un nuovo edificio di 700 metri quadrati i cui lavori prevedono un costo complessivo di 1 milione e 400 mila euro. Decisione presa senza coinvolgere la cittadinanza, senza sentire il parere degli utenti, delle associazioni, degli operatori sanitari e sociali, e di nuovo con un grande spreco di denaro pubblico. Ancora, dopo il terremoto, si ha la sensazione che invece di riparare con poche spese ciò che c'era, si preferisce costruire ex novo per favorire chissà quali interessi.
Resistere, resistere, resistere
Per questo il prossimo 4 Agosto presso il tendone dell'assemblea cittadina di piazza Duomo, a L'Aquila è previsto un incontro chiarificatore tra vertici della Asl, istituzioni, comitati, associazioni e cittadini per tentare di fare un po' di chiarezza - forse per l'ultima volta possibile - sul futuro dell'area di Collemaggio. In un documento scritto a tre mani dall'«Associazione 180 amici», il «3e32» e l'«unità territoriale di assistenza primaria medici di base», tutti soggetti che operano nell'area, si legge che l'ex Op «per la sua centralità, il suo valore storico e simbolico, può, se riqualificato, diventare il luogo perfetto per quella salute di comunità necessaria e non opzionale, di una città distrutta nel suo nucleo più profondo, ospitando i Servizi Socio-Sanitari, il Centro di Salute Mentale, il Centro Diurno Psichiatrico, uno Studentato Universitario "Albergo degli studenti"con attività produttive a ricaduta sociale, un Campus Universitario, un Centro per il Sociale e la partecipazione, una Biblioteca Comunale, Laboratori Artigianali-Artistici, il Museo della Mente e del Ricordo, la Scuola di Restauro, l'Istituto Cinematografico ed uffici amministrativi vari». Ma se la dirigenza dell'Asl finora non ha fatto ancora chiarezza sulle sue intenzione, la popolazione sembra d'accordo: Collemaggio deve rimanere ai cittadini e continuare ad essere il cuore pulsante di una città che mai come ora ha bisogno di benessere (basti pensare che dopo il sisma l'uso di psicofarmaci è aumentato del 40%). Il cuore dell'Aquila, città che forse è ancora in coma, ma che non vuole morire.
Archeologi, architetti e storici dell’arte da oggi non possono più utilizzare l’auto propria per seguire scavi e cantieri sparsi nel territorio. Il soprintendente di Roma Giuseppe Proietti li ha avverti: «Stop a rimborsi e alla copertura di responsabilità civile». Impossibile perfino chiamare i cellulari. E per la tutela ora è notte fonda.
La circolare del 28 luglio del soprintendente archeologo di Roma è la stessa che hanno dovuto diramare i suoi colleghi dei Beni artistici e degli Architettonici. La manovra finanziaria del governo li obbliga a fermare i sopralluoghi. «Il patrimonio così è messo nelle mani di speculazioni, scavi clandestini, tombaroli: viene impedita la tutela così come la prescrive la Costituzione» afferma il segretario della Uil Beni culturali Gianfranco Cerasoli.
«Anche volendo, non possiamo prendere la nostra auto perché non c’è più la copertura assicurativa. E come potremo più raggiungere Villa dei Quintili o i mausolei vicini a via di Fioranello?» si chiede Rita Paris, responsabile per lo Stato dell’Appia Antica. «Ora ci aspettiamo che il ministro Bondi permetta alle soprintendenze di tornare a funzionare», spiega l’archeologa che è anche direttrice di palazzo Massimo. «Grazie all’impegno di tutti, alle mostre e alla pubblicità - racconta - in un anno abbiamo aumentato del 60% gli ingressi al museo. Ma come potremo andare avanti se ci è impedito di fare gli straordinari, anche non pagati?».
Stefano Musco copre con una segretaria e due assistenti un territorio di 15.700 etteri tra V, VII e VIII Municipio. «In quest´area vivono 431.500 persone: più alta è la densità abitativa più forti le trasformazioni» spiega l’archeologo. Come seguirle se la soprintendenza non ha auto di servizio? «Non lo so, non posso più usare la mia auto per controllare ad esempio gli straordinari scavi di Gabii» dice sconsolato. Nella città romana sulla Prenestina (25 chilometri dal centro) il mezzo pubblico arriva a 3 chilometri. Poi bisogna andare a piedi. «E per parlare con i miei collaboratori dall’ufficio non posso neanche più chiamarli al cellulare» racconta Musco. Sono 6000 i siti archeologici censiti nell´Agro romano. Da oggi sono irraggiungibili dai funzionari (1.700 euro al mese il loro stipendio). Ma anche sotto il Colosseo non si ride: Piero Meogrossi, responsabile del procedimento per la ricerca degli sponsor, dovrà andare a caccia di soldi usando il telefonino privato.
Bisognerebbe far leggere gli articoli pubblicati in questi giorni sulla vicenda dell’Antiquarium di Ercolano al ministro dei Beni culturali Bondi, il quale, secondo me, vive su un altro pianeta. Non perché la sua espressione attonita ricordi talvolta quella di un alieno, ma perché di recente ha avuto l´audacia di dire che nelle aree archeologiche del napoletano, in particolare a Pompei, tutto è risolto. «Fatevi un giro - ha detto - lì tutto è cambiato».
Io credo che il giro dovrebbe farselo Bondi, ma senza annunciare la sua presenza, in incognito, magari in maschera. Solo in questo modo può rendersi conto di come stanno davvero le cose.
A Pompei, come a Ercolano, come nei Campi Flegrei, come nella città di Napoli. E, vorrei dire, come nel resto del Paese, nelle aree archeologiche commissariate e abbandonate al degrado, mal gestite, bloccate da una burocrazia senza senso e spesso senza cuore. Monumenti chiusi, scavi abbandonati, musei sbarrati a causa di mancanza di fondi e di personale.
La situazione di Pompei è stata denunciata decine di volte da sindacati e operatori della cultura: restauri fatti in modo grossolano, cantieri allestiti senza norme di sicurezza e tutela per il patrimonio, un commissariamento che punta più all´immagine che alla sostanza, che prova a buttare fumo negli occhi con i kolossal per coprire la mancanza di una strategia vera di rilancio culturale di Pompei.
Come stanno le cose a Ercolano, con l’Antiquarium, lo ha denunciato "Repubblica", che ha il merito di aver lanciato un dibattito davvero utile. Una struttura costruita 35 anni fa e mai aperta, con 4 mila reperti che sono conservati nel caveau di una banca invece di essere mostrati a 300 mila visitatori che ogni anno arrivano a Ercolano per ammirare i suggestivi scavi, dove alcuni settori sono addirittura chiusi, come le "terme" e il "teatro antico". E poi tanti soldi spesi altrove, e spesi male. Non mitiga l’amarezza l´annuncio dell’ennesimo finanziamento di 3 milioni. Soldi arrivati tardivamente, quando un´altra estate, ormai, si consuma così.
La scena diventa addirittura peggiore se ci spostiamo verso l´area nord. I Campi Flegrei sono conosciuti in tutto il mondo per uno straordinario patrimonio storico, archeologico, ambientale; una storia antichissima. Fin dalla Roma augustea, questa zona a nord di Napoli, era la meta per i soggiorni di nobili e imperatori, e il suo straordinario scenario naturale ha attivato la suggestione di poeti, narratori, storici, fin dai tempi di Virgilio e Dante. Oggi fa impressione scorrere l’elenco dei siti che sono chiusi al pubblico. Per ricordarlo al ministro ho dovuto elencarli in una interrogazione.
Da Pozzuoli a Bacoli e fino a Cuma, anfiteatri, templi, necropoli risultano negati alle visite. Ad esempio, a Pozzuoli, il Rione Terra, lo Stadio Antonino Pio, le necropoli di San Vito e di via Celle, che soffocano tra sterpi e rifiuti, il tempio di Serapide, che è nell´abbandono, trasformato in una sorta di palude, sommerso per metà da un pantano d’acqua fetida dove si annidano insetti. Ingresso sbarrato anche al museo archeologico di Baia (con le sale del nuovissimo allestimento), al mausoleo di Fescina a Quarto, all’antica cisterna romana delle Cento Camerelle a Bacoli, all´antica Tomba di Agrippina, sempre sulla marina di Bacoli. Altri siti sono aperti sporadicamente, e solo grazie all’opera di volontari. Basti pensare al mausoleo del Fusaro, aperto periodicamente da un’associazione di volontari, e alla Piscina Mirabilis di Bacoli, la più grande cisterna mai costruita dai Romani, che viene addirittura aperta, su richiesta, da una signora dirimpettaia, che ha le chiavi.
Di fronte a una situazione di questo tipo il ministro Bondi si vanta addirittura di aver raggiunto successi e traguardi. Ma dove sono?
L’autrice è deputato del Pd ed ex sindaco di Ercolano
Il manifesto
Titoli di coda
di Ida Dominijanni
Non bastassero le foto dei finiani raggianti all'Hotel Minerva, soccorrono quelle del premier al compleanno di Gianfranco Rotondi a documentare la fine di un regime. Fedelissimi inquisiti e gaudenti, direttori di tg inginocchiati e ridenti, ministre e deputate alle ultime comparsate da ragazze-immagine: è tutto ciò che resta della "rivoluzione berlusconiana", quella che ancora sedici mesi fa, dal palco del congresso fondativo del Pdl, veniva rivenduta in salsa di carisma, provvidenza e salvezza. Espulso il cofondatore di allora (e già allora reticente), il premier si sentirà pure liberato da un peso, «come con Veronica»; eppure proprio da Veronica avrebbe dovuto imparare che dopo la liberazione da certi pesi, la leggerezza dell'essere diventa insostenibile.
Senza il peso di Fini, Berlusconi non è più leggero: è finito, o se sopravviverà sarà comunque un altro Berlusconi, residuale a se stesso. Non perché gli venga a mancare un socio di grande statura: sulla statura di Fini in troppi stanno esagerando, a destra e soprattutto a sinistra. Né perché il Pdl resta monco: i partiti liquidi, cioè inesistenti, sopportano queste e altre emorragie. E nemmeno solo perché il governo è ormai virtualmente in crisi, appeso al filo ora di Fini stesso, il traditore, ora di Bossi e di Tremonti, pronti a tradire a loro volta. Ma perché la rottura con Fini scrive i titoli di coda sul progetto strategico della "nuova destra" italiana nata nel '94, del bipolarismo e di quella che è stata chiamata (arbitrariamente) Seconda Repubblica.
La crisi non è di partito o di governo, è di sistema. L'alleanza spiazzante siglata diciassette anni fa («Se votassi a Roma, fra Fini e Rutelli sceglierei Fini», fu il biglietto da visita del Cavaliere alle comunali del '93) aveva due facce, una rivolta al passato l'altra al futuro. Per il passato, si trattava di sdoganare gli ex-fascisti aprendo la porta allo sfondamento revisionista della storia politica nazionale. Per il futuro, si trattava di oltrepassare quella storia riscrivendo il patto costituzionale e approdando effettivamente a una Seconda Repubblica.
Per quanto oggi ci si possa divertire a sfogliare l'album del rapporto da sempre difficile fra due leader così diversi come Berlusconi e Fini, e per quanto si possa fare dell'ultimo Fini un baluardo della legalità costituzionale, non va dimenticato che il progetto di radicale riscrittura della Costituzione in senso presidenzialista, plebiscitario e federale è stato per quindici anni il vero e unico collante di una destra tricipite, fatta da tre componenti - An, Lega, Fi - rispettivamente extra, anti e post costituzionali, per altri versi incomponibili se non incompatibili. Su quel collante si è consolidato il bipolarismo italiano, e grazie a quel collante la transizione italiana avrebbe dovuto prima o poi compiersi come "rivoluzione" berlusconiana.
Sul lungo periodo, quel collante non ha retto. La costituzionalizzazione di Fini - che non si esaurisce con le sue proclamazione di oggi su legalità, garantismo e impunità: chi si ricorda di Genova 2001? - lascia più isolata e più inasprita l'anomalia di Berlusconi. Il quale verosimilmente punterà ancora, nei pochi mesi che ha davanti, a rinverdire il proprio progetto eversivo premendo l'acceleratore sulla giustizia e sul federalismo, contando (troppo) sul solo Bossi oltre che sulla propria onnipotenza ferita, tentando l'affondo elettorale se i sondaggi su Vendola, che ha già commissionato non senza preoccupazione, glielo consentiranno.
