Gruppi e associazioni in un territorio ricco di cultura e socialità mettono in campo un'altra idea di sviluppo, rispettosa dell'ambiente. Fuori dai partiti tradizionali ma con un'ancoraggio istituzionale legato all'esperienza di Massimo Rossi si moltiplicano nuove esperienze
SAN BENEDETTO DEL TRONTO (AP) - Da un anno è un territorio che ha due province, Ascoli e Fermo, dopo la discutibile scelta attuata tramite legge specifica del 2004, diventata operativa nel 2009. Ma se una logica supercampanilista ha portato alla nascita di due diverse istituzioni, spirito diverso alligna nel vivace tessuto civico che da tempo è protagonista di importanti battaglie nel Piceno che, prima della burocratica suddivisone, comprendeva gli attuali capoluoghi di provincia. Una società in movimento, anzi un Piceno in movimento, che vede protagonisti soggetti sociali, con storie e origini diverse, accomunati dalla critica verso scelte distruttive per l'ambiente, ma anche sempre più insofferenti verso una classe politica e dirigente sorda alle istanze dei cittadini.
Luoghi comuni
Iniziamo questo viaggio da San Benedetto del Tronto parlandone con Olimpia Gobbi. Da sempre impegnata nell'associazionismo di base, insegnante in pensione, con alle spalle una recente esperienza come assessore alla cultura nella giunta provinciale targata Massimo Rossi (2004/2009), Olimpia è tra le fondatrici di «Luoghi Comuni», una delle realtà più vivaci per quanto riguarda i soggetti di cittadinanza attiva presenti in questo territorio. «La nostra associazione nasce nell'autunno del 2009, sull'onda dell'esperienza di liste civiche che nella primavera di un anno fa sostennero la campagna elettorale del candidato Massimo Rossi». Ricordiamo che in occasione del rinnovo del consiglio provinciale il Pd locale decise, irresponsabilmente, di rompere l'unità del centrosinistra che aveva portato Rossi, nel 2004, a diventare presidente della Provincia, e di presentare un proprio candidato con il risultato di far vincere il centrodestra. «Terminata la campagna - prosegue Gobbi - si valutò che fosse opportuno far nascere una realtà che non venisse identificata con una lista. Così ecco Luoghi Comuni, un'associazione aperta a tutti i cittadini, con o senza tessera di partito». E qui sta indubbiamente l'originalità del percorso avviato, perché l'impegno dell'associazione è basato sui contenuti e non sulle appartenenze. Con questo criterio vanno a braccetto persone, per esempio, vicine ai grillini con sindaci di paesi limitrofi, Cossignano, Appignano, Acquasanta, anche loro con collocazioni diverse, dal Pd alla sinistra radicale. Insomma, un arcipelago di storie e culture accomunati dall'idea di dare vita «a un luogo di progettazione concreta per la qualità del territorio, seppur consapevoli che sia necessario ragionare in uno scenario globale».
Tra i soci di Luoghi Comuni, un'ottantina con circa seicento persone che gravitano intorno alle iniziative, c'è la presa d'atto che i partiti non sono più in grado di dare vita ad una progettazione politica e i primi a sostenerlo sono proprio coloro che hanno una tessera in tasca. «Nelle forze politiche tradizionali - sottolinea Olimpia Gobbi - non si fa più politica nel senso più alto del termine, non sono più un ambito dove sia possibile riflettere e confrontarsi sui temi più sentiti». La prima uscita di Luoghi Comuni è avvenuta a novembre sull'acqua, con il convegno «Acqua sangue della terra». Da lì è nato il «Tavolo Piceno dell'acqua» che è poi stato il fulcro per la raccolta di firme a favore del referendum (alla fine ne sono state raccolte 5.870, duemila in più rispetto all'obiettivo iniziale). La presenza di alcuni amministratori ha favorito anche l'impegno affinché negli statuti comunali fosse inserita la dicitura che l'acqua non è un bene di rilevanza economica.
Altro tema su cui l'associazione è impegnata e sta costruendo una importante rete territoriale è quello della green economy. «Noi abbiamo diversi soci impegnati nelle nuove economie agricole e questo ci ha portati ad essere presenti sul territorio per sensibilizzare le persone su come andrebbero declinate le politiche in materia». Da queste parti, infatti, soprattutto negli ultimi tempi, si è potuto verificare come una visione alquanto distorta dell'«economia verde» abbia portato al proliferare di impianti di pannelli fotovoltaici nei campi. C'è un'emblematica cartolina che bene illustra una di queste mostruosità ed è stata distribuita a metà luglio in occasione del meeting della Fondazione Symbola a Monterubbiano dedicata proprio alla green economy. L'appuntamento è stato colto dalle varie associazioni del Piceno per dare vita a un coordinamento che ha promosso delle iniziative di contestazione e un convengo alternativo. «Questa interessante esperienza - dice Olimpia Gobbi - ha rafforzato una spinta democratica dal basso che vede protagonisti, oltre a Luoghi Comuni, altre realtà importanti come la Fondazione «Diverso Inverso» di Monterubbiano dove è attivo anche un comitato locale.
I fiori del territorio
Esiste «Scudo», un comitato che aggrega diversi operatori del biologico, così come vale la pena citare i comitati della Valdaso e della Valmenocchia nati per contrastare le centrali a biomasse ritenute inquinanti visto il contesto; così come va citato, tra gli altri, il comitato «No rumore» di Porto San Giorgio il quale vuole mettere in discussione una visione del litorale basata sulla quantità e non sulla qualità. Un arcipelago che si sta relazionando sempre di più, cercando di superare un grosso limite che Olimpia evidenzia con lucidità: «Questi soggetti non hanno espressamente finalità "politiche" come noi, sono nati su problemi concreti. La questione centrale è proprio questa: passare da un impegno su contenuti specifici a una visione più generale, con un punto di vista maggiormente organico sul modello sociale ed economico del territorio, traducendo il tutto in una mentalità e nuovi comportamenti politici. Come associazione, noi cerchiamo di fare anche questo lavoro culturale nella consapevolezza che se non sciogliamo tali nodi il rischio è che anche in questi ambiti si affermino logiche simili ai partiti. La sfida è creare nuove pratiche e nuova democrazia, perché i cittadini sono stanchi di amministratori che in modo padronale fanno scelte sopra la teste delle persone».
Diverso inverso
Parlando dell'attività di Luoghi Comuni abbiamo citato Monterubbiano, dove ci siamo recati per incontrare Stefania Acquatici, animatrice della Fondazione Diverso Inverso. «Uno spazio libero - afferma - dai conformismi, dalla false ideologie, da tutto ciò che ci ingabbia in una visione monocorde». Paul Ginsborg, intervenendo ad Ancona nella recente campagna elettorale per le regionali, ha lucidamente detto che «piccoli luoghi possono dare vita a grandi progetti». È il caso di Stefania e della sua associazione. La palazzina che si affaccia su una piazzetta, all'inizio del centro storico, oltre ad ospitare l'abitazione è una vera e propria fucina di idee e cultura, punto di riferimento per tutto il territorio. Lo spazio che ha dato vita ad una sala dove sono ospitati spettacoli teatrali e dibattiti, è il fulcro di un'attività ricca quanto varia. «È un luogo dove la "piccola cultura" diventa strumento di confronto e conoscenza, dove l'incontro apre nuovi orizzonti, dove la comune esperienza spesso porta a visioni condivise di un mondo più umano e attento alla Madre Terra».
Recentemente l'associazione di Stefania ha ospitato un'iniziativa con Mario Dondero a cui hanno partecipato Massimo Raffaeli e Angelo Ferracuti. Ma è sul tema dell'ambiente che il centro culturale di Monterubbiano è particolarmente attivo. Abbiamo già citato le iniziative di luglio sulla green economy. Una realtà importante sul fronte ambientalista è il «Comitato tutela ambiente e salute fermano» (Citasfe). «Il fermano - denuncia Stefania Acquaticci, attiva anche all'interno del Comitato - ha mantenuto il suo fascino ma sta rischiando di perdere la sua identità a causa di una politica tanto ignorante quanto avida. A questa logica del profitto a ogni costo si sono opposti con grande determinazione alcun cittadini della zona che, da tempo, si sono costituiti in comitato». E che la zona sia ancora capace di sedurre il visitatore lo conferma la splendida veduta da casa di Stefania sul territorio circostante, con una visione suggestiva che arriva ben oltre i confini del fermano. Un paesaggio che deve subire le aggressioni di progetti pesanti come quello della centrale a biomasse da 15 MW che doveva riconvertire l'ex stabilimento Sadam. Progetto che, proprio grazie alla mobilitazione guidata dal Citasfe, è stato, almeno per ora, bloccato. Come a Monterubbiano si è cerca di fermare la costruzione di un ristorante all'interno del Parco pubblico, vera e propria piccola metafora dell'arroganza del potere amministrativo.
Senza refernzialità
Una prepotenza che non ritroviamo certamente in Massimo Rossi con il quale concludiamo questa inchiesta. Rossi è un borderline della politica. Iscritto a Rifondazione comunista, è da sempre attivo all'interno dei movimenti globali (in particolare nel Forum Mondiale dell'acqua) e locali, vanta una buona esperienza amministrativa prima con due mandati come sindaco di Grottammare, poi, come abbiamo già accennato, come presidente della Provincia di Ascoli. Proprio sulla scia della sua mancata candidatura per la seconda legislatura è nato quel percorso che, oltre a fargli avere un 20% di voti, ha generato Luoghi Comuni. «Dopo le elezioni della primavera del 2009 abbiamo ottenuto tre consiglieri. Come gruppo consiliare (Prc e Sel, ndr) portiamo avanti un lavoro iniziato con la precedente amministrazione. Ci muoviamo in un'ottica non di fazione, quindi non ci limitiamo a delibere o mozioni, ma puntiamo a rendere protagonisti delle nostre iniziative i soggetti in carne ed ossa che promuovo determinati progetti o che si oppongono a scelte disastrose per il territorio». Una relazione proficua tra associazionismo e politica che ha ricadute benefiche per gli stessi partiti: Rossi sottolinea come questo positivo condizionamento ha portato ad un ricambio generazione all'interno di Rifondazione, mettendo da parte «logiche identitarie e autoreferenziali».
Personalità, progetti, contenuti
Tre le tematiche al centro dell'attività del gruppo consiliare, in stretto contatto con la società civile: l'insediamento del fotovoltaico con scelte criticabili, come abbiamo visto, dal punto di vista della collocazione dei pannelli, il progetto di parco marino sulla costa picena e l'acqua. Sulla prima criticità, grazie al lavoro svolto con le associazioni si è arrivati all'approvazione di modiche sostanziali del piano territoriale con il voto favorevole della maggioranza di centrodestra, la minoranza di sinistra e il voto contrario del Pd. «Il partito democratico - dice Rossi - è pienamente garante dei grossi interessi di alcuni soggetti economici privati, cioè alcuni suoi esponenti sono, a vario titolo, dentro società del settore». Anche sul tema dell'acqua, dopo un paziente lavoro diplomatico e soprattutto grazie alla spinta che veniva dall'esterno con la raccolta delle firme e la sensibilità dei lavoratori presenti nel gestore locale, la giunta provinciale ha approvato la specifica mozione sulla ripubblicizzazione del servizio idrico, pur con qualche mediazione. Stessa logica ha caratterizzato il progetto di parco marino, ormai arrivato a compimento. «Si è sviluppato un rapporto fecondo che ha dato vita a un circuito virtuoso tra pescatori, giovani ambientalisti e singoli cittadini». Insomma il «Piceno in movimento» si caratterizza come un felice laboratorio in cui la crescita delle reti di cittadinanza attiva riesce, in alcun casi, a trovare sponda tra alcuni amministratori locali. Una sperimentazione che non ha al centro il protagonismo personalistico (al di là dell'indubbia personalità di Massimo Rossi) ma progetti e contenuti.
A Cavallerizzo di Cerzeto, comune arbereshe del cosentino evacuato per una frana cinque anni fa, la prima new town italiana. Dovrebbe essere consegnata nel 2011. Ma i cittadini si ribellano e chiedono aiuto ai comitati aquilani. Che non vogliono la delocalizzazione e manifestano davanti al centro storico blindato dalla Protezione civile
In principio fu Cavallerizzo di Cerzeto. Non c'è solo L'Aquila, infatti, nei progetti di new town che la ditta Berlusconi & Bertolaso vuole disseminare su è giù per lo Stivale. Anzi, sotto certi aspetti, la vicenda di questo borgo arbereshe del cosentino è ancor più grave del caso aquilano. Perché di Cavallerizzo ormai nessuno parla più. Tranne il manifesto e pochi altri, il resto dei media ha steso il velo della censura su una storia che è la più eloquente narrazione del degrado istituzionale e dello sfascio ambientale di un'intera regione.
Una frana disastrosa e spettacolare cinque anni orsono. Che però mantenne intatto il centro storico di Cavallerizzo. E, poi, una gestione disinvolta della ricostruzione. Si è scelta la delocalizzazione in luogo del pieno recupero del vecchio abitato. Non la rinaturalizzazione, la preservazione e la riqualificazione ambientale delle antiche case ma un nuovo agglomerato urbano da costruire a larga distanza. Una deportazione di un'intera comunità fondata su un allarmismo che trova pochi consensi nella maggior parte dei geologi nazionali. Gli abitanti di Cavallerizzo, però, non ci stanno, non si rassegnano e nutrono la speranza di vedere rinascere il loro borgo. Come un tempo, sulle stesse pietre e negli stessi luoghi. Sono riuniti nell'associazione "Cavallerizzo vive-Kajverici rron". E adesso chiedono aiuto ai comitati aquilani. Perché la restituzione delle case e dell'anima originale dei luoghi urbani lega indissolubilmente le due proteste. Di chi non accetta di abbandonarli per sempre.
Una strada tortuosa e immersa nel verde, un po' di curve, qualche vecchia casa di campagna e in fondo al sentiero vedi volteggiare i fantasmi della "cricca" intorno a un robusto cancello che spezza in due la via di collegamento tra l'antica Cavallerizzo e la vicina San Marco Argentano. Almeno duecento persone sgomberate cinque anni fa, si sono ritrovate domenica mattina per manifestare all'esterno della zona rossa che le separa dalla loro vita. Vogliono riprendersela. Puntano il dito verso la procura di Cosenza: «Hanno aperto un'inchiesta, ma non se ne sa più nulla». Sono certi che nella soluzione amara della loro drammatica vicenda pesano gli interessi dei medesimi personaggi visti in campo a L'Aquila, in Sardegna, Toscana e altrove. E domenica dall'Abruzzo infatti è giunta la solidarietà del Comitato 3,32. Lì come qui si lotta contro la shock economy. Da una parte chi vorrebbe tornare ad abitare il centro storico. Dall'altra il progetto di New Town che dovrebbe essere consegnata entro il 2011. In mezzo 70 milioni di euro spesi per affrontare l'emergenza.
Piangono gli arbereshe di Cavallerizzo, uno dei 26 centri abitati dalle comunità che nel basso medioevo immigrarono in provincia di Cosenza. Seicento anni fa furono le armate ottomane a scacciare gli albanesi dalle loro case. Oggi è la Protezione Civile a sbarrare la porta d'ingresso ai discendenti di quel popolo in fuga. «Scusi, posso andare un attimo a casa mia? Voglio recuperare un ombrellone. Se mi lascia entrare, lo piantiamo qui e potrà ripararsi anche lei. Non sente questo caldo?». La signora Chiara chiede il permesso con materna dolcezza. Secca e meccanica la replica del carabiniere: «Non è possibile, signora. Abbiamo ordini precisi». La prefettura di Cosenza è stata categorica: la gente non deve oltrepassare il cancello. Che nel frattempo s'è trasformato in bacheca parlante. Quelli dell'associazione "Kajverici Rron" (Cavallerizzo Vive) lo hanno ricoperto di documenti. C'è l'interessante lavoro di Stefania Talarico, originaria di Cavallerizzo, emigrata in America dove cura un blog tematico. Fa nomi e cognomi. Ricostruisce una fitta trama di interessi. Spiega qual è la filosofia che ha portato alla delocalizzazione e alla costruzione della new town. Al suo fianco c'è Antonio Madotto, segretario dell'associazione: «La costruzione di un nuovo paese ci è stata imposta. Non ci hanno dato scelta. L'antico abitato di Cavallerizzo, in realtà, non è mai scivolato interamente a valle, altrimenti sarebbe finito proprio sull'area dove tuttora è in fase di costruzione l'orrenda "new town". È un progetto che annienta il nostro modo di vivere. Mancano una strada di collegamento e diversi altri servizi, non c'è una Chiesa e neanche una scuola. È un quartiere popolare dormitorio di cui la Protezione Civile Nazionale si vanta, fingendo di non sapere che rappresenta la fine della nostra identità».
Rabbia contro Guido Bertolaso e quanti hanno deciso che bisognasse ricostruire Cavallerizzo di Cerzeto in un altro sito. Qui la gente conosce benissimo questa terra e i suoi mal di pancia. Sa che la frana del 2005 non si sarebbe mai verificata se nel secolo scorso l'abusivismo edilizio non avesse deviato i canali naturali. Ricorda che lo smottamento danneggiò soltanto l'11% dell'abitato, ma il restante centro storico è ben solido sulla collinetta. Non può franare più. L'inverno scorso, mentre l'intera Calabria smottava, l'antica Cavallerizzo non s'è mossa d'un millimetro. Lo certifica pure la Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Calabria: nel luglio 2009 ha vietato qualsiasi opera di demolizione, sollecitando un restauro del vecchio centro abitato. Davanti al cancello ci sono anche dirigenti della Cgil, Italia Nostra e Controinvasioni. Tutti ascoltano con ammirazione la storia di Donna Liliana e dei suoi familiari: un anno fa, incuranti dei divieti, sono tornati a vivere nella vecchia casa. Le autorità hanno tagliato acqua e luce? «Che me ne importa? - spiega la signora - Ho comprato un generatore ed abbiamo incanalato una sorgente. E ho pure mandato un fax a Bertolaso. Voglio vedere se ha il coraggio di venirmi a sgomberare».
