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Dopo la sua faccia razzista, ecco ecco la faccia abusivista del Movimento 5 stelle: credono oggi nell'"abusivismo di necessità"! Un Movimento che sta diventando inguardabile. Peccato, un altro passo verso l'abisso nel quale stiamo precipitando. la Repubblica, 14 agosto 2017

«Se un giudice dice che un immobile va abbattuto, si fa. Ma non possiamo voltare le spalle a chi ha una casa abusiva perché la politica non ha fatto il suo dovere». Le parole affidate da Luigi Di Maio ad Annalisa Cuzzocrea per Repubblica spengono una delle 5 stelle del Movimento: quella che rappresenta l’ambiente (le altre simboleggiano acqua, energia, sviluppo e trasporti).

A me — come a molti altri che hanno provato ad impegnarsi in tante battaglie locali per la tutela di quello che l’articolo 9 della Costituzione chiama il paesaggio (e che è appunto l’ambiente, e dunque anche il diritto alla salute e all’incolumità fisica) — è spesso capitato, negli ultimi anni, di trovare come avversario un sindaco o un assessore del Pd o di Forza Italia (spesso purtroppo indistinguibili), e invece di trovarmi a fianco i militanti 5 stelle: magari ingenui, o forse sopra le righe, ma sempre in perfetta buona fede. E, soprattutto, dalla parte giusta.E al Movimento appartengono alcuni dei deputati più determinati in una lotta senza quartiere contro l’abusivismo, come la siciliana Claudia Mannino (da poco, tuttavia, uscita dai 5 stelle).

Ora, alla vigilia di un cruciale appuntamento elettorale proprio in Sicilia, Di Maio inverte le macchine, e incoraggia platealmente il cosiddetto “abusivismo di necessità”. E lo fa con una metafora pesante: il “partito degli onesti” che non “volta le spalle” a chi vìola la legge. Per misurare l’entità della svolta bisogna ricordare che nel 2006 fu Beppe Grillo in persona ad attaccare frontalmente questa specie di abusivismo: «Dall’alto Ischia sembra una periferia urbana — scrisse sul blog —. Ma chi l’ha ridotta così e chi consente questo stato di cose in tutt’Italia? I sindaci che chiudono gli occhi, i condoni che umiliano i cittadini onesti?».

Per rispondere, egli pubblicava di seguito un’accorata lettera di un cittadino ischitano che raccontava di aver costruito la sua casa abusiva, pur consapevole del reato, perché persuaso «dalle varie notizie che circolavano in quel territorio, cioè, frasi come “tanto non potranno mai abbattere un edificio con bambini e persone che vi abitano, non è mai successo”». Ebbene, il cittadino che, pentito, scriveva a Grillo era stato sedotto da quella stessa, ammiccante ricerca di consenso che oggi Di Maio resuscita. Una politica vecchia, che usa vecchissimi argomenti. Perché il vero abusivismo di necessità esistette nel dopoguerra: quello di oggi — ha scritto Vezio De Lucia — «è industria edilizia illegale, illegale sotto ogni punto di vista: alla mancanza del permesso di costruzione si è aggiunto il mancato rispetto delle norme igieniche, di sicurezza, assicurative e previdenziali.

Alla fine, è entrato nell’orbita della malavita organizzata. Da Roma in giù, in alcuni luoghi ha raggiunto livelli di produzione superiori a quelli dell’edilizia legale, grazie anche alle successive leggi di condono». Che quella di Di Maio non sia un’uscita estemporanea lo dimostrano le pesantissime promesse elettorali del candidato 5 stelle alla presidenza della Sicilia ( « non abbatteremo le case della povera gente » ), e il regolamento edilizio approvato dalla giunta 5 stelle di Bagheria, che prevede che non si possano abbattere le case in cui si dichiara di abitare, e istituisce addirittura una corsia preferenziale perché il costruttore della casa abusiva possa ricomprarsela all’asta. Tutto il contrario delle buone pratiche: che in ogni caso non prevedono la possibilità di lasciare la proprietà agli abusivi, di qualunque genere siano.

In altre parole, i 5 stelle stanno platealmente abbracciando il modello campano di De Luca: annullando la loro esibitissima “ diversità” e convertendosi all’eterno modello di un potere meridionale che baratta il consenso con la distruzione delle città, e con la sicurezza. E che si rischi di passare dalle promesse ai fatti lo dimostra quanto è successo con lo Stadio della Roma: un clamoroso cedimento a quell’urbanistica contrattata e privatizzata che il Movimento aveva detto di voler combattere.
Insomma, se il Pd e Forza Italia si sono da gran tempo seduti al tavolo dell’abusivismo, oggi sembra arrivato il turno dei 5 ( anzi dei 4) stelle. Ed è davvero una pessima notizia.

Qualche frustata in più contro l'ipocrisia con cui si depreca oggi ciò che si è tollerato ieri non è di troppo. Soprattutto quando è sorretta dal puntuale elenco degli eventi. il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2017

«Italia in macerie. Il ministro Delrio promette ‘basta sanatorie’ e pensa, si suppone, al pulviscolo di leggine che le Regioni hanno emanato all’insegna del Piano Casa Saranno in contrasto con le leggi dello Stato? O, Dio non voglia, con la Costituzione? »

È bello che il ministro Delrio si sia accorto che l’Italia è il Paese dei condoni facili, degli scempi edilizi, delle coste devastate, delle leggine regionali che riconoscono gli “abusi di necessità” per raccattare cinicamente voti e clientele. Tutte le norme regionali difformi dall’ordinamento statale e dall’interesse nazionale verranno implacabilmente impugnate e sconfitte, dice il ministro. Ma a cosa pensa Delrio, parlando di contrasto tra norme statali e regionali? Non al condono tombale di Craxi (1985), vero esordio del condonismo all’italiana, né a quelli di Berlusconi (1994, 2003): norme criminogene, che però sono leggi dello Stato. Forse non pensa nemmeno a leggi regionali, come quella della Campania (2014), che riaprono i termini per i vecchi condoni statali. Delrio pensa, si suppone, al pulviscolo di leggine che le Regioni hanno emanato all’insegna del Piano Casa. Saranno in contrasto con le leggi dello Stato? O, Dio non voglia, con la Costituzione? A tal proposito gioverà, a uso del governo e del Parlamento, un veloce ripasso di storia patria (attenti alle date!).

Nella “manovra d’estate” 2008 (L. 133, 6 agosto), Berlusconi riprende un’idea del II governo Prodi lanciando un Piano Casa, inteso come social housing per categorie svantaggiate, con finanziamenti pubblici (550 milioni) e privati. Dopo sette mesi (6 marzo 2009) Berlusconi annuncia l’imminente approvazione del Piano Casa, che con agile giravolta ha totalmente cambiato faccia. Zero capitali pubblici, zero social housing: la norma è concepita solo per chi la casa ce l’ha già, e ha anche i soldi per ampliarla. Sospendendo la validità delle regole in vigore, ogni edificio potrà essere ampliato dal 20 al 35%, e anche più per chi acquisti diritti dai vicini di casa. Il tutto “in deroga alle disposizioni legislative, agli strumenti urbanistici vigenti o adottati e ai regolamenti edilizi”: un vero e proprio condono preventivo che non solo depenalizza, ma incoraggia ciò che fino a ieri era reato, consegnando città e paesaggio al partito del cemento. Mentre, secondo l’art. 117 della Costituzione, la legge dello Stato deve “determinare i principi fondamentali” delle leggi regionali, in questo caso si inverte la procedura, scavalcando il Parlamento e stipulando (31 marzo) un’intesa preventiva tra governo e Regioni, poi ratificata dalla Conferenza unificata Stato-Regioni il 1 aprile. Secondo l’intesa, il governo emanerà entro 10 giorni una legge-quadro; seguiranno le Regioni, che faranno entro tre mesi i loro vari Piani-Casa, s’intende in conformità alla legge-quadro statale.

La bozza ufficiale che circola quel 1° aprile (la data non è uno scherzo) prevede “semplificazioni normative” che sono in realtà una selvaggia deregulation, sospendendo perfino le norme di prevenzione antisismica, sostituite da “controlli successivi alla costruzione, anche con metodi a campione”; vengono depenalizzate finanche le false dichiarazioni tecniche dei progettisti. Peccato che il 6 aprile 2009 il terremoto d’Abruzzo riveli quanto siano irresponsabili norme come queste. Il governo si blocca, e la legge-quadro non viene approvata, né allora né mai. L’accordo informale del 31 marzo non ha valore di legge: eppure, più realiste del re, le Regioni si affrettano a fare “come se”, legiferando pur in assenza di una legge nazionale di riferimento, cioè senza rispettare l’art. 117 della Costituzione. Prima della classe, la Toscana (centro-sinistra), che già l’8 maggio approva il proprio Piano Casa; seguono la Provincia autonoma di Bolzano (15 giugno), l’Umbria (26 giugno), l’Emilia-Romagna (6 luglio), e così via (ultima la Calabria, 4 agosto 2010).

Di regione in regione, in mancanza di principi-guida nazionali, il bricolage del fai-da-te. Un labirinto di varianti, l’unità d’Italia dello sfascio: non appena il Veneto regala ampliamenti fino al 50%, viene prontamente copiato dalla Sicilia, ma sorpassato dal Lazio (60%), e così via; per non dire di codicilli via via introdotti negli anni dal 2009 a oggi. Non bastava scavalcare il Parlamento e ignorare l’art. 117 Cost. con l’accordo del 31 marzo: la totale assenza di una legge-quadro dello Stato fu e resta ignorata da tutti (Stato e Regioni, destre e “sinistre”). In piena e concordata illegalità, il Piano Casa dilaga per l’Italia, con leggi regionali un po’ più restrittive (Toscana, Umbria, Puglia) o più sbracate (Lombardia, Veneto, Sicilia). Tutti d’accordo a “semplificare” drasticamente le norme, calpestando l’art. 9 della Costituzione, il Codice dei Beni Culturali, il T.U. per l’edilizia e quant’altro. Con colpevole complicità, a “sinistra” come a destra si è fatto come se si trattasse soltanto di una misura anticongiunturale, anziché di incidere permanentemente e irreparabilmente sulla facies del Paese.

Se davvero il governo in carica vuol porre rimedio alle discrepanze tra legge dello Stato e leggine regionali, dunque, dovrebbe accorgersi, per cominciare, che i centomila abusi dell’ex-Belpaese sono figli non solo dei condoni Craxi-Berlusconi, ma anche, anzi ormai soprattutto, dell’abortito Piano Casa nazionale, che ha generato i mostriciattoli dei piani-casa regionali. Che, in mancanza della legge-quadro dello Stato, le leggi regionali sul Piano Casa sono tutte illegittime, e dunque andrebbero denunciate in blocco alla Corte Costituzionale. Che, dopo otto anni di connivenza, lo Stato potrebbe finalmente svegliarsi (come non ha fatto coi governi Monti, Letta, Renzi).

Sarà questa l’intenzione di Delrio? C’è da dubitarne, visto che dopo aver minacciato tuoni e fulmini contro le Regioni che devastano il paesaggio, il ministro rema contro se stesso dichiarando: “Non metto in dubbio la buona fede delle Regioni e cerco sempre di evitare qualsiasi contenzioso”. Programma, quest’ultimo, di auto-accecamento, del tutto in linea con quanto governi d’ogni colore hanno fatto da troppi anni a questa parte. Dovremo annotare la dichiarazione di guerra agli abusi di Delrio come un esercizio di retorica estiva? O come un appunto per chi ci governerà l’anno prossimo di questi tempi?

la Nuova Sardegna, 13 agosto 2017

Travolto da critiche autorevoli, il Ddl Erriu [assessore della giunta Pigliaru] perderà pezzi? Chissà se reggerà il famigerato art. 43, promotore dei “grandi progetti” a sportello; o se farà – com'è probabile – la brutta fine dell'articolo 6 della LR 23/93 sugli “accordi di programma” immaginati allora. Più difficile prevedere la sorte dell'art. 31. Perché c'è chi ci crede agli alberghi più 25%, che “in fondo non fa male” – ci spiegano: pure sommando deroghe a deroghe. E nonostante il PPR lo impedisca: senza alcun dubbio nella fascia di massima tutela (altrimenti a che servirebbe l'art.31?).

Trascuro di dire sulle discutibili scappatoie pensate dagli azzeccagarbugli per dare il via alle giostra delle eccezioni. Mi interrogo invece sul senso di questa proposta, sul clima politico nel quale è maturata (copyright Berlusconi&Cappellacci ), e sul rilancio da parte della coalizione a guida PD che ne aveva preso le distanze. Le temibili larghe intese contro visioni progredite, in Sardegna, guarda caso, contro il PPR.

In questo solco la deroga per gli alberghi, pure a due passi dal mare: nati al tempo della vacanza per pochi, zero tutele e quindi in posizioni di grande privilegio. Poi il turismo di massa e la coscienza di luogo, quindi l'obbligo di fare altri conti. Le conclusioni nel Codice dei Beni Culturali, da cui discende pure il sardo PPR inaspettatamente all'avanguardia. Troppo intransigente crede il governo Pigliaru, convinto di contenere il malumore degli imprenditori azzoppandolo. Per quanto le attese degli operatori del turismo siano altre ( più aerei, ad esempio); e sia forte l'impressione che il Ddl non piaccia ai sardi preoccupati di mettere a rischio le coste più belle del Mediterraneo. Ma non solo gli ambientalisti temono per la risorsa paesaggistica, come dimostrano le analisi intelligenti e coraggiose di Cgil e Cna a proposito del nodo lavoro - ambiente. Nello sfondo lo stupore che le disposizioni dell'art. 31 non siano supportate da uno studio che assicuri il lieto fine: alberghi più grandi = stagione più lunga o che spieghi almeno com'è che albergoni superdotati aprano solo tre mesi all'anno.

I più informati attribuiscono ai litorali sardi un valore pari a quello delle città d'arte e non sbagliano, basta guardare l'attenzione verso gli habitat più intatti dell'isola. Ecco, tra i beni paesaggistici del Paese ci sono la fasce costiere sarde: non solo perché lo dice la dura lex (già le due leggi Bottai del 1939 riguardavano “bellezze naturali” e “cose d'arte”). La Sardegna è nel cuore di tanti continentali che verrebbero ritrovare integri i suoi paesaggi in ogni dettaglio, come dimostra l'interesse della stampa nazionale. Quindi c'è qualcosa che non torna se temerariamente si consentono protuberanze di un albergo nelle rive sarde.

Nessuno ammetterebbe che per fare crescere il turismo a Venezia, Firenze, Roma si possano elevare di mezzo piano i palazzi adibiti ad alberghi nel Canal Grande, in via dei Calzaiuoli, in Campo dei Fiori. Vale in questi casi la consapevolezza che il vincolo paesaggistico e monumentale prevale sull'interesse economico. E non solo perché lo ripete da un po' la Consulta. Ma in quanto il danno sarebbe insostenibile: assurdo che per migliorare gli standard ricettivi si possa modificare il profilo di una strada nei libri di storia. E allora si tratta di spiegare perché gli alberghi negli scenari sardi più tutelati, possano crescere in altezza o allargarsi di lato, modificando la percezione di uno scorcio, straziando una duna, minando rocce o eliminando vegetazione; e quindi alterando un assetto consolidato. Nessuno stop all'impresa, però. Nei luoghi sottoposti a vincolo l'accoglienza si può migliorare riqualificando l' esistente, con le integrazioni per assicurare standard di sicurezza e delle dotazioni impiantistiche. E la ricettività si può incrementare nelle aree urbane trasformabili, secondo il modello indicato dal PPR.

A queste conclusioni sono arrivati da tanto gli economisti più accorti e impegnati a mettere a punto formule per rafforzare le ”motivazioni economiche per un uso conservativo della risorsa”. Tra gli studiosi più determinati, occorre riconoscerlo, il prof. Francesco Pigliaru che già alla fine degli anni Novanta (UniCa- Crenos) scriveva a proposito del paesaggio richiamo di turisti. Esauribile ci avvisava, ricordandoci che “... ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio), ne determina un 'consumo' irreversibile, e di conseguenza la qualità ambientale, l’attrattività del suo scenario naturale diminuisce". Ero e sono d'accordo con lui e non con il presidente Pigliaru.

«Il caso . Dopo la sospensione per violazione della sicurezza, il via libera . così il pollaio abusivo diventa villa». la Repubblica,12 agosto 2017 (c.m.c.)

I lavori della villa-mausoleo che domina, dalla provinciale per Itri, il panorama di Sperlonga, dopo il sequestro del cantiere di un mese fa, sono ricominciati come in un drammatico déjà vu che ormai, per gli abitanti del borgo magico, si ripete da anni. Dieci giorni fa, la serie di inchieste di Repubblica sull’Italia degli abusi, iniziò proprio da quella cittadina incantevole il cui territorio è stato sfregiato da manufatti illegali costruiti in barba a ogni vincolo e regolamento. A cominciare dal sindaco di centrodestra, Armando Cusani, arrestato a gennaio scorso, ai domiciliari da marzo ma ancora in carica. Il suo hotel, Grotte di Tiberio, sulla statale Flacca, malgrado l’ordine perentorio di demolizione, a spese del primo cittadino e del suocero socio al 50%, entro 90 giorni dal ricevimento dell’atto, è ancora lì. Il 6 agosto era il termine ultimo per buttare giù tutto.

