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Perciò il governo vuole sciogliere le camere

Servizi pubblici in saldo. Referendum a rischio

di Ugo Mattei

Sono da oltre un mese negli Stati Uniti e vedo quindi le cose italiane da una certa distanza e in una prospettiva comparativa che mi consente una percezione non offuscata dal dettaglio quotidiano della polemica politica. Mi occupo anche qui di beni comuni e constato che il referendum italiano attira l'attenzione di molti miei interlocutori, accademici e non. Tutti si dimostrano colpiti dalla brutalità del tentativo con cui il governo italiano cerca di «lisciare il pelo» (qui mi dicono brown-nose) alle multinazionali mettendo sul piatto una torta così ricca. Tutti mi dicono che neppure i più sensibili alle corporation fra i senatori di questo paese (e qui in California Dianne Feinstein lo è molto) oserebbero neppure proporre tanto e tanto in fretta. Qui al saccheggio dei beni comuni come «uscita dalla crisi» certamente mirano in tanti (amministrazione Obama compresa) ma la cosa avviene in modo più graduale, senza tanto brutale piratesco coraggio. Infatti, mi dice un'osservatrice acuta, questa italiana non sarà affatto una privatizzazione ma una ennesima corporatization, ossia un trasferimento diretto (e colluso) alla corporation, entità che ormai scavalca la divisione tradizionale fra pubblico e privato (e lo sappiamo bene dopo la reazione alla crisi finanziaria). Proprio come il movimento globale per i beni comuni ma con motivazioni ed effetti opposti.

E allora in questa prospettiva più ampia emerge un'interpretazione dell'incomprensibile farsa della crisi della destra (e della balbettante opposizione della sinistra) italiana, meno legata allo scontro fra singoli ego dei nostri improbabili politici. Teniamo in considerazione infatti che in prospettiva globale l'Italia è da sempre un paese semiperiferico a sovranità limitata (da Europa, Nato, Fmi e Vaticano) perché tutte le scelte importanti sono eterodirette (economia ed esteri sono almeno dalla «seconda repubblica» in mano a due maggiordomi, rispettivamente di Fmi Ocse e Nato). Ebbene la questione di grande rilevanza economica in ballo in Italia oggi è il referendum contro la corporatizzazione finale dei servizi, ed è proprio questo movimento di popolo che preoccupa i cosiddetti poteri forti globali.

Berlusconi non è in grado di mantenere quanto promesso: di lui non ci si fida più. Di qui la fortissima pressione per lo scioglimento delle Camere, che nel nostro diritto costituzionale significa «rinvio di un anno» del referendum. In effetti il decreto Ronchi è una «legge provvedimento» che dispiega i suoi effetti a data certa, sicché solo il referendum vinto entro il 2011 effettivamente disinnescherebbe la soluzione «corporatizzatrice» finale che sta tanto a cuore al potere globale. Insomma, dal punto di vista economico (il solo rilevante davvero) rinviare significa costringere il popolo sovrano (non sensibile agli interessi multinazionali come i suoi rappresentanti parlamentari) a chiudere le gabbie a buoi fuggiti, con gran brindisi in borsa delle corporation. Ecco spiegata la fibrillazione. Naturalmente a Camere sciolte si aprirebbe una questione costituzionale del tutto nuova nel nostro paese.

È costituzionalmente ammissibile il rinvio di un anno, provocato da organi di democrazia indiretta (Governo e Parlamento), che svuota interamente di significato uno strumento di democrazia diretta? Possono i rappresentanti del Popolo Sovrano togliere la parola al Popolo Sovrano che rappresentano? Evidentemente in caso di scioglimento anticipato delle Camere saranno gli organi di garanzia preposti al controllo della coerenza costituzionale del nostro ordinamento (Corte Costituzionale e Presidente della Repubblica) a doversi pronunciare. Noi riteniamo che si debba arrivare a un contestuale rinvio di un anno degli effetti della legge Ronchi sottoposta a referendum, in modo da evitare questo strappo costituzionale.

In altre parole, in caso di scioglimento, non a fine 2011 ma a fine 2012 dovrebbe scattare l'obbligo di «messa a gara», evitando di far fuggire i buoi prima che si possano chiudere le stalle. Ricordiamo che una volta venduti i servizi pubblici diviene difficilissimo recuperarli alla proprietà pubblica, perché scattano i requisiti di riserva di legge e indennizzo a tutela dei beneficiari privati della corporatizzazionesaccheggio. Insomma una bella questione da approfondire giuridicamente per capire quali forme tecniche debba prendere la nostra sacrosanta questione di sostanza costituzionale provocata da quella brutale struttura di provvedimento-saccheggio a data certa del decreto Ronchi che tanto colpisce gli osservatori di queste parti.

Che gli effetti politici del Referendum siano già ora una corsa bipartisan contro il tempo, per scappare col bottino prima che il popolo si pronunci, è già evidente a Torino. Infatti Chiamparino, adempiendo con zelo anche ai desiderata regionali bipartisan di Bresso e Cota, sta premendo sull'acceleratore della corporatizzazione del trasporto pubblico torinese (Gtt). Sebbene un comitato di cittadini stia raccogliendo molte firme per chiedere una moratoria almeno fino all' espletamento del referendum sul Decreto Ronchi (sulla base del quale la «messa a gara» sta avvenendo) il sindaco non sente ragioni.

Per un futuro più potabile

di Guglielmo Ragozzino

A Firenze l'assemblea dei movimenti in difesa dell'acqua pubblica, per passare dalla raccolta delle firme al referendum. E alla vittoria che impedisca di trasformare l'oro blu in merce. Da Cochabamba all'Amiata, dal generale al particolare, la lotta continua

FIRENZE - Antonio che ha il microfono chiama alla presidenza tutti insieme i diecimila militanti che hanno raccolto le firme tra aprile e l'estate. È una battuta, ma i rappresentanti di quei diecimila, venuti in centinaia a Firenze alla casa del Popolo di S. Bartolo a Cintoia, non ci trovano niente da ridere, anzi applaudono convinti. Tutti sanno cosa è stato il lavoro di raccolta e mobilitazione. Sanno poi che ora occorre proseguire. Come si passi dalla raccolta delle firme al referendum e alla vittoria che stabilisca che in questo paese l'acqua non è una merce, ma un diritto, un bene comune, inalienabile, non è facile stabilirlo. L'assemblea consiste proprio in questo: misurare l'ostacolo e trovare strategie e tattiche, alleanze e percorsi per superarlo. Non esaltazione, ma lavoro ragionevole.

Il discorso ufficiale per un'Assemblea sui referendum futuri in Italia lo tiene Oscar Oliveira che arriva da Cochabamba per dare una mano e chiedere aiuto. Poi altri toccano il tema delle dighe sul Tigri e dell'imperativo morale di salvare Hasankeyf, una delle più antiche città del mondo. Si parla della falda dell'Amiata che è, o era, la maggiore dell'Italia centrale e ora si è abbassata di 200 metri, perdendo miliardi di litri, anche e soprattutto per i prelievi dell'Enel e dei suoi impianti geotermici. Probabilmente quelli di Astrid non capirebbero, ma così la democrazia universale dell'acqua ha avuto una giusta cornice. Dal generale al particolare, l'obiettivo comune e la lotta intelligente sull'acqua potabile, della città e del circondario, da difendere e da salvare. Tra gente dell'acqua i discorsi sono semplici e condivisi.

Per semplicità di discussione si fanno emergere quattro temi: il futuro dell'acqua con le vertenze locali e la possibilità di arrivare a una moratoria generale, il quorum da raggiungere con il punto essenziale del finanziamento per la campagna verso il voto, la gestione pubblica partecipata e infine il pianeta acqua: Cochabamba, il Kurdistan, l'Amiata.

Viene descritto in primo luogo con precisione (da Marco Bersani) il calendario che aspetta il movimento ed è tra il giuridico e il lunare. Noi lo riportiamo, secondo gli appunti, ma senza certezze, anzi con beneficio d'inventario: la Corte di Cassazione il 1 ottobre chiude il rubinetto alla raccolta di firme - ci sono i tre referendum di Di Pietro, uno dei quali è sulla privatizzazione dell'acqua e potrebbe sempre materializzarsi una richiesta per un referendum sconosciuto. Poi c'è la verifica delle firme, con l'eventuale proposta di accorpare richieste referendarie simili. Questa fase dura fino al 31 ottobre. Fino al 15 dicembre la Cassazione riflette, per poi scaricare, con una sentenza, il problema alla Corte Costituzionale che entro il 10 febbraio deciderà della proponibilità dei referendum: tutti o qualcuno. E già questo è un terreno minato. Qualche giorno prima, il 20 gennaio, la Corte indica il giorno in cui delibererà. Questo perché fino a tre giorni prima è possibile indirizzare memorie alla Corte. Quindi un'altra data da ricordare: tre giorni prima della decisione, finiscono i giochi e la Corte si ritira.

Poi, se tutto va bene, la gimkana continua. Tocca al governo, sempre che esista ancora e sempre che non abbia inventato una serie di leggi per ottenerne l'esclusione di tutti i referendum o almeno di quelli che ci stanno a cuore in modo surrettizio. Tocca al governo decidere la data dei referendum, tra il 15 aprile e il 15 giugno. In quel periodo ci sarà anche un voto amministrativo, per esempio a Milano e spetterà al governo accorpare i referendum alle elezioni, oppure scegliere date diverse. Difficile immaginare una data diversa da quella più sfavorevole ai referendum.

Se questi sono gli ostacoli e le insidie principali, di certo ve ne sono altri disseminati e ancora oscuri. Spetta a un gruppo di giuristi, esperti e affezionati ai problemi della democrazia e dell'acqua, il compito di affrontare nel modo migliore le difficoltà. Franco Russo tra gli altri ha ben descritto la fase. Servono persone capaci di praticare la Corte oltre che i movimenti, serve gente con un buon tasso di credibilità presso gli alti magistrati. Devono però spiegare bene cosa stanno facendo, confrontarsi con il movimento. Da qui nasce una proposta che oggi discuterà l'assemblea plenaria, di un convegno di carattere giuridico e liquido insieme, per mettere a punto la strategia e la tattica.

Si discute molto di moratoria e di moratorie, quella generale e quelle locali. Concordano tutti e tutte sul punto dell'ingiustizia di una serie di decisioni irrimediabili sulla gestione idrica in molte località, quando sono state raccolte firme in quantità e pendono i referendum. La volontà popolare è stata disprezzata: qualcuno vuole imbrogliare la situazione tanto da rendere impossibile tornare indietro. Alcuni fanno presente la disparità delle situazioni locali: non si chiude la stalla della moratoria quando i buoi sono scappati.

In generale è difficile il confronto con gli altri, con quelli che non hanno ancora messo l'acqua al centro della democrazia per la quale lottano. Come si apre il discorso ai milioni di voti che serviranno a giugno inoltrato, quando, finite le trappole, si andrà a votare per il referendum?

Il problema delle alleanze si presenta sempre davanti a un movimento ragionevole; e questo lo è. Oggi (per voi che leggete) si deciderà di partecipare il 16 ottobre alla giornata di lotta della Fiom, si andrà per scuole (e fuori dalle scuole) per convincere gli studenti che ne vale la pena e che si lotta anche per loro e con loro; quando in dicembre, a Cancun il mondo discuterà di acqua, anche l'Italia del movimento non farà mancare il suo appoggio, solo perché c'è altro da fare, monitorare la Cassazione. E ci sarà anche un nuovo 20 marzo - sarà il 19, per motivi di calendario - quando tutto il movimento, ma tanti e tante di più si daranno appuntamento a Roma per sostenere il nostro referendum.

Altrove, in altre riunioni si parla d'altro. Quanti soldi servono per il referendum? A chi li si chiede, chi li amministra? Dobbiamo contare solo sulle nostre forze, è giusto tassarsi ancora? Avere un tesoriere non snatura il movimento? Domande, domande

Il diritto umano all'acqua

Appena proclamato, già svilito?

di Riccardo Petrella

Questa settimana verificheremo, in due circostanze, se i gruppi dominanti degli Stati, che si sono opposti alla risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (Riag) del 28 luglio scorso - che ha riconosciuto l'accesso all'acqua potabile ed ai servizi igienici come un diritto umano fondamentale - saranno riusciti a sminuirne la portata e ad annacquarne il contenuto. La prima circostanza, la più importante ai nostri fini, è l'approvazione giovedì 23 settembre a Ginevra da parte del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite del rapporto dell'esperto indipendente sul «diritto umano all'acqua e ai servizi igienici» (Recdu).

La seconda circostanza è rappresentata dalla conferenza di valutazione dello stato di realizzazione degli «Obiettivi del millennio per lo sviluppo» che si terrà da lunedì a mercoledì 22 settembre a New York nella sede dell'Onu.

Come è noto, l'obiettivo della riduzione al 2015 della metà delle persone che nel 2000 non avevano accesso all'acqua potabile e ai servizi igienici figura fra gli obiettivi retoricamente più enfatizzati in questi ultimi anni. Se il rapporto dell'esperto indipendente al Consiglio dei diritti umani dell'Onu è approvato nella sua stesura attuale esso rappresenterà un passo indietro notevole rispetto alla risoluzione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 28 luglio. Per tre motivi.

Anzitutto perché il Recdu non riconosce il diritto umano fondamentale all'acqua in quanto tale ma si limita a considerare che «i diritti umani all'acqua e ai servizi igienici sono diritti componenti del diritto a uno standard di vita adeguato e quindi dei diritti contenuti all'art. 11 dell'International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights (Icescr)». Il che significa, contrariamente a quanto riconosciuto dalla Riag, che per il Consiglio dei diritti umani dell'Onu il diritto all'acqua non esiste in se stesso, ma è di natura strumentale alla realizzazione del diritto ad uno standard di vita decente. Questo e inaccettabile e sminuisce il valore della Riag.

Secondo motivo: legando il diritto all'acqua alla Convenzione Icescr e non all'International Covenant on Civil and Political Rights (Iccpr) secondo la quale i diritti da essa coperta sono giustiziabili, l'approvazione del Recdu mantiene la tesi (difesa dagli Stati contrari alla Riag) che il diritto umano all'acqua non può e non deve far parte dei diritti umani giustiziabili, cioè a dire per i quali è possibile portare davanti alla giustizia gli Stati e altri soggetti pubblici e privati in caso di non rispetto del diritto. Anche in questo caso si tratta di un «declassamento» della natura e dell'importanza del diritto all'acqua, inaccettabile e infondato.

Terzo motivo, ancora più forte e preoccupante dei precedenti: il Recdu «riconosce che gli Stati sono liberi di optare per l'implicazione di soggetti non-statali nella gestione dei servizi idrici». Questo significa in maniera chiara e categorica: a) la piena legittimazione data da parte dell'organismo dei diritti umani dell'Onu alla privatizzazione dei servizi idrici e alla loro inclusione nella sfera mercantile. Le grandi imprese multinazionali private dell'acqua, così come la Banca Mondiale e tutti gli altri organismi internazionali «pubblici» implicati nella politica dello «sviluppo», in particolare la Commissione dell'Unione europea, non mancheranno di utilizzare questa decisione per spingere in favore dell'ulteriore privatizzazione e finanziarizzazione borsistica dei servizi idrici. Non solo, anche il governo Berlusconi non mancherà l'occasione per cercare di legittimare il decreto Ronchi e sostenere che questo è conforme ai principi del diritto all'acqua riconosciuto dall'Onu!

b) l'affermazione che secondo il Cdu non v'è incompatibilità tra diritto umano fondamentale all'acqua e privatizzazione dei servizi idrici, il che è assolutamente mistificatorio perché, per definizione, nel mercato non vi sono diritti né obblighi riguardo eventuali diritti (il mercato può addirittura togliere la proprietà di un bene e, grazie ai meccanismi di dominio oligopolistico, ridurre in polvere la cosiddetta libertà d'investimento). L'approvazione del Redcu rinforzerebbe l'egemonia ideologica culturale in materia di diritti umani e sociali e dei beni comuni della teologia capitalista universale.

Occorre reagire, specie in Italia e dall'Italia dove più di un milione e quattrocentomila cittadini hanno firmato in favore di tre referendum miranti, per dirla in breve, all'abrogazione delle disposizioni legislative approvate dal governo Berlusconi allo scopo di privatizzare i servizi idrici (e l'acqua). Un mail-bombing gigantesco lunedì e martedì prossimi al Consiglio dei diritti umani dell'Onu e al Segretario generale delle Nazioni Unite sarebbe un'azione molto efficace.

Per quanto riguarda la conferenza delle Nazioni Unite sugli «Obiettivi del millennio per lo sviluppo», tutto indica che i gruppi dominanti degli Stati del «Nord» cercheranno, con l'aiuto e la complicità dei loro simili dei paesi del «Sud» e delle agenzie dell'Onu, di dimostrare - e fare approvare nella risoluzione finale della conferenza - che se l'obiettivo della riduzione di metà delle persone senza accesso ai servizi igienici non sarà raggiunto, l'obiettivo relativo al dimezzamento della popolazione senza accesso all'acqua potabile sarebbe stato di già realizzato.

Una grande conquista, proclameranno, che confermerebbe, diranno, la giustezza delle scelte e delle politiche operate in questo campo dai dirigenti mondiali (compresa quindi la privatizzazione dei servizi idrici e la mercificazione dell'acqua, dichiarata bene economico dall'Onu nel 1992).

I dati ufficiali confermano i progressi realizzati a proposito dell'acqua potabile, soprattutto in Cina e in Brasile (e in quest'ultimo paese grazie alla campagna «un milione di cisterne»). Si tratta però, in generale, di dati risultanti da mistificazioni statistiche. Al di là delle cifre, gli affamati, gli assetati, gli abitanti delle baraccopoli, i poveri assoluti, i senza lavoro si conteranno ancora al 2015 in miliardi.

I dominanti sono incapaci - non è una sorpresa - di far cambiare rotta al mondo. Il fallimento della società mondiale fondata sui principi della sovranità e della sicurezza «nazionali», cioè dei più forti, e sulla ri-universalizzazione del capitalismo è totale. Occorrerà nei mesi che verranno attaccarsi a tale fallimento e inventare, a partire dai beni comuni e dalle città, una nuova mobilitazione altermondialista.

Ricordo che l'Icescr è stato ratificato da 160 Stati ma non ancora (a dicembre 2008) dagli Stati Uniti

Al rientro a tarda notte nell’umida padania dall’ultima giornata di relazioni e discussioni napoletana della Scuola estiva di Eddyburg, mi sono trovato nella buca delle lettere l’ultimo numero del patinato bollettino comunale di Monza.

Beh, di sicuro, il progresso è inarrestabile. Mentre nelle sale del Parco Metropolitano delle Colline, o tra i filari di viti dell’Eremo, si discettava di ricchezza collettiva urbana, dei modi migliori per valutarla e farne usi meno scellerati della media, in altre lontane sale e ambienti tono e sostanza erano assai diversi. Come mi conferma una paginetta del succitato bollettino comunale.

Recita, testuale:

Polo di Sviluppo … una superficie lorda di pavimento terziaria e produttiva avanzata di 94.924 metri quadrati, e residenziale di 31.600.

Si tratta dell’ultima trovata della giunta pidiellina-leghista, ovvero la variante al piano di governo del territorio per l’ormai famosa area della Cascinazza. Che importa se solo qualche anno fa di poli di sviluppo terziario produttivi avanzati non ne parlava nessuno, e fra quei prati gli sviluppisti a oltranza sognavano e declamavano l’indispensabilità di un bel quartiere residenziale, incluse stradine a cul-de-sac con rotatorie per l’inversione di marcia del furgone ombrellaio-arrotino!

Quello che conta è il metro cubo, scambiabile con denaro sonante nella quota cosiddetta “di mercato”, ovvero decisa a tavolino dagli amici degli amici. E per giustificare l’alluvione delle cubature con una funzione qualunque si segue la strada maestra della neodemenza demografica indicata dai ciellini milanesi: previsioni spropositate di crescita della popolazione, da 120.000 a 180.000 abitanti in una manciata di anni. Tanto poi inventarsi nuove denominazioni per il metro cubo approvato e realizzato è facile, no? Lo leggiamo tutti i giorni sui giornali, il turbine di tribunali, residenze per anziani, giovani, oran-goutan scapoli o quaternario avanzato, che va e viene dalle desolate periferie meneghine.

Poi via col malloppo, e chi s’è visto s’è visto.

Deve essere gente che da giovane ascoltava certa musica d’autore italiana, e ancora si ricorda benissimo, a modo suo, quel solenne finale: Ma Noi Non Ci saremo.

Non sarebbe possibile, magari, cambiare ritornello?

GELA - In quanto tempo si può costruire secondo voi una casa di tre piani? In un anno? In due? In Sicilia, c´è qualcuno che l´ha fatto in ventuno giorni e in ventuno notti. E fra pilastri e muri portanti ogni particolare è stato ben curato e rifinito, nelle stanze di sotto e anche in quelle di sopra, in cantina, in terrazza. Per il momento il signor N. F. nella sua casa non ci potrà abitare - è stato denunciato sette volte per abusivismo e per sette volte i carabinieri hanno messo i sigilli all´immobile - ma lui sa già che prima o poi lì dentro farà entrare la sua numerosa famiglia.

Siamo tornati a Gela dopo un lungo distacco e quaggiù, estremità aspra che si affaccia sul Mediterraneo, è ancora difficile capire se il vero miracolo sia quello riuscito al signor N. F. che in meno di tre settimane ha visto nascere il suo palazzo oppure quell´altro inseguito dal 1968 e finalmente apparso alla città intera in questa fine d´estate. Si materializzerà a tutti il prossimo 24 settembre con tanto di timbro e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale: dopo quarantadue anni di attesa anche Gela avrà il suo piano regolatore generale, dopo quarantadue anni di scorribande edilizie anche a Gela si dovrà costruire secondo legge come nel resto d´Italia.