Anche se quello che si eleggerà il prossimo anno sarà il sindaco dell’Expo, sarebbe riduttivo far ruotare la corsa per il Comune intorno all’evento del 2015: dalle politiche sul traffico a quelle sull’aria, dal rilancio delle periferie all’integrazione degli stranieri, fino al decoro urbano, c’è l’imbarazzo della scelta sui problemi da affrontare e risolvere per il bene di Milano. Ma il fatto che nella sfida a Letizia Moratti (che ha fortemente voluto e poi ottenuto l’assegnazione dell’Expo), sia entrato in campo l’architetto Stefano Boeri (che del progetto Expo è uno degli autori) obbliga a tener conto di ogni sussulto politico intorno alla manifestazione, perché nei prossimi mesi potrebbe condizionare, nel bene o nel male, entrambi i candidati.
Restano i problemi di fondo (si farà? Non si farà?), restano le difficoltà di budget (ridimensionato con la crisi), ma soprattutto resta il buio attorno al senso di un progetto che sul tema della fame nel mondo non è riuscito a coinvolgere il mondo produttivo e quello delle università. Oggi Expo può essere un asso vincente o una palla al piede per il sindaco Moratti, ma può anche condizionare le mosse dell’architetto Boeri, che correttamente si è dimesso dall’incarico di progettista, ma è stato fino a ieri uno dei più ascoltati consiglieri del sindaco.
Per Milano, per il bene della città, sarebbe auspicabile trovare una visione che accomuni i candidati di Palazzo Marino sulle ricadute positive di Expo: definendo subito quali e quante saranno, in concreto, se al teatrino della politica si sostituisse il gioco di squadra. Un passo in questo senso l’ha già fatto un altro candidato, Giuliano Pisapia: un segnale di stile, che forse non è stato colto.
Milano è stanca di parlare di un Expo che non si vede, che fa notizia soltanto per i ritardi o le dimissioni di qualcuno, che ha lasciato una scia velenosa di polemiche e di inefficienze. Milano chiede, anche attraverso Expo, di dare concretezza a politiche urbane in grado di migliorare la qualità della vita dei suoi abitanti, di osare con alcuni progetti di sostenibilità, di creare zone a impatto zero di traffico, di ricostruire la socialità perduta in alcune periferie.
L’ambiente, la riqualificazione urbana, musei all'altezza di una metropoli europea (vedi Brera), una città finalmente più a misura di bambini, un grande omaggio al genio di Leonardo, sono certamente temi per la campagna elettorale. Sarebbe un bel segnale se, al di là della normale battaglia politica, i candidati al Comune trovassero il modo di fare arrivare a chi cerca con fatica di traghettare Expo verso un difficile traguardo un messaggio di questo tipo: su alcuni progetti per la città, pochi e mirati, ci impegniamo a dare il nostro contributo senza farci la guerra e lo facciamo per Milano e per i milanesi. Questi progetti però devono venir fuori. Altrimenti Expo continuerà ad essere, per i cittadini, un ufo o poco più.
Gli operai della Vinyls dagli inizi dell’anno resistono nell’ex carcere dell’Asinara. Da quest’isola – parco che anch’esso resiste ai reiterati tentativi di trasformarlo in macchina banale del turismo – scrivono, rilasciano interviste e vanno ovunque ritengano di poter dar conto delle buone ragioni che li hanno spinti ad auto-segregarsi. Ragioni che riguardano non solo il loro diritto al lavoro, ma il bisogno che ha l’Italia di conservare un settore strategico qual è la chimica.
Il movimento dei pastori sardi protesta per la scarsa considerazione che ha il loro lavoro, basilare non solo per l’identità storica della Sardegna ma per il Paese intero. Un duro lavoro che viene pagato una manciata di centesimi da imprenditori che hanno il monopolio dei prezzi del latte. Per difendere la loro dignità di lavoratori, hanno occupato le cronache agostane, bloccando strade e aeroporti, manifestando ovunque la loro voce potesse giungere a destinazione, ossia nelle sedi di governo (regionale e nazionale). Anche i lidi plastificati dei ricchi sono diventati per questi pastori come per gli operai della Vinyls, un palcoscenico da cui rivendicare i loro diritti offesi.
Un ottantenne di Capo Malfatano resiste alle lusinghe di chi di soldi ne ha proprio tanti e vorrebbe farne tanti altri ancora costruendo ad appena trecento metri dal mare di Teulada. Questo vecchio si rifiuta di vendere la sua terra a chi la vorrebbe trasformare in un albergo con troppe stelle – come ha detto Giorgio Todde – e respinge le ingannevoli sirene del turismo che vuole distruggerne la naturale vocazione agricola.
Tre storie sociali tanto diverse per protagonisti, luoghi e contenuti, eppure così vicine tra loro per le finalità comuni. Vediamone alcune.
Innanzitutto, in tutte c’è l’idea che il valore del lavoro non può essere svilito da logiche predatorie di profitto indiscriminato. Mi rendo conto che questa affermazione appare a dir poco ingenua, nel momento in cui un ministro della Repubblica racconta al meeting di Rimini (senza peraltro suscitare la benché minima reazione dei presenti) che i diritti di sicurezza sono un lusso che non possiamo più permetterci, che equivale a dire che le ragioni finanziarie sono più importanti della stessa vita umana.
In secondo luogo, in queste storie c’è un’idea di territorio che sfugge alle logiche diffuse secondo cui il territorio vale se è trasformabile in metri cubi da costruire; pratica che nel nostro Paese non è considerata un disvalore neppure quando riguarda il mai debellato fenomeno dell’abusivismo edilizio o i numerosi scempi edilizi.
In terzo luogo, gli operai, i pastori e il vecchio di Teulada stanno cercando di dirci che si può costruire uno sviluppo diverso facendo chimica pulita, producendo latte e formaggi, coltivando la terra. Attività lavorative e professionalità che rinviano a modalità di vita più eque ed eco-compatibili e, soprattutto, più durevoli rispetto ad un turismo inteso come volumetria e privatizzazione della bellezza, a partire dal paesaggio che ricordiamo essere “memoria di un popolo” quando non c’è più.
Rispetto a questa idea - di fatto alternativa al pensiero dilagante secondo cui fare denaro senza sacrificio e possibilmente esentasse è la vera arma del successo -, dove si colloca la politica di chi ci governa? In buona misura è distratta da altro, dalle case a Montecarlo alle elezioni anticipate se non passa il processo breve, dagli incontri per i rimpasti al toto nomine degli assessori politici non più tecnici, tranne quelli che di territorio se ne intendono e sanno come sfruttarlo al massimo. Oppure blatera di incontri con l’Eni e di decisioni imminenti con il ministro all’Agricoltura senza uno straccio di progetto, mentre tace sulla scelta scellerata di un sindaco che ritiene che il paesaggio (bene comune) possa essere trasformato in un albergo di lusso per pochi ricchi. I pastori e gli operai possono sempre andarci a fare i camerieri, mentre l’ottantenne – beh - è ora che vada in pensione.
Milano - Tanto di cappello: quando una strategia c’è va riconosciuta, e a modo suo ammirata pure. Soprattutto se dall’altra parte non si intravede nulla, salvo innumerevoli e maldestri tentativi di imitazione, o critiche sacrosante che però, ahinoi, non si presentano (o forse non hanno davvero) col medesimo respiro millenario. La strategia, il “piano”, è quello della destra ciellino-fascista che imperversa ormai da lustri nella capitale padana, via via plasmata a sua immagine e somiglianza, almeno nel senso comune di chi ragiona o dovrebbe ragionare, salvo stridere con tutto ciò che non controlla, e trovare lì una specie di “antitesi”, di opposizione, che però ovviamente non potrà mai di per sé trasformarsi in proposta alternativa.
Avevano perfettamente ragione coloro che, intervenendo in varie fasi nella discussione sul Piano di Governo del Territorio dicevano quanto fosse sostanzialmente inutile andarne a contestare questo o quell’aspetto, se non si ricomponeva l’insieme delle critiche entro una idea di città completamente diversa, e non fatta di rattoppi a quella degli altri. Perché anche le scelte urbanistiche più “generali” e le strategie di massima a loro volta si inseriscono in un quadro più ampio, non necessariamente di ordine esclusivamente territoriale. Solo per toccarne un aspetto, di questa coerente complessità, proviamo a dare un’occhiata alle ultime politiche di “tolleranza zero”. Cosa c’entrano? C’entrano, c’entrano parecchio.
Prima c’è stata la stagione dei grandi piani di iniziativa privata, a loro volta discendenti dei più antichi documenti direttori sull’innovazione infrastrutturale e il riuso delle superfici dismesse. Non ha un particolare interesse, qui, andare a vedere se, come, e quanto quelle operazioni abbiano solo mosso capitali e aspettative, e siano naufragate fra le erbacce, la nuova fauna urbana di nutrie e leprotti, o peggio nel tragicomico delle archistar letteralmente sedute su un mucchio di veleni che tentano di nascondere con le loro tavole colorate. La cosa forse più interessante è capire che parallelamente a quei progetti si è impennato complessivamente il mercato immobiliare, con processi progressivi di espulsione dal nucleo centrale metropolitano, e di sprawl a cerchi concentrici sempre più ampi. Lasciando al loro destino i poveri neovillettari coatti, va osservato come la forma di resistenza più vistosa all’espulsione sia quella di chi si adatta – anche in mancanza di alternative – a quel che offre il convento.
Inquilini delle case popolari, finché glie le lasciano, e soprattutto neoimmigrati: non solo i disperati nascosti sotto qualche cavalcavia o fra i residui capannoni in disuso, ma la fascia intermedia più dinamica che prova a sopravvivere. Sono questi la vera opposizione al regime. In stragrande maggioranza del tutto legali e integrati, per ovvi e comprensibili motivi di relazione familiare, culturale, etnica, si ritrovano in strettissimo rapporto quotidiano, personale, a volte anche economico, con qualche sacca di illegalità. Producono anche parecchio disordine, soprattutto se per “disordine” si intende qualcosa che non si capisce, non si vuole capire, non si ha interesse a capire. Che rapporto potranno mai avere questi brandelli di città sconosciuti (sconosciuti ai rappresentanti eletti dal popolo), sia con la confusa immagine da cartolina del quartiere del tempo che fu, sia con quella altrettanto confusa di una fantascientifica popolazione di ricchi, su e giù dall’aeroporto agli attici da tre milioni euro, a produrre fantastiliardi di reddito.
Entrambe queste versioni della città futura virtuale ispirano le convergenti politiche della Falange: da un lato l’apparentemente demenziale “densificazione” a due milioni di abitanti da stipare chissà dove e chissà come; dall’altro le insinuate speranze di ritorno al bel tempo che fu, quando c’era il rispetto, la dignità, e la gente stava al suo posto … La Falange da par suo si presenta anche sul versante fisico proprio come una tenaglia, coi nuovi grandi quartieri (veri o ancora solo appiccicati sul sito web del Comune) della corona esterna pronti ad accogliere il popolo terziario avanzato, quelli intermedi in attesa del messia liberatore dal giogo dell’immigrazione, e il piccolo nucleo centrale a fungere da laboratorio-pensatoio. Basta guardare una mappa della città per vedere questo schema riprodursi ineffabile ogni qual volta l’eroe libertador di turno (a dire il vero pare sempre lo stesso, ma non mancano i comprimari occasionali di settore) lancia i suoi strali contro gli effetti nefasti della globalizzazione.
Sull’asse urbano della Padana Superiore, l’operazione coprifuoco in via Padova è scattata come un orologio appena qualcuno ha innescato la scintilla: troppa vita in quel quartiere, staccare la spina, chiudere tutto, emergenza! E qualche centinaio di metri più in periferia, i rendering degli architetti stanno puntualmente trasformando l’ex area Marelli ai confini con Sesto San Giovanni nel futuro Quartiere Adriano. Nella zona più centrale della cosiddetta Chinatown di via Sarpi, la fede nell’ineluttabile ritorno a un fumoso ambiente Vecchia Milano mai esistito si è addirittura andata a scontrare col sacro libero mercato, l’impresa, sfiorando l’incidente diplomatico internazionale con l’intervento del Console cinese. Ma se si tira una riga a scavalcare la porta nei Bastioni progettata a fine ‘800 da Cesare Beruto, ci si infila quasi subito fra le torri della zona Garibaldi, i localini post-bifolchi dove si sniffa ma non si deve dire, i boschi verticali dove si fa il mutuo solo per visitare l’appartamento.
La ricetta del panino immaginario a tre strati si è ripetuta in questa estate climaticamente anomala del 2010 anche nell’ultimo caso, quello del quartiere Lodi-Corvetto, sull’asse urbano della via Emilia. Anche qui gli eroi della liberazione dal giogo degli oppressori immigrati, verso il luminoso ritorno della Vecchia Cara Milano col cervelè all’angolo, inquadrano la direzione esatta, nel caso specifico quella di Rogoredo, su cui si affacciano le propaggini estreme dell’abortito (ma questo è un dettaglio) Santa Giulia, by appointment of his majesty Sir Norman Foster, ciumbia!
E la forza del destino che tutto travolge ha individuato da par suo il nuovo nemico: Bersani. Non il segretario del ciondolante Pd, ma il ministro che a suo tempo nel più perfetto stile italiano ha liberalizzato il commercio mettendo fine alla pianificazione di stile sovietico chissà perché approvata dai democristiani, aprendo le porte al degrado urbano. Insomma l’immigrato non si merita il libero mercato: torniamo al bel tempo che fu anche con la corporazione dei bottegai che per diritto di sangue controllano il quartiere.
Solo in questa cornice, del dispiegarsi coerente di una Urbanistica dei Fasci e delle Corporazioni, è possibile apprezzare appieno oltre vent’anni di piccoli e grandi passi sulla strada verso il futuro. Gli ultimi particolari nell’articolo riportato di seguito. Grazie per l’attenzione.
Oriana Liso, Stop a kebab e Internet point il commercio cambia regole, la Repubblica ed. Milano, 17 agosto 2010
Un piano del commercio per fissare regole severe, che impediscano il proliferare di negozi etnici, di Internet point, ma anche di bar e locali della movida. È questo il progetto di Comune e Regione, che stanno lavorando per mettere a punto un regolamento che non contrasti con le leggi nazionali, come quella (la cosiddetta Bersani) che ha liberalizzato le licenze. «Finché abbiamo questa legge non possiamo intervenire, abbiamo le mani legate», è la posizione del sindaco Moratti, che ha firmato l´estensione dell´ordinanza antidegrado - che entrerà in vigore domani - a un nuovo tratto di corso Lodi e vie limitrofe, «come chiesto dai residenti», secondo la versione di Palazzo Marino. Ed è proprio il sindaco ad annunciare: «Stiamo lavorando con la Regione per vedere se si può, con una legge regionale, mettere a punto delle misure per i negozi di vicinato e le botteghe storiche, però non possiamo andare contro una legge nazionale. Per controllare esercizi come phone center, Internet point, kebaberie usiamo anche le ordinanze».
Già il mese scorso ci sono stati i primi incontri tra l´assessore comunale Giovanni Terzi e il suo omologo regionale Stefano Maullu per stabilire un piano d´azione. Perché il problema è proprio quello di non entrare in rotta di collisione con la legge nazionale, scrivendo regolamenti che potrebbero poi facilmente essere annullati dai giudici amministrativi. Per questo, spiega Maullu, «pensiamo a una griglia operativa che dia ad ogni Comune gli strumenti per creare dei distretti commerciali armonici, dove non ci sia una concentrazione eccessiva dello stesso tipo di attività, anche grazie a criteri più rigidi per concedere le licenze». Tra i criteri, per esempio, ci potranno essere regole igieniche stringenti, o una trasparenza maggiore su proprietari e finanziatori di ogni attività, oppure, ancora, un controllo puntuale su diplomi e attestati che dimostrino la competenza di chi apre un´attività in quel settore specifico (ad esempio, i centri massaggio, i saloni di estetica, i parrucchieri).
A questo, aggiunge l´assessore Terzi, si potranno sommare anche regole sugli orari (che scoraggino l´avvio di nuove attività nelle zone già dense di locali) e che fissano distanze minime tra le vetrine. «Un criterio di distribuzione che non vale solo per i negozi etnici, ma anche per i locali della movida e per le gelaterie, vogliamo rendere armonici i quartieri, evitando superconcentrazioni di alcune categorie merceologiche a spese di altre», spiega Terzi.
L´idea di mettere le briglie alla legge Bersani non dispiace agli stessi commercianti. Tanto che Simonpaolo Buongiardino, consigliere delegato dell´Unione del commercio, attacca: «La deregulation di questa legge ha tolto la possibilità ai Comuni di fare dei piani commerciali, e quindi di porre dei limiti ad alcune attività: ma non si può pensare a periferie trasformate in suk di negozi etnici, o a zone anche centrali dove tutte le vetrine sono di abbigliamento e non si trova un supermercato». L´occhio di Regione e Comune resta puntato sulle insegne straniere, visto che - come raccontano i dati della Camera di commercio - in città sono oltre mille le imprese con titolare nato fuori dall´Italia, ovvero il 33 per cento delle ditte del settore (la media in provincia è del 26, in Italia del 9). A portare la bandiera delle attività sono i cinesi: rappresentano oltre il 55 per cento dei servizi di ristorazione stranieri.