Alle sue spalle, sulla montagna, i lavori dell’arrogante villa costruita da un idraulico di Sperlonga diventato milionario grazie a una giocata al superenalotto, sono ripresi dopo il dissequestro dell’area, cinque giorni fa. I sigilli, spiegano dagli uffici comunali, erano stati messi per violazione di norme sulla sicurezza sul lavoro, non per abuso edilizio. Il ricorso al tar ha dato ragione all’idraulico e operai e ruspe sono tornati a metter mattoni a pieno ritmo per recuperare il tempo perduto. Che l’idraulico porti lo stesso cognome del vicesindaco, Francesco Faiola, indagato per l’abuso edilizio di un intero quartiere – sulla carta area popolare, di fatto trasformato in polo turistico – su cui lui e Cusani hanno costruito illegalmente l’hotel Ganimede, è solo una coincidenza.

Leone Faiola però una parentela nelle alte sfere della politica locale la ha. La moglie, Anna De Simone, proprietaria della villa, è la zia dell’ormai ex assessore all’Urbanistica di Sperlonga, in carica quando, nell’agosto del 2014 cominciarono i lavori di costruzione di quel mausoleo. Malgrado sull’area gravi un vincolo paesaggistico, le carte sono perfettamente in regola. In sintesi: cinque anni fa Faiola vinse insieme ad altri 25 giocatori, 62milioni di euro, rilevò la concessione di quel terreno su cui fino al 2012 insisteva un pollaio abusivo, dai figli dell’originario proprietario, il chirurgo Valdoni per 500mila euro, quindi iniziò la rapida trafila burocratica per ottenere tutte le scartoffie. Un piccolo stop di facciata ci fu nel febbraio 2014 quando i consiglieri di minoranza del Pd tirarono fuori un vecchio verbale firmato da un vigile urbano, diventato nel frattempo capo dell’ufficio tecnico e firmatario del placet per la nuova costruzione di Faiola, in cui ordinava lo sgombero del pollaio in quanto fuorilegge per via dei vincoli di quel luogo. Nell’agosto dello stesso anno però tutto risolto.

I lavori cominciarono ma con un nuovo permesso: una variante in corso d’opera che concedeva ancora più metri quadri di cemento, anche se l’opera in realtà iniziava solo da quella data. Un abuso legalizzato e sanato da carte. «È il vecchio trucchetto – sorride di un riso amaro Nicola Reale, ex consigliere d’opposizione, il primo a denunciare gli affari illegali del sindaco – si continuano a sbandierare i permessi previsti dalla legge per dimostrare che il manufatto realizzato ha tutti i crismi della legalità.

Un santuario di illegalità, ecco cos’è Sperlonga, un territorio governato da una cupola di potere che decide e controlla ogni cosa: dalle nomine nei posti di rilievo ai singoli cittadini che vengono lusingati con promesse o intimoriti con minacce». «Cusani è un bravo uomo e ha sempre mantenuto le sue promesse, a me ha sistemato tutti i figli in posti buonissimi, lasciatelo in pace», dice la signora Carmela che di figli ne ha sette.

Quanto sono bravi Delrio, Gentiloni e tutti gli altri renziani a combattere l'abusivismo, seguendo da prodi l'esempio del sindaco (defenestrato) di Licata. Solo Alfano fa un po' il monello. la Repubblica, 12 agosto 2017, con postilla

IL proposito manifestato da Graziano Delrio di impugnare tutte le maleodoranti leggine regionali che nascondono condoni edilizi più o meno mascherati è senza dubbio alcuno coraggioso. Ma in un’Italia nella quale lo sport nazionale praticato dai politici, sia pure con qualche lodevole eccezione, è quello di ammiccare all’abusivismo, il rischio che questo proposito enunciato dal ministro delle Infrastrutture possa incontrare ostacoli insormontabili è davvero consistente.

Va riconosciuto che un segnale positivo è comunque arrivato dal governo di Paolo Gentiloni con la decisione di bloccare la legge della Campania che di fatto avrebbe ostacolato le demolizioni: e riusciamo appena a immaginare i mal di pancia nella maggioranza, soltanto ricordando che quella Regione è oggi governata da un renziano a quattro ruote motrici qual è Vincenzo De Luca. L’inchiesta di Repubblica sul Paese degli abusi ha svelato il nuovo volto del condono made in Italy, sparito dai radar nazionali per riparare comodamente, sotto molteplici forme in qualche caso ben più subdole perché mascherate, nelle pieghe delle leggi regionali. Sanatorie spuntate con la motivazione tanto encomiabile quanto velenosa di “evitare il consumo del suolo”.

Mentre si afferma con provvedimenti votati dagli eletti nei consigli regionali il folle principio dell’abuso “per necessità”, come se fosse necessario per risolvere un personale problema di alloggio tirare su una palazzina alla faccia di qualunque regola e del rispetto dell’ambiente.

La nostra inchiesta ha pure documentato come il rapporto fra la politica e certa burocrazia ottusa o corrotta da una parte, e l’illegalità ambientale dall’altra, sia più solido che nel passato. E chi non si adegua paga a caro prezzo. Non è servita la lezione delle sanatorie che hanno legalizzato il massacro del nostro territorio e dei nostri conti pubblici, considerando la vergognosa sproporzione fra i magri incassi dei condoni e la valanga di denari pubblici spesi per dare servizi agli abusivi. Né è servito, ciò che appare decisamente più grave, il sacrificio di chi come il sindaco di Pollica Angelo Vassallo ha perso la vita per contrastare uno scempio che spesso porta il marchio della criminalità organizzata.

Dice tutto, a proposito del ruolo di certa politica in questo sporco affare, la sconcertante vicenda del sindaco di Licata, sfiduciato dal consiglio comunale per aver deciso di abbattere le costruzioni abusive. Angelo Cambiano ha raccontato allanostra Alessandra Ziniti di aver ricevuto la visita del ministro degli EsteriAngelino Alfano, siciliano, che gli ha pubblicamente manifestato tutta lapropria solidarietà, incitandolo a proseguire nell’azione di recupero dellalegalità. Ma quando si è poi passati dalle parole ai fatti, i consiglieri delpartito Alternativa popolare del quale Alfano è il leader, sono stati in primalinea nel chiedere la sua testa e farlo così cadere. Dettaglio non irrilevanterivelato da Cambiano, ben sette esponenti di quella parte di assemblea comunaleche lo ha sfiduciato si trovavano in conclamato conflitto d’interessi: essendoabusivi loro medesimi. Adesso che il sindaco è stato tolto di mezzo, e con luile ruspe, di certo dormiranno sonni più tranquilli.

Ma l’ipocrisia chetrasuda da tale inqualificabile storia è insopportabile. Per questo unsimile sfregio alla legalità e all’onestà tira in ballo anche la responsabilitàoggettiva del capo di quel partito. E c’è solo un modo per riparare. Se le cosestanno come ha denunciato Cambiano, sarebbe ora doverosa da parte di Alfano nonsoltanto una pubblica presa di distanza pubblica da quei consiglieri, ma anchel’applicazione nei loro confronti della sanzione politica estrema.
postilla

È davvero difficilecomprendere se chi loda Delrio per le sue dichiarazioni contro l’abusivismourbanistico sia del tutto smemorato o in malafede. Delrio non è stato forseossequente ministro di quel Matteo Renzi che, con il suo Sblocca Italia, ha condonatoa priori ogni abuso, ogni deroga, ogni infrazionealle regole della pianificazione del territorio? Che ha svuotato di potere le “burocrazie”ordinate al suo buongoverno? (Chi ha pazienza i rilegga il pamphlet, curato da Tomaso Montanariper i testi e Sergio Staino per leillustrazioni, edito da Altraeconomia, che denunciò gli effettidevastatori delle “politiche territoriali” della banda Renzi, e che intitolammo
Rottama Italia)
Ed è altrettantodifficile comprendere se chi se la prende con Angelino Alfano invece che con Marco Minniti ha compreso davverocome stanno le cose: chi ha il potere e chi no.
Ma veniamo all’oggi,al “miracolo di Licata” che ha riaperto il dibattito sull’abusivismo. Questoevento ha due facce, una buona e una cattiva. La buona è l’iniziativa di unsindaco onesto, Angelo Cambiano che, fedele al suo ruolo, ha osato combattereper davvero l’abusivismo. La faccia cattiva è il consiglio comunale che,insorto a difesa degli abusivisti, ha tolto la fiducia al sindaco condannandoloall’impotenza.
Che cosa farebbe ungoverno non servile nei confronti degli abusivisti: il ministro degli interniscioglierebbe il consiglio comunale, nominerebbe un commissario ad acta eproseguirebbe in questo modo l’opera del sindaco. Che fa il governo di cuiDelrio fa parte? Nulla, parole al vento; di cui quelle scritte da Sergio Rizzosono un buon esempio.

». il manifesto, 11 agosto 2017 (c.m.c.)

Lunedì scorso l’incontro con il presidente della giunta regionale Francesco Pigliaru: Renato Soru e il capo dell’esecutivo sardo faccia a faccia. Tema del confronto la legge urbanistica regionale. Pochi giorni fa, in un’intervista al manifesto, Soru non ha usato mezzi termini: se il testo presentato dall’assessore all’Urbanistica Cristiano Erriu resta così com’è, la cosa giusta da fare, quando i diversi articoli arriveranno in consiglio per l’approvazione, è votare no.

All’indomani dell’incontro di lunedì erano circolate voci di un possibile ammorbidimento della posizione di Soru. Ma così non è. Ieri, raggiunto al telefono, Soru ci ha confermato le cose già dette nell’intervista. In particolare l’ex presidente della giunta che a suo tempo fece approvare il Piano paesaggistico regionale (Ppr) resta fermo sull’articolo 43 del progetto di legge della giunta, che prevede deroghe al Ppr nel caso uno o più imprenditori privati presentino piani di costruzione di nuovi alberghi su tratti di costa ancora vergini di “particolare interesse economico e sociale”.

Dopo che Soru aveva prospettato un possibile voto contrario sull’articolo 43, la giunta aveva risposto avanzando la proposta di togliere all’esecutivo la facoltà di disporre le deroghe al Ppr per assegnarla al consiglio. «Lo dico – scandisce ora Soru – in maniera ancora più chiara: l’articolo 43 è irricevibile. Nessuna deroga al Piano paesaggistico è accettabile. Ciò che si deve fare è cancellare quell’articolo. E non può certo farmi cambiare idea il fatto che a decidere sulle deroghe sia il consiglio».

Ma soprattutto una cosa Soru tiene a dire: «Ciò a cui dovrebbe servire una buona legge urbanistica è fare in modo che i comuni sardi approvino i loro piani urbanistici. Il Ppr a questo serviva e serve. È stato concepito infatti come una legge di indirizzo generale che indica i criteri in base ai quali le amministrazioni comunali devono approntare i loro strumenti di pianificazione urbanistica. Di questo si deve ragionare. E non di deroghe sulle zone costiere dove ancora non si è costruito. Servono regole per facilitare l’approvazione dei piani urbanistici comunali. Da questo punto di vista la proposta della giunta non solo non aiuta i comuni, ma anzi rende più complicato il quadro normativo, con una Regione centralista che vuole entrare nei dettagli della programmazione locale. Per non parlare poi di una tabella, la A4, inserita nella proposta di legge, che calcola i posti letto insediabili per ogni metro di costa in base agli stessi criteri che, prima del Ppr, hanno portato a costruite in passato oltre 300 mila seconde case, oggi disabitate per nove mesi all’anno».

Altro punto di contrasto è quello dell’aumento delle volumetrie che, con l’articolo 31, la proposta di legge della giunta concede agli alberghi già esistenti. «Dentro la fascia dei trecento metri dal mare – dice Soru – i metri cubi in più è meglio evitarli. Così dispone il Ppr. Se esiste un problema di adeguamento delle strutture a una domanda turistica mutata, si provveda, ma fuori dai trecento metri tutelati».

Sul fronte ambientalista, dopo gli stop alla giunta arrivati da Legambiente e da Italia nostra, ora si fa sentire il Wwf, che chiede al governo di impugnare un’altra legge voluta dall’esecutivo regionale, quella sul turismo, che autorizza un aumento delle volumetrie dei campeggi attraverso la costruzione di casette di legno. «Se il governo Gentiloni non dovesse intervenire – dice il Wwf – in presenza di singoli provvedimenti concessori li impugneremo presso il Tribunale amministrativo regionale».

Agli appetiti sempre più grandi degli investitori privati risponde uno s-governo della città pubblico che infrange ogni regola urbanistica ed edilizia. L'autorità preposta alla tutela dei beni culturali tacerà ancora una volta? la Nuova Venezia, 11 agosto 2017 (m.p.r.)

Una terrazza panoramica sui tetti delle Procuratìe Vecchie, con affaccio su Piazza San Marco, simile a quella realizzata al Fontego dei Tedeschi con vista sul ponte di Rialto e sul Canal Grande dal gruppo Benetton con l'archistar olandese Rem Koolhaas. È il clamoroso progetto che Assicurazioni Generali - con l'amministratore delegato Philippe Donnet - avrebbero in mente per "valorizzare" ulteriormente il complesso monumentale all'interno dell'intervento di ristrutturazione già in corso (seguìto dall'architetto Gretchen Harnischfeger Alexander) che prevede il frazionamento degli spazi un tempo riservati agli uffici della compagnia assicuratrice separate a uso direzionale di uso pubblico.

Il progetto già annunciato da Donnet ma non ancora presentato ufficialmente - dovrebbe avvenire ai primi di ottobre - e concordato con il Comune prevederebbe che questi spazi possano essere ceduti a grandi imprese internazionali, in una cornice come quella di Venezia e dell'area marciana. Ma anche attività di ricerca - legate anche a una fondazione che si occuperebbe anche di sostenibilità ambientale - e di tipo culturale, con una possibile area espositiva. E se Benetton ha chiamato un archistar come Koolhaas per la terrazza panoramica del Fontego, Generali avrebbero pensato a un'altra archistar per quella delle Procuratìe: l'architetto britannico David Chipperfield, già direttore della Biennale Architettura e già autore a Venezia del progetto di allargamento del cimitero di San Michele e di quello preliminare di restauro e riallestimento dell'ala storica delle Gallerie dell'Accademia.
La terrazza panoramica su Piazza San Marco sarebbe funzionale agli eventi "interni" organizzati dalle Generali nelle Procuratìe per i suoi ospiti e non avrebbe dunque un uso pubblico. Ma essi potrebbero appunto godere dall'alto della vista incomparabile della Piazza.Sulla proposta di realizzare sui tetti delle Procuratìe Vecchie una terrazza panoramica ci sarebbe già stato un incontro preliminare con la Soprintendenza veneziana, che non sarebbe però favorevole al via libera. Generali si baserebbe sul fatto che sui tetti delle Procuratìe ci sono già una piccola terrazza e alcune altane in legno e ferro, già a suo tempo rifatte in un precedente intervento di restauro compiuto dall'impresa Innocente & Stipanovich su progetto e sotto la direzione lavori dell'architetto Giampaolo Mar (tra l'altro padre dell'attuale assessore al Turismo Paola Mar, che a suo tempo fu anche autrice di una ricerca storico documentaria per lo studio di fattibilità per il restauro e la ristrutturazione delle Procuratie Vecchie).
La richiesta sarebbe dunque quella di trasformare la terrazza questo sistema di altane già esistenti in un'unica terrazza, rialzata, che permetta appunto la vista della Piazza. E le Generali, per convincere la Soprintendenza, si sarebbero fatte forti del precedente "Fontego dei Tedeschi". Se i Beni culturali hanno già detto sì alla realizzazione della terrazza sul tetto del cinquecentesco edificio, non dovrebbero opporsi all'analoga richiesta delle Generali, che stanno investendo molto in città e nell'area marciana anche con il finanziamento del rifacimento dei Giardinetti Reali. Ma al di là del cambio dei dirigenti - la soprintendente che ha seguito il progetto del Fontego era Renata Codello, mentre al suo posto c'è ora Emanuela Carpani - la Soprintendenza avrebbe finora fatto muro, limitandosi a concedere, per quanto riguarda la copertura delle Procuratie, la sistemazione degli spazi già esistenti. Un rifiuto non bene accetto, mentre intanto i tempi stringono e Generali - pur ancora senza tutti i tasselli a posto - dovrà a fine estate presentare il suo progetto.

Aspettando che Marco Minniti, implacabile custode del rispetto della legge da parte dei poveri e dei diversi, la applichi anche quando, in quanto ministro dell'Interno, deve colpire i suoi affini: i componenti del consiglio comunale di Licata. Articoli di Alfredo Marsala,Gian Antonio Stella, Alessandra Ziniti, da il manifesto, Corriere della Sera, la Repubblica, Il FattoQuotidiano, 11 agosto 2017

il manifesto
LICATA, ABBATTUTO IL SINDACO ANTI-ABUSI.
ALFANIANI DECISIVI.
di Alfredo Marsala

«Il consiglio comunale della città agrigentina sfiducia Cambiano. Scontro con il candidato governatore M5S favorevole alle sanatorie»

Quando ha visto che anche i consiglieri di Ap gli avevano votato la sfiducia ha capito che lo Stato aveva speso solo belle parole. Appena un anno fa, dopo il secondo grave attentato subito, Angelino Alfano, allora capo del Viminale, si era recato a Licata per incontrarlo. Angelo Cambiano, eletto sindaco nel 2015, lo aveva ricevuto nel suo ufficio del palazzo di città. «E’ finito il tempo della politica che coccola gli abusivi», assicurò il ministro, mentre gli operai cercavano di ripulire le mura annerite della casa della famiglia del sindaco data a fuoco la sera precedente.