Resta sul campo lo scheletro di un bipolarismo forzoso e ormai svuotato, e il compito interminabile di ridisegnare il sistema politico italiano a destra e a sinistra, e possibilmente con una sinistra non a rimorchio della destra com'è stata per vent'anni. Per questo non basterà la continuità istituzionale di cui si fa garante Napolitano, né la disponibilità a una soluzione di transizione o di emergenza di cui si fa promotore Bersani, né la delega a una pur necessaria riscrittura delle regole elettorali.
Ci vorrà la convinzione che una stagione si è chiusa davvero, non solo per il Pdl, e che i titoli di coda chiamano l'opposizione, non solo Gianfranco Fini, a uscire dalla passività della rendita di posizione garantita dall'incantesimo del Cavaliere.
la Repubblica
Fine regime
di Massimo Giannini
Un governo balneare, di fine regime. è tutto quello che resta della grande illusione berlusconiana. Prometteva di cambiare l’Italia e di durare per «almeno tre legislature». Dopo la rottura definitiva decretata ufficialmente da Fini, è quasi certo che il Berlusconi Terzo, nato due anni fa con la più schiacciante maggioranza parlamentare della storia repubblicana, non arriverà a concludere nemmeno la sua prima legislatura. Ma con la giornata di ieri non tramonta solo un’illusione di governo. Muore anche l’illusione di una Nuova Destra, moderna ed europea, che in questo Paese, sotto le insegne del Cavaliere non ha e non avrà mai la possibilità di esistere. É in nome di questa Destra impossibile che Gianfranco Fini ha consumato il suo strappo. E stavolta è uno strappo vero e non più sanabile. Stavolta non siamo «alle comiche finali», come l’allora leader di An disse sprezzante tre anni fa di fronte alla Rivoluzione del Predellino, salvo poi salirci a sua volta per "co-fondare" (turandosi il naso) il Partito del Popolo delle Libertà. Stavolta Fini, reagendo alla "purga" berlusconiana del giorno prima, stila il certificato di morte definitiva di quel partito che ha contribuito a costruire, ma nel quale è sempre stato trattato, alternativamente, o da ospite, o da estraneo o da intruso. In quella scarna ma esiziale cartella di testo letta dal presidente della Camera è riassunta davvero la «brutta pagina» di storia di questo centrodestra. Che non è stata scritta nell’epilogo di questi giorni, ma stava già tutta nel suo prologo di tre anni fa.
Era tutto già chiaro, per chi avesse voluto capire, al congresso fondativo del Pdl. Già Fini tracciò la linea del Piave di un’ "altra Destra", incompatibile con quella berlusconiana. Una destra costituzionale, repubblicana, laica. Non incostituzionale, populista, atea devota (come quella del Cavaliere). E nemmeno a-costituzionale, secessionista, pagana (come quella del Senatur). Già lì Fini osò l’inosabile, chiedendo a Berlusconi di non essere più Berlusconi: cioè di accettare il pluralismo delle idee e di rispettare la diversità delle opinioni, di inseguire l’interesse collettivo e di valorizzare la democrazia parlamentare, di tutelare i diritti delle persone e di difendere le istituzioni. Già lì Fini comprese, sia pure senza dirlo, l’impraticabilità della scommessa: invitò la sua gente, che scioglieva da Alleanza Nazionale, a «non aver paura di lasciare la casa del padre», ma sapeva in cuor suo che la "nuova casa" sarebbe stata un misto tra un casino e una caserma, e che il "nuovo padre" sarebbe stato un misto tra un padrino e un padrone.
Così é stato, da allora. Questi due anni narrano la cronaca di un partito mai nato. Le due destre, contaminate da una terza destra di Bossi, non potevano convivere, ma solo confliggere. È quello che è accaduto, e che il documento di Fini fotografa fedelmente. Questo Pdl, persino più del Pd, è il vero «amalgama mal riuscito» della politica italiana. Il collasso avviene sulla legalità, che non a caso (insieme alla «giustizia sociale» e all’ «amor di patria») è la piattaforma identitaria che Fini rivendica e rilancia. E non a caso, proprio sulla legalità, il cofondatore porta l’attacco più duro al cuore del berlusconismo, quando dice «onoreremo il patto con milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell’ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità». Parole semplici e chiare, che negano alla radice una legislatura finora interamente vissuta dal premier all’insegna della "politica ad personam", dove l’interesse di un singolo o di una casta ha fatto premio su tutto il resto.
Ma il divorzio poteva avvenire su altro. E in questi mesi ha più o meno incubato su tutti i fronti dell’azione di governo: dall’immigrazione all’economia. Perché su tutto le differenze erano e sono rimaste irriducibili, com’era ovvio per il dna di due culture politiche incomparabili e com’era stato plasticamente dimostrato nella drammatica direzione del Pdl in cui i due leader (che ne sono portatori) hanno inscenato per la prima volta in pubblico uno scontro non solo ideologico, ma addirittura fisico. Era un patto con il Diavolo, quello di Fini. Non poteva reggere, e non ha retto. Non puoi credere che Berlusconi possa diventare De Gasperi, e nemmeno che possa scimmiottare Andreotti: cioè rassegnarsi ad essere il segretario di un vero partito di massa dei moderati e dei conservatori.
Berlusconi é un capo, é il prototipo degli illiberali, e coltiva una visione proprietaria delle istituzioni e gregaria dei partiti. Fini lo scrive testualmente, nel suo documento, rivendicando la presidenza della Camera (che non é ovviamente nelle disponibilità del presidente del Consiglio, checché ne dica citando a sproposito un Pertini del ‘69) e contestando al Cavaliere la «logica aziendale» con la quale amministra la cosa pubblica (che non può obbligare la terza carica dello Stato a comportarsi come un «amministratore delegato»). «Cesarismo carismatico» è la formula che, riecheggiando impropriamente il «centralismo democratico» del vecchio Pci, riflette al meglio la natura del potere berlusconiano. Un ossimoro vagamente moroteo, che dimostra l’evidenza di un fatto, a Fini e a tutti coloro che vogliono coglierla: dove c’è un Cesare non può esserci una democrazia.
Questo, dunque, è l’abisso che oggi separa le due destre, e nel quale sprofonda per sempre non solo il Pdl, ma lo stesso governo che ne era l’emanazione diretta. Solo i patetici cantori di regime possono affermare che «ora il Pdl e il governo sono più forti di prima». Idiozie da Tg1, che non funzionano più nemmeno in Transatlantico. Da ieri, con l’uscita dei finiani e la nascita del gruppo autonomo Futuro e Libertà, il Pdl ha cessato di esistere politicamente, e il governo ha cominciato a sopravvivere pericolosamente.
A dispetto della sofferta sicumera del premier, Fini ha argomenti e numeri per mettere alle corde questa maggioranza disgregata e disperata, ormai ad esclusiva trazione forzaleghista. Dalle intercettazioni al federalismo, dalla manovra alla fecondazione assistita, per l’autunno si profila un rovinoso e rischioso Vietnam parlamentare. Il sostegno apparente che la pattuglia del presidente della Camera promette all’esecutivo, condizionato ai singoli provvedimenti e al rispetto dell’interesse generale, vuol dire in realtà una sola cosa. Per Fini é iniziata la stagione delle mani libere. Non sappiamo dove lo porterà. Ma sappiamo che da oggi, specularmente, Berlusconi e il suo governo hanno le mani legate. C’è un solo modo, per sciogliere la corda. Dichiarare la resa. E affidarsi senza condizioni (meno che mai quelle assurde, come le elezioni anticipate) alle sole mani che contano in questo momento: quelle del presidente della Repubblica.
La legge bavaglio sembra ormai destinata ad essere rimandata a settembre. Questo è l’esito di una battaglia politica di cui è opportuno rintracciare i protagonisti, anche perché questioni altrettanto gravi si stagliano sull’orizzonte e la tutela di diritti fondamentali continuerà ad esigere la presenza convinta dei loro difensori. Senza trionfalismi, ma registrando un dato di realtà, si può ben dire che l’opinione pubblica ha giocato un ruolo essenziale.Dicendo a tutti che si può e si deve uscire dalla passività, che vi sono buone cause per le quali vale sempre la pena di battersi e che perfino in tempi così difficili non è impossibile sconfiggere i molti nemici della libertà.
Questa volta il vero sconfitto è uno solo, il Presidente del consiglio, abituato a parlare padronalmente sempre in prima persona, imputandosi ogni successo, e che quindi sa d’essere lui ad aver perduto la partita. S’infuria non tanto perché la "sua" legge è stata stravolta, ma perché il suo potere è stato messo in discussione, e non attraverso complotti e ribaltoni, ma grazie alla discussione aperta e nell’odiatissima sede parlamentare, che questa volta non ha potuto domare a colpi di fiducia.
Ma dev’essere sottolineato anche il modo in cui si è formato e ha agito questo movimento di opinione. Si sono congiunte diverse modalità dell’agire pubblico. Le antiche piazze si sono riempite grazie anche agli inviti lanciati nelle nuove piazze telematiche. I cittadini attivi hanno potuto materializzarsi sui siti Internet dov’era possibile raccogliere adesioni. La vecchia stampa e il nuovissimo Facebook hanno marciato insieme. Su tutto questo bisogna riflettere, di questa esperienza non bisogna perdere troppo presto la memoria, perché non si è trattato della semplice somma di iniziative diverse, ma di una qualità diversa dell’azione politica. Non vi sono stati appelli dall’alto ai quali si chiedeva semplicemente di aderire, rimanendo poi la gestione dell’intera vicenda in poche mani. Si sono, invece, manifestati soggetti diversi, grandi e piccoli, tutti fortemente autonomi, che si sono sostenuti a vicenda, hanno dialogato anche polemicamente, hanno depurato il tema in discussione dagli aspetti particolaristici e corporativi. Tra la politica e le persone è stato aperto un canale, una distanza che pareva incolmabile per un momento è stata colmata. Di questo dovrebbero tenere conto i partiti, quelli di opposizione in primo luogo.
Si potrebbe obiettare che il successo è stato possibile solo perché ci si è trovati, e si è ancora, in una particolarissima congiuntura politica. Senza il dissenso dei Fini e dei finiani non vi sarebbe stata nessuna conclusione positiva. Ammettiamo pure che le cose siano andate, almeno in parte, così. Ma è del tutto evidente che solo l’esistenza di una vera e forte opposizione sociale ha impedito che i conflitti tra maggioranza e minoranza del Pdl potessero essere ridotti a regolamenti di conti interni a quel partito, e quindi delegittimati e riassorbiti. I dissenzienti sapevano di parlare in nome di un’opinione pubblica larga, rappresentata anche nei territori del Pdl. Ma l’opposizione sociale è stata benefica pure per l’opposizione parlamentare, che ha ritrovato un piglio e una grinta che non sempre caratterizzano la sua azione.
Un segnale per il futuro? Bisogna stare attenti a non correre troppo. La politica per issues, per temi specifici, offre grandi opportunità, ma conosce limiti significativi. Lo sguardo sul futuro immediato, allora, deve tener conto di due fatti importanti. I tentativi di limitare i diritti non cominciano e finiscono con la legge bavaglio, ma caratterizzano il nostro tempo, dilatano la politica per issues, entrano stabilmente nell’agenda politica e consentono così continuità d’azione a chi vuole opporsi ad ogni forma di autoritarismo, di sequestro delle libertà delle persone. Vi è, poi, il contemporaneo ridestarsi di una attenzione più generale per tutte le sfaccettature della dimensione dei diritti, testimoniata dal milione e quattrocentomila firme a favore del referendum sull’acqua come bene comune e dal quaranta per cento degli operai di Pomigliano che, in condizioni difficilissime, hanno rivendicato libertà e dignità contro proposte che le limitavano. E’ compito della politica in senso largo far sì che questi diversi fatti, lotta contro la legge bavaglio compresa, non rimangano episodi isolati.
Non credo che sia una caduta di stile ricordare infine il modo in cui questo giornale ha partecipato a questa impresa civile, anche con la sua edizione online e con invenzioni grafiche come quella dei post-it gialli che continuano a costellare le sue pagine. Non vi era in campo "il partito di Repubblica". Vi era e vi è un giornale che fa la sua parte quando è proprio la sua funzione informativa ad essere messa in discussione. E, con essa, la stessa democrazia.
