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Le città sono sempre più grandi. E nel 2050 quelle con oltre 10 milioni di abitanti saranno 27

di Federico Rampini

Chongqing e Chennai, Karachi e Lagos, Dhaka e Kinshasa: è ora di cominciare a imparare questi nomi, a situarli sul mappamondo, a fissarli nella gerarchia geopolitica delle nostre notizie. Il pianeta è avviato verso una nuova rivoluzione: il trionfo delle mega-metropoli. Entro i prossimi quarant´anni ci saranno almeno 27 super-concentrazioni urbane, avviate alla soglia dei 20 milioni di abitanti, alcune delle quali oltre i 30 milioni. E´ una trasformazione che avrà ripercussioni in ogni campo: dagli stili di vita ai consumi culturali, dall´energia all´ambiente, fino agli equilibri politici e ai sistemi di governo. Uno studio che sta per uscire negli Stati Uniti, "The World in 2050" dello scienziato Laurence C. Smith, geografo della University of California Los Angeles, getta una nuova luce sulle conseguenze di questa profonda trasformazione.

"The World in 2050", fondato su proiezioni demografiche ormai ad alto livello di precisione, disegna un pianeta dove «non soltanto il baricentro di ricchezza e potere si sposta da Occidente verso Oriente, ma emerge di prepotenza anche il Sud», con l´America latina e una sorprendente Africa. «Cambiano drasticamente la natura e il ruolo dei flussi migratori». E la lotta per le risorse naturali si spingerà verso frontiere sempre più distanti: «La conquista del Nuovo Nord» (per le riserve d´acqua contenute nei ghiacci dell´Artide, e i giacimenti di gas-petrolio sotto la calotta polare) o la sfida per la colonizzazione dello spazio.

In parte tutto questo è già iniziato, avviene sotto i nostri occhi. Nel 1950 c´erano solo due aree metropolitane oltre la soglia dei dieci milioni, New York e Tokyo. Già oggi quella soglia è superata da decine di altre mega-città, molte delle quali nei paesi emergenti. Il 2010 è stato infatti l´anno del sorpasso storico città-campagna, è la prima volta dalle origini della civiltà umana che gli abitanti delle zone urbane hanno superato i contadini e gli altri residenti rurali. Ma il mutamento verrà accelerato nei prossimi anni, con ripercussioni ben più sconvolgenti sul mondo in cui vivranno i nostri figli e nipoti. Per esempio, "metropoli" è un termine di origine greca e che noi associamo a un modello di vita affermatosi in Occidente: il Rinascimento vide il fiorire delle città-Stato in Italia, nel Settecento Napoli era una delle capitali più popolose d´Europa, l´Ottocento e il Novecento sono segnati dai grandi progetti urbani delle capitali imperiali come Vienna e Parigi, Londra e Berlino. E oggi uno dei trend che spingono verso la megalopoli è nato ancora in Occidente: è il ritorno in città delle nuove generazioni di americani.

La confluenza tra crisi economica, nuovi modelli di consumo, immigrazione, ribaltano l´American Way of Life. Nel mezzo secolo precedente le città americane si erano svuotate di abitanti: la middle class si era spostata verso i "suburbs" con le villette a schiera, i quartieri residenziali delle periferie, mentre i centri urbani erano zone di uffici la cui popolazione scompariva la sera. Ora è in atto il movimento inverso: i vincoli energetici, l´alto costo dei trasporti, ma anche l´attrazione dei giovani per i consumi culturali (musei, teatri, cinema) hanno innescato un grande esodo di segno opposto. Rafforzato dagli immigrati che tendono anch´essi ad affluire verso i centri urbani.

L´area metropolitana New York-Newark vede risalire la popolazione e avrà anch´essa sorpassato la soglia dei 20 milioni nell´orizzonte 2050. La sua unica rivale del 1950, Tokyo, farà ancora meglio: è avviata ai 36 milioni di abitanti nei prossimi 40 anni. Tra le città storiche anche Londra e Parigi sono nel club destinato agli oltre 10 milioni. Ma il revival delle metropoli nei paesi di vecchia industrializzazione è solo un pezzetto della storia, e non il più importante. Il boom delle mega-metropoli è trainato soprattutto dai paesi emergenti. Il binomio sviluppo-urbanizzazione torna a funzionare perfettamente, solo che il centro della crescita economica è altrove. La Cina di "The World in 2050" avrà un Pil di 44.500 miliardi di dollari, nettamente superiore a quello degli Stati Uniti (35.000 miliardi). Subito dietro l´America sarà incalzata dal prossimo inseguitore, l´India con 27.800 miliardi di dollari di Pil. In quinta posizione il Brasile pronto al sorpasso sul Giappone mentre nessun paese europeo si piazzerà nel quintetto dei leader.

Demografia ed economia andranno a braccetto, perciò non stupisce ritrovare così tante mega-metropoli del futuro in India: Mumbai con 26 milioni, Delhi con 22,5 milioni, Calcutta venti, e Chennai (ex Madras) oltre i dieci. In Cina le misurazioni del geografo Smith sono già superate dalla realtà. Pechino ad esempio, sulla carta si vede attribuire "solo" 14,5 milioni di cittadini ma in realtà sfiora già i venti perché la sua popolazione è "esondata" oltre il sesto anello del raccordo anulare e la capitale cinese si è annessa di fatto numerose municipalità limitrofe. Per la stessa ragione non compare negli schermi radar del Dipartimento Geografia di Ucla la mega-metropoli che è già oggi la numero uno mondiale, Chongqing sul fiume Yangzé: 30 milioni. Ma i geografi di Los Angeles catturano perfettamente il nuovo trend che porta all´esplosione urbana in Africa - con Kinshasa, Lagos e il Cairo tutte ai vertici mondiali - e in America latina dove San Paolo e Città del Messico sono proiettate oltre la soglia dei 20 milioni. In tutto, su 9,2 miliardi di abitanti della terra nel 2050, ben 6,4 miliardi vivranno nelle città.

Il balzo più prodigioso lo farà proprio l´Africa: con 1,2 miliardi di residenti nelle sue metropoli, il continente nero concentrerà quasi un quinto di tutta la popolazione urbana del pianeta. Mentre oggi sono appena il 38% gli africani che vivono in città. Sorprendenti, o sconcertanti, anche le mutazioni negli equilibri generazionali. Paesi che oggi associamo a una popolazione molto giovane, conosceranno un invecchiamento rapido: nei prossimi 40 anni l´età media in Messico e in Iran aumenterà di 15 anni, in India di 14 anni, in Cina di 10 anni. Tra i meno esposti all´invecchiamento ci saranno gli Stati Uniti a causa dell´immigrazione: nel 2050 l´età media degli americani sarà aumentata solo di 4 anni. Notevole, per le stesse ragioni, l´exploit del Canada: «Una crescita delle popolazione sei volte più veloce della Cina».

Proprio per questo Laurence Smith prevede che «la competizione per attirare gli immigranti globali sarà un elemento chiave nel successo o nel declino delle nazioni». Il bacino mondiale a cui attingere per rinnovare la propria forza lavoro, si farà meno abbondante via via che gli stessi paesi emergenti diventano più ricchi e meno giovani. Nelle società avanzate le mega-metropoli sono la soluzione di gran lunga più efficiente per un uso razionale delle risorse (il consumo pro capite di energia e di acqua è inferiore al modello dei sobborghi-diffusi), però "The World in 2050" invita a non farsi illusioni: «Le fonti rinnovabili come l´energia eolica e solare per quanto in forte crescita non basteranno a soddisfare quei bisogni energetici». I poli demografici ed economici delle mega-metropoli saranno i nuovi protagonisti nella competizione mondiale per l´approvvigionamento di petrolio, gas, acqua potabile. «Di qui la corsa tra le potenze per imprimere il proprio dominio sovrano sul Nuovo Nord, l´Artico, poi su altri pianeti», prevede il geografo californiano.

Infine un interrogativo politico: «Un mondo dove la popolazione sarà concentrata nelle mega-metropoli vedrà prevalere il modello di Singapore o il modello di Lagos?». Ovvero: simili concentrazioni di abitanti potranno essere governate socialmente solo da sistemi paternalistico-autoritari? O prevarrà invece uno sviluppo caotico, gravido d´instabilità politica, come in molte nazioni africane? In un mondo avviato verso quel tipo di migrazioni di massa dalle campagne verso le città, il modello autoritario cinese eserciterà il suo fascino anche su altri continenti. Inoltre l´immigrazione in Occidente sarà sempre più di origine asiatica, visto che su 100 persone che nasceranno da qui al 2050, ben 57 saranno asiatiche.

"Quanti rischi per la salute in quei mostri di cemento"

intervista a Cesare De Seta, di Valeria Fraschetti

«Finché continuerà a mancare la cultura della pianificazione tra coloro che le governano, le megalopoli resteranno luoghi inconciliabili con la sostenibilità ambientale e dove la nostra salute sarà sempre più minacciata». Cesare De Seta, scrittore ed esperto di architettura contemporanea, non appare affatto ottimista di fronte allo tsunami urbano in corso sul pianeta, dove già oggi la metà della popolazione vive nelle città.

Professore, è possibile prevedere un´inversione di tendenza?

«Temo di no. Il mestiere del vivere continua ad apparire più facile in città. Nonostante condizioni di vita spesso infernali, i grandi centri urbani non smetteranno di essere dei magneti economici per coloro che vogliono fuggire dalla miseria. Queste spaventose spinte migratorie sono incontrollate e stanno creando delle metastasi urbane. È un fenomeno che va assolutamente controllato»

Come?

«Bisogna creare dei sistemi capaci di accogliere queste masse di cittadini. Ad esempio pianificando una rete di città-satellite, come fecero gli inglesi dopo la seconda guerra mondiale. Grazie alla loro cultura di "planning", acquisita con l´esperimento delle "new towns", crearono una rete urbana che ha evitato di trasformare Londra in una megalopoli sconfinata»

E oggi non vede esempi promettenti nel mondo?

«Purtroppo no. C´è un totale disinteresse da parte dei governi urbani dove, tra l´altro, la cultura della pianificazione è generalmente assente. Basta appunto vedere quello che accade in città, tipo Città del Messico e San Paolo, dove nessuna istituzione si preoccupa di pensare al futuro».

A Vancouver hanno lanciato un progetto di "densificazione urbana" nella convinzione che con più abitanti in città si ridurranno gli spostamenti in auto e quindi le emissioni di CO2. Può funzionare, secondo lei?

«Dipende. Se il traffico in città non verrà né governato né arginato, anche attraverso la creazione di una rete funzionale di trasporti, allora tutto sarà inutile».

Quali sono le conseguenze a livello sociale di quelle che lei chiama "metastasi urbane"?

«Un esempio drammatico è quanto accade a Parigi, che pure è una città ben governata, ma circondata da un anello di miserabili banlieues, dove la marginalizzazione razziale e economica crea insofferenza che periodicamente sfocia in disordini».

Nove anni sono passati dall’attentato di Al Qaeda contro il Trade Center di New York, e quello che si diceva allora resta vero: da quel giorno la storia è mutata, la convivenza con i nostri dissimili si è incattivita, nelle menti ha messo radice una passione allo stesso tempo molto antica e moderna, il risentimento. Una passione solo in parte legata agli attentati: poche settimane dopo, l’economista Paul Krugman scrisse che il maledetto imbroglio dell’Enron, rivelato nell’ottobre 2001, aveva incrinato il mondo ben più radicalmente dell’11 settembre.

Altre compagnie erano in passato fallite, ma il crollo della mitica Enron fu un trauma: «L’11 Settembre ci ha insegnato molte cose sul wahabismo, ma non molte sull’americanismo». Nel primo caso gli americani erano vittime, nel secondo perpetratori ( New York Times, 29-2-02). Il Paese aveva a lungo ingannato se stesso, immaginando che l’impresa fosse fondata sull’onestà contabile, non bisognosa di vigilanze. L’era del lassismo e della deregolamentazione finì in concomitanza con l’11 Settembre, assai prima che divampasse, nel 2007, la grande crisi. Una crisi delle illusioni, in America ed Europa, non importata dall’estero.

Il risentimento nasce in questi sottofondi melmosi, dove i pericoli interni s’intrecciano agli esterni e vengono da questi ultimi mascherati. Due guerre hanno accentuato il mascheramento (quella in Afghanistan è la più lunga nella storia Usa): lo sguardo fisso sul wahabismo ha permesso di trascurare lo sguardo su di sé, sull’americanismo.

La passione vendicatrice è antica perché rimanda alle pratiche del capro espiatorio: in tempi di malcontento, addita il diverso come responsabile dei mali patiti. René Girard spiega bene, nel libro sulla Violenza e il Sacro, come il gruppo disorientato ritrovi l’unità grazie alla designazione delle vittima sacrificale. I testi sacri sono colmi di riti simili, nonostante la cesura del cristianesimo, e nella modernità il capro prende forme diverse: dell’ebreo, dello zingaro, infine del musulmano. Ritenuto colpevole d’ogni angustia, egli ci consente di stare uniti e conciliare l’inconciliabile: la società aperta e l’intolleranza, il costo delle guerre, i consumi alti e le tasse basse.

Tanto più violento si è infiammato il rancore in America appena si è cominciato a parlare della costruzione di una moschea presso Ground Zero a New York: non una vera moschea in realtà, ma un centro studi musulmano che aspira a costruire ponti e conterrebbe cappelle ebraiche e cristiane (il nome è Cordoba House, in memoria dell’Islam andaluso del X secolo. Obama in nome della tolleranza laica l’ha approvato). L’acme della protesta è stato raggiunto in una città della Florida, quando un pastore evangelista, Terry Jones, ha annunciato di voler rompere il tabù, nell’anniversario dell’11 Settembre, organizzando il rogo di copie del Corano. Una decisione che ha allarmato politici dell’intero pianeta, e che solo all’ultimo, ieri mattina, è stata cancellata.

Ma c’è qualcosa di più sommerso in simili episodi, di inconfessato. Al torbido intreccio fra le due paure - quella del terrorismo islamico, quella della crisi economica - si aggiunge un risentimento insopprimibile, atavico, verso il primo Presidente nero nella storia americana che è Obama. Il rogo del Corano è un rogo per procura del monarca ritenuto usurpatore, straniero. Girard stesso ricorda come anche il monarca, avendo natura sacra, possa divenire capro espiatorio: non re-sacerdote che officia, ma vittima in sospeso, che il popolo si riserva di sacrificare (l’unità e la guarigione di Tebe esigono il sacrificio di Edipo; l’unità della Francia è restaurata dall’esecuzione di Luigi XVI e Maria Antonietta).

Anche nel caso di Obama l’elemento religioso-rituale pesa enormemente. Non dimentichiamo che il 31 per cento degli americani è tuttora convinto che Obama sia musulmano: una percentuale più alta che ai tempi dell’elezione. Una porzione egualmente grande pensa che comunque non sia americano, o che sia socialista o nazista. E la crisi ha dilatato questo sentimento, secernendo una fobia verso l’Islam che subito dopo l’11 Settembre non esisteva. Scrive Roger Cohen sul New York Times che solo una scintilla separa il risentimento dall’insurrezione: appena un decennio separò in Germania il rogo dei libri nel ‘33 dai forni crematori.

Ma il risentimento è un fenomeno moderno, sempre più diffuso anche in Italia, Francia, Olanda, Svizzera, Inghilterra. Ovunque ritroviamo il desiderio, fieramente esibito come politicamente scorretto, di rompere i tabù civilizzatori ereditati dall’ultima guerra. Poi ci sono i sondaggi: non sono loro, in nome dell’orda, a dire oggi che re Obama è vittima in sospeso? La Lega e Bossi sono stati i rompighiaccio. È seguita l’Olanda di Geert Wilders, la Svizzera ostile ai minareti, la xenofobia del partito Vlaams Belang in Belgio.

Ora trema anche la Germania, la nazione dove il tabù era più forte. Un esponente non minore della Banca centrale, il socialdemocratico Thilo Sarrazin, ha riscosso un successo imprevisto con un libro uscito di recente (Deutschland schafft sich ab - La Germania distrugge se stessa). Scrive che l’Islam la sta sommergendo; che esistono etnie votate a mai assimilarsi. Parla di genetica, a proposito degli ebrei, per spiegare la loro intelligenza. Licenziato dalla Bundesbank e redarguito dalla Merkel, Sarrazin resta un idolo: l’80 per cento dei tedeschi lo approva.

Alexander Stille narra la genesi di queste nuove destre, in un articolo sulla polarizzazione americana della politica ( Repubblica, 28-8-10). Racconta come questa destra trasgressiva e animata da risentimento non consideri mai i fatti ma metta al primo posto la coesione del gruppo, il giudizio dell’orda impermeabile a ogni confronto. Il tea party è un movimento di questa natura, e somiglia a tanti movimenti in Europa e alle destre nate in Italia nell’ultimo ventennio: è compatto, mentalmente predisposto alle ordalie, monade senza finestre che non si nutre di realtà ma di fantasmi. Strutturato come gregge, è autoritario e dipendente da capi-pastori carismatici.

La strategia adottata con successo dai capi-pastori potremmo chiamarla strategia della nicchia: è quest’ultima che va conquistata, più che il popolo nella sua varietà, e il braccio operativo sono i nuovi media come le televisioni berlusconiane, la rete Fox News in America, gli interstizi di Internet. Quel che conta non è raggiungere un pubblico più vasto e plurale possibile, come nei vecchi giornali nazionali. «Captare il 5 o il 10% del mercato è già un successone», scrive Stille e anche per i politici delle nuove destre americane è così: «Perdono seggi sicuri, ma in compenso raggiungono una compattezza e una coesione politica a volte invidiabili per un partito democratico viceversa sempre più diviso».

In questo il risentimento è molto moderno. È la risposta di nicchia al mondo fattosi ampio, alla democrazia imprevedibile del suffragio universale. È la triste passione di chi si trincera nel piccolo gruppo che ti cattiva e ti incattivisce. È il ressentiment descritto da Nietzsche nella Genealogia della Morale (1887): «Mentre l’uomo nobile vive davanti a se stesso con fiducia e apertura (...) l’uomo del ressentiment non è né onesto, né ingenuo, né vero con se stesso. La sua anima è strabica, il suo spirito ama i nascondigli, le vie oblique, le scappatoie; tutto ciò che è nascosto gli appare come il suo mondo, la sua sicurezza, il suo balsamo. È un esperto in fatto di silenzio, di non-oblio, di attesa, di provvisoria diminuzione di sé, di umiliazione». Nella nicchia (televisiva, giornalistica, aziendale, partitica) si compiace di sé. Talmente ferreo è il suo giudizio sulle cose del mondo, che nessun fatto lo destabilizzerà.

L’Aquila, Collemaggio. La basilica plasmata dai terremoti

Ugo De Angelis - Osservatore Romano

Il forte legame tra la comunità aquilana e il suo territorio ha origini lontane, come la genesi della civitas nova che Pierre Lavedan, nella sua monumentale opera L'urbanisme au Moyen Age, non tardò a definire «una delle più grandi e riuscite creazioni urbane in Europa occidentale». Questa meravigliosa città, nata nel 1254 per volontà di Corrado IV, viene inserita nell'ambito di un importante contesto territoriale percorso da un fitto e strategico sistema viario. La successiva furia distruttrice avvenuta nel 1259 a opera di Manfredi ebbe uguali solo negli ormai noti eventi sismici. Dice Buccio di Ranallo: «Nè casa vi rimase, nè pesele, nè ticto». Dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento nel 1266, il francese Carlo I d'Angiò consentì alla «rea villanaglia» di rifondare la città contro le insistenti richieste dei «gentili homeni». Tale evento si inserisce in una vicenda tutta «popolare», dove la città si deve difendere dai nobili che rivendicano titoli feudali. Occorre inoltre sottolineare che questo «nuovo impianto» a forte impronta «ippodamea» secondo cioè uno schema planimetrico a maglia ortogonale nasce sul modello di sviluppo cistercense delle bastides, diffusosi dal xii secolo nel sud-ovest della Francia.

La città viene suddivisa in quattro «quarti», ognuno ripartito in spazi regolari costituiti da aree comuni e lotti di terreno per l'abitazione e l'orto, destinati a facilitare l'insediamento dei villici provenienti dai centri fondatori, subito dopo aver realizzato la piazza, la chiesa, la fontana, cioè quegli interventi pubblici che a tutt'oggi chiamiamo opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Nella costruzione della città emerge una nuova forma di pianificazione, concepita da una rete di relazioni che supera il perimetro delle mura, in un ben congegnato sistema di area vasta (i contadi), caratterizzato dall'interazione territoriale tra intus et extra moenia. I neo-cittadini portano con sé la loro identità culturale e il proprio modello del villaggio d'origine, il che a ragione potremmo definire una ben riuscita operazione di «delocalizzazione» urbanistica. Il rapido inurbamento e il conseguente sviluppo socio-economico della città si devono anche al ruolo avuto dal vescovo aquilano nel favorire l'insediamento dei religiosi, alla sua autonomia politico-amministrativa e al regime di privilegi di cui godeva l'industria della pastorizia e dello zafferano, che più tardi arrivò all'apice di una fiorente attività commerciale. Ma nel 1294 la città è protagonista di un evento straordinario: il mite e umilissimo eremita Pietro Anglerio o Angeleri, detto da Morrone (1209-1296), per i più oggi ricordato come «il Papa del gran rifiuto», viene eletto al soglio pontificio e il 29 agosto incoronato ad Aquila, città a lui «più cara fra tucte le terre», proprio in quella basilica Santae Mariae de Collemadio, che venti anni prima aveva voluto dedicare all'Assunta.