Cambiano ci aveva provato in tutti i modi a uscire dall’isolamento in cui sentiva di trovarsi, sotto pressione costante da parte degli abusivi e malvisto da una parte della città che non sopportava la sua sovraesposizione. Minacciato e intimidito più volte, il sindaco, che aveva pure ricevuto proiettili e ormai andava in giro con la scorta assegnatagli dalla Prefettura, era diventato per tutti «il demolitore»; nonostante andasse ripetendo che stava solo facendo applicare i provvedimenti della magistratura di Agrigento che gli aveva consegnato l’elenco degli immobili da abbattere perché fuorilegge e che se non l’avesse fatto sarebbe stato accusato di favoreggiamento. In qualche modo Cambiano era riuscito a fare accendere i riflettori mediatici su Licata, mentre le ruspe abbattevano una alla volta ruderi e casette costruite illegalmente entro i 150 metri dalla costa, in totale una settantina.

Cambiano ha resistito alle minacce convincendosi di potere resistere ai blocchi e ai sit-in degli abusivi contro le demolizioni, anche se altri amministratori facevano scelte diverse. Dove non ci sono riuscite le minacce c’è però riuscita la politica. Due sere fa, il consiglio comunale, dove aveva la maggioranza, gli ha voltato le spalle. A sorpresa, è passata la mozione di sfiducia che era stata presentata da 16 consiglieri; bastavano 4 voti in più per mandare il sindaco a casa, alla fine i voti favorevoli sono stati 21, uno in più del quorum. E proprio i voti di Ap sono stati determinanti. Sulla carta nella mozione gli vengono contestate scelte sbagliate che avrebbero fatto arrivare meno fondi nelle casse comunali. «Il vero motivo lo sanno tutti qual è, ma non hanno il coraggio di dirlo», dice Cambiano, che impugnerà l’atto perché «le motivazioni riportate nella mozione sono solo bugie». Intanto è pronto a tornare al suo mestiere di insegnante di matematica dopo essere diventato il simbolo della lotta contro l’abusivismo.

«Sono deluso e amareggiato. Se questa è la fine che fanno gli amministratori che fanno solo il proprio dovere: ho avuto minacce di morte, proiettili, due case incendiate», aggiunge. «Vuol dire che è una classe politica inadeguata, alla ricerca solo del consenso elettorale e non accetto chiamate e solidarietà a posteriori – sbotta – Sono amareggiato dalla politica e dalla sua falsità alla ricerca solo del consenso. Quella di demolire immobili non è stata una scelta politica. Ci sono delle sentenze della magistratura che lo hanno decretato e le sentenze vanno rispettate». Difende comunque la sua città: «Licata non è una città di delinquenti». «Ho 36 anni, sono padre da 9 mesi, vorrei riappropriarmi solo della mia vita», continua.

Puntuali le solidarietà. Ma anche la polemica. C’è chi collega la sfiducia a Cambiano con le dichiarazioni fatte appena il giorno prima da Giancarlo Cancelleri; il candidato a governatore in Sicilia per i 5stelle aveva parlato di «abusivismo di necessità», richiamandosi al «modello Bagheria» del sindaco pentastellato Patrizio Cinque che ha concesso un condono edilizio, accettando 4.500 pratiche. «Mentre viene sfiduciato un bravo e onesto sindaco – dice l’ex presidente dell’Antimafia Francesco Forgione – Luigi Di Maio, Alessandro Di Battista e Cancelleri difendono l’abusivismo ma dicono quello di necessità. Esattamente come diceva Totò Cuffaro quando gli abusivi da lui sostenuti facevano i cortei dietro lo striscione ‘Forgione uguale demolizione’. Ecco la differenza tra la legalità praticata e la parola onestà urlata come slogan a casaccio».

Critica anche Legambiente: «Sicuramente se altri sindaci, invece di nascondersi dietro cavilli e rinvii, si fossero comportati con serietà e rigore e avessero anche loro applicato la legge e avessero abbattuto gli abusi edilizi, come fa il sindaco di Carini, Angelo Cambiano non sarebbe rimasto isolato. E c’è chi adesso, con una encomiabile faccia di bronzo, parla di ‘abusivismo di necessità’ solo per raccattare qualche voto cavalcando il populismo. Ma quante case abusive sono state abbattute a Bagheria da quando è stato eletto tre anni fa il sindaco 5 stelle? Altre nuove pagine di politica vergognosa».

Corriere della Sera
A LICATA CACCIANO IL SINDACO
NEMICO DELLE VILLETTE ABUSIVE
di Gian Antonio Stella

L’ «eroe per caso» della guerra agli abusivi, il giovane sindaco di Licata, ha tenuto duro per mesi. A dispetto degli insulti, delle minacce, degli attentati, del peso di doversi muovere con la scorta. Lo sapeva, però, che il suo destino era segnato. E la mozione di sfiducia è stata solo il passaggio formale. Poche settimane e la Sicilia va alle elezioni regionali. E chi ce l’ha il fegato di sfidare il Pau, cioè il Partito abusivi uniti?

È una sconfitta pesante, per l’immagine e l’onore di tutta l’isola, la demolizione politica e clientelare, in consiglio comunale, di Angelo Cambiano, il simbolo stesso del rispetto della legge sulle demolizioni dei villini costruiti all’interno della fascia vietatissima dei 150 metri dal mare. Una sconfitta per Angelino Alfano che, tirato in ballo dalle suppliche a «far sentire l’appoggio del governo», aveva sventolato il suo appoggio al primo cittadino in difficoltà davanti alla rivolta dei fuorilegge: anche gli alfaniani hanno votato per la decapitazione della giunta comunale. E una sconfitta più ancora per lo Stato, che si era illuso di riuscire finalmente a imporre, in quell’angolo di Sicilia, il rispetto della legge. Trent’anni di condoni

Per capire la dimensione della batosta, però, va fatto un passo indietro. Ricordando come dal primo condono craxiano del 1985, seguito dai due berlusconiani del 1994 e 2003, centinaia di migliaia di abusivi siciliani, protagonisti di un furioso saccheggio delle coste (si pensi a Triscina: cinquemila villette illegali tirate su a due passi da Selinunte) scelsero di versare un piccolo acconto avviando le procedure del condono, necessarie per bloccare le inchieste e le demolizioni, per poi non occuparsene mai più. Certi che la burocrazia isolana, tra le peggiori del pianeta, avrebbe ingoiato tutto.

Cosa puntualmente avvenuta. Basti dire che la «sanatoria delle sanatorie» offerta da Totò Cuffaro ai 400 mila isolani che da anni lasciavano marcire le pratiche dei vecchi condoni, fu accolta con l’1,1% di adesioni a Palermo, lo 0,37% a Messina, lo 0,037% a Catania, lo 0,025% ad Agrigento. E l’incasso fu di 1 milione e 85 mila euro: un settecentesimo del previsto.

L’ambiente era tale che nel 2001 lo stesso vescovo agrigentino Carmelo Ferrara, alla minaccia dello Stato di buttar giù almeno le più oscene delle 607 costruzioni illegali costruite dentro il parco archeologico, rispose attaccando le «ruspe immorali», denunciando «una campagna di mistificazione contro la città» e incitando alla ribellione «contro lo stato-padrone». I villini da abbattere

Fu questo, «il contesto» di sciasciana memoria nel quale Angelo Cambiano diventò un «eroe per caso». Era un giovane docente di matematica, non aveva fama di fanatico ambientalista e la lista civica che l’aveva eletto non era fatta di rivoluzionari. Anzi. Ma il commissario di governo uscente, con le chiavi della città, gli consegnò anche un tesoretto di 300 mila euro accantonati per cominciare a buttar giù, finalmente, almeno i villini colpiti da ordinanze inappellabili di demolizione. Cioè 216 su centinaia e centinaia. Come già i lettori sanno: tutte seconde case, quasi tutte sul mare, tutte tirate su a dispetto della legge.

In altre situazioni, forse, lo stesso Angelo Cambiano avrebbe preferito poter dire, come tanti altri sindaci, «spiacente, le ruspe costano e non abbiamo soldi». Meno grane. Meno odio. Meno rischi. I soldi in cassa, però, lui li aveva. I magistrati Renato Di Natale e Ignazio Fonzo, che già avevano dato una scossa imponendo ai comuni di prendere di petto il tema, glielo ricordarono. E lui ne prese atto. Facendo il suo dovere, cosa rara in certe realtà, nonostante la rivolta di tanti amici e amici degli amici: «Picchì giustu a ‘nattre?» Perché solo a noi? Perché le ruspe qui e non in altri comuni e contro altri abusi?

Confronto duro. Tanto che l’associazione «Periscopio, Osservatorio permanente sui rispetto della legalità» (sic) arrivò a firmare un «esposto querelatorio» contro il prefetto, il sindaco, i dirigenti dell’urbanistica e così via accusandoli di aver «prevaricato nelle loro funzioni istituzionali nella nota e triste vicenda…» Per non dire degli appelli («Perché proprio adesso, dopo anni? Perché proprio noi se in Sicilia ci sono un milione di case abusive?») e infine delle minacce.

Ci voleva coraggio a tener duro in nome dello Stato. Angelo Cambiano lo ha avuto. Ma come reggere un «contesto» in cui decine di deputati e senatori e consiglieri regionali si vantano di essere contro le ruspe e lo stesso governatore Rosario Crocetta nega le voci di una sanatoria ma pensa alla «possibilità dell’utilizzo sociale di alcuni immobili costruiti abusivamente che potrebbero, dopo la loro acquisizione al patrimonio pubblico, essere inseriti in piani di recupero...»? Come interpretare certi messaggi quali l’ultima apertura del candidato grillino alla Regione Giancarlo Cancelleri verso gli «abusivi per necessità», storica formuletta che le vecchie volpi partitiche d’ogni colore usano da sempre per stoppare le ruspe? L’altra «rivolta»

Non bastasse, il sindaco di Licata non è il primo a esser buttato fuori. A gennaio era già stato costretto ad andarsene Pasquale Amato, primo cittadino di Palma di Montechiaro: mezzo paese (a partire dai delinquenti che lo tempestavano di lettere minatorie) non gli perdonava di aver appoggiato una serie di demolizioni obbligate da sentenze definitive. Al posto suo, oggi, c’è Stefano Castellino che, come hanno scritto i giornali locali, si è presentato «con le idee chiare». Primo punto: basta ruspe. I soldi, dice, possono essere spesi meglio. Il tutto, si capisce, nella convinzione «che la legalità, la trasparenza e la chiarezza siano essenziali». Ma che statista...

la Repubblica
LICATA SFIDUCIA IL SINDACO DELLE RUSPE "PER NOI ITALIANI L'ONESTÀ È UN LUSSO"
di Alessandra Ziniti
«Tra i consiglieri comunali che hanno votato contro Angelo Cambiano sette proprietari di immobili nella “lista nera”»

La nota riservata è sul tavolo del procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio da un paio di settimane. Angelo Cambiano gliel’ha inoltrata dopo aver ricevuto la segnalazione dal dirigente dell’ufficio tecnico che, come lui, vive da mesi sotto scorta. Sette dei ventuno consiglieri comunali che mercoledì sera hanno deciso di mandare a casa il giovane sindaco che si era messo in testa di far abbattere le case abusive, risultano proprietari di immobili nella lista nera.

«Ora mi piacerebbe sapere se è legittimo che tra coloro che mi hanno votato la sfiducia ci sono persone coinvolte direttamente in questa vicenda», dice Angelo Cambiano il giorno dopo aver perso la sua battaglia, mandato a casa non dal popolo degli abusivi che lo ha minacciato, aggredito, bruciato due case, ma dalla politica che gli ha girato le spalle. Tranne il Pd e parte della sua maggioranza centrista, tutti gli altri, a cominciare dagli uomini del ministro Angelino Alfano, gli hanno votato contro.

«Sono amareggiato dall’ipocrisia e dalla falsità della politica. I messaggi di solidarietà postumi li ho respinti tutti al mittente. Un’attenzione prima di questo atto, che non è solo nei miei confronti ma della buona politica, forse avrebbe cambiato il corso di questa paradossale vicenda».

Oggi tutti indignati. Chi si è fatto sentire?
«Mi ha chiamato il presidente dell’Assemblea regionale Ardizzone, il governatore Crocetta mi ha assicurato che non manderà un commissario “morbido”. Sa che le dico? Tutte parole al vento ».
E Alfano che era venuto a Licata a garantirle vicinanza dopo il primo attentato?
«Non pervenuto. Meglio così. Mi rimbombano ancora le sue parole il 9 maggio nell’aula consiliare di Licata: “Basta con la politica che coccola gli abusivi. Ho dato indicazione ai miei di starle vicino”. E invece tra i promotori della mozione di sfiducia ci sono proprio i suoi fedelissimi. Ma la politica in Sicilia non è ricerca di soluzioni, ma del consenso. E ora a novembre si vota per le Regionali ».

E l’abusivismo è un grande aggregatore di consenso. Anche il candidato del M5S ha assunto una posizione precisa.
«Avevo incontrato Cancelleri mesi fa e mi aveva incoraggiato ad andare avanti con le demolizioni. Ora gli sento dire che agli “abusivi per necessità” non verrà demolita la casa. Ma chi sono gli abusivi per necessità? Sono solo slogan per avere i voti di questa gente».

Si sente sconfitto?
«Sono stato sconfitto da una classe politica inadeguata che ha devastato i territori, che ha perso un’occasione di riscatto che poteva essere anche di rilancio per la nostra terra. E soprattutto che ha perso il treno per affermare una cosa che dovrebbe essere scontata, e cioè che la legge si rispetta. Lo ribadisco: non è stata una scelta politica abbattere le case, c’erano sentenze della magistratura che andavano rispettate senza se e senza ma».

E adesso? Intende veramente tornare a fare l’insegnante?
«Fino a ieri pensavo che non volevo rassegnarmi, oggi penso che ho 36 anni, un figlio di nove mesi e vorrei riappropriarmi della mia vita magari credendo ancora nella buona politica, anche se è difficile pronunciare queste parole in questo momento».

“E ora andiamo a riprenderci quello che è nostro”, direbbe Gaetano Patanè, il sempiterno sindaco della Pietrammare di Ficarra e Picone dopo aver costretto alle dimissioni il suo rivale che aveva provato a far scattare “l’ora legale” in quel paesino della Sicilia. Come ha reagito ieri la sua Licata?
«La solidarietà che mi è stata espressa già nei giorni scorsi da Ficarra e Picone è stata una delle poche che ho gradito. Forse, come dicono loro, con questa crisi l’Italia non si può permettere l’onestà. Licata è una città difficile. Oggi forse molti si stanno rendendo conto che in fondo avevano un buon sindaco, molti altri sono venuti a chiedermi di ricandidarmi per non lasciare la città nelle mani dei ladroni. Vedremo, è ancora presto».

il Fatto Quotidiano
LICATA,CACCIATO SINDACO CHE VOLEVA DEMOLIRE L'ABUSIVISMO.
NEI GIORNI SCORSI LA SOLIDARIETÀ DI FICARRA&PICONE

«Il consiglio del comune siciliano sfiducia il primo cittadino con 21 voti. Angelo Cambiano che da mesi vive sotto scorta paga così la sua lotta alle case abusive che da decenni occupano la fascia entro i 150 metri del litorale: "Torno a insegnare matematica, ma tutti sanno perché sono stato messo alla porta". Pioggia di reazioni. Randisi (Antimafia): "Sconfitta per un'intera comunità"».

Sfiduciato il sindaco antiabusivi di Licata (Agrigento). Il consiglio comunale del comune siciliano ieri notte ha votato la mozione per mandare a casa Angelo Cambiano, da mesi sotto scorta che paga così la sua lotta alle case abusive che da decenni occupano la fascia entro i 150 metri del litorale di Licata. «Mi accusano di non aver fatto arrivare al Comune risorse e finanziamenti, ma non è vero perché ho portato oltre 52 milioni di euro. Il vero motivo lo sanno tutti, qual è ma non hanno il coraggio di dirlo. Io me ne torno al mio mestiere di insegnante di matematica, ma la politica qui dovrà assumersi le sue responsabilità: quella di dire alla gente che un sindaco che fa niente di più che il suo dovere viene cacciato meno di due anni dopo l’inizio del suo mandato».

La sfiducia passa al termine di una seduta tesissima di tre ore e mezza in consiglio con 21 voti, uno in più dei 20 che servivano. Sedici i consiglieri che avevano sottoscritto la mozione di sfiducia nei confronti del sindaco espressione di una lista civica di sinistra, venti i voti necessari per far passare la sfiducia, ventuno quelli che hanno defenestrato il sindaco che, dopo gli incendi di due case di famiglia, minacce e intimidazioni, vive sotto scorta. Cambiano ha già fatto sapere che impugnerà l’atto perché «le motivazioni riportate nella mozione sono solo bugie». Nei giorni scorsi anche Ficarra e Picone erano intervenuti a favore del sindaco, con un tweet, in cui lo hanno paragonato al sindaco protagonista del loro ultimo film, L’Ora Legale.