VENEZIA— L’architettura sta cambiando. E Kazuyo Sejima ha le idee molto chiare: «Non dico che Gehry e le altre archistar non siano sempre interessanti. Ma oggi c’è bisogno di idee nuove e più fresche per capire come sarà davvero il futuro. Queste idee fresche non possono arrivare che dai giovani». Nella sezione ufficiale della XII Biennale di Venezia («People meet in architecture» in programma dal 29 agosto al 21 novembre tra i Giardini e l’Arsenale) diretta appunto da Sejima ci saranno così 46 «invitati» (studi, progettisti singoli, professionisti vari, artisti) e la metà di questi potrà contare sulla presenza di almeno un giovane, non più «di bottega» (come accadeva un tempo) ma piuttosto con ruolo «di comando»: sette nati dopo il 1970, 14 tra il 1965 e il 1970 più i due strani casi di Studio Mumbai (fondato nel 2005 da un architetto classe 1965) e di Raumlabor con i suoi professionisti venuti alla luce tra il 1968 e il 1975. Due strani casi che, però, esemplificano un’altra delle mutazioni in corso: quella del «collective practice» o dell’«organic collective» ovvero quella di un progetto che nasce dal lavoro di un gruppo fatto da architetti ma anche da ingegneri, geometri, light designer, paesaggisti ed esperti in rendering.
Kazuyo Sejima è una donna schiva e sfuggente (soprattutto con i giornalisti) ma ben decisa a raccontare le nuove strade dell’ architetture, strade che sembrano volersi allontanare da ogni possibile protagonismo o esibizionismo (quello insomma dei Gehry addicted) per cercare un canale diretto con i giovani: «La crisi ha reso tutto più difficile, ma proprio adesso bisogna puntare sulle indicazioni e sulle suggestioni che ci possono arrivare dalle nuove generazioni». Il suo sembra un addio definitivo alle «archistar persino strano visto che arriva da una professionista che in un solo anno è riuscita a mettere accanto (in compagnia con Ryue Nishizawa, suo socio nello studio Sanaa) il prestigioso Pritzker e il progetto per il nuovo Louvre di Lens (mentre a Parigi sta firmando il rifacimento dei magazzini della Samaritaine, gioiello art nouveau del Primo Arrondissement).
L’architettura di oggi è dunque inquieta e Kazuyo Sejima vuole raccontarci, nella sua Biennale, tutta questa inquietudine. E tanto per comunicare incertezza alla prima intervista «one-to-one» concessa ad un quotidiano italiano arriva con una tattica degna di Greta Garbo: appuntamenti concessi e poi negati, depistaggi, cambi d’orario e altro. Poi, finalmente, eccola davanti all’ingresso del Palazzo delle Esposizioni: gran cappellone di paglia, abito d’antan verde-giallo dell’adorato Comme des Garçons (ma all’occorrenza può scegliere anche Dior), occhiali da vista modello Usl (proprio la vecchia Unità sanitaria locale), molletta fermacapelli d’ordinanza, borsone azzurro di plastica tipo grande magazzino discount, sneakers e calzettoncini in lurex (ma in Laguna tutti già favoleggiano su un paio di zoccoli in legno viola). Come suo solito fumando in continuazione e bevendo caffè. Basta comunque poco per capire che tra lei e i giovani c’è già davvero un feeling speciale: appena seduta al tavolino del Caffè Paradiso, proprio all’ingresso dei Giardini, dai tavoli vicini arrivano le occhiate adoranti dei ragazzi (giapponesi e no) che stanno lavorando all’allestimento (qui è tutto ancora un cantiere nonostante i tre giorni della «vernice», dal 26 al 28 agosto, siano ormai alle porte).
Sulle orme di Sejima anche la Biennale ha scelto stavolta la via dell’effetto giovani per cercare di superare il record di visitatori dell’ultima edizione (curata da Aaron Betsky) con i suoi 129.323 visitatori: ai giovani (italiani) è ad esempio votata la sezione «AilatI» (Italia alla rovescia) curata da Luca Molinari come ai giovani e alle università sono dedicati gli accordi stipulati con vari atenei italiani (da Valle Giulia di Roma al Politecnico di Milano) e stranieri (dall’ Architectural Association School di Londra alla Bme di Bucarest) dal presidente Paolo Baratta: «L’idea è quella di trasformare l’esperienza di visita in crediti formativi, perché vogliamo che la Biennale diventi un luogo di pellegrinaggio per docenti e studenti» (non a caso nel programma fanno per la prima volta la loro comparsa «I Sabati dell’Architettura»: incontri con i direttori delle precedenti edizioni, da Vittorio Gregotti a Richard Burdett). E principalmente ai giovani sembra essere destinato anche l’ultimo gadget in arrivo (un omaggio per i visitatori): un braccialetto in plastica, rosso, con il logo della Biennale e la scritta «I love architecture» (già destinato a diventare un must come il chiacchieratissimo Power Balance).
Questa XII Biennale non sarà però solo una cosa da ragazzi. Perché tra le tante novità in corso d’opera ci sarà anche una stanza dedicata a una star come Renzo Piano raccontato attraverso quattro grandi fotografie (in bianco e nero) dei suoi progetti per il Beaubourg, per la Chiesa di Padre Pio, per la Morgan Library, per il Museo Klee. E se tra gli invitati c’è il «veterano» Andrea Branzi (con un progetto però molto giovane che sposa «civiltà merceologica» e «biodiversità cosmiche»), un’altra stella come Rem Koolhaas (premiato con il Leone alla carriera 2010) sarà protagonista del Padiglione della «sua» Danimarca ma anche di una lectio sulla Russia in programma per il giorno dell’inaugurazione ufficiale. Ed ecco che tra una sigaretta e l’altra, la silenziosa Sejima (anche lei porterà in mostra alcuni dei suoi progetti più recenti) racconta le altre news: la bolla dei Raumlabor che servirà da spazio multifunzionale; il Giardino delle Vergini ridisegnato da Piet Oudolf, l’autore dell’High Line di New York; un progetto a 3D (con tanto di occhialini) del regista Wim Wenders; le interviste dal vivo di H. U. Obrist (autore del volume Interview edito in Italia da Charta; in arrivo il secondo volume) che interrogherà partecipanti, protagonisti, semplici passanti (le interviste verranno trasmesse attraverso una serie di grandi schermi).
Sejima (che non ama fare nomi «perché anch’io sono un architetto» tanto da non sbilanciarsi neppure su Palladio e Brunelleschi) ama molto anche l’arte, soprattutto quando è in funzione dell’architettura (durante l’intervista farà un rapido passaggio, forse non casuale, anche la prossima curatrice dell’arte Bice Curinger): «Per questo— dice — ho invitato artisti come Olaf Eliasson, quello del grande sole della Tate Modern. Volevo che evocassero l’idea di spazio attraverso le emozioni, perché anche questo è progetto». Così l’architetto giapponese (che lavora in un grande capannone industriale suddiviso da tavole di legno pressato, pieno delle sue sedie «Rabbitt» e di piante grasse ma senza parapetti sul terrazzo « perché non li amo») ne ha portati ben nove nella sezione ufficiale: da Janet Cardiff (una delle 12 presenze ufficiali femminili compreso l’omaggio a Lina Bo Bardi) «che giocherà con i suoni» a Matthias Schuler del gruppo Transsolar «con la sua nuvola che cambierà di colore e densità a seconda delle persone presenti». Il suo obiettivo? «Voglio che la Biennale, così come le città, non sia più un luogo di esibizionismi ma un luogo dove scambiare sensazioni e idee. Magari alla fine ci saranno meno progetti e meno maquettes, ma ci sarà sicuramente più feeling tra progettisti e visitatori».
Da qualche tempo le mosse di Fiat Auto stanno diventando frenetiche. A fine aprile è arrivato il piano per trasferire a Pomigliano una quota della produzione della Panda che ora si fa in Polonia. Una settimana fa, l’annuncio che un modello di notevole peso industriale e commerciale sarebbe stato costruito in Serbia e non a Mirafiori. Poco dopo si è saputo che è già stata costituita una nuova società per gestire lo stabilimento campano, nonché per assumere con un nuovo contratto i lavoratori che accetteranno in toto di lavorare secondo i drastici standard indicati nel piano di aprile. Infine ieri l’Ad di Fiat ha avanzato come affatto realistica l’ipotesi di uscire dal contratto nazionale dei metalmeccanici, ed ha ribadito che ciò che vuole sono comportamenti dei lavoratori che non mettano mai, in nessun modo, a rischio la produzione e l’azienda.
In altre parole, niente scioperi, niente vertenze sindacali, assenteismo meglio se vicino a zero, massima disciplina in fabbrica. A queste condizioni Fiat auto potrebbe anche restare in Italia.
La sequenza di queste mosse rientra chiaramente in una precisa strategia: portare per quanto possibile nel nostro Paese le condizioni di lavoro dei paesi emergenti, e in prospettiva i salari che in quelli prevalgano, perché ciò appare indispensabile allo scopo di reggere alla competizione internazionale. Se questa come sembra è la strategia Fiat, bisogna chiedersi dove essa potrebbe portare il Paese, ma anche la Fiat, e se la strategia stessa non avesse o non abbia ancora delle alternative.
Nel nostro Paese la strategia Fiat potrebbe in realtà non diminuire, grazie agli investimenti promessi, bensì aumentare il rischio di un marcato inasprimento e diffusione del conflitto sociale. Non può esservi dubbio, quali che siano le previsioni in contrario di questo o quel ministro o sindacalista, che migliaia di aziende le quali hanno sussidiarie all’estero chiederanno quasi subito, ove la strategia del Lingotto si affermasse, di adottarle a loro volta. È vero che c’è la crisi, che ha indebolito allo stesso tempo i sindacati e i singoli lavoratori; per cui molti di questi, dinanzi allo spettro della disoccupazione, accettano qualsiasi condizione pur di mantenere od ottenere un lavoro.
Tuttavia non è affatto detto che in tutte le categorie, in tutte le zone industriali, in tutte le fabbriche e in tutti gli uffici, la grande maggioranza dei lavoratori accetti senza fiatare i dettami dell’organizzazione del lavoro "di classe mondiale". Ivi compreso il divieto di far sciopero, di manifestare, di aprire vertenze e perché no di ammalarsi. È questo uno scenario che l’amministratore delegato Sergio Marchionne parrebbe aver notevolmente sottovalutato, nella sua foga di giocatore che punta soprattutto a vincere la partita, quali che siano le conseguenze per gli spettatori. Dovrebbe essere il governo a ricordarglielo con una certa fermezza; ma dove stiano il governo, i ministri competenti, i politici che non si limitino a dire di supporre che tutto finirà bene, nessuno lo sa.
Avrebbe potuto adottare altre strategie la Fiat, dinanzi a quella che senza perifrasi va definita come la crisi mondiale dell’autoindustria? La risposta è sì, alla quale è doveroso aggiungere che forse è troppo tardi. In primo luogo, anziché battersi per portare da noi le aspre condizioni di lavoro, i bassi salari, l’assenza di diritti dei paesi emergenti, Fiat avrebbe potuto battersi per addivenire ad accordi internazionali intesi a portare gradualmente in questi ultimi condizioni di lavoro, salari e diritti vigenti nei nostri paesi. Non è roba da fantapolitica. In molti settori, dall’abbigliamento all’industria mineraria, accordi del genere sono stati sottoscritti, e miglioramenti non trascurabili conseguiti per i lavoratori di entrambe le sponde. Naturalmente, in una simile operazione strategica Fiat avrebbe dovuto di nuovo avere dietro o accanto un governo capace di muoversi su questa complessa scacchiera.
Anche in tema di strategie industriali la Fiat avrebbe potuto imboccare strade diverse. L’autoindustria mondiale soffre di tre gravi problemi: un eccesso enorme di capacità produttiva, un serio ritardo tecnologico, e una sostanziale incapacità di affrontare lo snodo cruciale della mobilità sostenibile (ad onta di quel che dice il sito dell’Associazione europea costruttori d’auto). In una simile situazione l’autoindustria avrebbe dovuto scegliere la strada schumpeteriana della concorrenza cooperativa, in luogo della concorrenza distruttiva. La prima prevede lo sviluppo di oligopoli che sappiano mettere in comune piani di produzione e tecnologie, oltre a dividersi saggiamente aree di mercato. La seconda prevede la guerra di tutti contro tutti, nella quale mors tua vita mea.
Anche in questo caso la Fiat non poteva sviluppare da sola forme di cooperazione internazionale, ma con il suo peso industriale e il suo prestigio poteva almeno provarci. Per contro ha imboccato con eccezionale tenacia e durezza la strada della guerra a oltranza dei costruttori. Essere costretti a sperare, come capita ora con le sue ultime mosse, che Fiat nei prossimi anni vinca almeno qualche battaglia, se non la guerra, non aiuta a formarci una visione serena né di quel che resta o potrebbe restare dell’industria italiana, né delle virtù competitive di cui parrebbe doversi universalmente dotare la società in cui viviamo. Quella che si diceva fosse fondata sul lavoro.
