El otro cataclismo de Pompeya
Irene Hdez. Velasco - El Mundo
Hace exactamente 1931 años la ciudad romana de Pompeya quedó sepultada bajo la lava del Vesubio. Y ahora esa zona arqueológica, considerada por muchos como la mas importante del mundo y declarada en 1997 por la Unesco Patrimonio de la Humanidad, se enfrenta a otro importante cataclismo: la incompetencia de los responsables culturales italianos. Desde hace varios años, Pompeya se encuentra en una situación de grave deterioro. La basura inunda el lugar, florecen los falsos guías que se aprovechan de los turistas, se multiplican los restaurantes sin licencia que incumplen las normas de higiene... Por no hablar de las fosas sépticas excavadas a pocos metros de las antiguas murallas de la ciudad, levantadas hace 2.000 años. O de las columnas de antiguas viviendas romanas restauradas (por decir algo) a base de cemento y hormigón.
La situacion ae Pompeya era tan terrible y desesperada que, en julio de 2008, el Gobierno de Silvio Berlusconi decidió intervenir, nombrando un responsable de Protección Civil que se encargara de su-pervisar lo que ocurria en la zona. Pero el remedio esta resultando aún peor que la enfermedad.
No es sólo que los ilustres miembros del Observatorio italiano del Patrimonio Cultural se echen las manos a la cabeza por el modo en el que ha sido restaurado el Teatro Grande de Pompeya, construido en la primera mitad del siglo II a. C. y ampliado posteriormente. «La intervención en el teatro es una auténtica e inconcebible masacre, Ilevada a cabo en el interior de uno de los monumentos arqueológicos mas significativos de la Humanidad», denuncia Antonio Irlando, responsable de esa organización, mientras se echa las manos a la cabeza por los materiales modernos que se han empleado en la restauración de ese edificio v lo excesiva que ha sido la intervención. No es únicamente que, según denuncian los sindicatos, las obras de reparación del Teatro Grande se hayan disparado hasta un 40% del presupuesto inicial, desatando las sospechas de corrupción. De hecho, una investigación judicial esta indagando si hubo chanchullos varios con los materiales y los métodos con los que se llevaron a cabo esos trabajos durante el año, basta junio pasado, que Marcello Fiori fue el comisario especial de Protección Civil para Pompeya.
Pero, por si todo eso no bastase, la zona arqueológica esta desde hace seis meses sin nadie al frente. Y el Unico candidato cuyo nombre suena para el cargo, Angelo Maria Ardovino, esta siendo investigado por la fiscalía de Salerno por un presunto delito de corrupción. Ante esta situación, no es de extranar que buena parte de la prensa italiana se haya lanzado a la yugular del ministro de Cultura, Sandro Bondi, como responsable final del desastre que se esta escenificando en Pompeya. «Degradacion y derroches: Pompeya, sin gufa desde hace seis meses», titulaba un demoledor articulo a toda pagina que publicó el domingo La Repubblica. Y ayer el Corriere della Sera dedicaba al asunto su editorial de portada, bajo el título La humillación de Pompeya.
Guzzo: a Pompei uomini di cultura
Carlo Franco - Corriere del Mezzogiorno
«Basta con i commissari che vengono da altri mondi, Pompei ha bisogno di tornare alla sua normalità, cioè alla cultura. Oggi valgono altre regole e i risultati si vedono». La voce severa e ammonitrice è di Pietro Giovanni Guzzo, il soprintendente che venne mandato a casa il 31 agosto del 2009, due mesi dopo aver ricevuto dall'Accademia dei Lincei un premio per il lavoro svolto a Pompei. Da allora è iniziato un ciclo nuovo che avrebbe dovuto favorire la «rinascita» di Pompei, annunciata dal premier Berlusconi e rivendicata a più riprese dal ministro Bondi. Gli obiettivi raggiunti, però, secondo Guzzo, che continua a subire molte critiche, non sono stati pari ai soldi profusi e in più si è assistito al varo di una sorta di Disneyland pompeiana che ha avuto il suo punto più alto nella casa di Giulio Polibio poi interessata dal crollo di una trave.
In questo lasso di tempo Guzzo si è tenuto in disparte, ma ora ha deciso di non sottrarsi alle domande del giornalista. La sua ricetta è drammaticamente semplice: «A Pompei serve un soprintendente che venga dal mondo culturale, che sia di ruolo ordinario ma abbia gli stessi poteri attribuiti al commissario». Sembra facile, ma non lo è come testimoniano le adesioni straripanti comparse in questi giorni sul sito «Stop killing Pompei ruins». Nel mondo si piange il degrado irreversibile del sito archeologico più amato ma da noi si continua a mostrare indifferenza e a ripetere che tutto va bene madama la marchesa. Ma non la pensa allo stesso modo anche una guida che non va a caccia del turista, ma è inserita in un circuito che lavora alla luce del sole: «Normalità — sostiene Franco — vuole dire curare la manutenzione di ogni giorno, servono meno muratori e più restauratori accreditati, meno puntelli (ci sono ancora quelli del terremoto di 30 anni fa), meno chiodi a pressione che bucano pareti provatissime, meno insegne in puro stile californiano e servizi più curati di quelli fatti recentemente».
Luigi Necco, freschissimo responsabile del servizio cultura del Pd provinciale, è più tecnico ma ugualmente incisivo: «Quando c'erano i soldi hanno fatto il Teatro grande che era funzionale al progetto di delegare alla protezione civile la gestione della cultura e dello spettacolo, ma ora i nodi vengono al pettine. Ed è giusto deplorare l'eccesso di servizi aggiuntivi che filano lungo binari più scorrevoli». Ma contro questa tesi si scaglia la senatrice del Pdl Diana De Feo che difende, al contrario, i risultati della gestione commissariale. E ora ritorniamo nella città degli scavi. Ieri è stato il primo giorno di lavoro del nuovo soprintendente, la signora Jeannette Papadopoulos, ma l'attesa di novità è andata delusa perché il funzionario si è barricata nel suo ufficio e ha detto che incontrerà i giornalisti solo tra qualche giorno.
Speriamo bene, anche se è arduo convincersi che un solo soprintendente possa gestire un'area archeologica che va da Sorrento a Cuma passando per le isole. Guzzo dice che non è possibile («Bisogna rinvigorire Pompei e riorganizzare il Museo Archeologico di Napoli che deve essere il terminale del territorio culturale») e Necco rincara la cose: «Basta prendersi in giro, servono due Soprintendenti». Entriamo nella città degli scavi dalla porta Marina e il primo impatto dolente lo subiamo al cancello della casa del Poeta tragico dove c'è il famoso mosaico del «Cave canem» fatto comporre dal proprietario. È pericolosamente inclinato, alcune tessere sono saltate e i turisti che hanno occhi per vedere e sensibilità per capire restano esterefatti anche perché passano in una zona tutta transennata nella quale s'impatta in una serie di puntelli di ferro che con il brutto tempo si sono pericolosamente arrugginiti. Pare che resistono dal terremoto dell'80. Un altro scandalo è la chiusura delle Terme Suburbane.
La chiusura dura da otto anni — dice sempre Franco — e il turista che ha voglia di immergersi nell'atmosfera della Pompei prima della distruzione viene tolto un contributo fondamentale». A conti fatti l'unico intervento ineccepibile è il percorso per i portatori di handicap. Nonostante tutto, però, i turisti sono sempre lì a dimostrare l'eccezionalità del sito. In un martedì feriale, senza crociere in giro per il golfo, ieri si contavano a migliaia e avrebbero meritato migliore sorte. Pompei, ad esempio, è uno dei pochi siti al mondo dove si fa ancora la fila per il biglietto d'ingresso e anche quei pochi che riescono a comprare on line il ticket sono tenuti a mettersi in riga per ritirarlo.
Capita anche questo e Pietro Giovanni Guzzo ha una spiegazione che convince: «L'obiettivo che mi ero proposto era aprire Pompei e gli altri siti vesuviani al mondo, avevamo stretto un rapporto proficuo ad Ercolano con la Fondazione Packard e altrettanto potremmo fare ora con la postazione dell'Ermitage di San Pietroburgo che si è insediata a Stabiae. Questa è la strada, riprendiamola». Con lei soprintendente? «No, facciamo largo ai giovani, io posso mettere a disposizione, se serve, la mia esperienza».
Pompei. Restauri infiniti e costosi. Chiuso il gioiello dei Vettii
Alessandra Arachi - Corriere della Sera
Negli scavi di Pompei non c'è bisogno di andare a caccia di scandali lungo tutti i sessantacinque ettari di beni archeologici a cielo aperto, patrimonio dell'Umanità. Per deprimersi è sufficiente fare come un turista pigro. Girare appena poche centinaia di metri attorno al Foro. E’ il posto che è proprio all'incrocio degli assi principali del nucleo originale, il Foro. Il fulcro della città antica. Il perno della folla dei turisti, cinquemila ogni giorno, in media. La desolazione, tuttavia, assale già all'ingresso delle rovine. Non soltanto per le toilette degne di un campo di concentramento. O per le guide turistiche più o meno autorizzate che ti vengono incontro a frotte, con ogni lingua conosciuta. E’ che appena arrivi, la guida cartacea ti sbandiera come prima visita la bellezza delle Terme. Inutilmente. Sono chiuse, da chissà più quanto tempo. Come l'Antiquarium, mai aperto per ospitare le migliaia di reperti archeologici prigionieri e impolverati dentro i Granai del Foro. Da sempre.
I turisti si accalcano neanche fossero mosche attorno al miele pur di rubare foto di statue o di capitelli o di chissà che ben di dio è custodito dentro le cassette di plastica, lì all'interno di quei Granai chiusi con sbarre arrugginite. I cani randagi (che in tanti continuano ad aggirarsi indisturbati per le rovine antiche) amano fare la pipì sopra quelle sbarre. Camminare attorno al Foro per crederci. Le strade antiche sbarrate senza alcun cartello che spiega il perché. Palizzate divelte. Cumuli di calcinacci dentro botteghe mai restaurate. Uno degli zuccherini del giro turistico (versione pigra) è senza dubbio il tempio di Apollo. Qui lo stato di degrado non è, tanto e soltanto, una questione di etica o di decoro.
C'è un problema serio di sicurezza. Basta alzare gli occhi sotto le volte per capire. Oppure guardare le colonne che si sgretolano, pezzo dopo pezzo. Di solito cadono in terra pezzettini piccoli di quelle colonne. Ma chi può impedire che si stacchi un lastrone per intero? Addosso a qualche turista inerme? Continuiamo a camminare. Adesso in direzione delle porte di Ercolano. Vicolo delle Terme. Vicolo della Follonica. Sono tante, ancora, le case chiuse, sbarrate con i lucchetti. Nella Casa del Poeta Tragico c'è il famoso mosaico del Cave Canem. Ci sarebbe. Perché non si può vedere, visto che anche questa casa (inutilmente contrassegnata dal numero 22 dell'audio guida) è chiusa. Ma andiamo avanti. Fiduciosi verso la Casa dei Vettii: era stato annunciato un grande restauro. La guida cartacea ci spiega che i Vettii erano ricchi e liberti. Ci invoglia a guardare le pitture d'ingresso che evidenziano auspici di prosperità. E dove spicca la figura di Priapo, dio della fertilità. E una pruderie morbosa questa figura mitologica con il suo grande membro posato sopra il piatto di una bilancia a far da contrappeso al denaro. Ma arrivati all'ingresso della Casa dei Vettii, la delusione deborda nella rabbia. Non soltanto non si può ammirare nemmeno l'ombra di Priapo. Ma l'unico denaro che possiamo vedere è quello scritto in cifre sul cartello all'ingresso che segnala il restauro: 548 mila euro per dei lavori inaugurati il 27 agosto del 2008 che avrebbero dovuto essere terminati nel 2009.
Non è dato sapere in quale mese del 2009 avrebbero dovuto chiudere il cantiere: sul cartello dei lavori, qualcuno sopra la data ci ha voluto scrivere «vergogna» con una penna a biro. Comunque siamo nel 2010, e anche verso la fine, e della Casa dei Vettii ci rimane soltanto la veduta di una infinita montagna di impalcature dove non c'è segno di un operaio o di un qualsiasi qualcosa che dia il senso di alcun lavoro in corso. Quando eravamo passati davanti alla casa del Naviglio di Zefiro e Flora (chiusa) un operaio l'avevamo visto: si aggirava lungo le impalcature senza alcuna misura di sicurezza. E senza alcuna preoccupazione. Andiamo avanti. Continuiamo a girare. La via Stabiana è lunga Adesso osiamo.
Mettiamo da parte la pigrizia, andiamo oltre la sequela di botteghe senza arte né parte, case dagli intonaci che vengono giù come le gocce di pioggia, e allunghiamo il passo. Dritti per dritti lungo la bella (e miracolosamente rimasta originale) via Stabiana si arriva al Teatro Grande. Ci aveva fatto soffrire il Teatro Grande di Pompei in una gita di fine primavera Per i lavori di restauro erano stati usati, senza pudore, martelli pneumatici e ruspe, scavatrici, betoniere. Cavi elettrici che bucavano le colonne. Turisti increduli davanti a tanto scempio. Il Teatro Grande è stato restaurato e inaugurato. Ricostruito ex novo con blocchetti di tufo moderno. In tanti esperti in quei giorni avevano gridato allo scandalo per un bene trattato come fosse il cantiere di una cava di marmo. Ma alle obiezioni era stato replicato che il tufo era reversibile. Che sarebbe stato tolto, prima o poi.
Corriamo a vedere il Teatro Grande. Ovviamente i blocchetti di tufo sono ancora tutti lì. Ha qualche senso logico spendere milioni di euro per mettere quei blocchetti di tufo e altrettanti soldi per toglierli, poi, nel giro di qualche settimana, terminata la stagione estiva degli spettacoli? Le casette di lamiera allestite per i camerini, però, almeno quelle sarebbe stato possibile portarle via. Sottrarle alla vista. Come i tubi in ferro accatastati lì, a mucchi. A che cosa servono? Torniamo indietro al Foro, mesti. Vicino ai Granai c'è un cagnone nero che ci viene incontro, ci lecca la punta della scarpa, si avvia a fare i suoi bisogni nel luogo deputato. Sentiamo la stessa esigenza. E accanto ai Granai abbiamo la prima buona notizia della visita: nella caffetteria nuova le toilette sono pulite e ordinate. Si può fare la pipì illudendosi di essere in un posto civile.
Oltre la «porcata», testo d’intesa tra Pd e finiani
di Simone Collini
Doppio turno alla francese Il maggioritario che premia le coalizioni Maggioritario di collegio a due turni. Viene eletto deputato chi supera il 50%, altrimenti vanno al ballottaggio tutti i candidati che superano il 12,5% degli aventi diritto.
Gli esperti di sistemi di voto di Pd,Udc e Fli hanno messo a punto un primo testo di riforma: via liste bloccate e premio di maggioranza, sì a collegi uninominali, soglia di sbarramento e indicazione del candidato premier.
Via il premio di maggioranza e le liste bloccate, soglia di sbarramento al 3%, possibilità di indicare il candidato premier, collegi uninominali e niente preferenze. Dopo che nei giorni scorsi Pier Luigi Bersani, Pier Ferdinando Casini e Giancarlo Fini hanno aperto i canali di dialogo, gli esperti di legge elettorale del Pd, dell’Udc e di Futuro e libertà hanno iniziato il confronto per individuare un modello di voto condiviso.
Una prima intesa su alcuni principi di fondo è stata già raggiunta, e la bozza che sta venendo fuori è rinviabile al sistema tedesco, però modificato introducendo elementi che ne rafforzerebbero l’aspetto bipolare. Il Pd ha approvato all’ultima Assemblea nazionale un documento in cui si sostiene il doppio turno alla francese, ma anche i più strenui difensori del modello d’Oltralpe - veltroniani in primis - difficilmente si metterebbero di traverso qualora si arrivasse a un’intesa maggioritaria in Parlamento. E anche il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, che nelle scorse settimane si era detto contrario a operazioni e modelli che potrebbero generare confusione nell’elettorato di centrosinistra, ora garantisce la sua disponibilità: «Si può anche discutere di un sistema proporzionale alla tedesca, a patto che sia chiara agli elettori l’indicazione di chi deve governare e ci sia uno sbarramento per evitare la frammentazione». Segnali positivi insomma non mancano, ma finché non ci sarà il via libera definitivo a un testo che possa incassare la maggioranza dei voti in Parlamento (si è visto dal voto di fiducia che i finiani alla Camera sono indispensabili per tenere in piedi il governo, mentre al Senato Pdl e Lega sono sembrati autosufficienti) l’operazione dell’asse anti-porcellum proseguirà lontano dai riflettori.
BERLUSCONI PREOCCUPATO
Berlusconi vede infatti come il fumo negli occhi l’ipotesi di una maggioranza alternativa che possa approvare una nuova legge elettorale: perché il porcellum, stando agli ultimi sondaggi, gli garantirebbe di prendere il 55% dei seggi alla Camera con un Pdl che oscilla tra il 28 e il 30% (più complicata la situazione al Senato, «per colpa di Ciampi che impose la “regionalizzazione” del premio», attacca il deputato del Pdl Marco Marsilio); e perché di fronte a un numero di parlamentari sufficienti a cancellare il porcellum, Berlusconi avrebbe poco da gridare all’«eversione» (come ha fatto nei confronti di Scalfaro) se ci sarà una crisi di governo e il Quirinale avvierà le consultazioni per verificare se vi sia in Parlamento una maggioranza alternativa, prima di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni.
È proprio quello che temono Pdl e Lega. Non a caso appena il finiano Italo Bocchino si è detto convinto che esista «già una maggioranza alternativa, tanto alla Camera quanto al Senato, in grado di ritrovarsi sulla modifica della legge elettorale» è partito il fuoco di fila dei berluscones: «trasformismo parlamentare», ha tuonato Sandro Bondi; «mille trabocchetti», vede Fabrizio Cicchitto; «mettersi a manovrare su una legge elettorale per favorire chi è perdente sarebbe un errore molto grave», ha sentenziato Gasparri; e il leghista Roberto Castelli: «Maggioranza alternativa è il termine istituzionale per indicare il termine mediatico di ribaltone». Attacchi che non preoccupano Fini, convinto com’è che il «vergognoso» porcellum sia da archiviare: «La sovranità appartiene al popolo, e questo significa che gli elettori devono avere il diritto non solo di scegliere il presidente del Consigli ma i loro parlamentari ». Concetto che il presidente della Camera va ripetendo, in piena sintonia con Casini («evitiamo che quattro gerarchi di partito impongano i parlamentari agli elettori») e con Bersani.