Sui social, dalla notte scorsa, sono tanti i post di cittadini dispiaciuti per la sfiducia. «Per me – scrive un sostenitore – Angelo Cambiano è stato il miglior sindaco di Licata degli ultimi 20 anni. Io non devo rendere conto a nessuno delle mie affermazioni o azioni, non so se chi ha votato la sfiducia può affermare di essere parimenti libero». Un altro utente è lapidario: «Paese di ignoranti e raccomandati. Siamo abusivi e resteremo abusivi. E devo sentir parlare persone che non sanno nemmeno cosa significhi. Grazie di tutto». Il caso è già diventato politico.

A Cambiano arriva la solidarietà di Legambiente che parla di “pagina triste”, ma anche da Alessandro Pagano, di Noi con Salvini, che lancia l’hashtag #iostoconCambiano. «La comunità licatese – afferma il presidente dell’Associazione antimafia, Nino Randisi – adesso è ferita da questa scelta improvvida di una classe politica miope e sempre un passo indietro rispetto ai valori di legalità reclamati dagli stessi cittadini che avevano eletto Cambiano. Un segnale grave questo che ancora una volta sottolinea come i politici abbiano ritenuto che il problema a Licata fosse il sindaco e non invece le costruzioni abusive edificate in barba alle leggi urbanistiche».

la Nuova Sardegna, 9 agosto 2017, con postilla, si spera, chiarificatrice

Se Renato Soru è il padre politico e filosofico del Piano paesaggistico, Edoardo Salzano ne è il massimo architetto teorico. L’urbanista è stato a capo del pool che ha creato il Ppr. E interviene in modo deciso sul dibattito legato alla nuova legge urbanistica e sugli aspetti controversi di alcuni articoli del nuovo testo. Lo fa con decisione e nettezza.

Le piace la legge urbanistica varata dalla giunta?
«No. Non mi piacciono alcuni aspetti. Per prima cosa l’articolo 43 (quello che consente alle norme del Ppr). È una aperta violazione. Una inammissibile deroga. Il nocciolo della questione è che con questo articolo si apre la strada al prevalere degli interessi immobiliari su quelli della tutela dell’ambiente. Che poi a decidere sia la giunta o il consiglio è un aspetto del tutto irrilevante. La tutela della fascia costiera deve restare una priorità».

Cosa si deve fare secondo lei?
«Semplice, l’articolo 43 andrebbe cancellato completamente. È in contraddizione con il Ppr. Il Piano deve essere conservato. È il risultato di un lungo lavoro ed è un modello che viene studiato e apprezzato in tutto il mondo».

Sì, ma una legge urbanistica serve alla Sardegna
«Certo. Una legge urbanistica serve, bisogna vedere come è fatta. La legge non è una coperta che va bene qualunque sia il suo tessuto. Se si violano le regole più importanti, la legge va cancellata. Ho letto di tutto nelle proposte di legge che ha avuto la Sardegna. Non è mai stata fortunata. Qualcuno ha parlato di vocazione edificatoria dei suoli. Una cosa inconcepibile.
«Al di là di tutto si deve avere un principio netto. Nessuna deroga per interessi immobiliari. La difesa delle coste della Sardegna deve restare al primo posto».

Ma lei aveva previsto nel Ppr la possibilità delle “intese”
«Le intese non potevano derogare alle regole del Ppr e in ogni caso erano uno strumento transitorio. Servivano per attuare le norme del Ppr e cessavano appena avvenuta l’approvazione del Puc, che doveva avvenire entro 18 mesi».

Lei punterebbe ancora sul Ppr?
«Di sicuro non si deve modificare. Andrebbe completato ed esteso a tutto il territorio sardo».

Ma il resto della nuova legge urbanistica le piace?
«C’è un altro aspetto che contesto. È la possibilità di incrementare del 25% gli hotel nella fascia dei 300 metri».

Ma gli alberghi devono avere servizi moderni se si vuole fare turismo
«Certo, ma mi spieghi dove è scritto che per rimodernare si deve aumentare la volumetria. Con la stessa cubatura si può migliorare la struttura. Non si può derogare al Ppr in questo modo.

Soru aveva una sua filosofia, aveva cominciato con la costituzione di un patrimonio dei beni immobiliari regionali per trovare un uso corretto.
«La logica del piano era decongestionare le coste per ridare fiato alle zone interne. Nei paesi dell’interno c’è un patrimonio immobiliare in abbandono che va restituito alla vita. Spalancare gli occhi sull’interno della Sardegna è un’impresa intelligente. Il Ppr non ha mai bloccato lo sviluppo economico. Si deve invece diffidare da chi si affida in modo sistematico alla rendita immobiliare».

Cosa pensa della norma che incrementa le Case mobili?
«Sono vietate. Perché i campeggi non possono diventare strutture permanenti.

postilla

La comunicazione dei nostri tempi ha un bisogno straordinario di protagonisti. Quando non li trova pronti li inventa. Questo e altri articoli sul piano paesaggistico della Sardegna hanno individuato Salzano come Padre, Autore, Protagonista del Ppr. E arbitro della sua attuazione. Non sono stato qualcosa del genere per nessuno dei piani cui ho collaborato. Sono contrario all'ideologia e alla prassi del "Piano d'Autore". Qualsiasi piano urbanistico o territoriale è una costruzione condannato alla rapida decadenza se è figlia di un solo autore. Così il Ppr sardo è figlio di un gruppo, a geometria variabile nelle varie fasi della sua costruzione, cui hanno partecipato moltissime persone: negli apparati tecnici e amministrativi, nei consulenti, nei tecnici, negli amministratori, nella stampa.

Nel caso specifico, se si vuole individuare la persona e il nucleo che hanno avuto la prima e più forte e costante funzione nell'avvio e nella costruzione del piano questa è indubbiamente costituita da Renato Soru, con il piccolo gruppo di persone (ricordo Giorgio Todde, Giulio Angioni, Helmar Shenk, Ignazio Camarda) che ebbero l'intelligenza e la fortuna di incontrare e interpretare una corrente positiva e creatrice della società civile (es.).

il manifesto, 11 agosto 2017 vedi postilla

Edoardo Salzano è uno dei maggiori urbanisti italiani. Classe 1930, ha messo le mani nella programmazione urbanistica di città come Roma, Napoli e Venezia.

Porta la sua firma anche il Piano paesaggistico regionale (Ppr) della Sardegna, nato nel 2006 quando a Cagliari era governatore Renato Soru. Uno strumento urbanistico di tutela della fascia costiera della Sardegna, chilometri di spiagge da sempre oggetto del desiderio della speculazione immobiliare e dell’edilizia di rapina. Il Ppr di Salzano è da alcune settimane al centro dell’attenzione. Tutto è nato dalla proposta di legge urbanistica presentata dalla giunta regionale presieduta da Francesco Pigliaru (Pd). Una proposta che non piace al fronte ambientalista e contro la quale si è schierato, in una recente intervista al manifesto, anche Renato Soru.

A Salzano la legge preparata dall’assessore all’urbanistica, Cristiano Erriu, non piace neanche un po’. E se su alcuni punti del testo proposto dalla giunta c’è un Soru che sembra disposto a discutere, Salzano ha una posizione più netta. Il padre del Ppr difende la sua creatura, in tutto il mondo indicata come un caso eccellente e riuscito, un caso di scuola, di tutela pubblica dei beni ambientali.

Cominciamo dall’articolo della legge urbanistica più contestato, il 43. Che ne pensa?
«L’articolo 43 prevede che se uno o più gruppi imprenditoriali privati presentano all’esecutivo regionale “progetti di particolare rilevanza economica e sociale”, la giunta può concedere licenza di costruire anche in deroga alle norme di tutela stabilite dal Ppr. Questo è inaccettabile. E lo è per un motivo molto semplice. L’obiettivo del Piano paesaggistico, la sua stessa ragione d’essere, è quella di privilegiare il valore paesaggistico delle coste rispetto agli interessi economici privati. La bellezza dei litorali della Sardegna viene considerata un valore primario rispetto a qualsiasi tipo di calcolo economico. L’articolo 43 dice esattamente il contrario: in presenza di un rilevante interesse economico si può stabilire che la tutela delle coste e della loro bellezza viene dopo. E può essere sacrificata».

La giunta Pigliaru ha annunciato che vuole correggere il 43 per togliere alla giunta la facoltà di concedere deroghe agli imprenditori per affidarla al consiglio regionale…
«Ma mi spiega che cosa cambierebbe? Anche se a decidere fosse il consiglio, non cambierebbe proprio nulla. Il punto è che di deroghe alla tutela assoluta delle aree vergini protette dal Ppr non ce ne devono proprio essere. Questo, almeno, se si resta fermi a quello che, l’ho già detto, è il fondamento stesso del Ppr: prima la tutela delle coste, prima la loro bellezza. La bellezza è un bene comune da mettere al riparo dalla logica del profitto economico».

E poi c’è l’articolo 31, quello che consente aumenti di cubatura per gli alberghi già esistenti, anche entro la fascia protetta dei trecento metri dal mare. Il suo parere?
«Sento che si discute di scendere da un tetto massimo del 25 per cento di ampliamento a misure più basse. Sono trucchetti. L’articolo 31 va respinto per lo stesso motivo per cui va respinto il 43: il principio resta che la tutela delle coste è un interesse pubblico preminente rispetto all’interesse economico privato».

Ma si dice che gli aumenti di cubatura servono ad adeguare gli alberghi a una domanda turistica mutata e più esigente…
«Chiacchiere. Mi dice, per cortesia, dove sta scritto che per rimodernare un albergo e adeguarlo alla domanda dei clienti si deve aumentare la cubatura? Le strutture possono benissimo essere migliorate anche senza crescere di un solo metro cubo⋄.

E della legge sul turismo presentata dalla giunta sarda insieme con quella urbanistica, che ne pensa?
«Che cosa vuole che pensi di una legge che consente di costruire casette di legno collegate alle fogne e alla rete idrica anche sulla riva del mare, in aree di grande pregio ambientale, con l’obiettivo di aumentare la capienza dei campeggi? Penso che si voglia dar vita a villaggi turistici mascherati da campeggi. Un’altra violazione del Ppr. I campeggi sono campeggi, non possono diventare strutture permanenti».

Il sovrintendente ai beni culturali di Cagliari, Fausto Martino, ha chiesto al governo di impugnare di fronte alla Consulta le norme con le quali la giunta Pigliaru ha di fatto privatizzato gli usi civici.

«La Corte costituzionale aveva già respinto una volta quelle norme, con argomentazioni ineccepibili. I terreni sottoposti a usi civici sono beni inalienabili al patrimonio pubblico. Dopo la sentenza della Consulta, le stesse norme sono ricomparse nel testo della legge urbanistica, e a quel punto Martino ha sollecitato l’intervento del governo. Mi auguro vivamente, anche se ci credo poco, che Gentiloni e il ministro ai beni culturali Franceschini accolgano la richiesta del soprintendente».

rinvio alla postilla precedente sul medesimo argomento

«Un tunnel di vetro e acciaio inutilizzabile nella parte coperta. Comune e parlamentari locali aspettano dal Governo una deroga per consentire l'apertura di attività permanenti. Come a Firenze e Venezia». la Repubblica online 9 agosto 2017 (p.s.)

Un'astronave atterrata su un torrente spesso in secca alle spalle della stazione ferroviaria. Un tunnel di vetro e acciaio costato 25 milioni di euro di soldi pubblici. Si chiamerebbe ponte Europa, poiché legato all'insediamento della vicina Efsa (Agenzia europea per la sicurezza alimentare) ma nella controversa storia recente delle opere pubbliche di Parma è più noto come ponte Nord. Progettato nel 2010 da Vittorio Guasti, architetto, ex senatore di Forza Italia ed ex capogruppo di maggioranza in Consiglio comunale negli anni in cui in città appalti e finanziamenti del governo Berlusconi (potente ministro il parmigiano Pietro Lunardi) abbondavano, è tuttora un'opera in cerca di destinazione. Lungo 180 metri, largo 33 e alto 15, tre piani, quattro corsie e pista ciclopedonale, è stato pensato come ponte abitabile per spazi espositivi e commerciali ma l'abilitazione non è mai arrivata perché la legge Galasso vieta costruzioni con usi permanenti sull’alveo dei fiumi.

ll progetto originario, che prevedeva anche una torre con uffici poi stralciata, prospettava un centro di documentazione, formazione e informazione sull'alimentare e i prodotti tipici. Poi si è parlato di museo del design e di un centro di aggregazione della cultura giovanile; ipotesi tramontate come gli spazi per start up giovanili e le attività legate all'università. D'altra parte, aprendo negozi o attività fisse si produrebbe un abuso edilizio. Occorre prima una deroga del Governo per consentire un utilizzo stabile di interesse pubblico all’interno dell'infrastruttura. A nulla è servito finora il pressing dei parlamentari locali sul Governo. L'ultima bocciatura è stata l'esclusione dell'opera dallo Sblocca Italia: insormontabile il rischio idrogeologico secondo la commissione Ambiente della Camera. Impossibile rimuovere il vincolo, si creerebbe un precedente pericoloso sul fronte della sicurezza; oltretutto a pochi anni dall'alluvione che a Parma ha sommerso un intero quartiere.
I deputati del Pd puntano a "consentirne l'utilizzo stabile attraverso l'insediamento di attività di interesse collettivo sia su scala urbana che extraurbana, anche in deroga alla pianificazione vigente" per "trovare una soluzione e non lasciare la struttura coperta inutilizzata e abbandonata al suo destino, dopo averla costruita". Nel 2012, appena eletto, il sindaco Federico Pizzarotti, all'epoca grillino, aveva evitato manifestazioni ufficiali per il taglio del nastro; prima dell'apertura al traffico una breve cerimonia con la benedizione del parroco don Luigi Valentini e un classico della canzone dialettale "Parma Voladora" intonata sul ponte. L'assessore ai Lavori publici Michele Alinovi, confermato nell'incarico, allora come oggi si concentra sulle possibili funzoni e "usi ammissibili per concludere questa triste avventura".
A distanza di cinque anni la situazione è pressoché la stessa nonostante la buona volontà dell'Amministrazione comunale che ha speso altri soldi per rendere la galleria fruibile almeno in via temporanea. Gli spazi, ad esempio, debbono essere ogni volta raffreddati o rinfrescati a seconda della stagione. Nel frattempo sono stati organizzati un paio di eventi a scopo benefico, l'ultimo un concerto con apericena a pochi giorni dal voto e prima una serata con ospiti, tra gli altri, Giorgia Palmas e Vittorio Brumotti. "E' un’opera finanziata con fondi pubblici e non si può lasciare andare in rovina" ripete Alinovi. Il destino del tunnel-vetrina dipende, dunque, dal Governo che dovrà decidere se concedere una variante urbanistica per permettere di utilizzare il ponte anche al suo interno. "La speranza c'è, è una questione politica", dice Alinovi.
Se mai la deroga dovesse arrivare il ponte Nord diventerebbe il terzo abitato d'Italia accanto ai secolari ponte Vecchio di Firenze e di Rialto a Venezia. Per ora, come scritto da un cittadino il giorno dell'inaugurazione, è quello dei sospiri.

«Sfruttano i cavilli e i tempi lentissimi della giustizia. Così il condono è diventato una specializzazione per gli avvocati più intraprendenti». la Repubblica, 10 agosto 2017 (c.m.c.)