A Manfredonia (Foggia) stanno seppellendo una scogliera. A Is Arenas (Oristano) vogliono piazzare un golf resort & residence. A Francavilla al Mare (Chieti/Pescara) si stanno mangiando la spiaggia. A San Vincenzo (Livorno) portano cemento armato fino al mare. A Scala dei Turchi (Agrigento) c’è il solito Mnf (multipiano non finito), marchio ufficioso del Sud. A Teulada (Cagliari) si vedono le gru sul mare (di metallo, non con le piume). A Torvaianica (Roma) litania di casette sulla spiaggia. A Valle dell’Erica (Santa Teresa di Gallura) altri 26.455 metri cubi nella macchia mediterranea. Tra Ortona e Francavilla (Abruzzo) in costruzione «nodo strategico infrastrutturale per implementare il traffico con l’Est Europa»: a ridosso della battigia.
È solo un campione della situazione sulle coste italiane, segnalata dai lettori del Corriere (sette gallerie fotografiche su Corriere.it). Commenti? Uno solo. Occhio: se l’autonomia amministrativa è questa, ci mangiamo l’Italia. Anzi: finiremo il pasto, ci puliremo la bocca e faremo il ruttino.
Il meccanismo è lo stesso, sempre e dovunque: l’amministrazione comunale concede il permesso di costruire (l’inghippo normativo, con un po’ di buona volontà, si trova). La cosa piace ai costruttori locali e ai residenti-elettori: in tempi difficili, è lavoro. Turisti, visitatori e viaggiatori protestano; poi alcuni, a cose fatte, comprano la casetta a schiera e l’affittano in nero.
E così, ripeto, ci mangiamo l’Italia. Non solo le coste: in pianura e in montagna sta accadendo lo stesso (avviso: intendo seguire con attenzione le vicende edilizie dell’amatissima Castione della Presolana, dove il sindaco è stato rimosso e si sta per approvare il Piano di Governo del Territorio). La bulimia edilizia degli amministratori è impressionante: in un’economia che ristagna, sembra che l’unica soluzione sia sacrificare una fetta di territorio. Venite a vederle, le montagne bergamasche e le campagne padane, nelle mattine d’estate, quando la pioggia ha lavato l’aria e il sole incendia il colore dei prati. Capirete che dovrebbero essere sacre, dopo tutto quello che ci hanno dato.
Ha scritto un amico architetto, Marco Ermentini: «Le cascine sono un patrimonio importante nel paesaggio rurale e non solo, sono l’ultimo anello di congiunzione con la civiltà contadina. Quanto resisteranno all’assalto di villette e capannoni? Quando cederanno alle fameliche espansioni edilizie dei sindaci? Essi trattano spesso queste testimonianze con la delicatezza di Jack lo Squartatore».
Jack il Cementificatore, magari con la fascia tricolore: è l’ultima maschera italiana, peccato che il carnevale sia finito. Dalle Alpi a Lampedusa dovremmo invece appendere lo stesso cartello: IN RISTRUTTURAZIONE. L’Italia è da rimettere in sesto: c’è lavoro per tutti, e tanta soddisfazione, nel sistemare l’esistente. Ne guadagnerebbero l’economia, l’ambiente, il turismo e l’autostima. Invece, niente: divoriamo ogni giorno la nostra terra, come draghi stupidi che si mangiano la coda.
Editoriale. L’ultimo modello, di Francesco Paternò
La Bomba. Ground zero Fiat, di Francesco Piccioni
Pomigliano D'Arco. No anche della Fim «Il contratto resti», di Francesca Pilla
La Fiom. Il segretario Landini: «La Cgil decida subito un'iniziativa. Un atto senza precedenti Da oggi cambia tutto», di Loris Campetti
L'ULTIMO MODELLO
di Francesco Paternò
L'ultimo modello di Marchionne è uno schiaffo in faccia a sindacati amici e nemici, al governo ombra di se stesso, a tutti i lavoratori. Un modello che impone una nuova società per la fabbrica di Pomigliano d'Arco, disdetta il contratto dei metalmeccanici e porta di fatto la prima industria del paese fuori dalla Confindustria. Una Fiat rivoltata sottosopra, come fosse finita in bancarotta alla stregua della controllata Chrysler e della General Motors.
Marchionne fa tutto questo alla vigilia dell'incontro di stamane a Torino tra le parti, governo e regioni, svuotato di qualsiasi significato (se mai ne avesse avuto) e dove presumibilmente non si presenterà. Tanto domani a Detroit avrà un bagno di folla con il presidente Obama, per la prima volta in visita a una fabbrica della Chrysler salvata proprio con l'aiuto del manager. Una coincidenza molto simbolica, perché al di qua dell'Atlantico Marchionne continua a ignorare l'inutile governo Berlusconi e vuole mandare in bancarotta i diritti dei lavoratori italiani. Non a caso l'unico a dirsi ottimista è il ministro Sacconi.
La newco a Pomigliano permetterà alla Fiat di licenziare tutti e riassumere solo chi è d'accordo con il nuovo contratto. La disdetta del vecchio contratto - dovrebbe essere comunicata domattina ai sindacati, nuovamente convocati a Torino - significherà imporre le nuove regole in tutti gli stabilimenti italiani del gruppo. Senza bisogno di fare un referendum, che poi per lui vale zero come si è visto nella fabbrica campana. L'uscita obbligata da Confindustria, causa disdetta unilaterale del contratto nazionale con i lavoratori, sarà invece il modo dell'amministratore delegato del Lingotto di festeggiare il centenario dell'associazione. Marcegaglia e altri suoi colleghi non saranno contenti.
John Elkann, il presidente della Fiat e principale azionista del gruppo, lo dovrebbe essere ancora meno: è appena diventato vicepresidente di una Confindustria che il suo manager ridicolizza. Ma forse a Elkann va bene così. Perché a lui e al resto della famiglia al volante, l'automobile interessa sempre meno. Messe via in un'altra società le parti più solide del gruppo con lo spin off, operativo dal prossimo gennaio, le quattro ruote saranno vendute, più prima che poi.
Sarebbe riduttivo pensare che questo Marchionne spaccatutto abbia in mente soltanto di far fuori la Fiom. Il nuovo contratto nazionale scade il 31 dicembre 2012 e formalmente la Fiat uscirà da Confindustria il primo gennaio 2013. Lo stesso anno entro il quale Marchionne si è impegnato a restituire ai governi statunitense e canadese i 7,4 miliardi di dollari in prestiti agevolati. A quel punto, se la Chrysler sarà davvero rilanciata, il patto di ferro con la Casa Bianca risulterà onorato. E il manager italiano potrebbe anche andarsene alla Ben Hur, con un bel bye bye all'auto del Lingotto e ai diritti calpestati dei suoi lavoratori.
LA BOMBA
Ground zero Fiat
di Francesco Piccioni
Costituita già da una settimana, ma rivelata solo ieri, la newco per «comprare» Pomigliano. Domani a Torino vertice con i sindacati per la disdetta del contratto nazionale. Un'uscita di fatto da Confindustria, e un azzeramento delle relazioni industriali
Un tir carico di dinamite sotto il patto sociale che ha retto l'Italia nel dopoguerra. Fatto da chi, se sta seguendo una logica, ha evidentemente deciso di considerare questo paese una location minore per la sua attività produttiva. La Fiat ha preparato la trappola esplosiva in poche mosse, mentre in tanti si affannavano a darle una mano e a maledire chi «non capiva» che il mondo è cambiato. Oggi siamo già nel «dopo Cristo».
La prima mossa si realizza una settimana fa, il 19 luglio, iscrivendo al registro delle imprese della Camera di commercio di Torino la «Fabbrica Italia Pomigliano». Una società completamente controllata dalla Fiat, con appena 50.000 euro di capitale e Sergio Marchionne come presidente. Attenzione: non amministratore delegato, come in Fiat spa. È la newco che dovrà «acquistare» lo stabilimento campano, senza nemmeno iscriversi all'associazione di categoria (Federmeccanica), assumendo ex novo soltanto quei lavoratori che accetteranno il contratto di lavoro che la «Fip» gli metterà sotto il naso, prendere o lasciare. Un contratto tutto nuovo, diverso da quello nazionale dei metalmeccanici, sottoscritto soltanto pochi mesi fa con i «complici» di Cisl, Uil e Fismic. Per questi non sarà un problema insormontabile cavar di nuovo di tasca la penna per una nuova firma. Naturalmente, si deve prevedere che oggi Marchionne non si farà neppure vedere per l'incontro di Torino con Regione, sindacati, enti locali, ecc.
La soluzione societaria ricalca del resto in modo quasi fedele lo schema seguito da Roberto Colaninno (e dal governo) per la privatizzazione di Alitalia. Solo che in quel caso c'era una vendita formalmente «vera» - dallo stato, ossia dal ministero dell'economia, a una cordata di privati convocati personalmente da Silvio Berlusconi - mentre questa volta bisognerà ricorrere a qualche altro «inguacchio» giuridico (ma il codice societario italiano è una miniera inesauribile), visto che venditore e acquirente sono anche formalmente le stesse «persone».
La seconda mossa è ancora più pesante. I sindacati presenti in Fiat - tutti, Fiom compresa - sono stati convocati domani a Torino, nella sede dell'Unione industriali, con all'ordine del giorno (quasi certamente) la disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici. Questo è anche un passo formale indispensabile per uscire da Federmeccanica e quindi dalla confederazione delle imprese italiane, ossia Confindustria. In un solo colpo la Fiat mette in soffitta tutte le rappresentanze collettive - sia dei lavoratori che delle imprese - aprendo una fase di conflitto sociale senza regole riconosciute e valide su tutto il territorio nazionale.
Da Confindustria, fin qui, nessuna reazione. Per statuto, infatti, le imprese possono essere iscritte solo se rispetto del contratto nazionale di lavoro che, nel caso della metalmeccanica, scade il 31 dicembre 2012. Fiat non ha fatto mistero, in questi giorni, di volere un «contratto auto» separato; praticamente un monopolio. Ma è chiaro che, senza la prima impresa industriale italiana, anche Confindustria diventerà rapidamente un'altra cosa. Lo dimostra la «svolta serba», in pochi giorni imitata dal altre aziende italiane (Omsa, Daytech): la strada tracciata dai «grandi» diventa un richiamo irresistibile anche per i piccoli e medi.
Più facile capire lo spiazzamento di tutti i sindacati. I «complici» diventano di fatto inutili (e in ogni caso troppi): adattatisi a gestire la «normalità a-conflittuale» dei luoghi di lavoro (favori sui turni, le assunzioni, le promozioni, enti bilaterali, ecc) non hanno quasi più senso in un ambiente che non prevede nessun possibile conflitto (se non quelli imprevisti...). Ma anche per chi ha mantenuto un profilo di rappresentanza reale dei lavoratori (parti consistenti della Cgil come la Fiom, i sindacati di base, ecc) si prospetta una lunga e difficile fase di ripensamento e riorganizzazione. Tra i primi effetti della disdetta contrattuale e dell'uscita da Confindustria c'è infatti il rifiuto, da parte dell'impresa, di girare le trattenute degli iscritti ai sindacati. Un modo come un altro di strangolare - economicamente - le sigle «scomode».
La politica - tutta - appare trasognata. A parte le reazioni critiche attese in questi casi (Paolo Ferrero, segretario Prc, parla di «ulteriore colpo di mano» e di «interessi della Fiat e quelli dell'Italia che non collimano»), o dell'Idv che vede «un golpe che tira l'altro», il resto è imbarazzo imbarazzante. Teniamo da parte anche il solito ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, che vede nelle mosse Fiat il grimaldello per sradicare il sindacato dal paese, a cominciare dalla Fiom. Gli altri parlano d'altro, come sembra ormai loro abitudine. Volete in piccolo florilegio? Eccolo. Il governatore leghista del Piemonte, Roberto Cota, si è detto «fiducioso, perché il piano presentato in aprile è ancora valido e lì sono previsti più posti di lavoro a Mirafiori in 5 anni». Il segretario della Uil, Luigi Angeletti, a proposito di una Fiat fuori dai metalmeccanici, ha detto che si tratta di un'ipotesi che «non voglio nemmeno prendere in considerazione». Dalla sponda Pd si continua a criticare l'immobilismo del governo, ma nemmeno una parola su (contro) Fiat. Fino a Piero Fassino che invita i lavoratori a obbedire comunque («anche loro hanno bisogno di un'azienda sana») e Marchionne a «esser consapevole che senza la Fiat l'Italia sarebbe un'altra cosa». In effetti, se non se ne rendesse conto, sarebbe grave; ma è lampante il contrario.