Rispondendo all’ironia del ministro leghista Maroni sull’«ipotesi strampalata» che ci possa essere un governo tecnico che vada da Fini a Di Pietro per riformare la legge elettorale, Bersani ha fatto notare che «non si sta parlando di maggioranza di governo, ma di regole», che come tali vanno discusse nelle aule parlamentari: «Se c’è una maggioranza che dice che la legge è intollerabile allora si va in Parlamento e si vota. Da sempre diciamo che abbiamo una legge elettorale vergognosa, che consente la nomina dei parlamentari, la subordinazione della maggioranza al governo, e che ha portato e può portare ancora un sacco di guai al Paese. E non da oggi siamo disponibili a concordare una nuova legge elettorale. Perché la legge la si fa in Parlamento, non con le maggioranze e le minoranze ma con chi è disposto a convergere».
Maggioranza alternativa al Senato il rebus dei voti.
Si è aperta la caccia ai «responsabili nazionali»
di Natalia Lombardo
Sarà pure la mossa di una partita a scacchi, ma da fronte finiano mostrano una certa sicurezza verso un possibile governo di transizione: «Cambiare la legge elettorale è giusto, e su questo ci potrebbe essere una maggioranza molto ampia», assicura Benedetto Della Vedova; per il capogruppo Bocchino «esiste già, sia alla Camera che al Senato» e pesca anche nel Pdl. Convinti che la Lega stia «giocando in proprio per far cadere Berlusconi», i futuristi tengono in caldo le new entry e aperto il dialogo col Pd sulla legge elettorale.
Nel frattempo sembra che Gianni Letta stia cercando di convincere i duellanti, Berlusconi e Fini, a incontrarsi faccia a faccia, cosa non facile. Maggioranza diversa, nuovi acquisti per Fli? «Suggestioni», è la sibillina risposta di un finiano doc. Come quella che vede a Palazzo Madama, dove la maggioranza di governo per ora è ferrea (174 sì alla fiducia), un drappello di senatori pronto a lasciare il Pdl per entrare in Futuro e Libertà. Senatori che Berlusconi starebbe cercando di «blindare» con posti da sottosegretario e viceministro (uno lo lascia Romani).
Molti peones «farebbero di tutto per non andare a casa temendo di non essere ricandidati», ammettono nel Pdl, tanto più che Silvio vuole «facce nuove» e che la Lega farà man bassa al Nord. «Ci sono dieci nomi al Senato, e dieci alla Camera, per ora sono “coperti”», assicura un deputato ex Fi. E, spostando sul pallottoliere anche solo tre oquattro senatori dal Pdl a Fli varrebbero il doppio, cambiando la maggioranza. Il drappello di «responsabili», come li definisce un finiano, fa riferimento a Beppe Pisanu. che aspetta solo il momento giusto per attuare lo «strappo» e passare con i «futuristi ». Un passo da compiere come grande segno di «responsabilità nazionale», appunto.
LA CARTA PISANU PREMIER
Il nome dell’ex ministro dell’Interno, un forzista moderato nato nella Dc, in rotta da tempo con Berlusconi (che lo ha accusato più volte di non aver vigilato nella notte elettorale del 2006) sarebbe la carta tenuta in caldo dai finiani come presidente del Consiglio di questo governo di «responsabilità nazionale» che cambi la legge elettorale e cancelli la «porcata».
In Parlamento è addirittura nata la «Associazione per il ritorno all’uninominale» che domani esordirà con un’assemblea; molti i nomi del Pdl: Salvo Fleres, Domenico Gramazio, Antonio Martino, Francesco Nucara, Mario Pepe, Salvatore Tatarella e Enrico La Loggia, nemici del «porcellum». Pronto a un’intesa sulla legge elettorale è Raffaele Lombardo, leader dell’Mpa: «Certamente c'è chi, pur di non votare con questa legge elettorale, farebbe i salti mortali. Io sono fra questi; poi vedremo se ci riusciremo».
A Palazzo Madama una maggioranza «diversa» non è una chimera. Se si unissero i voti dell’opposizione (112 del Pd, 12 Idv, 13 Udc - senza Cuffaro) con i 10 di Fli, i 3 Mpa, 3 dell’Api, il conto è 153 senza i senatori a vita. Con qualche travaso i numeri potrebbero esserci, ma il rischio è che nasca una maggioranza «prodizzata» sul filo di un voto. Una prospettiva «terrificante» per il leghista Maroni.
«La cricca, con il suo affarismo amorale, ha abitato in Campania prima di estendere i suoi tentacoli» si legge nell'introduzione al libro La peste. La mia battaglia contro i rifiuti della politica italiana, autori Nello Trocchia e Tommaso Sodano (Rizzoli; 18,50 euro; 250 pp), in libreria da questa settimana. Giornalista il primo, politico il secondo, eletto al Senato, Sodano ha fatto parte della commissione d'inchiesta sulle Ecomafie ed è stato poi presidente della Commissione ambiente, dalle sue denunce è partita l'inchiesta che ha portato al rinvio a giudizio dell'ex governatore Antonio Bassolino, della famiglia Romiti e dell'Impregilo (azienda costruttrice dell'inceneritore di Acerra). Oggi è consigliere provinciale per la Federazione della Sinistra e dai banchi dell'opposizione continua a seguire la vicenda rifiuti da vicino, visto che proprio l'ente di piazza Matteotti deve gestirne il ciclo.
Sodano, non era finita la crisi?
Il 26 marzo dell'anno scorso, Berlusconi allestisce un set hollywoodiano per l'inaugurazione del termovalorizzatore, con tanto di flash mentre preme il tasto d'avvio. «È un gioiello, quelli dell'Impregilo sono degli eroi, problema finito» ripeteva davanti alle telecamere. A parte il fatto che l'inquinatissima Acerra era il posto meno adatto, l'impianto è stato avviato in violazione della normativa italiana ed europea. La Commissione Ambiente aveva chiesto 27 adeguamenti, lo inaugurarono con un ordinanza in deroga. Mancavano cose come il piano per lo smaltimento delle ceneri, i controlli al camino e il rilevamento della diossina. A febbraio di quest'anno ci doveva essere il collaudo. A giugno sono andato in Procura a chiederne il sequestro. Se vuoi visionare i documenti del collaudo, alla A2A ti rispondono che non si trovano. A settembre poi si è fermato del tutto. È un impianto obsoleto che doveva bruciare cdr di qualità, invece grazie alle deroghe brucia talquale, le sostanze organiche miscelate alla plastica generano fumi acidi che hanno corroso i refrattari della caldaia. Su poco più di 500 giorni di funzionamento, le centraline per le polveri sottili hanno registrato 250 sforamenti. E la Impregilo pretende anche 350 milioni di euro per cedere l'impianto alla regione.
A Terzigno si rischia il disastro con un secondo sversatoio
La prima volta che se ne discusse ero senatore, ci sono le intercettazione del braccio destro di Bertolaso, Marta Di Gennaro, che parla con il direttore generale del ministero dell'Ambiante, Gianfranco Mascazzini, ridono delle mie denunce, lui spiega di essere alla ricerca di una polverina magica, tipo la calce, che mischiata con i rifiuti li rende meno puzzolente, in modo da sversare nel parco nazionale del Vesuvio. In Europa solo il 20, 25% dell'immondizia va in discarica, a Napoli e Caserta la differenziata non arriva al 20 e dovrebbe salire al 60% entro il 2012. Nel frattempo non hanno aperto i siti di compostaggio per la frazione umida, gli impianti di vagliatura non sono a norma, nessun accordo con la grande distribuzione, con i mercati, i cimiteri per abbattere la produzione di immondizia.
La provincia ha un'idea di come gestire il futuro ciclo dei rifiuti?
Dicono di avere un piano che, però, parte dall'esistente e cioè dalle discariche, dagli impianti di tritovagliatura e da Acerra, a cui aggiungere un nuovo inceneritore a Giugliano, dedicato alla montagna di ecoballe, e a Napoli nella zona di Ponticelli, dove c'è già una centrale a turbogas. Nessuno dei due luoghi, altamente inquinati, verrà bonificato, a Napoli est poi dovevano fare il parco urbano, ripristinare la linea di costa e restituire il mare alla città... e invece dovranno cercare altre discariche per smaltire i rifiuti speciali prodotti da tre inceneritori.
Assalti agli automezzi, bombe carta, secondo te chi sono gli autori?
I politici di destra e sinistra per oltre dieci anni hanno utilizzato i disoccupati, i corsisti, gli Lsu come riserva elettorale, in cambio sono stati assunti nei consorzi di bacino di Napoli e Caserta, pagati spesso per non fare nulla, il lavoro veniva appaltato a ditte esterne. Alcuni di loro sono stati i primi a denunciare questa situazione. Con il decreto di fine emergenza molti rimarranno senza lavoro, questo genera reazioni violente. Le società provinciali devono mettere ordine nella materia, valorizzando dove possibile le risorse interne.
L'IDEA DELLA PROVINCIA
Riaprire discariche dismesse.
Allarme degli ecologisti
Dodici bottiglie molotov miracolosamente affiorate da un vigneto di Terzigno, alla vigilia della visita del premier nei paesi vesuviani. Sindaci che, nell'attesa dell'avvento, scrivono al papa. Il ciclo rifiuti campano sembra definitivamente sfuggire alla razionalità umana.
Ieri durante la seduta del consiglio provinciale il presidente Luigi Cesaro ha fatto il punto della situazione. La prima notizia è che per non aprire cava Vitiello si dovranno ampliare altre discariche già esistenti o dismesse, «con una gestione degli impianti post mortem». E già così le popolazioni, a cominciare da quella di Chiaiano, hanno di che terrorizzarsi. Ieri i Verdi hanno fatto un sopralluogo in località ex cava Ranieri, nelle campagne di Terzigno: una discarica dismessa, utilizzata nel 2000 per fronteggiare l'emergenza.
«Questo, che ora è un lago di spazzatura, ebbe nel 2007 un finanziamento per la bonifica da parte del ministero dell'Ambiente e della provincia di Napoli» ha raccontato Francesco Emilio Borrelli. Ampio circa 500 metri quadrati, l'invaso, dopo la saturazione, fu coperto da un telone che, a causa delle piogge, è collassato trasformandosi in un lago artificiale di liquami maleodoranti colmo d'immondizia.
Nel suo intervento Cesaro ha illustrato le direttive del nuovo piano provinciale: 5 impianti di compostaggio, per tre già decisa la destinazione (Pomigliano d'Arco, Napoli Est ed Afragola), 9 milioni di euro ai comuni per 34 isole ecologiche e 7 milioni di euro per l'acquisto di automezzi e attrezzature. A Teverna del re, a Giugliano, l'impianto di incenerimento dedicato alla montagna di ecoballe non a norma prodotte dalla Impregilo.
La provincia, però, non è pronta a varare il piano industriale delle SapNa, per cui ci vorrà una proroga di un anno con annesso allargamento dei cordoni della borsa, già benedetto da Guido Bertolaso a settembre, altrimenti il piano rimane lettera morta. Infine, la colpa della crisi è dei comuni, soggetto sottointeso il sindaco di Napoli, come da direttive impartite dal premier.
«Dal centrodestra arrivano solo mistificazioni - dice il capogruppo provinciale del Pd Giuseppe Capasso -. Dimenticano che in circa 14 comuni della provincia amministrati dal centrodestra, per oltre 1 milione di abitanti, e quindi più grande della città di Napoli, la raccolta differenziata è inferiore al 20%. Il presidente Cesaro si è superato quando ha affermato che è possibile evitare l'apertura della Cava Vitiello continuando a riempire di monnezza il vulcano più famoso del mondo».
Se il sindaco di Napoli preferisce non replica a Berlusconi, l'amministratore delegato di Asìa, Daniele Fortini, ribatte: «La città è pulita: la crisi, durata 48 ore, per ora è finita. La discarica di Chiaiano ha una capienza di circa 160 mila tonnellate, dipende dalla mole dei conferimenti la durata residua dell'impianto, che a oggi smaltisce 850 tonnellate. Stesso discorso per Terzigno: mancano circa 200 mila tonnellate all'esaurimento dell'impianto. Ma i conferimenti qui raggiungono le 1800 tonnellate giornaliere».
Non passa giorno senza che qualcuno ci ricordi di come l'Italia custodisca la maggior parte dei beni artistici e archeologici del pianeta. Ma meritiamo davvero un simile onore? Il dubbio sorge, osservando quello che accade a Pompei. Da tempo il Corriere del Mezzogiorno sta documentando lo scempio di alcuni «restauri» a base di colate di cemento e l'incuria che regna nell'area immensa degli scavi. Con la protesta montante attraverso i social network, come sta a dimostrare il record di adesioni a una pagina di Facebook che si chiama «Stop killing Pompei ruins». Al punto che viene da chiedersi: ma se quel tesoro ce l'avessero gli americani, oppure i francesi o i giapponesi, lo tratterebbero allo stesso modo? Il fatto è che quell'area archeologica unica al mondo è purtroppo il simbolo di tutte le sciatterie e le inefficienze di un Paese che ha smarrito il buon senso e non riesce più a ritrovarlo. O forse semplicemente non vuole, affetto da una particolare forma di masochismo.
Che però ha responsabili ben precisi. «Le istituzioni preposte alla tutela dei beni culturali sono costantemente umiliate da interessi politici ed economici del tutto privi di attenzione per la salvaguardia di quella che è la maggiore ricchezza del nostro Paese» ha denunciato qualche tempo fa Italia Nostra. Ed è proprio difficile dargli torto: quando proprio a Pompe. l'indifferenza della politica si tocca con mano. Per due anni, con la motivazione del degrado in cui versa l'area, hanno spedito lì il commissario della solita Protezione civile Con il risultato di «commissariare» nei fatti anche la Sovrintendenza. E già questo non è normale (che c'entra la Protezione civile con gli scavi archeologici?). Ma ancora meno normale è il fatto che da mesi, ormai, Pompei sia senza una guida. A giugno il commissario è scaduto. Mentre a ottobre il sovrintendente ancora non c'è. O meglio, il posto è tenuto in caldo da un reggente in attesa del titolare.
Che però il ministero dei Beni culturali non nomina. Perfino inutile interrogarsi sui motivi di questa paralisi. Viene addirittura il sospetto che nella stanza dei bottoni nessuno si renda conto di avere fra le mani una risorsa economica enorme in una regione che ha disperato bisogno di lavoro e sviluppo. Per dare un'idea dell'attenzione riservata a questa materia basterebbe ricordare che dal 2004 a oggi il governo non è stato nemmeno in grado di mettere in piedi un portale nazionale di promozione turistica degno di tal nome. Nonostante i milioni (non pochi) spesi.
Per verificare, fatevi un giretto su www.italia.it, dove la pratica pompeiana è liquidata in 66 parole, senza nemmeno una foto: «Per l'eccezionalità dei reperti e il loro stato di conservazione, l'Unesco ha posto sotto la sua tutela l'Area archeologica di Pompei ed Ercolano, che nel 79 d.C. furono completamente distrutte dal Vesuvio. La lava vulcanica segnò la loro distruzione ma, solidificandosi, la stessa lava che le distrusse divenne un'eccezionale "protezione" che ha preservato gli straordinari reperti, riportati alla luce molti secoli dopo». Stop. E poi c'è chi si lamenta che con il 70% delle bellezze artistiche e naturali di tutto il mondo continuiamo a scivolare in basso nelle classifiche internazionali del turismo...
A3, scandalo infinito. Il cantiere dimezzato è pagato a peso d’oro
Quando si dice il paradosso. Nel giorno - giovedì scorso - in cui il presidente del consiglio Silvio Berlusconi annuncia alla Camera che «il raddoppio dell’A3 sarà completato entro il 2013» e il governo si attrezza a introdurre il pedaggio, in redazione a La Stampa arriva una busta gialla. Contiene un documento anonimo che ripercorre l’ennesima vicenda della Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada in offerta speciale dove si paga tre per comprare due. La lettera fa riferimento a documenti e notizie pubblici di cui non è difficile trovare riscontro.
Così si scopre, tanto per cominciare, che la Salerno-Reggio non sarà completata mai. L’autostrada si fermerà a Campo Calabro, località che si affaccia sullo Stretto un po’ prima prima del capoluogo. Da qui dovrebbe spiccare il salto il ponte che (forse) unirà Calabria e Sicilia. Una decina di chilometri più corta, per gli amici sarà la Salerno-Campo. L’ultimo tratto dell’appalto del titanico raddoppio - qualcuno preferisce ammodernamento - dell’A3 Salerno-Reggio Calabria è stato tagliato in due. Dei venti chilometri tra Scilla e Reggio se ne raddoppieranno poco più di metà. Il resto è stato «stralciato», e con il danno c’è la beffa. Stralcio per stralcio, diresti, si risparmieranno un sacco di soldi. Non qui: l’appalto programmava una spesa di 634 milioni per 20 chilometri.
Ma all’annuncio con cui l’allora sindaco di Reggio Giuseppe Scopelliti (oggi guida la Regione) ha illustrato lo stralcio chiamando in causa il presidente dell’Anas Vincenzo Ciucci («abbiamo deciso insieme un restyling»), è seguito l’abituale e prevedibilissimo contenzioso tra l’Anas e il general contractor, il gruppo che gestisce l’appalto. È seguito un accordo: i 634 milioni della commessa sono stati ridotti a 415, ma l’appaltatore ha ottenuuto un indennizzo di 91 milioni. Totale 506 milioni, che non è metà di 634 ma il 79%, per fare mezzo lavoro. Come dire che dieci diviso due fa quasi otto.
Un tempo i costi - e i profitti - dei lavori pubblici crescevano con l’avanzamento lavori. Si tirava tardi per ottenere una ridiscussione e scoprire che i prezzi erano saliti. Poi si aggiornava la faccenda a suon di aumenti. Ora la legge ha introdotto controlli più stretti. Nello stralcio non c’è nulla di illegittimo, almeno in superficie: l’Anas ha accettato l’accordo e probabilmente si fa peccato a riflettere sul fatto che il secondo tratto del macrolotto 6 è molto più complicato - e costoso - da realizzare del primo. Chiunque voglia godersi il viaggio (mezz’ora tra andare e tornare in auto) vedrà che il percorso in questione attraversa l’area urbana di Reggio Calabria. È un ghirigoro di curve, gallerie, sopraelevate e svincoli che attraversa le case, galleggia sui campi da calcetto e le vie del passeggio, si infila nel porto all'altezza della dogana e sbatte nel molo da cui partono i traghetti per Messina. Allargare una strada come questa non è uno scherzo: nessun paragone con la prima parte del lavoro. Ma dieci diviso due fa sempre otto. Scopelliti ha giustificato lo stralcio spiegando che temeva di bloccare per anni il traffico nella parte nord della città.