La colpa è del proprietario dell’immobile. Anzi, no: lo studio legale specializzato in abusi edilizi promette sul suo sito che «ci sono casi in cui si può impostare una strategia tendente ad alleggerire la responsabilità chiamando in causa il titolare del cantiere edile». Se poi anche il titolare del cantiere ha un buon legale, saranno altri ad andare a giudizio. O forse nessuno, perché alla fine si paga una multa, oppure il reato è prescritto.
Il titolare dello studio legale di Ariccia che promette «strategie di alleggerimento» preferisce non rispondere, ma c’è invece chi ha voglia di raccontare quanto sia difficile occuparsi di diritto urbanistico in Italia. «Quando, anni fa, ho scritto la mia tesi sull’argomento — racconta Michela Scafetta, avvocata a Roma e a Napoli — ero convinta che il nostro sistema di leggi fosse perfetto. Ho svolto il praticantato a Pomigliano d’Arco e lì mi sono scontrata con un mondo che non credevo potesse esistere: la legalizzazione dell’abuso edilizio». L’avvocata riferisce di clienti che si rivolgono in maniera preventiva ai legali, e nei casi di piccoli abusi in appartamenti affermano: «Ma se io faccio fare tutto in una notte, chi se ne accorge? Trovo un tecnico che regolarizza il tutto e il gioco è fatto».
Oppure c’è chi vuole convincere l’architetto ad abbattere un muro portante, dicendosi pronti ad assumersi piena responsabilità della cosa: «Se il tecnico è incorruttibile — osserva l’avvocata — il problema non si pone, ma se invece si fa convincere, allora può capiretare che i palazzi crollino...». Spesso i clienti girano più studi legali finché trovano chi li asseconda. «Giorni fa a Napoli — racconta ancora Scafetta — ho ricevuto un cliente che dopo aver girato molti studi pugliesi che gli avevano spianato la strada di fronte a un abuso edilizio per un villaggio vacanze nel Gargano, in una zona vincolata e considerata non edificabile, mi esponeva il suo piano d’attacco per verificare anche con me se avrebbe potuto farla franca. Al mio parere fermo che l’opera è abusiva, che non può essere sanabile e implica un reato penale, il cliente per niente preoccupato mi ha detto: “Avvocato, l’importante è che riesco a patteggiare!”».
Per alcuni costruttori, perciò, la «strategia di alleggerimento », le spese per l’avvocato e per pagare la sanzione vengono previste tra i costi di realizzazione dell’opera. «La normativa è farraginosa — conferma l’avvocato Bergaglio, che esercita invece a Milano — da noi arrivano persone che hanno compiuto abusi per ignoranza o perché mal consigliati, ma anche, è vero, perché sanno di poter sfruttare ogni appiglio e cavillo». Secondo il penalista milanese però le cose stanno cambiando: «Un tempo mettere in conto l’abuso era conveniente, adesso, vista la stretta sui condoni, nella grande lottizzazione il rischio è troppo alto. Da me arrivano soprattutto persone che si ritrovano nei guai: per deontologia mai assisterei qualcuno per dargli indicazioni su come aggirare le norme, non insegno a delinquere ».
Ma come in ogni ambito, c’è chi di fronte al guadagno chiude un occhio: «Dal punto di vista economico — osserva Bergagli — la parcella per casi di abuso edilizio non è alta, direi tra i 4 mila e i 15 mila euro, a fronte di parecchio lavoro. Diverso è se si tratta di grandi lottizzazioni».
L’avvocata Lory Furlanetto, dei Centri di azione giuridica di Legambiente, allarga il discorso: «In Italia il problema è una cultura incapace di considerare l’abuso un costo enorme che paga tutta la collettività, e non soltanto per i danni all’ambiente, ma per le casse dei comuni. Non colpevolizzerei gli avvocati, a facilitare l’abusivismo ci sono anche studi notarili e tecnici pronti a istituire pratiche di condoni finti su opere inesistenti, se all’orizzonte c’è una sanatoria».

Il comune pagherà le spese per il tram collegherà il centro al nuovo store di Eataly (Fico). Ennesimo esempio della subalternità della pianificazione urbanistica all'interesse privato. Un passetto in più dalla contrattazione al vassallaggio. il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2017 (p.d.)

In carrozza. Parte il tram più Fico d’Italia. Quello che collegherà il centro di Bologna e la “Fabbrica italiana contadina”. Fico, appunto. A Bologna, nonostante il caldo rovente che piega quasi le torri, le polemiche politiche si risvegliano: “Sembra una linea fatta apposta per servire la nuova creatura di Eataly e Oscar Farinetti”, è convinto Max Bugani, consigliere comunale M5S. Virginio Merola, il sindaco, invece è trionfante: “Voglio ringraziare il sottosegretario Maria Elena Boschi e il ministro Claudio De Vincenti per l’attenzione”.
Dopo il via libera del Cipe, il Comitato interministeiale per la programmazione economica le cui deleghe sono in mano al ministro dello Sport Luca Lotti, dovrebbero finalmente arrivare i 110 milioni del Patto per Bologna più volte annunciato. Ma a nessuno sono sfuggiti quei quattro milioni per finanziare il progetto del tram che collegherà Bologna a Fico. La partenza adesso è ufficiale. E ripartono anche le polemiche su quella che promette di diventare una specie di Disneyland del cibo: 100mila metri quadrati di parco tematico, poi ristoranti, campi, stalle, centro congressi. Il sito già annuncia 2 milioni di visitatori stranieri l’anno. Ma proprio il M5S accusò: “Il parco agroalimentare sorgerà sui terreni pubblici del Caab, il mercato ortofrutticolo di Bologna. Non c’è stato un bando”. Farinetti replicò: “Non sono io privato che devo decidere se fare un bando. Non ho voglia di mettermi a discutere con gente che si occupa solo di scandali e non di bellezza”. E il patron di Eataly fece anche qualche previsione: “Ci vorranno cento milioni, ma sarà bellissimo”. Addirittura ci fu chi parlò di sei milioni di visitatori l’anno.
Era soltanto l’inizio: dopo la presentazione del progetto ecco aggiungersi - “con regolare variante”, spiegano dal Comune di Bologna - un albergo da 200 stanze. Bugani la vede così: “Si stanno rendendo conto che il progetto rischia di non stare in piedi. Hanno aggiunto un albergo e poi chissà che altro ancora ci metteranno”. Fico Eataly World è la società che si occupa dell’avvio, della gestione e delle promozione del parco, in Italia e all’estero: la società è partecipata da Eataly Srl, Coop Alleanza 3.0 Soc. Coop. e Coop Reno Scarl. Presidente onorario è Oscar Farinetti, presidente Francesco Farinetti e tra i consiglieri c’è Nicola Farinetti. Il M5S punta il dito: “Sono gli imprenditori vicini alle due anime del centrosinistra. Niente di illecito, però è una questione di opportunità politica”.
A quando l’apertura? Nel marzo scorso a Roma è arrivato l’annuncio: i cancelli dovrebbero essere spalancati nel prossimo ottobre. Ma in parecchi hanno sottolineato il rischio cattedrale nel deserto. Anche Romano Prodi, bolognese doc, parlò di “problema di trasporti” in quella zona alla periferia della città. Merola non la prese benissimo: “Grazie al Comune si fa Fico e grazie al Comune ci sarà un sistema di trasporti. Ringrazio tutti per i consigli meravigliosi, ma intanto sono io che ho trovato i milioni per progettarlo... Se tutti questi che ci danno consigli ci dicessero anche come trovare i soldi, il mio lavoro sarebbe anche molto più facilitato. Romano lo fa in buona fede, ma il sistema dei trasporti si farà. Ho un po' d'esperienza amministrativa per sapere che ci vuole un mezzo di trasporto”.
Adesso ecco arrivare anche il progetto per il tram finanziato con soldi pubblici: “Noi non c’entriamo niente con questo progetto e non siamo i destinatari dell’opera. È un tram al servizio della città”, ricordano da Eataly. Intanto arrivano i primi 4 milioni e la benedizione del Governo e del Cipe. Ma poi quanto denaro pubblico costerà il tram? In Comune allargano le braccia: “Finora non abbiamo stime”.
Riflessioni sul quadro politico e culturale nel quale si pone l'episodio degli sgomberi forzosi di due centri di vita sociale. La lezione è chiara: rigenerazione urbana significa arrendersi al mercato e alle sue logiche oppure essere picchiati dalla polizia. Una corrispondenza per eddyburg, 8 agosto 2017

Questa mattina il capoluogo emiliano si è svegliato a suon di sgomberi ai danni di due esperienze sociali: Làbas e Laboratorio Crash. L’operazione di oggi è il tentativo di snaturare e cancellare un effervescente laboratorio politico.

Un risveglio triste quello bolognese. Làbas e Laboratorio Crash, due spazi sociali, sono stati sgomberati nella desolata mattinata dell’8 agosto. Già nella serata di lunedì le prime voci su un presunto sgombero ai danni di Làbas, esperienza sociale al suo quinto anno di età, che al suo interno racchiudeva esperimenti di mutuo lavoro, un dormitorio con 12 posti letto, il mercato contadino del mercoledì, un luogo di socialità trasversale nel cuore della città. I sigilli hanno messo fine anche al Laboratorio Crash, esperienza diversa ma con una storia lunga 17 anni, figlia del g8 di Genova, laboratorio politico e location di eventi di ogni genere, un luogo attivo nella lotta del diritto all’abitare. Un altro pezzo di Bologna che se ne va, quella Bologna, di cui oggi è stata cancellata grossa parte della memoria collettiva, fatta di resistenze, di esperimenti politici e iniziative dal basso.

Cosa ne rimane? Una riflessione sulla direzione che questa città ha preso è d’obbligo. Nell’ultimo anno il segnale è stato ancora più forte: non c’è più spazio per l’autorganizzazione. Lo dimostrano gli sgomberi fatti negli ultimi due anni, alcuni senza nessun tentativo di trattativa; i più recenti “BancaRotta” del collettivo LuBo e la Consultoria TransFemministaQueer, murata solo dopo 4 giorni. Via DeMaria, la biblioteca di scienze umanistiche in via Zamboni 36, Via Gandusio, Arci Guernelli e, prima ancora, Atlantide, ExTelecom e la lista potrebbe essere lunga, come dimostra l’inchiesta di Zic. “Chiedi (ancora) alla polvere”. Tutti spazi occupati, abitativi o sociali, che sono stati tolti all’incuria, la cui fine è stata decretata con la costruzione di muri, per poi essere nuovamente abbandonati o svenduti a privati.

Emblematico è il caso di Làbas, nato dalle ceneri di un’ex caserma di proprietà prima del Demanio, poi di cassa Depositi e prestiti. Dal 2010 lo stabile è stato messo più volte in vendita, fino a essere acquistato nel 2014 da Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), insieme ad altre ex caserme militari e immobili per una somma di 50 milioni di euro, di cui 7,5 milioni nelle casse del comune. La riqualificazione dello stabile è stata inserita tra gli interventi previsti dal POC (piano operativo comunale), tramite un accordo tra comune e Cdp che prevedevano “la costruzione di un albergo, una trentina di alloggi, attività commerciali e ristorative” (come si legge nel sito aggiornato al 2016). La stessa amministrazione, guidata dal sindaco Merola, si era, poi, espressa positivamente su Làbas, mentre Cassa Depositi e Prestiti si era detta favorevole a un incontro con il collettivo, nonostante l’emissione di un decreto di sequestro da parte della Procura nel dicembre del 2015. D’altra parte l’appoggio del quartiere è stato tale per cui il centro sociale è diventato, negli anni, una vera e propria piazza di socialità e ha dato vita a un Comitato per la difesa e la valorizzazione dell’ex caserma, sede in epoca fascista della XXIII Brigata Nera “Eugenio Facchini” e luogo di tortura di partigiani, ma completamento abbandonato per 15 fino all’occupazione del 2012.

In una giornata di mezza estate due esperienze sono state cancellate. Dietro l’egida della legalità si giustificano sgomberi in cui i manganelli fanno da protagonisti, ultimo quello di Labas, ma non il solo. A Bologna la rotta è cambiata, non c’è più spazio nonostante gli innumerevoli edifici abbandonati o in costruzione da decenni, un esempio è la discussa Trilogia Navile.

Una città per chi? Viene da chiedersi. La strada intrapresa è quella della rigenerazione urbana, etichetta dietro cui si celano tutta una serie di meccanismi che sembrano riversarsi in un processo di vetrinizzazione della città. È questo che fanno presumere le recenti campagne di marketing urbano, i progetti di riqualificazione previsti nel quartiere popolare della Bolognina o in altre aree periferiche, o il progetto di riqualificazione della controversa piazza Verdi. Alla retorica neoliberista che rappresenta la città come uno spazio per le grandi cattedrali del consumo (si veda il progetto FICO), si affianca quella sulla sicurezza delle città che vede gli spazi occupati come luoghi del degrado, che trova la sua summa nel decreto Minniti sul decoro urbano. Se infatti, da una parte ci si dota di strumenti quali regolamenti sui beni comuni o patti di collaborazione, dall’altra, si emettono ordinanze, privatizzano servizi, si dota la città di tutto un arredo fatto di videosorveglianza e militari per fronteggiare la narrazione sulla questione sicurezza e degrado.

Ritorna vivido alla mente il murale di Blu, #OccupyMorodor, che rappresentava la battaglia tra forze opposte che in questi giorni si sta consumando nelle strade bolognesi. Il murale, dipinto sulle pareti di Xm24, altro centro sociale sotto sgombero e ultimo baluardo di quella Bologna che si vuole neutralizzare, è stato cancellato un anno fa dal suo stesso autore e da attivist* di Xm e Crash come gesto radicale contro la privatizzazione della street art bolognese a opera della Fondazione Genius Bononiae. Così come le pennellate grigie non hanno eliminato del tutto la memoria dell’opera, i muri non cancelleranno un’altra idea di città.

Quella che si combatte è una lotta per il diritto alla città, che nessuno sgombero può fermare. Riprendendo le parole di D. Harvey: “La domanda riguardo a che tipo di città vogliamo non può essere separata dalla domanda circa che genere di persone vogliamo essere, quali tipi di relazioni sociali ricerchiamo...” (Rebels cities, p.22)

Parla l’avvocato generale della Corte d’Appello di Napoli Gialanella: “I Comuni non collaborano”». la Repubblica, 9 agosto 2017 (c.m.c.)

«I segnali che arrivano dalla politica in tema di abusi edilizi non mi sembrano esattamente improntati al principio della tolleranza zero», dice l’avvocato generale della Corte d’Appello di Napoli Antonio Gialanella. Dalla sua scrivania, passano tutte le procedure di demolizione di competenza della Procura generale con a capo il pg Luigi Riello.

I due magistrati, d’intesa con le Procure del distretto, hanno dato un forte impulso alla lotta contro il cemento illegale. Ma è una partita che spesso l’autorità giudiziaria non gioca ad armi pari. E non solo per i numeri: a fronte di più di mille procedimenti pendenti, gli abbattimenti eseguiti dalla Procura generale nel 2016 non superano la settantina. «Abbiamo casi, come quello di un centro sportivo, dove l’ingiunzione a demolire è arrivata nel 2008 e solo otto anni più tardi, a novembre 2016, è iniziata la demolizione».

Perché è così difficile mandare giù un manufatto abusivo?
«Innanzitutto serve una sentenza definitiva e i tempi del processo penale non sono brevi. Anche perché parliamo di reati contravvenzionali che vengono giudicati, spesso, in territori dove i tribunali devono confrontarsi con omicidi e delitti di mafia. Dopo la condanna, comincia un altro iter a sua volta molto complesso ».

In cosa consiste?
«Il proprietario dell’immobile può opporsi sul piano giudiziario e avviare procedure strumentali su quello amministrativo. Questo può portare via anche degli anni. E non bisogna dimenticare che senza soldi non si può demolire ».

Chi finanzia l’abbattimento?

«Ci sono casi in cui il destinatario, quando non ha più alternative, procede all’autodemolizione per risparmiare sui costi. Altrimenti, si attiva il finanziamento della Cassa depositi e prestiti. Ma può farlo solo il Comune. È un vero e proprio mutuo concesso all’ente che, dopo la demolizione, si rivale sul proprietario».

Anche il finanziamento richiede tempi lunghi?
«La pratica va istruita. I problemi però ci sono anche a monte ».

In che senso?
«Debbo registrare lentezze dei Comuni nel ricorso al finanziamento della Cassa depositi e prestiti. Come Procura generale, abbiamo dovuto segnalare gli atteggiamenti, per così dire, poco collaborativi di alcune amministrazioni ».

A questo si riferiva quando parlava della politica che non sembra orientata verso la tolleranza zero?
«Questo è un aspetto. Ma arrivano segnali che suscitano perplessità anche dalla Regione Campania, con la legge, ora impugnata dal governo Gentiloni, sulle “misure alternative agli abbattimenti”. Al di là del merito, si rischia di lanciare un messaggio che non scoraggia gli abusi. Come del resto suscita perplessità anche il disegno di legge Falanga ».

Perché un giudizio così severo?
«Se, da un lato, il disegno di legge attribuisce maggiori poteri al prefetto, e questo potrebbe velocizzare le procedure di finanziamento, dall’altro fissa dei tetti di spesa per gli abbattimenti assolutamente inadeguati: 5 milioni per le procedure del 2016 e 10 per quelle tra il 2017 e il 2020 per tutto il territorio nazionale».

Non bastano?
«Le faccio solo un esempio: il Parco nazionale del Vesuvio, che sta svolgendo un’opera meritoria in questa battaglia, ha stanziato nell’ultimo bilancio 659 mila euro».

Sono tanti soldi.
«Sulla carta sì. Però sono già pronti due progetti di demolizione di competenza della Procura generale dell’importo di 300 mila euro, altri due della Procura di Nola per i quali occorrono 860 mila euro e sette della Procura di Torre Annunziata che richiedono 300 mila euro. Una demolizione di media entità non costa mai meno di 50 mila euro. Per abbattere il centro sportivo di cui le parlavo prima, è stato impegnato un milione e mezzo».

Le cautele della politica, almeno in alcuni casi, non possono essere dettate anche dalla volontà di non colpire chi ha realizzato un abuso per necessità?
«È sbagliato presentare la demolizione come uno strumento che penalizza solo gli ultimi. I fatti dimostrano che spesso in gioco ci sono interessi criminali, speculazioni, paesaggi devastati».

«Manganellate contro gli attivisti del Làbas, apprezzato anche dalla sinistra istituzionale. Proteste dall’Arci alla Cgil». E una domanda al sindaco: chi comanda a Bologna? la Repubblica, 9 agosto 2017, con postilla

BOLOGNA. Uno sgombero in vecchio stile, manganelli all’alba, ha chiuso le porte del centro sociale più amato di Bologna, il Làbas, e aperto la strada a un fiume di polemiche nella città un tempo laboratorio delle più svariate esperienze sociali. Un corposo gruppo di ragazzi, molti dei quali studenti, che da anni si era impegnato a creare una piccola cittadella vivace e solidale — mercatini, corsi, aiuto ai più deboli, musica e impegno sociale — dopo molti ultimatum ha dovuto alzare le braccia e abbandonare l’ex caserma di proprietà della Cassa depositi e prestiti. Azione ordinata dalla procura, eseguita dalla polizia e osservata a distanza dal Comune. «Non potevo interferire — ha detto il sindaco Merola — nel rispetto dei ruoli istituzionali. Ma cercherò una soluzione per quelli di Làbas».