Il problema del signor N. F. forse era proprio questo: fare in fretta, avere pronto il suo nuovo alloggio prima del 24 settembre 2010. Prima del piano regolatore.

La guerra delle case in Sicilia non è mai finita e se volete scoprirne di più seguiteci in questo viaggio che s´inoltra in una casba, una delle tante sull´isola, Gela come metafora dell´abusivismo più primitivo, un marchio di capitale del male che si porta dietro per una faida mafiosa ormai lontana e un oggi scivoloso ma non più disperato, appeso al desiderio di non morire di cemento.

E allora eccoci ancora nella Gela delle sue incoerenze più violente, dove fra le mura di Caposoprano cercano la tomba di Eschilo e dove intorno a una casa color rosso pompeiano in via dell´Ara Pacis il paesaggio urbano è un gigantesco blocco di tufo giallo, cubi, scheletri, porte e finestre murate che si inseguono fino a quando la casa a tre piani di N. F. svetta in un cielo blù dove non si spingono nemmeno i fumi del Petrolchimico.

La prima volta hanno sequestrato il cantiere a gennaio, quando le ruspe scavavano ancora per le fondamenta. Il giorno dopo qualcuno ha violato i sigilli e qualcun altro ha continuato a spostare terra. Sono arrivati altri sigilli e sono stati chiamati altri operai, nuove denunce e tre imprese che si sono alternate per i lavori anche con il buio. Al diciottesimo giorno a N. F. è stato notificato l´obbligo di firma, ogni mattina e ogni sera costretto a passare in caserma. Ma alla fine la sua casa adesso è la, come lui la voleva.

Quello di via dell´Ara Pacis è uno dei 174 edifici sequestrati dall´inizio dell´anno a Gela (nel 2009 erano stati 192), quando la frenesia costruttiva è divampata un´altra volta. In vista del Piano regolatore la giostra del mattone ha ricominciato a girare.

Dalla via dell´Ara Pacis scendiamo verso il lungomare e fra la collina e le dune di sabbia, all´angolo di via Federico II°, i gelesi hanno assistito a un altro miracolo: una villetta di cento metri quadri con i tetti spioventi come uno chalet di montagna, tirata su fra le palme. «Il proprietario del terreno non sapeva niente fino a quando non gli è stato notificato l´ordine di demolizione, un altro è andato lì e ha costruito», racconta Giampiero Occhipinti, il comandante della sezione di polizia giudiziaria dei vigili urbani che indaga sui crimini urbanistici. Spiega Occhipinti: «Rispetto al passato gli abusi sono cambiati: prima costruivano solo nuove case, adesso la metà degli abusi riguardano sopraelevazioni, secondi e terzi piani». Come la palazzina di fronte all´assessorato urbanistico, in via Chopin. Piloni, travi e un altro tetto «spuntato» prima di Ferragosto.

Ma se una volta, 30 o 40 anni fa - quando Enrico Mattei ha portato gli stabilimenti dell´Eni e Gela ha cominciato a vivere il suo sogno texano, dilatandosi esagerata e fino a contare 100 mila abitanti - tutti dicevano che era abusivismo «di necessità», in questi mesi si fanno case fuorilegge per figli e nipoti, ville e villoni. E tra almeno 20 mila immobili costruiti senza uno straccio di autorizzazione e almeno 16 mila richieste di condono insabbiate, non è mai stato demolito neanche un muretto. E´ un altro dei miracoli di questa città in bilico fra lo sprofondare nel passato e la voglia di cambiare. «Adesso però si volta pagina», giura Angelo Fasulo, avvocato che è sindaco da tre mesi, «adesso c´è uno strumento urbanistico di programmazione generale vero. Sappiamo cosa dobbiamo fare e dove dobbiamo farlo». Avverte il sindaco: «Non è più il tempo delle incertezze né il tempo di pensare che per costruire una casa bisogna trovare l´amico giusto. Ora c´è solo la legge da rispettare, ci saranno delle demolizioni, Gela deve tornare quello che era prima: una bella città della Sicilia».

Purificare il territorio, eliminare gli orrori. Ma come? Il nostro viaggio ci trasporta a Scavone, sfioriamo le palazzine pericolanti dell´Istituto Autonome Case Popolari - da una dozzina di anni disabitate, abbandonate, carcasse che pencolano minacciose davanti ai lidi dove montagne di sabbia scendono a picco su un mare verdastro - e poi a Settefarine, che è il tracciato più antico del labirinto gelese. Via Boccanegra, via Ghirlandaio, via Juvara, via Indovina. Non c´è un albero, solo il tufo giallo che acceca e che soffoca. E poi le strade dei santi: via Santa Rita, via San Cristoforo, via San Giuseppe, via San Camillo. Case una attaccata all´altra, una dentro l´altra. «Tutta colpa di chi ci ha amministrato: non hanno dato regole, nessuno si è mai preso una responsabilità, l´assessorato all´Urbanistica non ha mai funzionato, lì dentro ognuno fa quello che gli pare», denuncia Giovanni Peretti, un imprenditore che per vedere approvato il progetto del suo albergo ha dovuto aspettare otto anni. Su e giù ogni giorno fra l´assessorato all´Urbanistica e il niente, una terra di nessuno che ha favorito i furbi e i ladri. E i soliti funzionari dell´Urbanistica. Sempre gli stessi. Sfregiata più dalla burocrazia che dalla mafia, Gela si contorce nelle sue deformità.

Lunedì 13 settembre - il giorno della cerimonia di presentazione del piano regolatore - alla procura e alle redazioni dei quotidiani locali è arrivato un anonimo. La lettera di un abusivo: «Sono proprietario di un terreno con destinazione d´uso agricolo... per 25 anni ho fatto istanza per variare la destinazione ma mi hanno rigettato la domanda perché non c´era il Piano regolatore». L´anonimo racconta che ha provato ad acquistare una casa - in cooperativa, edilizia popolare - ma gli sarebbe venuta a costare più di 220 mila euro. Concludeva: «Così per avere un tetto nella stessa periferia nord, visto che il Prg non arrivava mai, sono diventato un abusivo».

Abusivi non si nasce ma si diventa, anche a Gela che ha sempre avuto una mala fama. Ma da questo settembre tutto cambierà, vero? «L´abusivismo non è una calamità naturale e non è necessariamente frutto di una mentalità, qui ha avuto inizio in un periodo ben determinato e ha avuto delle ragioni ben determinate, questo ha sedimentato abitudini», risponde il procuratore capo della repubblica Lucia Lotti che ha dichiarato una guerra senza tregua a piccoli e grandi scempi. E soprattutto a chi favorisce o protegge il business di mattone selvaggio.

Da qualche mese a Gela sequestrano anche gli impianti che forniscono calcestruzzo agli abusivi. A qualcuno viene dato il divieto di dimora in città. Ad altri, come al signor N. F., l´obbligo di presentarsi due volte al giorno in caserma. Ma tra una firma e l´altra sul librone dei «sorvegliati», come abbiamo visto, ha trovato il modo di farsi - e di corsa - la sua nuova casa.

La conferma arriva dall’allegato Infrastrutture al nuovo Dpef (Il Documento di programmazione economica e finanziaria su cui si baserà poi anche la nuova Legge Finanziaria 2011). I fondi recuperati da vecchi mutui per investimenti pubblici mai erogati o finanziamenti mai spesi saranno compresi tra il miliardo e mezzo e i 2 miliardi di euro e sarò poi il Cipe (il Comitato per la programmazione economica) a distribuirli. Ma tra la marea di opere legate alla Legge Obiettivo (si avvicinano ormai alle 350, per un valore vicino ai 360 miliardi di euro), sarà grata una vera e propria «serie A» di interventi prioritari (una trentina in tutto) che si spartiranno i residui rimessi in circolo dal Cipe. Tra di esse, con opere come l’Altà Velocità Milano-Padova, il completamento della Salerno-Reggio Calabria, la Torino-Lione, il ponte sullo Stretto, ci sarà appunto anche il prpgetto di dighe mobili alle bocche di porto e già nell’anno in corso il Cipe dovrebbe stanziare una congrua cifra a favore di Magistrato alle Acque e Consorzio Venezia Nuova, per non interrompere il flusso dei finanziamenti verso la conclusione dell’intervento, previsto per il 2014. Gli ultimi 400 milioni di euro in «dono» per il Mose sono già arrivati attraverso il recupero dei residui passivi maturati nel triennio 2007-2009 per fondi non spesi per infrastrutture. Sui circa 4 miliardi e 678 milioni di euro previsti per l’intervento, finora lo Stato ne ha stanziati 3 miliardi e 244 milioni, saliti appunto a 3 miliardi e 644 milioni, con la nuova «benzina» immessa nel Mose. Un’altra fetta di fondi dovrebbe appunto arrivare con la nuova ripartizione. L’opera è già ben oltre ill 6o per cento della sua realizzazioni e per la fine del 2012 è previsto il completamento della prima delle quattro file di dighe mobili da «schierare» alle bocche di porto per alzarsi in caso di acque alte eccezionali. Il sistema di dighe mobili entrerà però in funzione solo quando tutte e 79 le paratoie previste saranno state montate sui fondali delle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia.

Le garanzie per il completamento del Mose che arrivano dal Governo e dal Ministero delle Infrastrutture fanno però un contrasto stridente per la ormai cromica mancanza di fondi per la salvaguardia della città, tanto che il Comune medita la chiusura di Insula - la società nata proprio per la manutenzione urbana e legata all’erogazione di fondi pubblici per gli interventi - che rischia di fermarsi, senza più finanziamenti. E mentre i fondi per Roma Capitale si trovano, per Venezia si discute di nuova Legge Speciale, ma sempre a costo zero.







Negli ultimi mesi gli umori dell’opinione pubblica sono stati sollecitati da annunci a sorpresa relativi a nuovi strumenti normativi e amministrativi finalizzati a ravvivare il settore dell’edilizia privata e pubblica. Si è cominciato nuovamente a parlare di “piano casa”. Espressione questa – sia detto per inciso – un po’ sfortunata, visto che a causa di un “piano casa” nel 1986, si dovette dimettere il sindaco di Milano Carlo Tognoli e, nel 1990, fu arrestato l’imprenditore Salvatore Ligresti.

In ogni caso, si deve sgombrare il campo da un equivoco: la locuzione “piano casa” – che ciclicamente ricorre – indica oggi due politiche diverse.

La prima è un programma nazionale (o meglio, una serie di programmi) per l’offerta di abitazioni a favore di una serie di categorie deboli, attraverso “la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente” (art. 11, d.l. n. 112 del 2008, conv. nella l. n. 133 del 2008 e d.p.c.m. 16 luglio 2009). Questa vicenda esula dalla nostra narrazione.

La seconda – quella di cui ci occupiamo – designa invece una strategia di deregolazione, che si è sovrapposta (in termini logici e cronologici) al programma di edilizia residenziale di cui al d.l. n. 112/08 cit..

1. Alcuni principi fondamentali in materia di governo del territorio

Prima di esaminare il secondo “piano casa”, è utile soffermarsi brevemente su alcuni principi che presiedono al “governo del territorio” e alla tutela del paesaggio. Principi che sono stati palesemente violati da questa disciplina.

Il governo del territorio – menzionato nell’art. 117, comma 3, Cost., tra le materie di legislazione concorrente – è materia ampia che comprende anche l’edilizia e l’urbanistica (Corte cost. n. 303 del 2003, § 11.1; sui limiti della materia, cfr. es. Corte cost., n. 383 del 2005 e n. 327 del 2009). I legislatori regionali, in conseguenza, nel dettare regole in tema (ivi comprese quindi l’edilizia e l’urbanistica), devono rispettare i principi fondamentali individuati con legge (o con altra norma avente valore di legge) dello Stato.

La legge dello Stato contenente i principi fondamentali ha la funzione – oltre che di garanzia derivante dalla procedura parlamentare – di individuare elementi di uniformità che si impongano alla normativa regionale (cfr. es. Corte cost., 196 del 2004, cit., §20). In questo ambito, la differenziazione è ammessa, entro i limiti rappresentati, appunto, dai principi fondamentali a tutela di valori unitari.

In assenza di una legge quadro, si pone però il problema di stabilire con sicurezza quali siano i principi fondamentali che si possono desumere dalla vigente legislazione statale. Al riguardo, si registrano numerose incertezze pratiche e teoriche. Non mancano però alcuni punti fermi. Se ne indicano due: il principio del piano e quello della centralità della pianificazione comunale.

Quello del piano è, in realtà, un meta-principio che permea di sé tutta la materia. In base ad esso, il governo del territorio si attua, di regola, attraverso piani. Le collettività locali (comunali, provinciali e regionali) devono cioè prefigurare le loro esigenze di tutela, di uso e di trasformazione del territorio attraverso atti giuridici vincolanti (con Giannini: “disegni ordinati di condotte future composte di più elementi combinati ...”) che considerino la totalità dell’ambito spaziale di competenza (Corte cost. n. 378 del 2000, n. 379 del 1994, 327 del 1990).

Ciò è stabilito con chiarezza lapidaria dall’art. 4, l. n. 1150 del 1942: “la disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali (…)”. E tutte le leggi regionali – comprese quelle di nuova generazione (approvate dopo la legge cost. n. 3 del 2001) – sino a oggi hanno confermato, nonostante numerose differenze, la centralità dei piani nel governo del territorio.

Si tratta di un principio non sempre debitamente individuato e valorizzato dalle varie giurisdizioni. Spesso politici, amministratori e accademici lo hanno considerato vetusto e superato dalla regola (pratica) della preminenza del progetto (il piano come insieme dei progetti), di cui è conseguenza la miserevole condizione di ampie porzioni d’Italia.

In ogni caso, quello del piano è principio fondamentale della materia e – se correttamente inteso e soprattutto se effettivamente praticato – ha implicazioni di primaria importanza. Innanzitutto il piano costituisce un essenziale strumento per la conoscenza (fisica, culturale, economica ecc.) del territorio e delle sue dinamiche complessive ed è quindi una garanzia di razionalità dell’azione amministrativa. Ma – cosa ancor più importante – esso, dopo la Costituzione, invera il principio democratico, in primo luogo, perché è imputato a organi rappresentano le collettività interessate (consiglio regionale, provinciale e comunale); in secondo luogo, perché le procedure di adozione e approvazione garantiscono trasparenza delle decisioni e partecipazione dei cittadini all’assunzione delle scelte; in terzo luogo, perché il piano è lo strumento che assicura una relazione fisiologica tra ciascuna collettività locale (complessivamente considerata) e il territorio sui essa è insediata.

Questo principio inoltre consente di governare il pluralismo amministrativo, evitando che si giunga alla frammentazione del territorio. Attraverso le procedure di adozione e l’efficacia differenziata (e reciproca) dei vari livelli di pianificazione (regionale, provinciale e comunale), le esigenze delle diverse collettività si armonizzano, dando vita a un contesto regolativo coerente.

In sintesi, questo principio preclude alle norme regionali di consentire l’autorizzazione di trasformazioni (rilevanti) che non siano il frutto di una preventiva, adeguata e specifica ponderazione degli effetti sul territorio e sulla collettività insediata, attraverso un procedimento ispirato a rigidi criteri di pubblicità e imputato a organi che siano espressione diretta della (o delle) collettività interessate.

Il secondo principio fondamentale rappresenta una conseguenza di quanto ora detto e riguarda la centralità del Comune nella gestione del territorio. Se in base al nuovo titolo V, parte II della Costituzione, Comuni, Province e Regioni, in quanto enti autonomi (ossia esponenziali di collettività politiche), devono essere titolari di funzioni amministrative relative all’assetto del territorio, in base al principio di sussidiarietà (art. 118, comma 1, Cost.), ai Comuni devono essere assicurate tutte le funzioni di pianificazione e di vigilanza che non necessitino di esercizio sovracomunale. In altri termini, la legislazione regionale deve individuare gli interessi che devono essere amministrati nei piani regionali e provinciali, in quanto essenziali per le rispettive comunità; tutti gli altri devono di regole essere attribuiti ai “Comuni, principali titolari dei poteri pianificatori in materia urbanistica nonché dei poteri gestionali” (Corte cost., n. 196/04).

Né va trascurato che il principio di sussidiarietà si affianca e si sostiene vicendevolmente con quello della garanzia dell’autonomia comunale. Sul principio di autonomia in connessione con l’urbanistica, si era già pronunciata la Corte costituzionale sotto la vigenza del precedente titolo V, parte II della Costituzione: "il potere dei comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica siano libere di compiere"; ciò in quanto l’art. 128 (oggi abrogato) garantisce “l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse regioni" (cfr. Corte cost. n. 83 del 1997 e n. 378 del 2000).

In questa materia, come noto, l’autonomia comunale (e provinciale) è stata ulteriormente rafforzata. Tanto è vero che, per opinione unanime, i compiti comunali di gestione del territorio sono oggi considerati come funzione fondamentale dei Comuni; funzione che, in quanto tale, è oggetto di legislazione esclusiva dello Stato e non può quindi essere oggetto di eccessiva compressione da parte della legislazione regionale (art. 117, 2 c., lett. p, Cost.).

In base a questo principio, quindi, è precluso alle leggi regionali di privare i piani urbanistici comunali di adeguati ed effettivi spazi di manovra, potendo, al più, prevedere la sottrazione di alcune competenze in considerazione di “concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio” (Corte cost. n. 378/00 cit.). Le leggi regionali sono tenute cioè a valutare “la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti” (Corte. Cost. n. 286 del 1997), e non possono in alcun caso rendere inoperanti i piani comunali che – essendo espressione di funzioni fondamentali – sono garantiti direttamente dalla legge statale, in funzione dell’autonomia comunale.

Infine, un cenno alla tutela del paesaggio. Innanzitutto si deve ricordare che il paesaggio – da intendere in base all’art. 9, Cost., “come la morfologia del territorio” – riguarda “l'ambiente nel suo aspetto visivo”: aspetto che ”per i contenuti ambientali e culturali che contiene (…) è di per sé un valore costituzionale” (Corte cost. n. 367 del 2007 e n. 272 del 2009), che, in quanto tale “va rispettato come valore primario, attraverso un indirizzo unitario che superi la pluralità degli interventi delle amministrazioni locali” (Corte cost. nn. 183 e 182 del 2006).

Vi è qui pacificamente competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. s), contemperata però da tecniche di coordinamento (es. intese, forme di copianificazione) e dal principio per cui è legittimo “(…) di volta in volta, l'intervento normativo (statale o regionale) di maggior protezione dell'interesse ambientale” (Corte cost., n. 62, n. 232 e n. 336 del 2005 e n. 182/06 cit.).

In materia, quindi, è escluso che le leggi (e conseguentemente gli atti di pianificazione) regionali possano prevedere livelli di protezione del paesaggio inferiori a quelli stabiliti da norme dello Stato.

2. Genesi del “piano casa”: l’intesa tra Governo e Conferenza unificata del 1° aprile 2009

E’ ora possibile passare al “piano casa” per verificarne la compatibilità con i principi sommariamente richiamati. Dato che “natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise …”, conviene soffermarsi anzitutto sulla sua genesi.

Del “piano casa” si è discusso nella Conferenza unificata del 25 marzo 2009 a proposito dell’ampliamento di abitazioni monofamiliari e bifamiliari. Il Governo aveva predisposto una bozza di decreto legge. Ma presidenti di Regione e sindaci – premesso che il tema dell’ampliamento delle abitazioni è molto importante e avvertito dall’opinione pubblica – hanno manifestato perplessità e preoccupazione per l’emanazione di un decreto legge in questa materia, che è di legislazione concorrente, e hanno chiesto un approfondimento congiunto dell’argomento. Si è così deciso di istituire un tavolo tecnico-politico.

Il 31 marzo (o il 1° aprile: la data non è chiara) si è giunti a un’intesa in sede di Conferenza unificata; intesa ai sensi dell’art. 8, l. n. 131 del 2003, per “favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Si è trattato quindi di un accordo politico.

In base all’intesa, le Regioni si sono impegnate ad approvare nel termine di 90 giorni leggi che: a) consentano interventi fino al 20% della volumetria di edifici residenziali uni-bi familiari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi per un massimo di 200 metri cubi, al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica; b) consentano, allo stesso fine, interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35%; c) semplifichino e accelerino l'attuazione di detti interventi.

Le leggi regionali possono però individuare ambiti in cui detti interventi sono esclusi o limitati; gli interventi inoltre, salva diversa decisione, possono avere validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi. In caso di inerzia o ritardo il Governo e il presidente della giunta regionale interessata “determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003”.

Il Governo, dal suo canto, si è impegnato a emanare, entro 10 giorni, un decreto legge “i cui contenuti saranno concordati con le Regioni e il sistema delle autonomie” per “semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato” e per “rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia”. Il decreto legge non è stato emanato, anche perché non si è trovato un accordo sul suo contenuto con le Regioni e con il sistema delle autonomie.

Non di meno ad oggi ben sedici Regioni hanno legiferato sul punto, in maniera ovviamente disomogenea.

3. Profili di incostituzionalità

Questa “cronachetta” dimostra innanzitutto l’incostituzionalità, dal punto di vista formale, di questa politica. Essa infatti non è stata preceduta da una legge dello Stato che prevedesse la dequotazione del principio di pianificazione; come visto, meta-principio della materia.