Preferisce, ha detto, una tangenziale che sfili alle spalle dell’abitato e poi si ricongiunga con la statale 106 (che risale lo Ionio e corre fino a Taranto lungo la costa sud). Un lavoro da 1,8 miliardi di cui non s’è parlato che una volta, però c’è sempre un altro appalto in vista. Il primo cantiere aprì nel 1996, il rinnovo del gigante - gli inquirenti lo liquidano in una battuta amara come il «corpo del reato più lungo d’Italia» - è arrivato a costare 22 milioni al chilometro. Arresti e indagini non si contano. Non c’è da stupirsi se qualche amministratore calabrese ha suggerito di commissariare i lavori per dribblare una burocrazia pericolosa. Ancora meno c’è da stupirsi che non lo abbia ascoltato nessuno. Infine, mentre Berlusconi ricamava sul completamento alla Camera, in Commissione bilancio la maggioranza aveva appena stralciato (quando si dice il destino) finanziamenti per 145 milioni all’A3.
Mettiamoci in coda con pazienza, dieci diviso due fa ancora otto.
«Volevo seguire la legge
Mi hanno messo fuori»
L’auto arriva all’ingresso dell’hotel Excelsior, nel centro di Reggio, dirimpetto al Museo che ospiterà i Bronzi di Riace. L’autista fa cenno: salite. Non c’è tempo per i convenevoli, riparte subito per perdersi nel traffico cittadino. Ha fretta, ha fretta di raccontare la sua rabbia, la sua disperazione, la voglia di scappare. «La mia - esordisce - è la storia di un imprenditore che per rispettare le regole e lo Stato si trova fuori dal mercato. Mi sento straniero in terra straniera. Ho 30 anni, il nonno di mio padre fondò l’azienda. Abbiamo lavorato sempre nell’edilizia, adesso voglio gettare la spugna. Non sopporto più l’idea di vivere in una città indolente, che subisce torti e sopraffazioni e non reagisce. Sono stufo delle fiaccolate che non risolvono un bel niente. Sono stufo di quello scandalo infinito che è il raddoppio della Salerno Reggio Calabria, la nostra croce».
È uno sfogo disperato, che arriva il giorno dopo una bella retata di ’ndranghetisti, una settimana dopo una bella manifestazione cittadina contro le bombe contro la procura generale di Salvatore Di Landro. Dire che nulla è cambiato, che Reggio è sempre la stessa è fare torto alla speranza di tanti giovani e all’impegno delle forze di polizia e della magistratura. E di questo, anche l’imprenditore senza speranze dà atto: «Ma quello che mi fa essere pessimista è la solitudine della gente perbene. Non c’è una massa critica, una capacità di indignarsi, di fare squadra, di reagire collettivamente allo strapotere di cosche e potentati. Nessuno si ribella. Ci vorrebbe la rivoluzione delle coscienze». Il nostro imprenditore si materializza la settimana scorsa, con una telefonata al centralino del giornale. Vuole raccontare la sua sofferenza: «Sono diventato lo sponsor di chi vuole emigrare. Ieri partivano le valigie di cartone per andare in Svizzera, nelle miniere come quella di Marcinelle in Belgio. Oggi, laureati e ’ndranghetisti. I primi a cercare un lavoro, i secondi a moltiplicare i loro affari criminali. E qui hanno trovato un pozzo senza fondo le grandi imprese del Nord, che vengono a patti con la mafia e divorano i fondi pubblici». Sopravvive, il nostro imprenditore.
Cinque dipendenti, un parcheggio di mezzi distrutti e incendiati. Briciole di quella torta immensa che è l’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Parla mentre l’auto sfreccia per Archi, cammina a passo di lumaca per il lungomare, e poi Sbarre - ricordate il quartiere della rivolta di Ciccio Franco, negli Anni 70 di Reggio capoluogo? -, Ravagnese. Si allunga fino a Melito Porto Salvo, le cattedrali nel deserto, Saline Joniche (un miraggio del pacchetto Colombo post rivolta ’70). Un percorso che è un insieme di vie Crucis, di territori sfigurati dall’abusivismo edilizio, di pareti o asfalti testimoni di vendette mafiose, di corpi straziati da autobombe o da lupare.
Reggio è il passato e il presente. L’imprenditore accosta. Sfoglia un giornale. L’elenco degli arrestati: «C’è un cognome, Pitasi, che è lo stesso che trovate in un cantiere della Salerno-Reggio, una ditta associata con una impresa di Milano. Nonostante i Protocolli d’intesa, i Patti per la sicurezza, le ditte della ’ndrangheta continuano a lavorare». Se non fosse che per tutto il tempo l’imprenditore si dispera e impreca contro la ’ndrangheta e il malaffare, quella frase che butta così nel piatto della confessione, suona come nota stonata: «La verità è che se non ci fosse stata la magistratura, a quest’ora la Salerno-Reggio Calabria sarebbe stata ultimata».
Considerazione che lascia perplessi. «Non fraintendetemi. Voglio dire che vivaddio che ci sono le inchieste giudiziarie che stanano le imprese mafiose, anche pagando il prezzo del ritardo dei lavori. L’angoscia è che siamo in trincea. Qui si combatte una guerra tutti i giorni. Ogni giorno qui muore la speranza. Una sofferenza indescrivibile».
Il pizzo ambientale
Alle cosche il 3% degli appalti
All’inizio, sull’affare dell’autostrada, alle cosche era proprio andata male. In Calabria, a gestire subappalti, assunzioni e cantieri era arrivato dalle brume fredde di chissà dove a rappresentare la Asfalti Sintex Spa, che aveva vinto l'appalto dei lotti cosentini, «tale ing. Facchin, il quale - ricostruiscono i magistrati - non intendeva sottostare ad alcuna forma di estorsione». Un bel guaio per le 'ndrine. Ci furono i primi attentati, ma Facchin sempre lì: fermo come una roccia a dire di no. Nessuno saprà mai se alla fine avrebbe vinto lui o la ‘ndrangheta, che nelle fantasie nordico-romane è potentissima e, con geometrica precisione, vince sempre e comunque.
Non lo sapremo mai perché l’Asfalti Sintex affrontò la cosa con piglio determinato e risolutivo. Il gruppo, «prendendo atto della incapacità dell'ing. Facchin a gestire il rapporto tra imprenditori e cosche - recitano con involontaria ironia le carte - ed avendo la prioritaria esigenza di garantire la “tranquillità sui cantieri”, decise di sollevare dall'incarico l’ing. Facchin, sostituendolo con tale Angelo Spiga, romano».
Fu subito un’altra musica. Gli attentati? Un fastidioso ricordo. Le cosche passarono dalle bombe e gli incendi al lavoro «scegliendo quale proprio imprenditore di riferimento, che avrebbe cioè dovuto prendere in subappalto i lavori della detta società (l’Asfalti, ndr), tale Dino Posteraro, il quale … s’impegnò a garantire la riscossione, dalla Asfalti Sintex e in favore delle cosche, di una somma pari al 3% dell’importo del capitolato». Un trionfo delle virtù di Spiga sull'incapacità di Facchin.
Strada ormai tracciata. Spiga e Posteraro vantando «contatti politici in Roma, che avrebbero loro consentito di pilotare le assegnazioni dei lavori nei successivi lotti autostradali calabresi» organizzarono «una decina di riunioni notturne in contrada Bosco di Rosarno» per la continuazione degli affari. Bosco è nel cuore dei territori della mafia potentissima della Piana di Gioia Tauro dove inizia il Reggino. L’affare cresce. La costa splendida e tormentata obbliga a una fuga di opere d’arte: ponti, gallerie, costruzioni ardite.
L’Asfalti esce di scena. C’è il Consorzio Scilla, di Impregilo e Condotte, i due più potenti gruppi del paese; per intenderci, quelli che hanno vinto l’appalto miliardario del Ponte sullo Stretto. Alle riunioni di Bosco, con Spiga e Posteraro, c’è il boss cosentino Di Dieco (che poi si pentirà illuminando quei summit) che si porta dietro uno dei suoi killer di fiducia, perché non si sa mai; c’è soprattutto il gotha dei rappresentanti delle famiglie che dominano i territori del tratto reggino dell'autostrada: Pesce, Bollocco, le famiglie di Bagnara; «il signorino» dei Longo, poi ammazzato; gli Alvaro di Sinopoli, i Gallico di Palmi e via elencando.
Impregilo e Condotte non vogliono perder tempo. Non sono come l’Asfalti. Non ci provano neanche a mandar giù un ingegnere cocciuto e roccioso, uno col vizio assurdo dell’onestà come l’ingegnere Facchin. Secondo i magistrati le intercettazioni dei dirigenti del consorzio «dimostrano in maniera incontestabile la disponibilità del Contraente Generale operante sul V macrolotto (Condotte Spa e Impregilo Spa) a sottostare alla tassa ambientale, pari al 3% da corrispondere alle organizzazioni criminali». Tassa ambiente e non più estorsione, che suona male.
Spiega il pentito: se «un esponente criminale si rivolge alla ditta» gli dice «mi devi pagare l'estorsione ma se saliamo a Roma a parlare con un funzionario dell'Anas diciamo: l'impatto tassa ambientale». Scrupolosi, l’Asfalti, Impregilo, Condotte che pur di costruire l’autostrada ci rimettono il 3% girandolo alle cosche? In realtà, non è esattamente così. Il capo area del Consorzio Scilla Giovanni D'Alessandro «aveva spiegato, sempre all'ingegnere Sales della sede di Roma (di Condotte Spa, ndr), che per recuperare il 3% da stornare alle organizzazioni criminali, aveva studiato l'inserimento fittizio di un costo aggiuntivo. Per usare le parole dell’ingegnere D’Alessandro - spiegano i magistrati - questa nuova voce era stata denominata: «costo fittizio di stima di un 3% sui ricavi chiamato costo sicurezza Condotte-Impregilo». Un giro di fatture maggiorate per «ricavare un surplus finanziario, il cash flow appunto, per poi destinarlo alla tassa ambientale da versare alle cosche». Insomma, costi scaricati sull’Anas, cioè su tutti noi che, senza saperlo, abbiamo pagato la tassa sicurezza Condotte-Impregilo, quella messa dalla ‘ndrangheta e finita in una riga del bilancio del Consorzio Condotte-Impregilo.
Tempio dello shopping, paradiso del consumo todo modo. L’outlet è la terra promessa dello sconto. La vetrina del lusso democratico, dell’esclusività che non esclude.
Una medina del tempo libero nel senso più autentico del termine, quello di città oasi, di rifugio di mercanti, di location suggestiva. Queste cittadelle consacrate alle divinità del mercato sono la nuova Mecca del desiderio dove i pellegrini del look compiono il loro cammino rituale per ottenere la grazia di un guardaroba griffato senza doversi svenare. È la versione consumistica dell’indulgenza. E a concederla sono i capricciosi numi della domanda e dell’offerta.
Gli outlet che stanno cambiando la geografia dello stivale, dalle Alpi alle Madonie, sono in realtà dei set multifunzione che mescolano passato e presente, realtà e fiction, turismo e affari, socialità e divertimento. Più glamour dei normali ipermercati, questi santuari del superfluo che diventa indispensabile sono l’ultima generazione dei parchi a tema. Figli pentiti dei non-luoghi, hanno trasformato il vuoto dei padri in un pieno straripante. E sono diventati iperluoghi. Zippati di attrazioni, di occasioni, di sollecitazioni, di tentazioni. E di relazioni.
Come suggerisce la parola stessa. Che ha una serie di significati che vanno molto al di là del centro commerciale. Perché in inglese outlet, prima di indicare in senso figurato uno spaccio, è una canaletta elettrica, ovvero uno snodo fatto di collegamenti e di passaggi, di uscite e di entrate, un luogo di contatti e di connessioni, un alternatore di correnti, un trasformatore di energia. Basta riflettere su questo significato perché l’analogia con l’antica agorà si accenda come una lampadina. Erano proprio la concentrazione e l’interconnessione spaziale tra flussi economici, sociali e religiosi a fare del centro della polis un iperluogo. Dove si poteva trovare di tutto, dal tempio al mercato, dai rapporti umani ai contatti politici. Ma anche trascorrere il tempo libero, andare a teatro, godersi lo spettacolo dei prestigiatori e dei ciarlatani, ascoltare i citaredi di strada, interrogare gli oracoli. Una forma sociale che si rifletteva in una forma spaziale e viceversa. L’agorà era l’outlet della democrazia nascente. Mentre gli outlet sono le agorà della democrazia mutante. E riflettono nella loro struttura paradossale, nella loro architettura iperreale, nella loro urbanistica da Luna park, le metamorfosi della cittadinanza globale.
E del resto la stessa parola spaccio ha in sé l’idea della connessione, dell’in ma anche dell’out, mittente e insieme destinatario, in quanto deriva da dispaccio, nel senso di spedizione. Come dire che comprare non è solo portar via qualcosa. E che nella merce si nasconde sempre una relazione incarnata. Anche nel più anonimo degli acquisti c’è un rapporto con l’altro, perfino quando quest’altro non è che l’ombra del nostro desiderio, il Narciso che è in noi. Non a caso nelle lingue indoeuropee i verbi dare e ricevere, che sembrerebbero opposti, hanno la stessa radice do. Lo provano espressioni apparentemente contraddittorie come dare un ricevimento. In altri termini, dare è sempre anche prendere, ovvero un rapporto a due. O più.
Questo valore arcano della merce, di ogni merce, che è la traccia dell’altro, la sua ammirazione, la sua invidia, il timore del suo sguardo che ci giudica, insomma la reciprocità del vedere e dell’esser visti, celebra negli outlet le sue liturgie. Come fa da sempre ogni rito che si costruisce spazi sacri a sua immagine e somiglianza, i templi più adatti a custodire lo scintillio dei suoi idoli.
Ecco perché in questi sancta sanctorum dell’opulenza la fantasmagoria delle merci, per dirla con Walter Benjamin, si manifesta oggi in una sorta di ipertrofia della riproducibilità tecnica, in una clonazione miniaturizzata del mondo, in una mimesi generalizzata che è di fatto una presa di possesso dell’intera realtà. Ridotta a mercato o meglio trasformata in un immenso ipermercato sceneggiato. Borghi rinascimentali, paesini appenninici, città d’arte, siti archeologici, villaggi che sembrano fatti con il Lego. E addirittura cittadine stile rinascimento veneziano con piazze, portici e barchesse, come quelle delle ville palladiane del Brenta. Ogni particolare replicato alla perfezione per offrire ai clienti un incentivo ludico ai loro acquisti. Così l’economia diventa forma mentis e allarga sempre più i confini della merce ma in compenso restringe sempre più quelli del mondo. Fino a farli coincidere. Ingigantimento e miniaturizzazione, lo dice Lévi-Strauss, sono i procedimenti del mito e del rituale che costruiscono modelli ridotti della realtà e con pezzi di realtà, facendone una scena illusionistica, un come se, un bricolage da pop art. Non diverso da quello che fa l’arte contemporanea che non a caso è spesso indistinguibile dalla merce.
Ecco perché queste acropoli dello sconto non sono semplicemente luoghi di transito di una folla solitaria di consumatori "shopaholici". Sono tutto il contrario dei non-luoghi, ammesso che i non luoghi siano mai veramente esistiti e non siano invece la svista di uno sguardo sociologico volto più al passato che al presente. No, gli outlet, che ci piaccia o no, sono più che luoghi. Siti ad alta densità simbolica che ci costringono a rimettere in questione le nostre categorie spaziali. I confini fra dentro e fuori e soprattutto tra centri e periferie. Sono i poli della topografia dello spazio sociale che accompagna la mutazione antropologica del nostro tempo. Nuovi trasformatori di relazioni economiche, ma anche generatori di correnti antropologiche. Queste risparmiopoli suntuarie sono figlie del low cost ma non solo. In realtà riflettono un cambio di scena della modernità, sono un sintomo di quella tendenza alla delocalizzazione, delle imprese, delle persone e anche dei luoghi, che attraversa economia e società. E soffia sul pianeta come un vento nomade, come l’alito irresistibile di un Eolo dei mercati alla ricerca di terre promesse. In realtà gli outlet sono l’effetto di una delocalizzazione della storia, che si trasferisce fuori porta dove i costi sono più bassi. E avvia un turn over epocale destinato a fare delle periferie di oggi i centri di domani.
Non a caso queste disneyworld del fasto attraggono milioni di visitatori. C’è chi ci va per una gita domenicale. Chi per accompagnare i bambini – tra un acquisto e l’altro – a passeggiare nelle strade della Roma imperiale, tra fori e suburra, tra cashmere e porchetta. Ma c’è anche chi va all’outlet per passare una giornata diversa, per incontrarsi con gli amici, per riempire il vuoto del tempo libero. Mille ragioni individuali per quello che è diventato un rito di massa che sta riscrivendo usi e consumi del paese, ma anche le sue mappe. Trasformando spazi residuali, luoghi di transito, no men’s land, come gli svincoli autostradali, le adiacenze degli aeroporti, le aree industriali dismesse in altrettante Bengodi della griffe. Nate da un disegno a tavolino. Dove funzioni e passioni, desideri e sogni sono già immaginati nel progetto. L’outlet è la città del sole dell’umanità interinale. L’utopia realizzata a pochi chilometri da casa.
Nota: naturalmente, per chi se li fosse persi o dimenticati, il riferimento è agli articoli sull'emergere degli outlet village comparsi in questo sito cinque o sei anni fa, e ancora disponibili
A Roma più di sessanta palazzi storici trasformati in cartelloni pubblicitari. A Firenze almeno 37 edifici ammantati di poster. E Milano che di réclame formato cantiere ne conta qualcosa come 261. E poi Venezia, che ha solo 6 gioielli impacchettati per pubblicizzare Rolex, Coca Cola, Bulgari. Ma è la perla della Laguna ad aver svegliato lo sdegno internazionale.
Contro l’uso delle sponsorizzazioni invadenti sui ponteggi di restauro a palazzo Ducale e sul ponte dei Sospiri i direttori dei maggiori musei del mondo, capeggiati dall’archistar sir Norman Foster, hanno scritto al ministro dei Beni culturali Sandro Bondi e al sindaco Giorgio Orsoni. Chiedono che mai più su piazza San Marco e sul ponte dei Sospiri i turisti si trovino davanti i mega poster: réclame gigantesche che nascondo - fino alla fine dei lavori, nel settembre 2011 - gli archi e le grazie dell’architettura gotica. Ma la lettera degli esperti internazionali coinvolge tutto il sistema dei restauri in Italia. Si apre infatti con una richiesta precisa «al governo italiano»: «cambiare la legge che permette le enormi pubblicità sui ponteggi dei palazzi pubblici».