Quelli del Làbas, in verità, la soluzione l’attendevano da tempo, forti di alcuni sponsor che ne avevano elogiato l’impegno e la capacità di coinvolgere il vicinato, oltreché di offrigli momenti di svago. Il mercatino del mercoledì (sì, proprio oggi) era di gran lunga l’appuntamento più frequentato dai bolognesi, anche di rango, in un tripudio di frutta e verdura obbligatoriamente bio e a km zero. Ma alla socialità il Làbas aveva sempre saputo aggiungere un impegno non di facciata, e uno stile di lotta anche politica che si era sempre tenuto ben a distanza dalla violenza.
«Una ferita gravissima per la città, per le persone del quartiere, per il percorso di quei ragazzi», ha subito dettato alle agenzie Amelia Frascaroli, consigliera di stretta osservanza prodiana ed ex assessore ai servizi sociali. «Il fallimento della politica», ha invece commentato lapidariamente Andrea Colombo, consigliere Pd e a sua volta ex assessore al traffico. Ma dalla Cgil all’Arci, passando per la Fiom e l’Arcigay, nessuno ha fatto mancare il proprio sostegno a Làbas. Che forse avrebbe avuto bisogno di tutto quel consenso nei mesi precedenti all’annunciatissimo sgombero. «Decisione improvvida e miope, su quell’esperienza bisognava lavorare per farla crescere e integrarla alla città», è stato il commento del filosofo Stefano Bonaga, da sempre vicino a quelli del collettivo. «Certamente la legalità andava ristabilita — ha osservato il politologo Piero Ignazi — ma non in modo così cruento, è mancata la governance ».

Il Pd, fisiologicamente, si è diviso. La destra ha esultato. Il sindacato di polizia ha denunciato 5 agenti lievemente feriti negli scontri durante lo sgombero. Quelli della Cassa depositi e prestiti hanno detto che ora vedranno che fare della ex caserma di via Orfeo. E il collettivo Làbas, in una caotica conferenza stampa all’ombra della statua del Nettuno, ha dato un mese di tempo al sindaco per trovare una soluzione alternativa. Soluzione alla quale pareva si lavorasse da tempo, ma che non è mai saltata fuori. Allargando così la distanza tra la sinistra diffusa e il governo della città, rieletto da un anno non a furor di popolo. Facile prevedere che lo sgombero di un torrido agosto apra la via a un autunno caldo.

postilla

Il sindaco ha dichiarato che non poteva interferire con la polizia, e ha ragione. Ma con la Cassa depositi e prestiti, e con la decisione di quest'ultimadi destinare la ex caserma a una destinazione diversa da quelle di fatto definta dalla utilizzazione in atto?.Perché a Bologna non è il potere elettivo a decidere sull'utilizzazione degli spazi della città? La legge stabilisce che le trasformazioni degli spazi della città vengano stabilite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, potestà degli organi elettivi, non dalla Cassa depositi e prestiti. Magari a Bologna vale già la nuova legge urbanistica regionale che legittima l'abusivismo urbanistico, ma non è ancora in vigore...

«Equazione Secondo gli scienziati le temperature saliranno costantemente provocando sempre più profughi ambientali». il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2017 (p.d.)

Emissioni: questa è la parola chiave da cui dipende il nostro futuro, anzi la nostra stessa sopravvivenza. Lo dicono le 545 pagine dello studio statunitense – studio che rientra nel National Climate Assessment, la valutazione sul clima richiesta dal Congresso ogni 4 anni – redatto da 13 agenzie federali che si occupano di cambiamento climatico e pubblicato ieri, ancora sotto forma di bozza, dal New York Times”, nel timore che Trump possa insabbiarne le conclusioni. Conclusioni che affermano con certezza che gli effetti del cambiamento climatico, di cui è causa sicura e diretta l’uomo, sono già reali, visto che le temperature medie negli Usa hanno toccato il loro livello più alto da 1.500 anni, con un aumento di 0,9 gradi dal 1880 al 2015 e che potrebbe arrivare, se non si riducono radicalmente le emissioni, a superare i 2 gradi entro fine secolo, con conseguenti ondate di calore sempre più intense alternate a violente tempeste di pioggia.
Mentre tutto tace sia dalla Casa Bianca – colpevole della scelerata decisione di uscire dagli accordi di Parigi - che dalla governativa Environmental Protection Agency, alla cui direzione Trump ha messo un negazionista del legame tra cambiamento climatico ed emissioni, in Italia è partita da pochi giorni la consultazione pubblica avviata dal ministero dell’Ambiente sulla prima stesura del Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti climatici, elaborato con il coordinamento del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc), che terminerà in ottobre. “Abbiamo diviso l’Italia in macro aree che hanno risposte simili agli impatti del cambiamento climatico”, spiega Paola Mercogliano, studiosa del Cira (Italian Aerospace Research Center) e del Cmcc. “E stabilito per ciascuna area delle priorità in termini di adattamento, suggerendo misure che i politici dovrebbero mettere in pratica a livello locale”.
Ma quali saranno le conseguenze concrete sulle nostre vite? Una risposta esatta, in questa estate angosciosamente torrida, purtroppo non c’è. Perché gli scienziati del clima lavorano su modelli matematici che si basano su ipotesi di emissioni dei gas serra. Ma non sapendo effettivamente se queste ultime verranno ridotte o meno, non possono dare risposte certe, “anche se la tendenza all’aumento delle temperatura legata ai gas serra è chiarissima”, spiega Mercogliano.
Uno scenario realistico – nel quale ci siano misure di contrasto, ma non radicali, alle emissioni, insomma non si spengano tutte le fabbriche ma neanche si faccia nulla – prevede che nel periodo tra il 2020 e il 2050 le temperature in Italia subiranno un aumento di 1,5-2 gradi, le precipitazioni d’estate una diminuzione del 22% (con picchi del 24% al Sud), mentre i giorni con una temperatura massima superiore ai 29 gradi saranno 9 in più per ogni estate, e 20 dal 2050 in poi. La pioggia aumenterà invece dell’8% in autunno (11% al sud), il che vuol dire che “l’acqua va ottimizzata il più possibile nei mesi in cui c’è”. “Quello che possiamo vedere”, spiega a sua volta Silvio Gualdi, direttore della divisione Climate Simulation and Prediction del Cmcc, “è che eventi considerati finora statisticamente estremi, cioè rari, stanno diventando sempre più frequenti e in futuro potrebbero diventare la normalità”. Siamo dunque costretti a subire le conseguenze di un riscaldamento inarrestabile? “Assolutamente no. Da un lato”, continua Gualdi, “servono politiche di adattamento che cerchino di ridurre gli impatti che i cambiamenti hanno sulla nostra salute, ma anche sulle attività economiche e sugli ecosistemi in generale. Dall’altro, però, esiste un livello di cambiamento più radicale che avrà dei costi difficili da sostenere come il ritorno al carbone”.
In conclusione si può parlare o no di probabile desertificazione dell’Italia e di possibili, preoccupanti, migrazioni a causa del clima? “Più che di desertificazione”, chiarisce Mercogliano, “parlerei di tropicalizzazione del bacino del Mediterraneo, con tanta eventi anche violenti di pioggia localizzata e una diminuzione delle piogge medie. Quanto alle migrazioni, i cambiamenti climatici sono certamente un acceleratore di crisi, ma al momento soprattutto per i paesi di provenienza degli attuali migranti. Fondamentale, comunque, è aumentare i soldi per la ricerca, che oggi può dire anche in che modo le città andrebbero pianificate in relazione al clima”, sostiene Gualdi. “Gli scienziati, comunque, hanno il compito non tanto di orientare direttamente le decisioni ma quello di fornire tutte le conoscenze adeguate perché chi decide lo faccia a partire da informazioni fondate. Per fortuna negazionisti non ce ne sono: la comunità scientifica è ormai compatta nel ritenere che il cambiamento climatico va affrontato subito. E seriamente”.

al di là degli slogan inganna-citrulli - della dirigenza politica sarda, in materia di territorio, immobiliarismo e turismo. Sardegna Soprattutto online, 7 agosto 2017

Il 28 luglio scorso è stata approvata la L.R. n. 16 “Norme in materia di turismo” mentre, da alcuni mesi è all’attenzione pubblica la proposta “Disciplina generale per il governo del territorio”, meglio nota come Legge Urbanistica Regionale. Se sulla prima le opinioni critiche tutto sommato sono state assai contenute, sulla seconda si è sviluppato un denso dibattito critico, sollevato da autorevoli intellettuali. Viceversa, i sostenitori entusiasti dell’una e dell’altra norma sono non casualmente gli stessi. Infatti, se facciamo una lettura comparata della legge sul turismo e della legge urbanistica, appare chiaro quale sia l’orientamento complessivo del governo regionale.

Alla base del mio percorso riflessivo vi sono tre quesiti. Qual è la filosofia di fondo insita in queste norme. Quale idea di sviluppo e di turismo vengono esplicitate. Chi sono i principali interlocutori a cui la Giunta regionale rivolge dette norme e proposte.

Tralasciamo le Finalità e i Principi dichiarati, nei quali la parola “sostenibilità” ricorre in modo fastidiosamente retorico, parola che viene immediatamente disattesa negli articoli successivi. Infatti, se la filosofia che guida entrambe le norme fosse stata realmente quella della sostenibilità, sarebbero state sufficienti poche righe iniziali del tipo “La Regione Sardegna si impegna a non consumare altro territorio per i prossimi cinquant’anni e si impegna, altresì, a orientare ogni intervento verso il riuso e il recupero del patrimonio esistente”. Stop al consumo del suolo, dunque, e non un generico “minimizzazione del consumo del suolo” richiamato qualche volta nel testo della proposta di legge urbanistica, assente del tutto, invece, nel testo approvato sul turismo.

Eppure, di ragioni per sostenere lo stop al consumo del suolo ce ne sarebbero tante. In primis, perché la Sardegna è tra le regioni che, sia in termini assoluti sia in rapporto alla popolazione, si colloca stabilmente ai primi posti per il consumo del suolo, in modo particolare a ridosso delle aree urbane e lungo le coste. In secondo luogo, perché a fronte di una popolazione che invecchia e non subisce ricambi (è di questi giorni l’ennesimo allarme che in Sardegna il rapporto vecchi/giovani è di 6 a 1), c’è un eccesso di edifici di cui già oggi le generazioni più giovani non sanno come mantenere, vuoi per il loro reddito che è mediamente più basso di quello dei loro genitori, vuoi perché si tratta di persone con lavori precari nel migliore dei casi, quando non disoccupati, vuoi perché i nostri giovani stanno letteralmente scappando dall’Isola in cerca di un vero lavoro. Pertanto, è facile prevedere che questo sterminato patrimonio edilizio nel prossimo futuro sarà in balia del degrado e dell’abbandono, esattamente come è lo è già gran parte di quello disseminato nei nostri paesi sempre più spopolati.

C’è una coincidenza di intenti, ossia di incentivi, nella legge sul turismo e in quella urbanistica. Guarda caso, questi incentivi riguardano incrementi di volumetria (amovibili e non), come se i problemi di sviluppo della Sardegna, e non solo di quello turistico, avessero a che fare con la capacità ricettiva degli alberghi (e quant’altro), per lo più chiusi nove mesi all’anno, ad eccezione di quelli situati in aree urbane come Sassari e Cagliari, e non invece in tutti quei fattori che possono rendere un luogo attraente sia per i residenti che per i turisti. Mi riferisco principalmente alla cura di un luogo e dei suoi abitanti, alla possibilità di accedervi facilmente, alla professionalità che dovrebbe caratterizzare quanti intendono occuparsi di economia turistica e non solo. Sono questi gli ingredienti che fanno di un luogo un Buon Luogo, insieme alla capacità di produrre beni primari e secondari (ossia quelli derivanti dall’agricoltura, dalla pastorizia e dalle industrie, piccole e grandi).

Orbene, il testo sul turismo è stato approvato, ma l’idea di turismo che sottende è ancora quella di cinquant’anni fa. Siamo invece ancora in tempo ad archiviare il testo di legge urbanistica della Giunta regionale e che, a mio avviso, è inemendabile, proprio per la filosofia di fondo sui cui si poggia, in primis il principio di perequazione, i presunti diritti edificatori dei proprietari di suolo, l’impianto per così dire normativo a cui questa proposta è stata ispirata: il Piano Casa nelle sue varie edizioni.

Una breve considerazione, per concludere: l'assessore Erriu è recidivo. È l'autore della legge regionale sul riordino (si fa per dire) degli Enti Locali, mentre ora ha la paternità della proposta di legge urbanistica. Il primo testo è stato confezionato con tecnica legislativa irresponsabile, confidando nel fatto che il referendum del 4 dicembre scorso avrebbe eliminato la Provincia come ente di area vasta. Ne deriva un pasticcio inestricabile, in cui si sommano dannosa moltiplicazione di enti, confusione delle competenze e aggravi di spesa, che si coniugano con la mancanza di fondi per provvedere a funzioni essenziali. Nessuno sembra intenzionato a intervenire per rimediare al mal fatto.

Allo stesso modo, il contenuto della nuova normativa urbanistica proposta sembra costruito come primo (ma decisivo) passo per lo scardinamento del PPR. All'orizzonte non si profila alcun referendum, per cui è legittimo temere che il danno possa, questa volta, restare senza rimedio.

il manifesto, 6 agosto 2017, con postilla

Qualcosa si muove sul fronte che vede una parte del Partito democratico e tutto lo schieramento ambientalista in campo contro la legge urbanistica regionale presentata dalla giunta Pigliaru (Pd).

Ieri l’assessore competente Cristiano Erriu ha fatto sapere che l’esecutivo intende modificare l’articolo 43, quello più duramente contestato da Renato Soru nell’intervista apparsa venerdì sul manifesto. All’interno del Pd sardo Soru, che da presidente della giunta nel 2006 fece approvare le norme molto rigorose di tutela delle coste contenute nel Piano urbanistico regionale (Ppr), guida l’opposizione alla legge urbanistica presentata da Erriu. Al manifesto Soru ha detto che sull’articolo 43 è pronto a chiedere che in consiglio si voti no. La giunta, nel tentativo di aprire un dialogo almeno con una parte dei contrari, annuncia che l’articolo 43 sarà modificato mettendo in capo al consiglio regionale, e non più alla giunta, la facoltà di chiedere accordi in deroga al Ppr con imprenditori che presentino, dice la proposta di legge, «progetti di investimenti immobiliari di particolare interesse economico e sociale». Secondo Erriu ciò consentirebbe di eliminare il rischio di decisioni discrezionali legato al fatto che titolare del potere di firmare accordi con gli imprenditori sia la giunta. Difficile però che questo possa bastare agli oppositori. Il fronte ambientalista, più duro dell’opposizione interna al Pd, chiede infatti che l’articolo 43 sia cancellato, non modificato. E a Soru basterà che a decidere sia il consiglio?

Ma non c’è solo la legge urbanistica al centro delle polemiche. C’è anche quella sul turismo, approvata lo scorso 28 luglio, che ora diventa oggetto di una richiesta di ricorso per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale presentata due giorni fa dal soprintendente all’archeologia, belle arti e paesaggio di Cagliari, Fausto Martino. Il dirigente segnala al governo, e in primo luogo al ministro Franceschini, la possibilità offerta ai campeggi e ai villaggi turistici dalla legge sul turismo di realizzare casette in legno anche in aree vincolate. Per Martino la legge «incentiva la formazione di agglomerati edilizi privi di qualsivoglia qualità in aperto contrasto con le norme tecniche di attuazione del Piano paesaggistico regionale». L’aumento di cubatura consentito arriva sino al 35 per cento di ciò che già esiste. Il rischio è che i campeggi possano trasformarsi in villaggi turistici mascherati.

Ma c’è di più: con il direttore generale del ministero del Beni culturali Caterina Bon Valsassina e con l’avvocato dello Stato Francesco Caput, Martino chiede che il governo ricorra anche contro un’altra legge della giunta Pigliaru, quella che sclassifica i cosiddetti «usi civici», aprendo la strada alla loro privatizzazione.