L'inizio della costruzione, che si vuol far risalire alla data del 1287, aveva impegnato per diversi anni i suoi monaci di Santo Spirito della Maiella e la fiera popolazione della nuova città. Aquila per oltre due mesi fu la capitale spirituale del mondo cattolico. Durante il suo breve pontificato, Celestino V istituì la «Perdonanza», che ancora oggi offre l'indulgenza plenaria a tutti i fedeli che annualmente dal 28 al 29 agosto si rechino nella chiesa di Collemaggio pentiti e riconciliati. Non si trattò solo di un importante atto di carattere spirituale ma di una vera e propria riconciliazione cittadina, di rilevante significato politico e sociale. Pietro, il Papa del popolo di umili origini contadine, ottiene così da Carlo II d'Angiò il perdono degli aquilani ribelli e l'unificazione amministrativa, ratificata con il diploma del 28 settembre del 1294 che contribuì notevolmente a proiettare l'attività economica della città entro il grande circuito commerciale europeo. Carla Bartolomucci, in un suo recente libro, fa un'accurata analisi della basilica di Santa Maria di Collemaggio e ne interpreta i numerosi rifacimenti causati dai frequenti disastrosi terremoti succedutisi nel tempo. La chiesa deve la sua fortuna architettonica alla particolare, raffinata geometria di pietra bicroma della facciata, nonché alla pregevolezza dei tre portali e dei tre rosoni.

L'impianto basilicale costituito da tre navate, nel 1972- 1974 ha subito un discusso restauro, anche se sarebbe pi appropriato parlare di una sorta di tentato ripristino: l'organismo è stato sottoposto a una ulteriore trasformazione con la liberazione dalle aggiunte barocche post-terremoto del 1703 e l'innalzamento delle navate a favore di un «restituito» spazio trecentesco, sicuramente più luminoso e austero ma, secondo il nostro modesto parere, forse più incline al falso storico nel senso «brandiano» del termine; mentre il transetto, illuminato dalla bassa cupola coperta a tetto prima del recente sisma, conservava ancora le vecchie reminescenze barocche. Il coro centrale prolungato e due cappelle laterali, di cui una contenente il sepolcro di Celestino V, opera del 1517 di Girolamo da Vicenza e realizzato con i fondi messi a disposizione dai «Lanari dell'Aquila», completano l'impianto absidale. Sul lato nord in corrispondenza della navata sinistra è collocata la Porta Santa, realizzata verso la fine del XIV secolo, che ogni anno apre alla cerimonia della Perdonanza celestiniana. Recentemente la facciata è stata liberata dagli ultimi ponteggi ed è quindi tornata al suo originario splendore a conclusione di un accurato restauro, iniziato nell'autunno del 2007 su iniziativa della Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici per l'Abruzzo. Il terremoto del 6 aprile 2009 ha gravemente danneggiato ancora una volta l'organismo strutturale della basilica e causato il crollo del transetto, che già a seguito del sisma del 1958 era stato demolito e ricostruito dal Genio civile (1960-1962).

Il 28 aprile 2009 Papa Benedetto XVI, visitando la basilica duramente colpita dal sisma, ha reso omaggio al santo Pietro Celestino, ponendo sulla sua urna il proprio pallio pontificio in ricordo della visita. Il cammino della ricostruzione appare ancora lungo e pieno di incognite, soprattutto per reperire i notevoli fondi necessari a un accurato intervento di consolidamento strutturale e di ripristino dell'organismo centrale della Basilica, nell'ambito di un intervento di recupero che dovrà essere esteso all'intero complesso monumentale. La storia dei principali eventi sismici della città dell'Aquila dal 1315 a oggi, fa intuire quanto sia stata importante la tenacia e lo sforzo degli aquilani nella ricostruzione della propria città, alimentata da quel contributo proveniente dal fiorente sviluppo economico determinato dall'istituzione di franchigie e concessioni a favore delle attività produttive locali. Oggi, in un contesto di corsi e ricorsi storici, non sarebbe possibile programmare piani straordinari per finanziare la ricostruzione post terremoto nelle aree colpite dal sisma? L'eremo celestiniano di Sant'Onofrio al Morrone nei pressi di Sulmona, oltre a custodire la memoria di Pietro, espone un'iscrizione attribuita a una religiosa poetessa arcade, la principessa Aurora Sanseverino, che termina con queste parole: «Qui parla il verbo al core. Entri chi tace, perché il solo silenzio è qui loquace».

Vogliamo sperare che la storia sia maestra di vita, confidando almeno in un annuncio programmatico di recupero del patrimonio storico e monumentale dell'Aquila, perché non resti solo il silenzio a parlare più delle parole. Il cammino della ricostruzione appare ancora lungo e pieno di incognite Soprattutto per reperire i notevoli fondi necessari a un intervento di consolidamento e di ripristino dell'organismo centrale.

Euro previsti per l’Aquila: zero. Qui i soldi dell’8 per mille

Feruccio Sansa - Il Fatto quotidiano

Tre miliardi e mezzo di euro. Meno di quanto costerà il Ponte sullo Stretto sponsorizzato dal centrodestra. Meno di un terzo della spesa prevista per la mega autostrada Mestre-Orte-Civitavecchia (voluta da tutti, dal Pdl al Pd). E’ quanto servirebbe per evitare la morte di una città: L'Aquila. Davanti alla basilica di Collemaggio - con la sua facciata trecentesca che fino al 6 aprile 2009 guardava un grande prato e una città piena di vita e di studenti - oggi intorno è buio: migliaia di case ridotte a ombre, coperte dalla vegetazione. Eppure, in una serata d'inizio settembre, ecco arrivare centinaia di persone, uscite dalle abitazioni prefabbricate, arrivate dai paesi vicini dove si sono trasferite dopo il terremoto. Alla fine saranno pi di mille. Per una sera L'Aquila sembra vivere di nuovo. La città assiste insieme con Sabina Guzzanti alla proiezione del suo film Draquila, dedicato al terremoto. Un'ora e mezza di pellicola, e poi il dibattito che non finisce mai: due ore, nonostante il freddo, perché qui tutti hanno voglia di parlare, di scambiarsi idee, timori. E, magari, anche un poco di speranza. Certo, fa uno strano effetto guardare se stessi, la propria storia in un film. Si osserva e poi si discute.

Non c'è spazio per gli slogan, per la propaganda: se alzi lo sguardo dal telone del cinema all'aperto, ti ritrovi davanti palazzi crollati, macerie. L'Aquila è ancora in rovina. E in fondo la domanda per tutti gli abitanti è sempre la stessa: La nostra città ha un futuro? Il pubblico punta gli occhi verso Sabina Guzzanti e i suoi ospiti: Gianfranco Cerasoli, responsabile Uil Beni culturali; Gianni Lolli, deputato del Pd; Stefania Pezzopane, ex presidente della Provincia; Giusi Pitari, esponente dei comitati degli abitanti; Angelo Venti, giornalista, e Antonello Ciccozzi, docente di Antropologia culturale all'Università degli studi dell'Aquila. Nessuno ha una risposta al timore che anima la folla. Ma ognuno porta un tassello per capire che cos'è il presente, prima di affrontare il futuro. L'Aquila è una delle venti città d'arte d'Italia, racconta Cerasoli, e lo sguardo di tutti va alla facciata di Collemaggio. Aggiunge: Secondo le stime per ricostruire il centro storico servirebbero tre miliardi e mezzo. Mormorio tra la folla. Già, perché, riferisce Cerasoli, nell'intero bilancio dello Stato ci sono appena 70 milioni di euro per la conservazione del nostro patrimonio . E per L'Aquila? Nel 2009 la Protezione civile aveva previsto 50 milioni di euro, ma ne sono arrivati 20 .Il peggio, però, deve ancora arrivare: Oggi non c'è nemmeno un centesimo.

Più d'uno anche tra il pubblico sussurra: All'inizio venivano tutti, oggi che siamo di fronte al fallimento della ricostruzione non si vede più nessuno . Il ministro Sandro Bondi è assente , latitante , dicono qui. Si parla delle imprese coinvolte nella ricostruzione. Certo, c'è la Cricca, ma ci sono anche costruttori in odore di mafia, come ricorda Angelo Venti. I pochi finanziamenti che arrivano a L'Aquila rischiano di finire alla criminalità organizzata, più che agli aquilani. Impossibile non denunciare gli sprechi, come le indennità milionarie dei commissari straordinari: Invece di nominare un commissario, magari inutile, si potrebbe recuperare un intero palazzo . I cittadini chiedono una soluzione, un'indicazione concreta. Stefania Pezzopane ci prova: Il governo ha orrore della parola tasse.

Ma per salvare L'Aquila bisogna chiedere l'aiuto di tutti gli italiani. In passato quando una città, una regione hanno dovuto affrontare grandi tragedie, tutto il Paese li ha aiutati. Adesso non bisogna abbandonare l'Abruzzo . Come, allora? Il mezzo usato finora è stato quello di una tassa di scopo, destinata cioè espressamente alla ricostruzione della nostra terra.

Non è la sola ipotesi. Sabina Guzzanti, insieme con Pezzopane e Cerasoli, propone un'altra strada: Si potrebbe anche ricorrere all'8 per mille, quella fetta (oltre un miliardo di euro) del gettito Irpef che ogni anno viene divisa tra lo Stato e le diverse chiese. Si parla stringendo il microfono e sperando che le parole in qualche modo arrivino fino a Roma. Mille persone incollate allo schermo e al palco per più di tre ore. Per parlare e per sentirsi! almeno una sera, di nuovo città! Poi L'Aquila ritorna deserta.

«Non potrò neppure aprire la finestra, che vita sarà questa?». Il Pirellone bis stringe il condominio su tre lati, è una gabbia di specchi, la luce arriva solo di riflesso, il tempo è scaduto e stare alla finestra non serve. Anzi, è peggio: dal 15 ottobre inizieranno i traslochi e si riempiranno gli uffici. Gli inquilini di via Bellani 3 sono stati circondati, hanno dettato le condizioni per la resa, ma non hanno spuntato un accordo: dovranno convivere col nuovo Palazzo Lombardia, inscatolati dal cemento. La Regione avrebbe preferito un divorzio consensuale, il progetto era di acquistare e demolire, non compra più: aveva offerto 4.500 euro al metro quadro ma gli abitanti ne chiedevano almeno il doppio, il costo del mattone più il disturbo e la buona uscita. La trattativa, ora, è chiusa. Non si sono intesi, e non sfugga il paradosso: don Ettore Bellani, l’uomo della targa sul muro, educava i sordomuti.

Il gigante e la casina. Qui vivono quattordici famiglie, due appartamenti sono sfitti, il terrazzo è ben curato, colpisce il verde. In questi giorni è stata attivata la nuova antenna per la televisione satellitare, regalo della Regione: «Il grattacielo oscurava il segnale— raccontano gli abitanti —. Ma se pensano di rabbonirci così, si sbagliano». I rapporti sono tesi dall’inizio, tre anni fa, da quando la Regione inizia a tirare su la sede direzionale in zona Garibaldi: «La nostra casa è stata costruita nel 1936, non ieri. C’è gente che vive qui da decenni. Eppure, un giorno arrivano, cancellano il Bosco di Gioia e dicono che siamo di troppo».

Si parte da lì. Il Pirellone vuole comprare a «prezzi di mercato» e col «consenso unanime» dei residenti: li trova resistenti. In alternativa, ipotizza una «permuta con altre unità immobiliari di pari superficie utile, di pari valore e nello stesso ambito territoriale tra Garibaldi e Repubblica». Insomma: insiste. Anche perché nell’angolo occupato dalla palazzina dovrebbe piantare alberi e posizionare «una cella a idrogeno e servizi connessi». L’assemblea di via Bellani 3, invece, non cede alla prima, rifiuta la seconda e ignora la terza offerta: «A queste condizioni, non ne vale la pena».

Antonio Rognoni è direttore generale di Infrastrutture Lombarde spa, la holding regionale che ha costruito Palazzo Lombardia e seguito il caso Bellani: «Il piano d’acquisto è basato su una stima dell’Agenzia del territorio e ai prezzi del 2008, i più alti. Oltre non si va: gestiamo denaro pubblico, non possiamo accettare atteggiamenti speculativi».

Per altro, non c’è più tempo. Il 15 ottobre, per primi, si trasferiranno da via Pola al nuovo grattacielo i dipendenti della direzione regionale Sanità: tutti i traslochi dagli uffici periferici, secondo il programma di Infrastrutture Lombarde, dovranno essere conclusi il 30 gennaio 2011. «Se non succede nulla — annunciano gli abitanti di via Bellani— torneremo alla carica». Rognoni esclude ripensamenti: «Li abbiamo trattati con i guanti, hanno scelto loro di restare lì».

«Ci hanno trattato come terremotati del Sud». Giusi Pitari, la docente anima del «popolo delle carriol e » , avverte che l e sue parole van capite bene. Che non c'è retropensiero razzista. Che lei semmai sta tutta dalla parte dei meridionali e che questa idea dei «terremotati del Sud», visti come una plebe da trattare come plebe, è nella testa di chi l'ha gestito, quest’anno e mezzo trascorso dalla notte in cui l'Appennino diede lo scrollone che devastò l'Aquila¸ straziò altri 56 comuni, uccise 308 persone.

«Presidente, grazie a lei siamo dei terremotati di lusso», disse colmo di stralunata riconoscenza uno degli sfollati a Silvio Berlusconi, in visita mesi fa al prefabbricato della «primaria» intitolata a Mariele Ventre, l’animatrice dello Zecchino d'oro. E come lui la pensano buona parte degli abitanti delle «case vere, belle, eterne» (parole del Cavaliere) tirate su a Bazzano in via Mia Martini e nelle altre 18 new town sparpagliate intorno al capoluogo. E in questi due giudizi opposti c’è la sintesi di come venga visto oggi il bilancio dell’operato del governo, della Regione, del Comune, della «macchina» dei soccorsi nel suo insieme.

Da una parte la venerazione per il Messia Azzurro di chi magari viveva in una casa di pietra «pittoresca» ma decrepita e si è ritrovato in un alloggio decente con una torta e lo spumante in frigorifero. Dall’altra l’insofferenza di quanti hanno trovato insopportabile essere trattati «come sudditi un po’ bambini invitati a "godersi il campeggio" e "divertirsi negli alberghi al mare" e magari "partire in crociera", come disse proprio Berlusconi in una conferenza stampa, mentre facevano tutto loro, a modo loro, per interessi loro».

Di qua quelli che mettono le lenzuola alle finestre con scritto «Silvio, fatti clonare per i nostri figli». Di là quelli che, riconosciuto il «miracolo» delle new town, fanno comunque notare come non solo «i prati verdi e fioriti con gli alberi d’alto fusto» si sono presto spelacchiati perché «erano stati messi giù in tutta fretta per le telecamere», ma forse sarebbe stato meglio restare un po’ di più «come i friulani» in strutture provvisorie pur di avviare subito la ricostruzione dell’Aquila e dei paesi «com’erano e dov’erano».

Cosa che avrebbe consentito anche di arginare l’assalto di quegli sciacalli immortalati dal dialogo infame intercettato la mattina del 6 aprile 2009 fra Pierfrancesco Gagliardi e suo cognato, il direttore dell’impresa «Opere pubbliche e ambiente», Francesco De Vito Piscicelli: «Qui bisogna partire subito in quarta. Non è che c’è un terremoto al giorno». «No, lo so». «Così per dire, per carità, poveracci». «Va buò, ciao». «O no?» «Eh certo, io ridevo stamattina alle tre e mezza dentro il letto». «Io pure. Va buò, ciao».

«La verità è che il terremoto è stato l’occasione colta al balzo per una speculazione su 200 ettari di terreni. A costo di assassinare la memoria, la dignità, la cultura di un popolo», accusa Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra che da mesi tempesta il governo denunciando «la mancanza d’un piano unitario di interventi sul centro storico dell’Aquila e della sua cintura di centri minori».

A dire il vero il Cavaliere, data la precedenza assoluta alla sistemazione nelle C.a.s.e. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili, ma potrebbero chiamarsi «Ghe-pensi-mi», tanto è riconoscibile la firma) una promessa l’aveva fatta. Questa: «Certo, per la ricostruzione di tutti gli edifici compresi anche quelli storici, ci vorranno degli anni ma l’impegno è quello di concludere tutto entro la legislatura». Non era successo anche in Friuli, del resto, che le chiese e palazzi storici erano stati tirati su «com’erano e dov’erano» solo dopo i primi interventi per l’emergenza, le fabbriche, le infrastrutture?

A parte i dubbi di oggi sulla durata della legislatura (settimane? mesi?) l’ottimismo berlusconiano, per realizzarsi, avrebbe bisogno davvero di un miracolo. Perché, spiega l’architetto Luciano Di Sopra che firmò il piano friulano, «è vero che a Osoppo, Gemona e Venzone la ricostruzione degli edifici storici distrutti cominciò tre anni dopo, ma i cantieri possono essere aperti solo alla fine di un percorso che deve iniziare molto prima. Deve avere leggi quadro, regolamenti, stime accuratissime dei danni, ripartizioni dei compiti, parametri, modelli, prezzari definiti… E più tardi si parte con questo lavoro, più tardi si aprono i cantieri. È come quando hai una macchina rotta: se la aggiusti subito è un conto, se la lasci ferma per anni diventa complicatissimo».

Certo, lassù in Friuli c’era una Regione a statuto speciale che aveva qualche agilità e potere in più. Che rivendicò subito la volontà di gestire tutto autonomamente. Qui è più complicato. Fatto sta che l’8 maggio 1976, trentacinque ore dopo il sisma, la Regione Friuli aveva già la sua prima legge. Qui, dopo la prontezza della risposta iniziale e l’intervento di una Protezione civile trasformata da Guido Bertolaso in una tambureggiante «macchina da guerra», c’è stato sotto questo profilo, dicono i critici, il vuoto.

La prova? L’accusa dice che è nelle date. Passano sei mesi dal terremoto prima che il 22 dicembre 2009 il governo decida di creare una Struttura di Missione per la ricostruzione, coordinata dal governatore di centrodestra Gianni Chiodi. Un altro perché questa struttura sia costituita materialmente il 2 febbraio 2010. E ancora sei perché arrivi il primo euro. Che appare solo il 10 agosto 2010, quando il Tesoro deposita 714 milioni sul conto speciale della Banca d’Italia. Esattamente 490 giorni dopo lo schianto.

La colpa? Un po’ di tutti. Del governo, ma certo anche delle autorità locali, Regione, Comune e Provincia, che non li hanno mai chiesti ufficialmente, dicono alla Protezione civile. L’unica cosa certa è che la ricostruzione, per tutto questo periodo, resta ferma. Mentre a L’Aquila il clima si fa incandescente. L’8 luglio, il giorno dopo le bastonate in piazza a Roma ai manifestanti aquilani, Berlusconi sbotta: «La ricostruzione spetta agli enti locali, al Comune e alla Regione. Il governo doveva dare i finanziamenti, cosa che è stata fatta».

Il problema è che l’Aquila ha un centro storico enorme. E un numero di edifici vincolati inferiore, in Italia, soltanto ad Arezzo. Bisogna camminarci, per le strade deserte, fra le macerie, le catene che tengono insieme gli edifici squarciati dalle crepe e i ponteggi luccicanti, per vedere come la ferita butti ancora sangue. C’erano 27 mila universitari, per metà fuorisede, tra queste strade piene di macerie. Sui muri dei viottoli morti leggi ancora graffiti pieni di vita: «Buongiorno principessa!», «Giulia è solo te ke voglio», «Amore 80 voglia di te!». Chissà dove sono finiti, i ragazzi che scrissero quelle frasi. Qui sono rimasti soltanto i fantasmi.

Intendiamoci, sarebbe indecoroso non riconoscere come 14.356 persone, stando agli ultimi dati (anche se molte sono ancora costrette a vivere negli alberghi o sistemazioni di fortuna) siano state sistemate a tempo di record nelle 19 aree del progetto C.a.s.e. Anche se sono legittime le perplessità sulla scelta di mettere in ogni abitazione tutto ma proprio tutto compresa la tivù ultrapiatta ma non una libreria. E lo è anche chiedersi se non sia stato un po’ costoso costruire quelle abitazioni a 2.700 euro al metro quadro contro una spesa media in zona di circa 900. Ma le case sono là.

Il dubbio che agita non solo Italia Nostra ma anche il sindaco o l’assessore (ed ex presidente provinciale) Stefania Pezzopane è semmai quello che forse il piano new town è stato «fin troppo» miracoloso. Come fosse una strategia edilizia già decisa per la prima occasione utile. Racconta il sindaco (e vicecommissario) Massimo Cialente: «La mattina dell’8 aprile Berlusconi scende dall’elicottero e ci dice: adesso costruiremo delle case sicure in una nuova città, una new town. Io scuotevo la testa, e chiedevo: ma le "nostre" case? Disse: hai coppie giovani, ci sono molti studenti, potrai metterci loro… In quel momento aveva in testa una sola new town. Voleva rifare l’Aquila da un’altra parte. Qualche giorno dopo Bertolaso mi confermò: Tremonti aveva trovato l’area. Quella del vecchio aeroporto».

L’incubo, dice la Pezzopane («e non chiesero niente a me che avevo le competenze urbanistiche») era quello «di finire come Gibellina», morta, abbandonata e trasferita altrove. Per di più in un terreno paludoso. Riprende il sindaco: «Ci opponemmo con tutte le forze. Riuscimmo a ottenere che invece si creassero "solo" nuovi insediamenti nelle aree degli altri comuni terremotati. Da medico, diciamo che invece di farci tagliare la gamba ce la siamo cavata con l’amputazione di un alluce. Dolorosa ma limitata».

Il lungo sonno dell’Aquila ferita sotto i detriti, ecco ciò che non fa dormire Antonio Perrotti, Giusi Pitari, Annalisa Taballione e gli animatori del comitato «3 e 32». Il difficile deve ancora cominciare. Lo dicono, paradossalmente, i tre monumenti (tre!) eretti in ricordo del terremoto assai prima che fossero rimosse le macerie che quel terremoto lo ricordano da sole. Lo dice la statua di Sallustio tra i tubi Innocenti di piazza Palazzo alla quale hanno messo in mano una pala: pensaci tu, se sei capace. Qui, per ora, nonostante gli appelli, le denunce, le manifestazioni, le assemblee dei cittadini (vietate nelle tendopoli, insieme con il caffè, gli alcolici e la Coca-Cola (!), perché «eccitanti») o le proposte avanzate dai giovani architetti e tecnici del Collettivo 99, c’è poco o niente.