La lettera, firmata tra gli altri da Neil MacGregor del British Museum e da Glenn Lowry che guida il Moma di New York, è stata lanciata dalla rivista Art Newspaper. Bondi ha deciso di non rispondere. Replica la soprintendente veneziana Renata Covello: «Abbiamo soltanto 6 palazzi storici "impacchettati" di pubblicità: attualmente Firenze ne ha 37, Roma più di 67, Milano 261». Spiega l’architetto: «I soldi dei privati sono indispensabili per i restauri e poi ricordo cantieri-poster anche sul British di Londra o al Neue Museen di Berlino. Sappiatelo a Venezia è vietata la pubblicità per le strade ed è la città meglio conservata e tutelata al mondo».
Ancora più duro il sindaco Orsoni: «Questi illustri personaggi pensano forse che siamo dei selvaggi con l’anello al naso?». Palazzo Ducale è del demanio ma dal 1924 il Comune l’ha in gestione e, con i 7 milioni di euro di incasso l’anno dalla biglietteria, tieni in piedi tutti i musei civici. Per i restauri, deve quindi rivolgersi agli sponsor. Che pretendono però poster in bella evidenzia, previa autorizzazione statale del bozzetto pubblicitario. «Lo prevede la legge - incalza Orsoni - Vengano a Venezia i soloni di Londra e New York a vedere come stiamo restaurando i monumenti e amministrando bene la città».
Stato e Comune vanno a braccetto anche al Colosseo. E hanno lanciato una gara che entro il 30 ottobre ci dirà quanti sono i "mecenati" pronti a investire nei 10 progetti di restauro. Gli sponsor dovranno indicare la cifra che sono pronti a versare. Ma anche in che modo intendono farsi pubblicità. Sapendo però che mai potranno incartare le arcate del colosso con foto di ragazze ammiccanti. Ne va del decoro del simbolo di Roma. «Ma se solo l’altro ieri hanno montato un mega poster con la pubblicità di un’auto sui ponteggi di un palazzo privato che s’affaccia proprio sul Colosseo, e con tanto di illuminazione sparata che non serve certo alla sicurezza del cantiere» denuncia Massimiliano Tonelli del comitato "Cartellopoli", associazione che a Roma si batte contro i circa «130mila cartelloni abusivi piazzati lungo le strade, mentre il Campidoglio ne ammette appena un terzo».
Almeno le pubblicità sui restauri salvano i monumenti. Ma spesso non si tratta di lavori indispensabili. E scoppiano le polemiche. È successo nel 2008 per il restauro "griffato" di Castel dell’Ovo a Napoli e l’anno scorso per il maxi striscione réclame su Ponte Vecchio a Firenze. A Roma, solo quest’estate, dopo circa otto mesi di cantiere disabitato, sono stati tolti i poster che coprivano la facciata di palazzo Venezia. Un intervento da appena 160mila euro deciso per una caduta di polvere da un cornicione. A Venezia, almeno, palazzo Ducale è entrato in cura dopo che nel 2007 una pietra da 30 chili si era schiantata su piazza San Marco.
(ha collaborato Nicola Pellicani)
Nel dicembre 2008 eddyburg informava della prima denuncia illustrata del nuovo scempio veneziano: un'iniziativa dell'associazione "Venezia città anfibia"; qui potete scaricare anche il powerpoint. In visita a Venezia Carlo d'Inghilterracriticò anche lui l'andazzo mercantile dei reggitori di Venezia, nell'aprile del 2009; lo riportammo su eddyburg qui. Commentando poi su eddyburg un'altra denuncia scrivevamo: «Dicono: solo così si trovano i soldi per i restauri. Rispondiamo: l'inutile ponte di Calatrava costa tra i 10 e i 15 milioni di €, del Comune». Lo ripetiamo ancora.
Il governo smentisce se stesso. Il ministro Brunetta annuncia una nuova Legge Speciale per Venezia che per la prima volta non prevede finanziamenti. Viene disattesa in questo modo la delibera dell’ultimo Comitatone, convocato a Roma da Gianni Letta il 22 dicembre 2008.
Il testo approvato all’unanimità da ministri, sindaci e presidente della Regione così recitava al punto 2: «Si dà mandato alla presidenza del Consiglio di individuare forme e impegni atti a garantire il rifinanziamento della Legge Speciale a partire dalla Finanziaria 2010. Considerato che i finanziamenti della legge 244 dell’anno 2007 risultano fortemente insufficienti». Dunque, oltre stanziare i famosi 42 milioni di euro - che il Comune aspetta ormai da due anni e che ancora non risultano disponibili - il Comitatone si impegnava a garantire finanziamenti continui per la manutenzione della città, come richiesto allora dal Comune.
«Di tutto questo», denuncia Michele Nognato, all’epoca vicesindaco e assessore al Bilancio, oggi consigliere comunale e segretario provinciale in pectore del Pd, «non c’è traccia. Al ministro Brunetta dico che non basta mettersi gli occhiali del futuro e pensare al 2040. Bisogna prima guardare con quelli del presente: se non ci sono le risorse promesse si blocca la città, si bloccano le imprese che lavorano ai restauri, si blocca la vita di tutti i giorni. Ricordiamo che oggi di fronte a tanti grandi progetti l’attività di scavo rii è ferma, come i lavori di difesa dalle acque alte a Burano, Sant’Erasmo, San Pietro in Volta. Il governo non ci ha dato le risorse promesse. Non ha neanche firmato il decreto per i mutui e il patto di stabilità. O questa Legge è una legge federalista, che riscrive i poteri e ci dà risorse, oppure è meglio tenersi quella che abbiamo».
Numerose le reazioni alle proposte di nuova Legge Speciale, lanciate dal ministro Brunetta. Il testo, ha annunciato, sarà pronto entro il mese, la nuova legge approvata nel 2011. Dovrà contenere lo sviluppo di Venezia traguardato al 2040, consentire di avviare e finanziare operazioni come il porto in mare, la bonifica, la sublagunare, la manutenzione del Mose. E, dice Brunetta, «intercettare la ricchezza». Si pensa a nuovi ticket e a operazioni che coinvolgano i privati.
«Mi sembra un gioco di simulazione, un esercizio di presunzione retorica», commenta Gherardo Ortalli, rappresentante storico di Italia Nostra, «se non fosse che bisogna stare attenti, perché in questa città passano alla fine sempre i progetti che fanno più danni. Che significa intercettare ricchezza, continuare a svendere questa città? Una città controllata dalle grandi imprese, che perseguono legittimamente i loro affari, dove la politica sembra bloccata: non mi è piaciuto ad esempio vedere i due ex contendenti Brunetta e Orsoni che si abbracciano e sono d’accordo in tutto».
Un annuncio che invece viene accolto con interesse da molte categorie economiche, a cominciare da Industriali, Camera di commercio, imprese che vedono occasioni di sviluppo e nuovi affari. «Ma non bisogna dimenticare», dice Paolo Lanapoppi, a nome di Italia Nostra, «le priorità della città e la tutela della laguna».
Berlusconi ha detto ieri che i magistrati sono criminali e che vanno come tali trattati. Lo aveva già anticipato parlando qualche giorno fa nell’improvvisato happening di fronte alla sua residenza romana, condendo il suo gravissimo ed ennesimo colpo alla Costituzione repubblicana con barzellette e linguaggio scurrile, quasi a voler allontanare l’attenzione dell’opinione pubblica da ciò che aveva pronunciato.
Il suo attacco alla magistratura e l’identificazione della giustizia con la persecuzione non sono né nuovi né inediti: sono la carta d’identità di Berlusconi. Le circostanze dettano il linguaggio, non il contenuto che resta immobile come la terra nel sistema tolemaico. Quando le acque nella sua maggioranza si fanno burrascose tiene metodi di trattativa e moderati. Una volta rinsaldata l’alleanza, magari con l’autorevolezza del voto parlamentare come in questo caso, metodi, forme e linguaggio riprendono la loro solita andatura e ritornano a battere sul tema più vicino agli interessi del premier: l’attacco all’indipendenza della magistratura giustificato nel nome di una sovranità totalizzante del popolo, o meglio ancora della sua parte più numerosa (il mito del 51% come clava punitiva contro i suoi supposti nemici).
La sovranità della parte più preponderante non è sovranità democratica, ma dominio, soprattutto quando coltiva la pericolosissima ambizione di dichiararsi identica alla sovranità democratica della nazione italiana. A questo linguaggio demagogico, il presidente del Consiglio si affida quando si sente rinsaldato nei consensi; quando può tornare a riprendere la sua lotta contro la giustizia per affermare la sua giustizia. L’obiettivo lo conosciamo: mettere la magistratura alle dipendenze del potere politico, toglierle quella indipendenza che, vale la pena ricordarlo, non gli è stata data da altri che dal popolo stesso, nella sua massima espressione di sovranità, quella della scrittura della Costituzione. La nazione italiana ha deciso di fare della magistratura un potere indipendente dal parlamento e dall’esecutivo, per renderla dipendente sola dalla legge. Il presidente del Consiglio la vorrebbe invece dipendente dall’opinione politica che fa la legge e dal governo. La differenza è enorme; è quella che passa tra un sistema maggioritario (un’espressione barbara ma efficace) e un sistema democratico costituzionale. La minaccia rivolta ad alcuni magistrati di aprire una commissione parlamentare d’inchiesta è la vera novità di questi giorni, una proposta che è il coronamento dell’ormai incontenibile tracimazione di questo governo dai limiti costituzionali.
Uno sprovveduto o uno che non abbia seguito la traiettoria ideologica di Berlusconi in questi tre lustri potrebbe restare sorpreso di fronte a un liberale che si fa capo-popolo e propone la centralità della volontà politica sulla giustizia. Non è forse vero che la storia di Forza Italia era cominciata a colpi di propaganda liberal-liberista? Che cosa ha a che fare Friedrich von Hayek (uno degli autori più citati da chi si è identificato con Forza Italia) con il maggioritarismo del presidente del Consiglio?
Nella tradizione liberale classica, il governo e l’organizzazione normativa della vita pubblica sono giustificabili in quanto funzioni al servizio di un fine superiore e precedente: la difesa della proprietà, della vita, della libertà degli individui. I diritti individuali sono il fine non contrattabile e soprattutto un bene che legittima il mezzo, ovvero il governo. Qual è il più sicuro presidio di questa libertà se non un sistema di giustizia autonomo da quella volontà di popolo che Berlusconi vorrebbe egemonica?
Per i liberal-liberisti, quello repressivo è il compito centrale dello Stato, e in realtà la sua ragion d’essere. Una ragione che non va affiancata da compiti di altra natura se vuole essere efficace, per esempio da compiti di giustizia sociale. Affinché svolga questo compito al meglio, il solo legittimo, lo stato deve essere edificato secondo regole ben precise: limitato nelle sue funzioni; non centrato sul governo dell’assemblea; monitorato da chi obbedisce alla legge, non da chi fa la legge; e infine soggetto al giudizio elettorale dei cittadini. Il governo liberale è un governo costituzionale limitato fondato sul consenso nel quale il potere giudiziario svolge un ruolo centrale e che, proprio per questo, deve restare rigorosamente indipendente da quello politico.
Il sistema della giustizia penale e civile è il potere più importante nell’idea liberale, la quale infatti vede nella politica solo un mezzo per coordinare in maniera indiretta (con il timore della coercizione) le azioni degli individui e per riparare agli errori e ai delitti che essi commettono o in buona fede o per malevola violazione della legge naturale e civile. Questo è lo Stato ‘minimo’ dei liberali; uno Stato al servizio di una società che, pensava Hayek, è libera nella misura in cui capace di autoregolarsi con minimo dispendio di potere diretto del governo o del parlamento, ma il cui potere giudiziario è ben funzionante, non usato a discrezione dei potenti e che opera secondo procedure impersonali e regole certe. Un potere, quello della giustizia che é assolutamente essenziale che resti "negativo", cioè che non dipenda da chi fa e applica la legge. La nostra libertà è sicura – e i costituenti accettarono questa idea liberale – solo se chi la applica nei tribunali e nelle corti non dipende dall’opinione della maggioranza in carica, quale che essa sia. Berlusconi sarebbe inviso a tutti i liberali. Ora, sarebbe interessante sapere come i "liberali" che abitano la casa delle libertà giustificano questo scivolamento nel dispotismo della maggioranza, il più temuto degli orrori per i liberali di tutti i tempi e paesi.
Il popolo anti-Silvio invade la piazza
Di Pietro attacca il Pd: non è qui
di Mauro Favale
ROMA - Una piazza viola, una piazza giovane ma soprattutto una piazza contro Silvio Berlusconi. Il NoBday2 non bissa il successo di numeri della prima edizione ma si conferma un appuntamento in grado di portare in piazza, sulla parola d’ordine «Licenziamo il premier», decine di migliaia di persone. Poco affidabile il gioco di cifre tra organizzatori («Siamo mezzo milione») e Questura di Roma («Cinquantamila»). Al di là dei numeri, però, in tanti hanno partecipato al corteo. Poi, una volta in piazza San Giovanni, hanno cantato e saltato finché sul palco non è salito Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. È stato questo il momento clou del pomeriggio. Come in occasione del primo NoBday, il 5 dicembre 2009, Borsellino, alzando l’agenda rossa simbolo della lotta alla mafia, ha riscaldato la piazza criticando il governo («Stupratori della Costituzione»), Fini («per la sua tardiva resipiscenza»), l’opposizione («a parte qualche voce che grida nel deserto») e urlando per tre volte «Resistenza». Prima di lui, sul palco si sono alternati giuristi e costituzionalisti, da Raniero La Valle a Stefano Rodotà, si è discusso dei casi di Federico Aldrovandi e di Stefano Cucchi. Poi musica e performance teatrali.
Pochi i leader di partito, la piazza è stata conquistata da Antonio Di Pietro. Nel giorno del suo sessantesimo compleanno, accompagnato da moglie e figlia, l’ex pm ha rivelato che la Camera, dopo il suo intervento di mercoledì, avvierà un procedimento disciplinare «per valutare se posso stare o meno in Parlamento. Non è colpa mia se il governo è squallido. Ma non sono io il cattivo maestro: lo è chi vuole l’impunità». Poi la critica agli alleati: «In questa piazza c’è molto popolo Pd, mancano i suoi dirigenti». C’è Ignazio Marino, unico rappresentante per i democratici: «Dovevamo essere qui», confessa. Con lui, avevano aderito solo Rosy Bindi e Vincenzo Vita. Al contrario, in piazza ci sono i Verdi e la Federazione della sinistra. All’inizio del corteo appare per pochi minuti Nichi Vendola, leader di Sel, osannato dalla folla: «Per costruire l’alternativa - dice - dobbiamo riconnettere piazza, partiti e società civile. Qui c’è un’Italia migliore che può vincere. Non è da qui, è da Palazzo Chigi che si è alzato un vento d’odio».
I Viola avevano lanciato un appello alla partecipazione a tutti i partiti. Si ritrovano con migliaia di vessilli dell’Idv, quasi imbarazzati per la massiccia presenza, tanto che più volte dal palco è partita la richiesta di «abbassare le bandiere». E così succede che la testa del corteo viene "conquistata" dalla «Resistenza viola» del Piemonte (i duri e puri) in polemica con chi sorreggeva lo striscione «Svegliati Italia», preceduto da decine di bandiere bianche dell’Idv. «Ma noi siamo autonomi. Non abbiamo bisogno dei partiti, né della stampa - spiegano gli organizzatori - abbiamo dimostrato che grazie alla rete è possibile portare in piazza migliaia di persone». E le migliaia di persone sono arrivate: 300 pullman e due navi dalla Sardegna e tanti altri arrivati alla spicciolata. Molti portavano striscioni autoprodotti, pupazzi col volto di Berlusconi e di Tremonti, addirittura una riproduzione del "lettone di Putin". Tutti rigorosamente vestiti di viola, hanno riportato in piazza anche le lettere cubitali che un anno fa formavano la scritta-slogan del primo NoBday: «Dimissioni».
L’onda viola ha meno di vent’anni
"Siamo i partigiani del terzo millennio"
di Maria Novella De Luca
Quelli che ti aspetti ad un corteo di studenti medi, quelli che hanno fatto forte l’Onda, e invece eccoli che arrivano ballando in piazza San Giovanni, mescolando slogan, techno, pop e rock, tutti dietro due ragazzi di Reggio Emilia che in mancanza di camion e sound system si sono messi le casse sulle spalle, e avanzano eroici e sudati tra gli applausi del corteo. Alla fine piazza San Giovanni è piena a tre quarti, con le bandiere dell’Idv che quasi sovrastano le sciarpe e gli striscioni viola.
Di Pietro in testa alla manifestazione con accanto la moglie e la figlia incamera applausi, si concede, stringe mani su mani e attacca Berlusconi "corruttore e violentatore della democrazia". Anche per Vendola, che appare per un breve saluto, è grande festa, ma l’anima della manifestazione è altrove, è tra i centomila che seduti sul prato davanti al maxi-palco applaudono Stefano Rodotà e Paul Ginsborg, Salvatore Borsellino e Ilaria Cucchi, i partigiani dell’Anpi, i cassintegrati e i parenti dei morti sul lavoro. E ricordano insieme ai martiri di mafia anche Federico Aldrovandi, Stefano Cucchi, Gabriele Sandri, tutti giovani e tutti scomparsi in modo violento mentre erano "sotto la tutela dello Stato". "Mio fratello è morto un anno fa - ricorda con la voce incrinata Ilaria Cucchi - ma la verità è sempre più lontana". Oltre le bandiere l’eterogenea folla del No B-Day 2 resta più "liquida" di quanto si pensi, il nemico è lui, Berlusconi, che i Viola vogliono licenziare, dimettere, cacciare, e allora, dicono gli striscioni "svegliati Italia", perché "l’Italia è nostra e non di Cosa Nostra", e dunque, scandisce il movimento delle "Agende rosse", "fuori la mafia dallo Stato", e "Berlusconi a San Vittore". Colpisce sentire docenti universitari, giuristi, giornalisti che parlano di legalità, legge elettorale, senso dello Stato, concetti né semplici né semplificati, applauditi con calore da una folla trasversale alle generazioni. Che punta il dito contro l’assenza il Pd, come ricordano decine di cartelli satirici con Bersani addormentato e la scritta "Non facciamo rumore altrimenti il Pd si sveglia". E in serata Ignazio Marino dice con amarezza: "E’ un errore che il Pd non sia qui".