Gli usi civici sono diritti perpetui spettanti ai membri di una collettività, nella maggior parte dei casi un comune, su beni appartenenti al demanio o a un privato o allo stesso comune: acque, pascoli, boschi, terreni coltivabili. Sono di origine antichissima e si collegano a remoti istituti di proprietà collettiva sulla terra: in alcune regioni d’Italia (è il caso della Sardegna) risalgono all’età preromana e non sono stati cancellati dalla conquista romana; in altre regioni sono stati introdotti dai popoli germanici nell’alto medioevo. Privatizzare gli usi civici potrebbe aprire, nelle zone costiere, alla possibilità che i terreni interessati siano acquistati da imprenditori privati a fini speculativi. Sul ricorso di Martino contro la sclassificazione degli usi civici incombe però il rischio di scadenza dei termini: se la decisione di andare alla Consulta non sarà presa dal Consiglio dei ministri di domani (l’ultimo prima della pausa estiva), l’impugnazione non sarà più possibile per scadenza dei termini previsti dalle leggi: sessanta giorni dalla presentazione della richiesta di impugnativa.

postilla

L'articolo 43 proposto dal presidente Pigliaru prevede che la Giunta possa consentire la deroga alle tutele del piano salvacoste a «progetti di investimenti immobiliari di particolare interesse economico e sociale». La correzione pastrocchio sposterebbe questa facoltà di deroga dalla Giunta al Consiglio regionale. Più che un pastrocchio sarebbe una truffa. Il punto da tener fermo è che il piano salvacoste ha assunto come principio inderogabile che nella fascia litoranea (che è ben più ampia dei 300 metri della legge Galasso, la tutela paesaggistica prevalga su qualsiasi altro interesse, e soprattutto rispetto ai «progetti di investimenti immobiliari di particolare interesse economico e sociale».

Tutto vero, ma l'Onu, cioè l'Unesco che ne è l'agenzia specializzata, risponde alle denunce dei veneziani critici prendendo per buone le parole di Brugnaro, il peggior sindaco che la città abbia avuto. Corriere della sera, 5 agosto 2017, con riferimenti

Aiuto! C’è un complotto mondiale contro Venezia! Pare impossibile ma è questa la reazione di vari serenissimi amministratori e notabili al duro reportage del New York Times sulla città. Bellissima ma stravolta da un turismo asfissiante e da un malinconico degrado.

Come se ogni denuncia, ogni foto, ogni grido d’allarme non fossero già stati sbattuti in prima pagina, grazie a Dio, dai giornali nostri, nazionali e locali. E non per suicida masochismo: per salvarla, Venezia. Certo, non è la prima volta. Basti ricordare il fastidio che per anni manifestarono i politici veneziani, dediti a spazzar la polvere sotto il tappeto, davanti alle intemerate del «foresto» Indro Montanelli, querelato per aver annunciato ad alta voce ciò che poi sarebbe successo.
Ricorderà cinque anni prima di andarsene: «Come scrissi in tempi lontani, e come ormai mi sono stancato di ripetere, Venezia non aveva, per restare Venezia, che una scelta: mettersi sotto la sovranità ed il patronato dell’Onu per riceverne il trattamento, che certamente le sarebbe stato accordato, dovuto al più prezioso diadema di una civiltà non italiana, quale la Serenissima mai fu né mai si sentì, ma europea e cristiana, intesa unicamente alla conservazione di se stessa, quale tutto il mondo civile la vorrebbe». Macché, sordità totale. «Il risultato lo abbiamo sotto gli occhi: un turismo di massa con la merenda al sacco, che fa i suoi bisogni sotto i loggiati».

Veneziani in estinzione
Lo scriveva nel 1996. Odiava Venezia? O al contrario la amava disperatamente come solo gli amanti col cuore spezzato sanno amare? E Lisa Gerard-Sharp, l’inviata del National Geographic che un anno fa si chiese se «chi come me ama Venezia con coscienza, ha il diritto di incoraggiare altri a visitarla?». Scrisse: «Noi turisti siamo così “tossici” che sarebbe meglio rimanere a casa e cenare da “Pizza Express” dove i proventi della pizza Veneziana sostengono i restauri di Venice in Peril». «Attaccava» Venezia o puntava a salvarla? Evviva il turismo, ma farsene travolgere è folle. Tutti i giorni che Dio manda in terra l’antica farmacia di Andrea Morelli, in campo San Bartolomeo, aggiorna un pannello luminoso coi dati dell’anagrafe.

Una missione civile. Ieri i residenti del cuore cittadino erano scesi a 54.579. E molti, potete scommetterci, sono residenti solo fittizi perché costretti a rispettare le regole dei B&B. Che raccolgono milioni e milioni di visitatori ammucchiati sfatti nell’afa. I quali possono contare su nove bagni pubblici nella città serenissima più uno a Torcello, uno a Murano, uno a Burano. Totale dodici. Per 28 milioni di turisti l’anno che nel 2017 potrebbero crescere ancora.

Caduta di tono

E tutti i giorni il nostro Corriere del Veneto, il Gazzettino, la Nuova Venezia, documentano con foto, video, articoli il progressivo degrado. Ragazzotti che fanno il bagno smutandati nei canali, poppute cortigiane slave in finto costume settecentesco che adescano i passanti «vieni bello fare foto!», venditori di cianfrusaglie cinesi «made in Venice», signore disinibite evacuanti nei canali o addirittura sul pavimento di una enoteca, ciccioni desnudi che solcano la folla con la panza a prua, ingorghi di motoscafi e gondole e vaporetti, cataste di spazzatura sfuggite alla raccolta di trenta metri cubi quotidiani di «scoasse»...

Travolta dalle orde

«Che resti tra noi», intimava il titolo di un film francese di una ventina d’anni fa. E «resti tra noi» pare l’ordine di servizio lanciato da chi crede che l’«immagine» e la realtà virtuale vengan prima di tutto il resto. Compreso il rispetto di noi stessi. Ed ecco il fastidio per l’allarme lanciato nel 2015 sull’eccesso di turisti («Non vogliamo diventare come Venezia») da Ada Colau, sindaco di Barcellona, città che registra più o meno lo stesso numero di presenze ma ha 29 volte più abitanti su una superficie immensamente superiore. Rispose allora il sindaco Luigi Brugnaro: «Invitiamo il sindaco Ada Colau a venire a Venezia. Potrà essere l’occasione per mostrarle le bellezze della città e magari per farle cambiare idea sul fatto che Venezia è viva e vuole vivere, come città che incontra il mondo». Certo che è bellissima, Venezia! Ma che c’entra con l’allarme sulla overdose di visitatori e di alberghi, locande e B&B più o meno regolari, più o meno abusivi? Dario Franceschini andò addirittura oltre e pur ammettendo che «a Venezia c’è un problema di sovraffollamento», sbottò: «A Barcellona dovrebbero baciarsi i gomiti per poter diventare come Venezia». Ovvio. Ma magari non travolta dalle stesse orde.

L’occhio dei giornali stranieri

Va da sé che i reportage del Guardian («Quest’estate andate a Venezia? Non dimenticate la mascherina anti-smog») e dell’Economist sull’inquinamento causato dalle grandi navi e soprattutto quello più generale del New York Times hanno scottato la pelle di tanti amministratori e operatori turistici locali. Sia chiaro: tutto si può fare meglio e qualche sbavatura sarà sfuggita agli autori. Philip Rylands, a lungo direttore della fondazione Guggenheim, ha detto di averlo trovato «facilone e frettoloso» pur essendo la situazione «assai complessa». Ma ha senso parlare di un complotto? Eppure questa è la tesi dell’assessore al turismo Paola Mar rivelata al Gazzettino: «C’è una regia dietro questa campagna di stampa mondiale contro Venezia». Bum! Una congiura? «Certo che c’è una regia. Magari qualcuno che passa informazioni alla stampa estera magari proprio da qui. Qualcuno cui fa piacere abbattere le iniziative che Venezia sta attuando».

Una svolta

Indimenticabile il commento di Vittorio Bonacini, presidente degli albergatori veneziani: «Un’operazione tristanzuola di marketing per vendere più copie sulla pelle della città». Ma dai! E il New York Times, che dopo l’elezione di Donald Trump ha guadagnato 250 mila nuovi abbonati lancerebbe gli allarmi su Venezia «per vendere più copie sulla pelle della città»? Mostrino una svolta vera e profonda, a Venezia, e sarà loro riconosciuta. Con squilli di tromba. Fino ad allora, come dimostrano le cronache non planetarie ma locali, peseranno come macigni le parole scritte in Un viaggio in Italia da Guido Ceronetti: «C’è qualcosa d’immorale nel non voler soffrire per la perdita della bellezza, per la patria rotolante verso chi sa quale sordido inferno di dissoluzione, non più capace di essere lume nel mondo».

Riferimenti
Si veda, in proposito all'auspicato intervento dell'Onu, l'articolo Ultimatum Unesco per Venezia

Uno strumento «che permette di percorrere la storia delle conoscenze della natura e dell’ambiente, della consapevolezza che molte azioni umane sono dannose agli ecosistemi da cui dipende la vita e la salute, e delle lotte per frenare o eliminare le violenze all’ambiente. 5 agosto 2017 (p.d.)
Quando è nata l’“ecologia”? negli anni ottanta? col “nucleare”? nel 1970? I più informati citano il biologo tedesco Ernst Haeckel che ha usato questa parola per la prima volta nel 1866.
Per capire qualcosa delle lotte attuali per la difesa della natura, della biodiversità, per rallentare il riscaldamento planetario, contro gli inquinamenti, contro le frane e alluvioni, è necessario fare un salto indietro e scoprire che, dalla metà dell’Ottocento, scienziati, intellettuali, scrittori, hanno denunciato le alterazioni dell’ambiente dovute alle attività umane: alle industrie, all'agricoltura intensiva, alla rapina del suolo e dei minerali e dell’acqua, alla speculazione edilizia. Chi erano questi precursori, che cosa hanno scritto, come sono stati ascoltati?
La risposta è finalmente data dalla “Cronologia ambientale” che Luigi Piccioni, dell’Università della Calabria, ha di recente “pubblicato”, cioè reso accessibile gratuitamente ai lettori (qui scaricabile), in un numero monografico di “altronovecento”, la rivista telematica della Fondazione Luigi Micheletti e del Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia.
Nelle 118 pagine della cronologia, nelle molte centinaia di schede che si snodano, in ordine cronologico, lungo un secolo e mezzo, si incontrano personaggi, eventi, titoli di libri e anche di film sui vari aspetti dell’ambiente e dell’ambientalismo. Persone e cose che ci tornano alla mente o che non avevamo mai conosciuto, eventi, lotte, battaglie per un mondo migliore e più sano, anche vittorie che ci danno coraggio per proseguire nel tormentato cammino della difesa dei valori da cui dipende la salute, la giustizia, un lavoro che assicuri un salario senza violenza a se stessi, agli altri, alla natura.
A Luigii Piccioni almeno un grazie.

«"Come luogo di residenza e di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono.." Pubblichiamo un estratto dal saggio di Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo». che-fare.com, 4 agosto 2017 (c.m.c)

Marco d’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo, Feltrinelli

I geografi distinguono “tre tipi fondamentali di città turistiche: le stazioni (resorts) turistiche ‘costruite espressamente per il consumo dei visitatori’; città turistiche storiche che ‘pretendono un’identità culturale e storica’; e città convertite, luoghi di produzione che devono ricavare uno spazio turistico all’interno di contesti altrimenti ostili ai visitatori”.

Poiché non esiste ormai città al mondo in cui non capiti per sbaglio qualche turista, il termine città turistica va precisato: per esempio, molti stranieri visitano São Paulo, ma quest’enorme megalopoli brasiliana prescinde a tal punto dalla presenza di turisti che è impossibile trovarvi una cartolina da comprare, come si scopre con un sollievo di liberazione.

In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti: in questo senso sono tali non solo Kyoto, Dubrovnik, Bruges, Venezia o Firenze, ma anche centri più grandi come Roma o Barcellona; persino Parigi e Londra sono “città turistiche”, come anche New York, se ci si limita all’isola di Manhattan. Ma in senso più stretto, il turismo sta diventando la sola industria locale per molte città, che così diventano company towns, come Essen era la città dell’acciaio (Krupp), Clermont-Ferrand quella della gomma (Michelin), Detroit e Torino erano le città dell’automobile (General Motors e Fiat).

Come per i corpi c’è una temperatura precisa in cui passano dallo stato solido a quello liquido, o dallo stato liquido a quello gassoso, ed è la temperatura in cui avviene la transizione di fase, così si può definire una soglia precisa che separa una città turistica in senso stretto da una città che vive anche di turismo. Finché l’aflusso di visitatori non supera questa soglia, i turisti usufruiscono di servizi e prestazioni pensati per i residenti. Oltre questa soglia invece, i residenti sono costretti a usufruire dei servizi pensati per i turisti.

Il superamento della soglia di transizione ha conseguenze impreviste e irreversibili. Questo è chiaro nei ristoranti. Sotto la soglia, i turisti mangiano in ristoranti che cucinano per i locali, oltre quella soglia i residenti dovranno mangiare in trattorie mirate al mercato turistico. Trent’anni fa era praticamente impossibile mangiare male a Roma e Firenze. Oggi è difficilissimo mangiare bene. […] Nei termini dell’economia mainstream: il mercato per la domanda dei residenti non coincide con il mercato per la domanda dei turisti, ma i due mercati si sovrappongono nel tempo e nello spazio ed entrano in conflitto o divergono.

Se il residente ha bisogno di riparare le scarpe, mentre il turista ha fame di uno snack, e se i turisti spendono più dei residenti, il risultato è che scompare la bottega artigiana del ciabattino e si moltiplicano i fast-food. Non basta. Nella città turistica non è solo la tipologia dei servizi a mutare drasticamente, ma viene stravolta la stessa funzione degli edifici. Una volta l’ingresso nelle chiese era non solo libero ma auspicato. In fondo, se i poveri sarebbero stati i primi a entrare in paradiso, non si vede perché non dovevano entrare gratis nel tempio del signore.

Oggi invece per entrare a Santa Croce (Firenze) e in tantissime altre chiese bisogna pagare: “In tutto il mondo, chiese, cattedrali, moschee e templi si stanno convertendo da funzioni religiose a funzioni turistiche”. Così che i templi di una religione che considera il denaro un Demonio (Mammona, in altre lingue Mammon) sono accessibili solo grazie a quel denaro che maledicono. […] In generale, la proliferazione di stabilimenti e impianti turistici va di pari passo con la scomparsa di attività produttive, artigianali, ma non solo. Non è chiaro quale dei due fenomeni è causa e quale l’effetto: spesso sono effetto l’uno dell’altro e si rafforzano a vicenda.

In linea con l’idea “postmoderna” di turismo, si ritiene che le città lo sviluppino per compensare il declino dovuto alla deindustrializzazione. Fu certamente il caso dell’Inghilterra degli anni 1970-1990, quando il passato cominciò a diventare un’industria nazionale. Come osservò Robert Hewison nel 1987, dei 1750 musei allora presenti in Gran Bretagna, ben la metà era stata aperta dopo il 1970: in soli sedici anni erano stati istituiti tanti musei quanti in tutti i secoli precedenti! “Mentre le prospettive per il futuro sembrano ridursi, il passato cresce costantemente.”

Persino Manchester, che nell’Ottocento Friedrich Engels aveva scelto come paradigma di città manifatturiera, ha cercato di reinventarsi quale destinazione turistica (in particolare di turismo calcistico per i tifosi che da tutto il mondo vanno in pellegrinaggio allo stadio Old Trafford della squadra Manchester United), e ha impiantato in centro una bella ruota panoramica anche se non c’è assolutamente nulla da vedere.

In realtà, la funzione compensatoria va oltre l’ambito strettamente industriale: in una città il turismo acquista tanta più importanza quanto più declina ogni attività – industriale o meno – che produceva la sua tradizionale ricchezza. Così, una volta esauritasi la sua funzione portuale, Liverpool si è reinventata come attrattiva turistica, e là dove una volta si commerciavano schiavi in carne e ossa (a quella tratta la città dovette la sua rigogliosa, improvvisa crescita nel Settecento), ora sorge un “museo della schiavitù”.