Con l’intesa del 31 marzo, il principio della pianificazione è stato (temporaneamente?) sostituito con il suo opposto, con quello cioè della generalizzata depianificazione: vengono consentiti aumenti di volumetria a prescindere dal riferimento al piano urbanistico, prendendo a parametro le sole cubature (legittimamente) esistenti in un dato momento. Tanto è vero che la formula ricorrente nelle leggi regionali attuative dell’intesa è che sono ammessi interventi “in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali, comunali, provinciali e regionali”, o simili.

La cosa è inaccettabile da diversi punti di vista. Per rimanere agli aspetti costituzionali, si deve osservare che il principio della depianificazione, in quanto nuovo principio della materia, avrebbe dovuto semmai essere introdotto da una norma statale di rango legislativo.

Però con furbizia (e incoscienza), si è ritenuto di poter aggirare l’ostacolo rappresentato dalla legge dello Stato, in sua vece stipulando un’intesa in sede di Conferenza unificata: l’intesa tra il Governo, i presidenti delle Regioni e alcuni (2) rappresentanti dei Comuni e delle Province ha sostituito una legge del Parlamento, eludendo nel contempo il controllo del Presidente della Repubblica. Insomma, un accordo politico tra il Governo e gli esecutivi regionali, con l’avallo di sparute rappresentanze di giunte comunali e provinciali, ha tenuto luogo di una legge.

Le possibili spiegazioni di questo modo di procedere sono due. Sciatteria, superficialità e insensibilità istituzionale. Oppure la contrapposizione concettuale tra legalità costituzionale (finta e chiusa) e “legittimità di una volontà realmente esistente” (dimostrata dall’ampio consenso al “piano casa” nel sistema delle autonomie e tra gli elettori) e fondata sull’emergenza economica; ma questo modo di ragionare (e di governare) richiama alla mente tetri scenari e ideologie degli anni ’30. Probabilmente entrambi i motivi hanno animato i diversi protagonisti della vicenda.

E’ vero che il Governo avrebbe voluto emanare un decreto legge (forse per accaparrarsi i meriti dell’operazione) e che questa idea ha incontrato la ferma opposizione della Conferenza unificata. Ma in base all’intesa del 31 marzo, il decreto avrebbe dovuto contenere non un principio fondamentale della materia (quello della depianificazione provvisoria), ma strumenti di semplificazione di procedimenti di competenza esclusiva dello Stato. Il ricorso al decreto legge, inoltre, sarebbe stato illegittimo per carenza evidente dei requisiti del “caso straordinario di necessità e d'urgenza” (sul che, cfr. Corte cost. 171 del 2007); e certamente non avrebbe surrogato questa carenza la retorica dell’emergenza economica in generale, e quella del settore edilizio, in particolare. Infine, in base all’intesa, al di fuori di ogni previsione costituzionale, il contenuto del decreto legge avrebbe dovuto essere concordato con le Regioni e il sistema delle autonomie.

Vale solo la pena di aggiungere che la mancanza di una norma statale di principio, sta portando a una vera Babele urbanistica.

Ma al di là delle differenze di carattere sostanziale tra le norme regionali (es. circa i limiti volumetrici), va segnalato che il “piano casa” nei fatti ha violato il secondo principio fondamentale sopra ricordato, ossia quello della centralità del Comune nel sistema del governo del territorio.

Infatti, l’effettività della funzione pianificatoria comunale è stata (nella migliore delle ipotesi) sospesa da questa manovra. L’intesa del 31 marzo costituisce dunque una palese violazione dell’autonomia comunale, ossia del rapporto (costituzionalmente garantito) tra la collettività e il suo territorio. Basta una rapida lettura delle leggi regionali (e delle deroghe ivi previste) per verificare questa affermazione. Né si deve trascurare che il ruolo dei Comuni risulta del tutto trasfigurato: è stato limitato (peraltro neanche in tutte le Regioni) essenzialmente all’individuazione, entro un termine perentorio, delle aree in cui gli incrementi di volumetria non sono ammissibili. Il Comune, dunque, da asse portante del sistema della pianificazione territoriale stato trasformato in un soggetto munito di un limitatissimo potere di interdizione; potere, peraltro, sottoposto a termine di decadenza.

In ogni caso, in mancanza dei principi fondamentali, il ruolo delle amministrazioni comunali (ossia il ruolo del piano comunale) in relazione all’attuazione del “piano casa” è stato rimesso alla scelta delle singole Regioni che, senza alcun limite, hanno potuto calibrarne (o eliminarne) i compiti. Come detto, ciò, nell’attuale contesto, è però inammissibile, costituendo una evidente compressione della sfera di autonomia che la Costituzione riconosce ai Comuni.

Tuttavia, detto per inciso, alla Conferenza unificata del 31 marzo era presente solo il sindaco di Roma (e il rappresentante dell’ANCI), mentre erano assenti gli altri tredici sindaci che ne fanno parte (cfr. il verbale della Conferenza unificata n. 7/2009).

Infine – e veniamo al terzo principio – questa politica si pone in pieno contrasto con le regole che presiedono alla tutela del paesaggio. Al riguardo, l’intesa del 1° aprile – oltre a stabilire l’inapplicabilità degli incrementi di volumetria agli edifici abusivi, nei centri storici e in aree di inedificabilità assoluta – prevede che le Regioni possono escludere o limitare tali interventi con riferimento a beni culturali e alle aree di pregio ambientale e paesaggistico. In sostanza, l’accordo ha superato la qualificazione del paesaggio in termini di “valore unitario” che necessita di un ”indirizzo unitario”, che a sua volta, secondo la Corte costituzionale, giustifica l’attribuzione allo Stato della competenza legislativa in materia di tutela del paesaggio. L’intesa ha rimesso la scelta alle singole Regioni.

E le leggi ragionali non hanno mancato di operare scelte ampiamente differenziate. In generale, esse non hanno chiarito i rapporti tra incrementi volumetrici e normativa sul paesaggio, al massimo, in alcuni casi, hanno specificato che gli incrementi di cubatura devono essere compatibili con le norme del d.lgs n. 42 del 2004; in molti casi nulla è stato detto; in altri ancora sono stati addirittura ammessi interventi “in deroga alle previsioni dei piani territoriali di coordinamento dei parchi regionali”.

Ma il richiamo alle norme del codice del paesaggio (ossia alle disposizioni relative ai singoli beni sottoposti a tutela), da un lato è pleonastica, perché è evidente che le leggi regionali non possono incidere sull’applicazione di norme statali. Dall’altro lascia irrisolto un problema molto importante: quello del ruolo che gli strumenti amministrativi a tutela del paesaggio (quelli di vecchia generazione e i pochi adottati a seguito del d.lgs 42/04) svolgono in questa vicenda. Non è infatti chiaro se le deroghe previste dalle leggi regionali riguardino anche le prescrizioni dei piani paesistici e paesaggistici (si pensi ad esempio, alle misure necessarie per il corretto inserimento, nel contesto paesaggistico, degli interventi di trasformazione del territorio, ovvero all’individuazione degli interventi di recupero e riqualificazione delle aree significativamente compromesse o degradate) o se esse devono essere considerate inderogabili.

E’ quindi evidente che, di fatto, le norme regionali – nel pretendere, nel migliore dei casi, il solo rispetto del codice – finiscono per interferire con il complesso processo di predisposizione e di attuazione dei piani paesaggistici. Con ciò concretando un’ulteriore violazione del dato costituzionale, ma anche un’operazione di grave arretratezza culturale.

4. Per concludere

Quanto detto dimostra innanzitutto che il sistema delle Conferenze (Stato-Regioni e Conferenza unificata) concretizza forme consociative ancora più opache e allarmanti di quelle che l’Italia ha conosciuto negli anni passati. Questa vicenda rappresenta un esempio concreto del mutamento in atto della forma di governo, nel senso della emarginazione del Parlamento a favore del sistema delle Conferenze; ciò produce una rilevante alterazione delle dinamiche democratiche stabilite dalla Costituzione.

Da più parti si sottolinea la necessità che il patrimonio edilizio italiano sia rinnovato e reso compatibile con il sistema ecologico; si sollecitano azioni pubbliche in tal senso. Ma è prioritario che tali politiche siano conformi alla Costituzione: il principio di legalità deve coprire sia la fase normativa sia quella amministrativa; deve cioè pervadere le norme di legge, gli atti di pianificazione, i provvedimenti abilitativi, le attività di vigilanza e di repressione. E' invece tristemente noto che nella gestione del territorio il principio di legalità stenta ad affermarsi, specie (ma non solo) nel Centro-Sud. E' quindi indispensabile il rilancio della cultura della legalità territoriale. Infatti, solo questa cultura potrà portare un vero e duraturo sviluppo economico.

E’ poi necessario che le politiche territoriali siano concepite e gestite con serietà e rigore, in modo da essere affidabili per i cittadini e per gli operatori, ma soprattutto in modo da essere al servizio della collettività e del suo benessere. Nel nostro caso tutto ciò non è avvenuto, per responsabilità che si possono equamente distribuire tra il Governo e il sistema delle Conferenze (e dei soggetti che di esse fanno parte, anche se assenti).

Ecco perché l’operazione “piano casa” è un gigante con i piedi di argilla. Non è affatto improbabile che un singolo (perché animato da spirito civico o, più prosaicamente, perché leso nei suoi diritti) o un’associazione avvii un giudizio avverso una dichiarazione di inizio attività relativa a un ampliamento di volumetria: innanzi al giudice potrà far valere l’inconsistenza dell’impianto giuridico sotteso al “piano casa”, anche attraverso il rinvio alla Corte costituzionale della legge regionale pertinente.

Il sistema istituzionale – con intensità e toni diversi – ha eccitato l’opinione pubblica (e alcuni settori economici) sul tema degli ampliamenti delle volumetrie, ingenerando aspettative di varia natura. Se l’iniziativa avrà successo (se si apriranno molti cantieri), l’eventuale (e a mio parere, non improbabile) crollo dell’edificio non potrà che produrre confusione, insicurezze e contenziosi.

Si dimostrerà in tal modo che il “piano casa” è, in realtà, un’impostura. Il tutto – come spesso accade – a spese del territorio.

Sul Piano di governo del territorio del Comune di Milano si diranno molte cose nelle prossime settimane: la fase delle «osservazioni» durerà infatti fino al 15 novembre e siamo tutti chiamati a esprimere dubbi, critiche e proposte di modifica al Pgt. Non sarà facile in due mesi orientarsi nelle quasi mille pagine del piano, ma una cosa è certa: lo strumento che vuol mandare in pensione i vecchi piani regolatori per portare in città nuovi principi di urbanistica dovrebbe essere conosciuto da tutti i milanesi che credono nella cittadinanza attiva come leva per migliorare i propri quartieri e la propria città.

Si cercherà di scavare nelle pieghe del piano anche per rispondere alla domanda «cui prodest»?. È giusto che sia così: in una democrazia matura esercitarsi a capire chi potrà trarre i maggiori vantaggi da uno strumento che fissa le regole di governo urbanistico della città— dove, come, quanto e per chi costruire abitazioni, uffici, spazi pubblici e servizi — è sempre fonte di trasparenza.

In questo esercizio di scavo bisogna prima di tutto procurarsi un buon badile, ovvero la pazienza e la voglia di acquisire conoscenze per interpretare il piano, a partire dal nuovo principio della «perequazione»: la possibilità per i proprietari di aree di trasferire diritti di sviluppo edificatorio tra diverse parti della città. In questo ci aiuteranno le molte organizzazioni indipendenti che promettono di battere i quartieri con assemblee e incontri.

Ma è utile anche scavare nei punti giusti del documento per evitare perdite di tempo.

Il cittadino che «osserva» il Pgt dal proprio quartiere potrebbe iniziare a scavare in due zone: 1) dove il piano chiede agli abitanti di un quartiere di collaborare ogni anno con il Comune alla definizione dei servizi di interesse pubblico che mancano e che andrebbero realizzati; 2) dove il piano indica le aree della città in cui si potrà costruire «di più», con indici maggiori, sostenendo il giusto principio che si può aumentare la densità abitativa solo in prossimità di grandi assi e snodi di trasporto pubblico. In entrambi i casi, per capire «cui prodest», è importante che il Comune espliciti definizioni emisure: quali dati, informazioni e indicatori di quartiere il Comune metterà a disposizione dei milanesi in modo che tutti possano avere una fotografia aggiornata e completa della quantità e della qualità dei servizi esistenti nel quartiere? Poiché i privati potranno realizzare «identificare e realizzare» i servizi di interesse pubblico in un quartiere, fin dove si spinge il piano nella definizione di «interesse pubblico»? In quali forme concrete verrà ascoltata la voce degli abitanti dei quartieri? Se gli abitanti di un quartiere da «densificare» sosterranno che, pur d'accordo con il principio generale, l'intervento immobiliare proposto procura più danni che benefici, avranno speranza di sedersi attorno a un tavolo di lavoro con istituzioni e operatori privati ed essere seriamente ascoltati? Io ho l'impressione che per il Pgt la sfida vera sia per il Comune: dimostrare di essere all'altezza dei suoi cittadini.

Con questi dirigenti non vinceremo mai. E siccome nel cerchio stretto del Pd le facce e le parole sono sempre le stesse, il monito morettiano torna ad evocare scenari sconfortanti. Colpisce la tempistica dell'ultima svolta epocale. Quando si avvicina il momento della verifica parlamentare del governo Berlusconi, l'ultimo fumogeno veltroniano rischia di affumicare il partito democratico e di lasciare a bocca asciutta l'elettorato.

Naturalmente non è in discussione il diritto di chi ha fondato e guidato il Pd di aprire una discussione pubblica, di denunciare quel che non va. Il fiorire di documenti o l'esplodere di polemiche "maleducate" tra vecchi dirigenti e giovani promesse è un elemento della fisiologia di partito. Anche se la conta delle firme, 75, è stato un brutto, vecchio spettacolo, il segretario non dovrebbe innervosirsi per le critiche di Veltroni ma rispondere rendendo più convincente la sua direzione politica.

Rimasto ai nastri di partenza, a lungo chiuso in un limbo di buone intenzioni e ardite metafore, ora Bersani, sollecitato dalle forti scosse del centrodestra, prende l'iniziativa con una proposta di alleanze costituzionali e di ricostruzione di un nuovo Ulivo. Promette per l'autunno una campagna porta a porta sui problemi del lavoro, assicura di voler parlare al paese. Vedremo se nella campagna d'autunno suonerà anche alla porta della manifestazione dei metalmeccanici della Fiom, dei referendum per l'acqua pubblica, dei precari della scuola. Per il momento di forte c'è solo una robusta campagna mediatica, con le città tappezzate di manifesti («Abbiamo perso la pazienza»), le feste, i salotti televisivi.

L'iniziativa dell'inedito terzetto Veltroni-Fioroni-Gentiloni rompe questo protagonismo bersaniano con un documento-movimento intitolato al bene della comunità piddina. Per capire di che si tratta basta leggere i sinceri propositi di uno dei tre firmatari, Beppe Fioroni, consegnati a un'intervista sul Corriere della Sera: «Intercettare i voti di moderati, cattolici, commercianti, coltivatori, piccole e medie imprese delusi dal berlusconismo». E, se non si fosse capito, «rappresentare grandi sindacati che hanno scommesso sull'innovazione e sul bene comune». A proposito di svolte strategiche, siamo alla riesumazione del vecchio elettorato democristiano, con la Cisl di Bonanni in prima fila. Seguono l'abbraccio a Marchionne e Confindustria, l'auspicio della fine della lotta di classe, declinazione aggiornata dello spirito del Lingotto. Una carta che Veltroni del resto ha già giocato provocando la resurrezione di Berlusconi e la desertificazione della sinistra parlamentare.

Era molto atteso, all'indomani della firma dei 75, l'intervento di Veltroni, ospite ieri di un convegno del partito. Dal raduno orvietano spicca la sua proposta contro la vergogna della compra-vendita dei voti parlamentari di Berlusconi. Per dare un segno forte di volontà unitaria, il leader democratico lancia l'idea di un'iniziativa con il segretario e tutti i dirigenti per denunciare l'indecente traffico e dare una prova di coesione: una epocale conferenza stampa.

PRIMA (ma necessaria) premessa. A me non piace il politichese. Non mi piace come linguaggio e cerco infatti di tenermene lontano; ma non mi piace neppure come argomento anche perché – ne sono certo – non piace neppure ai nostri lettori. Voglio rubare a Franco Marcoaldi le parole con le quali chiude il suo spettacolo "Sconcerto" che ha avuto all’Auditorium di Roma tre serate di grande successo: «Le cose sono quello che sono. Un’arancia è un’arancia. Una casa è una casa. La pioggia che cade è la pioggia che cade». Ecco. Ai nostri lettori piace questo linguaggio ed anche a me.

Seconda premessa. La comparsata di Berlusconi alla cena che ha concluso il vertice di Bruxelles tra i capi di governo dell’Unione europea è stata semplicemente scandalosa. Si parlava dei "rom", alias zingari. Sarkozy li sta cacciando dalla Francia ancorché – come lui stesso ha detto – metà di loro siano cittadini francesi. La Commissione europea è contraria ad una politica che colpisce un’etnia anziché singoli responsabili di eventuali reati. Il nostro premier gli ha fatto eco per ingraziarsi la Lega. La Francia, due secoli e mezzo fa, esportò in Europa e nel mondo lo slogan "fraternità" insieme a quelli di libertà ed eguaglianza. Sarkozy si è messo sotto i piedi la fraternità e Berlusconi ha fatto altrettanto e in più si sta mettendo sotto i piedi anche gli altri due principi che hanno costituito il fondamento della modernità liberal-democratica. Questo modo di comportarsi di chi rappresenta il nostro Paese mi fa vergognare d’essere italiano.

Terza premessa. Il governo italiano, il ministro dell’Economia, le principali agenzie economiche internazionali hanno pochi giorni fa diffuso informazioni secondo le quali il peggio della crisi economica era ormai alle spalle. La Confindustria ha fatto eco. I vari indici economici, a cominciare dal Pil dei vari paesi, sono stati corretti al rialzo. Ma tre giorni fa la Banca d’Italia ci ha informato che il debito pubblico ha raggiunto nuove vette mentre le entrate tributarie registrano una netta diminuzione rispetto all’anno precedente. La Confindustria dal canto suo ha comunicato che la produzione industriale è ai minimi storici, l’evasione fiscale è salita ai massimi e nei prossimi mesi saranno distrutti altri trentamila posti di lavoro nell’industria manifatturiera. Per conseguenza i principali indici economici sono stati rivisti al ribasso. Questi Soloni dicono a distanza di pochi giorni o di poche ore una cosa e il suo contrario. Trovo vergognosi questi comportamenti. Lo ripeto: un’arancia è un’arancia e la pioggia che cade è la pioggia che cade.

Fatte queste premesse, oggi è d’obbligo che mi occupi di quanto sta accadendo nel Partito democratico e nel vasto arco della pubblica opinione orientata a sinistra e comunque all’opposizione nei confronti dell’anomalia berlusconiana. Nel centrodestra è in corso una crisi devastante e tutt’altro che conclusa. Sono in corso manovre da calcio mercato di deputati e senatori comprati e venduti, di mini-ribaltoni consumati sotto gli occhi di tutti. Ci potrebbero persino essere estremi di reato per voto di scambio. Ma la sinistra non trae finora alcun beneficio dal marasma della maggioranza. Perché?

Questo è il mio tema di oggi. Domenica prossima, se non accadranno sconquassi peggiori, vorrei esaminare il tema dell’amore e della sua storia. Spero proprio di poterlo fare.

* * *

I sondaggi, per quel che valgono, danno nelle intenzioni di voto il Pdl leggermente sotto al 30 per cento, la Lega tra l’11 e il 12, il Pd tra il 25 e il 26, Di Pietro al 5, Vendola al 5, Casini tra il 5 e il 6, Fini al 7.

La platea di chi non ha ancora deciso al 30 per cento, quelli che comunque non voteranno, al 20. Perciò le intenzioni di voto sopra indicate riguardano la metà del corpo elettorale. I valori reali di quei numeri vanno dunque ridotti della metà, il che significa che il partito di Berlusconi rappresenta oggi il 15 per cento del corpo elettorale e il Partito democratico il 13. Un’arancia è un’arancia.

Finora il Pd non ha tratto alcun beneficio quantitativo dalla crisi del centrodestra, ma neanche Di Pietro e – a guardar bene – neanche la Lega. Il deflusso dal Pdl è andato in buona parte a Fini e in altra parte all’area delle astensioni e o a quella di chi non ha ancora deciso se votare e per chi.

Il Pd non ha "appeal" (stavo per scrivere "sex appeal") Bersani da qualche tempo è più incisivo, ma ha ancora un’aria da buon padre di famiglia, di buonsenso, ma non certo da trascinatore. Bersani non fa sognare. Non è il suo genere e credo che non gli piaccia.

Shakespeare dice nella "Tempesta" che la nostra vita è fatta della stessa stoffa di cui son fatti i sogni. Beh, Pierluigi Bersani non è fatto di quella stoffa. Berlusconi – incredibile a dirsi – invece sì. Solo che, come capita a tutti i ciarlatani, spesso la stoffa dei suoi sogni si strappa come il cerone che si mette in faccia e dagli strappi si vedono le vergogne.

Questa comunque è la situazione.

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Quello che con un po’ di enfasi possiamo chiamare il popolo di sinistra si divide in due diverse tipologie: chi vuole sognare e chi vorrebbe progetti concreti su temi concreti che interessano la vita di tutti.

I temi concreti, più o meno, coincidono con quelli sui quali Berlusconi il prossimo 28 settembre chiederà la fiducia alla Camera: la riforma fiscale, la giustizia, il federalismo, il Mezzogiorno, la sicurezza. I finiani li voteranno perché, allo stato dei fatti, sono soltanto titoli di cinque temi tutti da svolgere. Lo svolgimento e il consenso sullo svolgimento si vedranno dopo.