Dopo qualche goccia di pioggia la serata diventa bella, il cielo senza nubi. Guglielmo e i suoi amici frequentano il terzo anno del liceo "Mamiani" a Roma: "Siamo qui contro Berlusconi che ci toglie il diritto allo studio, che ci toglie il futuro, siamo qui perché il popolo Viola comunica su Internet e la rete è l’unica voce libera rimasta". Parola di adolescenti che tra pochi giorni torneranno a sfilare in una grande manifestazione contro la riforma Gelmini. E infatti tanti e numerosi sono i precari della scuola, molti hanno i capelli bianchi, mentre il Coordinamento Viola di Milano porta uno striscione con una frase di Montanelli: "Il berlusconismo è veramente la feccia che risale dal pozzo".
I gruppi emergenti portano sul palco rock e canzoni di lotta, tammorre e rap napoletani. Ci sono i Rein, c’è Zona Rossa Crew, Le Formiche, Effetti Collaterali, la piazza assomiglia a quella del concerto del Primo maggio, ma esplode in un applauso quando il rappresentante dei partigiani dell’Anpi grida: "Politici, basta, ma che ci frega a noi della casa di Montercarlo, a noi interessa chi la casa non ce l’ha, chi non ha un tetto sulla testa...". Vanno a ruba le magliette con la scritta: "Partigiani del terzo millennio". In uno spicchio dell’immenso sagrato ci sono i comitati dei senzacasa, i coordinamenti dei senza tetto, arrivano da Roma, da Napoli, "da vent’anni siamo in lista - dice Salvatore Augelli, 50 anni, disoccupato - ma l’assessore ha venduto gli elenchi alla Camorra, chi ha pagato il pizzo è entrato, gli altri via, in fondo alla graduatoria, e non importa se avevamo il punteggio per arrivare primi".
E’ la disperazione del paese reale, che chiede soprattutto legalità. "La società italiana si sta decomponendo - dice Stefano Rodotà dal palco - c’è stata una pianificazione legislativa del degrado, una regressione culturale, c’è un attacco alla scuola, al futuro dei ragazzi, restiamo uniti, non dividiamoci, questo è il momento del tutti con tutti". "Grazie professore", gridano dal prato. Le divisioni tra l’ala dura dei Viola che contesta l’irruzione dei simboli politici, e chi invece allarga le maglie, sembra distante da qui, roba sterile. E tocca poi a Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, assassinato dalla mafia, accendere il pathos del popolo delle "Agende Rosse". Centinaia di giovani che sventolano un libretto rosso a ricordo della famoso diario da cui il giudice Borsellino non si separava mai, agenda scomparsa (o fatta scomparire) dopo l’attentato. "Siamo nel fondo del baratro, la corruzione è la regola, Berlusconi che offende la Costituzione non può citare il nome di Calamandrei, stanno vincendo la mafia, la n’drangheta, il Premier si è alleato con Gheddafi per lasciar morire centinaia di disperati nel canale di Sicilia...". Un’invettiva durissima, che finisce con il grido, "Resistenza", moltiplicato per centomila voci. Molti hanno gli occhi lucidi. Per fortuna la musica ricomincia, ed è festa fino a notte.
Non molti mesi fa, quando Angela Merkel fu catturata da calcoli politici talmente piccoli e brevi da perdere di vista l’interesse del proprio stesso Paese al salvataggio europeo della Grecia, il filosofo Jürgen Habermas scrisse un articolo importante sulla Zeit, il 20 maggio, in cui la mise in guardia da una paura comune a tanti europei: «Il timore delle armi di distruzione di massa che sono i tabloid popolari non vi fa vedere le armi di distruzione di massa dei mercati finanziari».
È una paura introversa, nazionalista, che rischia soprattutto di vanificare quello che per mezzo secolo è stato in Germania il principale punto di forza, appreso secondo il filosofo grazie all’Olocausto: un’attitudine popolare diffusa a mutare mentalità, ad assumersene le «fatiche infinite», a riconoscere che esistono necessità che generano nuove libertà. La Repubblica Federale nacque con queste qualità. Edificò con Parigi l’Europa, forte delle istituzioni federali che perfezionò in patria e che facilitarono un pensiero post-nazionale.
Si accinse all’immane impresa dell’unificazione, di cui oggi celebra il decimo anniversario, e che ebbe costi altissimi: in 10 anni, più di 1.500 miliardi di euro. Come scrive Bernd Ulrich sulla Zeit del 30 settembre, l’unificazione smosse anche le sicumere della vecchia Repubblica di Bonn, immettendo in essa «16 milioni di punti interrogativi».
Questo adattamento tedesco alla sovranità ridotta (a una «costellazione postnazionale», dice Habermas) ha vissuto ripetute stasi, ma ora sta rivenendo in superficie, potente. Spinto dagli eventi, e dalla consapevolezza che Berlino con le sole proprie virtù non si salva né in Europa né nel mondo, il governo tedesco ha scelto ancora una volta l’Europa: non solo ha consentito al salvataggio della Grecia, ma con tenacia vuole adesso che l’Unione si dia nuove regole per affrontare crisi future. Come scrive Beda Romano, sono le stesse antiche virtù - costanza, tenacia, pazienza - che oggi spiegano l’inattesa ripresa dell’economia tedesca, il realismo ineguagliato dei sindacati, infine la scelta di «impegnarsi in prima fila per il futuro dell’Europa» chiedendo norme più severe e federali per frenare i deficit pubblici ( Il Sole - 24 Ore, 1-10-10).
Di qui l’appoggio tedesco alla riforma, proposta il 29 settembre dall’esecutivo europeo, del Patto di stabilità: una riforma che toglie agli Stati il potere di bloccare le sanzioni con una maggioranza di due terzi, creando una disciplina automatica gestita dall’Unione, trasformata di fatto in governo economico. Ancora una volta dunque la Germania è pronta a mutare, e a dare un’impronta europea alla propria leadership economica: purché tuttavia gli alleati colgano l’occasione, scorgendo in essa un’occasione non tedesca ma di tutti. La storia dimostra che tale condizione è essenziale, perché la paziente costanza tedesca non è affatto continuativa. La preferenza per una costellazione postnazionale si è attenuata quando il Paese, riunificandosi, ha riacquisito parte della sovranità. La sua scommessa europea si è fatta più scettica, egoista: lo slancio di Adenauer e Brandt, di Schmidt e Kohl, si è appannato.
Ma è un appannamento non dovuto solo al computo di tornaconti nazionali male intesi: il computo di chi vede nell’Europa un «interesse esterno», estraneo a quello interno. La regressione tedesca si manifesta ogni qual volta gli alleati (Parigi in primis) si mostrano prigionieri della chimera della sovranità, e si convincono che il suo limite sia un’opzione anziché un fatto.
Quando Kohl trattò con Mitterrand l’unità tedesca offrì la rinuncia al marco in cambio di un’unione politica europea, e non l’ottenne. Non l’ottenne né da Parigi né dagli Stati dell’Est, appena usciti dall’incubo della sovranità limitata teorizzata da Brezhnev nel ’68. Seguirono anni in cui egemone dell’Unione divenne Blair. Oggi non è più così, ma gli animi rimangono riottosi: altre proposte di Berlino sono state respinte, durante la crisi greca, a cominciare dal Fondo monetario europeo e dalla revisione dei trattati.
Resta che la crisi ha messo fine allo stallo europeo, nonostante i cavalieri inesistenti delle sovranità nazionali e le loro armi distruttive. Gli stessi veleni delle dispute tedesche sulla Grecia (i tabloid che invitavano a non pagare per i peccaminosi; la certezza che l’autarchica disciplina fosse un bastevole scudo) hanno prodotto, omeopaticamente, quello di cui l’Europa ha più bisogno: una grande contesa sulla natura dell’Unione.
D’un tratto negli Stati, e specialmente in Germania, si è iniziato a parlare delle condotte degli alleati come di condotte di concittadini di un’unica pòlis. Nello stesso momento in cui si riconosceva che malato non era l’euro ma i singoli deficit pubblici, economie e bilanci cominciavano a esser dibattuti come affare interno europeo.
La necessità della globalizzazione apriva nuovi spazi di libertà, inventiva. Sulla Frankfurter Allgemeine, Klaus-Dieter Frankenberger scrisse, il 26 agosto: «La crisi dell’euro, che è in realtà crisi dei debiti pubblici, può infine riesumare quel che restò incompiuto o fallì alla nascita dell’euro: l’unione politica». Secondo il grande storico Heinrich August Winkler, il neo-nazionalismo tedesco può grazie a tale crisi esser superato: «Nel giro d’una notte, essa risvegliò negli europei la coscienza che nel frattempo era nata qualcosa come una politica interna europea». Quando l’età pensionabile, i salari degli statali, le linee sindacali, la disciplina di bilancio, il debito pubblico d’un singolo diventano oggetti di disputa in altri Stati dell’Unione, quel che si crea è, anche se all’inizio distorto, spazio pubblico europeo: «Al progetto Europa, la crisi offre l’occasione insperata: esso deve esser di nuovo legittimato; non può più essere un progetto di élite» ( Frankfurter Allgemeine, 13-8-10).
La Germania ha un vantaggio rispetto a altri europei. Ha una storia maledetta: non mascherabile, falsificabile, come nella Francia postbellica di De Gaulle, nell’Italia delle amnesie, nella Grecia succube per decenni del potere militare Usa. La sconfitta le ha insegnato a vedere le sciagure delle sovranità nazionali totali. Anche la sconfitta dello Stato comunista l’ha aiutata, perché i tedeschi dell’Est sono entrati nell’Ovest tedesco iniettandovi una predisposizione ai mutamenti mentali, ai sacrifici dello status quo, che i connazionali ricchi stavano smarrendo.
Naturalmente, la tentazione di regredire esiste: nello stesso momento in cui apre all’Europa, ad esempio, Berlino torna a chiedere per se stessa (e non per l’Unione) un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Lo stesso Joschka Fischer fu incostante, come ministro degli Esteri: nel famoso discorso all’Università Humboldt, il 12 maggio 2000 a Berlino, propose una Costituzione europea prima dell’allargamento. Poi fece marcia indietro, sulla scia dell’11 settembre, preferendo a istituzioni più forti un allargamento alla Turchia che desse all’Unione dimensioni geografiche più grandi. I criteri di Copenhagen, che impongono ai Paesi candidati non solo disciplina economica ma sovranità delegate e un riconoscimento della superiore autorità dell’Unione - ricorda Winkler - si persero per strada. È il motivo per cui l’allargamento ha funzionato male, e rischia di degenerare se il rafforzamento delle istituzioni non torna a esser prioritario.
Se a un certo punto scemano costanza e tenacia, è perché la crisi è una lama a doppio taglio: può produrre presa di coscienza ma anche nuove illusioni, e l’infausta passione dell’impazienza descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito: «L’impazienza esige l’impossibile, cioè il raggiungimento del fine ma senza i mezzi». Nell’Unione, l’impazienza ti fa credere che basta invocare l’Europa, senza darle i mezzi per esistere.
Ho trovato molto intelligente la proposta del manifesto di una serie di supplementi sull'unità d'Italia (La conquista). Come nel caso dell'incontro in programma a Teano in ottobre, è molto opportuno che sinistra e società civile propongano una loro lettura del 150° della nascita dello Stato nazionale italiano, pena, come scritto nella presentazione al primo di questi supplementi, subire «due retoriche solo apparentemente opposte», quelle di «nazionalisti e leghisti». Perciò ho letto con grande curiosità il primo fascicolo e ne ho ricavato un'impressione che vorrei discutere.
Gabriele Polo scrive che «siamo alla soglia di una società che si frammenta e si rinchiude in una sorta di neo-feudalesimo, si ritrae in microcomunità nutrite di paure e sospetti». E, aggiunge, le due retoriche cui si faceva cenno sono lontane anni luce «da quell'universalismo cosmopolita che nutrì le migliori culture ottocentesche, il "Risorgimento radicale" poi sconfitto e che continuò a vivere nel conflitto sociale del nascente movimento operaio». Perciò si rifiuta sia il «nazionalismo» sia il localismo (anche se non si adopera questa parola) dei leghisti, in nome dell'universalismo cosmopolita. Marco Meriggi aggiunge due cenni al municipalismo tanto radicato nella storia italiana, per dire che esso era agitato dalle élites aristocratiche, unitarie perché insofferenti alle burocrazie poliziesche degli stati pre-unitari, e in conclusione scrive: «Non stupisce che, di fronte a questo deficit di rappresentatività sociale (dello Stato unitario, ndr), le sirene municipalistiche e localistiche che si erano lasciate sentire già prima dell'unificazione tornassero presto a proporre la propria forza centrifuga».
L'impressione che ne ricava il lettore è che, certo, lo Stato unitario era liberale-elitario, ma le «sirene» del municipalismo spingevano verso un passato «medievale» (epoca in cui in effetti l'autonomia dei comuni italiani nacque, ciò che è parte non a caso della retorica leghista, con il Carroccio e tutto il resto). Di questo vorrei discutere perché per un verso mi pare che questa lettura così univoca tralasci una corrente importante del «Risorgimento radicale», quella di Carlo Pisacane. E per altro verso non chiarisca quale fu in effetti il breve futuro dell'universalismo cosmopolita del movimento operaio e comunista (nel senso di Marx) al suo nascere. La domanda è cioè questa: siamo sicuri che il municipalismo - storicamente così solido in Italia - sia di per sé la base culturale e sociale del leghismo attuale?
Se si va a rileggere Teoria della rivoluzione di Pisacane, si vedrà che il rivoluzionario che si suicidò per non cadere nelle mani dei contadini aizzati dai Borboni immaginava una nazione italiana singolarmente simile a quella che decenni dopo, come ha raccontato Karl Marx, disegnò per la Francia la Comune di Parigi. La nazione sarebbe stata formata da autonomi comuni; le leggi nazionali, per diventare tali, avrebbero dovuto essere approvate da ogni singolo comune; i deputati della convenzione o congresso nazionale erano revocabili in ogni momento e dotati di un mandato imperativo, e lo stesso doveva valere per i consiglieri comunali; il potere esecutivo veniva assegnato a uno o più membri di queste assemblee; il suffragio era ovviamente universale; il potere legislativo era a sua volta elettivo, e così via. Il punto di divisione tra Pisacane e Mazzini (che il rivoluzionario napoletano stimava come un maestro) era appunto nella forma da dare al futuro Stato unitario: centralista per il primo, federalista (in quel modo radicale) per il secondo. Ma perché Pisacane era tanto convinto che l'Italia-nazione, frammentata da secoli, avrebbe dovuto essere federalista e municipalista? Non temeva le «forze centrifughe»? È una bella domanda. Si può rispondere: perché era «ideologico», sotto l'influenza dei primi comunisti, ecc. Oppure: lui, che era meridionale, un fratello nell'esercito borbonico, ben consapevole della forza della reazione dopo la controrivoluzione napoletana di fine '700, cercava un modo perché l'unità del paese nascesse dalla società, dalle sue tradizioni, da interpretare in modo rovesciato. Perse, e quindi in un certo senso aveva torto. Perciò la corrente federalista fu presto abbandonata dal nascente movimento operaio. Viceversa, l'universalismo cosmopolita andò in pezzi, insieme alla Seconda Internazionale, quando i partiti socialisti votarono i crediti di guerra, nel '14, nei rispettivi parlamenti nazionali; e quello della Terza Internazionale, dopo il '17, fu affondato dalla teoria staliniana del «socialismo in un paese solo». La storia del movimento operaio, per tutto il '900, fu quella di una lotta per affermare diritti e democrazia nel recinto degli Stati-nazione e allo stesso tempo della aspirazione, salvo eccezioni frustrate, a diventare un movimento inter-nazionale (e non è casuale che l'espressione corrente fosse «internazionalismo» e non «universalismo» o «cosmopolitismo proletario»).
Il messaggio della Conquista è evidentemente che rileggere la storia serve a orientarsi. Ad esempio, trovo che «regalare» alla Lega il municipalismo italiano è un errore. I leghisti non sono i tutori dell'autonomia delle comunità locali; sono piuttosto, come molti hanno detto in questi anni, gli organizzatori della competizione nel mercato globale non delle comunità del nord Italia, ma di una macro-regione definita su base economica, innanzitutto, e la cui base etnico-nazionale viene inventata allo scopo: la Padania. Si può dire che i leghisti sono i sadici che obbligano lavoratori e comunità del nord a sfruttare se stessi e a cercarsi dei nemici: nei migranti, che pure sfruttano, nelle merci cinesi, nei banchieri tedeschi, e così via all'infinito. Viceversa abbiamo l'esempio pratico di comunità, anche del nord, che sanno ribellarsi a questo comando, come i vicentini contro la base o i valsusini contro la Tav: comunità democratiche, anzi neo-democratiche, capaci di guardare al territorio come un bene comune, e aperte al mondo. Penso che Pisacane si troverebbe a suo agio, al Presidio No Dal Molin.
Ed è talmente forte questa tradizione municipale in Italia che la stessa Costituzione all'art.114 scrive: «La Repubblica è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane, dalle regioni e dallo Stato. I comuni, le province, le città metropolitane e le regioni sono enti autonomi». La Repubblica nella visione dei costituenti partiva dal basso, dall'unità di base della cittadinanza, i comuni, anche se poi i poteri decisivi venivano affidati allo Stato. Che in Italia è nato male ed è cresciuto peggio, tra il fascismo e i quarantacinque anni di Democrazia cristiana. Perciò ritrovarsi a Teano (dal 23 al 26 ottobre) e limitarsi a «difendere» lo Stato nazionale dall'aggressione leghista rischia di essere autolesionista. Come se la sinistra avesse paura delle autonomie sociali e cittadine e chiedesse allo Stato di mettere ordine nel caos. Il nostro passato ci suggerisce altre possibilità, più adeguate a un mondo in cui gli Stati-nazione hanno sempre meno peso (come sostiene Ulrich Beck in Potere e contropotere nell'età globale), l'economia ne smembra e riorganizza i territori in micro-nazioni più aggressive (dal nord Italia alle Fiandre), e cioè che la via più praticabile per ridare la parola ai cittadini comincia - anche se ovviamente non finisce - dai municipi.
È la riforma della legge elettorale il passaggio cruciale che ora si apre per l´intera politica italiana. Non si tratta né di un noioso tecnicismo da politologi, né di una materia riservata agli uomini del Palazzo. La riforma della legge elettorale è piuttosto l´unico strumento ora praticabile (anche se non è per nulla a portata di mano) per quanti vogliano tentare di rifondare la politica in Italia. I motivi per cui i finiani potrebbero far cadere l´esecutivo certo non mancano: dalla legge-scudo per Silvio Berlusconi a una riforma iniqua del processo civile, dalla riproposizione del provvedimento sulle intercettazioni agli stessi numerosi progetti di riforma della legge elettorale già presentati.