POMIGLIANO D'ARCO
No anche della Fim «Il contratto resti»
di Francesca Pilla
La notizia è arrivata e non ha sorpreso Pomigliano dove la possibilità di costituire una new company in cui riassumere tutti i 5000 dipendenti dello stabilimento Gianbattista Vico era sul piatto da tempo. Il Lingotto tenta di aggirare il contratto nazionale, arginare il dissenso del mancato plebiscito referendario del 22 giugno e costringere le tute blu a giungere a più miti consigli, cedendo sui diritti per non finire in mezzo alla strada. Ma anche le modalità di comunicazione sono quelle a cui Sergio Marchionne ha abituato da qualche tempo a questa parte il popolo dei dipendenti: la società è stata siglata il 19 luglio, ma le informazioni sono state diramate solo ieri tramite gli organi di stampa, senza nemmeno avvisare i sindacati.
«C'è poco da dire - ci spiega subito Giovanni Sgambati segretario regionale Uilm - è l'unico modo per mettere in sicurezza l'accordo per la nuova Panda. La colpa di questa decisione non può non ricadere sulla Fiom per la mancata sottoscrizione dell'accordo. Ma i lavoratori non hanno nulla da temere perché saranno mantenuti gli organici e i livelli di reddito, saranno i sindacati invece a doversi riorganizzare e a dovere rinunciare ai vecchi privilegi. Per il resto vorrei dire alla Fiom di non invocare sempre un contratto nazionale che non ha sottoscritto».
Immediata la risposta di Maurizio Mascoli segretario Campania dei metalmeccanici Cgil: «Sgambati deforma le posizioni degli altri, noi non ci riferiamo al contratto firmato da Fim, Uilm e Fismic, ma a quello collettivo che scade nel 2011». Quanto ai pericoli che si nascondo dietro la costituzione di una nuova compagnia, per la Fiom riguardano la volontà di non riconoscere più il contratto nazionale e di estorcere il consenso a un piano industriale che ha ottenuto il 40% dei no tra i dipendenti: «Il rischio - continua Mascoli - come ha anche sostenuto Sergio Bonanni della Cisl proprio sul manifesto è che venga messa in discussione la libertà dei lavoratori che sotto ricatto siano costretti a cedere i propri diritti. Noi ci opporremo con tutti gli strumenti di cui siamo in possesso». Oggi a Torino si discuterà della questione Mirafiori, giovedì del futuro dell'assetto industriale del settore auto in Italia, la Fiom e la Cgil ne sono coscienti, gli altri invece si sentono rassicurati dalle promesse fatte dall'ad Marchionne. «La Fiat ha intenzione di mantenere altre le produzioni a Mirafiori - dice sicuro Sgambati - ma anche a Torino devono adeguarsi, mica a Pomigliano sono fessi, i 18 turni valgono per tutti se ci sono picchi di mercato».
Per la Fim c'è qualche perplessità in più, anche se resta la convinzione che la responsabilità della scelta Fiat per Pomigliano sia interamente della Fiom: «A forza di tirarla prima o poi la corda si spezza - spiega Giuseppe Petracciano segretario regionale - Se tutti avessero contribuito a siglare l'intesa non saremmo arrivati a questo punto. Chiediamo alla Fiom di ripensarci e alla Fiat di fermarsi qui, perché il contratto nazionale non deve essere modificato. Il sogno dell'azienda è da sempre uscire da Federmeccanica e stipulare un contratto a sè, ma non è questa la strada e serve un confronto serrato».
Dalla Cgil il segretario campano Michele Gravano preferisce aspettare il confronto di giovedì prima di esprimersi: «Siamo profondamente preoccupati, in discussione c'è la presenza del gruppo in Italia, su questo siamo d'accordo con la Fiom, non serve trattare le condizioni di uno stabilimento alla volta, altrimenti perdiamo tutti. Su Pomigliano credo che la Fiat abbia sbagliato e invece di recuperare consenso risponde con un nuovo contratto. Non va, noi ci aspettiamo la riapertura del confronto».
LA FIOM Il segretario Landini:
«La Cgil decida subito un'iniziativa.
Un atto senza precedenti Da oggi cambia tutto»
intervista di Loris Campetti
«La radicalità dei processi in atto avrebbero dovuto mettere tutti sull'avviso, non solo la Fiom. La situazione è gravissima e l'ultima mossa di Marchionne fa cadere il velo sulle risposte che le imprese intendono dare alla crisi. La politica, almeno quella che ha ancora a cuore il lavoro, e l'intero mondo sindacale non possono chiamarsi fuori. In gioco c'è un pezzo fondativo della democrazia: i diritti dei lavoratori, il sistema di regole costruito nel dopoguerra e la Costituzione». Maurizio Landini è molto preoccupato, non se la cava con un facile «noi l'avevamo detto» e da buon sindacalista cerca le soluzioni dei problemi. A questo servono i conflitti: per riaprire il confronto e trovare soluzioni condivise «nell'ambito delle regole date, senza deroghe e senza cancellazione dei diritti individuali e collettivi».
Quel che si temeva è avvenuto e la Fiat, alla vigilia del tavolo convocato dal ministro Sacconi e dell'incontro con Fim, Fiom e Uilm, ha preso a schiaffi tutti annunciando che ha già costituito la newco a Pomigliano e che intende disdire il contratto dei meccanici. Come risponde il segretario della Fiom?
E' un atto gravissimo e inedito nella storia dell'Italia repubblicana, tantopiù se la costituzione della newco dovesse comportare la disdetta del contratto nazionale. Una decisione senza precedenti per noi, e spero non solo per noi, inaccettabile.
Cosa dirai all'incontro di domani (oggi per chi legge) a Torino, il cui valore già discutibile è stato azzerato dal proclama di Marchionne?
Dirò che vogliamo garanzie certe sui progetti industriali della Fiat. Che tutti gli stabilimenti devono essere salvati, sì, anche quello di Termini Imerese riaprendo un confronto alla ricerca di una soluzione produttiva da cui il Lingotto non può chiamarsi fuori. Se come dice Lombardo c'è un'offerta concreta e interessante siamo pronti a sederci al tavolo. Diremo che i licenziamenti fatti dalla Fiat per rappresaglia vanno ritirati. La pratica autoritaria non è tollerabile, se si parte dal principio della parità tra i soggetti che si confrontano. Anche a Pomigliano è possibile trovare soluzioni condivise per migliorare la qualità e la produzione degli impianti, anche rimettendo mano alla turistica con un accordo. Soluzioni pure migliori di quelle imposte con un accordo separato, un referendum imposto sotto minaccia, addirittura una newco. La verità è che Marchionne non cerca soluzioni condivise, vuole tutto il potere nelle sue mani per umiliare chi lavora spogliandolo di diritti, regole e contratti. Noi da questi punti non deroghiamo.
Lo schiaffo di Marchionne colpisce la Fiom ma colpisce anche chi, come Fim e Uilm, ha firmato l'accordo separato di Pomigliano. Sarà uno schiaffo salutare?
Vedremo domani. Se la Fiat confermerà la sua pretesa di aver mano libera sulla forza lavoro, fino alla cancellazione del contratto, tutti dovrebbero fare una riflessione. Non c'entra essere moderati o radicali, la realtà è che insieme ai diritti di tutti vogliono cancellare i sindacati, non solo la Fiom. Se oggi si consentirà che ciò avvenga in Fiat, domani avverrebbe in tutte le aziende. Mi fa ridere chi diceva che Pomigliano avrebbe rappresentato un'eccezione.
Il nuovo scenario potrà aiutare un confronto più sereno anche tra la Fiom e la Cgil?
La bomba atomica lanciata da Marchionne cambia tutto e rende non più rinviabile un cambiamento delle strategie, sindacali e politiche. Nell'ultima intervista rilasciata da Guglielmo Epifani, il segretario Cgil chiedeva a Marchionne di non procedere sulla strada della newco a Pomigliano, riaprendo un confronto ma senza pretendere di mettere mano ai diritti e ai contratti. Marchionne ha scelto la strada opposta e ripeto che questo è un segnale generale, alle imprese, ai sindacati, alla politica. Mi aspetto che la Cgil decida subito un'iniziativa forte in difesa dei diritti e dei contratti. Il lavoratore titolare dei diritti deve tornare a essere il centro, anche della battaglia politica per costruire una diversa risposta alla crisi e un diverso modello di sviluppo.
E la politica intanto resta latitante...
C'è il problema di un governo assente, privo persino di un ministro che oggi dovrebbe essere centrale, subalterno alle imprese, senza una politica economica. Non è così in Germania, o in Francia dove pure esistono più produttori auto e la delocalizzazione è molto inferiore a quella della Fiat, l'unica azienda auto che produce nel proprio paese solo il 25% delle vetture totali. Per quanto riguarda le opposizioni, penso che non possano più giocare con il piede in troppe scarpe: se hanno a cuore chi lavora e un'idea diversa di società, battano un colpo. Ora.
Molti nodi vengono al pettine con la nuova, aggressiva politica della Fiat. La crisi dell’automobile: questi geni del capitalismo non ci avevano mai pensato prima? La crisi della politica: da quando è diventata ancella dell’economia, e di questa economia, ha rinunciato al suo mestiere, si limita a partecipare al saccheggio e a tentar di gettare un po’ d’olio nelle ruote del carro del padrone. La crisi della cultura, in tutte le sedi in cui la cultura serve per comprendere, quindi per agire: possibile che così pochi si siano accorti che quando, negli anni 70, il “capitalismo moderno” aveva cominciato, soprattutto da noi, a disinvestire dalla produzione per reinvestire nel portafoglio immobiliare e finanziario era cominciato il divorzio tra interesse collettivo e interessi aziendali?
Per Tuvixeddu si ricomincia daccapo: il Consiglio di Stato ha bocciato in serie tutte le argomentazioni del comune di Cagliari e della Nuova Iniziative Coimpresa e accogliendo per la prima volta la tesi dell’Avvocatura dello Stato, della Regione e di Italia Nostra ha disposto che l’amministrazione regionale e la Sovrintendenza ai beni archeologici di Cagliari e Oristano elaborino una «documentata relazione accompagnata da apposita cartografia ed eventuale corredo fotografico» che serva a spiegare in base a quali «presupposti o sopravvenienze» la giunta regionale abbia indicato l’area del colle punico come «caratterizzata da preesistenze con valenza storico-culturale». I giudici di palazzo Spada, rompendo una sequenza di decisioni negative per chi ha a cuore le sorti dell’area sepolcrale punico-romana minacciata dal cemento, vogliono sapere nei dettagli su quali basi il piano paesaggistico regionale varato dalla giunta Soru abbia inserito Tuvixeddu fra le aree di pregio culturale e dove si trovino i nuovi ritrovamenti di tombe che l’avvocatura dello stato e la Regione, nel ricorso firmato dagli avvocati Vincenzo Cerulli Irelli e Giampiero Contu, giustificherebbero la revisione dell’accordo di programma del 2000, quello che ha dato il via libera all’edificazione del colle. La Regione e la Sovrintendenza - è stabilito nella decisione della sesta sezione del Consiglio di Stato - hanno sessanta giorni di tempo per depositare nella segreteria di palazzo Spada le relazioni richieste. Il contenuto dei documenti sarà poi trattato in udienza pubblica il 26 gennaio 2011. A quel punto i giudici - presidente Severino, consiglieri Paolo Buonvino (relatore), Rosanna De Nictolis, Maurizio Meschino e Carlo Polito - avranno in mano quanto serve a decidere se aveva ragione l’amministrazione Soru oppure la strana coppia comune di Cagliari-Nuova Iniziative Coimpresa.
Il centro della controversia è nella stretta sostanza questo: dal 1997, la data in cui venne imposto il primo vincolo diretto sull’area sepolcrtale, al 2006 quando Soru cercò di bloccare il progetto Coimpresa, sono intervenute nel sito storico modificazioni tali da giustificare nuovi vincoli oppure aveva ragione l’ex sovrintendente archeologico Vincenzo Santoni - poi finito a giudizio per tentato abuso d’ufficio - per il quale nulla è cambiato? Con l’ordine di esaminare scientificamente lo stato dei luoghi a Tuvixeddu il Consiglio di Stato sembra voler mettere finalmente un punto fermo sulla questione, andare a fondo e vederci chiaro. Una scelta annunciata all’indomani dell’udienza romana del 16 giugno scorso, quando secondo indiscrezioni l’orientamento dei giudici sembrava essere quello di compiere un sopralluogo a Cagliari. Di certo questo nuovo clamoroso pronunciamento, per quanto ancora interlocutorio, apre scenari inediti sull’annosa questione di Tuvixeddu: per la prima volta viene messo un autorevole punto interrogativo sul contenuto - finora considerato sacro - dell’accordo di programma del 2000, per la prima volta superano il diaframma del formalismo giudiziario amministrativo le ragioni degli ecologisti, delle associazioni culturali, degli intellettuali che da anni denunciano come il progetto Coimpresa rappresenti una seria minaccia per l’integrità del paesaggio storico e ambientale di Tuvixeddu. Un’integrità difesa dal Ppr e dal Codice Urbani, arrivati dopo l’accordo di programma ma finora ignorati nella sequenza di giudizi.