Quegli stessi temi interessano anche il popolo di sinistra e i partiti che in qualche modo vogliono rappresentarlo. Specialmente i riformisti del Pd. I quali dovrebbero nel frattempo produrre il loro proprio svolgimento di quei temi. Finora questo svolgimento non c’è stato oppure è stato parziale e generico.

Ma il popolo di sinistra e i partiti hanno anche altri temi non meno importanti: l’occupazione, le tasse sul lavoro e sulle imprese, la crescita dell’economia e dei consumi, la lotta all’evasione, la diminuzione delle diseguaglianze nella distribuzione del reddito e dei patrimoni. Ed anche il conflitto di interessi e la legge elettorale per sostituire il vergognoso "porcellum" escogitato tre anni fa da quel sinistro burlone di Calderoli.

Come si vede, di carne da mettere al fuoco ce ne sarebbe in abbondanza, ma finora i cuochi si sono occupati d’altro. Non si sa bene di che cosa.

E poi c’è quella parte di popolo che vuole sognare. Va detto per la precisione che spesso il desiderio di programmi concreti e di sogni alberga nella stessa persona. Per soddisfare quest’intreccio che anima l’intero corpo elettorale in tutti i paesi liberi e democratici ci vogliono leader carismatici. Carismatici sì, ma anche capaci di governare. Non dico governare nel senso ristretto dei ministeri, ma governare organizzazioni complesse, grandi enti territoriali, processi di forze umane in movimento.

Non sempre le persone che hanno carisma hanno familiarità con strutture complesse da governare e, viceversa, non sempre anzi quasi mai persone capaci di governare possiedono carisma. Per di più il cosiddetto popolo della sinistra considera i volti dei leader di partito come nomenklature spremute e non più utilizzabili. Non tutti ragionano in questo modo, ma molti sì. Il corto circuito di questo modo di sentire è un’ipotesi e un pericolo che va segnalato e analizzato con grande attenzione.

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Chi può provocare il corto circuito è Nichi Vendola. In misura molto minore Grillo. In misura minima, il sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Sfasciacarrozze per carattere e/o per convenienza. C’è chi ama gli sfasciacarrozze, ma per fortuna sono pochi. Il popolo di un paese, anche un po’ sballato, è più serio e più intelligente di quanto si pensi. Se è furbo e un po’ malandrino come molti sono, ha sempre una goccia di saggezza nei momenti di svolta e questo è uno di quelli.

Ma Vendola è un’altra cosa e il discorso su di lui va affrontato diversamente. Ha carisma, non c’è dubbio. Il suo strumento è la parola, l’affabulazione, il suo racconto della situazione. Vendola racconta benissimo la situazione. Chi cerca il sogno, nelle sue parole lo trova. Sa governare? Non c’è prova, né pro né contro. Solo questo: la maggioranza dei pugliesi, anche molti che non amano la sinistra lo hanno votato. Come amministratore non lo approvano un granché e la situazione della sanità in Puglia non gioca certo a suo favore. Ce lo vedo poco un Vendola a Palazzo Chigi alle prese con i capi di governo stranieri, con le banche, con gli imprenditori, con Marchionne. Comunque non è questo il punto.

Il punto è che Vendola vuole fare a pezzi il Pd e tutti i partiti e con i frammenti sparsi sul terreno costruire intorno a lui la sinistra italiana. La sinistra, non il riformismo. Il suo obiettivo non è di battere Berlusconi. Avere Vendola come avversario per Berlusconi sarebbe una carta vincente. Lui lo sa ma non è questo che lo interessa. Vuole costruire la sinistra. Vuole fare le primarie, ma dove e contro chi? Per fare le primarie di coalizione dovrebbe prima costruire un’alleanza con il Pd, ma non ci pensa neppure. Le primarie le farà con se stesso o comunque alle sue condizioni.

Esercita notevole attrazione sul popolo di sinistra, stufo delle nomenklature e qui sta il corto circuito. Vendola può costruire una nuova sinistra intorno a sé che starà però per vent’anni all’opposizione sfrangiandosi un anno dopo l’altro.

Oppure Vendola dovrebbe fare un programma e una squadra capace di governare. Ma non pare sia questa la sua strada, ragione per cui il corto circuito è possibile e sarebbe una iattura. Lo scrivo con molta simpatia per il governatore della Puglia che in Puglia ha vinto, ricordiamocelo, perché la Poli Bortone ottenne l’8 per cento dei voti e non li portò a Fitto ma se li tenne ben stretti.

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Ora sulla scena del Partito democratico, già notevolmente affollata, è ritornato anche Veltroni con un suo documento-proposta che è stato firmato da 75 deputati, circa un quarto dei parlamentari del Pd.

Non è un documento di rottura anche se giornali e televisioni (con l’eccezione di Mentana e nostra) si sono precipitati a dipingerlo come tale. Per il complesso del circo mediatico infatti l’equilibrio è fatto non tanto di verità ma di equidistanza e quindi niente di meglio che affiancare allo sfaldamento del centrodestra l’analogo sfaldamento del centrosinistra. Questo sfaldamento minaccia di esserci e ne ho indicato prima alcune ragioni e alcune rilevanti personalità che puntano in quella direzione, ma non mi pare che il rientro di Veltroni ne sia la causa.

L’ex segretario e in qualche modo fondatore al Lingotto del Pd è partito dalla constatazione dello scarso "appeal" del suo partito e dalla necessità di riportare in linea i tanti che se ne sono allontanati. Le intenzioni sono buone se contenute in questi limiti. Purtroppo per il Pd, Veltroni non è un uomo nuovo e soffre quindi del logoramento di tutta la classe politica italiana. Sarà pure un errore discriminare i politici con questo semplicissimo criterio del nuovismo, un errore di incultura e di semplicismo, ma è un dato di fatto come attesta l’area dell’indifferenza e dell’assenteismo che i sondaggi hanno quantificato.

Proprio perché se ne rende conto Veltroni parla di un "papa straniero" come fu a suo tempo Romano Prodi, che guidi il riformismo di centrosinistra mettendo insieme il carisma del leader e le capacità di governo che la politica richiede.

Sarà difficile trovarlo un "federatore" che corrisponda all’identikit, ma questa è la scommessa per vincere questo durissimo scontro in difesa della democrazia, della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità, offese e ferite.

Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un'intera parte della storia d'Europa diventa comprensibile. Ed è una questione vitale per il futuro dell'Europa: essa non può essere costruita sull'esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all'inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà. Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all'altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".

Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un'integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell'esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.

La prima riguarda l'esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l'igiene, la previdenza sociale, le politiche per l'occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell'Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.

La costruzione dell'Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l'emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell'emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d'altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.

Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l'Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l'elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.

Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l'unificazione dell'Europa ha reso la razzializzazione del "problema tsigano" più visibile, perché mostra l'evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:

1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazoni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.

2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l'un l'altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l'odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l'archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).

3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell'est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell'est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un'importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l'ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell'altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l'Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.

Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all'origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato. Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell'ossessione della sicurezza. Dall'altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza. Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell'emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell' "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L'altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l'esclusione all'interno di un'Europa multi-nazionale.

La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell'Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un'Unione migliore.

* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Etienne Balibar, dell'introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l'Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo

ROGNO (Bergamo) — Un Comune può legittimamente dire no al progetto di una moschea, o anche solo ad un luogo di preghiera per i musulmani. Ma «un diniego legittimo deve basarsi sull’inidoneità del sito proposto, secondo le valutazioni urbanistiche».

Con questa motivazione, che esclude valutazioni di carattere politico, il Tar di Brescia ha accolto il ricorso presentato dall’Associazione centro culturale Costa Volpino (che rappresenta la comunità islamica dell’Alto Sebino) contro il Comune di Rogno che nel 2007 aveva bocciato la richiesta di cambio di destinazione d’uso nel Piano di governo del territorio (ex Prg) a un’area individuata e acquistata per realizzarvi un centro islamico.

L’Amministrazione comunale si è opposta sostenendo che la zona è sottoposta a salvaguardi ambientale e non è adatta a ospitare insediamenti come quelli ipotizzati dall’Associazione. Il Tar di Brescia ha dato ragione alla tesi della comunità islamica. Con una serie di considerazioni che, in tempi di vivaci discussioni politiche sull’opportunità di concedere la costruzione di moschee (come a Milano, dopo la recente presa di posizione del cardinale Dionigi Tettamanzi), sono destinate a far discutere. Nel merito, i giudici rimarcano che «l’edificio della ricorrente non è intrinsecamente legato ad un contesto di elevato valore naturalistico. Piuttosto si trova in un’appendice in gran parte circondata da aree produttive. Il collegamento con l’attività agricola produttiva è venuto meno da tempo…Anche il peso urbanistico causato dal numero dei frequentatori potrebbe essere diluito grazie alla vicinanza delle aree produttive e in particolare dei piani attuativi dotati di parcheggio a uso pubblico».

Ma il ricorso faceva leva anche sulla Costituzione e su una interpretazione che «non consentirebbe ai Comuni di subordinare la realizzazione dei luoghi di culto per le confessioni religiose diverse dalla cattolica a una convenzione intesa come atto di riconoscimento da parte dell’autorità amministrativa locale». I giudici amministrativi sposano questa tesi, seppur con alcune puntualizzazioni. Per il Tar «l’ambito di competenza riservato ai Comuni è quello propriamente urbanistico-edilizio e consiste in un duplice potere: accertare che la confessione religiosa abbia sul territorio una presenza diffusa, organizzata e stabile; regolare attraverso una convenzione la durata minima della destinazione d’uso dell’edificio a finalità religiose».

Se ricorrono queste condizioni, deve essere concesso il via libera. I giudici sottolineano che «una volta accertata l’esigenza di un luogo di culto la localizzazione deve necessariamente essere conforme alla proposta presentata, qualora i promotori del progetto abbiano la disponibilità degli immobili». Fuori dal linguaggio amministrativo, la sentenza riconosce alla comunità islamica dell’Alto Sebino il diritto di realizzare il centro di preghiera. Ora non resta che stipulare una convenzione tra Associazione e Comune. Sempreché, come pare si profili, la Giunta di Rogno non intenda rimanere attestata sulla linea del no a oltranza.

In attesa che Bossi riceva l´annunciata laurea honoris causa da un qualche Ateneo presuntivamente celtico, la Lega allunga le mani sulle scuole pubbliche. È di domenica la notizia della scuola di Adro «leghizzata» con gran dispiego di «sole delle Alpi» dai banchi al tetto; intanto a Bosina di Varese la moglie di Bossi dirige la scuola «dei Popoli Padani», privata ma con una dotazione di 800.000 euro decisa dal governo con la cosiddetta «legge mancia» (Il Giornale.it, 13 settembre). È dunque il momento giusto per interrogarsi sui meriti culturali di Bossi, che fanno tutt´uno coi progetti scolastici del suo partito. Secondo i suoi detrattori, il futuro dottore sarebbe capace solo di gestacci, insulti alla bandiera ed altre volgarità: grandi virtù comunicative, meglio di una tesi di laurea. Ma gli orizzonti culturali di Bossi sono assai più ampi. In un discorso del 27 gennaio 2004, dal titolo Dio salvi la Padania (visibile sul sito della Lega), egli traccia addirittura un quadro della «rottura geopolitica del mondo» dopo l'11 settembre, colpa di «Roma ladrona» oltre che dell´attacco alle Torri gemelle. Sull´Italia, la dottrina di Bossi è questa: «quando uno Stato è eterogeneo dal punto di vista etnonazionale, i problemi girano attorno a due lealtà, la lealtà alla Nazione e quella verso lo Stato. Per i popoli che non sono dominanti, come noi padani, le due lealtà sono distinte e possono entrare in competizione tra loro. In questi casi la minoranza chiede l´autodeterminazione nazionale, un diritto sancito dall´Onu». Eterogeneità etnonazionale, «comuni matrici etnoculturali» dei popoli padani: ecco un linguaggio «dotto» dove non ce lo aspetteremmo. Da dove viene?

Il miglior parallelo sono le elaborazioni «teoriche» del «Pensiero Etnonazionalista» e dell´«Idea Völkisch nelle comunità Alpino-Padane» che si possono leggere in un libro, Fondamenti dell'Etnonazionalismo Völkisch (2006), firmato da Federico Prati, Silvano Lorenzoni e Flavio Grisolia. Secondo loro, «le comunità padane» sono la miglior risposta a «un´epoca etnicamente e culturalmente decadente», all´«immigrazione allogena, al materialismo comunista, al mondialismo massonico». Fin troppo chiare le matrici razziste e fasciste, anzi naziste, della terminologia usata (völkisch , «sangue, suolo e conoscenza»). Silvano Lorenzoni, festeggiato nel giorno del suo compleanno come « un vero identitario/razzialista bianco veneto/europeo», è stato presidente dell´Associazione Culturale Identità e Tradizione, che si ispira a Julius Evola, e capogruppo della Liga Veneta nel Consiglio Comunale di Sandrigo (Vicenza). La casa editrice Effepi (Genova), che ha pubblicato questo e altri volumi su tale «etnonazionalismo», si distingue anche per i suoi libri di «storia non convenzionale» del Novecento, per esempio quello di Udo Walendy che considera l´Olocausto un prodotto della propaganda antitedesca ottenuto con abili fotomontaggi.

Ma la neoideologia padana non si affermerebbe senza mettere le mani in pasta nell´educazione delle nuove generazioni: nella scuola. Guardiamo quel che succede in Spagna, nazione anche in questo sorella, dove l'insorgere delle autonomie regionali si lega strettamente alla fine del franchismo e alla fortuna delle lingue diverse dallo spagnolo (specialmente il catalano e il basco), fondata sulla loro lunga e nobile tradizione culturale, ma anche su una sacrosanta reazione alla repressione franchista. Ma l´ondata degli autonomismi regionali ha generato e diffuso nelle scuole una manualistica rivendicativa di altrettanti «spiriti nazionali» (basco, catalano, galiziano, andaluso...), puntualmente riflessi nel linguaggio degli storici «allineati», come ha mostrato Pedro Heras in un bel libro recente (La España raptada: la formación del espíritu nacionalista , Barcelona, Altera, 2009). Analizzando manuali scolastici e pratiche dell´insegnamento, Heras ha dimostrato che tali «processi di ri-nazionalizzazione» hanno adottato in pieno la stessa retorica del più vieto nazionalismo franchista, utilizzando per esaltare le nazionalità regionali le stesse identiche formule, gli stessi slogan che furono martellati per decenni dalla propaganda di regime, applicandoli al popolo spagnolo nel suo insieme, e usandoli allora anche per reprimere le lingue «proibite». Quasi che, se applicata mettiamo al catalano, quella stolta retorica fosse «sdoganata» d´incanto.

Per quanto rozzi e incolti, i tentativi di Bossi di creare dal nulla la neo-etnia dei padani hanno fatto lo stesso: pur senza rifarsi esplicitamente alla tradizione nazi-fascista, da essa hanno ripescato la terminologia «etnonazionale» con tutte le sue implicazioni, usandola simultaneamente per de-nazionalizzare l´Italia e «nazionalizzare» una Padania d´invenzione. Perciò i più agguerriti proclami in lode della "razza padana" (come quelli citati sopra) si trovano sul sito www.stormfront.org, alfiere del World Wide White Pride, fondato nel 1995 da Don Black, già leader del Ku Klux Klan, che usa come logo la cosiddetta «croce celtica», surrogato della svastica. La maggioranza dei leghisti, persino di quelli che usano quelle formule e quegli slogan, è presumibilmente inconsapevole di queste derivazioni e tangenze, anzi le negherebbe accanitamente. Non per questo esse sono meno preoccupanti, in una scena politica come quella italiana, in cui secessione e federalismo sono fratelli siamesi, e gli argomenti per l´una e per l´altro s´intrecciano e si confondono in una rincorsa senza fine; in cui, con la passività o la complicità delle sinistre, il maggior argomento in favore del federalismo è la minaccia di secessione, e chi detta le regole è solo la Lega. Vedremo se la spiritosa invenzione dell´etnonazionalismo padano risulterà merito sufficiente per una laurea honoris causa: in ogni modo, sotto quella pergamena non basta la firma di un qualche ateneo galloceltico, ci vuole anche (per legge) quella di un ministro nel suo ufficio di «Roma ladrona».

In un’intervista concessa al Figaro, Silvio Berlusconi ha preso ufficialmente le difese di Sarkozy, sull’espulsione dei Rom che divide il governo francese dall’Unione, e ha detto una cosa significativa, che probabilmente ha ripetuto ieri al vertice europeo di Bruxelles e che vale la pena esaminare. Credendo di comportarsi da uomo saggio, esperto in prudenza e tatto, ha criticato le parole pronunciate dal commissario alla Giustizia contro Parigi spiegando che «la signora Reding avrebbe fatto meglio a trattare la questione in privato con i dirigenti francesi, prima di esprimersi pubblicamente come ha fatto». Ha lasciato poi intendere che l’Italia conosce problemi simili a quelli francesi e che anch’egli, come Sarkozy, non tollererà ingerenze esterne nella politica italiana.

Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si mostra infastidito quando le istituzioni europee rendono pubblici i loro pensieri, le loro inquietudini, le loro regole.

Il fastidio si è più volte tramutato in collera, durante la crisi economica iniziata nel 2007, e l’invito a privatizzare la politica europea, che oggi torna a formulare chiedendo che le dispute tra Stati e Unione avvengano nelle tacite camere delle cancellerie, indica una visione precisa dell’Europa, della sua influenza sugli Stati che la compongono, del diritto sovrannazionale da essa esercitato. Quella che viene negata, nella sostanza, è la preminenza di tale diritto - con le sue direttive, con la Carta dei diritti fondamentali incorporata nel Trattato di Lisbona - sulle condotte e le leggi degli Stati nazione. È il nòmos europeo, il diritto europeo, che tanto disagio suscita nei singoli governi, e che pur rimanendo legale viene corroso, delegittimato, creando conflitti gravi tra legalità formale e legittimità sostanziale.

Tutto questo viene corroso in nome di sovranità nazionali che certo non scompaiono, ma che in alcuni ambiti appartengono al superiore potere comunitario. Il nòmos europeo non è formalmente confutato (non potrebbe esserlo) ma in cambio si vorrebbe vederlo camuffato, occultato, come Tartuffe che nella commedia di Molière implora, per nascondere le proprie libidini: «Coprite quel seno, ché io non devo vederlo. Simili oggetti feriscono le anime, e fanno sorgere pensieri colpevoli». Il silenzio omertoso, le trattative segrete fra Bruxelles e gli Stati, il rifiuto di uno spazio dove pubblicamente siano discussi drammi come quello dei Rom, popolo ormai comunitario a tutti gli effetti: come nella Francia di Molière e Luigi XIV, esiste oggi in Europa una «cabala di devoti» nazionalisti secondo cui il diritto europeo è valido ma va dissimulato, come il bel seno della servetta Dorine. Quel che i devoti vogliono a tutti i costi tenere in piedi è la finzione di Stati assolutamente sovrani, liberi di decidere come meglio loro piace senza interferenze di Bruxelles. Sono gli stessi devoti che vituperano, quando fa loro comodo, il «deficit democratico» d’Europa e delle sue burocrazie taciturne e scostanti.

L’ipocrita messinscena è una specialità francese, fin dal dopoguerra, e Sarkozy la perpetua. È la finzione di uno Stato che si sente talmente superiore, dal punto di vista etico, da non sopportare alcun tipo d’ingerenza. «In quanto patria dei diritti dell’uomo non riceviamo lezioni da nessuno» ammoniscono in questi giorni, sussiegosi, i ministri di Sarkozy; in particolare Pierre Lellouche, segretario di Stato agli Affari europei, secondo cui la Francia «è un grande Paese sovrano che non è consentito trattare come un ragazzino». Berlusconi e la Lega sono ben felici di nascondersi, in cerca di tutele, dietro tanta regale sicumera.

Ma c’è qualcosa di più nella vicenda dei Rom, che il fronte franco-italiano rivela. Di quest’Europa troppo schietta e comunicativa nel parlare e ammonire, né i governanti francesi né quelli italiani sembrano ricordare la ragion d’essere, sempre che la conoscano. Quel che evidentemente hanno dimenticato, è che nel dopoguerra la Comunità nacque proprio per questo: per creare un nuovo diritto sovrannazionale, grazie al quale gli Stati non possono più compiere misfatti nel chiuso delle piccole patrie sovrane. Per vietare discriminazioni di popoli giudicati estranei alle piccole patrie, per fede o etnia o scelta di vita: per sostituire parte delle vecchie norme nazionali con norme più vaste, plurali, di stile imperiale.

Non stupisce che Viviane Reding, commissario democristiano, abbia denunciato martedì il pericolo di un ritorno al passato, alle persecuzioni di ebrei e zingari durante l’ultima guerra. Sono parole forti di cui si è scusata e che molti hanno giudicato eccessive, ma che restano un memento ineludibile: memento di come l’Unione si fece dopo il ’45, e perché. L’Europa è la promessa, fatta da ciascuno a se stesso, che alcune cose non si faranno più, grazie alla messa in comune delle sovranità nazionali sino a ieri assolute. Non ha senso altrimenti istituire giorni che commemorano i genocidi. La frase che ingiunge «Mai più!» è pura menzogna se non vale qui, ora, come impegno continuamente rinnovabile e per tutte le etnie o religioni.