E un governo tecnico che nascesse dalla crisi dell´attuale maggioranza non sarebbe per nulla, contrariamente a quanto sostiene il ministro Alfano, un´ipotesi parafascista: sarebbe anzi il gesto di responsabilità di un ceto politico finalmente consapevole del baratro in cui sta sprofondando il Paese.
Un sistema politico che oggi all´unisono – tranne i due partiti più apertamente populisti – teme le elezioni perché sa che i cittadini guardano alla politica, com´è raccontata e praticata oggi in Italia, con un misto di disinteresse, disgusto e disperazione. Il che dimostra che siamo ormai in presenza di una crisi della democrazia repubblicana, di cui la legge elettorale è insieme prodotto, causa, e manifestazione.
Questa legge si fonda infatti su un premio di maggioranza che trasforma gli asini in cavalli, e le coalizioni minoritarie in maggioritarie; e si fonda al tempo stesso sulle liste bloccate, ossia sulla cooptazione dell´intero Parlamento a opera delle segreterie dei partiti. Il mandato libero – che, certo, a norma di Costituzione garantisce l´indipendenza dell´eletto ma che lo obbliga anche a essere credibile agli occhi dei cittadini per potere, appunto, essere eletto – si trasforma, grazie a questa legge, in irresponsabilità politica e morale davanti agli elettori, in supina obbedienza alle segreterie di partito e, eventualmente, in occasione, per il deputato o il senatore, di passare all´obbedienza della segreteria di un altro partito, che gli offra qualcosa di più. Oligarchie e trasformismo infettano così la rappresentanza, delegittimandola radicalmente; e infatti non a caso è scavalcata dal caudillismo populista e megalomane del capo del governo.
La legge elettorale vigente, inoltre, alimenta, col premio di maggioranza, la tendenza (già presente nel nostro Paese) a dar vita a mega-partiti dotati di nessuna identità e di scarsa coerenza interna, costruiti come sono per rispondere a una domanda di aggregazione bipolare a tutti i costi; è infatti figlia dell´illusione che il bipolarismo (che in realtà c´è sempre, nella misura in cui ci sono maggioranza e opposizione, orientamenti di destra e di sinistra) debba essere anche bipartitismo (quasi perfetto), prodotto forzosamente da meccanismi elettorali.
I partiti acquistano, grazie a questa legge, enorme potere e al contempo pochissima capacità di azione, e si espongono continuamente a defezioni, scissioni – nobili o trasformistiche che siano – che rendono di fatto impossibile l´attività governare nel medio periodo. E questo vale tanto per la destra quanto per la sinistra.
Questa legge, insomma, condensa in sé tutta la retorica semplificatoria e antipolitica con cui l´Italia reagì alla degenerazione della democrazia parlamentare della prima repubblica in partitocrazia e in tangentocrazia. Reazione tardiva e infantile, che pretese di ridare serietà alla politica col negare la sua essenza di mediazione, che si deve confrontare con la complessità dei problemi della società di oggi. Si pretese di eleggere, di fatto, il governo e di rendere superfluo il Legislativo; si teorizzò la centralità – come se fosse un patto giurato – del programma elettorale, che a destra non era che un insieme di slogan e a sinistra una monografia accademica che pretendeva di elencare minuziosamente i mali del mondo e di dettarne la cura; ci si illuse sui benefici effetti dell´alternanza, che non ci sono stati. Anziché rafforzare la sovranità del popolo – che, in ogni caso, in un regime parlamentare, è sempre destinata a essere rappresentata – , la pretesa semplificazione e la vantata immediatezza hanno reso la politica più artificiosa, manipolatoria, autoreferenziale, arcana. Che il governo abbia ricevuto una fiducia che è una sfiducia ne è il frutto più paradossale e più vero.
È importante che si dibattano i pregi e i difetti dei sistemi elettorali che dovrebbero sostituire il Porcellum: proporzionale alla tedesca, doppio turno alla francese, Mattarellum, estensione nazionale del sistema provinciale, e così via. Ma ancora più importante è che la nuova legge elettorale consenta al partito di essere votato per la sua proposta politica, e al candidato di essere eletto per la sua credibilità; che consenta alle forze politiche di emergere nella loro reale consistenza e articolazione secondo le esigenze e la storia del Paese, e di fare politica attraverso le alleanze tra diversi e non attraverso le ammucchiate. E soprattutto che consenta al Paese di sperare che possano essere battute la politica populistica, la retorica aggressiva e la prepotenza sovrana di Bossi e Berlusconi – gli avversari strutturali della riforma della legge elettorale –, e di accettare che la politica sia quello che deve essere: analisi, riflessione, azione, e non «una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla».
Parliamo di «Stati uniti d’Italia - Scritti sul federalismo democratico » di Carlo Cattaneo e Norberto Bobbio (pref. di Nadia Urbinati, pp 150 euro 17.50, Donzelli): le idee sul federalismo democratico e riformatore di uno dei padri del nostro Risorgimento, riprese e commentate da Norberto Bobbio all’indomani della Resistenza. Una lezione che rischia di essere tradita da chi accampa oggi la bandiera del federalismo - Carlo Cattaneo (1801-1869) Le sue idee di rinnovamento scientifico, sociale e politico furono propugnate attraverso«Il Politecnico», la rivista da lui fondata, e poi in una lunga attività pubblicistica. Sostenitore dell’autonomia locale e della democrazia diretta, si dichiarò contrario alla forma di Unità realizzatasi nel 1861.
Fatta l’Unità, Cattaneo ribadì nel 1862 che la «federazione è la sola unità possibile in Italia»; eppure cominciò a lavorare a un programma di autonomia legislativa e amministrativa, non di federalismo. La sua risposta al piemontesismo accentratore, a unità avvenuta, era dunque una larga autonomia regionalistica - un’idea che, lo abbiamo accennato, altri politici italiani coltivarono in quegli anni,come Zanardelli e Minghetti, e che risultò purtroppo sconfitta e sconfessata dal riordino amministrativo del 1865, disegnato sul modello francese delle prefetture e arcignamente centralistico perché volutamente anti-democratico. A unità avvenuta, il moderato Cattaneo impiegò l’idea federalista per proporre e teorizzare una politica di autonomie centrata sui comuni («i comuni sono la nazione; sono la nazione nel suo intimo asilo alla libertà»). Dall’unità centralistica all’autonomia locale più larga: nell’Italia unita, fu questa la proposta pratica che Cattaneo derivò dal suo federalismo teorico, non un federalismo a tutti i costi. La sua fu una proposta consapevolmente moderata perché egli era, appunto, un liberale e non un giacobino; moderata nel senso che voleva operare per via di riforme in un contesto specifico, non in astratto o per soddisfare ragioni dottrinarie. In questa caratterizzazione di Cattaneo federalista emoderato traspare tutta l’ammirazione di Bobbio, per il quale l’essere moderato e non giacobino voleva dire essere liberali, avere cioè una concezione della libertà che riposa sull’arte della limitazione. Tradotta in diritti e leggi, governata da una pratica di contrappesi e di controlli costituzionali, la libertà dei moderni non poteva che essere moderata. A partire da questa stessa premessa squisitamente liberale, la proposta di Cattaneo per l’Italia post-unitaria non poteva che essere protesa verso un ordinamento di larghe autonomie centrato sul comune.
Le istituzioni politiche contribuiscono a costruire una nazione non meno della lingua, della religione e delle tradizioni. Un popolo che come l’Italia ha vissuto per numerose generazioni in uno stato unitario è, dopo tutto, un popolo senza memorie di federalismo. Questo fatto elementare fu ammesso da uno dei fondatori della Lega Nord, Gianfranco Miglio, il quale dovette riconoscere già nel 1994 che non era facile «costruire una federazione in un paese che non ha una “cultura federale”». A distanza di vent’anni e con un federalismo mai studiato seriamente ma prima propagandato come un’arma di attacco per giungere al potere nazionale, e poi costruito a colpi di decreti e di leggi strappati da una minoranza numerica in cambio della stabilità di coalizioni governative, sembra essersi fatto strada un fenomeno che è in se stesso illogico e aberrante: un federalismo giacobino, decretato e voluto dal governo centrale, generatore di una politica che più che allentare il centralismo sembra allentare il senso dello stato senza rivitalizzare il sentimento di unione e di fiducia, quel senso di simpatia che, per i pensatori liberali e federalisti di tutti i tempi, è essenziale al foedus perché agevola la comunicazione fra le parti di un paese e impedisce che si innalzino barriere tra le regioni. David Hume pensava che la simpatia fosse la più peculiare «qualità della natura umana» perché rende possibile la comunicazione tra gli individui, per quanto differenti siano nelle opinioni, negli interessi e nel carattere. A questa qualità Hume attribuiva il potere di rendere i popoli capaci di vivere insieme pur nella diversità e di rendere gli individui propensi a condividere esperienze in comune. Indubbiamente, la simpatia che i cittadini sentono per il loro popolo è più forte di quella che sentono per gli altri popoli.
Ma, come pensavano anche i fondatori della Comunità europea, è possibile educare la simpatia. John Stuart Mill esemplificava la simpatia come quel sentimento che porta, nel caso estremo di una guerra, a «combattere dalla stessa parte» e quindi indicava due precondizioni perché la federazione funzionasse: un «sentimento di identità di interesse politico » e un sentimento di simpatia. Il primo sentimento avrebbe sostenuto la vita delle istituzioni liberali, mentre il secondo avrebbe sostenuto l’unità della nazione.
Alla radice del sentimento di «mutua simpatia» e reciprocità vi è la convinzione di origine repubblicana secondo la quale la piccola patria può servire a rafforzare il sentimento di appartenenza alla più larga patria. Si tratta di sentimenti, e, come accade con tutti i sentimenti, essi crescono con la pratica. Uno stato centralizzato tende a raffreddare la simpatia civica dei cittadini nella misura in cui li abitua a pensare alle istituzioni come entità distanti e il cui funzionamento non dipende da loro. Questo è l’argomento più forte a favore dell’auto- governo locale e del federalismo: un argomento di civismo democratico. Esso è stato condiviso da tutti i repubblicani, quelli unitari come quelli federalisti, e da alcuni liberali. Mazzini sognava sì una Repubblica unitaria, ma non negava affatto l’importanza del governo comunale. Federalisti liberali come Cattaneo pensavano che la federazione potesse incoraggiare l’unione perché avrebbe rafforzato la simpatia tra le parti di un largo territorio. Il principio alla base di queste visioni è che si impara a rispettare l’umanità rispettando i propri vicini. Nel Vangelo, i doveri verso l’umanità sono resicome doveri verso il prossimo: diliges proximum tuum.
L’IMPORTANZA DELLA SIMPATIA
Se la simpatia è così importante per la federazione, essa è il test, la prova, del fatto che una federazione funzioni e duri nel tempo. Il Belgio si costituì nel 1830comeuno stato centralizzato, che però ha gradualmente adottato il bilinguismo e poi creato una vera e propria autonomia federal-cantonale. Ma questa traiettoria centrifuga non ha ancora messo fine al Belgio, non ha generato due stati separati come è avvenuto nel caso della Cecoslovacchia con la fine del Patto di Varsavia. Se l’unione nonviene confusa con un’unità accentrata, la federalizzazione di uno stato unitario può diventare la strada verso una nuova rinascita di simpatia nazionale, anziché verso la secessione. Contrariamente ai nazionalisti, i federalisti cercano di unire, benché non vogliano unificare. Il loro lavoro, ha scritto Michael Burgess nel suo studio sul processo a un tempo di unione e di federalizzazione, che ha dato vita alla riunificazione della Germania dopo la guerra fredda, è molto più impegnativo e delicato di quello dei centralisti, perché contrariamente a questi ultimi essi si propongono di sostenere un movimento «in una direzione unitaria senza volere uno stato unitario».
Una federazione è quindi una delicata combinazione di due forze egualmente forti: una centrifuga e una centripeta. La disputa nel nostro paese sul federalismo è una disputa in effetti su come governare queste due forze: se al fine di rivitalizzare l’unità o invece per raffreddare l’unità e magari agevolare un processo di secessione. Questo è il rischio al quale è soggetto il nostro paese nell’uso spesso superficiale e molte volte strumentale dell’argomento del federalismo in chiave anti-unitaria. Dove fermare il movimento centrifugo e quindi come fare della simpatia il sentimento ispiratore del federalismo è il problema che sta di fronte al nostro paese, oggi.
L’icona è tratta dal quadro di Stefano Arienti «Carta d’Italia Unita», 2010 (Collezione Maxxi, Roma)
“L’apologia dell’illegalità”. Potrebbe essere intitolato così uno dei passaggi chiave dell’intervento del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, il 30 settembre 2010, a Palazzo Madama. Una fiducia conquistata dopo una lunga auto-celebrazione, lui, l’uomo della provvidenza, artefice unico dello sblocco dei lavori del Ponte sullo Stretto, padre-madre di tutte le Grandi Opere. «Entro dicembre sarà pronto il progetto esecutivo, già molto avanzato, del Ponte di Messina», ha dichiarato Berlusconi. «Era stato dato anche l’appalto ad una cooperativa di imprese italiane dopo che eravamo riusciti, prodigando molti sforzi, ad evitare la partecipazione all’appalto di grandi imprese straniere, perché volevamo che quest’opera fosse un orgoglio tutto italiano. Con l’intervento del Governo della sinistra il piano è stato accantonato. Avevo personalmente, con il sottosegretario Letta, partecipato a 32 riunioni per il varo di questo piano, sino a giungere all’appalto, che è stato dato. In cinque minuti il Governo della sinistra ha accantonato il progetto. Cinque anni per costruire e cinque minuti per distruggere».
Un’esternazione shock che ha spinto due senatori del Partito Radicale, Donatella Poretti e Marco Perduca, a presentare un’interpellanza urgente alla Presidenza del Consiglio dei ministri. «Il presidente Berlusconi si è autodenunciato per avere diretto la gara d’appalto per il Ponte di Messina», scrivono i parlamentari. «Non solo ha candidamente ammesso di avere fatto di tutto per evitare che alcune imprese partecipassero solo perchè straniere, ma anche che vincesse una italiana. Berlusconi dovrà spiegare in aula in cosa sono consistiti i suoi “molti sforzi” e se le 32 riunioni citate erano state fatte per la realizzazione del piano per arrivare ad un appalto realizzato su misura per la cooperativa di imprese».
In verità, non scorre nulla di nuovo sotto il Ponte. Berlusconi, infatti, ha ripetuto in Parlamento quanto aveva impunemente dichiarato nel corso di un comizio tenuto nel novembre 2008 durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore della regione Abruzzo. «Sapete com’è andata col Ponte sullo Stretto?», aveva esordito il premier a L’Aquila. «Avevamo impiegato cinque anni a metter d’accordo le imprese italiane perché non si presentassero separate alla gara d’appalto ma in consorzio... Eravamo andati dai nostri colleghi chiedendo che le imprese non si presentassero in modo molto aggressivo, proprio perché volevamo una realizzazione di mano italiana, e poi avremmo saputo ricompensarli con altre opere pubbliche».
L’ammissione di aver blindato (o turbato?) la gara del Ponte giungeva dopo che parlamentari, ambientalisti e ricercatori avevano denunciato anomalie ed evidenti conflitti d’interesse nell’espletamento dei bandi. Tra le carte dell’inchiesta della procura di Monza su presunti reati societari in ambito Impregilo (la società di costruzione che guida l’associazione general contractor del Ponte), conclusasi con il rinvio a giudizio dei vecchi amministratori Paolo Savona e Pier Giorgio Romiti, uscì fuori un’intercettazione telefonica dove l’economista Carlo Pelanda, rivolgendosi al Savona, si dichiarava sicuro che «la gara per il Ponte sullo Stretto la vincerà Impregilo». Nel corso della stessa telefonata, avvenuta alla vigilia dell’apertura delle offerte, Pelanda sosteneva di avere avuto assicurazioni del probabile esito della gara «dal senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri».
Incuriositi dalla singolare vocazione profetica dell’interlocutore, i magistrati lombardi interrogarono l’ex presidente d’Impregilo. «Era una legittima previsione», rispose Paolo Savona. «Il professor Pelanda mi stava spiegando che noi eravamo obiettivamente il concorrente più forte». Carlo Pelanda, editorialista del Foglio e del Giornale, ricopriva al tempo l’incarico di consulente del ministro della difesa Antonio Martino, origini messinesi e uomo di vertice di Forza Italia. Pelanda era pure un intimo amico di Marcello Dell’Utri, al punto di aver ricoperto l’incarico di presidente dell’associazione “Il Buongoverno”, fondata proprio dal senatore su cui pesa una condanna in appello a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ad interessarsi al possibile esito della gara del Ponte c’era pure Francesco Cossiga (recentemente scomparso), di cui proprio il Pelanda era stato consigliere durante il settennato trascorso da Presidente della Repubblica. Nel corso di una puntata di Porta a Porta dedicata alle intercettazioni telefoniche, in onda il 5 ottobre 2005, fu lo stesso Cossiga a dire: «Sono stato intercettato mentre parlavo con un mio amico, un imprenditore che brigava pesantemente per ottenere gli appalti del ponte». Poi l’ex Presidente si rivolse all’avvocata Giulia Buongiorno (oggi parlamentare di Futuro e Libertà), presente in studio: «Avvocato che faccio? Lo sputtano questo Pm o mi consiglia di lasciar perdere?». «Presidente, io difendo quell’imprenditore e il Pm mi ha garantito che il suo nome non comparirà. Stia tranquillo», rispose con imbarazzo la Buongiorno. Nell’inchiesta di Monza non c’è traccia del nome dell’amico di Cossiga che «brigava» per gli appalti nello Stretto.
«Quella che è stata una delle gare d’appalto più rilevanti della storia d’Italia, presenta pesanti ombre ed anomalie», scrivono i ricercatori di Terrelibere.org, che agli interessi criminali del Mostro sullo Stretto hanno dedicato inchieste e un libro-dossier. «Si sono registrati, ad esempio, un impressionante ribasso d’asta di 500 milioni di euro, una controversa penale che impegnerebbe le istituzioni alla prosecuzione dei lavori, ed infine la misteriosa defezione delle grandi imprese estere. A questo si aggiungono i conflitti di interesse tra finanziatori e finanziati, controllori e controllati e soprattutto gli incroci, le ricorrenze di nomi e società, le partecipazioni multiple che fanno pensare ad una maxi lobby che da anni sponsorizza e promuove le grandi opere».