Comunque sia il Consiglio di Stato non si accontenta del faldone di documenti prodotti dalle parti in causa e vuole andare a fondo. Partendo certamente anche dalla clamorosa richiesta di archiviazione firmata dal pubblico ministero Daniele Caria, che nel valutare l’insussistenza dei principali aspetti penali della vicenda ha confermato con indagini approfondite quanto l’amministrazione Soru con l’avvocato Vincenzo Cerulli Irelli ha sostenuto nelle fasi del giudizio. Ma soprattutto quanto Sardegna Democratica attraverso l’avvocato Giampiero Contu ha proposto ai giudici di Roma con un intervento ad adiuvandum che contiene ampi stralci del provvedimento della Procura: dal 2000 ad oggi sono cambiate le norme che tutelano il paesaggio, è il Codice Urbani a stabilire esigenze di difesa molto pi rigorose. A Tuvixeddu poi sono state scoperte 1166 sepolture antiche che non erano note dieci anni fa, quando venne firmato l’accordo di programma sul piano di Nuova Iniziative Coimpresa. Se il ricorso della Regione - cui si sono affiancati Italia Nostra con l’avvocato Carlo Dore e Sardegna Democratica - venisse accolto il piano paesaggistico regionale imporrebbe la propria prevalenza sul futuro del colle cagliaritano: al di là dei prossimi giudizi sulla validità delle autorizzazioni, attorno alla necropoli non si potrebbe più mettere in piedi un solo mattone.
Mose, metropolitana, sviluppi urbani al Lido e Tessera: in città non mancano i progetti. Ma l’ecosistema è a rischio
La cristalleria è piena di elefanti. Per usare la metafora dell’urbanista Edoardo Salzano, veneziano d’adozione, la soave, fragilissima Venezia continua a fronteggiare impatti vari e assortiti, presenti e futuri. A cominciare dai 22 milioni circa di turisti annui che rappresentano ormai il pericolo numero uno per il suo delicato equilibrio, per proseguire con la perdita progressiva dei residenti (175 mila nel 1951, meno di 60 mila oggi) e, con essi, delle attività minute che fanno città, sostituite dall’orgia carnascialesca dei venditori di paccottiglia e souvenir. Pesano poi le grandi attività industriali, dai veleni di Porto Marghera, che ancora attendono una risposta progettuale, alla portualità turistica e commerciale, che fa transitare in laguna petroliere e navi da crociera sempre più grandi, acuendo i problemi del moto ondoso e della perdita dei fondali. Incombono i grandi progetti, Mose su tutti (nonostante abbia vinto la sua lunga guerra trova ancora fiera opposizione in città), ma anche gli sviluppi immobiliari al Lido e a Tessera, oggi in difficoltà, mentre la voglia di grandeur trasportistica fa pensare alla metropolitana sublagunare e all’alta velocità ferroviaria. E se Roma non avesse vinto il ballottaggio per la candidatura dei Giochi olimpici del 2020 – verso cui la città remava quasi all’unisono – oggi saremmo qui a ragionare su piscine olimpioniche e stadi per l’atletica leggera, così come un tempo si ragionava sulle infrastrutture necessarie per l’Expo 2000 che Gianni De Michelis e Carlo Bernini avrebbero voluto portare sotto il campanile di San Marco.
Cosa comporta tutto questo? Scrive lo storico Piero Bevilacqua nel suo bel saggio “Venezia e le acque” (Donzelli): “L’antico rapporto di simbiosi anfibia fra la città e la sua gente, alla base del miracolo di conservazione cui Venezia deve la sua sopravvivenza, si è dissolto […] a vantaggio di un insieme di relazioni occasionali, fuggevoli, superficiali. Al suo posto […] è subentrata un’anonima ‘folla cittadina’ che usa la città come un fondale teatrale, sontuoso ma estraneo ai suoi interessi materiali e alla sua fretta, e sostanzialmente vissuto con indifferenza”. Lo stesso legame culturale dei veneziani con l’elemento acqua, secondo Bevilacqua, è cambiato: “Gli innumerevoli canali e rii che intersecano vie, calli, edifici, campi […] sono ormai vissuti come un impaccio”. Da qui la voglia di velocità e sviluppo. Che certo vanno governati, come in qualunque altra città italiana, ma che qui richiedono “uno straordinario sforzo di impegno e di creatività del potere politico”.
Il punto è questo: chi comanda oggi a Venezia? Non il sindaco, dicono i maligni, in una città che è sotto tutela statale da quasi 40 anni. Sarà un caso, ma il Mose è passato con la benedizione di tutti i governi, a cominciare dagli esecutivi di centrosinistra (Amato e Prodi), sulla carta del medesimo colore delle varie giunte comunali Cacciari, molto ostili al sistema di dighe mobili. Qui poi è attivo sin dai primi del Novecento il Magistrato alle acque, longa manus del ministero delle Infrastrutture ed espressione prima della particolarità amministrativa di Venezia; qui sono molto influenti sia l’autorità aeroportuale, che a colpi di traffici (il Marco Polo è il terzo scalo passeggeri in Italia) sta influenzando gli sviluppi urbani di Tessera, sia l’autorità portuale, affidata a un personaggio del calibro di Paolo Costa, già rettore di Ca’ Foscari, sindaco e ministro dei Lavori pubblici; qui agiscono commissari per le più svariate incombenze, dal controllo del moto ondoso allo scavo dei canali, perfino la costruzione del Palazzo del cinema al Lido ha il suo. Anche la Regione svolge un ruolo attivo nella salvaguardia della Serenissima, affidatole dalle leggi speciali per Venezia, occupandosi del disinquinamento del bacino scolante lagunare. Per non dire del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico per la progettazione e la realizzazione del Mose, che gestisce una partita da 4,7 miliardi di euro (e chissà se basteranno) con forti ricadute territoriali.
In questa arlecchinata di poteri, com’è inevitabile, ciascuno rivendica competenze e spazi, spesso in conflitto con quelli degli altri. Morale: tutto si muove con una certa vischiosità e manca un’idea di sviluppo coerente e condivisa. Senza un’inversione di rotta Venezia rischia una radicalizzazione dei problemi, con la perdita dell’ecosistema lagunare, trasformato irrimediabilmente in un braccio di mare, il centro storico mutato in una Disneyland a uso e consumo di un turismo sempre più mordi e fuggi (i grandi hotel sono in crisi), il progressivo degrado delle strutture architettoniche, già oggi evidente in molte parti della città: alla fine di maggio La Nuova Venezia denunciava le crepe nei ponti dei Bareteri e del rio San Luca, mentre crollano le rive lungo rio del Malibran, conseguenza “di anni di traffico selvaggio e tagli alla legge speciale – per finanziare le grandi opere – e dunque alla manutenzione diffusa della città”. Vedremo se la nuova giunta comunale guidata da Giorgio Orsoni riuscirà a recuperare voce in capitolo. E a bloccare almeno in parte la deriva cui sembra destinata la Serenissima.
Questione di Principia
Al centro dell’attenzione, non fosse altro per il giro d’affari che muove, resta il Mose, che ormai drena per intero gli stanziamenti destinati alla salvaguardia di Venezia. “La legge speciale non è mai più stata finanziata”, si rammarica Giampietro Mayerle, che dirige l’ufficio salvaguardia presso il Magistrato alle acque, chiamato a seguire il lavoro del Consorzio ma anche esecutore di progetti in diretta amministrazione, soprattutto di difesa morfologica: quando c’era qualche spicciolo da spendere, appunto. Procedono invece le opere del Mose alle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia, dove verranno posizionate le schiere di 79 paratoie mobili. Le dighe sono destinate ad alzarsi con una marea di 110 cm, cioè in media 3,6 volte all’anno, secondo uno studio dell’Istituzione centro maree di Venezia (periodo considerato 1966-2008): non spesso, dunque, ma la tendenza è in crescita – 53 eventi dal 1996 al 2005, più del doppio rispetto al decennio precedente – causa i fenomeni contemporanei di subsidenza (abbassamento del livello del suolo) ed eustatismo (innalzamento del mare), che hanno fatto perdere alla città 23 centimetri nell’ultimo secolo.
In particolare, al Lido è stato costruito un porto rifugio, “costituito da due bacini – spiegano al Consorzio Venezia Nuova – che consentiranno il ricovero e il transito, attraverso la conca di navigazione, delle piccole imbarcazioni e dei mezzi di soccorso quando le paratoie saranno alzate”. Qui, al centro della bocca, è stata realizzata anche una nuova isola, punto d’arrivo delle due schiere di paratoie previste. A Malamocco, oltre alle strutture di spalla alle dighe mobili, è stata ultimata la scogliera curvilinea (1.300 metri) “che ha la doppia funzione di smorzare la vivacità delle correnti di marea e creare un bacino di acque calme a protezione della conca di navigazione per le grandi navi dirette a Marghera”, mentre a lato della conca è stata allestita un’area provvisoria di cantiere, dov’è in corso la costruzione dei cassoni di alloggiamento delle paratoie: si tratta di veri e propri edifici, alti fino a 12 metri, larghi 60 e lunghi 40-50. A Chioggia, oltre alla scogliera di 500 metri, sono quasi ultimati i lavori che interessano il lato nord della bocca, dove si sta realizzando un altro porto-rifugio per i pescherecci. A Selvazzano (Pd), invece, è stata realizzata la pre-serie del gruppo cerniera-connettore, elementi di snodo fra cassoni e paratoie, su cui “sono in corso le prove finalizzate alla produzione industriale e al montaggio”. La costruzione delle cerniere sarà affidata con gara europea bandita dal Consorzio, una delle poche sfuggite alla concessione unica. C’è poi tutta la partita della manutenzione del Mose: l’Agenzia del demanio con un’altra concessione ha assegnato al Magistrato alle acque, che agisce attraverso il Consorzio, 125 mila metri quadrati di aree nella zona nord dell’Arsenale. I lavori, anche qui, sono quasi ultimati: alle Tese della Novissima, in particolare, andranno le attività di gestione (monitoraggi ambientali, raccolta dati sull’ecosistema, controllo operativo delle barriere), mentre la manutenzione vera e propria delle paratoie avverrà nei bacini di carenaggio. Allo scopo è in fabbricazione un natante speciale (jack up) in grado di installare e rimuovere le barriere, munito di quattro gambe telescopiche che si appoggiano sul fondo per effettuare l’intervento. L’intera operazione, sottolineano al Consorzio, sta occupando circa 3 mila addetti, con l’impiego nei cantieri di circa cento mezzi navali: dovrebbe essere ultimata nel 2014. I costi: 4,678 miliardi, con importi finora assegnati pari a 3,244 miliardi e avanzamento delle opere stimato al 63 per cento, “essendo stati impegnati per interventi ultimati o in corso 2,949 miliardi rispetto al fabbisogno totale”.
A valutare questi dati sembrerebbe che per gli oppositori del Mose la partita sia ormai persa. I cantieri avanzano e lo Stato li finanzia: anche nella manovra di rastrellamento di fondi non spesi operata dal ministero dell’Economia a fine maggio sono saltati fuori altri 400 milioni per il sistema di dighe mobili. Il Comune, poi, agita il ramoscello d’ulivo: sia le dichiarazioni del neo sindaco Orsoni che quelle dell’assessore all’Urbanistica, Ezio Micelli, sono improntate a realismo. “Sicuramente l’opera richiede un processo di accompagnamento da parte del Comune – ci ha detto Micelli – perché molti interventi hanno rilievo urbano significativo, soprattutto a nord, e su questi qualche riflessione, sul piano paesaggistico e urbanistico, va fatta. Ma non credo che ci siano ulteriori margini di manovra. Continuare a ostacolare il Mose dopo che governi di ogni colore hanno dato il via libera non avrebbe senso. Anche la città ha cambiato atteggiamento: prima si coglieva maggiore ostilità, adesso prevale la curiosità di vedere finita la grande opera e valutarne il funzionamento”.