Da quando l’Unione si è estesa a Est, dove vive il maggior numero di Rom, il diritto europeo tutela anche queste genti, nomadi o sedentarie che siano. La direttiva europea 2004-38, concernente la libera circolazione nella Comunità, stipula che nessun cittadino dell’Unione può esser espulso dal territorio in cui si trova, a meno che «non sussistano ragioni di ordine pubblico, di sicurezza e di salute pubblica»: ragioni valutabili «caso per caso», mai applicabili a un’etnia. Se l’Unione aprirà contro Parigi una procedura d’infrazione, è perché riterrà violata questa legge. Una circolare governativa francese del 5 agosto parla di «espulsione dei Rom», e rappresenta già un’infrazione. In gran fretta, nel frattempo, è stata riscritta.

Ieri a Bruxelles l’Europa si è divisa sui Rom: alcuni parlano di «scontri violenti» fra Barroso e Sarkozy. Anche se la Germania non è innocente (numerose sono le espulsioni di Rom verso il Kosovo), il cancelliere Merkel difende la Commissione, e il suo diritto a imporre superiori leggi e valori. Lo stesso fa il governo belga. Gli innocenti sono rari, ma l’unico a sostenere esplicitamente l’Eliseo, sul Figaro di ieri, è il governo di Roma. È anche l’unico a far propria l’immagine che Sarkozy si fa della Commissione: quando invita la lussemburghese Reding ad accogliere i Rom nel suo Paese, l’Eliseo tratta la Commissione come assemblea composta di rappresentanti nazionali, non di rappresentanti l’interesse comune europeo.

Può darsi che la linea del silenzio omertoso finisca col passare. Il presidente della Commissione Barroso ha una fierezza istituzionale discontinua, e ci sono governi (Spagna, Repubblica Ceca) gelosi della propria sovranità. Resta che il patto del silenzio è stato provvidenzialmente rotto, che su questioni essenziali si dibatte in pubblico: che esiste, sui Rom come a suo tempo sull’Austria di Haider, un’agorà europea. L’esecutivo di Barroso avrebbe obbedito alla politica privatizzata, se il Parlamento europeo non avesse condannato le pratiche d’espulsione con voce alta, il 9 settembre.

Diceva uno dei grandi federalisti, Mario Albertini, che la vera Unione sarebbe nata il giorno in cui il federalismo sarebbe «sceso al livello della lotta politica di ogni giorno (... affinché) l’uomo della strada sappia che, come c’è il socialista, il democristiano e il liberale, così c’è anche il federalista europeo». È quello che sta succedendo dall’inizio di quest’estate, grazie ai Rom e alla lotta politica che essi hanno suscitato attorno alla ragion d’essere dell’Europa.

«È curioso notare come Morgan Stanley, banca storicamente vicina a Marchionne, non consideri le proiezioni finanziarie sottostanti a Fabbrica Italia, il programma di 20 miliardi di investimenti in 5 anni presentato dalla Fiat al governo per raddoppiare la produzione di auto nel paese e ottenere via libera alla chiusura di Termini Imerese e alle ristrutturazioni prossime venture». Così Massimo Mucchetti sul Corsera del 13 settembre, analizzando la separazione del comparto auto e relative componenti da quello dei veicoli industriali e delle macchine per il movimento terra. Si tratta di una operazione finalizzata a separare la «polpa», cioè le produzioni in attivo con una redditualità ancora sicura, che in questo modo resteranno saldamente nelle mani della famiglia Agnelli, dalle produzioni a rischio, cioè l'auto, che non promettono niente di buono - nonostante l'ottima performance del settore «lusso», Ferrari e Maserati - che forse riusciranno a salvarsi attraverso la fusione con Chrysler, se l'apparente ripresa di quest'ultima si rivelerà effettiva. Ma che potrebbero anche finire tra le fauci di qualche gruppo più forte, se le operazioni di ingegneria finanziaria per metterle al sicuro da una scalata ostile andranno in porto; e soprattutto se il mercato euroamericano dei veicoli di gamma bassa, in cui opera la Fiat, offrirà un respiro. Il che non pare probabile.

Nello stesso articolo il Corriere ci informa che «secondo la società di consulenza strategica americana A. T. Kerny, la domanda di automobili crescerà soprattutto in Asia, mentre in Europa e in Nord America - i paesi in cui Fiat-Chrysler dovrebbe piazzare la maggior parte dei 6 milioni di auto che Marchionne ritiene indispensabili per la sopravvivenza del gruppo - rimarrà ferma in cifra assoluta». Cosa talmente nota e ovvia che forse per saperlo non era indispensabile il ricorso a una società di «consulenza strategica».

In un contesto del genere il fatto che al momento di dividersi le spoglie del gruppo tra polpa e cartilagini, il piano Fabbrica Italia - 20 miliardi di euro e un milione e mezzo di vetture da produrre negli stabilimenti italiani, contro le 650mila attuali - non venga nemmeno menzionato non è «curioso», come sostiene l'articolo, ma altrettanto ovvio.

Fabbrica Italia - come Mucchetti si limita a insinuare: «La verità è che una cosa sono i piani, un'altra i discorsi e una terza sono le decisioni reali quando si fa cassa integrazione, e il debito finanziario... aumenta da 28 a 30 miliardi» - non è che uno specchietto per le allodole: per governo e sindacati collaborazionisti, più la foresta di intellettuali e politici che ha dato loro credito. Serve a giustificare non solo la chiusura di Termini Imerese, scontata ormai da almeno tre anni, nonostante che per non vederla i sindacati - tutti - abbiano continuato a nascondere la testa sotto la sabbia; ma serve anche, e soprattutto, a giustificare il ben più sostanziale attacco contro le condizioni di vita e di lavoro lanciato con l'accordo di Pomigliano, ma ormai in dirittura d'arrivo per la sua estensione a tutti gli stabilimenti del gruppo - e poi a tutte le aziende associate a Federmeccanica; e poi a tutto il resto dei lavoratori italiani - in nome della «competitività».

In cambio di che cosa? Di niente, se al momento di spartirsi le spoglie, e di mettere al sicuro il malloppo degli Agnelli, il gigantesco indebitamento a cui il settore auto del gruppo dovrebbe andare incontro per finanziare quel piano non viene nemmeno preso in considerazione e, anzi, i conti del primo semestre dell'anno indicano addirittura una netta riduzione degli investimenti. D'altronde, nemmeno Marchionne ha mai data per scontata la realizzazione del suo piano industriale; la ha sempre subordinata a una ripresa del mercato che nessuna delle valutazioni correnti consente di prevedere.

Quali siano i piani effettivi di Marchionne non solo per lo stabilimento di Pomigliano, ma anche per Mirafiori, Sevel e persino Melfi, forse non lo sa nemmeno lui: aspetta le occasioni: ieri erano la Chrysler (andata a «buon fine», per lo meno per ora) e la Opel (mancata); oggi sono la Serbia (peraltro non così rapida come prospettato); domani chissà? Potrebbe anche essere l'assorbimento da parte di un gruppo più grande: magari con uno spezzatino tra Fiat, Lancia e Alfaromeo. O financo tra i vari stabilimenti di produzione. Il cui valore - in borsa - dipenderà soprattutto da quanto operai e sindacati avranno piegato la testa di fronte ai suoi ricatti.

Che fare allora? Non solo la politica industriale, e nemmeno solo la politica tout court, ma la vita di decine di migliaia di lavoratori - della Fiat e dell'indotto - e l'economia dell'intero paese non possono continuare a restare alla mercé delle occasioni in cui si imbatterà Marchionne. La crisi ambientale del pianeta Terra mette all'ordine del giorno l'urgenza di coinvolgere le risorse e le forze produttive di ogni territorio in un grandioso progetto di riconversione. Gli stabilimenti della Fiat e dell'indotto hanno tutte le carte in regola per venire gradualmente impegnate in un percorso del genere.

Per la prima volta la questione ambientale si confronta non solo con le convenienze dell'impresa (un tema su cui si sono esercitati da alcuni decenni, e per lo più a vuoto, nonostante il profluvio dei testi prodotti, gli aedi del pensiero unico e delle virtù del mercato), ma con il problema dell'occupazione e della condizione di lavoro in fabbrica. Difendere l'una e l'altra non può essere fatto senza porre all'ordine del giorno, a livello nazionale e internazionale, ma soprattutto nei singoli territori, a partire dalle situazioni di crisi, il tema di una conversione produttiva: dalle produzioni ambientalmente nocive e senza prospettive di mercato a quelle con un sicuro avvenire in un pianeta in cui è sempre più urgente fare i conti con la sua sopravvivenza. Che è anche l'unica strada per evitare un irreversibile declino del paese.

Il mago dei numeri Draghi: "Scegliamo chi ha davvero più chance di vincere poi le elezioni vere". L’autocandidatura dell´avvocato ha dato la scossa al Pd nella scelta dell´anti-Moratti. Il costituzionalista critica l´appoggio del partito a uno degli sfidanti: "Così si snatura tutto"

MILANO - «Il vero problema è guardarsi negli occhi, e capire chi di noi tre è in grado di dare un bel calcio nel sedere alla giunta Moratti». Così parla Stefano Boeri, architetto di fama internazionale, e da un paio di settimane candidato sindaco alle primarie del centrosinistra, fissate il 14 novembre. Problema non da poco, per come si è messa la partita a Milano, in vista del voto comunale fissato in primavera. Boeri, che stasera verrà incoronato ufficialmente dalla direzione provinciale del Pd - anche se lui, come gli altri due sfidanti, non ha tessere di partito in tasca - è stato per mesi tra i grossi nomi corteggiati dal Pd, in cerca di un anti-Moratti pescato dalla società civile in nome di quella strategia del «civismo» evocata da Pierluigi Bersani e subito abbracciata dal gruppo dirigente milanese. Ma quando l´architetto ha detto sì, superando corposi dubbi e sbarazzandosi di un possibile conflitto d´interessi (si è dimesso dalla consulta cui si deve l´ideazione del masterplan di Expo 2015), qualcuno era arrivato prima di lui. Un altro professionista della Milano che conta: l´avvocato Giuliano Pisapia, già presidente della commissione Giustizia della Camera - dov´era stato eletto nel ‘96 come indipendente di Rifondazione - che a metà luglio si è candidato a sindaco con l´appoggio di Sinistra e libertà, di pezzi di società civile difficilmente collocabili entro i confini della sinistra radicale e, successivamente, anche della Federazione della sinistra. Lui è partito prima, e nei sondaggi è in testa: quello di Mannheimer, primi di settembre, gli dà quasi venti punti di vantaggio su Boeri, e anche una consultazione online di Repubblica Milano, che ha raccolto sedicimila votanti, lo ha collocato al primo posto. «Mi sono mosso - spiega Pisapia - perché ho capito che, se non l´avessi fatto per tempo, adesso ci troveremmo in una situazione disastrosa». Cioè ancora senza lo straccio di un candidato.

Già. Un bel guaio, per il Pd, partito rimasto fino ad allora immobile e anche tentato di evitare la strada delle primarie, che la candidatura di Pisapia ha reso invece obbligata. Risultato: il Pd ha subito preso le distanze dall´avvocato, temendo che all´ombra della Madonnina si potesse ripetere quel che Nichi Vendola - e per due volte - è riuscito a fare nella sua Puglia. Così ha premuto sull´acceleratore, intensificando il pressing su Boeri, che verrà infatti incoronato ufficialmente dalla direzione provinciale in programma stasera. Con qualche mal di pancia, perché quando l´architetto ha detto sì, nel Pd sono cominciati i tormenti. Qualcuno - per esempio un paio di consiglieri comunali, ma non solo - aveva già annunciato il sostegno a Pisapia. Mentre altri, nel Pd come nella società civile, successivamente si sono mossi alla ricerca di un terzo nome, per contestare la scelta di indicare un candidato "di partito", prefigurando l´esito delle primarie. E così, lanciato da un comitato di personalità della cultura, delle professioni e dell´associazionismo milanese, si è fatto avanti il terzo uomo: il costituzionalista Valerio Onida, già presidente della Consulta, anche lui - come gli altri due - non legato ai partiti. Un´iniziativa voluta soprattutto da Riccardo Sarfatti, battitore libero del Pd, scomparso tragicamente in un incidente d´auto venerdì scorso. Ma prima di morire, il «galantuomo della politica» aveva cambiato idea, chiedendo - inutilmente - al "comitato dei 92" che aveva contribuito a mettere in piedi di appoggiare Boeri. E come Sarfatti, dentro quel comitato, adesso la pensano anche don Gino Rigoldi e un altro pezzo da novanta della Milano engagée come Guido Rossi (ieri con Boeri si è schierato pure l´architetto Renzo Piano). Onida non fa una piega e va avanti toccando un nervo scoperto: «Ritengo contraddittorio che i partiti esprimano l´appoggio a uno dei candidati prima delle primarie, ciò non fa altro che snaturare lo spirito della consultazione, che è innanzitutto uno strumento per coinvolgere gli elettori». Insomma: «Se non ci fossero le primarie, come farei a Candidarmi senza il sostegno di alcun partito?».

Il ragionamento di Onida ha fatto breccia anche nel Pd. Ecco la senatrice Marilena Adamo: «Tra noi c´è chi è per primarie vere e chi dice che bisogna indicare Boeri. Sto cercando di spiegarlo ai ragazzi di Milano: non dobbiamo commettere l´errore di marcare così stretto Boeri, sarebbe la stessa cosa che sta facendo la sinistra radicale con Pisapia». Analoghi dubbi avrebbero colto anche l´ex ministro Barbara Pollastrini, senza contare che nel Pd si sono già schierati con Onida alcuni ex popolari, come Daniela Mazzucconi. Sono divisioni che il "mago dei numeri" Stefano Draghi considera come «conseguenza inevitabile di un confronto vero». Neppure lui, però, ha ancora deciso: «Stavolta farò una calcolo cinico, non politico: non importa che il gatto sia bianco o nero, l´importante è che acchiappi il topo, quindi alle primarie sosterrò chi mi sembra abbia più chance per battere la Moratti».

I beni statali, la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni, non fatti oggetto di formale “verifica”, sono automaticamente esclusi dai trasferimenti di cui al dlgs. 85/2010.

Le dichiarazioni responsabili che hanno accompagnato l’avvio del procedimento di attuazione della delega hanno rassicurato sulla esplicita volontà del Consiglio dei Ministri di escludere dai trasferimenti previsti e disciplinati dallo speciale provvedimento legislativo tutti i beni del patrimonio storico e artistico appartenenti allo Stato. E un tale fermo proposito è ben espresso nel tenore testuale del comma 2 dell’articolo 5 del decreto che comprende “i beni appartenenti al patrimonio culturale” tra quelli (pur di diversa natura) “in ogni caso esclusi dal trasferimento”, fatta salva ovviamente la disciplina ordinaria del Codice dei beni culturali (che a certe condizioni e previe apposite autorizzazioni ammette il trasferimento dei beni appartenenti al demanio culturale dallo Stato a Regioni ed enti pubblici territoriali locali, anche in funzione di uno speciale accordo di valorizzazione).

Ebbene, il consecutivo comma 3 che rimette alle competenti Amministrazioni dello Stato la formazione (entro il termine di tre mesi) degli “elenchi dei beni di cui esse richiedono l’esclusione” non riguarda i beni culturali, come tali già obbiettivamente identificati secondo il Codice dei beni culturali e perciò automaticamente esclusi. A questi infatti, come a quelli di cui al consecutivo comma 7 (in dotazione alla Presidenza della Repubblica, nonché in uso a Camera, Senato e Corte Costituzionale), non può concettualmente riferirsi l’espressione con cui inizia il comma 3: “Ai fini dell’esclusione di cui al comma 2, le amministrazioni statali …” e ad essi non si applica per certo, con la stringente successione dei tempi, il procedimento di analitica identificazione dei beni esclusi, che vale per le altre amministrazioni e per i beni di appartenenza statale di diversa natura. Con riferimento a questi ultimi, soltanto, la identificazione in concreto è necessaria, perché implica un apprezzamento discrezionale, perciò “adeguatamente motivato” e vagliato dalla Agenzia del demanio che “può chiedere chiarimenti in ordine alle motivazioni trasmesse”, secondo le testuali espressioni del primo e del secondo periodo dello stesso comma 3.

E’ appena il caso di osservare che il patrimonio culturale di appartenenza pubblica — e segnatamente statale — è coperto dalla presunzione di cui al primo comma dell’art. 12 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e dunque tutti i beni pubblici espressione di un’opera la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni sono assoggettati alle disposizioni di tutela (fanno cioè parte del patrimonio culturale) se non sia intervenuta una esplicita verifica negativa dell’interesse culturale. Il patrimonio culturale di appartenenza pubblica non è costituito dunque dai soli beni per i quali sia intervenuto un esplicito riconoscimento positivo, ma pure da tutti quelli (e sono la grande parte) la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni per i quali non sia stata eseguita la formale verifica (e fino cioè a un eventuale provvedimento di accertamento negativo).

Sembra dunque in pratica impossibile la formazione di un elenco analitico esauriente dei beni statali appartenenti al patrimonio culturale; e poiché, come già si è osservato, la esclusione di tali beni dal trasferimento non dipende dall’esercizio di un potere discrezionale delle amministrazioni di appartenenza, ma discende dalla cogente previsione legislativa, sulle “amministrazioni statali” non grava l’onere di richiederne la esclusione (come per certo, altra esclusione di legge, per i beni in dotazione alla Presidenza della Repubblica e quelli in uso a Camera, Senato e Corte Costituzionale). I beni culturali statali, esclusi per legge, neppure conseguentemente dovranno figurare nel provvedimento di definizione dell’elenco dei beni esclusi dal trasferimento che l’art.5, comma 3, quarto periodo, rimette al direttore dell’Agenzia del demanio.

E dai conclusivi provvedimenti del Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 3, comma 3) che formano gli elenchi dei beni trasferibili, adottati entro il 23 dicembre 2010, saranno esclusi tutti i beni culturali come sopra intesi (pure quelli dunque la cui esecuzione risalga ad oltre cinquant’anni non fatti oggetto di formale verifica) e tale esclusione il Ministero per i beni culturali dovrà rigorosamente far valere nel previsto concerto con il proponente Ministro dell’economia e delle finanze.

Giovanni Losavio, Presidente della sezione di Modena di Italia Nostra

Postilla

In un Paese di amministrazione efficiente e rigorosa la nota di Giovanni Losavio apparirebbe pleonastica: non qui, non adesso, purtroppo.

L’equivoco su cui si gioca questa partita, ovvero sia la possibilità dei trasferimenti previsti dal federalismo demaniale per quanto riguarda il nostro patrimonio culturale rischia di trovare un’ampia sponda nell’atteggiamento generalizzato di laissez faire che caratterizza ormai l’azione del Ministero Beni Culturali almeno per quanto riguarda l’apparato dirigenziale.

All’accondiscendenza istituzionale a cui sono improntate le decisioni delle Soprintendenze territoriali si sommano, in questo caso, le ataviche lacune presenti nell’Amministrazione centrale del Ministero che, in oltre trentacinque anni di attività, non è riuscita a produrre non solo alcun catalogo del nostro patrimonio culturale, ma neppure un sistema decoroso di gestione e aggiornamento della propria documentazione.

Il Ministero non possiede, ad esempio, né a livello centrale, né a quello periferico, alcun elenco completo, aggiornato e georeferenziato dei vincoli da lui stesso emanati.

Un’ involontaria, amara ironia sembra infine connotare l’affermazione conclusiva di questa esemplare nota giuridica, laddove si dà per scontata la capacità di difesa (“dovrà rigorosamente far valere”) delle ragioni del nostro patrimonio culturale, pur costituzionalmente preminenti, nei confronti di quelle economiche, da parte di un Ministero ridotto all’assoluta irrilevanza politica.

In questa situazione il pericolo di dismissioni improprie e generalizzate diviene molto concreto e l’apparente solidità della protezione offerta dal dettato legislativo può trasformarsi in una fragile copertura facilmente superabile in re.(m.p.g.)

«L’opera servirebbe a fermare lo spopolamento delle nostre montagne» «E’ un pretesto: in futuro si vorrebbe costruire un albergo a quattro stelle»

BOLZANO. Passo delle Erbe, 7 agosto. Un chiassoso corteo funebre interrompe la festa della Svp, il partito di lingua tedesca che da 60 anni governa l’Alto Adige. In testa al gruppo c’è l’albergatore-ambientalista Michil Costa, in mano stringe una piccola bara nera. «Salutiamo il Munt de Antersasc nato 250 milioni di anni fa e morto nell’estate 2010», recita la partecipazione in ladino consegnata ai politici sbigottiti. Non è un vero funerale, ma un colpo di teatro per protestare contro la costruzione di una strada da Passo Juel a malga Antersasc, nel bel mezzo del Parco naturale Puez-Odle, uno dei siti messi dall’Unesco nella lista dei patrimoni dell’Umanità.

Questo è solo l’episodio più eclatante di quella che in Alto Adige è chiamata «la guerra di Antersasc». Su un fronte ci sono gli abitanti della valle, i Verdi e la Federazione dei protezionisti sudtirolesi; sull’altro la Provincia - che ha autorizzato i lavori - e il Bauernbund, la potente associazione dei contadini. Ieri gli ambientalisti hanno vinto la prima battaglia: il Tribunale amministrativo regionale di Bolzano, infatti, ha bloccato il cantiere. «Non avevamo dubbi - esclama con soddisfazione Costa - Antersasc è un tesoro nazionale da tutelare. Certo, questo non è un abuso edilizio simile a quelli che si vedono nel resto d'Italia, ma è una ferita in uno dei luoghi magici delle Dolomiti».

Ma facciamo un passo indietro. Nei mesi scorsi - nonostante il parere negativo della Commissione ambiente - la giunta provinciale aveva approvato la delibera che dava il via ai lavori. Il progetto prevedeva una carrozzabile larga due metri e mezzo e lunga due chilometri per malga Antersasc, che appartiene a Johann Mair, un contadino. Obiettivo: arginare lo spopolamento delle montagne garantendo le infrastrutture ad agricoltori e allevatori. «Se una baita lavora, ha bisogno di una strada, così come una casa necessita di una scala e di una porta d’ingresso», questa la similitudine usata dal presidente della Provincia, Luis Durnwalder, per motivare la decisione. E così gli operai dell’Ispettorato forestale hanno iniziato ad abbattere i larici secolari e a scoperchiare la terra con le ruspe.