Nel suo Breve trattato del paesaggio (1997), recentemente tradotto da Sellerio, Alain Roger fa una riflessione interessante: nel 1912 tre grandi intellettuali europei osservarono, indipendentemente, che il paesaggio non è natura ma storia, perciò lo vediamo attraverso il filtro della letteratura e dell'arte. Questo più o meno scrissero in Francia Charles Lalo, in Germania Georg Simmel, in Italia Benedetto Croce. Tanta sintonia si spiega per il comune riferirsi a un topos classico, quello secondo cui «la natura s'ingegna a imitare l'arte», come scrisse Ovidio; ma riflette lo spirito del tempo di quel principio di secolo, quando i movimenti per la conservazione del paesaggio si affermavano in tutta Europa. Per Croce, questa preoccupazione non fu solo teorica, ma si tradusse in un'energica azione politica: a lui infatti si deve la prima legge generale italiana per la tutela del paesaggio. È una storia che comincia da lontano, dall'Unità d'Italia. Cominciarono allora subito ardue battaglie per proteggere il patrimonio artistico e archeologico.
Gli Stati preunitari avevano in merito le leggi più antiche e avanzate del mondo: papi, repubbliche e sovrani, specialmente dal Settecento, sulla scia del diritto romano anteposero nettamente il bene comune (utilitas publica) agli interessi della proprietà privata, limitandone i diritti. L'unificazione del paese fu per mercanti e collezionisti l'occasione di approfittare del vuoto legislativo per vendere numerosissime opere d'arte (fu allora che avvenne la massima emigrazione di quadri, statue, manoscritti, disegni verso i musei stranieri). Restavano in vigore le leggi pontificie a Roma, quelle borboniche a Napoli, e così via; ma si stentò a lanciare una normativa nazionale. Il primo disegno di legge, voluto da Cavour e affidato a Terenzio Mamiani, naufragò subito; così, in rapida successione, le proposte di ministri della Destra (come Cesare Correnti e Ruggero Bonghi) e della Sinistra (come Michele Coppino, Francesco De Sanctis, Pasquale Villari, Ferdinando Martini). Si arrivò infine alla timida legge del 1902, che proteggeva ben poco, eppure fu bollata in Senato come feroce' perché intaccava i privilegi della proprietà privata, «diritto divino perché emanante dalla volontà di Dio».
Presto si constatò alla prova dei fatti la debolezza della legge del 1902, e si avviò il percorso verso una normativa più efficiente, che dopo un faticoso percorso sarebbe diventata la legge n. 364 del 1909. In quelle accese discussioni esplose il contrasto fra la Camera (interamente elettiva) e il Senato, dove per nomina regia o per censo sedevano molti membri dell'alta aristocrazia, interessati a mettere sul mercato le proprie collezioni. Non tutti, però. Senatore era anche il principe Tommaso Corsini, membro della stessa famiglia del card. Neri Corsini, ispiratore nel 1737 del «patto di famiglia» Medici-Lorena che assicurò per sempre a Firenze le collezioni granducali, e del papa Clemente XII, che volle nel 1734 severe norme di tutela e la fondazione dei Musei Capitolini, prima raccolta pubblica d'Europa. Nel 1898, per reagire agli sventramenti del centro storico di Firenze che ne sfigurarono il volto a partire da quando fu capitale del Regno, Corsini aveva fondato l'«Associazione per la difesa di Firenze antica», che divenne il centro di un vasto movimento di opinione. Dopo la raccolta di migliaia di firme, in un'affollata assemblea a Firenze fu votata per acclamazione una petizione al Senato: a proporla fu Benedetto Croce, poco più che quarantenne e non ancora senatore, ma già autorevolissimo. Quella legge aveva tre padri: due ravennati, il ministro Luigi Rava e il direttore generale Corrado Ricci (artefici nel 1905 di una legge per la tutela della pineta di Ravenna) e un deputato toscano, Giovanni Rosadi.
Nel disegno di legge, essi avevano aggiunto alla tutela del patrimonio anche quella di «giardini, foreste, paesaggi, acque» di prevalente interesse pubblico. Approvata dalla Camera, questa norma venne bocciata dal Senato, e il comma 3 che la conteneva fu soppresso, pur invitando il governo a presentare un disegno di legge sulle «proprietà fondiarie che importano una ragione di pubblico interesse a causa della loro singolare bellezza». In questo testo, il termine paesaggio è evitato, e la dizione proprietà fondiarie indica di dove venissero le resistenze a includere il paesaggio fra i beni da tutelare. Ma Rosadi non rinunciò alla battaglia, e già il 4 maggio 1910 presentò una nuova proposta di legge. La relazione si apriva con una domanda: «E possibile che il Parlamento rimanga insensibile e inerte, quasi non si accorga neppure che si sente e si agita anche in Italia, e pi in Italia che dappertutto, una questione del paesaggio?». Fu possibile. Eppure era accaduto allora qualcosa che nell'Italia di oggi non si riesce nemmeno a immaginare, la formazione di un Comitato nazionale per la difesa del Paesaggio, che raccolse non solo dieci associazioni protezionistiche, ma anche sei Ministeri, le Ferrovie dello Stato ed altre istituzioni pubbliche.
La legge Rosadi continuò a trascinarsi invano fra Camera e Senato, ma l'impulso decisivo fu dato da Nitti, quando nel suo primo governo istituì (1919) un sottosegretariato alle Antichità e Belle arti, preannuncio del ministero dei Beni culturali creato quasi sessant'anni dopo. Sottosegretario fu il veneziano Pompeo Molmenti, sostituito pochi mesi dopo proprio da Rosadi, che tenne l'ufficio anche nei successivi governi Giolitti e Bonomi. Molmenti aveva nominato una commissione presieduta da Rosadi per redigere la nuova legge, che fu pronta in pochi mesi, riprendendo quella insabbiata dieci anni prima. Dopo la caduta del governo Nitti, il disegno di legge fu ereditato dal quinto governo Giolitti, dove ministro della Pubblica istruzione era Croce. Egli rilanciò immediatamente il progetto, presentandolo al Senato con una vigorosa relazione introduttiva, e riuscì a farlo approvare 31 gennaio 1921. Sciolta la Camera, si tennero il 15 maggio 1921 elezioni anticipate: ma prima che giurasse il nuovo governo e il nuovo ministro, Croce ripresentò la legge tal quale (15 giugno). Rosadi restava sottosegretario, e fu anche grazie a lui che la legge continuò il suo cammino coi ministri ravennati, Corbino (governo Bonomi) e Anile (governo Facta).
Finalmente approvata l'11 maggio 1922, la legge (n. 778) fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 21 giugno, quattro mesi prima della marcia su Roma. Occorre una legge che «ponga, finalmente, un argine alle ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e pi amate del nostro suolo», scrive Croce nella sua relazione, poiché «difendere e mettere in valore le maggiori bellezze d'Italia, naturali e artistiche» risponde ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia». Croce cita i movimenti per il paesaggio in Francia, Germania, Svizzera, Austria e Inghilterra, richiama Ruskin («il paesaggio altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria»), e argomenta che è necessario notificare i paesaggi di importante interesse , sottoponendoli a speciali limitazioni del diritto di proprietà, in nome di «ciò che è in cima ai pensieri di tutti, economia nazionale e conservazione del privilegio di bellezza che vanta l'Italia». Le limitazioni alla proprietà privata sono indispensabili come «una servitù per pubblica utilità», poiché sarebbe egualmente inammissibile «deturpare un monumento o oltraggiare una bella scena paesistica, destinati entrambi al godimento di tutti».
La legge Croce fu poi alla base della legge Bottai sul paesaggio (1939), che ancora è il nerbo del codice dei Beni culturali e del paesaggio, raro esempio di legge bipartisan condotta in porto da ministri (Urbani, Buttiglione, Rutelli) di due governi Berlusconi e di un governo Prodi; eppure è fra le leggi più disattese d'Italia, martoriata da deroghe, sanatorie, condoni, piani casa e quant'altro. Rileggiamo allora le parole di Croce, ma guardiamoci intorno: le «ingiustificate devastazioni» del nostro suolo si intensificano ogni giorno, il primato del pubblico bene che fu il cuore della storia d'Italia viene oggi impunemente calpestato in nome di un mercatismo straccione. Chiediamoci dunque: siamo capaci, noi oggi, di combattere le battaglie che un secolo fa seppero vincere Ricci e Rava, Rosadi e Benedetto Croce? Sapremmo coalizzarci in un rinnovato Comitato nazionale per la difesa del paesaggio?
Ci mancava la velina islamica, dopo la donna tangente. Degna commistione fra due paesi mediterranei diversamente retrogradi, ma entrambi contraddistinti dall´abitudine a trattare la femminilità come ornamento del potere. Naturale quindi che anche la velina islamica sia vincolata alla consegna del silenzio, come il suo corrispettivo che va in onda a ogni ora del giorno e della notte sulle tv del belpaese. Il silenzio è requisito della sottomissione, e come tale lo impone la zelante agenzia Hostessweb, pena il mancato pagamento delle centinaia di ragazze scritturate a modica tariffa, confidando sul loro bisogno di lavorare.
La religione, com´è ovvio, non c´entra nulla. Nessun buon musulmano prende sul serio Gheddafi, né il suo appello alla conversione islamica dell´Europa. Se davvero la suprema Guida della Jamahiriyya fosse mosso da intenti di proselitismo, avrebbe convocato intorno a sé un pubblico misto di interlocutori, non si sarebbe rivolto a un´agenzia di hostess precisando che servivano signorine bella presenza, provocanti ma non troppo, secondo il gusto maghrebino.
C´entra invece, eccome, il bisogno di dimostrare che la grazia e la sensualità possono essere comprate col denaro. Il dittatore libico si rivolge al suo popolo prospettandogli la meraviglia delle belle donne da marito di cui l´Italia è percepita anche laggiù come il giacimento. Lui può permettersele, i suoi sudditi vedremo.
Nessuna altra capitale europea avrebbe tollerato il ripetersi, per tre volte in un anno, di una simile esibizione. Ma l´Italia è la patria delle veline, dove d´estate è normale che un sedicente rivoluzionario autore televisivo impieghi pure anziane signore nella parodia ossessiva dell´avanspettacolo, e dove perfino il capo del governo rincorre il mito dello sciupafemmine per sentirsi amato. Perché negarci dunque l´eccesso fantasioso della velina islamica?
Nonostante gli oltre quarant´anni ininterrotti al potere, in fondo Muammar Gheddafi resta pur sempre meno anziano rispetto al nostro presidente del consiglio. Hanno in comune la maschera patetica di chi insegue la longevità con camuffamenti giovanilistici. Da questo punto di vista, sono leader intercambiabili. Se oggi Berlusconi minimizza di fronte allo squallore dei raduni di giovani femmine italiane sottomesse, che Gheddafi non oserebbe mai convocare in un santuario di preghiera islamica, e si limita a definirli "folklore", non è solo per imbarazzo diplomatico. Lui che per anni ha esercitato un indubbio potere seduttivo sulla maggioranza delle donne italiane, soffre di una vera e propria mutilazione culturale: vittima del suo stesso anacronismo, gli è preclusa la sensibilità necessaria anche solo a figurarsi le donne al di fuori di una dimensione subalterna. Gli verrebbe più facile parlare arabo che notare un evidente problema nazionale come la dignità femminile calpestata.
Ora Gheddafi, aspirante colonizzatore di Roma, viene a dirci che in Libia le donne sono più libere che in Occidente. Immagino che lui e il nostro premier scherzeranno, in privato, di tale fandonia. Per quanto tempo ancora?
Si è affermato negli anni come uno degli appuntamenti “cult” dell’estate italiana. Ma il Festival della Mente di Sarzana, giunto alla settima edizione, rischia di diventare un simbolo della divaricazione tra cultura e “politica del fare” soprattutto per quanto concerne ambiente, paesaggio, territorio, quasi una sottolineatura dell’inutilità della cultura nell’epoca del Mercato. A tenere la “lectio magistralis”, che tradizionalmente inaugura il Festival, è chiamato Salvatore Settis. Il titolo: “Paesaggio come bene comune, bellezza e potere”.
Il professor Settis parlerà in una città e in un’area, quella apuano-lunense, a cui la “politica del fare” sta cambiando radicalmente volto con buona pace del paesaggio, del consumo di territorio, della tutela del patrimonio archeologico, naturale, antropologico, in cui il “Mercato” e soprattutto la “Rendita” sono i moloch sul cui altare sacrificare ogni scelta di amministrazioni da sempre guidate dalla sinistra. Tre varianti a strumenti urbanistici, stanno per riversare tra Sarzana e la piana dell’antica Luni e del basso corso della Magra 230 mila metri quadrati di seconde case, centri benessere, capannoni artigianali, centri commerciali, strutture balneari e albeghiere, a cui andranno ad aggiungersi due porti turistici lungo le verdi sponde della Magra per ospitare mille barche il tutto arricchito da arginature alte tre o cinque metri per contenere esondazioni sempre più frequenti.
Settis svolgerà la sua appassionata arringa in difesa del paesaggio italiano di fronte alla platea raffinata del festival e al sindaco di Sarzana Massimo Caleo, un teorico locale del teorema cemento = sviluppo = occupazione. Mentre il Festival della Mente celebrerà l’unicità del paesaggio italiano, un geologo sarà al lavoro per preparare gli studi geotecnici del “Piano Botta”, una variante al piano regolatore del 1994, firmata dall’archistar Mario Botta e approvata nei giorni scorsi dalla Provincia. Botta ha disegnato una Sarzana in mattoncini a vista su un’area di sessantaduemila metri quadrati, una “Sarzana Due” a meno di trecento metri dal centro storico medievale e rinascimentale tutt’affatto diversa nelle tipologie architettoniche, dai colori del paesaggio ligure. Oltre quarantasettemila metri quadrati di nuove superfici residenziali, commerciali, ricettive, di terziario privato e pubblico, in larga parte previste dal PRG del 1994, ma solo in minima parte realizzate. Proprio la mancata realizzazione in un arco di tre lustri avrebbe dovuto suggerire una rivisitazione del vecchio piano, rivedendo una previsione d’incremento demografico errata, riconsiderando una previsione di domanda che il Mercato non ha confermato neppure in anni di bolla speculativa.
L’Amministrazione, sollecitata da Unieco di Reggio Emilia, proprietaria dei terreni, il cui logo compare ormai in tutte le grandi operazioni cementizie dello spezzino, da Levanto a Lerici, a Sarzana, in una sorta di colonizzazione emiliana, ha proceduto a una rivisitazione del piano particolareggiato che garantisce la rendita, sventolando la parola d’ordine degli “inalienalibili diritti acquisiti” dei proprietari con buona pace delle sentenze del Consiglio di Stato.
Ha incaricato, ovviamente senza concorso, l’architetto Mario Botta, presentato dalle Coop e che per le Coop aveva redatto le prime bozze progettuali dei nuovi palazzi, che ridisegnavano il volto della città (tutte informazioni sfacciatamente messe nero su bianco nella delibera di incarico del 2007). Disegni dei palazzi già visibili nella brochure del Bilancio 2007 di Abitcoop Liguria quando erano ancora ignoti al consiglio comunale di Sarzana nel gennaio 2009. La Variante porta la dicitura “di iniziativa pubblica”!
Nella sua prima stesura il progetto prevedeva un grattacielo cilindrico alto 67 metri di mattoncini rossi. Nelle dichiarazioni del Maestro Botta doveva richiamare le torri dell’acqua del mantovano. Sarzana in provincia di Mantova….. Così la colonizzazione Unieco cambia il volto ligure di una città. Il progetto della torre è crollato sotto i colpi di un Comitato di cittadini. Il resto è rimasto, compresa l’assoluta mancanza di verde fruibile.
Come onestamente ammesso dallo stesso Botta “Con quelle volumetrie o si va in alto o si occupa ogni spazio orizzontale”. Ma la Rendita non consente di ridurre le volumetrie. Neppure se a suggerirlo pubblicamente al Principe è un Maestro dell’architettura.
Se Sarzana nel suo ingresso occidentale somiglierà a Treviso, a Sesto San Giovanni o a Lugano, poco importa. Millecento nuovi abitanti previsti, undicimila metri quadrati di superfici commerciali in una città che vanta il primato di ipermercati, undicimila metri quadrati di terziario, a Sarzana già oggi largamente invenduto. Conta il business da 160 milioni di euro.
C’è chi si chiede: chi acquisterà? Ed evoca preoccupato i dati del rapporto 2009 della Direzione nazionale antimafia che indica la Liguria e Sarzana come luogo di riciclaggio.
Mentre il “Piano Botta” muove i primi passi, i sindaci di Sarzana e Ameglia lanciano la crociata contro gli ambientalisti che, riuniti in un Coordinamento di associazioni e comitati, hanno dirottato la loro attenzione sulla più esaltante epopea del cemento, il Progetto Marinella. “Costoro si oppongono allo sviluppo, Si rischia di perdere un’occasione unica per mettere fine al degrado della zona”.
Promotrice del Progetto Marinella è la banca Monte dei Paschi, storica proprietaria di quasi tutti i terreni agricoli della bassa piana della Magra fino alle pendici del colle dei Cappuccini di Bocca di Magra. Acquisì quei terreni durante il fascismo per il fallimento di un ricco imprenditore del marmo, Fabricotti. Li acquisì come terreni agricoli, aspettando con la pazienza di una banca centenaria che la Dea Rendita desse i suoi frutti.
Il PRG di Sarzana del 1994 prevede solo interventi di ristrutturazione e recupero del vecchio borgo agricolo di Marinella. Troppo poco per le aspettative di Monte dei Paschi, che nel 1999 lancia il “Progetto unitario di Marinella”. Unitario perché comprende tutta la proprietà, che abbraccia i comuni di Sarzana e Ameglia. Nel tempo il progetto è cresciuto in concomitanza con l’avvento di Francesco Gaetano Caltagirone alla vicepresidenza della banca senese. Anche i partecipanti al progetto sono cresciuti, comprendendo l’immancabile Unieco, il Consorzio delle Cooperative di Produzione e lavoro emiliane, le società Condotte e Condotte Acque di Astaldi. Le cifre dell’affare parlano da sole e fanno impallidire il Piano Botta. 155 mila metri quadrati di edificato previsto, di cui quasi 87 mila di nuova edificazione. Un terzo della superficie è a destinazione residenziale in una Liguria a crescita zero. Anche il “commerciale” non scherza: 23 mila metri in un’area, secondo Confesercenti, già satura di ipermercati.