Per ora ci si è limitati a suddividere il centro storico in «aggregati». Dove la ricostruzione dovrebbe esser gestita in modo consorziato dai condomini. Piccolo dettaglio: la legge prevede la copertura integrale dei danni subiti dall’«abitazione principale». E qui sorge il primo problema, perché l’Aquila è piena di seconde case. Di più: la natura di questa «copertura» non è chiara affatto. Sono stati chiesti pareri all’Avvocatura dello Stato e all’Authority dei lavori pubblici. Stessa risposta: per come è formulata la norma, trattasi di finanziamento statale. Come tale, può essere utilizzato solo facendo gare nazionali per importi oltre il milione e addirittura europee per quelli che passino i 4,9. Una follia. Tanto più che non c’è probabilmente edificio di grande pregio, diviso in sette o otto abitazioni, che non richieda somme simili.

A parte i tempi, ve l’immaginate un condominio bandire una gara internazionale, pubblicare l’avviso sulla Gazzetta ufficiale di Bruxelles, istituire una commissione per aprire le buste e affrontare gli inevitabili ricorsi? Un delirio. In plateale contraddizione, accusa il «popolo delle carriole», con quanto il Cavaliere aveva garantito l’8 agosto 2009 in conferenza stampa: «Chi vuole procedere alla ricostruzione in proprio si presenta alla banca, presenta il preventivo o la prima fattura dell’impresa cui ha affidato i lavori e riceve immediatamente senza alcuna altra pratica aggiuntiva i soldi necessari». Sì, magari! I privati che vogliono riparare le case meno danneggiate e classificate A e B, in realtà, devono avere (ovvio) l’approvazione del Comune. E sempre il Comune pagherà l’impresa, sulla base dello stato di avanzamento dei lavori.

E’ da febbraio, quando fu infine creato il commissariato alla ricostruzione, che il suo responsabile tecnico, Gaetano Fontana, ex direttore dell’Associazione costruttori, chiede sia risolto l’inghippo. Niente. Ora il governo si sarebbe deciso (il contributo statale andrebbe inteso come un «indennizzo», al riparo dalla procedura delle gare) a fare chiarezza. Con un’attesissima legge speciale magari con una tassa di scopo? Macché: con un emendamento al decreto Tirrenia! Direte: cosa c’entra la Tirrenia? Niente, appunto.

A pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina, dice il vecchio adagio. Sussurrano dunque i bene informati, fra cui politici con rilevanti responsabilità amministrative, che lo schema era già predisposto. Il centro storico dell’Aquila sarebbe stato ripartito in una ventina di zone, ognuna delle quali assegnata a un gruppo di imprese: ci avrebbero pensato loro a fare i progetti, farli approvare e ricostruire.

Fantasia? Guai se non fosse così. Intanto però la ricostruzione del capoluogo abruzzese ha gettato il mondo dei costruttori locali in uno stato di agitazione mai visto. Senza dire dei ripetuti allarmi sui rischi di infiltrazioni della criminalità organizzata. Rischi denunciati ad esempio da «Libera» e dal giornale online www.site.it di Angelo Venti. Un esempio? La scoperta che una ditta impegnata nei puntellamenti, guidata da amministratori «padani» per non dar nell’occhio, aveva 13 dipendenti su 15 con precedenti di camorra.

Va da sé che in una situazione come questa, che richiederebbe un asse solidaristico «alla friulana», divampano polemiche feroci. Di qua, nei Comuni di centrosinistra, lamentano l’inerzia della Regione, che si sarebbe limitata ad assecondare il volere di Berlusconi rinunciando perfino a emanare una propria legge. Di là, alla Regione, si lagnano per l’inefficienza dei sindaci che pur avendo la delega alla ricostruzione non hanno manco provveduto (dicono loro che non è chiaro: chi paga?) a rimuovere le macerie. Sia chiaro: farebbe tremare i polsi anche a Churchill o a Napoleone la ricostruzione dell’Aquila. Ma colpisce il tempo necessario a definire una stima dei danni. Elemento decisivo, spiega Luciano Di Sopra, per pianificare la continuità finanziaria degli interventi. A maggio 2010 il Cavaliere parlò di 7-8 miliardi. Poi, guardando quanto si era speso per il terremoto di Umbria e Marche, ne sono stati aggiunti quattro o cinque. Finché Gaetano Fontana ha spedito un appunto a Chiodi. Con una cifra tanto dettagliata, per il capoluogo, da apparire surreale: 10 miliardi, 530 milioni, 449.727 euro e 50 centesimi. Per le sole chiese sarebbe necessario un miliardo e 300 milioni. Per i palazzi privati vincolati, un miliardo e 859 milioni. Per le case del centro storico, 2 miliardi e 224 milioni.

Poi, naturalmente, c’è il resto. Compresi gli altri 56 Comuni. Il conto finale, potete scommetterci, sarà astronomico. Per non parlare dei tempi.

Non che di soldi non ne siano arrivati. Anzi. L’emergenza ne ha fatti girare parecchi. Per l’esattezza, ben 2 miliardi e 196 milioni. Finiti anche nel centro storico aquilano. Sotto forma soprattutto di bulloni. L’operazione dei puntellamenti non è ancora conclusa (è all’80%) ma si sono spesi già 70 milioni in catene e ponteggi. Nuovi di zecca, molti firmati «Marcegaglia». Comprati sulla base dei prezziari ufficiali: 25 euro a snodo, compresi i tubi e la messa in opera.

Il nodo, scusate il gioco di parole, è proprio lo snodo. Lo vedi da alcuni dettagli. Come la messa in sicurezza di un portoncino in un palazzo davanti alla chiesa di S. Pietro. Dove di snodi, con la necessaria pazienza, se ne possono contare complessivamente 44. Per un totale, su quel solo portoncino, di 1.100 euro.

Più snodi ci sono, più il costo sale. In alcuni casi non si può farne a meno. In altri, a vedere l’ardimento di certi grovigli di tubi, ti vengono dei dubbi: mah... C’è un episodio che dice tutto. A Roio il padrone di una casa praticamente crollata e di nessun valore storico aveva deciso di darle due botte finali e ricostruirla. Niente da fare. All’arrivo con la ruspa, la sua casa la stavano ingabbiando in una selva di tubi: 80 mila euro. C’è poi da stupirsi se Cialente ha deciso di istituire una commissione per capire come sono stati spesi tutti quei quattrini?

BRESCIA— «Desidererei lasciare il segno con qualcosa di bello, di simbolico. Per esempio un bel grattacielo. Sono un sognatore. Vorrei creare un giardino delle idee». Era la fine del 2006 quando Santo Galeazzi, anima della Morgante srl (società costituita dal gruppo Lonati e dal gruppo Galeazzi), non era riuscito a trattenere il suo entusiasmo presentando il progetto del centro direzionale di Brescia. Due anni più tardi, nel marzo del 2008, le tre torri della Morgante svettavano con i loro 74 metri di altezza sulla città, dividendosi il cielo con il Crystal Palace. Peccato che il «giardino delle idee» sognato da Galeazzi sia rimasto vuoto. Nessuno, negli ultimi 24 mesi, ha mai occupato gli uffici dei tre nuovi grattacieli. E adesso l’opera dell’architetto Cantarelli e dello studio «Moro & Partners» sarà frazionata e messa in vendita da Gabetti. «Troppo dispendioso tenere vuoti quei locali — dicono dal gruppo Lonati —. Meglio vendere e recuperare almeno le spese sostenute. Del resto la crisi ci ha messo lo zampino e negli ultimi due anni il mercato immobiliare non è stato dei migliori».

Ma guai a pensare che le tre torri di cristallo, diventate simbolo inconfondibile del nuovo skyline di Brescia, saranno svendute: «I prezzi saranno quelli di mercato. Il centro direzionale è ben servito e gli edifici sono altamente tecnologici, all’avanguardia».

Nelle scorse settimane si era parlato della proposta di acquisto di alcuni fondi previdenziali, soprattutto di quello di una nota banca lombarda. Come erano circolate voci insistenti anche di un interessamento da parte della Provincia di Brescia, ai tempi in cui l'ente di Palazzo Broletto inseguiva il sogno di una sede unica. Voci mai arrivate a concretizzarsi e smentite nei fatti dopo l’insediamento del nuovo presidente, il leghista Daniele Molgora, che ha escluso la fattibilità dell’operazione. Nel frattempo le tre torri in vetro, acciaio e cemento sono rimaste sfitte e invendute.

Adesso la parola d'ordine è «fare cassa» e ieri mattina la Morgante srl ha dato ufficialmente mandato alla «Gabetti Corporate» di trovare acquirenti.

Le tre torri sono alte 74 metri: 14 piani e 6.722 metri quadri di uffici oltre a 3.200 di spazi commerciali e 1.200 posti auto coperti.

«Per incentivare la vendita — confermano da Gabetti — gli edifici saranno frazionati con porzioni minime alla portata di tutti. Si pensa a uffici di 130 metri quadri».

Un solo commento dalla Loggia, il palazzo del Comune: «Da due anni curiamo l’area verde intorno alle torri— spiega Mario Labolani, assessore ai Lavori pubblici con delega ai parchi — per evitare che la zona diventi terra di nessuno. Ora aspettiamo i primi inquilini e la possibilità di animare una zona della città per troppo tempo dimenticata».

Il tallone d'Achille è sempre l'urbanistica. Anche per Variati, sindaco [di centrosinistra] rieletto nel 2008 per soli 527 voti nel ballottaggio con Lia Sartori (ex Psi, scelta da Galan, europarlamentare Pdl). All'epoca tutto ruotava intorno alla nuova base americana al Dal Molin: una sorta di referendum fra il democristiano allievo di Mariano Rumor pronto a dialogare con i movimenti e la primadonna del centrodestra (Forza Italia, An e Lega) che aveva appena abbattuto il governo Prodi&Visco. Ora si fa strada il paradosso dei due avversari diventati improvvisamente "amici". Una tesi che trova più di un riscontro politico tanto nel Partito democratico quanto nel Pdl vicentino. Di più: c'è chi si spinge fino a tratteggiare l'«amore segreto» fra il sindaco e la sua maggiore oppositrice a palazzo Trissino.

I pretesti che hanno alimentato quest'interpretazione si sono moltiplicati negli ultimi mesi. Variati ha sposato con entusiasmo il "manifesto" intitolato Verso Nord, cioè l'appello lanciato insieme da altri due ex nemici come l'ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari e il portavoce storico di Galan, Franco Miracco. Lia Sartori, invece, si è distinta come riferimento obbligato delle lobby vicentine con conseguenti contraccolpi durante la fusione fredda fra berlusconiani e apparato di An (in particolare, Sergio Berlato ed Elena Donazzan).

La carte si rimescolano proprio con l'urbanistica. Il Piano di assetto territoriale spiana la Vicenza del futuro significativamente bipartisan. In Provincia, intanto, sono stati assegnati i nuovi centri commerciali con la bilancia ancora in perfetto equilibrio politico. Così è nato il sospetto dell'inedita convergenza di Variati e Sartori ben al di là del recinto dei rispettivi partiti.

Il primo campanello d'allarme l'ha suonato il guastatore Luca Balzi, consigliere comunale del Pd. È lo stesso che aveva annunciato di votare per il leghista Zaia presidente della Regione (con conseguente deferimento disciplinare). Continua a professarsi fedele al sindaco, tuttavia ha preferito non votare l'ultimo bilancio di Variati. E per poco non ha trasformato in rissa il faccia a faccia in aula con il capogruppo Federico Formisano.

D'altra parte, il clima è più che avvelenato. Lo dimostra la lettera, sia pur anonima, ricevuta da tutti i consiglieri comunali. Gli «elettori di Variati pentiti» soffiano sul fuoco delle polemiche, lasciando intendere che il vero governo di Vicenza passa solo attraverso i salotti buoni della finanza e dell'imprenditoria. Valeva quand'era sindaco il berlusconiano Enrico Hullweck (ora a capo dello staff del ministro Bondi) che ha sposato l'architetto Lorella Bressanello.

Nel Pdl coltivano un teorema speculare. Il capogruppo Maurizio Franzina parla esplicitamente di «melassa» in comune fra Variati e Sartori. E non esita ad esporsi sul fronte degli interessi del "partito del cemento" che anche a Vicenza attraversa banche, professionisti, imprese edili e gestori dell'immobiliarismo. È Franzina che traduce la decisione maturata in Provincia, retta dal leghista Attilio Schneck. Secondo l'esponente del Pdl, «stanno per arrivare due nuovi centri commerciali, uno voluto dalla Lega, uno da Variati». Il riferimento corre alla recente approvazione di Palazzo Nievo del Piano territoriale di coordinamento provinciale, dove spuntano due maxi operazioni urbanistiche sulle ultime aree agricole intorno a Vicenza. Accanto alla possibile conversione commerciale della cubatura privata del Centro logistico di Montebello (coinvolge il deputato leghista Alberto Filippi?), spicca il progetto Vicenza Futura, con il nuovo stadio affidato ai privati che si "offrono" di costruire il nuovo Menti a Vicenza Est in cambio di una cospicua lottizzazione commerciale.

In municipio liquidano tutto come basse insinuazioni. «Ma quali inciuci. Le fantasie malevole di Franzina sono dovute solo alla guerra intestina tra di lui e il resto del suo ex gruppo consiliare. Problemi loro. Ma che non si permettano di gettare ombre su di me» avverte il sindaco. Ma la polemica registra anche le "bordate" di Bruno Carta, coordinatore cittadino Pdl. Sedeva come assessore nella giunta Variati degli anni Novanta. E si conoscono come solo due veri democristiani Doc possono: «È stato bravo, un artista. Ha preso in giro quelli del No Dal Molin e si è preso i voti. Adesso si sposta al centro e concede tutto agli americani, confezionando anche la bufala del parco della Pace. Politicamente è stato bravissimo: li ha tenuti sulla corda, e poi ha detto: abbiamo fatto tutto il possibile, ma la base non si può fermare...».

In questo quadro si inserisce anche la vicenda denunciata da Pietrangelo Pettenò, consigliere regionale della Federazione della sinistra. Sollecita la giunta Zaia a far chiarezza sulla vicenda del Centro Intermodale di Montebello. Riguarda la Cis Spa nata nel 1988 con capitale pubblico: Provincia, Autostrada Brescia-Padova, Banca Popolare di Vicenza, Fiera, Comuni di Vicenza, Montecchio Maggiore, Brendola, Arzignano. «La Cis ha accumulato ingenti perdite, senza, peraltro, realizzare il centro interscambio merci. Per sopperire, la società ha ceduto tramite bando di gara i terreni di sua proprietà a un privato. E così, con l'arrivo del privato e l'approvazione del Pati si è assistito ad un cambiamento nella destinazione di uso dell'area: da centro logistico a megacentro commerciale».

In municipio, la ripresa dell'attività amministrativa si profila ostica. Variati conta sull'autonomia del politico in versione primo cittadino, un po' come Flavio Zanonato a Padova. Entrambi hanno rinnovato i legami con la Compagnia delle Opere: il Comune di Vicenza aveva addirittura uno stand ufficiale al meeting ciellino di Rimini, dove sono tornati in processione sindaco, vice sindaco e rettore dell'Università di Padova. E il fallimento dell'operazione Venezia 2020 ha inesorabilmente riaperto i giochi in esclusiva chiave municipale. Variati (come Zanonato) incarna il "doroteismo" transitato fino al Pd. Se mai, è Lia Sartori a doversi districare nelle trappole del centrodestra. Non può più recitare il ruolo di contraltare di Variati, perché nel Pdl vicentino si punta a girare pagina. L'ombra lunga della Lega preoccupa perfino a Vicenza, ma nessuno arriva ad immaginare un "ribaltone" clamoroso solo ed esclusivamente contro Manuela Dal Lago aspirante sindaco. Sintomatico il giudizio del capogruppo leghista in Regione Federico Caner: «È un dato di fatto che esista un sistema di potere, di persone, di lobby che fa riferimento a Galan. Per carità, capiamo: sono situazioni che si creano naturalmente in tanti anni di governo. Adesso però è arrivato il momento di cambiare».

A Venezia la voce è insistente. «I leghisti sembrano sospettare soprattutto dei mega-progetti come Veneto City, ma anche del project financing sugli ospedali e sulla viabilità. Ma tengono sott'occhio anche il Pat di Vicenza». Il tallone d'Achille?

IL PIANO

Il sindaco disegna la città del futuro

«Un'idea di città nella quale un bambino di oggi vivrà bene anche fra dieci anni». Così il sindaco Achille Variati descrive la Vicenza del futuro disegnata dal Pat approvato a fine 2009. Obiettivo: trasformare la quarta città del Veneto in un vero e proprio centro regionale. Da qui le previsioni: 5-6 mila nuovi residenti nei prossimi 10-15 anni e il superamento della soglia «essenziale» di 10 mila studenti. Imperativo categorico: togliere il traffico di attraversamento del centro storico. Ma anche ridisegnare l'impianto infrastrutturale a partire della nuova circonvallazione nord. Alta velocità e Corridoio 5 sono gli altri punti fermi. Oltre alla mobilitazione delle risorse patrimoniali liberate dalle operazioni urbanistiche in corso: il trasferimento del tribunale a Cotorossi, degli uffici comunali nel comparto del nuovo Teatro, e le operazioni relative all'ex Centrale del Latte e alla Vecchia Dogana. Le linee guida ridisegnano le aree del Villaggio del Sole e del Villaggio della Produttività: saranno collegate da una piazza, con l'interramento di un viale. Ma è "rivoluzione" per la viabilità a ridosso del centro «con la città che si ricollega al colle di Monte Berico grazie a un nuovo tunnel tra viale Fusinato e la Riviera Berica». In questo contesto si inserisce la realizzazione della dorsale metropolitana pubblica Est-Ovest, con le corsie preferenziali per i filobus su gomma e il progetto di nuovo centro culturale di livello europeo, oltre al recupero dell'area dello stadio Menti. Infine Variati prepara il riassetto del confuso agglomerato industriale di Vicenza Ovest-Altavilla-Creazzo.

Dal 1992, a seguito del clima anti-partitico che si scatenò con tangentopoli, i partiti italiani hanno sistematicamente fatto ricorso all´arma del referendum e della riforma elettorale per ridare credibilità a se stessi e stabilità al sistema (essendo le due cose ovviamente correlate). Pensarono di risolvere con la tecnica elettorale problemi che erano strutturali e di sostanza, che riguardavano il rapporto di sfiducia cronico tra loro e gli elettori. La fine dei partiti di massa non è stata accompagnata da una riformulazione dei partiti che fosse capace da un lato di organizzare efficacemente la selezione della classe politica e dall´altro di ristabilire su basi laiche o non fideistiche il rapporto di fiducia con l´elettorato.

In diciotto anni nessuno dei due obiettivi è stato raggiunto: la legge elettorale che porta il nome di Roberto Calderoli ne è una prova straordinaria. Confezionata per dare una maggioranza granitica alla coalizione vincente e per sfoltire il numero delle liste e dei partiti, ha fallito su entrambi i fronti mentre ha reso cronico l´auto-referenzialismo dei partiti. Minore stabilità e più oligarchia: questo è l´esito di una legge che il suo stesso estensore giudicò pessima.

Il diritto di voto nelle democrazie moderne contiene due diritti, non uno: non solo quello di eleggere un governo, ma anche quello di mandare in parlamento rappresentanti con i quali i cittadini credono di avere una corrispondenza di idee o interessi. La democrazia moderna non è semplicemente un sistema di selezione elettorale della classe dirigente, perché attraverso le elezioni si stabilisce anche una relazione tra partecipazione e rappresentanza, tra società e istituzioni. Questo comporta che il diritto dei cittadini di godere di un´eguale opportunità di determinare la volontà politica con il loro voto dovrebbe essere accompagnato da quello di avere un´opportunità non aleatoria di formarsi e far sentire le proprie idee e infine controllare chi opera nelle istituzioni. I sistemi elettorali dovrebbero essere pensati secondo questi due grandi criteri. L´attuale sistema elettorale contraddice entrambi.

Certamente contraddice il principio di maggioranza. Scriveva Giovanni Sartori pochi giorni fa sul Corriere della Sera che dietro l´apparente logica maggioritaria l´attuale legge elettorale attua l´intento truffaldino di trasformare una minoranza elettorale in una maggioranza di governo, visto che per esempio "se Berlusconi conseguisse alle prossime elezioni il 30 per cento del voti, e se nessun altro partito o coalizione arrivasse a tanto (al 30 per cento), Berlusconi otterrebbe alla Camera il 55 per cento dei seggi". Chi volle questa legge usò l´argomento della governabilità e del superamento della frantumazione partitica nel Parlamento: come vediamo in questi giorni, la coalizione che ha goduto del premio di maggioranza è tutto fuorché stabile mentre il numero dei partiti in Parlamento resta alto comunque. In sostanza, la legge non si è rivelata soddisfacente nel garantire il primo dei due diritti contenuti nel diritto di voto: quello di formare una maggioranza. Che cosa dire dell´altro diritto, quello dei cittadini di essere rappresentati?

Una critica costante a questa legge è di mortificare "la soggettività degli eletti": dovendo costruire coalizioni pre-elettorali, la soggettività del candidato e l´opinione che del candidato hanno i cittadini passano in secondo piano. Una prova della irrilevanza del merito del candidato sta nelle liste bloccate, per cui l´elettore si limita a votare solo per delle liste di candidati, senza la possibilità di indicare preferenze. L´elezione dei parlamentari dipende completamente dalle scelte e dalle graduatorie stabilite dai partiti. Con l´aggiunta, non irrilevante, che a guadagnarci non sono i partiti – se per partiti si intende l´intera struttura di appartenza politica, centrale e periferica, di iscritti e attivisti - ma sono invece le segreterie. Le liste bloccate sono funzionali alle segreterie o, dove il personalismo è centrale, al capo.

Come si legge nel testo dell´appello promosso da Giustizia e Libertá e Valigia Blu (un appello che ha ottenuto più di quindicimila firme), "l´attuale Parlamento è dunque composto da parlamentari ‘nominati´ e non eletti: è questo il più grave vulnus alla Repubblica parlamentare disegnata nella nostra Carta costituzionale".