Terrelibere.org ha denunciato, in particolare, come nella speciale commissione giudicatrice istituita dalla Società Stretto di Messina che ha assegnato l’appalto alla cordata Impregilo, ha partecipato l’ingegnere danese Niels J. Gimsing. «Oltre ad essere stato membro (dal 1986-1993) della commissione internazionale di valutazione del progetto di massima del Ponte, risulta aver lavorato nella realizzazione dello Storbelt East Brigde, progettato dalla società di consulenza Cowi di Copenaghen a cui il raggruppamento temporaneo d’imprese guidato da Impregilo ha affidato “in esclusiva” l’elaborazione progettuale del Ponte sullo Stretto».
«Tra i più stridenti conflitti d’interesse nella gara per il general contractor del Ponte – aggiungono i ricercatori di Terrelibere - c’è quello legato alla partecipazione delle Coop “rosse”, su schieramenti contrapposti, con i due gioielli più rappresentativi del settore costruzioni, il CCC Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna (in associazione con Astaldi) e la CMC Cooperativa Muratori & Cementisti di Ravenna (in associazione con Impregilo). Con l’“anomalia”, sempre tutta italiana, che proprio la CMC di Ravenna risulta essere una delle 240 associate, la più importante, della cooperativa “madre”, CCC di Bologna. Ciò avrebbe comportato la violazione delle normative europee e italiane in materia di appalti pubblici, le quali escludono espressamente la partecipazione ad una gara di imprese che “si trovino fra di loro in una delle situazioni di controllo”, ovverosia di società tra esse “collegate o controllate”». L’ipotesi di violazione di queste norme da parte delle coop durante la gara per il Ponte è stata pure sollevata dal WWF Italia e dalla parlamentare Anna Donati. Il WWF è anche ricorso davanti all’Autorità per i Lavori Pubblici e alla Commissione Europea per chiedere, inutilmente, l’annullamento della gara.
Nonostante i pesanti rilievi, la Società Stretto di Messina scelse di non intervenire, ma alla vigilia dell’apertura delle buste, il Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna scomparì provvidenzialmente dalla lista delle società della cordata Astaldi. La coop “madre” lasciò il campo libero alla coop “figlia” che si aggiudicò con Impregilo il bando di gara. Forse era a queste “cooperative d’imprese” che si è riferito erroneamente il Presidente del Consiglio nel suo ultimo intervento in Senato. In realtà la vincitrice della più che sospetta gara del Ponte è “Eurolink”, l’associazione temporanea costituita da Impregilo con una quota del 45%, Sacyr (18,7%), Società italiana per condotte d’acqua (15%), CMC di Ravenna (13%), Ishikawajima- Harima Heavy industries (6,3%) e Consorzio stabile Aci (2%).
Le anomalie e i tentativi, anche mafiosi, di condizionare le gare per la realizzazione del Ponte sullo stretto di Messina, sono stati approfonditi nei volumi:
A. Mangano, A. Mazzeo, Il mostro dello Stretto. Sette ottimi motivi per non costruire il Ponte, Sicilia Punto L, Ragusa, 2006.
B. A. Mazzeo, I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo stretto di Messina, Alegre Edizioni, Roma, 2010.
Dopo due mesi di esibizione muscolare virtuale, cacciando i finiani, invocando le elezioni immediate, annunciando l´autosufficienza della maggioranza, alla resa dei conti Silvio Berlusconi ieri ha dovuto prendere atto che non ha i voti senza Fini, che la compravendita dei deputati non è bastata, che le elezioni lo spaventano. Ha chiesto i voti ai suoi nemici mortali, ha evitato ogni polemica, ha dribblato tutte le asperità, volando basso. Pur di galleggiare, tirando a campare come un doroteo, fingendo davanti a se stesso e al Paese che dopo la spaccatura del Pdl tutto sia come prima. E invece tutto è cambiato, tanto che il Premier rimane in sella ma in un paesaggio politico completamente diverso: con Fini che vara il suo nuovo partito e si allea con Lombardo, moltiplicando fino a quattro i gruppi di maggioranza, che volevano essere due - Pdl e Lega -, senza bisogno di spartire con altri. Così, potremmo dire che ieri è nato il Berlusconi-bis, perché a numeri intatti la forza elettorale si è trasformata due anni dopo in debolezza patente della leadership.
Il Presidente del Consiglio non è stato capace di accettare la sfida politica che lo tormenta, e invece di saltare l´asticella alzata davanti al suo cammino dai finiani ha preferito passarci sotto, scegliendo il basso profilo, la dissimulazione, la finzione.
Soprattutto, non ha voluto o non ha potuto portarsi all´altezza della cornice drammatica di una crisi conclamata e irreversibile nella sostanza politica, anche se rattoppata temporaneamente nei numeri. La frattura radicale della destra, di cui vediamo solo i primi effetti, manca ancora di una lettura ufficiale e di un interprete responsabile. Il Paese ne ha diritto. Si possono ingannare i telespettatori del tg1 e del tg5, com´è abitudine, ma non si può ingannare la politica, che da ieri assedia Berlusconi con una maggioranza posticcia e instabile, costruita com´è su alleati-rivali, impastata di ricatti, dossier, intimidazioni e paure.
È la strategia del dominio, la mitologia della sovranità assoluta che vanno in pezzi con la fiducia avvelenata di ieri. Berlusconi ha bisogno del salvacondotto, e dunque dei voti di un avversario che prova ad uccidere politicamente e mediaticamente ogni giorno, e che da parte sua lavora non più nel lungo termine, ma nel medio, per far saltare tutto l´equilibrio berlusconiano del comando, costruito per sedici anni. L´esito di questo conflitto sarà politicamente mortale. Con la fiducia, Fini salda un patto con gli elettori (non più col Premier e con il Pdl), e guadagna tempo per costruire il partito che ha annunciato ieri. Berlusconi può fingere di guardare ai numeri e non alla rottura irrimediabile del suo partito, alla crisi plateale dell´ipotesi di autosufficienza dell´asse tra il Premier e Bossi. Dove lo portano dunque quei numeri? Verso quale approdo politico? Per quale progetto? Con quali alleati?
La realtà è che non si è rotta soltanto la macchina politica del ´94, ma anche la costruzione ideologica che ha interpretato l´Italia – salvo brevi parentesi – per sedici anni. La svolta è dunque enorme, e noi vediamo oggi solo il primo atto. La propaganda compilativa in cui si è rifugiato ieri il Premier non può nascondere la realtà. Diciamolo chiaramente: a luglio, con la cacciata di Fini, è finito il Pdl. Ieri, con questa fiducia malata, è finito addirittura il quadro politico di centrodestra così come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi: con un signore e padrone assoluto retrocesso a capo di un quadripartito ostile e minaccioso, come all´epoca del peggior Caf, nell´agonia della prima repubblica.
«Se teniamo al 40 per cento la soglia da raggiungere per la differenziata, la termovalorizzazione non la faremo mai... Quindi se è vostra intenzione, maggioranza e opposizione, dovete abbassare la quota della differenziata». Così, secondo Repubblica del 23 settembre, l'intercettazione di una telefonata tra il ras dei rifiuti dell'Abruzzo Rodolfo Di Zio e l'Assessore regionale all'ambiente, entrambi arrestati ed entrambi in combutta tanto con maggioranza che con l'opposizione della Regione, nonché con la società lombarda Ecodeco - ma anche con il comitato anti-discariche - per costruire nella regione uno o due inceneritori e garantirsi un quantitativo di rifiuti da bruciare sufficiente ad alimentarli. Da notare che il 40 per cento di raccolta differenziata è una prescrizione di legge valida su tutto il territorio nazionale da raggiungere entro l'anno in corso, mentre al 2012 questa percentuale dovrà salire al 65 per cento; anche se per chiedere l'abbassamento della soglia si è già mosso persino l'Anci, l'associazione dei Comuni italiani: anch'esso preoccupato, evidentemente, che gli inceneritori attivi o in programma nei rispettivi territori di riferimento restino "all'asciutto".
Quello che il signor Di Zio pretendeva era una modifica della legge regionale che abbassasse la raccolta differenziata rispetto agli standard regionali, senza preoccuparsi della normativa nazionale, consapevole del fatto che con il "federalismo" le regioni, delle leggi nazionali, se ne fottono. Non ci potrebbe essere smentita più chiara e sincera - perché proferita dalla viva voce di un affarista del settore - della tesi tante volte sostenuta su giornali, in Tv, in convegni "scientifici" e in mille e mille Consigli comunali, provinciali e regionali, secondo cui raccolta differenziata e incenerimento (ribattezzato "termovalorizzazione" per indorare la pillola) non sarebbero incompatibili ma complementari; né conferma più pregnante della tesi degli ambientalisti più seri - quindi, non di quelli, come Realacci, trasformatisi in sponsor dell'incenerimento - che hanno sempre sostenuto che o si fa l'una o si fa l'altro.
Ed eccoci di fronte alla spiegazione del disastro della Campania, dove da sedici anni la raccolta differenziata è al palo (con l'eccezione di alcuni comuni "virtuosi", uno dei quali è stato anche commissariato dal ministro dell'Interno Maroni perché il suo sindaco faceva "troppa" raccolta differenziata) in attesa degli inceneritori previsti dal "piano" regionale: prima quattordici, poi tre, poi uno, poi quattro, poi cinque, poi non si sa più: quello che c'è, inaugurato in pompa magna dal duo Berlusconi e Bertolaso un anno e mezzo fa, con tanto di pernacchio agli ambientalisti, non funziona e non funzionerà mai; ma è bastato a tener ferma la raccolta differenziata e ad accumulare dieci milioni di tonnellate di ecoballe nelle campagne più fertili della penisola, perché doveva fare ricca, con gli incentivi all'incenerimento, prima l'Impregilo (la società più amata da Berlusconi, dopo Mediaset), poi l'A2A, la multiservizi dei sindaci berlusconiani di Milano e di Brescia.
Ed ecco spiegato anche il disastro dei rifiuti siciliani, in attesa anch'essi da una decina di anni di quattro inceneritori (poi cancellati; per diventare subito dopo nove; uno per Provincia; per di più in una Regione che le Province si è impegnata ad abolirle). O eccoci di fronte alla spiegazione del perché in Emilia, regione una volta nota per la sua buona amministrazione, ma da tempo controllata dal colosso Hera e dai suoi inceneritori, la raccolta dei rifiuti porta a porta si fa con il contagocce e i cassonetti stradali - molto sporchi - dominano il paesaggio urbano. O, ancora, ecco spiegato il mistero di Argelato: l'unico comune italiano che ha respinto con un referendum promosso dalle destre la raccolta dei rifiuti porta a porta, costringendo alle dimissioni il sindaco del Pd che l'aveva fortemente voluta; e questo nonostante che il Pd vi abbia ancora qualcosa come il 70 per cento dei voti. Perché Hera, nel momento di assumere la gestione dei rifiuti ad Argelato, aveva mobilitato i quadri del Pd... per mettere sotto scacco loro il sindaco.
Il fatto è che la raccolta dei rifiuti, se è differenziata e soprattutto se è "spinta" con il porta a porta, è un servizio di vicinato: richiede un rapporto diretto, un colloquio permanente, un'interazione bidirezionale tra gli utenti e l'azienda (e con gli operatori dell'azienda): per promuovere l'adeguamento continuo del servizio, la qualificazione del personale (si tratta, in fin dei conti, di un servizio front-line) e la collaborazione della cittadinanza. Più la direzione e gli interessi dell'azienda si allontanano dal territorio, più evanescente - e inefficace - diventa questo rapporto.
Hera, che è ormai una multinazionale - ha intrecciato interessi e azionariato persino con una società inglese - è un buon esempio di questo processo. I suoi interessi centrali sono la finanza, la borsa, i grandi impianti (soprattutto gli inceneritori) mentre il servizio di raccolta è sempre più delegato in subappalto a cooperative dove si risparmia sui salari, non c'è formazione, il turnover è altissimo e il coinvolgimento del personale nullo. In queste condizioni la raccolta porta a porta è solo un onere e non promette niente di buono. Quello che vale per i rifiuti urbani vale per tutti i servizi pubblici locali: gestione delle acque, trasporto e mobilità, distribuzione di gas ed energia elettrica (più si risparmia o si installano fonti rinnovabili, meno l'azienda guadagna); ma poi anche cultura, assistenza sociale, ecc. Taglieggiando l'utenza, queste grandi aziende sono anche in grado di destinare ai comuni che ne sono azionisti una quota dei loro profitti. «Io sono contento perché Hera destina un milione all'anno di dividendi al mio Comune» mi ha detto una volta un militante del Pd. Sì, ma da dove li ha presi?
In questo modo è l'azienda che controlla il comune e non viceversa. L'inceneritore di Brescia (ex ASM; oggi di A2A), la gallina dalle uova d'oro della rifiutologia italiana, è un esempio da manuale. Se il comune di Capannori (in provincia di Lucca) è riuscito a diventare un campione italiano di raccolta differenziata (e il primo a puntare sull'obiettivo rifiuti zero) è perché ha mantenuto - insieme ad altri quattro comuni di media dimensione - il controllo di un'azienda di igiene urbana con il cento per cento di azionariato pubblico: cosa che la legislazione italiana ormai mette al bando, imponendo, sotto le false apparenze della "liberalizzazione", la privatizzazione dei servizi pubblici locali.
Se ad Argelato vince invece il ritorno alla raccolta dei rifiuti con i cassonetti stradali, è perché la multiservizi Hera ha ormai assunto il comando sulle vicende politiche a amministrative del territorio.
Nonostante la crisi Autostrade per l'Italia continua a produrre utili, grazie all'aumento delle tariffe e ai sistemi telematici di pagamento. Ma che non mantiene le promesse sugli investimenti fatte al momento della privatizzazione. Radiografia di un gruppo privato molto vicino al potere politico
Un agile libretto scaricabile dal sito di Autostrade per l’Italia, espone il punto di vista della società sui risultati e di numeri a dieci anni dalla privatizzazione (1) , da cui è bene partire per analizzare i dati odierni strettamente legati alla sua storia recente.
Autostrade per l’Italia gestisce oggi (direttamente e con le sue controllate) 3.400 km di rete italiana, ed è presente in India, Brasile, Cile, Usa e Polonia, con circa 900 km di autostrade a pedaggio grazie ad acquisizioni avviate nel 2005. Circa cinque milioni di viaggiatori utilizzano ogni giorno la sua rete e nonostante sia nata per “accorciare” l’Italia, in realtà oggi il 60% degli utenti ed il 48% delle merci non fa più di 50 km per ogni viaggio (2).
Gestisce anche una serie di società di servizi tra cui Spea (primaria società di progettazione) e Pavimental (manutenzione e pavimentazioni autostradali ed aeroportuali). Detiene anche dal 2005 una partecipazione non consolidata del 33,3% nella Igli, la finanziaria di Impregilo, operazione effettuata come ha dichiarato per prestare “soccorso finanziario del gruppo Impregilo, primo General Contractor in Italia”.
A sua volta Autostrade per l’Italia è di proprietà al 100% di Atlantia, la holding autostradale di proprietà del gruppo Benetton, che ne detiene il 39,03% attraverso Sintonia S.A. Quindi al termine dei diversi processi di riorganizzazione legati alla privatizzazione prima ed alla scalata poi (con l’offerta pubblica di acquisto lanciata dalla famiglia Benetton), Atlantia è la holding strategica e Autostrade per l’Italia è la società operativa, che hanno lo stesso presidente, Fabio Cerchiai, e lo stesso amministratore delegato, Giovanni Castellucci. Complessivamente lavorano nelle diverse attività e società di Atlantia circa 10.000 dipendenti.
Prima di passare ai numeri e risultati della società Atlantia va rammentato che il processo di privatizzazione è stato lungo e pieno di polemiche. Non solo per le modalità di privatizzazione avviate dal governo Prodi nel 1997 di una rete fondamentale per il paese data in concessione ai privati fino al 2038, ma anche per il debole sistema di regolazione che è stato adottato successivamente e che il governo Berlusconi ha definitivamente affondato nel 2008 con l’approvazione per legge della Convenzione unica. Dieci di dibattito politico, istituzionale ed economico, dove va riconosciuto che sono di sicuro Atlantia/Autostrade per l’Italia che hanno vinto e piegato ogni resistenza, in cambio della promessa di mirabolanti investimenti autostradali per 25 miliardi di euro nei prossimi anni.
La Convenzione unica tra Anas ed Autostrade venne sottoscritta il 12 ottobre 2007 (quindi durante il governo Prodi con ministro Di Pietro), ma è diventata operativa solo dopo una forzata approvazione “per legge” grazie alla conversione del decreto legge 59/2008 del governo Berlusconi e della maggioranza di centrodestra in parlamento. La nuova Convenzione elimina il price cap, cioè il sistema che legava (se pur in misura debole) le tariffe alla verifica puntuale della qualità del servizio all’utenza sulla base di precisi parametri. Introduce l’adeguamento automatico annuale delle tariffe fino al 2038 riconoscendo il 70% dell’inflazione reale, slegandole dagli investimenti reali e dalla qualità del servizio (anzi per ulteriori investimenti sono previsti ulteriori adeguamenti tariffari aggiuntivi) e stabilisce un sistema di sanzioni e penali per il rispetto degli impegni.
Anche l’Unione Europea si è resa complice di questa regolazione “debole”, dato che, in tempi di crisi e bisognosa di investimenti privati, è stata disposta ad accettare proroghe delle concessioni anche se in contrasto con le direttive, ed è anche intervenuta aprendo una procedura d’infrazione per evitare “discriminazioni” verso il soggetto privato Autostrade da parte dello stato Italiano, come viene naturalmente sottolineato nel libretto edito dalla società.
Richiamo questa storia sia per rinviare ogni approfondimento al bel libro di Giorgio Ragazzi I Signori delle Autostrade (3) e sia perché come vedremo ha riflessi leggibili sul bilancio di Atlantia S.p.A., con gli aumenti tariffari, i dati di traffico, l’indebitamento, la spesa per investimenti, l’utile netto.
Se analizziamo i dati dell’esercizio 2009 di Atlantia (4) approvati nel bilancio consolidato 2009 (v) emerge che nel 2009, nonostante la crisi economica il traffico complessivo sia rimasto stazionario (-0,13% rispetto al 2008) pur in presenza di un cambiamento qualitativo: crescono le automobili e calano in modo significativo i veicoli per il trasporto merci (-7,1%) legati alla congiuntura economica negativa. In termini di ricavi da traffico del gruppo Autostrade questo ha fatto registrare una diminuzione di 1,2% rispetto al 2008.
I ricavi netti da pedaggio di Atlantia nel 2009 sono stati 2.946,4 milioni di euro e presentano un incremento rispetto al 2008 del 3,6% (103,4 mln), determinati dall’incremento del 2,4% delle tariffe scattate dal 1 maggio (circa 20 mln), dall’incremento del canone dei concessione per Anas stabilito con norma (6) che la società ha ribaltato sugli utenti (82,3 mln di euro di ricavi) e dalle variazioni di traffico, in particolare con il calo sulle autostrade polacche ed il consolidamento su quelle cilene.