Gli amministratori di sinistra non se lo vogliono sentir ripetere: ma con il famigerato Piano casa di Berlusconi non avrebbero potuto prevedere neppure la metà di nuove edificazioni!
Non mancano neppure 7200 metri quadrati di stabilimenti balneari: tradotto significa privatizzazione del litorale, soggetto a forte erosione, oggi in parte libero e selvaggio, quindi “degradato”. Infine la ciliegina: il “polo nautico” nel Parco del fiume Magra con una prevista escavazione di milioni di metri cubi di inerti per far posto a circa mille attracchi.
Calcolare l’ammontare dell’operazione fa venire le vertigini a chi non si chiama Caltagirone. C’è chi azzarda 700 milioni di euro.
La lectio magistralis del professor Settis cadrà in questo contesto. A conferma che il Festival viene pensato a Milano. Sarzana lo ospita, perché è un evento che richiama pubblico e riflettori. Quindi denaro. Lo scorso anno lo sponsor, la Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, per voce del suo presidente Matteo Melley, ha posto la questione: non si può guardare solo alle ricadute economiche; occorre iniziare a valutare le ricadute culturali.
Ebbene una frase di Settis, scelta per la brochure del programma, sembra già un invito alla riflessione sul contesto: "Anche la devastazione del paesaggio italiano, a cui assistiamo oggi, è un prodotto culturale ed appartiene all'orizzonte che ci circonda. Chiediamoci perché. Chiediamoci se il paesaggio può tornare ad essere un bene comune e come questo può dipendere da noi".
Le attività umane possono svolgersi soltanto utilizzando beni materiali la cui unica fonte è la natura: il cibo per mangiare, il cemento per la costruzione degli edifici, il gasolio per muoversi, i tessuti per difendersi dal freddo, i ventilatori per difendersi dal caldo: tutti richiedono materiali la cui vera fonte è la natura. Anche i servizi, beni apparentemente immateriali, richiedono delle cose fisiche, materiali. Per comunicare con una persona lontana occorre usare un telefono che è fatto di plastica e di semiconduttori e che funziona perché è rifornito di elettricità che scorre su fili di rame rivestiti di plastica e viene da una centrale fatta di acciaio e cemento e alimentata con carbone, prodotti petroliferi o gas, che arrivano alla centrale attraverso navi o tubazioni, provenendo da pozzi o gallerie che affondano la radici meccaniche "nella natura". Lo stesso vale per l'acciaio e la gomma dei mezzi di trasporto, per la carta necessaria, per l'informazione, per l'istruzione e per tutti gli altri servizi. Anche altri "beni" come la felicità, la dignità, la libertà, possono essere "goduti" soltanto se si dispone di cose materiali: una casa, acqua pulita, un lavoro, le attrezzature per essere curati se malati, la possibilità di "conoscere" attraverso libri e televisori, tutti oggetti e materie che si possono ottenere soltanto usando e trasformando le risorse biologiche e minerali della natura. Si può ben dire che ogni bene o ogni servizio della nostra vita sociale ed economica si ottiene "mediante natura".
Sfortunatamente la natura è dispettosa: a mano a mano che ci regala qualcuna delle sue ricchezze ci punisce perché, per usarle, dobbiamo trasformarle e alla fine ci resta fra le mani qualche residuo o scoria o rifiuto di cui possiamo liberarci soltanto rimettendolo nei corpi naturali con sgradevoli effetti: possono essere gas o polveri che finiscono nell'atmosfera e poi nei polmoni, o alterano il clima; possono essere liquami che sporcano i fiumi e ci impediscono di berne le acque o sporcano il mare e ci impediscono di fare il bagno; possono essere mucchi di rifiuti solidi puzzolenti difficili da smaltire. Per attenuare i danni e disturbi provocati dalle nocività ambientali, inevitabilmente associati al godimento delle merci, e dei servizi offerti dalle merci, ogni singola persona, le imprese, i governi devono affrontare dei costi monetari per filtri, depuratori, cambiamenti tecnologici.
Per sapere quanto costano gli inquinamenti provenienti dalla produzione e dall'uso delle merci e dei servizi e su chi ricadono tali costi occorre conoscere "abbastanza" esattamente quanti chili di polveri, gas, liquami e rifiuti solidi accompagnano la produzione e l'uso di ogni chilo di benzina o di acciaio o di patate, di tessuto o di gomma, di ogni chilowattora di elettricità, eccetera. Un bel lavoro che dovrebbe mobilitare chimici, merceologi, statistici, e che dovrebbe fornire ai governanti delle corrette informazioni, se vogliono migliorare per davvero l'ambiente, se vogliono far ricadere equamente i costi in proporzione all'inquinamento che ciascun soggetto economico provoca.
Queste indagini sono l'oggetto della contabilità ambientale, uno speciale capitolo delle discipline economiche e ambientali. Si tratta di integrare le statistiche monetarie, che riportano le quantità di denaro prodotto o richiesto dall'agricoltura, dall'industria, dai commerci, dai trasporti, dalle famiglie, con statistiche sulle rispettive emissioni ambientali. L'Istituto Nazionale di Statistica italiano (Istat) in questi ultimi anni ha pubblicato delle utili tavole (se ne è parlato anche in questo giornale) nelle quali sono indicate, a livello nazionale e regionale, le quantità, in tonnellate o migliaia o milioni di tonnellate, di acidi, polveri, gas, metalli tossici, eccetera, immesse nell'atmosfera, dalle varie attività "economiche". Tali dati sarebbero in grado di indicare ai governanti, ma anche alle imprese, se è più utile filtrare i fumi di una acciaieria o quelli di un cementificio, o se è bene obbligare per legge l'uso di carburanti meno inquinanti, o se è meglio bruciare carbone o gas naturale nelle centrali, o se è meglio eliminare i rifiuti con discariche o inceneritori. Nelle tavole ricordate la quantità di agenti inquinanti è indicata al fianco della quantità di denaro associata a ciascun settore e, ancora più importante, a quante giornate di lavoro sono associate a ciascuna attività inquinante.
Proprio nelle scorse settimane l'Istat ha fornito ulteriori informazioni pubblicando il n. 2 del 2010 degli "Annali di Statistica", un grosso volume di 462 pagine (consultabile anche in Internet), che spiega come ampliare le statistiche ambientali sotto forma di tabelle dette PIOT (Physical Input-Output Tables). In tali tabelle è indicata, oltre alla quantità dei rifiuti generati da ciascun settore economico, anche il peso dei gas atmosferici e dell'acqua, dei minerali e dei prodotti vegetali e animali estratti dalla natura, che "circolano" attraverso i vari settori economici: dalla natura, alla produzione, al consumo, ai rifiuti che ritornano alla natura nell'aria, nelle acque, nelle discariche. Le tabelle PIOT indicano quanta materia, in innumerevoli forme, per centinaia di milioni di tonnellate di merci e di rifiuti, accompagna ciascuno degli innumerevoli scambi di denaro che hanno luogo ogni anno nell'economia italiana. Poiché tutta la materia che entra nei cicli economici non può sparire e da qualche parte si deve ritrovare, tali tabelle, fra l'altro, consentirebbero di svelare tutte le attività ambientali clandestine o fraudolente.
Per avere delle tabelle PIOT continuamente aggiornate c'è ancora molto da lavoro da svolgere nella pubblica amministrazione e nelle Università e fa piacere vedere citate dall'Istat le ricerche degli studiosi di Merceologia dell'Università di Bari, impegnati da molti anni in queste indagini. C'è da sperare che il nuovo volume dell'Istat finisca sul tavolo di ministri, presidenti di regione, sindaci e assessori: dovrebbe essere un successo editoriale ! Speriamo anche che lo leggano.
PALANZANO (PARMA) - Raccontano, su queste montagne, che il Marino, il vento che arriva dal mare, è prezioso come la nebbia attorno al Po. «La nebbia è indispensabile per i culatelli di Zibello. Il Marino raccoglie invece i profumi dei castagni e li porta negli stabilimenti di stagionatura dei prosciutti. É per questo che sono speciali». Il vento del mare oggi rischia però di portare verso la valle ben altri odori: polveri sottili, Pm10, monossido di azoto, ceneri uscite da nuove centrali a biomassa e a biogas che stanno spuntando come funghi poco sotto il crinale dell’Appennino. «Qui da noi - dice Franco Ferrari, presidente di un comitato di protesta nato a Palanzano - abbiamo solo tre tesori: l’aria, l’acqua, la natura. Ma c’è chi vuole fare soldi in fretta e rischia di rovinare tutto».
Le alte valli Parma, Cedra ed Enza sono la porta d’ingresso, dalla parte dei monti, della food valley più famosa d’Italia: quella del Parmigiano reggiano e del prosciutto. «Noi non siamo - racconta Maria Carla Magnani, che presiede un altro comitato a Corniglio - contro il progresso e tanto meno contro imprese che diano lavoro. Ci sono centrali a biomasse o biogas che funzionano benissimo, ad esempio in Trentino Alto Adige, ma quelle sono state studiate bene e hanno un impatto positivo sul territorio. Sono progettate e gestite dai Comuni o comunque da enti pubblici. Da noi ci sono invece solo imprese private che provocherebbero soltanto devastazione».
Si incontrano i piccoli dei caprioli e dei cervi, sulle strade di Vaestano. In questa frazione di Palanzano - quaranta abitanti d’inverno, centinaia in estate - si vogliono costruire due impianti. «Si tratta di due centrali - dice Franco Ferrari - entrambe con una potenza di 999 kw l’una. Questo perché, per una potenza inferiore ai 1.000 kw, non servono autorizzazioni provinciali o regionali: basta una Dia, dichiarazione inizio attività, consegnata al Comune. Ambedue gli impianti sono sproporzionati. La centrale a biogas, per funzionare, dovrebbe usare 300 tonnellate di liquami di stalla al giorno, ma qui a Palanzano sono rimaste tre o quattro stalle e la più grande, con 150 vacche, ha già un impianto a biogas che funziona benissimo. I liquami dovrebbero essere dunque raccolti in un raggio di cinquanta chilometri, anche in provincia di Reggio Emilia.
Una via vai di cisterne, anche perché il residuo solido - pari al 60 - 80% del totale - viene riconsegnato ai produttori. Il residuo così trattato è difficilmente utilizzabile. A Pilastro di Langhirano i coltivatori hanno protestato perché il residuo di un’altra piccola centrale danneggia il foraggio destinato alle vacche del parmigiano. E non abbiamo notizie sugli impianti di depurazione. Perché fare una centrale così in una località, Nacca, dove c’è una sola strada larga due metri e mezzo, praticamente un senso unico?».
Anche la biomassa crea problemi. «Serve la legna dei boschi ma qui nessuno ha interpellato i proprietari. Il rischio è che il cippato arrivi da fuori, il porto di La Spezia non è così lontano. A volere la centrale è un Consorzio volontario di agricoltori locali, che ha una sede presso un commercialista ma non ha capitale sociale. Eppure è previsto un investimento di almeno 6 milioni di euro. Il rischio è evidente: si ottengono le autorizzazioni, si parte in qualche modo, si costruisce e poi arriva chi è in grado di pagare davvero l’investimento. E’ per questo che abbiamo raccolto 1.400 firme - fra i residenti e chi è nato qui poi è andato a studiare e lavorare lontano ma non ha lasciato la propria casa di montagna - e le abbiamo consegnate al sindaco Giorgio Maggiali. Per ora non abbiamo avuto risposte esaurienti».
Anche a Corniglio il comitato Pro Val Parma ha fatto conti precisi. «Per alimentare la "nostra"centrale a biomassa - racconta la presidente Maria Carla Magnani - servono 13.000 tonnellate di cippato (legna tritata) all’anno, con uno stoccaggio di 100.000 tonnellate di legname. Per questo sarebbero necessari 100.000 chilometri quadrati di bosco e noi ne abbiamo diecimila, il 40% dei quali inaccessibili e 1.800 demaniali perché dentro a un parco. I rimanenti 4.200 ettari in cinque o sei anni verrebbero rasi al suolo per dare da mangiare alla centrale. Questo ovviamente non è possibile. E allora, per alimentare l’impianto, dovranno arrivare centinaia di Tir da lontano. La stessa stazione di stoccaggio è prevista a Villafranca Lunigiana, più di quaranta chilometri di strade di montagna».
Un investimento di 5 milioni di euro, da parte di una Sas con 10.000 euro di capitale, costituita all’inizio del 2010. «La nostra paura è che dentro al cippato possa finire di tutto, anche le porcherie e che una volta avviata la centrale possa trasformarsi in un inceneritore mascherato. Anche noi abbiamo pronte 1.500 firme di protesta. Sappiamo che verranno prodotte 260 tonnellate di ceneri all’anno. Dove andranno a finire?». Tante domande ancora senza risposta e una paura: che il Marino possa essere cancellato dal profumo dei soldi.
Il Marchionne intervenuto a Rimini al meeting di Comunione e liberazione non ha detto grandi novità rispetto al Marchionne di Pomigliano. Del resto da allora non è accaduto nulla di rilevante che non fosse già stato previsto: il mercato automobilistico mondiale continua a perder colpi in Occidente (e a guadagnarne nei grandi mercati dei paesi emergenti); la Fiat è una delle imprese più penalizzate sia sul mercato italiano sia su quello europeo; la stessa Fiat tuttavia vende in Italia circa il 40 per cento del suo prodotto e quindi in Italia ci deve restare, che lo voglia oppure no, ed anche le più massicce de-localizzazioni non possono cancellare con un tratto di penna tutti gli stabilimenti italiani e la manodopera che ci lavora.
Questa situazione è nota da un pezzo, fin da quando due anni fa Marchionne lanciò l’operazione Chrysler con l’accordo dei suoi azionisti, del presidente americano Barack Obama e dei sindacati di Detroit. Non tutti i commentatori capirono che non era la Fiat a conquistare la Chrysler ma viceversa: la Fiat si aggrappava alla Chrysler, anch’essa in stato pre-agonico, per fare di due debolezze una forza. Questo era il programma di Marchionne che d’altra parte fu onesto nell’ammettere questa verità.
Previde anche - e lo disse - che la Fiat avrebbe scorporato la produzione automobilistica dal resto del gruppo costituendo una nuova società, cosa che è avvenuta secondo le previsioni.
Da allora non ci sono state svolte nuove: Marchionne aveva già dichiarato che lui operava in una nuova era di economia globalizzata; usò anche l’immagine «dopo Cristo» orami diventata famosa.
Di nuovo c’è stata la traduzione nei fatti di questo programma, a Pomigliano, a Termini Imerese, a Melfi e in parte a Mirafiori. Il referendum a Pomigliano, la nuova società diventata proprietaria di quello stabilimento, la resistenza della Fiom-Cgil, lo sciopero di Melfi, i tre licenziati, il ricorso al Tar e il loro reintegro, la decisione della Fiat di non riammetterli al lavoro in attesa del secondo grado di giudizio, l’intervento del presidente Napolitano e il suo auspicio di superare l’incidente con spirito di equità in attesa della sentenza definitiva. Infine il Marchionne di Rimini.
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A Rimini l’amministratore delegato della Fiat ha esposto con la massima chiarezza alcuni suoi «mantra».
1. L’economia globalizzata impone che l’aumento di produttività nei paesi opulenti sia molto più elevato di quanto negli ultimi trent’anni non sia avvenuto, per tenere il passo con quanto avviene nei paesi emergenti e non perdere altro terreno nei loro confronti.
2. La lotta di classe è finita perché non ci sono più classi.
3. La domanda di automobili in Occidente è molto diminuita ed è tuttora in calo, perciò bisogna concentrare la produzione in un numero limitato di imprese, riducendo il numero delle unità prodotte e aumentando la competitività.
4. I lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità negli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti.
5. La giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata.
6. Forme di partecipazione dei lavoratori ai profitti derivanti dall’aumento della produttività sono auspicabili e vanno incentivate.
7. Le parti sociali debbono premere sui governi per ottenere nuovi tipi di «welfare» appropriati alle nuove regole.
Alcuni di questi principi sono ragionevoli e meritano di essere discussi. Altri hanno un’ispirazione profondamente reazionaria. Inoltre in questo ragionamento colpiscono alcune omissioni, la più vistosa delle quali riguarda le diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili. Marchionne può dire che questi problemi non riguardano il suo «campo di gioco» ma negherebbe con ciò l’evidenza: ogni persona e quindi ogni lavoratore vive in un contesto sociale che non può essere parcellizzato, è un contesto globale ed implica in prima fila il tema dei diritti e dei doveri.
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Bisogna riconoscere – e per quanto mi riguarda l’ho scritto più volte – che l’economia globale comporta un trasferimento di benessere dall’area opulenta all’area emergente e povera. Si potrà gradualizzare entro certi limiti questo processo, ma è del tutto inutile cercare di arrestarlo.
Il trasferimento può avvenire in vari modi. Uno di essi è l’immigrazione dall’area povera all’area opulenta, un altro è la de-localizzazione della produzione e del capitale in senso contrario, un altro ancora consiste nella ricerca di analoghi trasferimenti di benessere sociale all’interno dell’area opulenta tra ceti ricchi e ceti poveri, accompagnati da ritmi di produttività più intensi nelle aree povere affinché la loro dinamica sociale accorci le distanze con le aree ricche.
Siamo cioè – e non certo per libera scelta – di fronte ad un gigantesco riassetto sociale di dimensioni planetarie, nel corso del quale bisognerà tenere ben ferma la barra sui due diritti fondamentali: la libertà e l’eguaglianza.
Il riassetto sociale è infatti di tali proporzioni da mettere a rischio quei due diritti. Può cioè dar luogo a forme di governo autoritarie nell’illusione che solo in quel modo sia possibile governare i processi sociali; e può anche dar luogo a discriminazioni inaccettabili sul piano dell’eguaglianza.