Ma naturalmente l’esempio classico non può non essere Venezia che prese a coltivare la vocazione turistica ben quattro secoli fa, nel Seicento, quando la sua potenza commerciale mondiale stava svanendo nel ricordo. Fu a partire da quel momento che il Carnevale veneziano divenne un’attrattiva per tutta Europa, conoscendo il suo massimo splendore nel Settecento, quando richiamava decine di migliaia di stranieri (e tutta la nobiltà d’Europa) in cerca di bellezza e arte certo, ma soprattutto di gioco d’azzardo, divertimenti divulgati come sfrenati, débauche, licenziosità, trasgressione di tutte le inibizioni sociali (un po’ come il Carnevale di Rio ai giorni nostri). Ma (come nel Carnevale di Rio) era una sfrenatezza canalizzata e controllata dall’occhiuta e preoccupata Repubblica della Serenissima: “Fu instaurata una vera e propria politica dei piaceri. Il Carnevale divenne un’arma destinata a esorcizzare l’angoscia provocata dalla diminuzione del numero di nobili e dall’erosione del primato di Venezia sulla scena politica ed economica d’Europa”. […]

Ormai le tecniche per riplasmare la città turistica sono state perfezionate, testate e in un certo senso standardizzate, tanto che ovunque assisti allo stesso riarredo urbano “tipico, caratteristico, regionale”: l’industria turistica “ha messo a punto i procedimenti di condizionamento che permettono di consegnare i centri storici e i quartieri antichi già pronti per il consumo culturale. […]

Città turistiche che, per attrarre i turisti e per esaltare la propria irripetibile unicità, si ridisegnano, si ripensano, si riprogettano tutte uguali tra loro, nella lotta per sottrarsi turisti. Non bisogna più pensare alla singola città turistica, quanto alla rete, al sistema delle città turistiche. Ma il cambiamento più visibile nel tessuto urbano è provocato da una caratteristica specifica del turismo che era stata individuata da MacCannell: l’autenticità è visibile al turista solo se “marcata” da un marker, se “ostentata”, anzi, se “messa in scena” (staged). Qui il riferimento esplicito è alla teoria formulata da Erving Goffman sulla “presentazione di sé nella vita quotidiana”. […]

L’idea di Goffman è che nella civiltà moderna, nelle relazioni interpersonali, ogni persona si offre e si presenta agli altri costruendo la propria rappresentazione che cambia a seconda dei contesti e degli interlocutori, e quindi esponendosi su un “palcoscenico” (frontstage), e nello stesso tempo riservandosi un “dietro le quinte”, un backstage, delle coulisses in cui riorganizzare la presentazione, fare le prove, allestire i travestimenti, ripetere la parte, riprendere forze (il termine esatto italiano per coulisse sarebbe “retroscena”, il cui significato metaforico ha però sopraffatto quello letterale). Va sottolineato che per Goffman la dimensione teatrale del rapporto di sé agli altri non è un accessorio: è presente sempre e comunque in ogni interazione. […]

È questa messa in scena a dare alla città turistica la sua inconfondibile teatralità. Ogni città deve “recitare” se stessa: Roma deve mettere in scena la romanità, Parigi deve corrispondere all’idea che un americano si fa di Parigi. Il bistrot diventa la caricatura del bistrot. Nello stesso modo, Trastevere è la caricatura del romanaccio. […]

Se si accoppiano gli effetti della messa in scena da un lato e dell’eliminazione delle altre attività produttive dall’altro, si ottiene un deperimento complessivo della città turistica. Ho molto frequentato il Quartier Latin di Parigi per tutti i primi anni settanta del secolo scorso: era animato, vivo, nonchalant; quarant’anni dopo, è un quartiere morto, un’area disastrata dominata da squallore a buon mercato. Il Quartier Latin è un buon esempio di come il turismo può uccidere un quartiere facendolo vivere. Tutto il quinto arrondissement è come svuotato dall’interno, chiusi i negozi utili come ferramenta, mercerie, casalinghi, elettricisti; ogni manifestazione di vita locale è sostituita a poco a poco dal falso cinese, dal falso greco, dalla paninoteca e dal gelataio. E questo nonostante il quartiere sia ancora la sede della Sorbona, del Collège de France, di licei… […]

Proprio per la natura teatrale dell’attività turistica, “la posizione del lavoro nella fornitura di prodotti turistici è insolita, perché i lavoratori sono nello stesso tempo fornitori di servizi e parte del prodotto consumato”. Ovvero gli addetti all’accoglienza turistica costituiscono l’infrastruttura del sightseeing, ma sono nello stesso tempo essi stessi oggetto del sightseeing: la qualità del servizio, “l’amichevolezza, la cordialità” dei “locali” sono atout importanti per una destinazione turistica.

Detto in altre parole, un cameriere deve non solo servire a tavola, ma anche mettere in scena il servizio. In termini barthesiani, il linguaggio corporeo del cameriere deve connotare non solo la sua professione, ma anche la sua “italianità”, “francesità”, insomma la sua “tipicità”, nel senso dei “prodotti tipici”.Anche perché addetti e personale di servizio costituiscono in realtà la più frequente, e spesso l’unica, realtà umana locale con cui i turisti vengono a contatto. […]

E per gli altri autoctoni, che di turismo non vivono? Ma noi italiani lo sappiamo benissimo: lo “sguardo turista” agisce anche su chi di questo sguardo è oggetto, non solo su chi lo lancia: fa sì che i cittadini delle città d’arte vivano sempre sotto lo sguardo turista, vivano sempre sotto sorveglianza di uno sguardo letteralmente “fuori posto”. Come andare in bagno la notte quando la casa è piena di ospiti indesiderati, scavalcando corpi sconosciuti in salotto.

La metafora è appropriata perché, nei termini di Goffman, il cesso è il backstage, è il retroscena per eccellenza dei nostri teatri quotidiani: “Nella nostra società la defecazione implica un’attività individuale definita incompatibile con le norme di pulizia e purezza espresse in molte nostre rappresentazioni. Una tale attività obbliga sempre l’individuo a disfarsi dei vestiti e a ‘uscire dal gioco’, cioè a lasciar cadere la maschera espressiva che usa nell’interazione a tu per tu. Gli sarebbe difficile in queste condizioni ripristinare la propria facciata personale nel caso si presentasse all’improvviso la necessità d’interazione. È forse una delle ragioni per cui nella nostra società le porte dei bagni sono munite di serrature”.

Perché se il disvelamento progressivo del backstage non “allestito” è un inseguimento senza fine, e se il turista è l’Achille, allora l’indigeno è la tartaruga, alla ricerca di luoghi e situazioni sempre più romiti, più discosti, sempre più irraggiungibili dal turista. I residenti sono costretti a entrare in clandestinità, a comunicarsi sottovoce gli ultimi indirizzi accettabili (“ma non farlo sapere ai turisti!”). Ben sapendo che prima o poi anche quegli indirizzi affioreranno dalle coulisses e saliranno alla ribalta, costringendo gli autoctoni a cercare nuovi anfratti, nuovi rifugi provvisori.

Coscienti che l’esito è segnato: come luogo di residenza e di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono che sempre meno può permettersela in termini economici e sempre più ne è espulso in termini relazionali. In quanto industria, il turismo rende la città invivibile, proprio come la città manifatturiera (la Coketown di Dickens) era irrespirabile per i suoi slums, i suoi miasmi e fetori.

Il turismo non provoca questi effetti, ma uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana: musei e paninoteche, ruderi e boutique di lusso, “suoni e luci” tra pizze al taglio e ristoranti a tre stelle Michelin, isole pedonali, e poi tanti dormitori eleganti per ceti medi. Già oggi nel Nord Europa le isole pedonali si assomigliano tutte (sono un altro dei “non luoghi” di Marc Augé) e i centri vengono trasformati in entertaine- ment districts, dove però non si diverte nessuno. […]

Invertendo la vecchia idea di Alois Schumpeter, secondo cui specifica del capitalismo è la sua “distruzione creatrice”, il turismo pratica una “creazione distruttiva” perché producendo crescita economica e sviluppo distrugge le basi su cui quella crescita era basata.

«La lottizzazione di Borgo Berga, a Vicenza Palazzi a ridosso di due fiumi e a pochi metri da una zona patrimonio dell’Unesco». la Repubblica, 5 agosto 2017 (c.m.c.)

Non chiamatelo “ecomostro”, anzi non azzardatevi neppure a chiamarlo abuso edilizio. È una cosa che fa imbestialire la “Cotorossi Spa”. Potreste trovarvi nelle stesse condizioni di alcuni ambientalisti trascinati in tribunale con richieste di risarcimento milionarie. Da vittime a carnefici in un batter d’occhio per aver denunciato una speculazione che ha pochi eguali in Italia. E con una procura che, in buona sostanza, sta indagando su se stessa o meglio sull’edificio che la ospita.

È una storia lunga 15 anni quella dell’operazione Borgo Berga, a poche centinaia di metri da Villa Rotonda del Palladio, patrimonio dell’Unesco. Una vicenda che porta in sé più di un paradosso, di cui si trova traccia già nei primi anni del 2000 degli atti dell’amministrazione di centrodestra guidata da Enrico Hullweck. A suo tempo l’area era occupata dallo stabilimento ormai dismesso della famiglia Rossi. Una fabbrica storica poi acquisita da una delle società della galassia berlusconiana e successivamente ceduta a una cordata guidata dalla Maltauro (società di costruzioni nota ai pm di Milano per alcune vicende legate all’Expo).

In quell’area il Comune di Vicenza decide di realizzare il nuovo Tribunale e in cambio i privati ottengono le autorizzazioni ad edificare su oltre centomila metri quadrati di terreno, con volumi e altezze imponenti, la cessione di aree pubbliche per una superficie doppia di quella ricevuta dal comune e un bel finanziamento per le opere di urbanizzazione. Nel 2006 i lavori partono con la demolizione del vecchio stabilimento, nonostante le prescrizioni della Soprintendenza. Arrivano le prime denunce da parte di Legambiente, Italia Nostra e del Comitato contro gli abusi edilizi. E arriva la prima inchiesta archiviata in tempi record. Strano, visto che gli edifici di Tribunale, attività commerciali e palazzoni di appartamenti vengono tirati su a ridosso di due fiumi, Retrone e Bacchiglione (nell’area storicamente sorgeva il porto fluviale).

Nel 2008 cambia l’amministrazione, e nonostante da consigliere regionale avesse tuonato contro il Tribunale (definendolo «un mostro»), il nuovo sindaco Achille Variati del Pd fa approvare una variante urbanistica che di fatto conferma il vecchio piano. Nel 2013 arrivano nuove denunce degli ambientalisti e la magistratura è costretta a indagare nuovamente su casa propria. Fino al 2014 tutto tace e l’inchiesta resta a carico di ignoti, l’anno dopo viene indagato solo l’ex dirigente all’urbanista del Comune. Pochi mesi e si registra un sequestro preventivo chiesto dal pm Antonio Cappelleri e accolto dal Gip Massimo Gerace.

Viene contestato il reato di lottizzazione abusiva dell’intera area, ma il sequestro riguarda soltanto uno dei lotti. Il giudice scrive nero su bianco che «sussiste l’illegittimità del piano di lottizzazione e dunque dei permessi a costruire rilasciati e da rilasciare». Mancano «gli elaborati sulle zone sismiche, manca il rispetto delle prescrizioni della sovrintendenza, mancano valutazioni ambientali » e altro ancora. Qualcosa sembra muoversi. Sembra, perché in realtà non vengono sequestrati gli edifici realizzati o in via di realizzazione, ma solo un lotto completamente libero. Dunque si continua a costruire, a completare, a vendere o affittare unità immobiliari. Il tutto perché il giudice ritiene «i volumi in essere costitutivi di fatti compiuti non più modificabili». Insomma, ormai l’abuso è fatto.

La procura indaga, e si va avanti. Gli ambientalisti scrivono che i permessi a costruire sono scaduti, e si va comunque avanti. Arriva anche l’Anticorruzione di Raffaele Cantone e un’indagine della Corte dei Conti, e si continua a lavorare. Anzi di più. I mezzi di cantiere, che operano nelle aree libere, vengono autorizzati dalla magistratura ad attraversare il lotto sequestrato.

L’Enac mette in discussione gli accordi tra Comune e privati che conterrebbero uno squilibrio nei profitti del privato a danno dell’amministrazione, quantificato in una decina di milioni di euro. Inoltre, le opere di urbanizzazione si sarebbero dovute effettuare con una gara pubblica e non, com’è accaduto senza bando. La Corte dei Conti apre un fascicolo per danno erariale, ma nulla sembra fermare l’operazione. Intanto la Procura chiede il sequestro dell’intera area, ma questa volta il gip dice di no. Al Riesame il pm si concentra sui danni economici, molto meno sulle relazioni dei consulenti e degli investigatori relative al danno ambientale, e il ricorso viene respinto.

Ora si attende la decisione della Cassazione. Intanto gli ambientalisti si rivolgono alla Corte d’Appello chiedendo la revoca dell’indagine e al Csm con un esposto per chiedere conto del lavoro di Cappellieri. Nessuna risposta. Tutto tace e i lavori vanno avanti. O meglio quasi tutto tace. Perché se dell’indagine non si ha più notizia, sono già arrivate le citazioni in giudizio per i denuncianti da parte della “Cotorossi” che chiede in sede civile 3 milioni per danni e diffamazione. In questo caso l’udienza è fissata per dicembre. Da vittime a carnefici per averlo chiamato “abuso”.

il Fatto Quotidiano, 4 agosto 2017

Come è noto, il nostro Parlamento sta procedendo da tempo, a colpi di fiducia, all’emanazione di leggi che tentano in ogni modo di favorire l’iniziativa economica privata, prescindendo dai limiti posti dall’art. 41 della Costituzione, il quale dichiara che l’“iniziativa economica privata è libera”, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Con l’approvazione della legge annuale per il mercato e la concorrenza (art. 1, commi 175 e 176), avvenuta in data 2 agosto 2017, il Parlamento, non solo conferma oggi di non tenere in alcuna considerazione il citato limite della “utilità sociale” favorendo l’utilità dei mercanti di opere d’arte, ma, abbassando i limiti della “tutela” e rendendo maggiormente esportabili all’estero i nostri beni culturali, viene a intaccare addirittura la struttura stessa della nostra Comunità nazionale (art. 1 Cost.), della quale il “patrimonio artistico e storico” è parte integrante (art. 9 Cost.). Infatti in tali commi si prevede, al pretestuoso fine di “semplificare le procedure relative al controllo della circolazione internazionale delle cose antiche che interessano il mercato dell’antiquariato”, una sostanziale modifica dell’art. 10 del vigente Codice dei beni culturali e del paesaggio (Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42), stabilendosi che l’età minima che una cosa mobile o immobile deve avere per essere dichiarata bene culturale passa dagli attuali cinquanta anni a settanta, con ciò violando anche il diritto europeo che fissa in genere un’età minima di cinquanta anni.

Ne consegue la perdita immediata e diretta di tutti i beni culturali realizzati fra il 1947 e il 1967, di proprietà pubblica o di persone giuridiche private senza fine di lucro, che il Codice dei beni culturali e del paesaggio ha finora tutelato in virtù del combinato disposto degli artt. 10 comma 1 e 12 comma 1, nonché l’impossibilità di proteggere in futuro tutti i beni realizzati nello stesso torno di anni. Una perdita grave e immotivata causata da una norma introdotta al solo scopo di favorire i mercanti d’arte che non dovranno più avere un’autorizzazione (l’attestato di libera circolazione) per trasferire all’estero beni con meno di settanta anni. Si prevede inoltre che potranno essere esportati senza autorizzazione anche tutti i beni culturali più antichi che abbiano un valore commerciale, “autocertificato” da chi richiede l’uscita, inferiore ai 13500 euro.

In sostanza si sostituisce al criterio dell’“interesse culturale”, quello dell’“interesse commerciale”, rimettendo, per giunta, tale valutazione non più a un organo tecnico dello Stato capace di tutelare l’interesse della Comunità nazionale, ma a un singolo esportatore, il cui interesse è esattamente l’opposto dell’interesse pubblico. E ciò in pieno dispregio del criterio della “ragionevolezza”, di cui all’art. 3 della Costituzione (secondo la lettura che ne dà la giurisprudenza costituzionale) e, ancora una volta, del diritto europeo che vieta di considerare “merce” i beni culturali. Come si vede, la legge annuale per il mercato e la concorrenza ammette, per la prima volta nella storia e nell’ordinamento del nostro Paese, il discutibile principio secondo cui vi sono beni culturali legittimamente perdibili, solo perché ritenuti di scarso “valore economico”.

Nessun significato ha inoltre il riferimento di detta legge al registro delle operazioni che i commercianti di cose antiche o usate sono obbligati a tenere, per fini di “sicurezza pubblica”, ai sensi del Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza (Regio Decreto 18 giugno 1931 n. 773), precisandosi che d’ora in poi esso dovrà avere “formato elettronico con caratteristiche tecniche tali da consentire la consultazione in tempo reale al soprintendente”. Tale registro, come rilevato in aula dalla Deputata Claudia Mannino, è stato infatti abrogato dal recente Decreto Legislativo 25 novembre 2016, n. 222 e, se anche fosse ripristinato in forma elettronica, servirebbe a ben poco, visto che non riguarda tutti i beni, ma solo quelli trattati dai mercanti d’arte, e non potrebbe in ogni caso contenere tutti i dati necessari al riconoscimento di una “cosa” come “bene culturale”, riconoscimento che, secondo i metodi di indagine artistica e storica, può avvenire solo con la visione diretta dei beni. (…)

Un vero e proprio scempio della Costituzione ai danni degli interessi del Popolo italiano, al quale vengono immotivatamente sottratti beni culturali di grande importanza e pregio, che avrebbero dovuto restare sul nostro territorio ad attirare quel mercato internazionale dell’arte che ora si incentiva a fiorire solo fuori dai nostri confini. (…)

E non si può passare sotto silenzio il fatto che questo affronto alla nostra Costituzione è stato reso possibile da un “emendamento” inserito al Senato su richiesta e pressione del Gruppo di interesse “Apollo 2”, che rappresenta case d’asta internazionali, associazioni di antiquari e galleristi di arte moderna e contemporanea e soggetti operanti nel settore della logistica dei beni culturali, come si legge in un trafiletto uscito su “Plus24” del Sole24ore, n. 667, del 13 giugno 2015.

Illustre Presidente della nostra Repubblica, siamo certi che Ella non vorrà firmare un provvedimento legislativo tanto costituzionalmente illegittimo, quanto dannoso per gli interessi fondamentali della nostra Comunità nazionale. E siamo certi che Ella non vorrà perdere questa occasione per far comprendere ai nostri politici che essi sono a servizio, non del mercato, ma della “Nazione”, come ricorda l’art. 67 della Costituzione.

*Gaetano Azzariti, Paolo Berdini, Lorenza Carlassare, Alberto Lucarelli, Paolo Maddalena, Tomaso Montanari, Salvatore Settis

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