Si potrebbe insinuare che con questa legge elettorale un ceto politico ha voluto corrazzarsi per sopperire alla propria debolezza di legittimità, e quindi non rischiare di rimettersi alla scelta da parte dell´elettore. Partiti che si auto-nominano sono una violazione della democrazia come lo sono tutte le organizzazioni oligarchiche, gruppi di potere che, ce lo aveva spiegato un secolo fa Gaetano Mosca, cercano di perpetuare il loro stato. Per questo scopo non c´è metodo migliore della cooptazione, della nomina d´autorità, il che equivale a togliere la possibilità di scelta a coloro che, i cittadini elettori, dovrebbero essere invece i depositari della sovranità. Con tutto il parlare che fanno i leader del Pdl del valore della sovranità popolare, come motivano questo esproprio? Non è forse vero che questo sistema elettorale soddisfa la loro idea di democrazia populistica per cui al popolo sovrano è riservato un unico potere: quello di acclamare o di ratificare la volontà del capo? Libertà apparente e sovranità di ratifica!

In conclusione, nessuno dei due diritti che il diritto di voto esprime, viene soddisfatto dall´attuale legge elettorale: non quello che si traduce in governabilità né quello che pertiene alla rappresentanza. Dopo un quindicennio di mutamenti normativi e di referendum ci troviamo al punto in cui il deficit di democrazia si traduce in un deficit di stabilità. Che senso ha persistere con una legge che non riesce a soddisfare neppure la logica del ‘tanto peggio/tanto meglio´? Con una legge che non riesce a mantenere nessuna delle promesse fatte, che anzi le rende addirittura utopistiche?

Paesaggio, l'ennesimo assalto. Una legge a misura dei privati

Stefano Miliani

Tettoie, antenne paraboliche, un balcone da sistemare, il box auto, pannelli fotovoltaici. Piccoli lavori, non sempre tanto lievi. Per chi vuole eseguirli a casa o nella villetta tutto diventa più semplice. Anche in zone paesaggistiche che scatenano la retorica del Belpaese dalla bellezza ormai sempre più compromessa e attaccata. Entra in vigore oggi 10 settembre la «semplificazione” per piccoli interventi. Lo fissa il Dpr numero 139 di questo 2010. Un provvedimento che non in teoria ma in sostanza bypassa - scusate il verbo - chi ha in carico i beni culturali. Proviamo a spiegare perché. Per richiedere il permesso per una quarantina di interventi - ci sono anche i serbatoi Gpl in superficie, ovviamente nelle campagne che cambiano l'aspetto esterno - da oggi servono meno documenti: la procedura per il sì o il no si assottiglia. Non si parla di beni vincolati: nessuno potrà mettere un balcone sul palazzo storico. Si tratta però di interventi in zone incluse nei piani paesistici (piani tuttora mancanti), queste sì vincolate, cioè di pregio, per le quali ci vuole un'autorizzazione speciale. Da ora in poi un privato non deve più superare lo scoglio della conferenza dei servizi; chiede l'autorizzazione al Comune il quale se acconsente passa la pratica alla locale soprintendenza ai beni architettonici e paesaggistici e se la risposta - vincolante - è sì, il Comune autorizza. Ma qui sta il nocciolo della faccenda. Il privato deve avere risposta entro 60 giorni di cui appena 25 a disposizione della soprintendenza. Altrimenti non scatta automaticamente il «sì» (il famigerato - per i beni culturali - silenzio-assenso), scattano sanzioni su funzionari e dirigenti.

Gli interventi.

Si parla di lavori all'esterno su case e villette. Converrà rammentare che l'ultima manovra finanziaria vieta ai dipendenti dei beni culturali di usare la propria auto con rimborso spese (il 22 ci sarà una protesta ma al ministero studiano come ottenere una deroga analoga a quella strappata dal Demanio), perciò i sopralluoghi restano, spesso, una chimera o prendono giornate. E con le soprintendenze a corto di persone 25 giorni sono una beffa. Paola Grifoni, soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna, Modena e Reggio Emilia, descrive bene una situazione-tipo: «Con 10 architetti su 3 province e un territorio immensamente tutelato nel mese scorso abbiamo avuto 1.200-1.400 richieste. Abbiamo 5 geometri e una totale carenza di personale amministrativo. Tanti funzionari portano il lavoro a casa: c'è già una miriade di interventi da controllare al di là delle nostre forze. Questa semplificazione è fatta per il privato, 25 giorni è un tempo semplicemente impossibile. E non è vero che la norma riguarda solo interventi piccoli: gli impianti fotovoltaici non lo sono. Aggiungo che se annulliamo l'intervento del privato dobbiamo avvisarlo che è iniziato il procedimento e dirgli perché, lui ha 10 giorni per replicare, se il Comune non risponde il cittadino si rivolge direttamente a noi per cui, anche se spesso vediamo le cose in modo diverso dai Comuni, non c'è neppure quel filtro della commissione edilizia comunale. E’ un nubifragio per il nostro territorio, siamo sconcertati».

Caterina Bon Valsassina, direttore regionale ai beni culturali della Lombardia, vanta esperienze da soprintendente in più zone d'Italia: «Questa norma non va letta isolatamente. Ad esempio una modifica del luglio scorso, fatta dal ministro Brunetta, riduce a 30 giorni le scadenze per procedure non indicate precisamente nel Codice dei Beni culturali. E non potendo andare in macchina nei luoghi vuol dire non poter fare tutela. La sola Lombardia ha 1500 Comuni. E un architetto della soprintendenza milanese da solo deve affrontare 100 pratiche al mese. Non può. Non abbiamo le forze per affrontare questa incombenza. Il provvedimento è un modo per mantenere le norme del codice dei beni culturali ma svuotarle». Basti segnalare che la soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Milano (copre l'intera Lombardia escluse solo Brescia, Cremona e Mantova) ha 14 architetti (di cui 6 nuovi arrivati di fresco), 2 capi tecnici e un assistente tecnico geometra. La mole di lavoro? Nel 2009 ha sbrigato 24mila pratiche di tutela paesaggistica e 14mila di tutela architettonica. Fate voi... Il consiglio superiore dei beni culturale valutò negativamente questa semplificazione. E il Codice è un buon impianto. Il guaio è che mancano i piani paesaggistici regionali. E non rischiano i luoghi sotto i riflettori nessuno monterà una parabolica in piazza del Campo a Siena o in San Marco a Venezia ma il resto.

Anna Marson è l'assessore regionale all'urbanistica in Toscana. a già dimostrato di avere a cuore l'ambiente e di non accettare scempi. «Qui, come altrove, nemmeno tutte le sedi provinciali delle soprintendenze hanno un soprintendente proprio ma ad interim. Dalle prime richieste dei Comuni che sono 287 - sembra non esserci sufficiente chiarezza sulla procedura, se serva modificare la legge regionale o se c'è solo obbligo di sentire le soprintendenze. I Comuni sono in allarme e provvedimenti come questi, se non inseriti in modo chiaro nel contesto normativo, rischiano produrre l'effetto opposto. Magari per non rischiare sanzioni i professionisti locali preferiranno procedimenti più lunghi e costosi». La semplificazione per ora non investe le regioni a statuto autonomo. Avverrà dopo aver verificato com'è andata altrove. In Sardegna, a Cagliari in tre mesi (stima di luglio) avevano ricevuto 4mila progetti per valutazioni paesaggistiche con un solo addetto per acquisire i documenti da consegnare agli architetti. Gabriele Tola, ingegnere, soprintendente ai beni architettonici di Cagliari, Oristano, Sassari e Nuoro, osserva: «Se slegata a una verifica degli organici questa riduzione dei tempi diventa una favola. Potevano mettere anche 10 giorni, le soprintendenze non sono in grado di farcela. Per tutta la Sardegna riceviamo 12-13 richieste di nulla osta al giorno con 7 tecnici che si occupano del paesaggio». Regioni come la Liguria non se la passano meglio. E non è per aggiungere sale alla ferita. .. .”

L'Italia, paradiso per gli abusivi

Vittorio Emiliani

I1 governo Berlusconi non fa nulla di positivo per il Paese. In compenso procede risoluto nello svuotamento di quel po' di Stato residuale. Adesso sfibra ancor pi la rete delle Soprintendenze invidiata e imitata all'estero (prima di Urbani e Bondi). Tagli feroci l'hanno intaccata e messa in condizione di lavorare il peggio possibile. Come la giustizia, la cultura, l'arte, la musica, il teatro, il cinema di qualità, la scuola di ogni grado, la difesa idro-geologica, la sanità, o i treni dei pendolari, e così via. Da oggi le Soprintendenze tutrici del paesaggio (spesso straordinario, malgrado tutto), gravate di compiti e impoverite di tecnici, patiranno nuove difficoltà: per semplificare le procedure, il duo Berlusconi-Bondi impone loro di dare - per ora nelle Regioni a statuto ordinario, fra sei mesi nelle altre - il previsto parere su 39 interventi privati di lieve entità in appena 25 giorni di tempo. Il che equivale dire ai privati fate quello che vi pare : si calcola infatti che, già prima di questa misura (che riguarda l'installazione di pannelli solari, di antenne paraboliche, di tettoie o di porticati, cose tutt'altro che minime), architetti e ingegneri pubblici avessero ben 4-5 pratiche al giorno da sbrigare. Da oggi si rovescia sui loro tavoli un'altra marea di carte, di progetti spesso scadenti e insidiosi. Mentre più aggressivi risultano i ladri di paesaggio.

Nel contempo Lombardia, Veneto e altre Regioni (la Lega è per una totale deregulation ) si sono date norme urbanistiche molto permissive grazie alle quali si finirà di cementificare la più devastata delle pedemontane italiane, quella che corre dalla collina, ieri meravigliosa, delle Ville venete a quella, non meno splendida un tempo, della Bergamasca, della Brianza e dei laghi. Un massacro. Difatti rischia di chiudere per mancanza di fondi il Parco regionale dell'azzurro Ticino istituito nel 74 con una legge d'iniziativa popolare. Dov'è finita la civiltà lombarda? Da mesi il Ministero nega ai suoi tecnici i rimborsi (modestissimi) per le missioni sul territori dove visitano cantieri, realizzano o seguono nuovi scavi archeologici. Non ci sono auto di servizio e per il mezzo privato non viene più consentito. Niente missioni, niente controlli, niente scavi. Un paradiso per abusivi, criminali, tombaroli. Tocco finale: il decreto Brunetta sui 40 anni di anzianità manda in pensione spesso a 62 anni i Soprintendenti più preparati, moltiplica gli interim , cioè indebolisce tutela, ricerca, promozione di attività. Di contro trionfa il feticcio, l'uso sfrenatamente commerciale dei capolavori, il mostrificio , un quadro singolo esposto per pochi giorni magari con pornostar (a Venezia per Giorgione). Festa, forca (o meglio, sorca) e farina.

Via la Dia, arriva la Scia. Non è un gioco di parole ma un’altra norma approvata nella manovra Tremontii a fine luglio che permette ai costruttori di avviare cantieri, senza autorizzazione, senza dichiarazione ma con una semplice Segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A) E solo dopo, nei sessanta giorni successivi le amministrazioni pubbliche potranno intervenire a fermare i cantieri, se riscontrano difformità con le norme, con l’antisismica, con i piani regolatori, con i regolamenti edilizi, quando ormai il danno è già costruito e lo scempio già in piedi. La Scia è stata alla fine esclusa per le aree vincolate ma solo a seguito della campagna delle associazioni ambientaliste e delle proteste di autorevoli intellettuali.

Ma resta la gravità di una norma che aumenterà abusi, sprawl urbano, periferie informi e scarsa qualità edilizia: un altro tassello dell’aggressione sistematica al territorio, alle città, al suolo agricolo ed al paesaggio.

La Dia consentiva di presentare i progetti e di attendere un tempo (diverso tra le diverse regioni) entro il quale se l’amministrazione non interveniva, scattava il silenzio assenso ed i cantieri potevano essere avviati. Con la Scia invece i cantieri partono nello stesso momento della segnalazione e l’intervento dell’amministrazione pubblica è a cantiere aperto, molto più difficile da attuare, stante anche i tagli che gli enti locali hanno subito nella stessa manovra Tremonti, con l’impossibilità di potenziare uffici e personale per la vigilanza ed i controlli. Senza dimenticare che solo pochi mesi fa era stata abolita la Dia per tutte le opere interne, anche quelle rilevanti, come se non fosse indispensabile un minimo di controllo almeno per la parte che riguarda la sicurezza, le norme antisismiche ed il patrimonio tutelato.

Resta da capire come la norma impatterà con le regioni e la loro autonomia in materia urbanistica, se vi saranno ricorsi o adeguamenti normativi regionali. Anche la positiva esclusione delle aree vincolate che comprende il 47% del territorio italiano, non fa i conti con la mancanza di piani paesistici in attuazione della legge Galasso da parte di diverse regioni che rende inapplicabili le tutele. E con il fatto che la stessa manovra Tremonti riduce del 50% le risorse per i parchi italiani (nel 2009 erano già scarse pari a 54 milioni di euro), che sono circa il 10% del territorio italiano, dandogli un colpo mortale e mettendoli nella impossibilità di vigilare sul proprio patrimonio naturale ed ambientale.

Nella stessa legge si semplificano ulteriormente le procedure per la Conferenza dei servizi, come ha denunciato il Wwf, indebolendo le amministrazioni preposte alla tutela per l’ambiente e la salute, incluse le Soprintendenze già alle prese con tagli del personale e l’introduzione dell’autorizzazione paesaggistica semplificata prevista per interventi di lieve entità, che rischia di allentare tutti i controlli. E’ la controriforma che cerca di mettere in un angolo uno degli ultimi baluardi preposti alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico, che dal 1 gennaio 2010 aveva visto aumentare i poteri delle Soprintendenze con la nuova disciplina di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.

Ed è sempre la stessa norma Tremonti approvata a luglio che consente l’accatastamento di case “fantasma” che secondo l’ultimo censimento dell’Agenzia del territorio sono 2.868.000 unità immobiliari: facile immaginare non si sia trattato solo di evasione delle tasse ma anche di abusivismo edilizio.

Già il provvedimento sul federalismo demaniale, voluto dalla Lega, approvato da governo e parlamento, con il voto favorevole dell’Idv, consentirà vendita e valorizzazione di un patrimonio comune in modo diseguale tra le diverse regioni, e visti i problemi di cassa delle istituzioni locali, aumenteranno cubature e speculazioni, come già è successo con gli oneri concessori destinati alla spesa corrente e non più solo a opere di urbanizzazione nelle periferie e nelle nuove aree di intervento edilizio. Non solo, come ha sottolineato Sauro Turroni, ex senatore verdeiii, vengono anche ignorati gli effetti sul demanio fluviale, dove di fatto si smembrano le autorità di bacino, assegnando i fiumi “affluenti” e di modeste dimensioni agli enti locali, che potranno autorizzare escavazioni di sabbia e ghiaia (materia prima per il cemento!). In questo modo si distrugge anche il principio della gestione unitaria dei fiumi e delle acque, ottenuto con tante battaglie nel 1989, con la Legge 183 per la difesa del suolo.Norme che aggraveranno una situazione già degenerata, aumentando il consumo di suolo, le periferie degradate senza identità e servizi, la perdita di bellezza e di storia millenaria del nostro straordinario patrimonio italiano.

Utile e ben documentato è il dossier recentemente presentato da Legambiente “Un’altra casa? Il diluvio del cemento ed i problemi delle città italiane” iv, che fa non solo fa il punto sul consumo di suolo degli ultimi 15 anni, ma sottolinea anche i problemi di accesso alla casa che vivono molto cittadini, la crisi in atto nell’edilizia con 15.000 imprese che hanno chiuso i battenti, la pessima qualità del costruito, avanzando proposte concrete per un cambiamento positivo degli anni a venire. Si propongono regole per fermare il consumo di suolo, costruire edilizia di qualità e sociale, riqualificare quella esistente, demolire e ricostruire quella fatiscente, realizzare servizi ed infrastrutture per la riqualificazione urbana. Secondo Legambiente sono 4 milioni le abitazioni costruite tra il 1995 ed il 2009 per oltre 3 miliardi di metri cubi, che si può stimare oggi abbia superato in Italia i 21.000 chilometri quadrati (il 7%), con un incremento annuo di circa 500 km quadrati, più o meno come tre volte la superficie del comune di Milano. Un milione di case sono vuote, risultato di una speculazione edilizia che non soddisfa la domande di case per giovani, anziani ed immigrati, in un paese che ha il primato europeo dell’abusivismo edilizio e dove la deregulation totale del settore è l’unica risposta del governo Berlusconi, mentre nel resto dell’Europa si va nella direzione opposta.

Vorrei sottolineare il punto di vista di Legambiente, che ritiene che il tema “casa” e più in generale le questioni edilizie ed urbanistiche, non possano essere risolte a livello locale e comunale, ma che servano livelli superiori come le regioni, per vigilare, operare e dare slancio alle nuove idee di riqualificazione. Lo sottolineo perché mi pare una novità per Legambiente, che aveva storicamente visto nel decentramento un elemento positivo di responsabilità. Che purtroppo spesso non funziona e che è diventato un “padroni a casa nostra” per aumentare la scia del cemento e dell’asfalto, l’altra faccia della Legge obiettivo che esclude gli enti locali dalle decisioni.

Il Dossier Legambiente raccoglie anche molti dati disaggregati per regione su consumo di suolo, patrimonio edilizio e disagio abitativo, ed anche molte storie di ordinaria speculazione edilizia e consumo di suolo sparsi ad ogni latitudine dell’Italia.

Tempi duri dunque per ambiente territorio e paesaggio, ma si moltiplicano anche reazioni civili ed iniziative locali, oltre al lavoro di associazioni ambientaliste, per la tutela della bellezza e del paesaggio. E’ una positiva novità, anche se per ora non c’è ascolto dalla politica e nelle istituzioni, ostaggio della cultura della cementificazione. Basta leggere il libro appena pubblicato “La Colata. Il partito del cemento che sta cancellando l’Italia ed il suo futuro” curato da Ferruccio Sansa e scritto da diversi autoriv che raccoglie dal nord al sud, da destra a sinistra, la febbre del mattone, del cemento e dell’asfalto, ma anche le indignate reazioni di cittadini, associazioni e comitati, per contrastare il degrado, il consumo di suolo, la perdita di bellezza ed identità, per avere una visione chiara di quanto sta accadendo.

O seguire da vicino il prezioso lavoro di Edoardo Salzano, con il sito Eddyburg.it, che raccoglie quotidianamente articoli, recensioni, iniziative, proposte su urbanistica, società e politica (urbs, civica, polis) con molte antenne sul territorio, i progetti devastanti, le regole deformate, impegnato a contrastare il degrado e l’esclusione, promuovendo la cultura dell’abitare e del governare il territorio.

C’è indignazione e partecipazione nel Paese reale contro questi scempi e questa cultura del cemento e si moltiplicano documentari , dossier, gruppi su Facebook, seminari, scuole estive, rete di cittadini. Da oltre un anno è stato lanciato il manifesto nazionale del movimento Stop al consumo di territorio, partito dalla preziosa esperienza di Domenico Finiguerra, sindaco del Comune di Cassinetta di Lugagnano, che ha adottato un Piano Regolatore/Territoriale a “crescita zero”. Un movimento in reteviii che raccoglie esperienze ed iniziative reali di impegno contro il consumo di suolo ed il degrado del territorio e che si ritroverà a Sarzana il 18 e 19 settembre, per mettere a fuoco le future iniziative comuni.

Sono molti gli articoli della Costituzione il cui rispetto è stato pagato con la vita. Non si contano i cittadini italiani che in questi sessant’anni sono stati uccisi per aver preso sul serio l’articolo 1 (per aver cioè difeso il lavoro come fondamento del nostro sistema democratico), l’articolo 3 (per aver dunque lottato per l'uguaglianza di fronte alla legge) o l’articolo 41 (per essersi opposti all’asservimento criminale dell’iniziativa economica privata). La sconvolgente esecuzione del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, sembra aggiungere a questo tremendo canone anche l’articolo 9, quello per cui la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».

Troppo spesso dimentichiamo che la salvaguardia della natura e dell’arte (in Italia saldate dalla storia in un unico, indivisibile ambiente culturale) non è affidata alla sensibilità delle anime belle, degli esteti o degli ambientalisti. L’articolo 9 ci ricorda che essa è invece uno dei principi fondamentali su cui si fonda la nostra convivenza civile. In un discorso pronunciato al Quirinale l’11 dicembre 2003, il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi disse: «Difendere questo straordinario patrimonio dall’aggressione degli egoismi, dalla speculazione e dall’abbandono significa custodire la nostra identità nazionale, che si fonda sulla bellezza di un paesaggio indissolubilmente legato all’opera dell'uomo». Il libro che Salvatore Settis ha dedicato ai beni culturali e ambientali tra istituzioni e profitto si intitola Battaglie senza eroi. Ora sembra che Angelo Vassallo sia il primo eroe di questa battaglia. Ed è davvero una notizia terribile.

Il contratto nazionale di lavoro dovrebbe svolgere due funzioni fondamentali: perseguire una distribuzione del Pil passabilmente equa tra il lavoro e le imprese, e stabilire quali sono i diritti e i doveri specifici dei lavoratori e dei datori.

Diritti e doveri al di là di quelli sanciti in generale dalla legislazione in vigore. La disdetta del contratto nazionale dei metalmeccanici da parte di Federmeccanica compromette ambedue le funzioni, a scapito soprattutto dei lavoratori. Caso mai ve ne fosse bisogno. I redditi da lavoro hanno infatti perso negli ultimi venticinque anni almeno 7-8 punti sul Pil a favore dei redditi da capitale (dati Ocse). Perdere 1 punto di Pil, va notato, significa che ogni anno 16 miliardi vanno ai secondi invece che ai primi. Questa redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto ha impoverito i lavoratori, contribuito alla stagnazione della domanda interna, ed è uno dei maggiori fattori alla base della crisi economica in corso.

Quanto ai diritti, sono sotto attacco sin dai primi anni ´90 e la loro erosione ha preso forma della proliferazione dei contratti atipici che sono per definizione al di fuori del contratto nazionale. Per cui lasciano ai datori di lavoro la possibilità di imporre a loro discrezione, a milioni di persone, quali debbano essere le retribuzioni, gli orari, l´intensità e le modalità della prestazione, e soprattutto la durata del contratto.