Purtroppo in Italia si rischia di caricare gli oneri del riassetto sociale sulle categorie più deboli e di ferire in tal modo sia l’eguaglianza sia la libertà.
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Nel corso del meeting di Rimini, il giorno prima di Marchionne aveva parlato Giulio Tremonti. Un discorso ampio, di economia, di finanza e di politica.
L’intervento di Tremonti è stato ampiamente riferito dai giornali e non ci tornerò sopra, ma c’è un punto che qui m’interessa cogliere: quando il ministro dell’Economia ha parlato di austerità ricordando che in anni ormai lontani quel concetto fu patrocinato da Enrico Berlinguer che propose di farne il cardine d’una nuova politica economica.
È vero, Berlinguer vide con trent’anni di anticipo il grande riassetto sociale che stava arrivando, ne colse alcune implicazioni che riguardavano la politica e le istituzioni, decise di orientare in modo nuovo la politica del suo partito affinché si ponesse alla guida di quel riassetto.
Non fu soltanto Berlinguer a imboccare quella strada. Nel Pci a favore d’una politica di austerità si schierò Giorgio Amendola, nel sindacato Luciano Lama, negli altri partiti Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Antonio Giolitti, Gino Giugni e Giorgio Ruffolo, Bruno Visentini. Nella Dc, Ezio Vanoni e Pasquale Saraceno. Insomma la sinistra di governo e la sinistra di opposizione.
Il richiamo di Tremonti è stato dunque molto opportuno: la sinistra, quella sinistra, aveva capito in anticipo i tempi e le crisi che si addensavano e ne vide le conseguenze sulla società italiana.
Tremonti però non ha reso esplicito il significato di quella posizione. Berlinguer voleva che fosse la sinistra a guidare il riassetto sociale incombente, per garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo.
Questo aspetto del problema è stato oscurato dal nostro ministro dell’Economia ed è invece l’aspetto fondamentale.
Se si deve attuare una vasta modernizzazione istituzionale e un trasferimento di benessere sociale dalle economie opulente verso quelle emergenti; se un così gigantesco riassetto non può essere disgiunto da un riassetto analogo all’interno delle aree opulente; è evidente che i più deboli debbono partecipare in primissima fila a questa operazione. I ceti medi e medio-bassi non possono essere oggetto del riassetto sociale senza esserne al tempo stesso il principale soggetto.
Questo è il punto che manca all’analisi di Tremonti e che Marchionne ha vistosamente omesso come l’ha omesso la Marcegaglia. L’intero meeting di Rimini su questo punto ha taciuto: omissione tanto più vistosa in quanto avvenuta in una occasione promossa da una delle principali Comunità cattoliche, con tanto di benedizione papale e presenze cardinalizie.
Né è accettabile che una così plateale omissione sia giustificata con l’argomento che l’aspetto politico non riguarda gli operatori economici e gli imprenditori.
Grave errore: l’economia politica ha come tema centrale proprio quello dell’etica, cioè dei diritti e dei doveri, della felicità e dell’infelicità, della giustizia e del privilegio.
Una Comunità cattolica dovrebbe mettere al centro delle sue riflessioni questo tema e porlo ai suoi ospiti. Se non lo fa, diventa una lobby come in effetti Cl è da tempo diventata.
Invitiamo il lettore a leggere il discorso di Enrico Berlinguer sull’austerità. Comprenderà facilmente che i dirigente del PCI intendeva cose ben diverse di quelle cui Scalfari, correggendo Tremonti, si riferisce. Per Berlinguer la questione non era solo «garantire che non fossero solo i ceti più deboli a pagarne il costo». Si rilegga quella proposta, espressa in due discursi del 1977 e del 1979. Ne ricordiamo solo alcuni passaggi:
«Una trasformazione rivoluzionaria può essere avviata nelle condizioni attuali solo se sa affrontare i problemi nuovi posti all'Occidente dal moto di liberazione dei popoli del Terzo mondo. E ciò, secondo noi comunisti, comporta per l'Occidente, e soprattutto per il nostro paese, due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l'illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario. […] Ecco perché una politica di austerità, di rigore, di guerra allo spreco è divenuta una necessità irrecusabile da parte di tutti ed è, al tempo stesso, la leva su cui premere per far avanzare la battaglia per trasformare la società nelle sue strutture e nelle sue idee di base».
E ancora: «La politica di austerità quale è da noi intesa può essere fatta propria dal movimento operaio proprio in quanto essa può recidere alla base la possibilità di continuare a fondare lo sviluppo economico italiano su quel dissennato gonfiamento del solo consumo privato, che è fonte di parassitismi e di privilegi, e può invece condurre verso un assetto economico e sociale ispirato e guidato dai principi della massima produttività generale, della razionalità, del rigore, della giustizia, del godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l'istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura. "Lor signori", come direbbe il nostro Fortebraccio, vogliono invece l'assurdo perché in sostanza pretendono di mantenere il consumismo, che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano negli ultimi venti-venticinque anni, e, insieme, di abbassare i salari».
L’ad preferisce un «sindacato partecipativo» ad una controparte Disconosce così che i soggetti in causa non possiedono pari forza e che i lavoratori hanno bisogno di chi difende i loro diritti.
Mi ha colpito una recente dichiarazione di Marchionne: «un sistema corretto di relazioni industriali deve garantire che gli accordi stipulati vengano applicati». Se fosse così, però, non potrebbe minacciare la fuoriuscita dal contratto nazionale, che è appunto un accordo stipulato, come lo è il patto associativo della Confindustria, dalla quale vorrebbe andarsene. C’è odore di rottura anche nel caso si voglia un contratto per l’auto, separato dagli altri settori metalmeccanici: divide et impera, un concetto conflittuale piuttosto che contrattuale. Nel leggerne i discorsi e le dichiarazioni, sono molte le contraddizioni. Non ci si può fermare al conflitto tra capitale e lavoro, ci dice, come se questo conflitto, negli ultimi diciassette anni, avesse creato un insopportabile regime in mano al sindacato – quando in realtà la grande debolezza contrattuale dei lavoratori ha generato danni straordinari ai salari e grandi favori ai profitti e alle rendite, insieme ad un imponente e tragico travaso di persone da lavoro stabile a lavoro precario.
Marchionne vorrebbe in fabbrica e negli uffici una rigida disciplina da caserma, ma non sa che ciò rende burocratica e gerarchica l’organizzazione dell’azienda, aumentandone, allo stesso tempo, la fragilità: lo si vede dal fatto che non ha intenzione di pagare lo scotto della maggior disciplina, in termini di un reddito decente, di stabilità dell’occupazione (invece di ricorrere alla cassa integrazione quando non è capace di vendere), di maggiore qualità del lavoro, e perciò non ha in mente condizioni contrattuali, ma semplici diktat fondati sulla minaccia della chiusura degli impianti.
Pensa che la globalizzazione imponga che salari e condizioni di lavoro dei paesi avanzati si adeguino a quelli dei paesi in via di sviluppo, e non si rende conto che, al contrario, si tratta di far progredire le condizioni di questi lavoratori portandole al nostro livello, altrimenti non venderà mai le sue automobili in quei paesi – se lo aveva capito il pessimo Henry Ford, lo può capire chiunque abbia avuto una sufficiente educazione storica.
L’Amministratore Delegato preferisce un sindacato «partecipativo» ad un sindacato che sia la sua controparte: disconosce così che le parti nel contratto di lavoro non hanno pari forza, e che i lavoratori hanno bisogno di un sostegno, attraverso il sindacato, o, peggio, vuole proprio creare una situazione nella quale il lavoratore riconosca di essere debole e si comporti di conseguenza. Molti si sono chiesti perché Marchionne abbia improvvisamente intrapreso la strada dello scontro frontale, ed alcuni pensano che voglia mettere con le spalle al muro sindacato e governo, così da potersene andare dalle scomode localizzazioni italiane. Credo invece che, dopo l’avventura americana, e visto che la crisi non sembra aver cambiato i rapporti di forza internazionali, Marchionne guardi ora alla globalizzazione non come un’opportunità di nuovi mercati, di nuovi prodotti e processi, ma come una vera e propria guerra economica, rispetto alla quale è necessaria una «unione sacra» nazionale tra capitale e lavoro.
Non sarebbe la concorrenza, il motore della Fiat, ma una forma di protezionismo (una volta l’avremmo chiamato «dumping sociale») che è oggi richiesta dopo la fine della protezione offerta dagli incentivi statali: perciò il sindacato è chiamato a non sabotare un conflitto più grande di quello tra capitale e lavoro, e dunque non può mettere i bastoni tra le ruote rispetto alle decisioni aziendali – ci si fa intendere che chi offre il petto al nemico straniero è l’azienda, non il lavoratore. Ora, è indubbio che anche il sindacato debba essere parte attiva delle politiche economiche per aumentare la produttività: ma sarebbe senza senso che l’aumento della produttività passasse attraverso la subordinazione della personalità dei lavoratori.
Quell’«unione sacra», infatti, ricorda molto il corporativismo ed è un modo di pensare analogo a quello di Tremonti: risale a prima della rivoluzione francese o a certe elucubrazioni collaborazioniste di Pétain, e dunque non ha nulla di moderno. Del resto, non corrisponde affatto allo spirito della nostra Costituzione, come implicitamente ricordato dal nostro Presidente della Repubblica.❖
La morte di un bambino di tre anni bruciato vivo in una baracca a due passi dal centro di Roma è una notizia sconvolgente. È da tempo che accadono cose orrende. Ci furono i quattro bambini morti nell´agosto 2008 a Livorno, sotto un cavalcavia: Eva, 12 anni, Danchiu, 8 anni, Leonuca, 6 anni, e Mengi, di 4 anni. Eva morendo cercò di proteggere col suo corpo un fratellino. Questo fu il racconto dei loro corpi, simili ai calchi in gesso di Pompei. E il quattordicenne carbonizzato nel campo nomadi di Rivarolo nel marzo 2002. E l´altro quattordicenne, Marian Danilà, morto carbonizzato nell´area ex Falck di Milano nel settembre 2008. Allora don Massimo Capelli della Casa della Carità, disse: «Ci sono stati già quattro morti alla Falck, ma il Comune sa fare solo sgomberi».
Oggi i comuni continuano a fare e a minacciare sgomberi in Italia. Ma c´è un momento in cui dallo stillicidio delle cronache dell´orrore locale si passa alla corrente impetuosa di un grande problema collettivo che investe tutta la comunità internazionale, scuote le coscienze dei singoli, assume le dimensioni di un´urgenza assoluta davanti alla quale non ci si può più fingere disattenti né rimandare alle competenti autorità. Oggi forse quel momento è arrivato anche per la questione degli zingari: almeno lo speriamo. E´ un fatto che negli ultimi giorni la questione dei rom e dei sinti ha conosciuto un salto di qualità. Per merito non italiano ma francese. L´iniziativa di Sarkozy ha scosso e diviso l´opinione pubblica e ha portato a una ferma presa di posizione della Chiesa cattolica. L´appello del Papa ha richiamato la Francia al dovere di «saper accogliere le legittime diversità umane». E monsignor Marchetto, segretario del Pontificio Consiglio per i migranti, dice: «Quando ci sono espulsioni, ci sono sofferenze... Si tratta di persone deboli e povere che sono perseguitate, che sono vittime anch´esse di un ‘olocausto´ e vivono sempre fuggendo da chi dà loro la caccia». Nella dichiarazione di Marchetto la parola olocausto è tra virgolette. Ma è la parola giusta: ci sono testimoni che hanno vissuto la tragedia di allora e si ritrovano oggi davanti alla stessa macchina di odio. Valga l´esempio di Goffredo Bezzecchi, sopravvissuto alla deportazione di allora per trovarsi il 6 giugno 2008 nel campo rom di Rogoredo svegliato all´alba, messo in fila e schedato per l´operazione del censimento dei rom attuato dai superprefetti nominati dal governo.
Per questo salutiamo l´appello del Papa come il segno che le cose possono cambiare, che forse non è troppo tardi perché ci sia un ritorno alla ragione. Ma quel segno non basterà, dovrà essere ripetuto, dovrà risuonare non solo in francese. Dovrà riguardare lo scenario italiano e rispondere a quel ministro che agli italiani ha promesso che sarà più duro di Sarkozy. Dovrà dire con chiarezza ai politici italiani che su questo punto si giocheranno l´appoggio della Chiesa. Lo dovrà far capire a quel presidente del Comitato Sicurezza del Comune di Roma che, dopo la morte del piccolo rom, ha rilasciato questa incredibile dichiarazione: «È necessario continuare sul fronte delle espulsioni e dei rimpatri assistiti sull´esempio di quanto avviene in Francia».
Lo leggiamo con sensi di vergogna. Ci sentiamo corresponsabili di una offesa che «spezza il corpo e l´anima dei sommersi» e «risale come infamia sugli oppressori», come scrisse Primo Levi. Se un giorno il nostro paese sarà capace di ritrovare la via giusta, allora ci dovrà un luogo e un rito della memoria: e nel monumento della nostra vergogna, che immaginiamo come la discesa nel buio del monumento ai caduti americani del Vietnam, si dovranno leggere i nomi di tanti zingari, tanti bambini. Ma intanto, bisognerà cominciare a ripulire il linguaggio di quei sindaci che promettono di «bonificare» le città allontanando i nomadi: esseri umani come rifiuti da trasportare altrove perché non offendano la vista. Circola da tempo l´immagine del «troppo pieno»; per dire che nel paese non c´è posto per tutti. Metafora insensata in un paese che ha obbedito agli stimoli dissennati del premier e all´allentamento dei vincoli da parte di comuni coi bilanci in rosso e ha costruito un´infinità di case; case vuote, che nessuno compra. Ma quando prende piede la metafora dell´intolleranza spaziale siamo già entrati nell´antica rotaia maledetta del rapporto tra un popolo e il suo territorio. Il motto leghista «padroni a casa nostra» è il figlio smemorato dell´idea nazista dello «spazio vitale».
Il titolo della dodicesima Biennale Architettura, "People meet in architecture", è interpretabile in vario modo, dice la curatrice Kazuyo Sejima. E in effetti sono molte le maniere in cui leggere l´assunto che vorrebbe l´architettura assolvere al proprio compito se favorisce l´incontro fra le persone. Persino troppe se consentono, nei diversi spazi della Biennale (aperti al pubblico da domani fino a novembre) di tenere insieme l´installazione di Aranda/Lasch che accoglie i visitatori nel Palazzo delle Esposizioni (una costruzione fatta di bianchi cristalli in silicone) o lo spettacolare ed evanescente Cloudscapes di Transsolar & Tetsuo Kondo, una grande nuvola che compare e scompare sospesa nel cuore dell´Arsenale, con il gigantesco e limpido plastico di Teshima, un´isola nel mare di Seto, in Giappone, opera della stessa Sejima insieme a Fiona Tan e Ryue Nishizawa.
Con questa edizione la Biennale torna a credere nell´architettura come costruzione. Due anni fa il curatore Aaron Betsky propose invece un´architettura oltre il costruito, suggerendo di allestire gli scenari in cui si svolge la vita senza ricorrere necessariamente al mattone. Sejima rimette al centro della sua mostra le potenzialità dell´architettura. Ma lascia grande, grandissima libertà agli espositori, fino al punto di rendere davvero poco significativo il titolo da lei proposto. Lo spazio è il mezzo con cui formulare il pensiero, aggiunge la curatrice. Ed è in effetti questa la sintesi più riconoscibile della mostra veneziana, che sconta il paradosso di ogni mostra d´architettura, che è quello di limitarsi a modellare spazi esprimendo significati.
E così ognuno dei 46 partecipanti prende la propria strada, chi puntando sull´edificio o sull´installazione d´arte, mescolando foto, video ed effetti di luce, chi – ma non è la maggioranza – abbozzando idee di città o di parti di essa. Colpiscono i modelli di Work Place dello Studio Mumbai, realizzati con tecniche tradizionali e materiali locali e confidando sullo spiccato ingegno che nasce dalle poche risorse. Spirito comunitario e modestia restituiscono ossigeno a un´architettura in affanno a causa del troppo e del troppo grande o compressa dallo star system. Anche il cinese Wang Shu sceglie l´architettura come servizio: una struttura mobile a forma di cupola fatta con assi di bambù e assemblata in una giornata. E, rientrando in pieno Occidente, si segnalano i progetti di Raumlaborberlin in piazze e spazi abbandonati della città. Il fine, come per Mumbai e Wang Shu, è di riportare l´architettura alle sue matrici comunitarie, anche per allestire luoghi temporanei. Nasce così Kitchen Monument, una scultura di zinco con un telo gonfiabile che può essere montato ovunque, per esempio sotto un cavalcavia in un´area dismessa. E qui si può deviare dai Giardini della Biennale verso Palazzo Mangilli-Valmarana, dove Lo-Fi Architecture (Mario Lupano, Luca Emanueli e Marco Navarra) espongono idee per un´architettura "a bassa definizione". O, restando ai Giardini, verso la sezione "Emergenza paesaggio" del Padiglione Italia in cui lo studio Nowa propone Riparare fiumare, un progetto definito "per paesaggi e centri urbani stanchi", a partire da Giampilieri, la località siciliana distrutta dall´alluvione. E, ancora a proposito di architettura che ripara e non solo edifica, si veda a Palazzo Ducale Sismycity, una mostra fotografica sul disastro dell´Aquila e sulla ricostruzione che non c´è.
La presenza italiana nella rassegna diretta dalla Sejima si limita a quattro architetti. Aldo Cibic espone diversi progetti, fra i quali spicca un complesso residenziale intorno a una stazione metro di Milano, Renzo Piano mostra foto di suoi edifici. Di Lina Bo Bardi (scomparsa nel 1992) si ammirano disegni e immagini, mentre ai "modelli deboli di urbanizzazione" si ispira l´esposizione di Andrea Branzi.