Il punto è proprio questo: la tecnologia del Mose reggerà la prova in mare? Lasciamo pure alle spalle le ferite del passato. Dimentichiamo dunque le polemiche sull’affidamento dell’opera senza gara pubblica e con oneri concessori alti (12%); scordiamoci la bocciatura nel 1998 da parte della Commissione ministeriale di valutazione d’impatto ambientale, visto che il decreto fu poi annullato dal Tar Veneto su ricorso presentato dalla Regione e il governo, che pure poteva predisporre una nuova Via, mollò il colpo; non consideriamo – del resto, chi l’ha fatto? – le bacchettate della Corte dei Conti, che in un’ordinanza nel febbraio 2009 ha messo sulla graticola vari aspetti del Mose, fra cui i costi, “incrementati per una serie di cause come le continue rimodulazioni, l’introduzione di nuove opere, l’indeterminatezza progettuale”, e i collaudi, affidati “con scarsa trasparenza” a consulenti esterni; mettiamo da parte le numerose proposte alternative per risolvere il problema dell’acqua alta presentate dal Comune, fra cui il celeberrimo sistema di paratoie a gravità firmato da Vincenzo Di Tella, che funziona in maniera simile al Mose ma si aziona in modo opposto, sfruttando il senso e la forza idrodinamica della marea, con un bel risparmio di energia; sorvoliamo infine sul fatto che del Mose c’è solo un progetto definitivo, “però di grande dettaglio – spiegano al Consorzio – perché l’opera è talmente vasta che sarebbe stato impossibile presentare un unico esecutivo”, sicché si è deciso di procedere per stralci funzionali.
Resta comunque di attualità la querelle con la rinomata società di studi offshore Principia di Marsiglia, considerata una delle più attendibili del settore, che ha bocciato clamorosamente il Mose. Cos’è accaduto? Per capire, bisogna fare un passo indietro, alle riunioni presso la presidenza del Consiglio dei ministri del 2 e 8 novembre 2006, nelle quali il Comune aveva tentato l’ultimo vano assalto al sistema Mose, “sulla base di analisi e valutazioni che avevano, fra l’altro, evidenziato gli aspetti critici strutturali del progetto”, ricorda Armando Danella, che per anni ha diretto l’ufficio salvaguardia del Comune veneziano. “In quell’occasione – prosegue – alcuni cattedratici del settore marino off-shore ci avevano consigliato di non desistere, perché i metodi di calcolo evolvono molto rapidamente e sarebbe stato plausibile, nel giro di qualche tempo, effettuare valutazioni più approfondite sul progetto”.
Passano dunque un paio di anni e viene commissionato a Principia “un nuovo studio volto ad analizzare il comportamento dinamico della paratoia Mose”: sembra che sia stato proprio Danella a convincere Cacciari, ormai rassegnato alla sconfitta, ad affidare l’incarico. Principia, che ha sviluppato una modellistica all’avanguardia, dopo avere studiato il progetto definitivo del Mose esprime due valutazioni piuttosto pesanti: in certe condizioni di mare avverso (onde alte 2,2 metri e periodo di otto secondi), “già superate peraltro nel recente passato”, afferma Danella, le paratoie alzate oscillano con ampi angoli che fanno entrare acqua in laguna; e questa amplificazione non controllata dell’angolo di oscillazione “rende il Mose sistema dinamicamente instabile – continua Danella – il che comporta l’impossibilità di identificare un corretto e attendibile dimensionamento delle strutture, delle cerniere e dei connettori; né per questo si può utilizzare la sperimentazione in vasca su modelli in scala ridotta, dove gli effetti viscosi non sono rappresentati correttamente”. Detto un po’ brutalmente e in altri termini: le paratoie in certe condizioni di mare non tengono. E comunque è impossibile dimensionarle correttamente. La loro efficacia sarà testata direttamente in mare. Non il massimo, come garanzia, per un’opera da 5 miliardi di euro.
Lo studio viene consegnato a Massimo Cacciari, che stranamente tiene la pistola fumante chiusa nel cassetto per qualche mese. Poi, quasi obtorto collo, il 22 luglio del 2009 lo fa pubblicare sul sito del Comune: una tempistica che spinge il Consorzio a parlare di “uso strumentale dello studio” da parte della precedente giunta. Comincia anche un balletto di accuse senza ritorno. Il Magistrato alle acque, informato della vicenda, prima presenta alcune domande tecniche a Principia (o meglio, le fa inoltrare formalmente al Comune stesso) e, una volta ottenute, fa scendere in campo il suo Comitato tecnico, che presenta le sue controdeduzioni, chiamando in causa un’altra volta il pool internazionale di esperti di riferimento e negando la validità dello studio; Principia ribadisce seccamente le sue posizioni. Volano, fra le righe, accuse reciproche d’incompetenza: la sfida è pesante, ma molto sotto traccia. Per questo motivo Danella, che fa parte dell’associazione Ambiente Venezia, più un ampio pool di soggetti, da Italia Nostra al Wwf, dalla Lipu ai No Mose, vorrebbero lanciare un dibattito tecnico-scientifico a livello internazionale sul tema. Il problema è serio, affermano: Venezia non è forse patrimonio mondiale dell’Umanità? La partita non è perduta, sostengono, considerato che finora sono state realizzate solo le opere preparatorie del Mose, ma non il sistema di dighe mobili vero e proprio. Sognano il colpo di scena finale, la carta che spariglia il gioco. Il dossier Principia circolerà ancora e chissà cosa produrrà. “Il Mose non sarà fermato – è la chiosa tombale di Andreina Zitelli, docente di Analisi e valutazione ambientale dei progetti dell’Università Iuav di Venezia e membro della Commissione Via che bocciò il progettone – non fu bloccato vent’anni fa, quando era ancora possibile intervenire, figuriamoci oggi: non c’è più tempo, né l’intellettualità necessaria a sostenere ipotesi alternative, né fondi. Ma non funzionerà. Mi spiace solo che non ci sarò più nel momento in cui il suo fallimento sarà sotto gli occhi di tutti”.
Trasformazioni a rischio
“L’assoluta specificità di Venezia – afferma Edoardo Salzano – è costituita dal suo rapporto con la laguna, in particolare dal rapporto fra trasformazione e natura, in cui la città per secoli è stata maestra. Sotto questo aspetto, la città è sempre stata modernissima: l’attenzione all’ambiente che ha mostrato la Repubblica la rende un caso esemplare. Oggi si confrontano due linee opposte: la difesa di questa specificità e la tendenza all’omologazione, cui appartengono progetti edificatori a largo spettro, dalla realizzazione della sublagunare alla considerazione dell’acqua come rischio e non come risorsa. Ed è questa, purtroppo, la tendenza vincente”, nonostante un’antica regola della Serenissima, ripresa anche dalla seconda legge speciale (n. 798/84), prevedesse in laguna solo trasformazioni sperimentali, graduali e reversibili. “In questa città – spiega Cristiano Gasparetto, consigliere di Italia Nostra – le opere proposte vengono realizzate per parti: manca una visione strategica del futuro di Venezia. Chi vuole la sublagunare, per esempio, invoca la necessità di muoversi in centro con minore lentezza, che però qui è un valore”. Chi vuole la sublagunare (Tessera-Arsenale, con l’idea di portarla fino al Lido) è sicuramente Enrico Marchi, patron della Save, la società che gestisce l’aeroporto Marco Polo, considerandola uno strumento necessario al lancio in orbita dello scalo. Sicuramente l’avrebbe voluta anche la giunta Cacciari: come ricorda Carlo Giacomini, docente di Scienza dei trasporti allo Iuav, “la metropolitana è stata prevista dal pum, il piano urbano integrato per il sistema della mobilità. Dispiace che in quella sede non si siano volute valutare in maniera comparativa altre opzioni strategiche. La metropolitana – ma anche il tram a Venezia – è stata assunta come scelta scontata: come sempre, si è deciso di anticipare l’infrastruttura alla programmazione della mobilità”. Quanto alla sublagunare, progetto a canna unica destinato ad attirare una quota risibile della mobilità veneziana (8-9% secondo stime comunali), “non si comprende se sia più inutile o pericolosa”, chiosa Giacomini. La giunta Orsoni, sul tema, sembra freddina: i 600 milioni necessari a costruirla non ci sono, la cordata guidata dall’Actv (l’azienda comunale dei trasporti) è ferma al palo e la realizzazione, al di là dei problemi finanziari, presenta gravi incognite ambientali. La canna – ma bisognerebbe costruirne almeno due, per motivi di sicurezza – correrebbe a 27 metri di profondità e andrebbe a sfondare il caranto, sedimento di argille storiche su cui poggia Venezia, tagliando anche le falde acquifere. La sua compatibilità con l’ecosistema lagunare, semplicemente, non esiste.
Ben diverso è l’affaire Tessera city, sviluppo immobiliare attorno all’aeroporto voluto ancora da Cacciari, che nel gennaio 2009 in una notte da lunghi coltelli, in mezzo a mille polemiche, ha varato una delibera che ha trasformato in edificabili “i terreni agricoli di una delle aree a maggior rischio idraulico di tutto il Triveneto”, come sottolinea Stefano Boato, docente di Pianificazione e progettazione del territorio allo Iuav. Lì, come abbiamo visto, dovrebbero attestarsi metropolitana e alta velocità ferroviaria, progetti altamente improbabili; lì avrebbe dovuto essere realizzata buona parte delle infrastrutture dei Giochi del 2020, ormai sfumati; lì resta in vita il Quadrante, megaprogetto da 1-2 milioni di metri cubi (casinò, alberghi, stadio e centri sportivi, commerciali e direzionali), vera e propria nuova città (Tessera city, appunto). “È bastato un voto del consiglio comunale – continua Boato – e il valore delle aree si è moltiplicato per venti volte, con la plusvalenza messa immediatamente a bilancio dai proprietari, ovvero dalle società Save e Casinò municipale di Venezia. Evidentemente si preferisce costruire ex novo a Tessera anziché riusare i grandi spazi dismessi di Marghera, perché ancora da bonificare, o riqualificare le periferie di Mestre, dove insistono 4 mila appartamenti invenduti”. Di diverso avviso l’assessore Micelli: “Capisco le preoccupazioni legate al consumo di nuovo territorio, però Tessera è uno dei grandi poli del sistema metropolitano veneziano, non può non essere valorizzato con attrezzature collettive e messo a disposizione di un territorio più ampio. La mia sfida sarà coniugare sviluppo e una rinnovata attenzione per la dimensione socioambientale. Vedo però che inizia a diffondersi in città un’opposizione a qualunque tipo di sfida. Con valutazioni certo legittime, che però non condivido”.
Altro tema che ha mosso molti malumori in città è lo sviluppo in corso al Lido, isola già interessata dai lavori del Mose agli Alberoni e a Malamocco, nonostante sia caratterizzata da un ambiente speciale, “non a caso tutelato dal palav, il piano d’area della laguna di Venezia – afferma Fabio Cavolo, esperto ambientale e lidense doc – strumento operativo della legge speciale che vincola le aree a valenza storica, paesaggistica, ambientale e culturale”. La complessa vicenda è stata sintetizzata in un esposto presentato da un gruppo di associazioni – dalla Lipu a Codacons Veneto, da Venezia civiltà a Pax in Aqua – al procuratore capo della Repubblica di Venezia Vittorio Borraccetti. Al centro della querelle, una serie di questioni: fra l’altro, l’acquisto da parte del Comune dell’ex Ospedale al mare con fondi della legge speciale, impiegati poi per la realizzazione del nuovo Palazzo del cinema; l’avvio dei lavori senza completa copertura finanziaria; il ricorso a un commissario straordinario, Vincenzo Spaziante, per la costruzione del Palacinema, “derogando dalle leggi che tutelano il patrimonio ambientale e storico nell’area di edificazione”; l’abbattimento di una pineta storica e diverse alberature nel parco delle Quattro fontane, nonché “l’improprio utilizzo dello stesso quale area di cantiere”; la distruzione dei resti del forte ottocentesco del piazzale Casinò, situato sotto il Palacinema, e l’alienazione “per scopi diversi di quelli sanitari” di strutture ospedaliere “frutto di donazioni pubbliche e private”. Sotto accusa anche l’estensione dei poteri del commissario delegato ad altri progetti privati che vengono considerati connessi al Palacinema, dalla riqualificazione degli hotel Des Bains ed Excelsior alle villette-centro benessere del riconvertito forte asburgico di Malamocco. Secondo i ricorrenti, si tratta di interventi “che non rivestono carattere né di urgenza né di eccezionalità ed evitano tutte le autorizzazioni di rito, compresa quella della Commissione per la salvaguardia di Venezia”. L’allargamento dei poteri era stata determinata da un’ordinanza del presidente del Consiglio dei ministeri del 15 luglio 2009: ricorda qualcosa? Al Lido è in campo un operatore unico, la società Est Capital, presieduta dell’ex assessore alla Cultura della prima giunta Cacciari, Gianfranco Mossetto: ciò nonostante i lavori procedono a rilento, soprattutto la realizzazione del Palacinema, che avrebbe dovuto rientrare nel pacchetto di opere per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia: “Il progetto viene continuamente ridimensionato – afferma il segretario della Cgil veneziana Salvatore Lihard – in carenza di finanziamenti. Secondo gli investitori sono pronti, complessivamente, 800 milioni da spendere per il Lido, ma noi siamo molto scettici: qui le opportunità stanno svanendo, la crisi è fortissima e la desertificazione produttiva è alle porte”. Anche il Comune, come chiarisce Micelli, ha chiesto a Spaziante un ripensamento complessivo dei progetti per il Lido. L’assessore parla di “modalità di partecipazione democratica violentate” e della necessità “di riprendere in mano in blocco i progetti che hanno valenza urbanistica. Su questo c’è comune sentire con il sindaco Orsoni e anche gli investitori – nonché lo stesso commissario – stanno dimostrando ampia disponibilità a discutere”.