Da un giorno all’altro il silenzio delle cime è stato spezzato da un rumoroso cantiere. Ma gli ambientalisti non sono rimasti a guardare: nell’ultimo mese hanno organizzato manifestazioni, assemblee, e hanno creato anche un gruppo su Facebook (1400 adesioni). Alla fine la carta vincente l’ha giocata il Wwf, che ha presentato un ricorso contro la delibera della giunta al Tar. Ora è arrivata la decisione dei giudici amministrativi: stop alle scavatrici della Provincia. «La carrozzabile - dice Costa - è solo il pretesto per costruire un albergo a quattro stelle in futuro. Una storia già vista». Hans Pircher, il pastore che da vent’anni prende in affitto la malga, ammette di lavorare senza problemi utilizzando i sentieri di montagna, ma Mair - il proprietario - sostiene di avere bisogno della strada per curare meglio l’alpeggio. La Provincia lo appoggia e non si ferma: i tecnici stanno già valutando i progetti alternativi.

«Accettiamo la decisione del Tar - spiega l’assessore provinciale all’Ambiente Michl Laimer, l’unico in giunta disposto a un’apertura -. L’iter burocratico è stato azzerato, ma studieremo una soluzione più soft»; «Nessun compromesso, lotteremo ancora per difendere le nostre montagne», replica Costa. La guerra di Antersasc continua.

Il 9 settembre tra le 18,30 e le 19,00 circa la zona compresa tra Amalfi e Maiori è stata investita da un’intensa precipitazione che in un’ora ha fatto cadere al suolo da 50 a 70 mm; alla fine dell’evento circa 150 mm di pioggia hanno inondato la superficie del suolo. Il pluviometro di Ravello non ha registrato tutto l’evento perché l’interruzione dell’erogazione della corrente elettrica lo ha messo fuori uso. Alle 18,59 sarebbe giunto un fax della Protezione Civile Regionale al Comune di Atrani con il quale si avvisava che il pluviometro (prima del tilt) aveva registrato precipitazioni tali da fare scattare l’allarme “relativamente agli scenari di rischio per eventi pluviometrici della CLASSE I ..”. Si avvisava che avrebbe potuto verificarsi il disastro che ad Atrani era già in atto. L’eccezionale evento piovoso è stato causato da cumuli nembi che si sono autorigenerati sul versante sudorientale dei Monti Lattari tra Amalfi e Maiori. Il bacino imbrifero del Vallone Dragone (circa 5 kmq) che attraversa Atrani è incastrato tra ripidi versanti costituiti da rocce calcaree ricoperte in gran parte da suolo non incastrato nel substrato e da livelli di lapilli sciolti. La parte inferiore è prevalentemente terrazzata e coltivata mentre la parte superiore è coperta da castagneti e boschi cedui.

L’acqua di precipitazione generalmente si infiltra nel sottosuolo per cui solo le parti impermeabilizzate alimentano il deflusso superficiale. Eventi piovosi come quello del 9 settembre possono causare l’innesco e scorrimento di flussi fangoso- detritici rapidi che si alimentano con i sedimenti sciolti e inglobano i detriti eventualmente accumulati abusivamente nell’alveo. La vegetazione arborea che ha radici nel suolo non incastrato nel substrato non può impedire i dissesti citati. Altri dissesti si possono originare dai versanti ripidi boscati devastati dagli incendi a causa dello strato di cenere che impermeabilizza il suolo; così l’acqua che defluisce si trasforma rapidamente in colata detritico-fangosa che si riversa nell’alveo. Da circa 15 ettari di versante incendiato si possono alimentare flussi detritici incanalati che possono raggiungere portate di circa 100 mc/sec. Anche le colate rapide di fango che possono innescarsi nella parte alta del bacino, una volta raggiunto l’alveo vi si incanalano dando origine a flussi veloci con portate superiori alle precedenti.

Le immagini filmate evidenziano la considerevole portata del flusso che ha invaso l’abitato di Atrani trasportando tronchi, frammenti di legno bruciacchiati, grossi massi e inglobando decine di autoveicoli e moto nelle strade urbane.

Come al solito, il tratto urbano del vallone era stato trasformato in strada che scorre sul vallone; identica situazione di Casamicciola devastata dalle colate di fango del 10 novembre 2009. Il flusso fangoso detritico non è stato smaltito dall’alveo tombato e si è riversato sulla strada sovrastante devastando e causando la scomparsa di una ragazza. I primi rilievi evidenziano che per vari minuti l’alveo intubato del Dragone ha smaltito una consistente portata stimata intorno ai 100 mc/sec. In seguito all’incremento della portata il flusso fangoso ha completamente riempito l’alveo e si è riversato sulla sovrastante Via dei Dogi defluendovi con portata massima quasi simile a quella dell’alveo.

Le immagini amatoriali evidenziano che contemporaneamente in mare affluivano i due flussi (quello dell’alveo intubato e quello che dopo avere percorso la via dei Dogi aveva devastato la Piazza Umberto I infilandosi nell’arco aperto del viadotto della Strada statale trascinando in mare decine di auto e moto). Per vari minuti flussi velocissimi (velocità stimata tra 30 e 60 km orari circa) hanno scaricato in mare portate stimate intorno ai 200 mc/sec, nettamente superiori a quelle che l’alveo intubato poteva smaltire in sicurezza. Valutando che circa il 50% del flusso poteva essere costituito da acqua (il resto era detrito, tronchi ecc.) durante il periodo di portata massima possono essere stati smaltiti in mare da 20.000 a 50.000 mc di acqua circa. Da quale parte del bacino provenivano, l’influenza che possono avere esercitato eventuali rifiuti scaricati abusivamente in alveo, l’eventuale cedimento di terrazzi agricoli, eventuali colate di fango nella parte montana del bacino sono alcuni degli aspetti che saranno accertati al fine di “capire” l’evento e di elaborare adeguate proposte di messa in sicurezza. Il 20 agosto scorso avevo pubblicato un articolo dal titolo “I meteo-serial- killer (i cumulo nembi) si verificheranno anche nel prossimo autunno? Ancora indifesi aspettiamo che colpiscano” nel quale evidenziavo che, come è noto nella letteratura, i cumuli nembi (da me denominati meteo-serial-killer) sono perturbazioni che si innescano ed evolvono rapidamente localmente quando si verificano particolari condizioni atmosferiche; richiedono una particolare morfologia della superficie terrestre. E non si possono prevedere! Mentre le perturbazioni meteo che interessano vaste aree sono fenomeni prevedibili e tracciabili, non c’è nessun modello numerico in grado di avere una capacità predittiva di un cumulo nembo che interessa un’area limitata provocando precipitazioni fino a 100 mm all’ora. Questo fenomeno si è verificato il 1 ottobre scorso nel messinese, nell’aprile 2006 e il 10 novembre 2009 ad Ischia, tra il 5 e 6 maggio 1998 nel sarnese, il 19 giugno 1996 nella Garfagnana, tra il 24 e 25 ottobre 1954 nel salernitano. Le vittime sono state diverse centinaia. Considerando che i cumuli nembi hanno causato danni enormi e centinaia di vittime, che essi “agiscono” in maniera ripetitiva in relazione ai periodi e alle condizioni morfologiche e meteo, mi chiedevo “Come mai la ricerca è così indietro?”. Eravamo alla fine di agosto e prossimi ad uno dei periodi per l’attivazione del meteo-serial-killer e ancora indifesi i cittadini possono solo attendere sperando che non colpirà? è mai possibile che all’inizio del terzo millennio non si possa fare niente per la prevenzione? Dopo il disastro del messinese evidenziammo che l’attuale sistema di monitoraggio delle precipitazioni non è in grado di capire in tempo reale se un cumulo nembo stia investendo una parte della superficie del suolo. La prevenzione dei danni alle persone, almeno, può contare su circa 30-60 minuti di tempo, in relazione alle caratteristiche fisiche locali. Che si può fare in questo tempo ridotto? Solo attivare dei piani di protezione dei cittadini accuratamente preparati e sperimentati. Considerando che le persone potenzialmente esposte agli effetti devastanti dei meteo-serial-killers sono almeno 500mila in Campania e che è impossibile mettere in sicurezza il territorio che è stato oggetto di diffusa e impropria, secondo le leggi della natura, occupazione, si ribadisce l’importanza di avvertire i cittadini che si può attivare subito una difesa, almeno, della vita umana. Fatalità, imprevedibilità dell’evento, colpa di qualcuno? è già iniziato il solito “protocollo” di azioni post disastro che, finora, ha lasciato tutto come prima.

PRECARI IN RIVOLTA

La mia pazza idea di incontrarci sullo Stretto

di Emma Giannì



Dopo due anni di proteste, sta iniziando il terzo: la riforma avanza, i tagli aumentano e l'organizzazione scolastica è sempre più critica e instabile. Docenti offesi nella loro professionalità, colpiti nel loro lavoro; collaboratori scolastici trattati da parassiti e sminuiti nella loro funzione, come solo chi non ha mai vissuto la scuola dall'interno può fare. Classi intasate contro ogni normale criterio pedagogico, dove gran parte dell'ora passa solo per chiamare l'appello, controllare le «giustifiche» e avere un minimo di contatto umano con i propri alunni. Il resto dovrebbe essere dedicato alle spiegazioni, alle conversazioni, allo studio,alle verifiche, agli approfondimenti,ai rinforzi per i più deboli. Prime vittime sono i docenti e il personale Ata (collaboratori e amministrativi), non meno meritevoli, ma semplicemente precari, con contratti a tempo determinato anche da 20 anni.

Il bisogno di esternare la propria rabbia è grande. Il problema diventa pratico quando «gridare» il proprio disagio significa spostarsi di parecchio e per parecchie ore allontanandosi dalla famiglia e a spese proprie. Ci vuole una manifestazione, facilmente raggiungibile. Un punto simbolico ma anche pratico perché la situazione della scuola si avverte di più al sud, soprattutto in Sicilia. Ho individuato lo stretto di Messina raggiungibile in circa 4 ore e mezza dalla provincia siciliana più distante ma anche da Napoli e Bari. Ho immaginato un «incontro», un'unione tra la mia terra e il resto d'Italia, per dimostrare che non siamo solo numeri in elenco, che siamo tanti, in carne e ossa, precari e di ruolo e tanti genitori dei nostri alunni, e tanti alunni che lottano per la loro scuola e per la qualità della scuola; perché anche loro sono preoccupati delle ricadute che anche a lungo termine che produrrà la «riforma epocale»! Io lo chiamo un disastro epocale, perché nessuno verrà mai risarcito dei danni che ha causato e che ancora causerà.

Inizialmente la mia proposta non ha sortito grande effetto. Ci si preoccupava di un possibile fallimento, ma cosa avevamo da perdere? Niente. Siamo andati avanti con Fabiola e Maria Rita, testarde, e a poco a poco altri comitati e coordinamenti provinciali si sono accodati. Alcuni sindacati hanno dato la loro adesione, ma la manifestazione è stata interamente organizzata da noi tre, con il contributo prezioso e concreto di Didier. La cosa è cominciata a montare. L'iniziale previsione di 700 partecipanti è cresciuta gli ultimi due giorni, fin poi arrivare alle 2.500 presenze (secondo la questura).

Successo clamoroso. Articoli sulla manifestazione più o meno veritieri in ogni giornale e Tg. Giuro, non me lo aspettavo! È una soddisfazione vissuta a metà visto che comunque anche quest'anno non avrò una mia classe. Dopo 23 anni di precariato, negli ultimi sei mi ero guadagnata un incarico annuale, una sorta di «precariato stabile» che comunque mi avvicinava al ruolo. Uso il passato perché secondo la Gelmini non sono meritevole, non posso pretendere di lavorare nemmeno da precaria, non posso pretendere quello che lei chiama un «privilegio» che mi sono guadagnata con anni di studio, di impegno, di aggiornamento, di servizio. Mi degna di elemosina con l'«ammazza precari».

Perdo il mio lavoro solo per «esigenze di cassa», non mi si riconosce la mia esperienza di educatore, di formatore in nome del risparmio e della razionalizzazione. La situazione dei precari della scuola è la stessa dei lavoratori di Termini Imerese, ma la qualità della scuola è un problema che investe l'Italia intera, perché nella scuola si formano le personalità che abiteranno questa bella terra, e tutti meritano di essere seguiti con attenzione, qualsiasi strada prenderanno. Anche nel profondo sud, dove troviamo strutture fatiscenti, tetti rotti, palestre inagibili, condizioni di lavoro al limite della decenza. Lo so bene io che di scuole ne ho conosciute tante essendo stata assegnata ogni anno in una scuola diversa. In provincia di Agrigento la legge e la normativa su igiene e sicurezza è spesso un optional con piccole aule dove i banchi son stipati, addossati alla cattedra tanto che, a volte, bisogna scavalcarli per raggiungere l'uscita! Eppure si formano classi anche con 35-40 alunni... Nel frattempo, in un paese dove il ministro della pubblica istruzione parla di efficientismo, c'è un piccolo tesoro di provincia, la mia, Agrigento che da alcuni anni non ha il suo dirigente scolastico provinciale, ma svolge la sua funzione ad interim il dirigente dell'Usp di Caltanissetta.

Maria Stella l'ottimista

Maria stella l'ottimista

di Christian Raimo

Alle volte, di questi tempi, in fila alle poste incantati dallo scorrere indolente dei numeri di led luminosi rossi sul display in alto sopra gli sportelli, o nella bolla condizionata di una macchina, nelle città che si rianimano a inizio settembre, si può provare una leggera euforia punk, da repubblica di Weimar, da quiete prima della tempesta. Con i rapporti dell'Ocse o degli altri paternalistici organismi internazionali che continuano a declassarci in classifiche dietro stati di cui conosciamo a malapena la collocazione geografica, con le pubblicità di finanziarie dai nomi bambineschi che sulle pagine delle free-press fanno a gara con quelle dei siti di scommesse on line, con i negozi di alimentari che chiudono e lasciano il campo alle sale giochi con le slot machine o ai rivenditori di oro a diciassette euro il grammo, si ha la sensazione di stare in un punto finale: prima o poi le famiglie non ce la faranno più a fare da paracadute sociale, prima o poi i sindacati non riusciranno più a opporre resistenza di fronte a una deregulation darwiniana del mercato del lavoro, prima o poi la scuola pubblica e l'università non avranno più il fiato per reggersi su delle forze sempre più volontaristiche.

Certo, non a tutti il futuro italiano appare così catastrofico. Si respira, per esempio, a leggere le riviste popolari in attesa dal parrucchiere, un altro clima. Su Chi di questa settimana un Piersilvio Berlusconi (chissà che, così per dire, non sia lui o la sorella il prossimo leader del centrodestra) abbronzato e tonico riempie la copertina e ci elargisce consigli quasi-buddisti su come stare bene con se stessi. Sul numero della settimana scorsa invece - negli stessi giorni in cui migliaia di precari con decenni di supplenze alle spalle non ricevevano nemmeno la carità di una chiamata annuale - Maria Stella Gelmini anche lei non si lasciava avvelenare dal pessimismo. E ribatteva in una distesa intervista dalla sua casa di Ischia di non sentirsi schiacciata dalle incombenze del presente, e di avere anzi un progetto ben definito per il futuro: dopo Emma (una bella bimba paffutella, che ha ormai quattro mesi), adesso pensa a un maschietto. È questa, lo ribadiva a chiare lettere, la sua priorità, il centro di tutto - e quest'estate, mentre lavorava certo, si è dovuta occupare di come arredare la sua nuova casa al centro di Roma.

Non c'è mica da vergognarsi a pensare un po' ai fatti propri; soprattutto non c'è mica da vergognarsi a volerli raccontare anche a chi magari alla stessa età del ministro non si può permettere altra stanza dove dormire che quella della propria adolescenza, con i poster dei Queen ingialliti alle pareti.

Ma l'assenza di una fiducia minima nel futuro di questo paese si può riconoscere anche da altre impressioni sparse. Sempre a dar retta agli osservatori internazionali, il tasso di competenze dei lettori sta precipitando di anno in anno, insieme alla libertà di stampa, e agli investimenti nella cultura, eccetera, eccetera. L'elenco del declassamento italiano è una litania che abbiamo imparato a conoscere e a lasciare sfumare. E a dire il vero, non servono neanche tutti questi numeri; si ricava la stessa evidenza, se uno gira a zonzo per la propria città o fa una telefonata a qualche amico tornato dalle ferie. La marcescenza dell'incultura destrorsa che ha contagiato la nostra società ha fatto sì che, nella convinzione comune, si sia introiettata inconsapevolmente l'idea che il pensiero, la riflessione siano occupazioni depressive, che lo studio non serva, che passare tempo sui libri non sia fondamentale, che i luoghi dell'apprendimento siano le reliquie di un'epoca ormai al tramonto.

Mentre nel tempo d'estate gruppi di studenti organizzati, ricercatori universitari con una tesi di dottorato da completare migrano per un paio di mesi a studiare all'estero, a passare un luglio o un agosto nei campus organizzati dal British Council, o a consultare la bibliografia nella Bncf parigina, nella Library of Congress, nella biblioteca nazionale di Monaco o Berlino (aperte dalle 8 alle 24...), in Italia l'idea che d'estate si studi (anche) è peregrina, obsoleta, bizzarra.

A agosto, in grandi città come Roma o Firenze o Napoli, per dire, le biblioteche (nazionali, comunali, universitarie) chiudono del tutto, al massimo lavorano qualche giorno con orario dimezzato fino a pranzo, non hanno l'aria condizionata, l'accesso a internet, etc...; diventano luoghi che non accolgono nessuno.

Eppure non sarebbe difficile pensare alla questione biblioteche come un punto nodale - non solo simbolico - per un programma di sinistra. Non sarebbe troppo inventivo, per dire, che uno slogan di sinistra fosse: Una modernissima biblioteca pubblica in ogni quartiere oppure Mille nuove biblioteche in tutta Italia.

Il ventennale disastro civil-culturale, che in assenza di definizioni migliori abbiamo finito per chiamare berlusconismo, ma che è sinonimo di frantumazione sociale, di depoliticizzazione, di cinismo di massa, potrebbe cominciare a essere veramente contrastato (non tanto legittimando la conversione in articulo mortis di una certa destra a una minima etichetta costituzionale ma) provando a immaginare un paesaggio diverso con un po' di inedita lungimiranza.

Ossia? Ossia si potrebbe impegnarsi a invertire quel processo iniziato negli anni '80 per cui la gente ha preso a ritirarsi dai luoghi pubblici dentro le mura delle proprie case, ha progressivamente evitato il confronto con il resto del mondo, ha imparato a consumare cultura e intrattenimento in forma privata: si è - per farla breve - trasformata da società civile in audience.

C'è un libro di Antonella Agnoli, uscito da Laterza un anno fa, che s'intitola Le piazze del sapere e che - partendo dalla questione apparentemente tecnica di come ripensare le biblioteche pubbliche in una società in trasformazione come la nostra, dove comunità è sinonimo di facebook e dove la lettura è un'attività in progressivo declino - prova a buttare nell'ambito della riflessione sociale un'idea modestamente rivoluzionaria: «Ricostruire luoghi di dibattito, di conoscenza, di informazione: piazze ma anche biblioteche intese come piazze coperte dove la possibilità di incontrare amici sia altrettanto importante dell'opportunità di prendere in prestito un libro o un film».

A mali estremi, piccoli rimedi. E il vero male estremo - proviamo a capirlo una volta per tutte - non è neanche il federalismo d'accatto che si vuole approvare entro la fine dell'anno, e nemmeno la volontà di riformare l'intero apparato giuridico italiano per far sfuggire un sol uomo ai processi.

Il vero male estremo non si data nel presente, ma nell'eventuale futuro: ed è la riduzione delle ore nei licei, la sparizione degli spazi di dibattito politico, la chiusura dei teatri, la riduzione dei posti di ricercatori all'università, il mancato investimento nelle biblioteche pubbliche...

Stiamo diventando, senza accorgercene, un paese senza futuro: prima di innamorarci di questa cupio dissolvi, potremo anche avere un istante di ripensamento.

Alle volte, di questi tempi, in fila alle poste incantati dallo scorrere indolente dei numeri di led luminosi rossi sul display in alto sopra gli sportelli, o nella bolla condizionata di una macchina, nelle città che si rianimano a inizio settembre, si può provare una leggera euforia punk, da repubblica di Weimar, da quiete prima della tempesta. Con i rapporti dell'Ocse o degli altri paternalistici organismi internazionali che continuano a declassarci in classifiche dietro stati di cui conosciamo a malapena la collocazione geografica, con le pubblicità di finanziarie dai nomi bambineschi che sulle pagine delle free-press fanno a gara con quelle dei siti di scommesse on line, con i negozi di alimentari che chiudono e lasciano il campo alle sale giochi con le slot machine o ai rivenditori di oro a diciassette euro il grammo, si ha la sensazione di stare in un punto finale: prima o poi le famiglie non ce la faranno più a fare da paracadute sociale, prima o poi i sindacati non riusciranno più a opporre resistenza di fronte a una deregulation darwiniana del mercato del lavoro, prima o poi la scuola pubblica e l'università non avranno più il fiato per reggersi su delle forze sempre più volontaristiche.