La Biennale viaggia in molte direzioni, persino divergenti. Irrompe per un attimo la realtà delle città italiane e di un paesaggio sfigurato. E sorprende che il ministro Sandro Bondi, nel suo messaggio all´inaugurazione, lamentando "le periferie mostruose di Roma e Milano", ometta di ricordare che lo schieramento di cui fa parte ha varato due condoni edilizi, che sono sanatoria del passato e incentivo a proseguire, oltre a vagheggiare la deregolamentazione più spinta in materia urbanistica, al grido di "padroni in casa propria". Ma di Ecological urbanism si discute con competenza durante gli incontri organizzati dalla Graduate School of Design della Harvard University (partecipano, fra gli altri, Andrea Branzi, Rem Koolhaas, Hans Ulrich Obrist, Stefano Boeri e in prima fila è seduto Joseph Rykwert).
È inevitabile che nella vasta, eterogenea offerta si imponga Rem Koolhaas. L´architetto olandese fa storia a sé con Preservation, una rassegna di riflessioni e di immagini sul tema della conservazione del patrimonio, sia naturale che costruito. È un punto chiave della modernità, sottolinea l´autore di Junkspace (che nell´allestimento si è avvalso di un giovane collaboratore italiano, Ippolito Pestellini), e anzi prodotto dei grandi passaggi rivoluzionari. Il problema è cosa e come conservare.
Architettura che si mostra, architettura che si fa. Ieri la giuria presieduta da Francesco Dal Co ha scelto i tedeschi Matthias Sauerbruch e Louise Hutton per realizzare M9, il museo del Novecento che sorgerà nel cuore di Mestre.
La sortita ferragostana del sindaco di Roma in vacanza a Cortina (“Raderò al suolo Tor Bella Monaca e la ricostruirò”) ha raccolto l’applauso sonoro dell’architetto (divenuto, per qualche foglio, urbanista) Paolo Portoghesi aduso a correre in soccorso del vincitore e dell’Ordine degli ingegneri, oltre che del suo partito, il Pdl. Mentre hanno detto un chiaro “no, grazie” i residenti del quartiere, i parroci, urbanisti, economisti, specialisti (non mancano) della cosiddetta “edilizia di sostituzione” praticata anche in Italia (a Torino Mirafiori, per esempio, e anni fa nelle periferie napoletane come San Pietro a Patierno). Vediamo cosa caverà ora dal cilindro Alemanno. Forse un privato potente al quale regalare fior di cubature (in più) per demolire e ricostruire “Torbella” altrove? Il sospetto viene quando si osserva che il quartiere è stato edificato sulla tenuta dei conti Vaselli i quali reclamano tuttora maxi-indennizzi dal Campidoglio per gli espropri subiti. Tuttavia, secondo l’ex assessore all’Urbanistica, on. Roberto Morassut, il costo della gigantesca operazione – coinvolgerebbe 3 milioni di metri cubi e 180 ettari di suoli – sarebbe pari a circa 4 miliardi di euro. Una follia. Né si saprebbe dove mettere nel frattempo oltre 30.000 persone.
In realtà - come ha mostrato il Tg3 guidato dall’urbanista Paolo Berdini – Tor Bella Monaca ha bisogno di investimenti per eliminare una sporcizia intollerabile, per fare manutenzione edilizia, migliorare le scuole, dare vita alle piazze, ai luoghi di socializzazione, offrire un trasporto pubblico collegato al centro che non sia soltanto il bus sulla Casilina distante 3 Km, e così via. Senza dire che il “sindaco della sicurezza” ha assistito impassibile alla soppressione, grazie a Tremonti, del presidio di Ps al centro del grande quartiere romano.
Se Gianni Alemanno avesse riproposto con forza questi problemi nel contesto di un piano di investimenti pubblici avrebbe compiuto un gesto avveduto. Ancora una volta invece siamo davanti ad una politica fatta di annunci poi puntualmente disattesi, in cui è maestro indiscusso Silvio Berlusconi. Si lancia uno slogan ad effetto, Confindustria e alcuni sindacati plaudono, talune corporazioni brindano. Poi, che succeda o no qualche cosa di concreto non ha molta importanza: l’illusionismo finanziario trionfa nel Paese che, del resto, si è tenuto per un ventennio Mussolini e chissà quanti anni ancora l’avrebbe lasciato a Palazzo Venezia se, imitando Francisco Franco, il duce avesse evitato l’errore mortale della guerra assieme ad Hitler.
Dopo quasi settant’anni siamo tornati lì, nei pressi del 25 luglio 1943? Certo, molti italiani sembrano aver scordato le conquiste concrete della democrazia, i diritti e i doveri, la prassi stessa, di una democrazia vera e partecipata.
Il futuro del Parco Sud si chiama agriturismo. Ne è convinto il presidente della Provincia Guido Podestà che, in vista dell’arrivo dei visitatori di Expo, lancia un progetto per aumentare le strutture e i posti letto all’interno dell’immensa area verde ai confini con la città. «Il potenziale è altissimo - dice - e noi vogliamo incentivare la ristrutturazione delle cascine in questo senso». Ma l’urbanista Beltrame avverte: «Attenti all’assalto degli speculatori».
Natura e relax, è rivoluzione cascine
di Alessia Gallione
In Toscana o in Umbria è una tradizione (e un business) da anni. Vecchi casolari trasformati, dove trascorrere vacanze a contatto con natura. Tra relax e prodotti tipici. Ed è proprio all’agriturismo che, adesso, guarda Palazzo Isimbardi per rilanciare il Parco Sud. Aprendo la strada sempre di più alla possibilità per le aziende di affiancare l’attività di produzione all’ospitalità. Ristrutturando e cambiando la destinazione delle cascine. E aumentando, anche in vista dell’arrivo dei visitatori di Expo, il numero dei posti letto. «Perché il potenziale è enorme - spiega il presidente della Provincia e del direttivo del Parco, Guido Podestà - e vogliamo incentivare la nascita di queste attività che, non solo non snaturano ma possono diventare una salvaguardia per la vocazione agricola del territorio».
È al centro dei dibattiti politici da anni: un’area immensa a rischio cemento, però, visto che le mire di molti costruttori non sono mai cessate. Per Podestà non va stravolta. Ma ribadisce: «Non dobbiamo farne un totem. Il Parco va reso penetrabile con percorsi pedonali, ciclabili, ippovie. E non dobbiamo scandalizzarci se qualche Comune pensa a realizzare sui confini una scuola, amplia un cimitero o una fabbrica». La svolta per renderlo, però, per far vivere il Parco si chiama agriturismo. E la Provincia - che sovrintende la pianificazione anche attraverso i cosiddetti "Piani di cintura" - vuole dire sì alle domande di riconversione presentate: una decina, per ora, quelle in attesa di risposta in diversi Comuni. «Oggi - dice Podestà - ci sono un migliaio di aziende, ma solo una ventina ha sviluppato una attività completa di agriturismo». In tutto 150, 180 posti. Che potrebbero moltiplicare: «Sarebbero un’ottima risposta in termini di ricettività in vista di Expo. Anche per i milanesi dovrebbe diventare un’abitudine andare ad acquistare prodotti o a pranzare nelle cascine».
Se, per ora, la possibilità di dormine in cascina non è così sviluppata, decine di aziende si sono organizzate con la vendita diretta, le fattorie didattiche, lo sport o i ristoranti. Dario Olivero, presidente del Consorzio agrituristico "Terre d’acqua" che racchiude 15 aziende tra il Parco Sud e Ticino, avverte: «Piuttosto che realizzare nuove costruzioni, siamo favorevoli a ristrutturare le strutture esistenti. Ma ci vuole un progetto di lungo periodo per capire se potrà esserci richiesta anche dopo Expo». Senza dimenticare i finanziamenti: «Per una norma dell’Unione europea l’agriturismo non è finanziabile nel Milanese. Regione e Provincia dovrebbero attivarsi con fondi propri». La sviluppo dell’agriturismo sembra piacere anche a Massimo D’Avolio, sindaco pd di Rozzano e presidente dell’Assemblea dei 61 Comuni: «Potrebbe essere un’opportunità per valorizzare la zona in chiave turistica. Sicuramente ci sono molte vecchie cascine che potrebbero essere ristrutturate».
L’altolà dell’urbanista "L’area fa gola a molti attenzione ai trucchi"
intervista di Stefano Rossi a Gianni Beltrame
Gianni Beltrame, urbanista, è fra i padri del Parco Sud, essendo stato uno dei direttori del Pim, il centro studi per la programmazione dell’area metropolitana milanese. Architetto, l’agriturismo è compatibile con il Parco Sud?
«In linea di principio sì. Tuttavia il Parco è oggetto di aggressioni edificatorie e speculative. Si deve controllare caso per caso per verificare se si tratti di iniziative di vero agriturismo».
Qual è il fattore discriminante?
«È agriturismo se si soggiorna in una cascina che svolge una normale attività agricola. Non è agriturismo se si va in un albergo o un ristorante truccato da attività agricola».
C’è un rischio reale?
«L’agriturismo è facilmente oggetto di mistificazioni. Anche le revisioni dei confini del parco su richiesta dei Comuni vanno esaminate con attenzione. Sono spesso una scusa per nuovi interventi urbanistici nelle aree protette».
Eppure molti Comuni, in primis quello di Milano, sostengono che il Parco Sud sia un’area degradata.
«Quella del degrado è una balla che il Comune di Milano racconta per arrivare a una conclusione ovvia: il Parco Sud va risanato. Come? Costruendoci sopra. Da tempo il Comune strizza l’occhio a Ligresti, Paolo Berlusconi, Cabassi, che hanno comperato anche in anni recenti dagli enti pubblici a prezzi di svendita. Sono loro i grandi proprietari e non certo gli agricoltori, che sono in affitto. Il Comune però non dice che il Parco Sud, anche se può non essere bello dal punto di vista della manutenzione, ha salvato dalla cementificazione la zona agricola più bella e sviluppata della pianura padana, una delle più fertili d’Europa. Nel Settecento e Ottocento gli agronomi inglesi e tedeschi venivano a studiare il sistema irriguo milanese».
Le aziende agricole però segnano il passo.
«Logico, se la proprietà ricatta l’affittuario con rinnovi contrattuali di due anni in due anni. È questo che ha fatto abbandonare i campi. Servono contratti più lunghi per giustificare la riqualificazione. L’agricoltura ha strutturalmente tempi lunghi di investimento e di resa».
Il Pgt, il Piano di governo del territorio adottato in prima lettura a luglio, dà garanzie per la salvaguardia del Parco Sud?
«Il Pgt ne voleva la distruzione. Vedremo dopo le modifiche in prima lettura e dopo l’approvazione definitiva. Il Comune punta a renderlo edificabile, in ossequio ai desideri dei grandi proprietari di cui questa maggioranza è portavoce. Ma non ne ha il potere, e nemmeno la Provincia, che è solo l’ente gestore. Il Parco Sud è stato istituito con legge regionale».
Regione, Provincia e Comune sono governate dalla stessa maggioranza.
«È chiaro che il Parco Sud è la più bella occasione speculativa che si offre nel milanese. La scelta di proteggere l’ultima grande fascia agricola è stata lungimirante ma, dopo aver cercato di costruire il parco per decenni, negli ultimi anni ho potuto solo tentare di difenderlo».
La storia ultraquarantennale del ponte sullo Stretto di Messina dimostra quanto di oscuro e di indefinito si nasconde nelle vicende che finora si sono susseguite. Basta riflettere sul fatto che dopo quasi mezzo secolo di studi, di ricerche, di dichiarazioni di fattibilità, di modellini in atmosfere idilliache portati in giro per il mondo, di appalti di lavori con procedure inammissibili, di ridicole aperture di cantieri, ancora non vi è alcun progetto definitivo, né coperture finanziarie che ne garantiscano l'esecuzione. Mai vista una simile turlupinatura per un'opera pubblica, anche di più modeste proporzioni. Ancora oggi si fanno indagini geognostiche e geotecniche sulla base di un cosiddetto «cronoprogramma» sbandierato dal ministro Matteoli (ma già disatteso) nel quale sono elencate una serie di indagini propedeutiche alla redazione del progetto esecutivo. Le sonde, installate sulla zona abitata di Torre Faro, minacciano interi condomini, soggetti a esproprio sulla scorta di procedure inammissibili in questa fase preliminare. Non si conoscono le sorti di migliaia di cittadini che saranno privati dei loro beni e delle loro attività. E se le indagini in corso non daranno permissività alle esecuzioni delle faraoniche opere?
Eppure si continua a nascondere la verità sullo stato di fatto, sulle più volte indicate e successivamente disattese date di realizzazione del progetto definitivo e di inizio dei lavori, sulla mancanza di progetti esecutivi per la realizzazione delle numerose opere a terra, sullo sconvolgimento della durata di oltre un decennio delle due città dello Stretto e di vaste aree urbanizzate connesse. Si ignorano i dissensi, reiterati e autorevoli, sulla fattibilità in sicurezza di un'opera unica al mondo e in un'area di così alto rischio sismico, sulla sua effettiva futura utilità, sull'incidenza dei costi, seppure incerti ma non inferiori a 6,5 miliardi di euro, sui presunti benefici, sulla priorità di una simile opera rispetto alle urgenze di salvaguardia di territori soggetti a seri dissesti idrogeologici e privi di risorse. Si può rimanere inerti di fronte a tanto scempio?
In vista l’allargamento dell’arteria esistente, ma la Provincia di Grosseto non ci sta - La Sat risparmierebbe più di un miliardo. I tempi però si allungano e sorge il problema degli attraversamenti
GROSSETO. I rilievi per cambiare il tracciato, a sud di Grosseto, li stanno facendo da mesi. Ora dal presidente della Sat, Antonio Bargone, arriva la conferma che, anche per le prescrizioni chieste dal Cipe, si sta lavorando per cambiare il tracciato dell’autostrada Tirrenica. Non più a monte dell’Aurelia, ma sopra all’Aurelia stessa, che sarà di fatto allargata e trasformata. Una rivoluzione che farà risparmiare a Sat più di un miliardo, ma che non va giù alla Provincia di Grosseto.
Il tratto è quello a sud della città di Grosseto, fino al confine con il Lazio, quello più pericoloso, dove ogni anno si contano i morti. A nord, dove i lavori sono iniziati a Rosignano, già è previsto che l’autostrada passi sull’Aurelia. Lo stesso avviene nel tratto laziale, fino a Civitavecchia.
In mezzo, nei Comuni di Grosseto, Orbetello e Capalbio, il progetto originario prevede un tracciato interamente a monte dell’Aurelia, con quest’ultima trasformata in strada-parco. Progetto che adesso Sat pensa di rivedere. Bargone ne aveva già parlato al Tirreno nell’aprile scorso: «Non siamo noi a voler cambiare il progetto - disse - ma è il Cipe che ce lo chiede. Anche se poi, passando sull’Aurelia, i costi complessivi scendono da 3,7 a 2,5 miliardi di euro».
Soprattutto all’altezza di Orbetello in origine era prevista una larga pancia del tracciato, che si allontanava parecchio dall’Aurelia. Una soluzione ritenuta dal Cipe troppo impattante sull’ambiente. «Prima di fare una scelta definitiva - ci disse ancora Bargone - la concerteremo comunque con le amministrazioni locali».
Ma, evidentemente, una gran concertazione non c’è stata. Visto che il presidente della Provincia, Leonardo Marras, saputo della nuova ipotesi taglia corto «È folle passare sull’Aurelia».
Le motivazioni sono legate soprattutto al gran numero di attraversamenti presenti: «A sud di Grosseto, fino al confine, ci sono adesso quasi cinquecento accessi all’Aurelia. Sono strade più o meno grandi, spesso semplici passaggi da un podere all’altro. Come si pensa di fare con 3-4 caselli? Da dove passano i residenti, gli agricoltori? Mica si possono alzare due muri e tagliare in due il territorio senza dare un’alternativa. Le altre strade, in quella zona, sono un labirinto».
I problemi sono più di uno. Da una parte ci sono aziende attraversate dal nuovo tracciato, dall’altra ci sono i tempi, che rischiano di allungarsi. Infine l’aspetto economico. E proprio su questo il presidente della Provincia ha le idee assai chiare: «Con un po’ di buona volontà una soluzione si può trovare, penso ad un tracciato che sia più basso di quello originale, ma comunque non coincidente con l’Aurelia, che resterebbe strada ottima per i collegamenti locali, con tanto di pista ciclabile. Non capisco perché lo Stato non debba contribuire alla realizzazione di un’opera come questa e si pensi di farla ripagare interamente dai pedaggi».
Contro la nuova ipotesi si scaglia anche l’Idv. Sia a livello centrale, con l’onorevole Fabio Evangelisti che annuncia un’interrogazione parlamentare, sia sul territorio: «Sono stati necessari - dice Mauro Pasquali, coordinatore provinciale - molti anni per arrivare a una conferenza dei servizi che mettesse d’accordo tutti e finalmente si era arrivati a un progetto preliminare condiviso. Oggi, invece, ecco una nuova ipotesi, senza la necessaria complanare (prevista per legge). Così anche i residenti, passati i 5 anni in cui saranno esentati dal pedaggio, dovranno pagare per ogni spostamento poiché senza alternative».
Postilla
Svolta nella pluridecennale vicenda dell’autostrada tirrenica. Il tratto maremmano è stato quello più a lungo contestato. Si sono susseguiti tracciati autostradali che tagliavano in vario modo le colline o le pianure maremmane. Le associazioni ambientaliste e gli esperti non legati alla potente SAT (Società autostrade toscane) hanno sostenuto la maggior convenienza, per i traffici di lunga percorrenza, di utilizzare l’esistete statale Aurelia correggendone il tracciato, sulla base di un progetto che l’Anas aveva già predisposto. Ma questo avrebbe impedito la “continuità autostradale”, e quindi obbligato la società privata a rinunciare a una parte dei pedaggi. Le ragioni degli oppositori al tracciato SAT e la forza delle associazioni che ne costituivano la base sociale hanno alla fine prevalso. Sembra che la SAT abbia ripiegato sulla soluzione fisica proposta dagli oppositori, e quindi sia disposta a modificare il tracciato utilizzando il tracciato (e l’area) dell’Aurelia. Meno impatto, meno occupazione di terreno, meno devastazione del paesaggio, meno soldi.