Anche la vicenda Lido ha visto in campo, per l’ennesima volta, un pool di associazioni, che rappresenta la vera novità del panorama politico veneziano. Si è costituito un coordinamento di 16 sigle che ha chiesto a Orsoni maggiore trasparenza sull’attività di governo, soprattutto nelle scelte di sviluppo del territorio: “Per costruire una vera partecipazione dei cittadini – sottolinea una delle animatrici del pool, Tiziana Plebani di Geografia di Genere – è necessario agire per un potenziamento degli spazi pubblici e della loro utilizzazione; il secondo passaggio per la costruzione di una vera relazione democratica fra cittadini e amministratori è l’ascolto. Esiste alla base della società civile una ricchezza infinita di saperi e di competenze che tengono conto della persona e dell’ambiente. Disinteressatamente, senza prebende o consulenze. Uno scambio fuori mercato “per tenere il mercato fuori dalla città”, considerata come “bene comune collettivamente gestito”. Ma per ora ciascuno procede per la sua strada.
QUANTI stracci dovranno volare prima che qualcuno sancisca che della truffa perpetrata ai danni dei residenti a Santa Giulia non ci sono colpevoli? Quante prese di distanza? Quanti scaricabarile? Quanta ipocrisia nell’ennesima tragicommedia all’italiana? Ve li ricordate i nostri amministratori ai vari Mipim di Cannes (Marché international des professionels de l’immobilier, per chi non ama gli acronimi) dove presentavano trionfanti le penne del pavone e dove il progetto Santa Giulia era uno dei fiori all’occhiello? Quanto si è scritto e stampato a spese nostre dagli enti pubblici per fare pubblicità ai privati... «I progetti in corso sono tutti caratterizzati da una particolare attenzione al verde, che costituisce il trait d’union degli interventi tesi a trasformare Milano in una nuova città, più vivibile e dalla forte vocazione europea. I nuovi quartieri di Garibaldi Repubblica, del Portello, di Santa Giulia sono intersecati da parchi pubblici e dotati di collegamenti veloci di trasporto pubblico. La qualità è anche il parametro con cui Milano sta attuando una nuova politica per la casa, che vedrà la realizzazione, su aree di proprietà pubblica, di nuovi alloggi destinati all’edilizia residenziale a canone sociale e moderato».
Questo è quello che il sindaco Letizia Moratti scriveva in un delizioso opuscolo edito congiuntamente da Camera di Commercio, Provincia e Comune di Milano. Leggo però sempre più spesso che non possiamo lasciar cadere l’occasione dell’Expo 2015 perché faremmo una cattiva figura internazionale. Ma proprio questa sarebbe la cattiva figura che fa traboccare il vaso? E queste dei grandi progetti sbandierati ai quattro venti e finiti a Santa Giulia in un confronto tra magliari cosa sono? Certo nulla rispetto a quel che combina il presidente del Consiglio, ma Milano non era la capitale morale?
Lasciatemi dire una cattiveria: sarei curioso di sapere che risultati darebbero dei sondaggi e delle analisi fatte oggi in tutte le ex aree industriali, come la Fiera a Rho-Pero. Chissà mai? A pensar male si fa peccato ma... E dove sono realmente finite le fidejussioni che la legge prevede per tutti gli adempimenti connessi all’attività edilizia? Non bisognerebbe citare i latini ma "sed quis custodiet ipsos custodes?" (ma chi custodisce i custodi?), si domandava Giovenale nel I secolo dopo Cristo.
E pensare che si era indotto a scrivere per l’indignazione nei confronti dei costumi del suo tempo: oggi non gli mancherebbe la materia perché viviamo in un Paese sì di arroganti ma contemporaneamente di volutamente irresponsabili. Da quanto tempo qualcuno non si alza in piedi e dice: «È vero, ho sbagliato, mi sono ciecamente fidato e questa non è una scusa valida. Anche se materialmente non ho commesso nulla, chiedo scusa a tutti e mi dimetto irrevocabilmente». Che gioia sarebbe per le nostre orecchie. E se a fare questo bel gesto fosse qualche presidente di banca? «Signori soci, a Santa Giulia abbiamo dato credito a chi non lo meritava e lo sapevamo, me ne vado con una raccomandazione: adesso non facciamo altri "pasticci" per salvare i nostri compensi e i denari di e correntisti». Forse anche qualche funzionario di cooperativa dovrebbe recitare il mea culpa: le cose viste dall’elicottero son belle, ma sotto?
Settimana decisiva per la sorte della legge bavaglio e per la cittadinanza politica di chi osa parlare di questione morale. Negli ultimi giorni, infatti, i due temi si sono strettamente intrecciati, rendendo ancor più evidente che il fine della legge è quello di creare il silenzio intorno alla corruzione e che l’occasione politica sembra propizia per imporre il silenzio agli oppositori interni di Berlusconi. Dal bavaglio a magistratura e informazione si vuol passare al bavaglio personale: chi tocca il tema della moralità pubblica sarà fuori dal Pdl? Bavaglio selettivo, per altro. Tremonti può dire alcune parole e Granata no? Questione di fiducia sulla legge e eliminazione del dissenso nel partito padronale come via per la normalizzazione?
La verità è che la vicenda del disegno di legge sulle intercettazioni assomiglia sempre di più ad una guerriglia infinita, ad un terreno di cui si è appena sminato un tratto e già vi sono altre insidie e trappole da schivare. Si rischia così di offuscare anche il risultato positivo dell’opposizione condotta in sede parlamentare e avviata da un’opinione pubblica determinata, e di logorare lo stesso Parlamento proprio nel momento in cui sembra aver ritrovato vitalità, uscendo dalla marginalità nella quale era stato confinato. Infatti, la "ripulitura" del disegno di legge, l’opera di "riduzione del danno" si sono fermate quando si è chiesto di eliminare una norma che, cancellando l’articolo 13 di una legge che porta il nome di Giovanni Falcone, rende più difficile il ricorso alle intercettazioni proprio in casi come quello della cosiddetta P3, della "squallida consorteria" contro la quale il Presidente della Repubblica ha chiesto alla magistratura di andare fino in fondo. Attenzione. Per affrontare una questione che inquieta i cittadini, perché rivela gli abissi d’immoralità nei quali siamo piombati, non si stanno invocando norme di emergenza. Si chiede soltanto che le regole esistenti non vengano indebolite proprio nel momento in cui si rivelano più necessarie.
L’espressione "questione morale" è tornata all’onore delle cronache, ed è bene che sia così, anche se troppi se ne erano liberati con un’alzata di spalle e oggi dovrebbero riflettere pubblicamente sull’errore commesso, che certamente ha contribuito ad infiacchire uno spirito pubblico già debole e a fornire una sorta di lasciapassare o alibi a faccendieri e cricche d’ogni genere, liberati dal triste sguardo dei moralisti. Oggi, però, parlare di questione morale è descrizione inadeguata alla realtà che abbiamo di fronte. Nell’indifferenza pubblica, la questione morale è divenuta questione criminale nel senso tecnico dell’espressione. La via difficile della ricostruzione d’una moralità civile, di un’etica pubblica, passa dunque attraverso l’accertamento puntuale e rigoroso delle responsabilità da parte della magistratura. Giustizialismo? Nessuno vuol negare a indagati e imputati tutte le garanzie. Ma garanzia è cosa assai diversa da impunità assicurata attraverso la manipolazione delle norme.
Questa nuova sfaccettatura della discussione mostra come la definizione di "legge bavaglio" continui a corrispondere alla realtà dei fatti. Sta emergendo con chiarezza una strategia volta a dividere, o almeno indebolire, il fronte degli oppositori. Le concessioni riguardanti la pubblicazione delle notizie e la responsabilità degli editori possono indurre qualche pezzo del sistema dell’informazione, insolitamente compatto nell’opporsi al disegno di legge, a dire che il risultato è stato raggiunto e che non è più necessario stare in trincea. Ma vi sono molte buone ragioni per ritenere che questa sia una conclusione almeno frettolosa. Gli emendamenti approvati sono davvero solo una riduzione di un enorme danno, non una soluzione rassicurante, per limiti e ambiguità che ancora permangono. Resta inammissibile la penalizzazione dei blog, che rivela a un tempo volontà repressiva e scarsa conoscenza del mondo che si vuole regolare. E le limitazioni all’attività investigativa dei magistrati finiscono con l’incidere sulla stessa libertà d’informazione: se alcune modalità d’indagine sono inammissibili o particolarmente difficili, si dissecca la fonte delle notizie, l’opinione pubblica perde il diritto di conoscere per valutare chi ha responsabilità pubbliche e maneggia pubblico denaro.
I diversi aspetti della critica alla legge bavaglio, dunque, continuano a rimanere legati. E proprio questa sorta di scorporo della questione informativa, questa parziale disponibilità verso l’informazione accompagnata da una sostanziale rigidità verso la magistratura rivelano che la limitazione dei poteri di quest’ultima rimane l’obiettivo irrinunciabile. Una rete di protezione deve continuare ad avvolgere corruzione e pratiche di malaffare. L’oscurità, non la trasparenza, deve divenire il contrassegno del sistema istituzionale (non a caso, proprio in questi stessi giorni, si discute di rendere più stringente il segreto di Stato).
Quello che si manifesta attraverso l’attacco alla magistratura, infatti, è proprio il tentativo tenace di alterare quell’"architettura costituzionale" che il presidente del Consiglio ha una volta ancora pubblicamente accusato d’essere all’origine dell’impossibilità sua di governare il Paese. Una volta di più, quindi, dobbiamo ripetere che lo infastidisce la stessa democrazia, che vuol dire governo in pubblico, pesi e contrappesi, poteri separati e bilanciati. Tutti intralci sulla strada di un autocrate che si ritiene investito d’un potere finale e assoluto di decisione in virtù d’una interpretazione dell’investitura elettorale come mandato in bianco, che renderebbe irrilevanti le altre istituzioni e inammissibili i controlli. Ecco, allora, il rifiuto del controllo parlamentare, occasione di lungaggini, di alterazione della volontà del sovrano; del controllo di legalità, con la magistratura che pretende di impedire l’abbandono delle regole, di indagare i mostruosi connubi tra politica e affari, di mettere a nudo i comportamenti della magistratura deviata; e del controllo di costituzionalità, che impone di fare i conti proprio con l’odiata Costituzione, da Berlusconi definita un "ferrovecchio cattocomunista" in piena continuità con il leggiadro linguaggio dell’era craxiana.
Storia nota, mille volte raccontata? Anche se così fosse, non sarebbe una buona ragione per rassegnarsi, per tacere, perché proprio la ripetizione ci ricorda che vi è un pericolo che bisogna continuare a fronteggiare, divenuto più grave dopo che le ultime vicende hanno rivelato non solo illeciti personali, ma l’annidarsi all’interno delle istituzioni di persone e gruppi che hanno diffuso nell’intero sistema l’uso disinvolto e privatistico del potere.
Si comprendono, allora, l’attenzione vigile, la severità dei richiamo costante del Presidente della Repubblica a principi e regole che sono il fondamento della democrazia repubblicana. Nulla è più lontano da un "presidenzialismo strisciante", né si può guardare agli interventi di Giorgio Napolitano come fonte di un conflitto. Non vi è un contrapporsi del Presidente della Repubblica al presidente del Consiglio. Vi è chi indica e segue la retta via costituzionale, e chi ogni giorno con atti e parole mostra di volerla abbandonare.