Certo, non a tutti il futuro italiano appare così catastrofico. Si respira, per esempio, a leggere le riviste popolari in attesa dal parrucchiere, un altro clima. Su Chi di questa settimana un Piersilvio Berlusconi (chissà che, così per dire, non sia lui o la sorella il prossimo leader del centrodestra) abbronzato e tonico riempie la copertina e ci elargisce consigli quasi-buddisti su come stare bene con se stessi. Sul numero della settimana scorsa invece - negli stessi giorni in cui migliaia di precari con decenni di supplenze alle spalle non ricevevano nemmeno la carità di una chiamata annuale - Maria Stella Gelmini anche lei non si lasciava avvelenare dal pessimismo. E ribatteva in una distesa intervista dalla sua casa di Ischia di non sentirsi schiacciata dalle incombenze del presente, e di avere anzi un progetto ben definito per il futuro: dopo Emma (una bella bimba paffutella, che ha ormai quattro mesi), adesso pensa a un maschietto. È questa, lo ribadiva a chiare lettere, la sua priorità, il centro di tutto - e quest'estate, mentre lavorava certo, si è dovuta occupare di come arredare la sua nuova casa al centro di Roma.

Non c'è mica da vergognarsi a pensare un po' ai fatti propri; soprattutto non c'è mica da vergognarsi a volerli raccontare anche a chi magari alla stessa età del ministro non si può permettere altra stanza dove dormire che quella della propria adolescenza, con i poster dei Queen ingialliti alle pareti.

Ma l'assenza di una fiducia minima nel futuro di questo paese si può riconoscere anche da altre impressioni sparse. Sempre a dar retta agli osservatori internazionali, il tasso di competenze dei lettori sta precipitando di anno in anno, insieme alla libertà di stampa, e agli investimenti nella cultura, eccetera, eccetera. L'elenco del declassamento italiano è una litania che abbiamo imparato a conoscere e a lasciare sfumare. E a dire il vero, non servono neanche tutti questi numeri; si ricava la stessa evidenza, se uno gira a zonzo per la propria città o fa una telefonata a qualche amico tornato dalle ferie. La marcescenza dell'incultura destrorsa che ha contagiato la nostra società ha fatto sì che, nella convinzione comune, si sia introiettata inconsapevolmente l'idea che il pensiero, la riflessione siano occupazioni depressive, che lo studio non serva, che passare tempo sui libri non sia fondamentale, che i luoghi dell'apprendimento siano le reliquie di un'epoca ormai al tramonto.

Mentre nel tempo d'estate gruppi di studenti organizzati, ricercatori universitari con una tesi di dottorato da completare migrano per un paio di mesi a studiare all'estero, a passare un luglio o un agosto nei campus organizzati dal British Council, o a consultare la bibliografia nella Bncf parigina, nella Library of Congress, nella biblioteca nazionale di Monaco o Berlino (aperte dalle 8 alle 24...), in Italia l'idea che d'estate si studi (anche) è peregrina, obsoleta, bizzarra.

A agosto, in grandi città come Roma o Firenze o Napoli, per dire, le biblioteche (nazionali, comunali, universitarie) chiudono del tutto, al massimo lavorano qualche giorno con orario dimezzato fino a pranzo, non hanno l'aria condizionata, l'accesso a internet, etc...; diventano luoghi che non accolgono nessuno.

Eppure non sarebbe difficile pensare alla questione biblioteche come un punto nodale - non solo simbolico - per un programma di sinistra. Non sarebbe troppo inventivo, per dire, che uno slogan di sinistra fosse: Una modernissima biblioteca pubblica in ogni quartiere oppure Mille nuove biblioteche in tutta Italia.

Il ventennale disastro civil-culturale, che in assenza di definizioni migliori abbiamo finito per chiamare berlusconismo, ma che è sinonimo di frantumazione sociale, di depoliticizzazione, di cinismo di massa, potrebbe cominciare a essere veramente contrastato (non tanto legittimando la conversione in articulo mortis di una certa destra a una minima etichetta costituzionale ma) provando a immaginare un paesaggio diverso con un po' di inedita lungimiranza.

Ossia? Ossia si potrebbe impegnarsi a invertire quel processo iniziato negli anni '80 per cui la gente ha preso a ritirarsi dai luoghi pubblici dentro le mura delle proprie case, ha progressivamente evitato il confronto con il resto del mondo, ha imparato a consumare cultura e intrattenimento in forma privata: si è - per farla breve - trasformata da società civile in audience.

C'è un libro di Antonella Agnoli, uscito da Laterza un anno fa, che s'intitola Le piazze del sapere e che - partendo dalla questione apparentemente tecnica di come ripensare le biblioteche pubbliche in una società in trasformazione come la nostra, dove comunità è sinonimo di facebook e dove la lettura è un'attività in progressivo declino - prova a buttare nell'ambito della riflessione sociale un'idea modestamente rivoluzionaria: «Ricostruire luoghi di dibattito, di conoscenza, di informazione: piazze ma anche biblioteche intese come piazze coperte dove la possibilità di incontrare amici sia altrettanto importante dell'opportunità di prendere in prestito un libro o un film».

A mali estremi, piccoli rimedi. E il vero male estremo - proviamo a capirlo una volta per tutte - non è neanche il federalismo d'accatto che si vuole approvare entro la fine dell'anno, e nemmeno la volontà di riformare l'intero apparato giuridico italiano per far sfuggire un sol uomo ai processi.

Il vero male estremo non si data nel presente, ma nell'eventuale futuro: ed è la riduzione delle ore nei licei, la sparizione degli spazi di dibattito politico, la chiusura dei teatri, la riduzione dei posti di ricercatori all'università, il mancato investimento nelle biblioteche pubbliche...

Stiamo diventando, senza accorgercene, un paese senza futuro: prima di innamorarci di questa cupio dissolvi, potremo anche avere un istante di ripensamento.

«Li fate ignoranti»

Luca Fazio intervista Tullio De Mauro



Si apre tra le proteste l'anno scolastico dell'era Gelmini. Per Tullio De Mauro siamo un paese che punta a una scuola senza qualità. E in classe dovrebbero tornare anche gli adulti



Primo giorno di scuola. Tullio De Mauro, uno dei più importanti linguisti a livello europeo, ex ministro della pubblica istruzione, preferirebbe sorvolare sulla stretta attualità.

Professore, dobbiamo. Che ne pensa della riforma Gelmini e del clima che si è creato attorno alla scuola?

Che il clima sia brutto lo testimoniano le proteste dei precari, ma anche degli insegnati e dei genitori. I motivi sono diversi e strutturali, ma vorrei dire che le responsabilità non sono solo di questo governo. Gli istituti sono fuori norma, nelle scuole non è stato rimosso l'amianto, il numero degli alunni per classe deborda, per non parlare dei problemi mai affrontati, le carriere dei docenti, gli stipendi bassi, l'abbandono scolastico più alto d'Europa...

In più, su queste sciagure strutturali si abbatte la riforma Gelmini.

Vorrei cominciare col dire una cosa forse impopolare. Il ministro ha preso anche provvedimenti positivi.

Davvero? Dica.

Finalmente ha varato un prosciugamento dei diversi canali che si aprivano dopo la scuola dell'obbligo. Il genitore poteva scegliere tra centinaia di scuole superiori diverse tra loro, un incredibile dedalo di offerte che provocava solo un'impennata di abbandoni scolastici. Gelmini ha eliminato questo sconcio silenzioso riducendo molti indirizzi specifici.

Perché non è stato fatto prima?

Per le resistenze corporative di chi insegnava in questo o quell'indirizzo. E per la disattenzione della classe politica. Berlinguer aveva legiferato nella direzione giusta, ma la sua legge decadde prima di entrare in funzione. Gelmini, invece, ha una maggioranza blindata. Quanto al resto, si è limitata ad apportare aggiustamenti molto modesti per quanto riguarda l'orario, senza un ripensamento d'insieme degli obiettivi più alti che servirebbero per migliorare la scuola.

Migliaia di precari licenziati non sono proprio un aggiustamento modesto. Dice che non servono?

Certo che servono. Se hanno lavorato fino ad ora, anche senza alcun riconoscimento, e per anni, significa che senza di loro c'erano e ci saranno vuoti in organico. Abbiamo bisogno di più personale e pagato meglio, è il bilancio dello stato per la scuola che va totalmente ripensato. Ma questa è una responsabilità di noi tutti, e la causa va ricercata nello scarso impegno intellettuale e politico di chi aveva il compito di pensare un sistema scolastico moderno. E tutto il ceto politico non l'ha compreso, non solo quei malvagi del governo. Anche voi giornalisti vi occupate della scuola solo in termini emergenziali e non di prospettiva.

In Italia abbiamo la più alta percentuale di abbandono scolastico d'Europa, una media del 20% con punte del 25% al sud. Quale impegno servirebbe per invertire la tendenza? Siamo ancora in tempo o gettiamo la spugna?

Non è mai troppo tardi. Bisogna però sapere che la risposta non è solo nella scuola, ma in un nuovo sistema di educazione rivolto agli adulti. Nei decenni passati la scuola secondaria si era finalmente aperta a tutti coloro che uscivano dalle medie, così sono potuti entrare nel circuito formativo ragazzi che in casa non avevano nemmeno un libro. Questo afflusso enorme, e molto positivo, però ha messo in crisi le strutture mentali e culturali della scuola stessa, improvvisamente ci si è trovati di fronte non ai figli della borghesia ma a una realtà dove la cultura non circola.

Intende dire che stando così le cose l'abbandono è fisiologico?

Per forza. E sa come si aggredisce? Anche fuori dalla scuola. Dobbiamo deciderci a recuperare la scolarità degli adulti, questo è il vero punto debole. Lo fanno molti paesi. Perché non sarebbe possibile organizzare alcuni mesi di cicli formativi durante la vita lavorativa? Anche pagati.

Sembra che gli italiani abbiamo subìto un corso di dealfabetizzazione accelerato... solo il 20% degli adulti possiede gli strumenti minimi per comprendere un testo. E' la realizzazione della «dittatura morbida», come scrive nell'ultimo libro?

Sì. Si tratta di un'emergenza politica e democratica, con ricaschi anche nell'economia. Significa che troppi italiani non sono in grado di orientarsi nelle scelte più importanti per il paese.

Difficile che la morbida dittatura si adoperi per la rialfabetizzazione.

Eh già, a costo di sprofondare nell'argentinizzazione. Delle volte mi viene il sospetto che sia questo il motivo per cui il governo si accanisce con tanta ostinazione contro l'università.

Il 60% dei cittadini non legge nemmeno un libro all'anno. Quanta responsabilità hanno gli insegnanti? Crede che le nuove tecnologie possano essere di ostacolo?

Gli insegnanti sono parte integrante della società, anche loro sono dentro la media... La scuola dovrebbe sforzarsi di promuovere la lettura ma gli stili di vita e gli orientamenti prevalenti spingono in tutt'altra direzione, è difficilissimo invertire la tendenza. Le tecnologie possono essere molto utili, ma non dimentichiamo che solo il 50% della popolazione possiede un computer e solo il 38% naviga in internet, proprio per la scarsa propensione nella lettura. Le medie europee sono più alte.

Nei dibattiti sulla scuola il concetto di qualità è uno dei più abusati, ma cosa vuol dire, nello specifico, parlare di qualità nella scuola? Ha in mente un modello particolare?

A livello europeo sono stati indicati dei parametri di valutazione, ed è possibile fissarne alcuni sui livelli minimi di uscita: buon possesso della lingua madre, nozioni basilari di matematica, buona conoscenza di una lingua straniera. Ma soprattutto la scuola deve dare allo studente la voglia di continuare ad imparare per tutta la vita.

C'è qualcosa da salvare o salvaguardare nella scuola italiana?

Sì, ovunque si possono trovare ottimi insegnanti, a volte ne basta uno per motivare gli altri. Queste sono le isole felici, e ci sono, anche al sud. Ma tutto dipende dalla volontà degli insegnanti, quello che manca è uno standard minimo da cui siamo lontanissimi.

Faccia il ministro, anzi lo rifaccia. Punto primo del programma?

Nel '91 il manifesto mi fece la stessa domanda, e rispondo allo stesso modo. Chiederei pieni poteri economici, e poi sospenderei i diritti sindacali per cinque anni. Quando sono diventato ministro questa battuta poi me l'hanno rinfacciata... ma sa con quante sigle sindacali dovevo confrontarmi? Quarantasette... La prima battuta naturalmente è vera. Negli altri stati europei le riforme scolastiche sono sostenute in prima persona dai presidenti o dai primi ministri.

Le chiedo dei nostri politici?

Sarkozy, anche in piena crisi di popolarità, ha girato personalmente le scuole di mezza Francia. Se li immagina Berlusconi e Bersani che girano per gli istituti e si prendono la responsabilità di dire che sono disposti a stanziare un tot per la scuola pubblica? Io no, proprio non ce li vedo.

Nel suo discorso di Yaroslavl Berlusconi ha riscritto (o meglio, raccontato) la nostra storia a modo suo. Secondo lui i costituenti, preoccupati di non ricadere nel fascismo, invece di dare il potere al governo e al capo del governo lo ripartirono tra le assemblee parlamentari, il capo dello Stato e la Corte costituzionale; per tale ragione il governo non ha la possibilità «immediata» (dimenticati i decreti legge) di intervento, ma «deve far passare tutta la sua attività attraverso l'approvazione delle Camere». Le Camere sono dunque il difetto del sistema.

Nel racconto di Berlusconi c'è tuttavia una contraddizione: perché da un lato dice che «abbiamo avuto sessant'anni di vita democratica con il governo nelle mani dei partiti democratici occidentali che con alcuni difetti hanno consentito che l'Italia crescesse nel benessere in un sistema di democrazia e libertà», dall'altro dice che niente funzionava perché c'erano stati 55 o 56 governi prima del suo che in media avevano governato per undici mesi, spazio di tempo troppo piccolo per fare alcunché. Questo difetto del sistema sarebbe stato ora rimosso dallo stesso Berlusconi con l'avvento dei suoi governi e il cambio della legge elettorale; tant'è che anche gli attuali sommovimenti nella maggioranza sono piccole questioni di professionisti della politica che vogliono farsi la loro aziendina: ma di sicuro il governo durerà per tutta la legislatura.

La storia raccontata da Berlusconi comprende naturalmente il capitolo magistratura la quale nel 1993, essendo politicizzata e di sinistra, aprì la strada del potere a un partito comunista italiano non ancora democratico; per fortuna la gente chiamò lui, che era un imprenditore di fama e con il Milan aveva vinto il maggior numero di trofei della storia del calcio, e così in tre mesi l'Italia fu salva. Resta ora il fatto che la magistratura insidia la governabilità e insiste nel voler «issare la sinistra al potere»; anche a questa oppressione giudiziaria si deve porre rimedio, stabilendo che la magistratura «non deve essere un potere ma un ordine dello Stato».

L'annuncio dato da Berlusconi in Russia è dunque molto chiaro: l'errore fatto dalla Costituente è stato rimosso, c'è stato, con il suo governo e la legge elettorale, un cambiamento della Costituzione di fatto, grazie al quale c'è ormai un potere, il suo, sovrastante ogni altro potere.

Questo significa che con le prossime elezioni non solo Berlusconi cercherà la conferma del suo potere come sovrastante ogni altro potere, ma certamente cercherà di trasformare questo cambiamento istituzionale di fatto in un cambiamento costituzionale di diritto, tale per cui anche incidenti come quello provocato nella sua stessa maggioranza da Fini, non siano più possibili.

Ciò trasforma le prossime elezioni, prossime o lontane che siano, in un referendum costituzionale. Se Berlusconi di fatto indice un tale referendum, sarebbe assurdo che i suoi avversari lo disertassero, gli astenuti continuassero ad astenersi e i partiti pensassero solo a raccogliere voti per sé come se si trattasse di un normale turno elettorale. Come nel 1946, quando si votò con spirito costituente, sia per scegliere tra monarchia e repubblica sia per eleggere i membri del Parlamento-costituente, così ora si dovrà votare per scegliere tra una democrazia rappresentativa con divisione dei poteri, e una democrazia monocratica con un solo potere, ridotti gli altri a "funzioni" o ordini al servizio di questo. L'analogia col 1946 è chiara, e il Cln non c'entra. Nel '46 non si votò per decidere tra fascismo e democrazia, perché il fascismo era già stato sconfitto, ma si votò per due concezioni e due forme di democrazia, monarchica o repubblicana, autoritaria o garantista, piramidale o rappresentativa; così anche ora si tratta di scegliere tra una democrazia aziendale e una democrazia parlamentare, in cui però i parlamentari non si ingaggino e non si comprino.

Di conseguenza le prossime elezioni, se non potrà essere cambiata la legge elettorale (e faranno di tutto per impedirlo) dovranno essere affrontate in modo che la trappola predisposta dalla legge Calderoli non possa scattare. Perciò dovrebbe formarsi una coalizione costituzionale di cui facciano parte tutte le forze che, in una logica referendaria, si oppongono alla revoca della democrazia parlamentare e repubblicana. Essa dovrebbe, senza bisogno di usufruire del premio di maggioranza, ottenere complessivamente una maggioranza superiore al 55 per cento dei voti, sicché il sistema non sarebbe forzato a rappresentare quello che non c'è. È in questo spirito che Fini e Casini dovrebbero scegliere da che parte stare. Entro questa più larga coalizione (che potrebbe chiamarsi, semplicemente, «democrazia») dovrebbe essere stipulata una alleanza di governo tra i partiti convergenti non solo in una scelta di sistema, ma anche su un programma per l'esecutivo; e sarebbero questi che dovrebbero indicare quello che la legge chiama «il capo della coalizione». Si riprodurrebbe così, come nella fase nascente della nostra repubblica, una doppia e per larga parte coincidente investitura, una di tipo costituente, come quella che si realizzò nell'Assemblea costituente del 46-47, e una di tipo esecutivo, come quella che si concretò con la fiducia, accordata con diverse maggioranze, ai governi De Gasperi.

In tal modo la democrazia costituzionale verrebbe salvaguardata e rinvigorita, e potrebbe nel contempo essere ripresa una normale, efficiente e sobria attività di governo per gli interessi e i bisogni degli italiani tutti, e il ripristino del loro ruolo nel mondo.

Raniero La Valle è Presidente dei Comitati Dossetti per la Costituzione

Entro nel merito del dibattito sul Piano Urbanistico di Sassari e pongo alcuni quesiti esplicitamente al Sindaco, all’Assessore all’Urbanistica e al Presidente della competente commissione. Nel PUC è previsto un consistente aumento di volumetrie. A quali tipi di domanda si vuole rispondere? A chi non ha una casa e non riesce ad accedere al mercato immobiliare esistente? Evidentemente no, perché si tratta per lo più di persone che non hanno le risorse per comprare una casa e sono escluse dal mercato inesistente degli affitti. Ciò significa che l’amministrazione comunale prevede una crescita demografica? Ma tutti gli studi ci dicono che, da qui al 2030, ci sarà un vistoso calo demografico. La conclusione più probabile è che le volumetrie previste siano ‘soltanto’ esigenze di alcune categorie economiche che, pur essendo legittime, poco hanno a che fare con l’interesse generale e collettivo. Vorrei inoltre ricordare che l’applicazione dello scellerato Piano Casa regionale di fatto sta aumentando in modo incontrollato le cubature. Senza contare il fatto che, degli oltre 2 milioni case fantasma rilevate dall’Agenzia Nazionale del Territorio, un certo numero è presente nel nostro comune e sarebbe importante sapere quanto esso sia consistente.

Nel PUC si pensa di colmare i cosiddetti vuoti urbani, ovviamente costruendoci su. Mi permetto di riaffermare un concetto da me più volte espresso: nella città i vuoti territoriali sono sempre densi sociali, in termini tanto negativi quanto positivi. Sassari è una città brutta, anzitutto per come si è costruito a partire dagli anni ’60; in secondo luogo, perché si sono via via eliminati quegli spazi aperti che inducono alla socialità e all’incontro, per cui anche i quartieri di pregio per la qualità degli appartamenti sono, di fatto, dei quartieri dormitorio, da dove si entra e si esce per lo più in automobile proprio perché privi della possibilità di costruire senso comunitario e di vicinato. Allora, non è il caso di ripensare alla città, partendo proprio da questi “vuoti” e, invece di riempirli di cemento come si è fatto finora, farne un’occasione per ricucire le lacerazioni fisiche e sociali? Ciò non va fatto a tavolino, ma interloquendo con i cittadini, a partire da quanti si sono associati, come è accaduto per difendere l’area dell’ex orto botanico. Altrove, queste associazioni sono un interlocutore privilegiato per l’amministrazione locale, tanto che ogni decisione urbanistica deve passare il loro vaglio: Freiburg in Gemania è un bel caso a cui riferirsi anche in termini di governance oltre che in termini di sostenibilità.

Il mio auspicio è che la seconda città della Sardegna diventi un modello di riferimento per tutta l’Isola, dimostrando che 1. non si consuma più territorio; 2. le politiche centrali sono quelle volte alla riqualificazione dell’esistente; 3. il rispetto delle regole è il fondamento primo per ogni buona politica. Tre piccoli principi che diventerebbero dirompenti rispetto alle logiche dissennate messe in atto dal governo nazionale, alle quali si è totalmente asservito il governo regionale.

Inseriamo il testo integrale dell’articolo che il giornale ha pubblicato con qualche taglio redazionale, che non ne altera il significato

La Legge speciale per Venezia, anzi le leggi speciali per Venezia (sono tre: la numero 171 del 1973, la 798 del 1984 e la 139 del 1992) sono state la risposta istituzionale data all’aqua granda, come poi i veneziani hanno chiamata la più grande acqua alta della storia.