Una vittoria, da questo punto di vista. Con un “ma”. In questo modo gli abitanti che vogliono muoversi da un punto all’altro della Maremma sono obbligati a pagare il pedaggio. Si fa interprete di questo disagio il presidente della provincia di Grosseto, che si oppone alla nuova soluzione e vuole cjhe si torni alla soluzione dell’autostrada in sede proppria. Come se il consumo di suolo, spreco di risorse, impatto ambientale e distruzione del paesaggio fossero prezzi che un amministratore può accettare di pagare (di far pagare alla collettività di oggi e di domani). Insomma, il ricatto della SAT è questo: se volete il tracciato territorialmente corretto mi dovete concedere di recintare l’Aurelia. Un altro bene pubblico privatizzato.
Il ricatto si deve rifiutare. Bisogna accogliere la bocciatura del Cipe che ha indotto a scegliere il tracciato dell’Aurelia, ma bisogna ricontrattare con la SAT la concessione. Nel tratto maremmano l’autostrada deve essere aperta, chi l’attraversa non deve pagare il pedaggio; e non per solo 5 anni. Esistono certamente le modalità tecniche che lo consentono. Per lottare per questa soluzione bisogna che i difensori dell’interesse collettivo si attrezzino e sottopongano a un attento vaglio critico le convenzioni che Stato e SAT hanno stipulato. L’antico maestro Guglielmo Zambrini ci ha insegnato che con atti unilateralmente favorevoli alle società concessionarie lo stato si è spogliato perfino delle mutande, e che la costruzione di autostrade, in Italia, è per i privati un affare che produce laute e prolungate rendite, anziché onesti profitti imprenditoriali.
Diretto, feroce, semplice l'applauditissimo proclama, in triplice copia, inviato ai cittadini italiani dalla tribuna di Comunione e Liberazione: prima Marcegaglia («Basta con la lotta di classe»), poi Tremonti («La legge sulla sicurezza sul lavoro è un lusso), e nel gran finale Marchionne («Abbandonare la lotta tra capitale e lavoro»).
La presidente degli industriali e l'amministratore delegato della Fiat invitano il mondo del lavoro a farla finita con la cultura degli anni '60, con quell'idea primitiva del conflitto tra padroni e operai in difesa di diritti e salari. Per affrontare senza indugi la competizione globale ci vuole una grande riforma, il mondo non aspetta e, ricorda il ministro Tremonti, «l'Italia e l'Europa devono adeguarsi». Al terzetto è doveroso aggiungere il nome del ministro Maroni, pronto a ripulire il belpaese dall'ingombro dei rom (troppe donne e bambini).
L'estate delle chiacchiere politiche («stronzo», «trafficante di banche», «Fini è una merda») finalmente può lasciare il campo alla nuova igiene della globalizzazione dettata dagli uomini del fare.
L'arroganza del pensiero e del linguaggio vestono gli screditati pulpiti da cui provengono i nuovi comandamenti. Come consigliava ieri sul Corriere della Sera, Massimo Mucchetti, l'uomo d'oro della Fiat potrebbe trovare giovamento da un corso di aggiornamento professionale alla Volkswagen, e , aggiungiamo, leggendo con attenzione le parole rivolte dal presidente Napolitano ai tre operai di Melfi, sulla dignità di chi lavora, potrebbe anche riflettere su cosa misurare la modernità. Capirebbe (il condizionale è d'obbligo) che «il lavoro non esiste solo per essere pagati ma per la dignità dell'uomo», come gli ha ricordato monsignor Bregantini, un ministro di dio e della Cei, che con questa idea cristiana non avrebbe guadagnato l'applausometro riservato all'uomo-Fiat dai devoti ciellini.
Quanto al pulpito di Confindustria, Marcegaglia che invoca la fine della lotta di classe, è la stessa che nella relazione di insediamento alla presidenza dell'associazione volle comunicare al paese come, con Berlusconi IV, in Italia si fosse creata «una situazione favorevole al cambiamento». Una donna con il dono della lungimiranza.
Ma il campione che li sopravanza, l'uomo illuminato da «dio, patria e famiglia», è il super ministro Tremonti. I suoi principi morali non gli consentono infingimenti, né doroteismi da prima repubblica. Eccolo annunciare che prima ci si libera dei vincoli di sicurezza sui posti di lavoro, meglio è. In realtà su questo fronte l'Italia non è un paese che si lascia superare facilmente nelle classifiche europee, avendo a lungo mantenuto i primi posti. Però nel 2009 la crisi, con la disoccupazione, ha abbassato la media e ora dobbiamo recuperare. Di fronte alla salute dell'economia, quella del singolo lavoratore è un prezzo da pagare alle sorti progressive dell'umanità. Pazienza se il panorama sarà appesantito da invalidi e cadaveri: i primi al massimo disturberanno l'estetica, i defunti nemmeno quella.
Nella società dell’audience, le dicerie si sono conquistate un loro pubblico, molto corteggiato e alimentato. Se nelle monarchie assolute era sufficiente far circolare fra i pochi cortigiani una diceria contro un nemico designato, nella società mediatica le dicerie devono estendere il loro raggio d’azione per poter colpire nel segno. Benché l’effetto "sasso nello stagno" sia lo stesso, il fenomeno è oggi molto più pervasivo a causa del processo di auto-alimentazione della tecnologia informatica. Sembra che una delle ragioni che muove gli Internet addicted sia proprio il desiderio di sapere qualcosa in più degli altri per poter aggiungere qualcosa in più alla chiacchiera con gli amici. In questa atmosfera di bulimia della novità, diventa più difficile distinguere con chiarezza la chiacchiera, il gossip, dalla calunnia; e su questa oggettiva difficoltà i quotidiani italiani di questi giorni fanno le loro prime pagine, soprattutto il giornale che fa capo al presidente del Consiglio (è un fatto sorprendente in un paese democratico che il capo della maggioranza possieda, come famiglia, un quotidiano nazionale).
Ha scritto Cass Sunstein in On Rumors, recentemente tradotto da Feltrinelli col titolo Voci, gossip e false dicerie, che uno dei processi attraverso i quali le dicerie si diffondono è per "cascata": se la maggior parte delle persone che conosciamo crede in una diceria, tendiamo a crederci anche noi perché «in mancanza di informazioni di prima mano accettiamo le opinioni degli altri»; se poi "gli altri" hanno le nostre stesse idee, allora questa diceria è naturalmente accreditata ai nostri occhi. Ci crediamo. Più siamo pregiudizialmente identificati con un’idea o un gruppo più siamo facili a credere a ciò che più conviene a quell’idea o a quel gruppo. Questo significa che in un paese politicamente polarizzato come l’Italia le dicerie hanno grande corso. È a questo presupposto che la fortuna politica di leader e candidati fa affidamento.
Anche per una ragione semplice: perché, benché la rete ci dia l’illusione di avere il mondo tra le dita, è un fatto che le notizie non le produciamo noi direttamente ma le riceviamo già digerite, se così si può dire, confezionate in modo da conquistare la nostra fiducia (ma meglio sarebbe dire credulità) o, più semplicemente, approfittare della nostra propensione a credere in ciò che non possiamo provare. «Una cascata ha luogo quando capiscuola, leader, promuovono certe affermazioni e comportamenti, e altre persone li seguono. In economia le dicerie possono alimentare una bolla speculativa»; in politica possono far nascere emozioni di repulsione o innamoramento per un leader, oppure la paura per un fenomeno (per esempio l’immigrazione). Quel che è peggio, possono alimentare discredito per la politica e lo Stato (il detto "sono tutti ladri"). L’effetto "cascata" è così forte – e chi lo alimenta sa che è forte e scommette su questo – da far sì che l’esito di una diceria che si afferma in questo modo finisce per rendere inefficace ogni informazione che possa correggerla o negarla.
Il problema è che la diceria vive della stessa aria di cui vive la democrazia: la libertà di parola. Una democrazia non può esistere se i suoi cittadini non godono della libertà di dire quello che pensano, anche quando quello che pensano non è corretto. Il codice non si occupa delle dicerie, ma consente la denuncia per colpire una diceria che si fa affermazione falsa fatta con malevolenza (questa è la calunnia), ovvero per danneggiare la reputazione di qualcuno o qualche cosa. Nel nostro codice il delitto di calunnia è stato collocato tra i delitti contro l’amministrazione della giustizia perché considerato reato in grado di offendere non solo la rispettabilità del soggetto calunniato ma anche il regolare svolgimento dell’amministrazione della giustizia da parte dello Stato.
Ma la diceria non è né può essere reato, non è né può essere trattato come la calunnia. Nel caso della diceria, quindi, occorre fare affidamento sul civismo e la responsabilità degli operatori dell’informazione. Non è un caso che per i cattolici l’affermazione diffamante sia un peccato anche quando non violi alcuna legge civile. I credenti sopperiscono con il timore della punizione divina al silenzio della legge civile. Chi si rifà a un’etica laica usa argomenti come il senso del rispetto per gli altri - scriveva Cicerone che il rispetto e la sincerità sono la condizione senza la quale non si dà amicizia, aggiungendo che in una repubblica la cittadinanza è una forma di amicizia. Comunque sia, dove non c’è dolo e proprio perché la libertà di parola è sacra in un governo libero, occorre saper trovare ragioni di autocontrollo negli individui. La questione morale implicata nella diceria è delicata anche perché, pur supponendo che la persona che ne è vittima riesca a provare che quella voce non corrisponde al vero, il suo nome può tuttavia restare associato a quella diceria per molto tempo nella memoria della gente. Aggiungiamo che quando la persona ricopre incarichi istituzionali, ad essere compromessa è anche, anzi soprattutto, l’istituzione. Il persistente richiamo del presidente della Repubblica a tenere fuori le istituzioni dal "gioco al massacro" che si sta consumando in questi giorni, è ispirato da questa consapevolezza.
Parlare di cultura morale significa spostare l’attenzione dal fatto all’intenzione. Ora, che ruolo ha l’intenzione del perpetrante in questo gioco al massacro che è la diceria? Molta, poiché, spiega ancora Sunstein, le dicerie si diffondono e si propagano perché chi le mette in circolo conosce molto bene i meccanismi di diffusione e gli effetti. Per questa ragione la responsabilità morale di chi opera nell’informazione - di chi confeziona le notizie dalle quali nascono le credenze - è grande anche, anzi soprattutto, quando non ci siano risvolti penali. Che i cittadini debbano essere esposti a notizie veritiere, ci ammonisce costantemente Gustavo Zagrebelsky, che le informazioni che riceviamo (naturalmente insieme a giudizi e quindi tinte di opinioni e preferenze) siano equilibrate, che si sappia e si voglia fare distinzione tra mezzi di informazione e mezzi di propaganda: tutto questo si appoggia su null’altro che il senso di una responsabile libertà democratica, che non è una libertà da stato di natura, né è fatta per danneggiare gli altri e le istituzioni.
Anche Milano ha la sua Tor Bella Monaca. È il Giambellino, quartiere di case Aler d’inizio secolo, d’immigrati vecchi e nuovi, di alloggi popolari e di degrado. Troppo degradato per sperare di cambiarlo. «Stiamo verificando se ci sono situazioni che possano richiedere interventi di questo tipo», dice Letizia Moratti, in visita a una casa confiscata alla mafia e assegnata a un’associazione non-profit, e rispondendo a una domanda dei cronisti sul tema di eventuali demolizioni dei quartieri più a rischio. Il sindaco non fa nomi, e anzi, subito dopo, ingrana la retromarcia: «Verificheremo, valuteremo, studieremo. Al momento comunque non c’è nessun progetto concreto». Sono però i suoi assessori a confermare che Palazzo Marino è intenzionato a seguire la via «romana » . L’assessore alla Casa, Gianni Verga, cita un precedente che può fare scuola: «Via Fetrinelli. Per togliere l’amianto dalla case bianche abbiamo trasferito un bel numero d’inquilini. Tra pochi mesi interverremo nelle torri di via Tofano, a Baggio. E poi nelle casette di via Barzoni al Corvetto».
Ma la vera sfida si chiama Giambellino-Lorenteggio. Verga conferma che si tratta di una soluzione ancora da studiare e da verificare, ma l’intenzione è quella: «Lì, al Giambellino, gli alloggi Aler sono troppo fatiscenti e degradati. Ristrutturare rischierebbe di essere uno sforzo inutile». L’idea allora è di demolire con chirurgica precisione. «Interventi mirati, non vogliamo mica distruggere un intero quartiere», assicura l’assessore. Si lavorerà di bisturi prima d’azionare le ruspe.
L’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, dice che «per ora il tema è solo quello di realizzare nuovi alloggi popolari in sostituzione di quelli più non più riqualificabili». «Via Cogne, via Civitavecchia, via Ovada: potremmo prevedere di riservare una quota delle case convenzionate in realizzazione proprio a chi dovrà traslocare dai vecchi quartieri Aler». D’accordo «in linea di principio» anche il vicesindaco Riccardo De Corato. Che mette però l’accento sulla necessità di trovare soluzioni condivise con i residenti sfrattati «causa degrado»: «La mappa dei quartieri a rischio è facile facile», suggerisce: «Stadera, Corvetto, San Siro. Solo per fare tre nomi di altrettante zone dove le case Aler sono ormai troppo vecchie».
Insorge intanto l’opposizione. Roberto Cornelli, segretario metropolitano del Pd, è durissimo: «Le periferie di Milano hanno bisogno di servizi e attenzione alla qualità della vita. Dopo 5 anni di governo è allarmante che il sindaco Moratti voglia abbattere interi quartieri e non precisi nemmeno di quali luoghi stia parlando».
La demolizione del quartiere, auspicata da Alemanno, quale sintomo di un male maggiore
Edoardo Salzano (audio), una delle voci più autorevoli dell'urbanistica italiana, afferma che «i problemi della città andrebbero seguiti nel tempo, con un'attenzione continua». La proposta del sindaco di Roma Gianni Alemanno di demolire il quartiere di Tor Bella Monaca e riqualificarlo, sarebbe solo un particolare caso di una pratica edilizia generalizzante. «Se il progetto fosse quello di rendere più vivibile le periferie romane, si farebbe come si fa negli altri paesi o si è fatto in altri tempi in Italia: coinvolgere i cittadini in una discussione sui problemi e sui modi per risolverli».
La diffusione della “cultura dell'abitare” è l'intento che da decenni muove Edoardo Salzano, urbanista d'esperienza e fondatore del sito eddyburg.it, punto di riferimento del settore. Non rientrerebbe in una politica vicina al cittadino la proposta lanciata dal sindaco di Roma Alemanno di demolire e ricostruire il disagiato quartiere di Tor Bella Monaca. «Bisogna capire se la città deve essere organizzata, perché gli uomini vivano meglio o semplicemente per far aumentare il PIL», sostiene Salzano.
Il buon senso civile. L'esempio di Berdini
L'urbanista sostiene che «il nodo della questione, di cui nessuno sulla stampa quotidiana ha parlato, è capire in che modo si considera la città. Se si demolisce per poi ricostruire, c'è chi specula e non ci si occupa seriamente dei problemi degli abitanti». In tal senso un esempio viene dall'ingegnere Paolo Berdini, in un articolo apparso ieri sul Manifesto: «Il merito di Berdini è di aver usato parole di buon senso, che quindi risultano strane. Parla concretamente, come si fa negli altri paesi dove le questioni urbane sono seguite per costruire e progettare sistematicamente la città».
Dare voce ai cittadini
Il problema, secondo Salzano, non è l'iniziativa di Alemanno in sé e per sé, quanto «il modo che hanno i politici italiani, a partire da quelli di Destra, di affrontare le questioni della città, spesso mero pretesto per fare delle “sparate”. La cosa non ha nessun senso: è semplicemente distruttiva». Occorrerebbe un coinvolgimento maggiore e partecipato della società civile, un «lavoro lunghissimo» che però darebbe «spazio, voci e servizi a quella pluralità di centri in cui i cittadini stanno ricominciando a fare politica. Sto parlando dei comitati, dei gruppi di cittadinanza attiva e delle associazioni presenti sul territorio».
(ami) 2010-08-26 08:55:26
Qui, cliccando sull'apposito simbolo, potete sentire l'intervusta in audio
Si livella il terreno distruggendo le strutture sottostanti. Nessun intervento del Commissario Delegato alle aree di Ostia e Roma. Beni in rovina nel XIII Municipio e nel Comune di Fiumicino. Gli unici interventi in 2 anni: manutenzione del verde e i servizi igienici del Teatro di Ostia. Presentato esposto alla procura di Roma.
"Le aziende di 'prato pronto' che operano nell'area di Pianabella, dietro il cimitero di Ostia Antica, stanno distruggendo secoli di storia, senza che il Commissario Delegato per le aree archeologiche di Roma e Ostia Antica, Roberto Cecchi, dica nulla". Questa l'accusa di Andrea Schiavone, Presidente dell'Associzione Culturale Severiana. "L'area in questione, l'ultima tra le tante, è quella prospiciente l'Azienda Bindi. La recente preparazione del terreno per produrre il cosidetto 'prato pronto', che si impiega nei giardini privati e nei campi di calcio, ha distrutto probabilmente resti di un sepolcro romano, identificato sul posto per la presenza di un cumulo". Le foto testimoniano la notevole quantità di materiale archeologico 'grattato' via dal terreno. Anse e fondi di anfore, lastre di marmo, tegole e resti di sepolture in terracotta. In quel tratto correva infatti la Via Laurentina che, uscendo da Ostia Antica, era costellata di tombe, fino a raggiungere il ponte sul Canale dei Pescatori dove si unificava con la via costiera detta Severiana. "E' inammissibile che proprio la Soprintendenza di Ostia abbia autorizzato questo scempio, senza effettuare alcun controllo - continua Schiavone -. Domani presenteremo un dettagliato esposto alla Procura di Roma e al Commissario Delegato".