Si potrebbe obbiettare che il contratto dei metalmeccanici riguarda solo un milione di persone, su diciassette milioni di lavoratori dipendenti. Ma non si può avere dubbi sul fatto che altri settori dell´industria e dei servizi seguiranno presto l´esempio di Federmeccanica. Dietro la quale è sin troppo agevole scorgere non l´ombra, bensì il pugno di ferro che la Fiat sembra aver scelto a modello per le relazioni industriali.

Le conseguenze? Ci si può seriamente chiedere come possa mai immaginarsi un imprenditore o un manager, e come possa sostenere in pubblico senza arrossire, di riuscire a competere con i costi del lavoro di India e Cina, Messico e Vietnam, Filippine e Indonesia, cercando di tenere fermi i salari dei lavoratori italiani mentre li si fa lavorare più in fretta, con meno pause e con un rispetto ossessivo dei metodi prescritti. Magari a mezzo di altoparlanti e Tv in reparto, come già avviene in aziende del gruppo Fiat. Allo scopo di competere con tali paesi bisognerebbe produrre beni e servizi che essi non sono capaci di produrre, o perché sono altamente innovativi, oppure perché sono destinati al nostro mercato interno. Ma per farlo occorrerebbe aumentare di due o tre volte gli investimenti in ricerca e sviluppo, che ora vedono l´Italia agli ultimi posti nella Ue. Affrontare una buona volta il problema dello sviluppo di distretti industriali funzionanti come fabbriche distribuite organicamente sul territorio, tipo i poli di competitività francesi o le reti di competenze tedesche. Accrescere gli stanziamenti per la formazione professionale, le medie superiori e l´università, invece di tagliarli con l´accetta come si sta facendo.

A fronte di ciò che sarebbe realmente necessario per competere efficacemente con i paesi emergenti, la guerra scatenata da Fiat e Federmeccanica al contratto nazionale di lavoro è un povero ripiego. Che farà salire la temperatura del conflitto sociale. Per di più impoverirà ulteriormente i lavoratori, che così acquisteranno meno merci e servizi, abbasseranno gli anni di istruzione dei figli e dovranno andare in pensione prima perché non possono reggere a un lavoro sempre più usurante. Fa un certo effetto vedere degli industriali che nel 2010, a capo di fabbriche super tecnologiche, si danno la zappa sui piedi.

In una ben ordinata repubblica la bagarre istituzionale montata intorno al Presidente della Camera dei deputati sarebbe impensabile. Ma dalle nostre parti si inventa ogni giorno una qualche "costituzione materiale", sì che siamo obbligati non solo a richiamare i dati costituzionali corretti, ma soprattutto a segnalare le forzature e i rischi grandi delle pretese di questi giorni, che tendono, una volta di più, ad eliminare persone e istituzioni che sono percepite come intralci sulla strada sempre più accidentata della ormai sconquassata (ex?) maggioranza di governo.

La prima considerazione, allora, richiama una tecnica ben conosciuta in politica, quella di inventarsi un nemico interno o esterno per distogliere l´attenzione dalle difficoltà reali. Prigioniera di scandali gravi, falcidiata dalle inevitabili dimissioni di due ministri, sconfitta in Parlamento su questioni come quella della legge bavaglio, incrinata nel collante finora rappresentato dal potere assoluto di Berlusconi, la maggioranza uscita vittoriosa dalle elezioni del 2008 sfugge alla resa dei conti politici e dirige il fuoco mediatico su Gianfranco Fini, concentrato di tutti i mali, sì che, una volta caduta la sua testa, si tornerebbe nel migliore dei mondi.

Ma questa non è soltanto una impostazione palesemente pretestuosa. Com´è altre volte avvenuto in questa sciagurata stagione politica, l´interesse di breve periodo di una persona o di un gruppo non esita di fronte alle spallata istituzionale, proseguendo in una strategia che sta riducendo il nostro sistema ad un cumulo di macerie. Elementari regole di diritto parlamentare dovrebbero insegnare che il presidente del Senato o della Camera non possono essere sfiduciati o essere costretti alle dimissioni. La ragione di questa regola è evidente. Solo così l´alta funzione di dirigere una assemblea parlamentare, nell´interesse dell´assemblea stessa e non di una sua parte, può essere sottratta a pressioni, non dirò a ricatti, tendenti proprio a distorcere la funzione di garanzia, che esige distacco in primo luogo dai gruppi che lo hanno eletto. Il potere di questi gruppi si esaurisce nel momento dell´elezione. Lo sanno benissimo quelli che, all´interno della stessa maggioranza, mantengono senso dello Stato e rispetto delle istituzioni, come Giuseppe Pisanu, che non a caso ha liquidato ieri con poche parole la tesi delle dimissioni necessarie del presidente della Camera. E, invece, in questi giorni è stata sostenuta la tesi, francamente eversiva, secondo la quale il presidente della Camera sarebbe "il garante dell´attuazione del programma di governo", tramutando così una carica istituzionale di garanzia in un semplice terminale della volontà governativa. Non v´è bisogno d´invocare la separazione dei poteri per accorgersi dell´improponibilità di questa tesi, che conferma la voracità proprietaria di un Berlusconi che vuole ingoiare tutte le istituzioni. Peraltro, anche i precedenti evocati con molta approssimazione, come le dimissioni di Sandro Pertini dopo la fine dell´unità socialista, provano se mai il contrario, visto che, respingendo quelle dimissioni, la Camera ribadì proprio l´irrilevanza delle vicende successive al momento dell´elezione del presidente.

A questa forzatura se ne è aggiunta una seconda, gravissima, con l´annuncio di Berlusconi e Bossi di recarsi dal presidente della Repubblica per chiedere appunto le dimissioni di Fini. Solo una sgrammaticatura istituzionale, l´ennesima? Molto peggio. I due nominati, per quanto abbiano dato infinite prove di totale insensibilità istituzionale, sanno benissimo che mai un presidente rigoroso come Giorgio Napolitano potrebbe dare il pur minimo ascolto ad una richiesta del genere. E allora? Quell´annuncio era rivolto all´opinione pubblica, per dar ad intendere che, se lo volesse, il presidente della Repubblica potrebbe porre fine a questa vicenda. Una volta divenuto chiaro che non è possibile alcun intervento di Napolitano, rimarrebbe comunque un fondo torbido, una sorta di sciagurato ammiccamento che allude ad un filo che lega presidente della Repubblica e presidente della Camera.

Non sarebbe una novità. In modo sfrontato, e di nuovo ignorante d´ogni regola istituzionale, Berlusconi accusò pubblicamente Napolitano di non essere intervenuto sulla Corte costituzionale per impedire che fosse dichiarato illegittimo il Lodo Alfano. Anche il presidente della Repubblica è percepito come un intralcio, al quale possono essere rivolte richieste "irrituali" o vere e proprie minacce, come ha fatto Bossi evocando un milione di persone che arriverebbe a Roma per imporgli lo scioglimento delle Camere.

La vicenda Fini dimostra una volta di più quanto sia profondo il malessere istituzionale. Per questo nessuna compiacenza è possibile. Non si tratta di difendere una persona, ma di recuperare quel po´ di senso delle istituzioni senza il quale la democrazia muore. Siamo ancora in tempo.

La frontiera di un sindaco di sinistra, di Luigi De Magistris

Ucciso per legalità, di Francesca Pilla

Gerardo Rosania: «Insieme contro gli abusi edilizi. Dobbiamo reagire», di Romina Rosalia.

Legambiente: «Lottava contro gli ecomostri turistici», di Adriana Pollice

Alfonso Amato: «Grazie a lui il Parco crescerà e verrà esteso», di Romina Rosolia

Campania. Un ritratto del sindaco ucciso. E del suo paese, diAngelo Mastrandrea e Adriana Pollice#l'altra

Editoriale

La frontiera di un sindaco di sinistra

di Luigi De Magistris

Bersaglio mobile che deve essere freddato a colpi d'arma da fuoco. Per punirlo, ma anche per inviare un messaggio a quanti decidono di amministrare la cosa pubblica nel solo interesse dei cittadini, contrastando la rapacità dei clan. L'uccisione di Angelo Vassallo, sindaco di Pollica-Acciaroli, gioiello di un Cilento bellissimo, riconsegna al Paese un dolore purtroppo non sconosciuto e ci ricorda come la politica possa diventare il principale obiettivo delle mafie quando dimostra di essere onesta. Quelle mafie che infiltrano le istituzioni, l'economia, il lavoro, la società.

Il volto del killer armato accanto alla faccia «pulita» - e per questo pericolosissima - del business. Siedono nei cda delle società miste; partecipano alle gare per gli appalti pubblici; riescono a gestire lo smaltimento dei rifiuti, incassando commesse in modo apparentemente corretto; sfruttano per la speculazione edilizia piani regolatori confezionati ad hoc; prendono parte all'assegnazione dei finanziamenti europei, elargiti da amministratori conniventi con società controllate da prestanome o spudoratamente riconducibili a criminali. Mafie che non bussano più alla porta della politica perché è la politica che bussa alla loro: offrono voti all'aspirante sindaco o parlamentare, in cambio di un lasciapassare negli affari che le amministrazioni, soprattutto locali, gestiscono. Favorendo il crimine che li ha protetti nella corsa al potere. Quando non arrivano a inserire - ed è frequente - nelle liste elettorali uomini di fiducia, pronti a fare i loro interessi.

Può però capitare che nel paese di Gomorra e de o'sistema, ci sia qualcuno che rompe questa contaminazione illecita. Un primo cittadino che individua il rispetto dell'ambiente come punto cardine del suo operato e che, insieme alle associazioni, si impegna contro l'edilizia abusiva per la difesa delle coste, per la raccolta differenziata. In una terra in cui l'ambiente è forziere di arricchimento e di controllo del territorio per il crimine, questo sindaco non solo è dannoso per gli affari mafiosi ma addirittura offensivo. Un colpo economico, un'onta etica. A cui si risponde in un solo modo: l'esecuzione.

La politica che si fa baluardo di legalità si trasforma in bersaglio mobile delle cosche perché ne esiste un'altra che sceglie di svendersi per vantaggio, ponendosi al servizio dei boss senza contorcimenti morali. Gli amministratori locali possono essere sentinelle sul territorio e presidio capillare della giustizia, persone come Vassallo, con la schiena dritta, con la capacità di parlare alla popolazione. Lasciati soli dallo Stato, con l'appoggio delle sole forze dell'ordine e della magistratura, alcuni di loro affrontano a «mani nude» le mafie nelle periferie del Paese: un corpo a corpo che senza il Governo rischia di farsi martirio.

La battaglia a cui siamo chiamati deve avere un respiro nazionale, puntando sulla mobilitazione della società. Provvedimenti come il disegno di legge sulle intercettazioni o il processo breve, il condono edilizio e lo scudo fiscale, oppure la vendita all'asta dei beni confiscati non sono certo segnali che vanno nella direzione giusta, ma ostacoli contro l'operato coraggioso dei Vassallo d'Italia. Ora partiti e Governo devono smetterla con la retorica dell'anti-mafia, per scegliere quella della coerenza legislativa e del contrasto politico (garantendo l'occupazione regolare dove il lavoro è presidio di legalità ed impegnandosi al rispetto del codice etico nelle candidature).

La battaglia durissima, epocale contro le mafie si può vincere, ma serve volontà . E questa volontà è politica.

Ucciso per legalità

di Francesca Pilla

Angelo Vassallo, primo cittadino di Pollica nel Cilento, crivellato di colpi nella sua auto nella notte. Era atteso al Festival del cinema di Venezia. La procura: «Un omicidio di camorra». Che vuole mettere le mani sul Parco del Cilento e alza il tiro contro gli amministratori onesti

Lo hanno pedinato, seguito e bloccato, quindi hanno esploso almeno nove proiettili, probabilmente da due pistole diverse di calibro 9x21, centrandolo prima in pieno volto e poi infierendo su tutto il corpo. Colpi mortali che non hanno lasciato scampo ad Angelo Vassallo, 57 anni, il sindaco Pd di Pollica (Sa), freddato domenica sera tra le 9 e le 10:30. Il primo cittadino ambientalista, convinto paladino di tante battaglie contro gli abusi edilizi, è deceduto così mentre percorreva da solo sulla sua Audi una strada appena inaugurata proprio dal suo comune. Il suo corpo è stato ritrovato riverso sul sedile anteriore dell'autovettura che aveva il freno a mano tirato e il finestrino abbassato. Segno che Vassallo si era fermato a parlare con i suoi killer? Al momento il movente del suo omicidio, che gli inquirenti definiscono di estrema brutalità per un'area poco abituata alla violenza e oggi sotto choc, resta senza risposte.

«Se si privilegia una pista non si sa lavorare, però abbiamo due o tre cose da verificare», ha detto arrivato sul luogo del delitto il pm Alfredo Greco, a cui sono state affidate le indagini insieme al procuratore di Vallo della Lucania, Giancarlo Grippo. Poche parole che non lasciano trapelare molto, dalla pista delle beghe personali - Vassallo era contitolare di una società ittica - alle denunce a suo carico per estorsione e per reati contro la pubblica amministrazione che lo dipingerebbero come un personaggio controverso. Ma amici, compagni di partito, familiari, e i cittadini che lo avevano eletto per ben 4 volte, l'ultima lo scorso marzo, sono pronti a giurare sulla sua integrità e sembrano convinti che dietro all'agguato, viste le modalità, vi sia la mano della camorra.

Eppure Vassallo non si sarebbe confidato con nessuno, né si ha notizia di minacce o avvertimenti ricevuti negli ultimi tempi. Al vaglio dei magistrati ci sono delibere e appalti dal comune, l'ultimo più consistente riguarda il secondo lotto per la costruzione del nuovo porto di Acciaroli. «L'appalto però è stato già affidato senza problemi - spiega il vicesindaco Stefano Pisani, che a stento contiene le lacrime - per i primi lavori abbiamo avuto delle tensioni con la precedente ditta appaltatrice, ma stiamo risolvendo tutto per vie legali». E anche Pisani non si capacita di questo delitto: «Il nostro territorio è completamente libero dalla camorra. Non riusciamo a capire, né a venire a capo del movente. A noi amministratori non aveva detto niente, ma era il suo carattere, ci teneva a mantenerci fuori da certe beghe». D'altra parte non tutti sono convinti che questa splendida area nel parco del Cilento non facesse gola alla criminalità organizzata. Tra questi c'è il procuratore di Torre Annunziata Raffaele Marino, che conosceva bene lo stesso Vassallo perché da anni assiduo frequentatore di questo angolo di paradiso campano: «A me non ha raccontato di minacce ricevute - spiega - non perché sono un magistrato ma perché era nel suo carattere, molto deciso e convinto di conoscere bene la sua terra. Un portatore di legalità e credo che questa sua integrità anche un po' ingenua lo abbia reso poco guardingo verso avvertimenti che immagino abbia ricevuto. Forse ha pensato di poter risolvere le cose da solo». Marino, che qualche mese fa ha ricevuto anche una lettera di minacce con proiettili per le sue inchieste nei comuni vesuviani, ricorda come la zona di Acciaroli sia da tempo oggetto di appetiti camorristici, e non da oggi. Ad Albanella, a pochi chilometri da qui, fu arrestato nel '79 il latitante Raffaele Cutolo, poi è venuto il turno degli Alfieri-Galasso negli anni '90, fino agli interessi dei Fabbrocino, dei Nuvoletta e dei nuovi padroni della Campania, i Casalesi.

«Vassallo aveva fatto del suo comune un volano di sviluppo per tutta l'area, dove cresce l'economia turistica con costruzione di alberghi, residence, villaggi. Ovviamente le mie sono solo supposizioni, ma le modalità del delitto, la premeditazione, il fatto che sia stato seguito, che i killer fossero almeno due, mi fa pensare a un agguato di camorra», dice ancora Marino.

I magistrati ieri hanno sentito anche i familiari, la moglie Angela Amendola, che proprio domenica notte insieme al fratello di Vassallo ha scoperto il corpo riverso in una pozza di sangue, e i figli Giuseppina titolare di una enoteca e Antonio, proprietario di un ristorante. Al lavoro anche la Dda di Salerno, guidata dal procuratore Franco Roberti, che cerca di capire se il sindaco avesse subito pressioni. I suoi assessori si arrovellano su un particolare: Vassallo avrebbe dovuto partecipare alla presentazione del film di Mario Martone al festival di Venezia, «Noi credevamo», girato proprio ad Acciaroli, ma ha rifiutato all'ultimo momento inviando al suo posto l'assessore alla cultura Palladino. Un caso o una pista? Fatto sta che la presenza al Lido forse gli avrebbe evitato la morte .

GERARDO ROSANIA (SEL)

«Insieme contro gli abusi edilizi Dobbiamo reagire»

di Romina Rosalia.

Si conoscevano da anni, avevano condiviso la battaglia contro le speculazioni edilizie. Gerardo Rosania appena eletto sindaco per Rifondazione (all'epoca da solo contro il centrosinistra) a Eboli si fece conoscere per le demolizioni di quasi 500 edifici abusivi di proprietà dei clan sul litorale, a non molti chilometri da Acciaroli. Segnando una vera e propria svolta nella gestione del territorio. Ha guidato la cittadina della Piana del Sele per dieci anni, poi è stato consigliere regionale, oggi è legato a Sinistra Ecologia e Libertà. Con lui, nel 2003, la città ha ospitato oltre 2.000 persone per una grande manifestazione contro la politica dei condoni.

Si è dato una spiegazione dell'omicidio di Vassallo?

L'ho conosciuto nel 2000, ci siamo sentiti più volte sulla questione della lotta all'abusivismo edilizio e sugli interventi nelle aree demaniali costiere. Nel suo territorio era un vero problema. Angelo su questo ebbe un'intuizione: predispose un piano spiagge per disciplinarne l'utilizzo da parte dei privati. In quel periodo c'era di tutto: aree pubbliche occupate dai privati, discese a mare chiuse abusivamente. Ma lui aveva trovato il mondo di ristabilire la legalità. In sostanza riuscì a far approvare in consiglio comunale una delibera che disciplinava le procedure per aprire i lidi privati. Obbligava gli interessati a rivolgersi al comune di appartenenza per avere il primo nulla osta. Solo successivamente l'utente si sarebbe potuto rivolgere alla Regione Campania. Questo permetteva al comune di verificare l'affidabilità del richiedente, fare le dovute indagini, non ultime quelle su eventuali precedenti penali. Io provai a seguirlo. Mi beccai non poche denunce.

Quando lo ha visto l'ultima volta?

Ci siamo sentiti telefonicamente circa un mese fa. Non mi ha mai accennato a problemi o a paure o ancora a minacce ricevute. Era una persona determinata, non si faceva intimidire. Se prendeva una decisione e ne era convinto, non tornava indietro.

Lei tra il '98 e il 2001 ha ordinato ben 472 abbattimenti di edifici abusivi.

Rifarei tutto. Decidere di riappropriarsi di un'area demaniale, divisa fra gruppi malavitosi dal 1970, ha prodotto tante cose positive. In primis l'affetto e la dedizione di alcuni miei dipendenti comunali che all'epoca che curarono la mia tutela fisica. Oltre alla scorta della prefettura avevo i vigili urbani di Eboli che mi presero in custodia spontanea. Ricevetti, incredibilmente, poche minacce: qualche telefonata e lettera anonima. Operai in un momento particolarmente favorevole: molti esponenti dei clan dell'epoca erano stati arrestati e i gruppi criminali si stavano riorganizzando. Abbattevamo a lotti annuali. Il primo anno le gare d'appalto andarono deserte, e allora il prefetto D'Agostino mandò i militari.

È la prima volta che nel Cilento la camorra alza il tiro così tanto.

Se verrà confermato che si tratta di un agguato di camorra, è chiaro che in questo tragico fatto c'è un messaggio, e cioè che anche in zone come le nostre si stanno concentrando enormi interessi. Significa che spazi di business vengono annusati dalla criminalità organizzata. Spero che questo messaggio venga rigettato e che la società civile si faccia più forte, altrimenti la morte di Angelo, ma soprattutto il suo lavoro, sarà stato vano.

LEGAMBIENTE

«Lottava contro gli ecomostri turistici»

di Adriana Pollice

«I clan camorristici non sono diffusi nel Cilento, ma questo non vuol dire che non puntino a riciclare qui i loro soldi, perché sanno che è un buon investimento». A parlare è il presidente di Legambiente Campania, Michele Buonomo, dopo un'estate spesa a diffondere i dati della relazione Mare monstrum 2010, con il napoletano e casertano maglia nera e la costa salernitana invece tra le migliori del paese. «Anche senza attuare una politica aggressiva di penetrazione negli appalti, magari cominciando sotto tono attraverso grandi alberghi in una zona che sta conquistando il turismo di fascia alta, quelle megastrutture per intenderci che Angelo assolutamente non voleva». Che tipo di amministratore era ce lo raccontano quelli di Legambiente: «Un sindaco appassionato, a differenza di molti suoi colleghi, più tiepidi nelle battaglie quotidiane per l'ambiente e la legalità. Pronto ad agire anche contro le burocrazie a livello locale e nazionale. Ad esempio, con un'ordinanza aveva recintato i gigli di mare, una specie endemica molto rara che fiorisce a giugno, e poi aveva chiesto la concessione allo Stato. A luglio siamo stati a Pollica per festeggiare il primo posto su dieci per le bandiere blu del Touring. Con lui abbiamo lavorato per oltre un decennio e ogni anno abbiamo premiato il suo impegno con le 5 vele, il massimo riconoscimento di Legambiente alla tutela dell'ambiente e all'offerta turistica di qualità». La camorra però è una variabile con cui fare i conti ogni giorno, dopo i tentativi di infiltrazione da parte del superboss Mario Fabbrocino e dei potenti Nuvoletta, affiliati alla mafia siciliana: «I lavori per il porto di Acciaroli, posti barca, ristorazione, attracchi turistici e ciclo del cemento - prosegue Buonomo - sono gli affari su cui cercano di mettere le mani da sempre. Pochi anni fa la Soprintendenza di Salerno ha scoperto e denunciato un mega complesso turistico abusivo nella vicina Marina di Castellabate, sorto sotto gli occhi di tutti. Senza dimenticare l'hotel Castelsandra, nel cuore del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, in mano a prestanome del clan Nuvoletta, luogo privilegiato negli anni '80 per latitanti e faccendieri degli Alfieri, alleati con i boss di Marano, ancora in attesa di essere demolito».