Nel novembre 1966 la città è stata quasi sommersa da una terribile mareggiata, di 194 centimetri sopra il livello medio del mare e con la piazza San Marco sommersa anche per 124 centimetri. Le cause sulle quali si discute ancora oggi anche se solo pretestuosamente, sono state di origine naturale ed umana.

Quelle naturali dovute a un periodo di sigizie (quando luna e sole attraggono maggiormente le acque provocando maree molto sostenute), durante il quale è arrivata una terribile burrasca marina con fortissime piogge e venti di scirocco che hanno fatto entrare molta più acqua del solito nel bacino lagunare ed impedito, con la forza dei venti, la sua uscita nelle sei ore successive, funzionando come un tappo alle tre bocche di porto, per ricaricarne ancora molta, con l’ulteriore marea entrante. Quelle umane, dovute all’incuria decennale che non aveva mantenute salde ed efficienti le difese a mare della laguna (gli storici argini artificiali detti murazzi) e gli argini dei fiumi che a nord ed ovest la contornano, hanno reso possibili grandi brecce sulle difese fisiche e onde impetuose dal mare e correnti di piena dai fiumi sono entrate con impeto distruttivo in laguna aumentando ulteriormente il livello dell’acqua.

Sull’onda, anche emotiva, di una opinione pubblica mondiale preoccupata della possibile perdita di un patrimonio dell’umanità e la pressione sociale di movimenti sorti per la difesa della città, dopo molti dibattiti culturali e politici, le forze politiche, trovando miracolosamente un accordo, hanno approvata la prima di queste leggi, le altre seguiranno nel tempo. è una legge che, per la prima volta, concepisce la salvaguardia di Venezia come protezione dell’intero ecosistema che la circonda e, nel contempo, come necessità di garantirne la sopravvivenza sociale e abitativa con condizioni economiche riguardanti l’intero ambito territoriale consegnato dalla storia come unitario, la cosidetta conterminazione lagunare. Di fatto una buona legge come pure le successive e.....come tale, in gran parte non applicata o applicata parzialmente.

Senza entrare nel merito della polemica sul MoSE, il sistema di dighe sommerse che dovrebbe salvaguardare la città dalle acque alte, è opportuno ricordare che è un sistema immodificabile nel tempo e nella migliore delle ipotesi inutile perché non proteggerà dalle alte maree, certamente costosissimo (4.678 milioni di euro di costruzione più 60-70 milioni ogni anno per gestione e manutenzione), pericoloso ma, per quel qui ci preme, approvato facendo strame di norme, leggi italiane ed europee e consentito solo da una decisione politica irrispettosa anche di ogni valutazione tecnico-scientifica. Consentito quindi non rispettando dettato e procedure delle leggi speciali tutt’ora vigenti.

Ai primi di luglio il Ministro all’innovazione Renato Brunetta ha convocato istituzioni, parti sociali e alcune associazioni comunicando loro, tassativamente, che entro settembre vuole riscrivere la legge speciale, perché vecchia e superata dai tempi, perché la salvaguardia della laguna, e con essa di Venezia è già garantita dal MoSE, così si è espresso il Ministro.

Al riguardo sembra opportuno ricordare che la costruzione del MoSE non è ancora iniziata, essendo state completate solo le opere complementari del sistema ed inoltre che una delle più grandi Società di progettazione di opere sommerse, interrogata specificatamente dal Comune di Venezia, ha affermato che, in certe condizioni mareali e di vento, non sarà possibile garantire scientificamente la tenuta delle cerniere che tengono avvinte le paratoie mobili rischiandone il collasso complessivo e che sarà impossibile tenere all’esterno l’acqua di mare perché entrerà nei varchi esistenti tra paratoia e paratoia. Il Ministro ha dichiarato inoltre che non ci sono più soldi e Venezia dovrà nel futuro scordarsi degli stanziamenti che la Legge Speciale ha garantito. Ricordiamo che nel passato parte di questi finanziamenti sono stati decisivi per la salvaguardia socio-economica della città. Ma esiste un non detto assai preoccupante che a breve si potrà comunque verificare.

Una città delicata come Venezia e il suo complesso sistema lagunare, (59.000 abitanti e 21 milioni e più di turisti annui; 450 kmq. di laguna) con le sue sole entrate non è in grado di reggere alla pressione trasformativa imposta da un mercato sempre più aggressivo. Bisognerà far cassa e non basteranno nemmeno gli enormi tabelloni pubblicitari a pagamento che già oggi ricoprono totalmente il palazzo Ducale, il ponte dei sospiri, per citarne solo alcuni. Non basteranno quelli incassati dagli oneri delle opere di urbanizzazione per concedere edificazioni nel solo interesse degli immobiliari. I soldi si troveranno e saranno quelli degli sponsor, delle società più o meno partecipate dal Comune, delle Imprese di Costruzioni e simili. E, poiché il mercato non è Babbo Natale, il contraccambio sarà nuova edificazioni di alberghi, megastore, sistemi meccanici di trasporto sopra e sotto la città e la laguna, nuove darsene per mega yacht, costruzioni di nuove isole in laguna e trasformazione radicale di quelle esistenti, fino ad arrivare, forse, ad una porta d’accesso sul ponte, controllata e a pagamento, per entrare in una città privatizzata, totalmente disneyzzata e artificializzata, con una sola parvenza di abitanti e traffici reali. I presupposti ci sono tutti. Tessera City (1,5 milioni di mc. di alberghi, centri commerciali, case da gioco, stadio, palestre per il fitness e simili): già concessa illegittimamente dall’accordo degli uscenti Sindaco Cacciari e Governatore Galan, sul bordo non edificabile della laguna; il progetto della metropolitana sublagunare per fare ulteriormente aumentare il turismo; la distruzione dell’Ospedale al Mare al Lido, ultimo presidio sanitario per le isole, per farne alberghi e darsena d’altura; la lottizzazione con villette dell’antico forte trasformato in albergo a 5 stelle con piscina a Malamocco; strumenti d’intervento rapidi con Commissari ad acta non obbligati a sottostare alle leggi che governano le trasformazioni del territorio; ecc. Manca solo una legge quadro che renda compatibile tutto ciò e liberi da “lacci e laccioli” come sono state definite le norme delle leggi speciali esistenti: questo dovrebbe essere la nuova legge speciale.

Italia Nostra, partecipe alla consultazione, ha già fatto pervenire al Ministro un sintetico ragionamento strategico per evitare di essere catturati da questa distruttiva logica ultraliberista, individuando obiettivi, modalità, condizioni. Non è escluso che, a breve, proponga all’intera cittadinanza ed al dibattito culturale e politico, una bozza di nuova legge speciale, a partire dal completamento di quanto previsto in quelle esistenti, rafforzandone le salvaguardie siappur in una prospettiva di trasformazioni necessarie ma che dovranno essere altamente compatibili. Governo del turismo; decollo incentivato di una economia alternativa insediata in una Marghera bonificata; nuova residenzialità in città con una sinergia strategico-culturale tra ricerca e innovazione (istituzioni culturali museali e università); riorganizzazione di una mobilità di superficie che separi il traffico turistico da quello residenziale, pendolare e studentesco; nuovo piano morfologico della laguna evitandone ogni artificializzazione e, soprattutto, il progressivi svuotamento di sedimi dai suoi fondali che la porterebbero inesorabilmente a diventare un braccio di mare, biologicamente morto. Questi gli attuali temi strategici su cui dovranno misurarsi amministratori e cittadini, politica e cultura. Ne daremo ancora conto.

Stamane il Comune di Milano depositerà per 30 giorni il documento del Piano del Territorio in visione ai cittadini che avranno a loro disposizione sino al 15 novembre per le loro osservazioni.

Scaduto questo termine, il Comune avrà 90 giorni per accoglierle o meno e dovrà presentare il nuovo testo, che terrà o no conto delle osservazioni, per l’approvazione in Consiglio Comunale e le relative votazioni. Dunque entro il 15 di febbraio, se nulla di traumatico accadrà nel frattempo, il nuovo strumento urbanistico diventerà efficace, ma viene da dubitare seriamente, vista l’arroganza indefettibile dell’assessore Masseroli ribadita domenica sera al dibattito ospitato alla festa del Pd. Dunque, a meno di una dura opposizione, il Pgt sarà approvato prima delle Comunali. Questo almeno è lo scenario più probabile.

È bene che il Pgt, nel suo testo definitivo, sia approvato con qualche anticipo sulla data delle elezioni, per molte ragioni. Una premessa: il Pgt potrà essere rifatto o modificato senza alcun limite, fatte salve le procedure e i tempi necessari e d’altro canto la mancata approvazione di quello attuale non comporta l’arresto dell’attività edilizia, come qualcuno capziosamente ha affermato, ma potrà proseguire con il vecchio piano regolatore che ha permesso di tutto ma con il limite della cosiddetta salvaguardia, ossia non in contrasto con il nuovo che comunque è certamente più permissivo del vecchio.

Perché è importante che sia approvato prima delle Comunali? Le ragioni sono almeno tre: perché è comunque un documento molto, troppo, esteso e qualunque rilettura chiede tempo per assimilarne i contenuti; perché i candidati alle primarie è opportuno che si pronuncino su un testo definitivo per chiarire quale sarà il loro futuro atteggiamento; perché il giudizio sulla giunta uscente e sulla sua capacità di capire la realtà fisica e sociale di Milano si può dare solo su un documento definitivo che sancisca inequivocabilmente l’incapacità di capire i cittadini, che sono altra cosa dai partiti e dagli interessi che si vogliono tutelare.

Un’ultima considerazione. In passato per osservazioni s’intendevano genericamente le obiezioni di natura tecnica e specifica che i cittadini proprietari facevano ritenendo di essere stati sfavoriti o addirittura danneggiati da un nuovo strumento urbanistico. Questa volta, visto l’impianto del documento e la sua natura profondamente ideologica e di parte, le osservazioni potranno e dovranno riguardare anche aspetti di quadro generale e di natura politica. Chi ha detto che la città debba essere pensata per 1milione e 700 mila abitanti? In base a quali considerazioni? È giusto privilegiare sempre e in ogni caso l’intervento dei privati? Le localizzazioni di addensamento della volumetria a che logica rispondono? Vedo con favore che molti gruppi si stanno organizzando per stendere le osservazioni: spero che si moltiplichino e che dal loro lavoro possa nascere una visione della città più vicina al sentire diffuso dei cittadini e non solo dai portatori d’interessi esclusivamente economici.

Dunque pare che secondo l'onorevole Giorgio Stracquadanio, uno di quelli che dice sempre la verità profonda del berlusconismo, prostituirsi per fare carriera politica non sia un problema: è ammesso, "legittimo" e non censurabile. Ognuno usa quello che ha, spiega il nostro, «intelligenza o bellezza», o magari tutt'e due perché non è detto che chi è bello sia stupido (e neanche il viceversa, basta guardare lui): sono fatti privati, «ognuno deve disporre del proprio corpo come meglio crede e se non c'è violenza non c'è problema». E se invece ci sono soldi, posti e potere? Domanda superflua, Stracquadanio non la capirebbe nemmeno, e del resto in casa sua (e non solo in casa sua) non la capisce nessuno dal velina-gate in poi. Ma l'improvvida uscita dell'onorevole è un'ottima sintesi della concezione della libertà targata Berlusconi e quindi tanto vale insistere. Fra la libertà di disporre del proprio corpo e la libertà di venderlo per averne in cambio posti, favori e carriere c'è di mezzo il mare, un mare che si chiama mercato, denaro, scambio di potere fra diseguali, ricatto. Non solo non è la stessa cosa, ma le due cose neanche si toccano: si escludono. Da una parte c'è il desiderio, dall'altra la forma di merce, e fra desiderio e forma di merce sarebbe il caso di ricominciare a fare qualche distinzione: a sinistra potrebbero provarci, invece di cadere ogni volta, quest'ultima compresa, nella trappola del derby fra disinvolti e moralisti.

Fra le molte coliche e contorsioni in cui si dibatte il berlusconismo morente, ce n'è una quasi incomprensibile, l'ostinata compulsione a battere e ribattere sul tasto della sessualità, che è esattamente quello che ne ha firmato la condanna a morte. Il premier e le veline candidate, il premier e il sesso a pagamento, il premier e il «ciarpame politico» delle «vergini che si offrono al drago»: cominciò tutto da lì, vale ricordarlo, non da Gianfranco Fini. Eppure lo stesso premier batte e ribatte compulsivamente ancora su quel tasto, come fosse un tasto imprescindibile del suo armamentario populista. Ormai tanto visibilmente provato nell'immagine quanto disorientato sul da farsi, domenica, alla festa di Atreju, quell'armamentario l'ha tirato fuori tutto, come in una prova generale della campagna elettorale prossima ventura. Un'autocitazione dietro l'altra dai suoi discorsi del '94 e seguenti, come se l'Italia si fosse fermata al suo avvento: il libro nero del comunismo, gli ammiccamenti al nazismo in salsa di barzelletta, il monumento a se stesso come esempio e prospettiva di vita per i giovani, il Pdl come «popolo» e non partito, i giornali da evitare come la peste...e dentro questo album di foto stantìe la più stantìa di tutte, la sua foto di conquistatore ricco, intraprendente e irresistibile. «Io c'ho la fila di quelle che mi vogliono sposare: sono simpatico, ho un po' di grana, la leggenda dice che ci so fare, e in più pensano che sono vecchio, muoio subito e loro ereditano». Pensano ma si sbagliano, perché lui è sempre lo stesso e le sua gag sono sempre le stesse, compresa quella irrinunciabile di chiedere il numero di telefono a una ragazza che prova a fargli una domanda politica.

Ridicolo. Compulsivo. Consunto. Decrepito. Eppure, lo sappiamo, Berlusconi ha sempre una carta di riserva, che sta sempre fuori dal mazzo della politica. E non va affatto sottovalutata la sua frase di domenica portata in prima pagina da «Libero» di ieri, «Largo ai giovani e alle donne», che potrebbe preludere, e non è la prima volta che si dice, a un'investitura della figlia Marina alla successione. Indirettamente avvalorata, secondo il quotidiano, dalle ripetute interviste rilasciate al «Corriere della Sera» negli ultimi mesi dalla stessa Marina. «La Principessa e la Trota», scrive «Libero» alludendo a una destra del futuro in mano ai figli di Berlusconi e Bossi: largo alle dinastie, come in ogni regno che si rispetti. Altro che posta in gioco costituzionale: mentre parlavano del legittimo impedimento stavano ripristinando la monarchia e non ce ne siamo accorti.

Ma qui non è solo questione di monarchia. Attenzione, perché è proprio da quel suo continuo e compulsivo battere sul tasto delle donne e della sessualità che Berlusconi potrebbe estrarre stavolta la carta fuori mazzo: una donna candidata premier al posto suo. La figlia o chi per lei. Altro che ciarpame politico, altro che le veline a Strasburgo, altro che i festini e le farfalline di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa: passerebbe alla storia come il primo uomo politico italiano che ha ceduto il passo a una donna. Un vero Cavaliere. E un vero schiaffo alla sinistra, l'ennesimo.

Gli anniversari dell'11 settembre si seguono ma non si somigliano. Ne abbiamo celebrati tanti sotto la cappa dell'insensata guerra irachena (tanti lutti, e per che cosa?), intossicati dall'assurdo concetto di «guerra al terrore»: come si fa a dichiarare guerra non a un soggetto (un paese, un regime, un partito), ma a una tecnica di combattimento? E' quella che il generale David Petraeus chiama «guerra irregolare», una delle forme di «guerra asimmetrica», l'unica che può permettersi un nemico troppo più debole, che sarebbe annientato in campo aperto dalla schiacciante superiorità tecnico-militare degli Stati uniti.

Tanti anniversari dell'attentato alle due newyorkesi torri gemelle di nove anni fa, li abbiamo celebrati sotto un presidente degli Stati uniti, George W. Bush, che si arrogava il diritto di mettersi il diritto sotto i piedi, stracciare la carta costituzionale, gettare nella spazzatura l' habeascorpus, deridere la convenzione di Ginevra, scatenare guerre «preventive» a proprio piacimento, quasi a replicare nella geopolitica quel che il film di Steven Spielberg, Minority report, preconizzava per il sistema giudiziario (punire i criminali prima che commettano un crimine).

L'anno scorso, per la prima volta l'11 settembre è stato ricordato sotto una nuova presidenza più civile, quella di Barack Obama. Sulle ali delle speranze che aveva suscitato la sua promessa di chiudere il carcere di Guantánamo entro un anno, ritirarsi dall'Iraq, finirla con le extraordinary renditions (i rapimenti di civili in stati stranieri per deportarli in centri di tortura di paesi esperti in tale tecnica, come Siria, Egitto o Marocco). Era anche il primo anniversario dopo lo scampato pericolo finanziario (la banca Lehman Brothers fu lasciata fallire il 15 settembre 2008), con la disoccupazione montante, ma con l'ottimismo che il peggio fosse passato.

Quest'anno il clima è inedito. Un po' perché le speranze politiche sono appassite: la prigione di Guantánamo non è stata chiusa (né lo sarà in un futuro prevedibile); le extraordinary renditions sono continuate, solo più discrete; e soprattutto gli americani - e non solo loro - hanno la desolante sensazione di aver scambiato una guerra (in Iraq) con un'altra (in Afghanistan), in un teatro ancora più sfavorevole e più impervio, come mostrano tutti i precedenti (compreso quello sovietico negli anni '80). Un po' perché la «guerra alla disoccupazione» si rivela lunga quanto quella al terrore (anche perché combattuta con assai minore convinzione) e l'ottimismo economico ha ceduto il passo a un fatalismo ansioso, preoccupato dal futuro.

Ma soprattutto, ora sembrano essersi invertiti i ruoli: mentre per anni la società americana era meno barbara del suo potere politico, quest'anno l'11 settembre cade in un clima opposto, con una presidenza laica confrontata a un rigurgito di razzismo, xenofobia e bigottismo senza precedenti almeno dai tempi del senatore Joseph McCarthy, sessanta anni fa. Quest'estate è cominciata con l'Arizona che voleva istituire ronde di vigilantes civili contro gli immigrati clandestini dal Messico e che voleva abolire l'insegnamento dello spagnolo nelle scuole. Poi abbiamo discusso per un mese quale fosse la minima distanza «decente» da Ground Zero perché una moschea non fosse una «provocazione»: cento metri? 200? mezzo chilometro? e chi lo decide? E poi abbiamo temuto fino all'altro ieri che oggi venisse pubblicamente bruciata una pila di copie del Corano

In parte il rigurgito è alimentato dalla crisi economica: nelle depressioni il più facile espediente politico è quello di cercare i capri espiatori, i nemici (interni o esterni): in questo senso una parte della responsabilità sta nel non aver intrapreso azioni più decise contro la disoccupazione, azioni che andavano intraprese un anno fa perché potessero avere un effetto politico nelle prossime elezioni di novembre.

Ma la crisi è solo un fattore, e forse neanche il più decisivo. I veri responsabili del clima mefitico che si respira in quest'anniversario sono i leaders repubblicani «moderati», mainstream, e i loro interlocutori della grande finanza e dei mass-media, le grandi banche e gli editori come Murdoch (che possiede la rete televisiva Fox News e il Wall Street Journal alleato con il Washington Post).

Sono costoro che lanciano il sasso e nascondono la mano: deprecano «l'estremismo» dei Tea Party, ma continuano a chiamare il presidente «Imam Hussein Obama», come fa Rush Limbaugh. Osservava ieri il New York Times che già due anni fa, a Topeka (Texas) un pastore della chiesa battista di Westboro aveva proposto di bruciare il Corano, ma nessuno se l'era filato e la sua provocazione era caduta nel nulla. Quest'anno invece il pastore Terry Jones di Gainesville (Florida) ha ricevuto un'attenzione senza precedenti, tanto che per dissuaderlo a mettere in atto il suo rogo sono intervenuti nell'ordine il generale Petraeus (comandante in capo in Afghanistan), la ministra degli esteri, Hillary Clinton, e infine lo stesso presidente Obama.

Secondo il New York Times, tra luglio e agosto il reverendo Jones ha ricevuto più di 150 richieste d'intervista, esattamente con lo stesso meccanismo innescato con la cosiddetta «Moschea di Ground zero»: se una grande catena tv come Fox New dà straordinario rilievo a una notizia per quanto futile e irrisoria, nessun altro network può permettersi d'ignorarla e avvia una spirale che si autoalimenta. Succede così che un pastore che nella sua chiesa ha meno di 30 fedeli possa provocare tumulti nelle città afghane, come è successo ieri. Ma non potrebbe farlo senza il tacito incoraggiamento dell'establishment conservatore statunitense, che dimostra così di essere disposto a tutto (ma proprio tutto) pur di riprendere quel potere da cui è stato disarcionato due anni fa. Non è casuale se la furia anti-islamica divampa proprio mentre un americano su cinque crede che il presidente Obama sia un musulmano. Assistiamo qui a uno dei processi più tristemente familiari nella storia umana, quello per cui ciò che sembrava una descrizione diventa una prescrizione: così quando nel 1996 il politologo Samuel Huntington parlò di «scontro di civiltà», tutti si affannarono a obiettare all'analisi, senza vedere che la sua in realtà era una proposta che adesso riceve un avvio di attuazione. La dice lunga sull'irresponsabilità politica del Grand Old Party il fatto che nessun leader repubblicano si sia alzato per chiedere alla propria base christian conservative di darsi una calmata.

È un paradosso che proprio sotto un presidente figlio di un musulmano, per la prima volta l'11 settembre sia celebrato in un clima non di guerra al terrore, ma di guerra all'Islam, quasi a confermare la tesi di Osama bin Laden sui «nuovi crociati». Oggi il peggior nemico degli Stati uniti non si nasconde nelle grotte delle montagne afghane, ma si annida nel cuore stesso dell'America.

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