Ricordiamo che con Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3774/2009 l’arch. Roberto Cecchi è subentrato al Sottosegretario di Stato Guido Bertolaso (OPCM 3747/2009), dimessosi dall’incarico a seguito dell’emergenza dovuta al rovinoso evento sismico dell’Abruzzo (aprile u.s.). Il commissariamento era stato motivato per la realizzazione di interventi urgenti necessari al fine di superare la situazione di grave pericolo in atto nelle aree archeologiche di Roma e Ostia Antica. Ad oggi, per quanto riguarda il XIII Municipio e il Comune di Fiumicino (aree di competenza della ex Soprintendenza di Ostia), nessuna misura diretta alla messa in sicurezza e alla salvaguardia dei beni è stata pianificata e neppure opere di manutenzione straordinaria e consolidamento per impedire il degrado dei beni e per consentire la piena fruizione da parte dei visitatori. Le uniche voci che risultano nel secondo rapporto settembre 2009-febbraio 2010 del Piano degli Interventi, sono le seguenti: manutenzione del verde nell'area archeologica degli scavi e i 'servizi igienici del Teatro di Ostia Antica'. In totale, 129 mila euro. Intorno è degrado e distruzione.
L’idea (già in atto) è quella di costruire nella collinetta che sovrasta la spiaggia di Tuerredda, a due passi da Teulada e Capo Malfatano, un complesso turistico a cinque stelle ed ecocompatibile. Un lavoro, nelle intenzioni dei costruttori, da terminare entro il 2012.
Di questo progetto fanno parte un albergo articolato su più edifici, con terme, ristoranti, centro sportivo e piscine. Poi tante villette al massimo su due livelli, con grandi giardini che «si adegueranno al paesaggio con colta semplicità». In totale 150mila metri cubi di cemento che pian piano stanno già colando su una delle più belle e incontaminate zone della Sardegna sud-occidentale. Tutto con il beneplacito dell’amministrazione comunale di Teulada e persino della giuria del «Real Estate Awards», che ha recentemente premiato l’iniziativa immobiliare con il «Mattone d’oro».
A costruire su 700 ettari il «Capo Malfatano Resort» sarà la società Sitas, una cordata di imprese di cui fa parte la Sansedoni spa (40 per cento, controllata dal Monte dei paschi di Siena), la Benetton (25 per cento, attraverso la Ricerca finanziaria spa), il gruppo Toffano (24 per cento) e il gruppo Toti (11 per cento). La gestione dell’albergo sarà invece affidata alla Mita spa, la società dal gruppo Marcegaglia, che in Sardegna già amministra il Forte Village, a Santa Margherita di Pula, e l’ex arsenale della Maddalena.
Gianni Albai, sindaco di Teulada, non nasconde l’ entusiasmo per il progetto, che a suo parere mostra evidenti vantaggi per la collettività. L’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas, risalente al marzo scorso, prevede che i costruttori rinuncino a parte di metri cubi che inizialmente avevano proposto di edificare. «Nel dettaglio - spiega il primo cittadino di Teulada - la Sitas ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu, dove nascerà presto un parco ambientale. Ma cederà anche - continua il sindaco Albai - le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione di far sorgere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis».
In realtà, l’accordo mette in risalto anche i vantaggi che dal progetto potrebbero derivare alla collettività in termini occupazionali ed economici, ma riconosce pure uno speciale contributo di 200 euro a metro cubo a favore del Comune in caso di modifica delle destinazioni d’uso «da alberghiero in residenziale», riservando alla società la «possibilità di variare l’impianto planivolumetrico complessivo e il mix destinazione d’uso per le adeguarli alle attuali esigenze e aspettative del mercato turistico». In altre parole - e la cosa non è sfuggita agli ambientalisti - secondo l’accordo la società si riserverebbe di stabilire che cosa edificare e in quale quantità con criterio di un’imprecisata razionalità di progetto e di un altrettanto imprecisata esigenza del mercato turistico.
«È da tempo - spiega Stefano Deliperi, rappresentante del Gruppo d’intervento giuridico e Amici della Terra - che su questo autentico paradiso costiero incombe il tentativo speculativo. Negli anni Settanta del secolo scorso furono i lombardi Monzino a progettare su quasi 900 ettari di litorale la nuova Costa Smeralda nel sud Sardegna. Si doveva chiamare Costa Dorada: alberghi, ville, campi da golf con centinaia di migliaia di metri cubi di volumetrie. Non se ne fece quasi nulla». Soltanto la durissima opposizione legale delle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico e Amici della Terra condusse alle condanne in sede penale e alla successiva demolizione delle opere abusive del tentativo speculativo nella splendida baia di Piscinnì, enclave amministrativa di Domus de Maria, portata avanti in un primo momento dal gruppo Monzino e successivamente da una società aderente alla Lega delle Cooperative.
«Ci sono parecchie ragioni - continua Deliperi - per le quali ci opponiamo alla costruzione di questo resort. Tanto per incominciare quello di Teulada è uno dei pochi tratti di costa così estesi in tutto il Mediterraneo dove nessuno ha mai costruito. In secondo luogo, le tanto sbandierate concessioni fatte dalla Sitas al Comune sono in parte obbligatorie per legge e comunque le aree cedute sono inedificabili o perché a meno di 300 metri dal mare o perché in zona archeologica». Per gli Amici della terra, poi, si poteva puntare sul turismo in altri termini. «Ad esempio - spiega ancora Deliperi - recuperando i tanti furriadroxiu della zona sino a farne una rete di tanti piccoli resort. Un’idea che avrebbe davvero attirato molti villeggianti d’élite con ricadute economiche nel paese. Mentre un resort autosufficiente alla gente di Teulada può dare soltanto posti da giardiniere e da cameriere».
Deliperi, parla anche del problema delle spiagge. «Quelle della zona sono già sovraffolate - conclude - e adesso che gli alberghi avranno le spiagge private, i cittadini normali dove andranno?»
IL SINDACO
Sarà un’occasione di sviluppo per il nostro paese
«Il resort a cinque stelle che la Sitas sta costruendo davanti a Tuerredda è una grande opportunità per la nostra zona». Giovanni Albai, 57 anni, impresario edile, dal 2005 sindaco di Teulada, ha le idee chiare sul progetto «Malfatano resort». E non teme neanche che per via del suo mestiere qualcuno lo accusi di tirare il carro dalla parte del mattone. «Impossibile - dice - la mia impresa edile è ferma da anni».
Ma perché crede tanto in questo progetto? «In primis perché è da anni che a livello comunale programmiamo un intervento ricettivo. Poi perché basta fare un giro a Teulada per capire che questo resort lo vogliono tutti. E non solo perché ci sarà una ricaduta in termini occupazionali, ma soprattutto perché ci consentirà finalmente di fare una promozione turistica adeguata alla bellezza del territorio. E sia chiaro, io non sogno la Costa Dorada che deve fare concorrenza alla Costa Smeralda, vorrei soltanto condizioni economiche migliori per la popolazione che rappresento».
Tra i vantaggi che dovrebbero ricadere sugli abitanti della zona, Albai ricorda quelli compresi nell’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas. «La società ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu - spiega il sindaco - dove nascerà presto un parco ambientale e così metteremo la prola fine a ogni aspettativa su una zona che va assolutamente tutelata. Ma la Sitas cederà anche le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione, con la collaborazione della Sovrintendenza ai beni culturali e l’Università di Cagliari, di far nascere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis. Inoltre, sempre con la collaborazione della Sovrintendenza e dell’Università, si potrebbero fare degli scavi archeologici che possono riservare grandi sorprese».
Ovidio Marras, pastore resistente a Tuerredda
Ottantuno anni, ha detto no alle offerte degli imprenditori che vogliono comprare la sua terra
Ha detto «no» a una cordata di facoltosi imprenditori che volevano compragli casa e terreno a qualche centinaio di metri dalla spiaggia di Tuerredda. Ed è anche per questo motivo che gli ambientalisti lo hanno eletto a simbolo della resistenza contro i «signori del mattone». Lui, Ovidio Marras, ottantun anni portanti con il fisico secco e nervoso di chi ancora si china sui campi per lavorare dall’alba al tramonto, dal suo furriadroxiu non se ne vorrebbe andare mai. Ci arrivi lasciando alle spalle migliaia di metri cubi in costruzione, infestanti, ben visibili anche dalla statale. Poi ti fermi sull’aia luminosa e nella testa ti frullano le parole promozionali della Mita resort, che parla di «colta semplicità».
Ovidio Marras, il pastore contadino accerchiato dalle imprese, alleva pecore e vacche, coltiva un orto e vive in una condizione di libertà che nessun gruppo economico, neppure il più verde, può dargli. E le parole della Mita appaiono poco verosimili, visto che gli unici elementi che con vera «colta semplicità assecondano i movimenti dolci del terreno» sono la casa di Ovidio, i suoi muretti a secco, le sue pecore polverose e i suoi pomodori rosso fiamma. Ma soprattutto lui, Ovidio, asseconda le linee della sua terra e la rappresenta alla perfezione, in armonia. È fatto in economia, Ovidio, asciutto come la terra sulla quale cammina, cotto dal sole, una faccia salmastra, è un’allegoria perfetta dei luoghi. Abita i luoghi e li rappresenta, spiega con il suo passo, i gesti secchi al limite del brusco e lunghi silenzi come quei luoghi devono essere utilizzati e rispettati. Lui, è il padrone dei luoghi. I «padovani», come li chiama lui, non lo saranno mai, anche se quei luoghi li hanno in par
Di questo progetto fanno parte un albergo articolato su più edifici, con terme, ristoranti, centro sportivo e piscine. Poi tante villette al massimo su due livelli, con grandi giardini che «si adegueranno al paesaggio con colta semplicità». In totale 150mila metri cubi di cemento che pian piano stanno già colando su una delle più belle e incontaminate zone della Sardegna sud-occidentale. Tutto con il beneplacito dell’amministrazione comunale di Teulada e persino della giuria del «Real Estate Awards», che ha recentemente premiato l’iniziativa immobiliare con il «Mattone d’oro».
A costruire su 700 ettari il «Capo Malfatano Resort» sarà la società Sitas, una cordata di imprese di cui fa parte la Sansedoni spa (40 per cento, controllata dal Monte dei paschi di Siena), la Benetton (25 per cento, attraverso la Ricerca finanziaria spa), il gruppo Toffano (24 per cento) e il gruppo Toti (11 per cento). La gestione dell’albergo sarà invece affidata alla Mita spa, la società dal gruppo Marcegaglia, che in Sardegna già amministra il Forte Village, a Santa Margherita di Pula, e l’ex arsenale della Maddalena.
Gianni Albai, sindaco di Teulada, non nasconde l’ entusiasmo per il progetto, che a suo parere mostra evidenti vantaggi per la collettività. L’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas, risalente al marzo scorso, prevede che i costruttori rinuncino a parte di metri cubi che inizialmente avevano proposto di edificare. «Nel dettaglio - spiega il primo cittadino di Teulada - la Sitas ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu, dove nascerà presto un parco ambientale. Ma cederà anche - continua il sindaco Albai - le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione di far sorgere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis».
In realtà, l’accordo mette in risalto anche i vantaggi che dal progetto potrebbero derivare alla collettività in termini occupazionali ed economici, ma riconosce pure uno speciale contributo di 200 euro a metro cubo a favore del Comune in caso di modifica delle destinazioni d’uso «da alberghiero in residenziale», riservando alla società la «possibilità di variare l’impianto planivolumetrico complessivo e il mix destinazione d’uso per le adeguarli alle attuali esigenze e aspettative del mercato turistico». In altre parole - e la cosa non è sfuggita agli ambientalisti - secondo l’accordo la società si riserverebbe di stabilire che cosa edificare e in quale quantità con criterio di un’imprecisata razionalità di progetto e di un altrettanto imprecisata esigenza del mercato turistico.
«È da tempo - spiega Stefano Deliperi, rappresentante del Gruppo d’intervento giuridico e Amici della Terra - che su questo autentico paradiso costiero incombe il tentativo speculativo. Negli anni Settanta del secolo scorso furono i lombardi Monzino a progettare su quasi 900 ettari di litorale la nuova Costa Smeralda nel sud Sardegna. Si doveva chiamare Costa Dorada: alberghi, ville, campi da golf con centinaia di migliaia di metri cubi di volumetrie. Non se ne fece quasi nulla». Soltanto la durissima opposizione legale delle associazioni ecologiste Gruppo d’Intervento Giuridico e Amici della Terra condusse alle condanne in sede penale e alla successiva demolizione delle opere abusive del tentativo speculativo nella splendida baia di Piscinnì, enclave amministrativa di Domus de Maria, portata avanti in un primo momento dal gruppo Monzino e successivamente da una società aderente alla Lega delle Cooperative.
«Ci sono parecchie ragioni - continua Deliperi - per le quali ci opponiamo alla costruzione di questo resort. Tanto per incominciare quello di Teulada è uno dei pochi tratti di costa così estesi in tutto il Mediterraneo dove nessuno ha mai costruito. In secondo luogo, le tanto sbandierate concessioni fatte dalla Sitas al Comune sono in parte obbligatorie per legge e comunque le aree cedute sono inedificabili o perché a meno di 300 metri dal mare o perché in zona archeologica». Per gli Amici della terra, poi, si poteva puntare sul turismo in altri termini. «Ad esempio - spiega ancora Deliperi - recuperando i tanti furriadroxiu della zona sino a farne una rete di tanti piccoli resort. Un’idea che avrebbe davvero attirato molti villeggianti d’élite con ricadute economiche nel paese. Mentre un resort autosufficiente alla gente di Teulada può dare soltanto posti da giardiniere e da cameriere».
Deliperi, parla anche del problema delle spiagge. «Quelle della zona sono già sovraffolate - conclude - e adesso che gli alberghi avranno le spiagge private, i cittadini normali dove andranno?»
IL SINDACO
Sarà un’occasione di sviluppo per il nostro paese
«Il resort a cinque stelle che la Sitas sta costruendo davanti a Tuerredda è una grande opportunità per la nostra zona». Giovanni Albai, 57 anni, impresario edile, dal 2005 sindaco di Teulada, ha le idee chiare sul progetto «Malfatano resort». E non teme neanche che per via del suo mestiere qualcuno lo accusi di tirare il carro dalla parte del mattone. «Impossibile - dice - la mia impresa edile è ferma da anni».
Ma perché crede tanto in questo progetto? «In primis perché è da anni che a livello comunale programmiamo un intervento ricettivo. Poi perché basta fare un giro a Teulada per capire che questo resort lo vogliono tutti. E non solo perché ci sarà una ricaduta in termini occupazionali, ma soprattutto perché ci consentirà finalmente di fare una promozione turistica adeguata alla bellezza del territorio. E sia chiaro, io non sogno la Costa Dorada che deve fare concorrenza alla Costa Smeralda, vorrei soltanto condizioni economiche migliori per la popolazione che rappresento».
Tra i vantaggi che dovrebbero ricadere sugli abitanti della zona, Albai ricorda quelli compresi nell’ accordo integrativo di procedimento tra il Comune di Teulada e la Sitas. «La società ci cederà 180 ettari nelle aree di Sa Calarza e di Antonareddu - spiega il sindaco - dove nascerà presto un parco ambientale e così metteremo la prola fine a ogni aspettativa su una zona che va assolutamente tutelata. Ma la Sitas cederà anche le aree adiacenti alla peschiera e alla laguna di Malfatano, dove abbiamo intenzione, con la collaborazione della Sovrintendenza ai beni culturali e l’Università di Cagliari, di far nascere un parco archeologico avente come perno fondamentale i reperti fenicio-punici di Porto Herculis. Inoltre, sempre con la collaborazione della Sovrintendenza e dell’Università, si potrebbero fare degli scavi archeologici che possono riservare grandi sorprese».
Ovidio Marras, pastore resistente a Tuerredda
Ottantuno anni, ha detto no alle offerte degli imprenditori che vogliono comprare la sua terra
Ha detto «no» a una cordata di facoltosi imprenditori che volevano compragli casa e terreno a qualche centinaio di metri dalla spiaggia di Tuerredda. Ed è anche per questo motivo che gli ambientalisti lo hanno eletto a simbolo della resistenza contro i «signori del mattone». Lui, Ovidio Marras, ottantun anni portanti con il fisico secco e nervoso di chi ancora si china sui campi per lavorare dall’alba al tramonto, dal suo furriadroxiu non se ne vorrebbe andare mai. Ci arrivi lasciando alle spalle migliaia di metri cubi in costruzione, infestanti, ben visibili anche dalla statale. Poi ti fermi sull’aia luminosa e nella testa ti frullano le parole promozionali della Mita resort, che parla di «colta semplicità».
Ovidio Marras, il pastore contadino accerchiato dalle imprese, alleva pecore e vacche, coltiva un orto e vive in una condizione di libertà che nessun gruppo economico, neppure il più verde, può dargli. E le parole della Mita appaiono poco verosimili, visto che gli unici elementi che con vera «colta semplicità assecondano i movimenti dolci del terreno» sono la casa di Ovidio, i suoi muretti a secco, le sue pecore polverose e i suoi pomodori rosso fiamma. Ma soprattutto lui, Ovidio, asseconda le linee della sua terra e la rappresenta alla perfezione, in armonia. È fatto in economia, Ovidio, asciutto come la terra sulla quale cammina, cotto dal sole, una faccia salmastra, è un’allegoria perfetta dei luoghi. Abita i luoghi e li rappresenta, spiega con il suo passo, i gesti secchi al limite del brusco e lunghi silenzi come quei luoghi devono essere utilizzati e rispettati. Lui, è il padrone dei luoghi. I «padovani», come li chiama lui, non lo saranno mai, anche se quei luoghi li hanno in parte comprati.