ALFONSO AMATO

«Grazie a lui il Parco crescerà e verrà esteso»

di Romina Rosolia

Se gli Alburni rientreranno nel Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano sarà grazie ad Angelo Vassallo. Ne è convinto il sindaco di Sicignano degli Alburni, Alfonso Amato, che non lo ha conosciuto personalmente ma che ne ha sentito parlare come persona integerrima. «Non mi meraviglierebbe sapere che la sua difesa a oltranza del territorio costiero dalla speculazione edilizia gli sia costata questa fine raccapricciante». Anche Amato è di sinistra ed è vicino al sindacato di base Usb. Un anno fa ha organizzato l'accoglienza nel suo comune per gli immigrati sgomberati dalla baraccopoli di San Nicola Varco, questa estate è stato protagonista nella difesa dei migranti che si volevano sgomberare dalle case confiscate alla camorra a Capaccio.

Sindaco, secondo lei perché hanno colpito Vassallo?

La costiera cilentana ha sempre ottenuto la «bandiera blu», sintomo del fatto che il territorio è stato preservato dalla speculazione edilizia o comunque ci si è sempre battuti contro l'abusivismo, e Vassallo lo ha fatto in prima persona. Non ho, ovviamente, elementi certi ma non mi meraviglierei se venisse confermato l'agguato camorristico. Vassallo è stato uno di quei sindaci che hanno sempre difeso ad oltranza il territorio cilentano.

Non vi siete mai conosciuti eppure gli Alburni, dopo tanti anni, potrebbero essere compresi del parco nazionale del Cilento grazie a lui.

È assolutamente vero. Lui attualmente era presidente dell'assemblea del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano, che è un organo interno. È riuscito ad avere il placet dall'assemblea e la proposta, votata all'unanimità, è finita in parlamento. Tutto sembra andare per il meglio, al momento, affinché il territorio degli Alburni abbia il riconoscimento che merita, e questo lo si deve a lui che ne è stato fautore.

Spesso i comuni della zona preferiscono stare al di fuori del Parco, per avere più mano libera nelle concessioni edilizie. Voi invece no.

Noi abbiamo un delegato ai rapporti con il Parco, l'assessore Cupo. I contatti con Angelo Vassallo li curava lui da quattro anni. L'ultima volta che lo ha sentito telefonicamente è stato poco prima del 29 luglio. Vassallo lo chiamò per avvertirlo che a causa di un lutto nella famiglia del presidente Amilcare Troiano, una riunione non si sarebbe più tenuta. L'assessore Cupo mi ha raccontato che Angelo Vassallo era una persona a modo, rispettabilissima e che in politica è difficile trovare uomini come lui. Il nostro delegato è rimasto sconcertato. Vassallo ha visitato Sicignano solo qualche anno fa, quando il Parco Nazionale ha elargito la prima parte di finanziamenti per il restauro del castello. Ed è grazie a lui che lo scorso anno il mio comune ha ottenuto un altro importante finanziamento dalla Regione Campania. Il progetto riguarda una strada di montagna adatta al trekking professionale. Non appena gli Alburni otterranno il riconoscimento dedicheremo questo traguardo a lui.

L'ALTRA CAMPANIA

Un ritratto del sindaco ucciso. E del suo paese

Ambiente e Slow Food, un uomo di sinistra

diAngelo Mastrandrea e Adriana Pollice

Il sindaco pescatore, il sostenitore di un Parco nazionale che in troppi hanno visto come un freno alla possibilità di edificare selvaggiamente, l'attivista che srotola una bandiera di Legambiente festeggiando la «bandiera blu» per la combinazione tra mare pulito e qualità delle spiagge e dell'ambiente, il sostenitore di Slow Food che a maggio interviene all'assemblea nazionale dell'organizzazione, il politico che strappa il porto ai privati e combatte l'abusivismo edilizio, l'uomo che sarebbe scampato al suo killer se fosse andato dov'era atteso, al Lido di Venezia a presentare il film che Mario Martone ha girato proprio dalle sue parti.

Non era una pecora bianca nella sua terra, Angelo Vassallo, ma di sicuro esperienze come la sua si contano sulla punta delle dita in una regione difficile come la Campania, e ora rischiano di subire un duro colpo. Se qualcuno voleva lanciare un messaggio, forse era indirizzato contro tutto ciò che rappresentava: una certa idea di legalità coniugata con il rispetto dell'ambiente.

Una persona di sinistra contestata solo una volta: quando firmò da sindaco il Trattamento sanitario obbligatorio richiesto dagli psichiatri per Francesco Mastrogiovanni, l'insegnante anarchico morto per edema polmonare dopo aver trascorso 82 ore senza cibo né acqua legato a un letto dell'ospedale di Vallo della Lucania, un anno fa. Una vicenda per la quale sono sotto processo 18 tra medici e infermieri.

«Ma quella è un'altra storia. Era una brava persona», dice subito Giuseppe Galzerano, agguerrito editore locale, grande appassionato di storia e storie della provincia di Salerno. E se lo dice un anarchico che ha ripubblicato le Cronache sovversive di Luigi Galleani e che si batte perché venga fatta giustizia per Mastrogiovanni bisogna credergli. Anzi, «è l'unico sindaco del Cilento che abbia visto alle presentazioni dei miei libri. A volte ne comprava anche una decina di copie per le biblioteche e per metterle a disposizione della comunità». Alla fine «lo stimavano tutti, persino chi era di un'altra idea politica poi finiva per votarlo», come spesso accade nei paesi. Tanto che alle ultime elezioni, al suo terzo mandato dopo la pausa imposta dalla legge, era stato rieletto praticamente in solitaria perché l'opposizione non aveva trovato un numero sufficiente di candidati e la lista era stata respinta.

Il paradigma dello sviluppo economico a furia di consumo del suolo e del mare, che ha portato la Campania ad avere le coste più inquinate d'Italia era stato completamente ribaltato nel Cilento. Così lo ricorda il regista teatrale Ciro Sabatino: «Viveva in una grande casa con ventisette cani che scorrazzavano ovunque, si svegliava alle sei e andava a pescare. Da amministratore, conosceva il valore del bello e cercava di improntare su questo le sue scelte. Arrivava ad andare di casa in casa per convincere i suoi concittadini a togliere l'alluminio anodizzato dagli infissi».

Un'amicizia nata dieci anni fa, quella con Angelo Vassallo, cementata con la rassegna teatrale Brividi d'estate, organizzata da Il Pozzo e il Pendolo di Annamaria Russo e dello stesso Sabatino: «Nel 2005 gli proposi di spostare gli spettacoli all'interno, nel borgo di Galdo, trasformandolo in una cittadella dei libri. Fu un successo tale che arrivò anche il premio Città slow di Slow food. Questa estate ci aveva concesso anche il Castello di Pollica per i nostri spettacoli. Sapeva comprendere il valore di una proposta culturale e intorno a questo organizzare la vita della comunità». E infatti niente autorizzazioni per karaoke, che odiava, o manifestazioni tipo Miss Italia a Pollica.

Uno degli ultimi a incontrarlo è stato Simone Valiante, sindaco di Cuccaro Vetere. Domenica aveva trascorso alcune ore con il suo omologo: «È giunto da noi intorno a mezzogiorno, poi abbiamo fatto una rimpatriata in montagna fra gli amici. Abbiamo un po' discusso di alcune iniziative da programmare per il parco nazionale del Cilento. Era sereno, nulla lasciava presagire una tragedia del genere. Ci saremmo dovuti risentire in questi giorni. E invece...»

Vicepresidente di Città slow, la rete dei Comuni coordinata da Slow food che si impegnano nel migliorare la qualità della vita degli abitanti e dei visitatori, presidente della Comunità del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano, il più esteso d'Italia, Vassallo era appena riuscito a ottenere dall'Unesco il riconoscimento della dieta mediterranea quale patrimonio immateriale dell'umanità. Olio d'oliva, pomodoro fresco e mare limpido, a Pioppi si era trasferito il «teorico» della dieta mediterranea Ancel Keys per condurre le sue ricerche sulle abitudini culinarie del luogo, e qui è morto ultracentenario.

Intransigente al punto da multare chi butta le cicche di sigarette a terra con un'ammenda da 500 a mille euro, il sindaco Vassallo. «Ci vogliono da uno a cinque anni per degradarsi» ricordava a chi protestava. Paradossale, se si pensa all'immagine di una regione sporcata dai rifiuti. Quasi un altro mondo, con le antiche case in pietra ristrutturate a un passo dal mare, il porticciolo dove nel 1860 Alexandre Dumas sbarcò con un carico di armi per i garibaldini e di fronte al quale la leggenda (ma solo quella) vuole che Hemingway, gran fumatore, abbia scritto "Il vecchio e il mare". Qualcuno lo ricorda ancora seduto a scrivere di fronte al mare. Forse era un sosia, più probabilmente è una storia senza alcun substrato reale. Ma c'è chi ci crede davvero.

Quale che sia, e le variabili aperte sono ancora troppe per saperlo, l'effetto della decisiva scossa di Mirabello sullo sciame sismico in atto nel sistema politico italiano, l'ultima mossa di Gianfranco Fini corona il percorso di ridefinizione della destra intrapreso dall'allora «cofondatore» già al congresso di battesimo del Pdl. Fu proprio nel momento della confluenza di An nel «partito del predellino» che Fini cominciò a marcare vistosamente quella distanza da Berlusconi che domenica è diventata abissale. E allora come oggi, la posta in gioco non era e non è solo tattica: si trattava allora, e si tratta oggi, non solo di come condizionare, fino a romperlo, il gioco di Berlusconi, ma di come ereditarne l'opera, il campo e l'elettorato. Dopo la rivoluzione, l'ordine; dopo l'«anomalia» del Cavaliere, la normalità di una destra europea; dopo l'illegalità eretta a governance, la legalità eretta a bandiera; dopo il populismo, l'onore delle istituzioni. E non è affatto un caso che per il coronamento dell'opera sia stata scelta una piazza simbolica per la storia dell'Msi come quella di Mirabello. Tornare alle radici, rivendicare una genealogia, ritrovare la propria base non serviva solo a legittimare con un bagno di identità un nuovo strappo; serviva anche a ricordare a tutti, destra e sinistra, che la storia di Fini è più lunga e più radicata nel passato nazionale di quella di Berlusconi, ad uscire così definitivamente dalla tutela dello «sdoganatore» del '94, derubricandone il ruolo e presentandosi come l'erede più credibile, nel lungo periodo, di quel campo emerso dalle macerie della prima Repubblica che si chiama destra. Con una formula: l'anomalia berlusconiana passa, la normalità finiana resta.

Vero è che questa ennesima e cruciale tappa della lunga marcia per la legittimazione democratica intrapresa in quel di Fiuggi da Fini e dai suoi è costata stavolta al leader uno strappo, ancorché tardivo, ben più deciso e più decisivo dei precedenti. La nettezza dei giudizi sul berlusconismo - concezione del governo come comando, dei governati come sudditi, degli alleati come contorno - configura, con o senza nuovo partito, una separazione irreversibile dalla compagnia del Cavaliere. E la durezza dei giudizi sull'azione di governo - tagli, politica dell'immigrazione, della scuola, della famiglia, della giustizia, delle relazioni internazionali - rende pressoché impossibile, malgrado le professioni di lealtà, la tenuta del patto di maggioranza. Ricordare a Fini che di quale pasta sia fatto il berlusconismo poteva accorgersene prima, che sul predellino poteva evitare di salirci, che dell'attacco alla Costituzione poteva non farsi per quindici anni complice e connivente, che il suo distacco da Berlusconi è stato segnato da un lento e calcolato opportunismo (compresa l'abilità di farsi cacciare dal Cavaliere per poterlo accusare di stalinismo), è già diventato molto démodé nel variegato fronte politico e intellettuale di un centrosinistra che gli è grato, a torto o a ragione, per aver dato a Berlusconi quella spallata di cui l'opposizione non è stata capace. Dunque il punto non è il passato ma il futuro.

Per il futuro, a Mirabello Fini ha taciuto più cose di quante ne abbia dette. La patente contraddizione fra i giudizi su Berlusconi e le professioni di lealtà al governo lascia del tutto indeterminate le sue prossime mosse nel conflitto con gli ex alleati che inevitabilmente si inasprirà, nonché la sua futura collocazione nel ridisegno del sistema politico che sulle ceneri del bipolarismo è già cominciato. La destra normale ed europea di Fini continuerà davvero a competere di fianco a Bossi e Berlusconi, costruirà il terzo polo con Casini e Rutelli, o entrerà a far parte di quella «santa alleanza» antiberlusconiana vagheggiata da Bersani (ricavandone in legittimazione più di quanto restando a destra guadagnerebbe in voti)? Le aperture del discorso di Mirabello sulla riforma elettorale non sciolgono questo quesito, che nell'eventualità tutt'altro che remota di una accelerazione di Berlusconi verso le urne rischia di essere dirimente per capire con quanti e quali schieramenti si voterà.

C'è da sperare che il centrosinistra non ne affidi la soluzione solo alle mosse di Gianfranco Fini. E che si affretti a mettere all'ordine del giorno un altro quesito, questo: per uscire dall'anomalia della «rivoluzione» berlusconiana, basterà l'ordine di una destra normale?

Due pistole che sparano, le pallottole che colpiscono al petto, un agguato che sembra essere anche un messaggio. Così uccidono i clan. Così hanno ucciso Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, in provincia di Salerno. Si muore quando si è soli, e lui - alla guida di una lista civica - si opponeva alle licenze edilizie, al cemento che in Cilento dilaga a scapito di una magnifica bellezza. Ma Angelo Vassallo rischia di morire per un giorno soltanto e di essere subito dimenticato.

Come se fosse normale, fisiologico per un sindaco del meridione essere vittima dei clan. E invece è uno scandalo della democrazia. Del resto - si dice - è così che va nel sud, accade da decenni. «Veniamo messi sulla cartina geografica solo quando sparano. O quando si deve scegliere dove andare in vacanza», mi dice un vecchio amico cilentano. In questo caso le cose coincidono. Terra di vacanze, terra di costruzioni, terra di business edilizio che «il sindaco-pescatore» voleva evitare a tutti i costi.

Questa estate è iniziata all´insegna degli slogan del governo sui risultati ottenuti nella lotta contro le mafie. Risultati sbandierati, urlati, commettendo il grave errore di contrapporre l´antimafia delle parole a quella dei fatti. Ma ci si deve rendere conto che non è possibile delegare tutto alle sole manette o al buio delle celle. Senza racconto dei fatti non c´è possibilità di mutare i fatti.

E anche questa storia meritava di essere raccontata assai prima del sangue. Forse il finale sarebbe stato diverso. Ma lo spazio e la luce dati alla terra dei clan sono sempre troppo pochi. I magistrati fanno quello che possono. I clan dell´agro-nocerino in questo momenti sono tutti sotto osservazione: quelli di Scafati capeggiati da Franchino Matrone detto «la belva», o gli uomini di Salvatore Di Paolo detto «il deserto», quelli di Pagani capeggiati da Gioacchino Petrosino detto «spara spara», il clan di Aniello Serino detto «il pope», il clan Viviano di Giffoni, i Mariniello di Nocera inferiore e Prudente di Nocera superiore, i Maiale di Eboli.

Il fatto è che il Cilento, terra magnifica, ha su di sé gli occhi e le mani delle organizzazioni criminali che, quasi fossero la nemesi della nostra classe politica, eternamente in lotta, si scambiano favori, si spartiscono competenze pur di trarre il massimo profitto da una terra che ha tutte le caratteristiche per poter essere definita terra di nessuno e quindi terra loro. I Casalesi sono da sempre interessati all´area portuale, così come i Fabbrocino dell´area vesuviana hanno molti interessi in zona. Giovanni Fabbrocino, nipote del boss Mario Fabbrocino, gestisce a Montecorvino Rovella, un paesino alle soglie del Cilento, la concessionaria della Algida nella provincia più estesa d´Italia, il Salernitano appunto. Il clan Fabbrocino è uno dei più potenti gruppi camorristici attualmente noti e intrattiene legami con i calabresi.

Oggi le ‘ndrine nel Salernitano contano molto di più e hanno interessi che vanno oltre lo scambio di favori. Il porto di Salerno, su autorizzazione dei clan di camorra, è sempre stato usato dalle ‘ndrine per il traffico di coca, soprattutto da quando il porto di Gioia Tauro è divenuto troppo pericoloso. Il potentissimo boss di Platì Giuseppe Barbaro, per esempio, è stato catturato a dicembre 2008 mentre faceva compere natalizie a Salerno. In tutto questo, il cordone ombelicale che ha legato camorra e ‘ndrangheta porta un nome fin troppo evidente: A3, ovvero autostrada Salerno-Reggio Calabria. Nel Salernitano sono impegnate diverse ditte dalla reputazione tutt´altro che specchiata. La «Campania Appalti srl» di Casal di Principe avrebbe dovuto costruire le strade intorno al futuro termovalorizzatore di Cupa Siglia. L´impresa delle famiglie Bianco e Apicella è stata raggiunta da un´interdittiva antimafia dopo le indagini della sezione salernitana della Direzione Investigativa Antimafia. Secondo gli investigatori, l´impresa rientra nel giro economico del clan dei Casalesi ed è nelle mani di uomini vicini a Francesco Schiavone.

È così diverso oggi dagli anni ‘80 e ‘90? Di che territorio stiamo raccontando? Di una Regione dove per la gare d´appalto per la raccolta rifiuti bisogna chiamare una impresa ligure perché in Campania non se ne trova una che non abbia legami con la camorra. Nemmeno una. Se da un lato si arresta dall´altro lato non c´è affatto una politica che tenda a interrompere il rapporto con le organizzazioni criminali. L´attuale presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro, soprannominato «Gigino a´ purpetta» (Luigino la polpetta), fu arrestato nel 1984 in un´operazione contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Nel 1985 il Tribunale di Napoli condannò Cesaro a 5 anni di reclusione «per avere avuto rapporti di affari e amicizia con tutti i dirigenti della camorra napoletana fornendo mezzi, abitazioni per favorire la latitanza di alcuni membri, e dazioni di danaro». Nel 1986 in appello il verdetto fu ribaltato e Cesaro venne assolto per insufficienza di prove. La decisione fu poi confermata dalla Corte di Cassazione presieduta dal noto giudice ammazza sentenze Corrado Carnevale. Ma, come ha raccontato L´Espresso, nonostante Cesaro sia stato scagionato dalle accuse, gli stessi giudici che lo hanno assolto hanno stigmatizzato il preoccupante quadro probatorio a suo carico. Durante il processo, in aula, furono infatti confermati gli stretti rapporti che l´attuale presidente della provincia di Napoli intratteneva con i vertici della Nco (incluso don Raffaele Cutolo). Si parlava di una «raccomandazione» chiesta a Rosetta Cutolo, sorella di Raffaele, per far cessare le richieste estorsive di Pasquale Scotti, personaggio tuttora ricercato ed inserito nell´elenco dei trenta latitanti più pericolosi d´Italia. (Consiglio caldamente di fare una piccola ricerca su youtube per «Luigi Cesaro esilarante», ascolterete un monologo del presidente della provincia che sarà più eloquente delle mie parole).

Tutto questo non si può tacere. E chi lo tace è complice. Mi viene da chiedere a chi in questo momento sta leggendo queste righe se ha mai sentito parlare di Federico Del Prete, sindacalista ucciso nel 2002 a Casal di Principe. Se ha mai sentito parlare di Marcello Torre, sindaco di Pagani ucciso nel 1980 perché cercava di resistere a concedere alla camorra gli appalti per la ricostruzione post terremoto. E di Mimmo Beneventano vi ricordate? Consigliere comunale del Pci, trentadue anni, medico, fu ucciso nel 1980 a Ottaviano per ordine di Raffaele Cutolo perché ostacolava il suo dominio sulla città. E di Pasquale Cappuccio? È stato consigliere comunale del Psi, avvocato, ucciso nel 1978 sempre a Ottaviano. E Simonetta Lamberti, uccisa a Cava dei Tirreni nel 1982. Aveva dieci anni e la sua colpa era essere la figlia del giudice che andava punito. Le scariche del killer raggiunsero lei al posto del loro obiettivo. Qualcuno di questi nomi vi è noto? Temo solo ad addetti ai lavori o militanti di qualche organizzazione antimafia. Questi nomi sono dimenticati. Colpevolmente dimenticati. Come, temo, lo sarà presto quello di Angelo Vassallo. Ai funerali di Antonio Cangiano, vicesindaco di Casal di Principe gambizzato dalla camorra nel giugno 1988 e da allora costretto sulla sedia a rotelle, non c´era nessun dirigente della sinistra. Tutto sembra immobile in territori dove non riusciamo nemmeno a ottenere il minimo, l´anagrafe pubblica degli eletti per sapere esattamente chi ci governa.

Le indagini sull´omicidio di Angelo Vassallo vanno in tutte le direzioni, si sta scavando nel passato e nel presente del sindaco. Perché, come mi è capitato di dire altrove, in queste terre quando si muore si è sottoposti a una legge eterna: si è colpevoli sino a prova contraria. I criteri del diritto sono ribaltati. E quindi già iniziano a sentirsi voci di ogni genere, ma nulla tralascerà la Dda. L´aveva scritto Bruno Arpaia (non a caso nato a Ottaviano) nel suo bel libro Il passato davanti a noi, che mentre i militanti delle varie organizzazioni della sinistra extraparlamentare sognavano Parigi o Pechino per far la rivoluzione e scappavano a Milano a occupare università o fabbriche, non si accorgevano che al loro paese si moriva per un no dato ad un appalto, per aver impedito a un´impresa di camorra di fare strada.

È in quei posti invisibili, apparentemente marginali che si costruisce il percorso di un Paese. Tutto questo non si è visto in tempo e oggi si continua a ignorarlo. La scelta del sindaco in un comune del Sud determina l´equilibrio del nostro Paese più che un Consiglio dei ministri. Al Sud governare è difficile, complicato, rischioso. Amministratori perbene e imprenditori sani ci sono, ma sono pochi e vivono nel pericolo.

In queste ore a Venezia verrà proiettato sul grande schermo «Noi credevamo» di Mario Martone, una storia risorgimentale che parte proprio dal Cilento, dal sud Italia. Forse in queste ore di sgomento che seguono la tragedia del sindaco Angelo Vassallo vale la pena soffermarsi sull´unico risorgimento ancora possibile che è quello contro le organizzazioni criminali. Un risorgimento che non deve declinarsi come una conquista dei sani poteri del Nord verso i barbari meridionali: del resto è una storia che già abbiamo vissuto e che ancora non abbiamo metabolizzato. Ma al contrario deve investire sul Mezzogiorno capace di innovazione, ricerca, pulizia, che forse è nascosto ma esiste. Deve scommettere sulla possibilità che il Paese sappia imporre un cambiamento. E che da qui parta qualcosa che mostri all´intera Italia il percorso da prendere. È la nostra ultima speranza, la nostra sola risorsa. Noi ci crediamo.

©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara

Siamo alla ripresa della stagione politica e le forze dell'opposizione stanno ancora nei loro alloggi a scontrarsi su chi deve prendere il comando. Per fare che cosa, su quale linea, non si sa. Tuttavia, forse anche per il silenzio delle sinistre, avanza una crisi di Berlusconi. Una crisi che nasce dall'interno del cosiddetto Popolo della Libertà, che mancava e manca di qualsiasi idea forte, neppure di destra. Quel popolo era ed è solo la sommatoria degli interessi particolari degli individui e dei gruppi che ne fanno parte e dell'interesse massimo del suo leader massimo. Salvo straordinari e difficili colpi di fortuna lo sgretolamento è avviato, non si sa quando si concluderà, ma più dura più danneggia il paese.

Per tutta l'estate, specie dopo il disobbedisco dei finiani, Berlusconi ha minacciato fulmini e saette. Elezioni immediate, anche in polemica con il Presidente della Repubblica. In questo principio di settembre è molto più dimesso. Ha capitolato sulle intercettazioni e ora anche sul processo breve. Non riesce a nominare un ministro dello sviluppo e l'astuto Bossi non esita a dichiarare pubblicamente che l'amico Silvio è un premier dimezzato, che non minaccia più elezioni subito.

Adesso è scesa in campo con una nuova iniziativa l'armata dell'ing. Carlo De Benedetti. Venerdì L'Espresso dedica la copertina e un lungo articolo a Tremonti «Giulio o Giuda?» dove, non trattandosi di Gesù Cristo ma di Berlusconi, Giuda è un eroe. Subito dopo, ieri, la Repubblica ha sparato in prima pagina una lunga e ragionevole intervista sempre a Giulio Tremonti che afferma che l'emergenza è finita e adesso ci vuole «un patto con l'opposizione per ricostruire l'economia», ingegnerizzarla. L'iniziativa Espresso e Repubblica è seria perché non è isolata. La Confindustria e il mondo delle piccole e medie imprese giudicano Berlusconi un capitalista per così dire «abusivo», che ha fatto più soldi con i favori della politica - a cominciare da Craxi - piuttosto che con l'ingegneria di impresa.

Ma se la crisi di Berlusconi è a questo punto, e Fini non gli ha ancora dato spazio per nessuna uscita liberatoria, la sinistra, le sinistre, per quanto frammentate e disperse, non possono più aspettare. Vogliamo aspettare che Tremonti, come ha annunciato, cancelli l'art. 41 della Costituzione e liberi i nostri disinvolti imprenditori da ogni limite di legge alla loro libertà di iniziativa? La linea Marchionne passa per ragionevole e moderna e - segno dei tempi - la critica più forte è venuta da Cesare Romiti, l'uomo della marcia dei 40.000.

La sinistra è già messa male: se può deve svegliarsi, pensare agli italiani, Berlusconi è certamente il peggio, ma un saggio proverbio dice che il peggio è senza fine.

Dopo che decine di attori, lavoratori del teatro, professori e scrittori hanno dichiarato il proprio rifiuto a partecipare alle manifestazioni culturali di Ariel e di tutte le altre colonie, è arrivato il momento che anche gli architetti e gli urbanisti si impegnino, dichiarando pubblicamente che non lavoreranno a nessuna nuova realizzazione negli insediamenti.

La protesta avrà più rilievo di qualunque altra presa di posizione. L’architettura serve a trasformare in realtà le decisioni politiche. Architetti e urbanisti sono coloro che mettono in pratica le strategie di occupazione del governo israeliano, spostando il conflitto sul tavolo da disegno.

A differenza delle scenografie di una commedia, gli artefatti concepiti dagli architetti su un territorio poi non tornano certo in un magazzino teatrale, dopo che è calato il sipario. I loro effetti sono irreversibili. Chi traccia le linee direttrici di una piano regolatore per nuovi insediamenti si deve sentire vincolato più che mai da una precisa linea di confine nella propria coscienza.

Gli architetti controllano ogni aspetto degli insediamenti in Giudea e Samaria. Sono loro che redigono i progetti di massima delle nuove cittadine, che progettano quei quartieri residenziali dai tetti rossi di Ariel e delle altre zone, che danno forma ai loro spazi pubblici.

La nuova struttura culturale di Ariel è stata progettata da un architetto, come se si trattasse semplicemente di qualunque altro complesso, in qualunque altro luogo nello stato di Israele.

Un rapporto di B'Tselem descrive Ariel come una enclave lunga e stretta che penetra profondamente nel territorio Palestinese, spazio concepito così non certo per soli motivi di organizzazione urbanistica, ma sulla base di considerazioni politiche, la cui sostanza essenziale è di creare una fascia di interposizione a separare le città della Palestina interrompendo la continuità territoriale fra di esse.

Architetti e urbanisti non hanno certo bisogno di B'Tselem: queste cose le capiscono benissimo guardando una mappa, un progetto, vedono da soli la situazione. Sono le loro voci che si dovrebbero sentire.

Nella comunità professionale, più che in qualunque altro settore culturale, è costume diffuso separare clinicamente la pratica dalle convinzioni politiche. Una posizione di comodo che consente a molti di continuare a presentarsi come persone di sinistra, ma lavorare per la destra.

Non si è levata alcuna protesta pubblica dai ranghi degli architetti, contro la presenza di una sezione di architettura al college di Ariel College, che instillerà negli studenti l’arte di astrarsi da ciò che li circonda, in contrasto coi principi fondativi disciplinari e una corretta etica professionale.

Non si parlerà mai loro di politica. Nessuna meraviglia, dunque, che poi il paesaggio appaia come territorio intatto biblico, in cui operare liberamente e senza alcuna inibizione.

Il Ministro della Cultura Limor Livnat questa settimana chiede alle persone di teatro di lasciar da parte di dibattito politico quando si parla d’arte, si tratta raccomandazioni superflue nella comunità degli architetti, da cui il dibattito politico è costantemente escluso dalla professione, anche se poi rientra dalla finestra.

Tendenze e prospettive filtrano dall’altro lato della Linea Verde, con effetti sull’architettura nel resto di Israel più profondi di quanto non si sia disposti ad ammettere. Una protesta da parte dei nomi noti della comunità, figure dotate di fama e influenza, potrebbe trascinare con sé un più ampio movimento, restituire fiducia in sé stessa alla disciplina, ai suoi valori, e anche contribuire alla fine dei conflitti per il territorio. Architetti? Protesta? La pace è possibile.

«Ecumò ce hao di paja?». Così disse la vecchia terremotata, sotto gli occhi di padre David Maria Turoldo. I soccorritori le avevano appena consegnato un paio di coperte e dei viveri e lei voleva sapere: «E adesso cosa devo pagare?». Spiegava il frate poeta che lì c'era il senso di tutto: «Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata. Una ricostruzione si paga e basta: allora ha un valore. Una cosa si deve fare con le proprie mani, allora la si ama». Quindi «è bene che non ci sia dato nulla in regalo».

Sia chiaro: non è che lo Stato non abbia fatto la sua parte, dopo la doppia randellata che il sisma diede alle colline delle prealpi carniche il 6 maggio e l'11 settembre del 1976 uccidendo 989 persone alla prima conta più tutti quelli morti nelle settimane seguenti negli ospedali. Anzi, per una volta la macchina pubblica, Stato, Regione, Provincia, Comunità collinare e Comuni furono all'altezza della sfida. Al punto che Italo Calvino si sbilanciò a scrivere che «i responsabili politici lavorarono unitariamente mettendo insieme quei tesori di impegno, di finezza, di pazienza e di moralità che occorrono per il successo di una battaglia politica perché questo era l'imperativo categorico dettato dalla loro coscienza». Senza badare, per una volta, alle tessere.

Quali siano i risultati, lo dice una passeggiata nel cuore di Gemona, lo stesso descritto allora da Gianni Rodari, il nostro Hans Christian Andersen, in un reportage per Paese Sera tra le «macerie di una cittadina che fu già bellissima, e ora è soltanto un groviglio pauroso. Il vecchio storico borgo è crollato da 48 ore, ma sembra morto da secoli. Le stradine preziose, i vicoli pittoreschi sono soltanto torrenti di detriti, le case sventrate, schiacciate, frantumate, è già come se non fossero state abbattute da questo terremoto ma da un altro, cento anni fa o da un bombardamento in qualche guerra». Era impressionato, Rodari: «Non si vede più nessuno piangere il secondo giorno dopo il terremoto. La fine di quello che c'era è una cosa accaduta in un tempo già lontano. È cominciata un'altra cosa. Non si sa ancora che cosa sarà».

Eccolo qui com’è, oggi, il cuore di Gemona. Il Duomo, il palazzetto gentilizio che ospita la ricca cineteca del Friuli, le stradine, le piazzette... Certo, le foto di allora con quegli ammassi di macerie dicono che quasi nulla è davvero «originale». Insomma, la «purezza» delle pietre antiche non è poi così antica. Se chiedi alle persone se avrebbero preferito buttar via tutto e tirar su una new town, però, ti guardano di traverso.

E così a Venzone, dove puoi vedere forse l'espressione migliore di quella filosofia che dominò la ricostruzione: «dov'era, com' era». Dov'era e com'era è il possente muro di cinta, dov'era e com'era è la porta di accesso al borgo, dov'erano e com'erano sono i palazzi allineati lungo la strada principale. Ma soprattutto, bellissimo, dov'era e com'era è il Duomo, che era stato inaugurato nel 1338 da Bertrando di Saint -Geniés, patriarca-guerriero di Aquileia e dopo avere barcollato alla prima botta sismica di maggio, era stato annientato dalla seconda di settembre.

Architetti, restauratori, ingegneri, storici dell’arte ed esperti vari erano tutti d'accordo: danni troppo gravi, impossibile ricostruire. Meglio fare una chiesa nuova. Qualcuno andò oltre, proponendo di coprire il paese intero con una gran cupola di plastica. Mai, dissero gli abitanti. E quando arrivarono le ruspe, sbarrarono loro la strada. E firmarono in massa (630 su 650 adulti) una petizione: com’era e dov’era. La leggenda, raccolta per Epoca da Gualtiero Strano, narra che a un certo punto il sovrintendente tentò di mettere in riga il prete, Giovan Battista Della Bianca: «Lei stia sul suo altare a dire la messa che a fare gli architetti ci pensiamo noi». E quello: «Se siete inefficienti faremo noi anche gli architetti». Finì che i cittadini recuperarono tutte le pietre del loro Duomo, le caricarono sui furgoni e le carriole e le sparpagliarono in un grande campo: 7.650 pietre. Numerate una ad una grazie alla perizia fatta dopo la prima scossa.

«Ognuna di queste pietre, quando il Duomo fu edificato, costò una giornata di lavoro a un uomo: 7.650 pietre sono 7.650 giorni», spiegò il pievano, «Venti anni di fatiche, sudori, sofferenze non potevano finire in discarica». Ci misero anni, i venzonesi, ad averla vinta. Ma ora il Duomo è lì. E chissà che rivederlo non abbia salvato delle vite. Le statistiche degli anni seguiti alla catastrofe, infatti, dicono che lo spaesamento tra i sopravvissuti più fragili fu tale da far impennare i suicidi fino a raddoppiare (11,6 contro 5 ogni centomila abitanti) la media nazionale.

Non solo a Gemona, Osoppo o Venzone fu sconfitta la teoria delle new town: «Secondo l'ingegnere autore della prima bozza del piano urbanistico — ricorda l'architetto Luciano Di Sopra, che del «modello Friuli» fu uno dei protagonisti come firmatario del piano di ricostruzione —, il sisma dava l'opportunità di abbandonare le zone danneggiate e trasferire la popolazione lungo l'asse Udine-Pordenone, con una ricostruzione resa più rapida dall'impegno integrale della prefabbricazione edilizia per realizzare nuovi edifici antisismici».

Impugna un libro scritto dopo essersi occupato di varie catastrofi in giro per il mondo compreso inizialmente («ma non facevo parte di nessuna cricca partitica e mi fecero fuori») il sisma in Irpinia. Si intitola Il costo dei terremoti. E’ pieno di cartine: «E’ stata una mania sovietica quella di spostare gli abitanti in new town permanenti — ammicca immaginando l'effetto che può fare a Berlusconi —. E’ il modello Belice. Ecco cosa hanno fatto a Montevago, Salemi, Salaparuta... Per non dire di Gibellina, spostata a una trentina di chilometri di distanza lasciando spazio ad architetti e artisti che avevano in testa modelli di periferie del Nord Europa. Il risultato è lì. Prendete Venzone e Gibellina Nuova. C'è qualcuno che pensa che andasse fatta la scelta siciliana?».

Corsi e ricorsi storici. La stessa scelta era stata fatta nell'isola dopo il terremoto che nel 1693 aveva devastato la Valle di Noto, causato almeno 60 mila morti e raso al suolo 25 centri. Fra i quali Occhiolà, feudo del principe di Butera. Il quale decise di spostare il borgo, di chiamarlo Grammichele e di prendere a modello la fortezza di Palmanova. In Friuli. «Non ripetiamo il Belice», titolò il Corriere il giorno dopo il terremoto ai piedi della Carnia. Eppure non erano solo gli ingegneri «sviluppisti» a essere perplessi sulla possibilità di restituire la vita a quei paesi. «Non posso dimenticare l'incubo che a quattro mesi dal sisma domina in questa città morta», scriveva ai primi di settembre da Gemona il nostro Alfredo Todisco senza immaginare che giorni dopo sarebbe arrivata la seconda batosta, «Restaurare Gemona sarebbe come restaurare Ercolano o Pompei».

Ma si sa come sono i furlani: teste dure. Lo sa Vienna che, come spiega il professor Salimbeni nella pagina seguente, ebbe modo di assaggiare di che pasta erano fatti nel 1848, in occasione dell'eroica difesa della fortezza di Osoppo, uno degli episodi purtroppo meno noti del Risorgimento. Lo scrisse mezzo secolo fa, spiegando che i canadesi distinguevano gli italiani «in due grandi categorie: quelli del Friuli e gli altri», Gianfranco Piazzesi. Affascinato, lui, toscano di questo «popolo di emigranti plasmati con sapienza dal parroco: fatti apposta dal buon Dio per rifornire la comunità nazionale di muratori, di carabinieri e di domestiche. Un popolo che risolveva molti problemi e non ne creava nessuno».

Decisero di far le cose a modo loro e le fecero. Senza che ancora esistesse, così come la conosciamo oggi, la Protezione civile. Senza le scorciatoie emergenziali che oggi sono ritenute assolutamente indispensabili. Senza esibizioni muscolari. Senza l'alone mistico di uomini della Provvidenza. Bastò il buon senso e l'efficienza di Giuseppe Zamberletti, il sottosegretario che forse avrebbe potuto dare di più a questo Paese se non lo avessero fatto fuori alla prima occasione. Bastò la saggia decisione andreottiana di delegare il più possibile alla Regione e ai Comuni. Bastò una netta divisione dei compiti settore per settore. Bastò la collaborazione (questa sì una fortuna irripetibile) di quei 57mila militari che in quegli anni in cui c’era ancora la Cortina di ferro erano acquartierati nelle caserme a ridosso della frontiera jugoslava.

Determinante, certo, fu lo spirito dei friulani. Basti ricordare quanto disse anni fa l'allora presidente regionale, il dc Antonio Comelli: «Prima pensammo alle fabbriche, al lavoro, alla produzione. Poi alle case. Ricordo ad esempio che l'anno dopo il terremoto prelevammo 300 o 350 miliardi dal fondo per la ricostruzione per l'autostrada Udine-Tarvisio che era arrivata solo fino a Gemona. La gente era ancora nelle baracche. Pensammo: è giusto farlo, ma questa è la volta che ci linciano. E invece la gente capì: occorreva ripartire abbinando ricostruzione e sviluppo». Una scelta difficile, ma compresa: «Molti rinunciarono ai contributi statali. Chi aveva un danno non troppo grave si vergognava un po' a chiedere soldi che magari servivano da altre parti». Il contrario di quanto sarebbe accaduto pochi anni dopo in Irpinia con l'allargamento dei comuni colpiti: alla prima conta 36, all'ultima 687. A un certo punto il Gazzettino confrontò le due catastrofi. Itinerari opposti: fatti 100 i finanziamenti al momento del disastro, sette anni dopo gli stanziamenti per Gemona o Buja erano ridotti a 38, quelli per Sant’Angelo dei Lombardi o Nusco erano saliti a 132.

Di soldi dallo Stato, comunque, anche in Friuli, ne arrivarono: al 31 dicembre ‘ 95, quando la ricostruzione poteva ormai considerarsi conclusa, il pallottoliere si fermò a 12.905 miliardi. Nove miliardi di euro d’oggi. Un settimo dei 66 spesi in Campania. Certo, i friulani ci misero forza e cuore. Ma quanto hanno pesato, sui fallimenti in Belice e in Irpinia, le scelte diametralmente diverse della politica, che certo non possono essere superficialmente addebitate alla «pigrizia» dei siciliani e dei campani?

Marco Fantoni se lo ricorda come fosse ieri mattina, quel 6 maggio. Tutti i capannoni dello stabilimento di Osoppo in cui produceva mobili e pannelli furono devastati dalla botta: «Sulle prime ci venne da piangere: un disastro. Ma era inutile star lì a lagnarci. Era un giovedì sera. Mentre organizzavamo nel piazzale un centro per le roulotte per ospitare le famiglie dei dipendenti, abbiamo cominciato a consolidare con dei tiranti l'unico capannone rimasto in piedi e a portarci i macchinari che ancora potevano essere riparati. Il lunedì mattina ripartimmo con la produzione. Un mese dopo brindammo al primo mobile della rinascita».

Dice che no, non ha chiarissimo se il terremoto abbia dato un'accelerazione allo sviluppo delle aziende della zona e in particolare della sua: «Va' a saperlo... Eravamo già ben avviati. Fu una sfida, questo sì: dovevamo mostrare di essere più forti della sfortuna». Certo è che al momento della scossa i dipendenti erano 310 e il fatturato di 6 miliardi di lire. Dieci anni dopo, i primi erano saliti a 510 e il secondo a 49. Un'impennata proseguita (360 milioni di euro nel 2007) fino alla grande crisi internazionale.

Fortuna dovuta a una pioggia di aiuti pubblici? «Mica tanto — risponde il figlio Giovanni, già presidente degli industriali friulani —. I contributi a fondo perduto sui danni accertati furono pari al 30% del danno subito per le aziende distrutte e al 20% per quelle danneggiate». Finanziamenti? «Fino a 12 anni con 3 di preammortamento al tasso del 4%. La Regione, certo, faceva da garante. E questo aiutò. I soldi, però, li abbiamo dovuti restituire». Anni buoni, dopo la botta. Buonissimi. Sospira: «Diciamo che per certi aspetti il terremoto più grave forse forse è quello finanziario di questi tempi». Che ha costretto l'azienda a ricorrere in modo massiccio ai contratti di solidarietà. Un destino comune a buona parte delle imprese friulane.

Dice una recentissima relazione degli uffici regionali che la produzione industriale del Friuli-Venezia Giulia è diminuita del 4,7% nel 2008 e addirittura dell’11% nel 2009. Senza risparmiare praticamente nessuno. A partire dal settore del mobile, che da queste parti è sempre stato una locomotiva. All’inizio del 2009 il calo, secondo Edi Snaidero, si aggirava sul 20-25%. Colpa degli ordinativi dai mercati extracomunitari, diminuiti nel 2009 di quasi il 7%. Letteralmente crollate le esportazioni in Russia: -55,8%. Incassata la mazzata più pesante negli Stati Uniti, la società ha reagito buttandosi sul mercato asiatico e lanciando modelli di cucine low cost con l'obiettivo di conquistare una fetta del mercato presidiato dalla Ikea. Auguri.

Nei primi tre mesi del 2010 c’è stata una certa ripresa. E l’aumento tendenziale su base annua della produzione industriale ha toccato punte del 12%. Con una ripresa nei fatturati (precipitati nel 2009 del 13,8%) oltre il 6,2%. Ma dire che la tempesta sia finita non si può. E se un po’ di fiducia sembra essere ritornata, molti imprenditori si leccano ancora le ferite. A fine 2009 il numero delle aziende iscritte alle Camere di commercio della regione era sceso per la prima volta da tanti anni sotto le 100 mila unità. Uno shock: in dodici mesi ne erano sparite 1.629. Con un tasso di mortalità più elevato della media nazionale e la scomparsa nel solo manifatturiero di 289 imprese: dalla siderurgia alla lavorazione dei metalli, dai mobili ai beni di consumo. Con una parallela impennata dei disoccupati: 34.700. Il doppio rispetto a tre anni fa.

Altri, con quei nuvoloni ancora addensati all'orizzonte, la vedrebbero nera. Eppure, dopo essere usciti alla grande dall'apocalisse del 1976, i friulani fanno mostra di ottimismo. Questione di carattere. Quello che colpì anche Riccardo Bacchelli. Un carattere che secondo il grande scrittore sarebbe stato temprato dall'essere sempre vissuti, i friulani, in un'area a cavallo fra il mondo tedesco, quello slavo, quello italiano e in definitiva avendo sempre l'immagine «immanente» di un terremoto, un'invasione, una guerra. Insomma, dall’esser sempre stati «sotto la bocca dei cannoni».

È dal problema della casa e della difficoltà di trovare un´abitazione in affitto a prezzi decenti, che partirà Stefano Boeri. Per dimostrare come ci sia la necessità di dare vita a una "Agenzia per la casa" che dia risposte e coordini le politiche di assessorati ed enti. Ma soprattutto come esistano già un´infinità di «isole deserte», da riempire. «L´equivalente di 30 Pirelloni di uffici sfitti, che potrebbero essere trasformati in case, e 80mila appartamenti vuoti. Quello che dobbiamo fare è rimetterli sul mercato, a prezzi calmierati», spiega il candidato alle primarie. Senza dover tirare su altri palazzi, espandere i confini di una metropoli che dovrebbe tornare a costruire se stessa prima di consumare altro suolo. Come, invece, prevede il Pgt della giunta Moratti: «Non ha senso un Piano di governo del territorio che si basa sullo scambio dei volumi e non sulle quantità di persone», attacca.

L´esperienza a cui guardare per la casa arriva da Barcellona, dove una sorta di "immobiliare sociale", la Provivienda, da dieci anni mette in contatto i proprietari con chi, una casa, non potrebbe trovarla senza la loro garanzia: studenti, giovani coppie, migranti. Ed è questo lo schema che Boeri seguirà per comporre il mosaico del programma: facendo rete. Quella locale delle associazioni che già lavorano in città. Ma anche quella internazionale, chiamando "testimonial" che, dall´Europa agli Stati Uniti, hanno dato vita a esempi alternativi concreti. Il cantiere del 2011 è stato inaugurato.

La corsa dell´archistar che studia da candidato è iniziata. Quando, alle 15 di due giorni fa, è sceso dall´aereo che lo ha riportato a casa da Harvard - dove ha tenuto un ciclo di lezioni - è atterrato anche su un altro mondo: una campagna elettorale già infiammata. Anche se lui assicura: «Non sarà al veleno». Da allora, raccontano i suoi, non si è più fermato. La macchina organizzativa è stata avviata, una squadra di giovani, una ventina, è già operativa. Molti hanno lavorato con lui al Politecnico o su progetti come la ristrutturazione delle cascine. «Qualche ex studente mi ha chiamato dicendo che rinunciava all´Erasmus per darmi una mano». Ed è proprio a uno staff giovane che sta pensando Boeri. Nuove facce e nuove generazioni. Per mettere in moto, prima di tutto, un giro nei quartieri. Una necessità per chi ha bisogno di farsi conoscere.

E poi ci sono quelle 400 telefonate di stima che dice di aver ricevuto: da Maria Grazia Guida della Casa della carità a Severino Salvemini, da Maria Berrini (Ambiente Italia) a Luca Doninelli, Enzo Mari e il designer Fabio Novembre. Da lì si partirà per costruire il comitato. Che dovrà trovare una sede: «Mi piacerebbe che fosse in una zona viva, magari lungo un asse commerciale», dice. L´agenda inizia a riempirsi. Ieri sera la prima uscita pubblica, all´inaugurazione di MiTo alla Scala, dove c´era anche il sindaco Letizia Moratti ma i due all´arrivo non si sono incrociati. Questa mattina il debutto alla Festa del Pd: Boeri incontrerà gli inquilini delle case popolari. In attesa del 19, quando si rinnoverà l´incontro con il segretario Pier Luigi Bersani. Proprio con i dirigenti locali del Pd è già avvenuto ieri un colloquio. Nei prossimi giorni si proseguirà con tutti i partiti, dall´Udc all´Idv. Le presentazioni sono d´obbligo. Per future alleanze, si vedrà. Lui è sicuro: «Ci sono pregiudizi su di me che sono costruiti ad arte e cadranno».

Non era difficile essere profeti di disgrazia a proposito della ricerca di idrocarburi nel Golfo del Messico. Gli standard di sicurezza non sono, di fatto, rispettati dal 1979, anno del primo grave incidente, e ancora non è stata nemmeno affrontata la situazione derivata dalla falla della Deepwater Horizon, quando un nuovo incidente, i cui contorni sono singolarmente ancora incerti, riapre una questione che deve trovare una risposta definitiva.

È possibile trivellare allegramente tutta la crosta terrestre senza pagare un prezzo ambientale elevato? A questa domanda abbiamo risposto affermativamente per oltre un secolo, ma invece di approfittare della seconda tecnologia al mondo per investimenti e innovazione (prima del petrolio c’è solo l’industria delle armi) al fine di lavorare in condizione di «safety first», abbiamo abbassato i livelli di sicurezza. Un tempo un incidente in fase di trivellazione o produzione era piuttosto raro, oggi rischia di diventare frequente, non esattamente a causa della crisi economica, visto che il margine di profitto sugli idrocarburi è talmente enorme da non mandare ancora fallita la Bp, pure se si dovrà impegnare per mezzo secolo al ritmo di qualche miliardo di dollari all’anno, se vuole riportare la vita nel Golfo.

Ma questa situazione è figlia dell’attuale grado raggiunto dall’esplorazione petrolifera mondiale: la maggior parte dei grandi giacimenti è stata scoperta negli Anni Settanta e, se si vuole ancora esplorare, restano due frontiere, i Poli e le profondità oceaniche. Per ragioni di carattere ambientale e scientifico l’Antartide è off-limits, protetta da un trattato del 1959 che vacilla ma ancora tiene. L’Artico è oggetto di appetiti, ma, per ora, i costi sono troppo elevati. Restano i fondali oceanici, anche a profondità di qualche migliaio di metri, target un tempo impossibile per via delle difficoltà tecniche, oggi reso possibile dall’aumento dei ricavi. Che si tratti dell’Oceano Atlantico o del Mediterraneo, assistiamo a una fiorire di permessi di esplorazione senza eguali, anche alle nostre latitudini (quasi 40.000 kmq di nuove richieste fatte da ditte non meglio conosciute che comprano permessi di ricerca in Adriatico e nel Tirreno settentrionale, mettendo nel mirino addirittura il santuario dei cetacei). In vista di un rincaro dei prezzi la corsa al nuovo giacimento continua, sperando di compensare i costi con un barile a più di 100 dollari.

Nel 2009 la produzione italiana di petrolio offshore è stata 525.905 tonnellate: 353.844 in Zona B (Adriatico centrale) e 172.061 in Zona C (Tirreno meridionale e Canale di Sicilia) ma Legambiente fa notare che nei primi due mesi del 2010 la produzione è aumentata in totale di quasi il 35%, passando da 83.882 tonnellate a 113.136. Nello specifico è stata registrata una flessione dell’8% in Zona B (passando dai 58.020 tonnellate del 2009 alle 53.470 del 2010) e un notevole aumento pari al 130% in Zona C (passando dai 25.863 tonnellate del 2009 alle 59.666 del 2010). In Zona B il petrolio si estrae da 5 piattaforme e da un totale di 35 pozzi, in Zona C il greggio si estrae da 4 piattaforme e da un totale di 41 pozzi. Tutto questo grazie alle semplificazioni della normativa approvate dal governo e a un prezzo del barile a livelli sempre più elevati, fino a rischiare l’ubicazione in aree di elevato pregio ambientale.

È vero che sono ancora più gravi i problemi che provocano le petroliere, ma l’incidente di aprile e quello di ieri stanno cambiando le statistiche: forse ancora non sono così frequenti, ma i danni che provocano sono micidiali. Il presidente Obama aveva minacciato una moratoria alle perforazioni nel Golfo del Messico: deve ora essere conseguente a questa sua estrema decisione, così come si dovrebbe fare immediatamente nei nostri mari, dove un incidente avrebbe conseguenze ancora più gravi per via delle dimensioni ridotte. Le piattaforme internazionali non sono protette da convenzioni come l’Iopc (International Oil Pollution Compensation), forse perché troppo onerose: fatto sta che il prezzo lo paga poi comunque la collettività.

Gli idrocarburi sono stati un regalo avvelenato del nostro pianeta, una specie di cavallo di Troia che non abbiamo potuto esimerci dall’accogliere. Ma all’inizio del terzo millennio sarebbe ora di rispedirlo indietro e tentare altre strade.

E’ durata poco la possibilità di parlare seriamente del recupero delle periferie romane (e di quelle italiane) aperte dalla proposta del sindaco Alemanno sulla demolizione del quartiere di Tor Bella Monaca. E’ infatti entrato in campo il teorema Berlusconi ed ha mandato tutto all’aria. Quando è in difficoltà, come noto, il primo ministro la “butta in caciara” come dicono a Roma, sparandole sempre più grosse, tipo che la crisi economica è finita, come afferma indisturbato da due anni.

Quando poi le difficoltà perdurano, tira fuori l’arma di distruzione di massa: è colpa dei comunisti. In un trasmissione radiofonica Alemanno-Berlusconi è nuovamente intervenuto sulla questione del recupero del quartiere romano affermando che Tor Bella Monaca è un quartiere sovietico! E che ci sia lo zampino del primo ministro è fuori di ogni dubbio. Alemanno appartiene alla cultura della destra sociale che conosce le difficoltà delle periferie e mai si sarebbe espresso in modo tanto improvvido. Sono tre –tra gli altri- i maggiori protagonisti della realizzazione del quartiere, Lucio Passarelli, Carlo Odorisio e Pietro Barucci.Tre persone di grande livello, dietro cui si nascondevano esponenti dei soviet nostrani. E chi l’avrebbe mai pensato, visto il loro profilo culturale?

L’affermato studio Passarelli ha ad esempio progettato e realizzato negli anno ’70 il bellissimo ampliamento dei Musei Vaticani. Paolo VI ha dunque chiamato un cosacco del Don a piazza San Pietro. Odorisio è stato uno stimatissimo imprenditore edilizio, una persona di grande equilibrio che ha contribuito alla costruzione di alcuni tra i migliori quartieri pubblici, nonostante –scopriamo- provenisse dalle lontane steppe. Pietro Barucci, infine, è uno dei più importanti architetti italiani che a Tor Bella Monaca ha progettato tra l’altro un bellissimo edificio. Alemanno-Berlusconi ha dunque preso un abbaglio comico! Ma è più interessante ragionare sui motivi reali dell’uscita. E’ che la cultura della destra liberista incarnata da Berlusconi non riesce ancora a fare i conti con la presenza dello Stato nella società. Al pari dei fondamentalisti raccolti intorno alla famiglia Bush, l’unico vero obiettivo che perseguono è quello di distruggere sistematicamente il ruolo e le prerogative pubbliche.

Tor Bella Monaca nasce negli anni ’80 per dare una casa vera alle centinaia di famiglie romane che ancora vivevano in baracche da terzo mondo. Solo l’intervento dello Stato può risolvere questi gravissimi problemi sociali. Chi vuole oggi demolire questo ruolo pubblico non è soltanto un mestatore, ma è anche fuori dal tempo. Da quando è emersa in tutta la sua rilevanza la crisi finanziaria mondiale è stato un susseguirsi di ricorsi agli aiuti di Stato, dalle banche al settore delle abitazioni. Lo stesso Marchionne, come ha documentato il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa, non avrebbe conseguito i successi nel rilancio della Chrysler se non avesse potuto sfruttare consistenti aiuti delle autorità federali.

La destra berlusconiana conferma dunque ancora una volta di essere un’eccezione nel panorama mondiale: fa fatica a metabolizzare concetti e ruoli che negli altri paesi sono invece scontati. Con l’aggravante di nascondere la reale portata dei problemi in campo. Tor Bella Monaca, come tantissimi altri interventi pubblici realizzati negli anni delle grandi riforme, è infatti circondata da informi quartieri speculativi e –nel centro sud- abusivi. Quei quartieri pubblici nacquero proprio per realizzare viabilità, scuole e verde che nelle lottizzazioni private non erano stati realizzati. Avevano insomma svolto un ruolo di supplenza nei confronti della speculazione edilizia. Oggi si punta il dito soltanto contro i quartieri pubblici per nascondere l’amara verità che il sacco edilizio d’Italia è stato compiuto dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo. Della necessità e dell’urgenza di rendere più umani questi quartieri nessuno parla: è più facile prendersela con il pubblico.

Senza nascondere, ovviamente, che anche i quartieri pubblici presentano errori di realizzazione e necessità do interventi di riqualificazione, ma sempre a partire dall’oggettività e dal rispetto della condizioni di vita degli abitanti e dalle loro esigenze. Resta l’amara constatazione che non appena si aprono a fatica spazi di discussione sui problemi reali dell’Italia - e lo stato delle nostre periferie urbane è sicuramente uno di questi - il mondo politico tira fuori l’ideologie senza senso e senza storia al solo scopo di continuare il comodo balletto. E’ davvero ora di farla finita con il teatrino della politica.

La candidatura a Sindaco di Milano di S. Boeri e il probabile appoggio alla stessa del PD milanese, non costituisce un’alternativa alla Milano della Moratti e di venti anni di giunte di destra.

L’archistar del Masterplan di Expo 2015, dei giardini pensili a Garibaldi-Repubblica, ma anche del G8 alla Maddalena (quello della cricca di Bertolaso…), ben rappresenta gli interessi del sistema di potere imperante nella metropoli milanese. Il suo ruolo nell’operazione Expo, garantisce a banche, Fiera, immobiliaristi e consorteria varia, la continuità del modello basato sulla densificazione urbana, la trasformazione della metropoli in un grande polo logistico-commerciale, la rinuncia a una visione pubblica di città. Un modello che vede nell’Expo l’occasione per ristrutturare il territorio milanese, al di là della portata reale dell’evento, spartendosi le scarse risorse pubbliche rimaste, e nel PGT lo strumento normativo per completare la deregolamentazione urbanistica e la privatizzazione della città e dei servizi pubblici (con un po’ di housing sociale e di servizi in appalto a cooperative bianche e rosse).

In questi mesi, mano a mano che il fallimento di Expo diventava palese, complice la crisi economica e le lotte di potere tra i soci di Expo Spa, il PD milanese e Boeri sono state voci costanti nel chiedere risorse, leggi, accordi per garantire la riuscita di Expo 2015, quasi preparassero il terreno alla candidatura, legittimandosi agli occhi del potere economico-finanziario milanese, come garanti dell’operazione e unici in grado di portarla a compimento, magari in un contesto di pace sociale e di città disciplinata. Non ci stupiscono perciò gli apprezzamenti trasversali che Boeri potrà raccogliere, né l’ostinazione con cui il PD continua a difendere Expo 2015. Difendono l’uno gli interessi del proprio ruolo, gli altri, gli affari del blocco economico di riferimento (leggi Legacoop), peraltro sempre più sodale nel business con la “piovra economica e clientelare” che la Compagnia delle Opere rappresenta in Lombardia.

Milano ha bisogno di altro. Lungi da noi voler fare campagna elettorale per questo o quell’altro candidato, ci limitiamo a ribadire che la priorità è uscire dalle logiche che portano a Expo e che ispirano il PGT di Milano, che portano privatizzazioni e precarietà. La necessità è un’altra Milano, che rimette al centro il concetto di Pubblico, inteso come spazio, come priorità, come modalità di erogazione dei servizi e di gestione delle risorse, e non gli interessi di casta o di bottega.

Seguirà nei prossimi giorni un più dettagliata analisi sulla situazione milanese.

Dopo mesi di afasia, il Pd ha scelto Stefano Boeri per conquistare Palazzo Marino. L'architetto cool che piace alla borghesia che conta ha lavorato per cementificare la Milano dell'Expo su committenza del sindaco Moratti. Intervista a Giuliano Pisapia, avvocato, sfidante della sinistra alle primarie



Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. Sono due persone in vista e ben educate, però adesso non potranno più evitare di partecipare al giochino che li vuole uno contro l'altro. L'avvocato e l'architetto. Una sfida a colpi di primarie per cercare di insidiare la poltrona mai così traballante di Letizia Moratti - i sondaggi la danno abbondantemente sotto la sua poco calorosa coalizione. Adesso che il super architetto Stefano Boeri ha deciso di candidarsi a sindaco, facendo finta di essere espressione della società civile (in realtà è il candidato del Pd), le primarie diventano una cosa seria. Si dovrebbe cominciare a parlare di contenuti e presto si faranno vivi altri candidati per rendere meno scontata la competizione. Ne parliamo con Giuliano Pisapia, avvocato, ex parlamentare del Prc, il primo a metterci la faccia due mesi fa, quando sinistra e centrosinistra non sapevano che pesci pigliare.

La battuta più velenosa è del sindaco. Dice che con la candidatura di Boeri la sinistra non potrà più dire che lei non sa scegliersi i collaboratori. In effetti, l'architetto era a libro paga proprio per i progetti urbanistici contestati dalla sinistra.

Per quanto mi riguarda, io in questi anni mi sono solo scontrato con tutte le politiche della Moratti, dall'ultima ordinanza fino ai problemi più gravi mai affrontati, casa e lavoro, per non parlare dell'Expo. Prima di decidere la mia candidatura ho letto tutti i cento punti del programma del sindaco, e almeno novantotto non sono mai stati affrontati. I restanti due, poco e male. Piuttosto che di Boeri preferisco parlare delle mie esperienze, e chi mi conosce sa bene che io a Milano ho svolto la mia professione di avvocato impegnandomi nella difesa dei diritti di tutti e in particolare dei più emarginati, prima come volontario e poi come parlamentare. Per questo credo di poter affrontare le primarie con umiltà ma con la consapevolezza che questo mio impegno verrà riconosciuto.

Come è possibile far passare l'archistar di Expo 2015 e dei grattacieli per i ricchi del quartiere Garibaldi come un'alternativa al centrodestra?

Il Pd ha fatto di tutto per avere un candidato alternativo cercando di farlo apparire espressione della società civile. Posso solo dire che parte di quella società, che preferisco chiamare cittadinanza attiva, si stava già misurando con me in seguito alla mia candidatura. Ricordo solo che da parte del Pd ho ricevuto reazioni durissime quando ho proposto di non acquistare i terreni dei privati per realizzare l'Expo. Ho detto che si sarebbero potuti utilizzare i tanti terreni pubblici, e questa prospettiva evidentemente non è piaciuta.

Prova a marcare qualche differenza sostanziale fra te e Boeri.

Posso solo dire che, essendo in corsa da due mesi, ho già elaborato delle schegge di programma insieme alle persone che mi hanno incontrato. Non conosco il programma di Boeri, per cui sarei costretto a dare dei giudizi unicamente sulla base di ciò che si dice di lui. Non è corretto, le differenze ci sono e si vedranno presto.

Ti va di essere etichettato come candidato della sinistra radicale o pensi che sia necessario guardare al centro? Del resto così farà Boeri, perfetto esponente degli interessi della borghesia amica del mattone.

Mi sta stretto essere il candidato dei partiti, mi sta bene essere di sinistra. Io sono di sinistra... Ma credo che per vincere sia necessario cercare altri appoggi, dai disillusi che non votano più a sinistra fino a quei voti che si sono spostati sulla lega e sulla destra.

Piuttosto complicato.

Non è difficile, basta mettere a confronto ciò che hanno fatto i sindaci socialisti e la disastrosa gestione della destra. Dobbiamo convincere le persone che la sinistra è capace di governare.

Come pensi di coinvolgere quella parte della cittadinanza attiva che non vuol sentir parlare dei partiti?

Con la mia storia politica. Per coerenza mi sono dimesso dalla Commissione giustizia alla Camera quando il Prc fece cadere Prodi, e poi ho deciso di non candidarmi quando il partito mi offrì un'altra occasione. A un certo punto è indispensabile allontanarsi dai partiti per non perdere il contatto con la realtà. In questi due mesi ho incontrato tante persone, i comitati che mi sostengono sono formati da qualche iscritto, qualche ex disilluso e molti giovani. Sono già riuscito a dare la senzazione di essere libero dai partiti.

Due mesi, cosa ti ha più sorpeso?

Una netta divisione della città in due, da una parte i rassegnati e dall'altra gli incazzati. Spero che i primi si rimettano in gioco e che la rabbia si trasformi in volontà di mobilitazione.

Non pensi sia necessario ritagliarsi un profilo più aggressivo per rianimare gli scettici che non ci credono?

Credo di essere molto duro sui contenuti, forse sul piano del linguaggio lo sono meno, ma questa è la mia modalità. Cerco di ragionare, non di urlare.

I rom. La campagna elettorale qui si avviterà. Sono anni che De Corato investe sulla caccia agli zingari. Dove il discrimine è tra umanità e disumanità, forse la sinistra, per principio, non dovrebbe essere più decisa?

Questo è uno dei motivi per cui mi impegno a vincere. Nella mia squadra ho messo una persona come Paolo Limonta, lui è sempre di fianco ai bambini dei campi quando vengono sgomberati. Non è una scelta casuale.

Sai fino a che punto è arrivata la frantumazione a sinistra. Credi di riuscire a dare il segno di una ritrovata unità, o assisteremo ai soliti giochetti?

Credo di poter parlare di unità a sinistra attorno al mio nome, a Milano. Ma è chiaro che il passaggio delle prossime elezioni è di grande importanza a livello nazionale. Il problema è ricostruire una sinistra forte, perché le persone di sinistra ci sono e sono tante.

E vero che giochi a poker?

Sì, è l'unico gioco che mi permette di non pensare, mi rilassa.

Adesso che carte hai in mano?

Una bella scala, con l'asso di cuori.

GIULIANO PISAPIA

Avvocato penalista, ex parlamentare del Prc, già presidente della Commissione giustizia alla Camera, Giuliano Pisapia da sempre si batte per la difesa dei diritti dei più deboli. La sua è stata la prima candidatura per le primarie milanesi che guarda a sinistra

STEFANO BOERI

L'«archistar» più famoso sulla piazza milanese ha un profilo professionale molto alto. Tra i tanti progetti che portano la sua firma, anche il masterplan dell'Expo di Milano. E' molto ben inserito negli ambienti finanziari che contano. E' il candidato del Pd.

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