Complessivamente i ricavi consolidati di Atlantia si attestano nel 2009 a 3.611 milioni di euro con un incremento del 3,9% rispetto al 2008 pari a + 133,9 milioni di euro. Oltre ai ricavi da pedaggio già sopraindicati sono registrati sul bilancio 2009 altri ricavi per lavori su ordinazione (50,2 mln) e 604 mln di ricavi derivanti principalmente da royalties per subconcessioni e ricavi da canoni Telepass e Viacard.
Scrive Atlantia nella relazione che se si valutano le variazioni del perimetro di consolidamento e l’ incremento del canone di concessione destinato ad Anas (ribaltato sugli utenti), facendo un raffronto su base omogenea, la crescita dei ricavi nel 2009 si attesta sull’1%.
I costi operativi netti di Atlantia ammontano a 1.406,3 milioni di euro e si incrementano di 44,8 mln rispetto al 2008, pari a + 3,3%, dovuto al risultato tra minori costi operativi esterni e maggiori unità lavorative e dell’incremento secondo il nuovo contratto del costo medio del lavoro.
Il margine operativo lordo (rapporto costi/ricavi) nel 2009 è stato pari a 2.204 milioni di euro, in aumento calcolato su base omogenea del 3,7%. Sulla pubblicazione di Autostrade per l’Italia viene sottolineato con grande enfasi il miglioramento della redditività del gruppo che dal 1999 al 2009 raddoppia il Mol, passando da 1.037 milioni di euro a 2.204 mln. Questo risultato è stato ottenuto dalla somma di diversi fattori: +336 mln dovuti ad un incremento dell’efficienza operativa (ad esempio: meno caselli con operatore e più caselli con Telepass, con oltre il 74% dei pagamenti che avviene con modalità automatiche), +236 mln da sviluppo delle attività accessorie (subconcessioni aree di servizio, canone Telepass), +286 mln da aumenti tariffari ( al netto degli incrementi dei canoni di concessione ad Anas), +166 mln da incremento del traffico che ha generato nuovi ricavi.
E’ lo stesso documento che chiarisce che le tariffe in questi dieci anni sono cresciute come l’inflazione: ponendo nel 2000 un indice 100, nel 2009 tariffe autostradali ed inflazione si attestano a 121,8. Potrebbe sembrare un dato equilibrato ma se calcoliamo che le tariffe fino al 2008 dovevano servire anche a pagare investimenti che in buona parte sono ancora da fare, gli incrementi si sono trasformati soprattutto in utili per la società, passati da 300 mln del 1999, a 503 mln del 2002, a 803 mln del 2005, per poi arretrare lievemente, sia a causa della crisi economica, delle operazioni finanziarie effettuate, e per il fatto che alcuni investimenti come la Variante di Valico sono davvero partiti e quindi sono aumentati ammortamenti ed oneri finanziari.
Nel bilancio 2009 l’utile netto di Atlantia è stato pari a 690,7 milioni di euro con una flessione del 6% rispetto al 2008, quando l’utile si era attestato su 734,8 milioni di euro, scontando svalutazioni nette pari a 85 milioni di euro. Di queste - a quanto si può dedurre dalla relazione - ben 67,4 milioni di euro sono state perdite dovute alla riduzione di valore della partecipazione in Igli, e cioè l’operazione di salvataggio verso la società Impregilo, sostenuta da Autostrade insieme al gruppo Ligresti ed al gruppo Gavio in modo paritetico. Il 12 giugno 2010 Autostrade ha siglato un accordo con Ligresti e Gavio per il rinnovo del patto parasociale in Igli fissato fino al 31 luglio 2012. Va inoltre ricordato che Atlantia ha una partecipazione significativa pari all’ 8,85% della nuova Alitalia di Colaninno.
Il patrimonio netto di Atlantia nel 2009 è stato pari a 3.865,2 milioni di euro, con un incremento rispetto al 2008 di 249,7 milioni di euro. Elevatissimo l’indebitamento finanziario netto del gruppo che al 31 dicembre 2009 ammontava a 10.372,1 milioni di euro, con un aumento di 617,3 milioni di euro rispetto al 2008, che nella relazione viene motivato con un aumento del perimetro delle attività (partecipazione gruppo itinere) e con la realizzazione di maggiori investimenti sulla rete. Ma è noto che questo forte indebitamento è dovuto al prezzo pagato per la scalata di Autostrade con il lancio nel 2002 dell’opa da parte di Schemaventotto (azionisti Benetton con il 60%, Cassa di risparmio Torino, Acesa, Unicredit, Assicurazioni Generali, Brisa), costato 7 miliardi e poi in buona parte trasferito nella riorganizzazione societaria da Atlantia su Autostrade per l’Italia. Scalata che è stata oggetto di forti critiche perché avvenuta senza l’esborso di capitali propri e interamente a debito da ripianare con i futuri ricavi da pedaggio, grazie alle regole particolarmente favorevoli di adeguamento tariffario e di convenzione. (vedi nota ìì – pag. 117). Ma resta comunque difficile da comprendere come il gruppo riuscirà a ridurre in maniera significativa il debito nei prossimi anni, vista l’evidente frenata dell’economia, del Pil e quindi del traffico.
Il 3 agosto 2010 il Consiglio di Amministrazione di Atlantia ha approvato la relazione finanziaria semestrale al 30 giugno 2010 (vii) dove grazie agli aumenti tariffari scattati dal 1 gennaio i conti migliorano decisamente. Si sottolinea che il confronto è relativo allo stesso semestre del 2009 dove la crisi economica è stata più pesante del 2010.
I ricavi totali nei primi sei mesi del 2010 ammontano a 1.778 mln e si incrementano del 10, 3% mentre i ricavi netti da pedaggio sono stati 1.472,5 con un incremento complessivo di 174,6 mln di euro, pari al 13,5%. La relazione spiega che questi incrementi sono legati ad una lieve ripresa del traffico (+0,6%) in particolare di quello pesante, agli aumenti tariffari scattati sia nel 2009 che nel gennaio 2010 (2,4% ogni anno che hanno portato ben 75 mln circa di ricavi in più nel semestre) ed all’incremento di pedaggio per pagare l’incremento del canone di concessione dovuto ad Anas e ribaltato sugli utenti, che ha fatto incassare altri 92,6 mln. Il Margine Operativo Lordo è stato pari a 1.077 milioni di euro con una crescita su base omogenea rispetto al semestre 2009 del 9,5% e l’utile netto si è attestato a 310 mln, con un incremento del 5,5%. Possiamo dire che nel primo semestre del 2010 i conti di Atlantia migliorano sostanzialmente grazie agli incrementi tariffari automatici assicurati dalla Convenzione unica e quindi sono pagati dagli utenti.
Uno dei temi sempre oggetto di confronto istituzionale e polemica politica sono gli investimenti che la società Autostrade si è impegnata fin dal 1997 a realizzare. Il documento sul decennio dalla privatizzazione di Autostrade riassume tutti gli impegni pari a 21,9 miliardi di euro ed il loro stato di attuazione al 31 dicembre 2009, così ripartiti:
- nella Convenzione del 1997 erano previsti investimenti per 3,5 miliardi di euro, i cui costi sono oggi lievitati a 6,5 mld e di cui ne sono stati realizzati 3,1 mld. Tra le opere in corso vi è la nota Variante di Valico Bologna-Firenze che dovrebbe essere già stata conclusa secondo la convenzione da tempo
- gli interventi inseriti nel IV atto aggiuntivo alla Convenzione nel 2002 prevedevano opere per 4,4 miliardi di euro, il cui costo oggi è lievitato a 7 mld e di cui sono realizzati, 0,9 miliardi. Tra le opere principali previste c’è il passante di Genova su cui è stato svolto un dibattimento pubblico sulla utilità e sugli impatti ambientali dell’opera
- anche la Convenzione del 1997 prevede nuovi investimenti per circa 5 miliardi, per interventi di 3°e 4° corsie da realizzare nel decennio 2008-2018
- infine vi sono gli interventi previsti dalle società controllate tra cui la SAT titolare dell’Autostrada della Maremma, con impegni previsti per 1,3 miliardi e realizzati per 0,8 mld.
Da un agile conto complessivo emerge che gli investimenti che Autostrade avrebbe dovuto realizzare ammontano a 21,9 miliardi di euro: a fine 2009 ne sono stati realizzati solo 5,1 miliardi di euro, circa un quarto. Debito da abbattere, investimenti da realizzare: per queste ragioni la società ha esercitato ogni pressione ed ha ottenuto dall’Anas, dai decisori pubblici e dalla politica di svincolare l’aumento delle tariffe dalla realizzazione effettiva degli investimenti.
Per inciso va sottolineato che da sola l’Autostrada della Maremma della Sat costa 3,8 miliardi di euro ma al momento gli impegni contrattualizzati sono per realizzare 4 km tra Rosignano e San Pietro in Palazzi per 45 milioni di costo. Mentre sul resto dell’autostrada dopo le prescrizioni del Cipe (che ha imposto un valore di subentro per lo Stato pari a zero), le prescrizioni ambientali della Commissione di valutazione di impatto ambientale sul progetto preliminare e la discussione ancora aperta con enti locali ed associazioni ambientaliste sull’impatto dell’opera, la stessa Sat ha annunciato di voler modificare il tracciato, per utilizzare anche nel tratto Grosseto-Civitavecchia l’attuale tracciato del’Aurelia, al fine risparmiare risorse per l’investimento che dovrebbe in questo modo aggirarsi su 2,2 miliardi di euro. Staremo a vedere.
Abbiamo sempre criticato come ambientalisti le attuali regole dove sono le concessionarie a fare la politica dei trasporti in Italia, con programmi per nuove autostrade, terze e quarte corsie, condizionando la politica, i ministri per le infrastrutture, i governi nazionali , regionali e locali, tanto più in tempi difficili per le scarse risorse pubbliche. In questo modo le autostrade si autoriproducono e prosegue la corsa alla crescita del traffico motorizzato.
Il gruppo Autostrade nel documento ( vedi nota (1) – pag.44) fa anche il punto sulla strategia generale di sviluppo in Italia, dichiarando che a causa delle difficoltà autorizzative e della mancanza di risorse pubbliche è stata costretta ad “abbandonare molti progetti ( per esempio Brebemi, Pedemontana Lombarda, Arcea Lazio, Nuova Romea).” E’ un’affermazione davvero spudorata, basti pensare che nel caso di Brebemi, dopo aver messo in piedi un’Ati (associaizone temporanea di imprese) e vinto la gara per la concessione, ottenuto tutte le autorizzazioni e la convenzione in project financing, ha deciso di uscire dalla società quando i cantieri stavano per partire e di concentrarsi sulla quarta corsia Milano-Bergamo-Brescia della sua rete. Una scelta strategica prudente e precisa, certo senza costrizioni e che tiene evidentemente conto del livello di indebitamento e dei tanti impegni ancora da attuare per gli investimenti sulla propria rete.
Va anche detto che la società ha sviluppato a partire dagli anni 90 anche sistemi tecnologici avanzati come il Telepass, che gli ha consentito sia di migliorare il servizio all’utenza e sia di promuovere in altri paesi questa nuova tecnologia. Anche sul fronte sicurezza sono stati fatti, con l’introduzione del tutor istallato su 2200 km di rete, ottimi passi in avanti: dal 1990 al 2009 il tasso di mortalità è passato da 1,14 a 0,32 con una riduzione del 72%. Qualche timido tentativo di innovazione si registra anche sul fronte dei servizi all’utenza, con la promozione del Car Pooling sull’autostrada Milano-Laghi, lanciato qualche mese fa da Autostrade per risparmiare traffico ed inquinamento e di cui sarebbe interessante conoscere i primi risultati.
L’aumento di valore della società è partito dopo la sua privatizzazione con un valore per ogni azione pari a circa 7 euro per poi crescere costantemente fino al novembre 2007 quando Atlantia ha raggiunto in Borsa il valore di 27,2 euro per azione. Poi con la crisi economica internazionale anche il suo valore si è drasticamente ridimensionato toccando i minimi ( circa 10 euro per azione) nel marzo 2009, per poi risalire lentamente ed attualmente posizionarsi su circa 15 euro per azione.
Stranamente ( ma non troppo) nel documento di bilancio decennale non si fa cenno alla mancata fusione con Abertis, progetto di assoluta rilevanza presentato dalla società nel 2006 e fermato dal governo Prodi, perché invece di essere una fusione che valorizzava un asset fondamentale del Paese, si configurava come una svendita della società. Secondo quanto ha detto l'ammnistratore delegato Castellucci in un'intervista, si è trattato di un progetto fermato “illegittimamente” ma poi lo stesso Castellucci conclude l’intervista (8) dichiarando che “eravamo un’azienda forte prima, lo siamo ancora di più oggi”.
(1) Autostrade per l’Italia. Autostrade a dieci anni dalla privatizzazione. Fatti, numeri e risultati. Aprile 2010.
(2) Le percorrenze sulla rete Autostrade per l’Italia. Studio che analizza i comportamenti di viaggio in autostrada, anno 2007. A cura di Autostrade per l’Italia (maggio 2008)
(3) Giorgio Ragazzi. I Signori delle Autostrade. Edizioni Il Mulino, Studi e Ricerche, 2008
(4) Atlantia. Relazione Finanziaria Annuale 2009.
(5) Atlantia. Comunicato stampa: Approvati il bilancio consolidato 2009 ed il progetto di bilancio dell’esercizio 2009. 5 marzo 2010
(6) Legge 3 agosto 2009 n. 102, di conversione del DL 78/2009
(7) Atlantia. Comunicato Stampa. Approvata la relazione finanziaria consolidata semestrale al 30 giugno 2010, redatta in conformità all’IFRIC 12
(8) La Repubblica. Affari&Finanza. Castellucci: “Ecco perché guadagniamo”. Parla l’amministratore delegato di Atlantia:”Siamo efficienti”. 14 dicembre 2009.
Il fallimento della società nata per sostenere l’attività del Mibac e naufragata fra scandali, scarsa trasparenza e inefficacia operativa. Da Il Giornale dell’Arte, settembre 2010 (m.p.g.)
Dure critiche sui criteri dei finanziamenti elargiti in modo discrezionale a destinatari privilegiati. Dopo lo scandalo dei soldi a Propaganda Fide (edificio fuori dal suolo nazionale, secondo il Concordato), sempre più in crisi la società che gestisce il 3 per cento dei soldi di Stato per le
grandi opere infrastrutturali.
In sei anni di vita la società Arcus, nata per «sostenere e avviare progetti ambiziosi riguardanti i beni e le attività culturali», ha erogato soldi dello Stato per 400 milioni di euro, 200 dei quali per il triennio 2010 -12, distribuiti a iniziative di ogni tipo, soprattutto restauri edilizi ma anche a teatri, collegi, fondazioni (compresa quella del Banco di Napoli, 500mila euro per il suo archivio storico digitale), istituti,
accademie, associazioni e poi mostre, festival, etc.
L'assegnazione di questa considerevole quantità di denaro avviene da sempre in modo giudicato poco trasparente attraverso Arcus, società formalmente privata, ma di proprietà del Ministero dell'Economia, gestita da quello delle
Infrastrutture in accordo con il Mibac. Nel depresso panorama di tagli e risparmi all'osso imposti alla cultura, Arcus è una ricca anomalia: incassa infatti il 3 per cento delle «grandi opere», i finanziamenti pubblici alle infrastrutture del Paese. Funzionamento ed esistenza della società sono sotto accusa dalla nascita, nel 2004.
Pesanti critiche sono arrivate dal Consiglio Superiore per i Beni culturali, da associazioni come Italia Nostra e da ogni relazione annuale della Corte dei Conti. Fino al 2008 la destinazione dei fondi veniva decisa direttamente dai Ministeri
in modo del tutto discrezionale. Arcus eseguiva. Poi il Mibac ha
finalmente deciso che chi vuole i soldi di Arcus deve presentare una domanda motivata e passare attraverso una istruttoria. Dovrebbe presto essere varato un vero «piano di indirizzi», sollecitato dal Consiglio Superiore per i Beni culturali, per vincolare le scelte. Da notare che nessun atto della società è mai passato in Parlamento negli ultimi due
anni. È stato così anche per i 200 milioni dell'ultimo stanziamento triennale di Arcus (2010-12).
Su circa 1.200 domande, sono stati finanziati 206 progetti: ragioni e criteri di scelte e bocciature restano vaghi, affidati a «estratti» di poche righe. Ha suscitato scandalo il
mancato finanziamento all'Abruzzo del terremoto. Tre i progetti approvati (un convento a Tagliacozzo, archeologia al Fucino e ad Amiternum). Italia Nostra aveva proposto di destinare tutti i 200 milioni di Arcus al restauro del patrimonio artistico abruzzese. Pochissimi soldi alla Calabria (2 progetti: 1 milione), al Friuli Venezia Giulia (3 progetti: 4,6 milioni), al Molise (3 progetti: per 2,6 milioni). Superfavorito il Lazio con 38 finanziamenti per 30,907 milioni di euro, oltre a ben 15,8
milioni per valorizzazione e rilancio di Cinecittà. Spiccano due strutture romane: la Pontificia Università Gregoriana (1 milione e mezzo, oltre ai 2 milioni già stanziati da Arcus nel 2005 e ad altri 900mila sempre di fondi statali dell'8 per mille tra 2007 e 2008) e il Palazzo di Propaganda Fide (ristrutturazione finanziata con 5 milioni nel 2005 e 2006 non ancora interamente versati), entrambi inseriti per il Concordato nell'elenco degli edifici del Vaticano considerati territorio straniero in Italia.
A giugno il caso Arcus è esploso con fragore mediatico intrecciandosi agli scandali immobiliari legati alla Protezione Civile (cfr. lo scorso numero, p. 4) prendendo spunto proprio dal palazzo romano di Propaganda Fide. Secondo la Procura di Perugia, la sua ristrutturazione è stata finanziata da Arcus con 5 milioni sulla base di uno scambio di «favori» con l'allora
ministro alle Infrastrutture Pietro Lunardi, cogestore di Arcus. Per avere quel finanziamento, afferma la procura, il cardinale Crescenzio Sepe, prefetto di Propaganda Fide, ha venduto a Lunardi un edificio della Congregazione a prezzo stracciato. Lunardi e Sepe sono ora indagati per corruzione.
Alla vicenda giudiziaria si è aggiunto l'intervento della Corte dei Conti. In giugno ha notificato ai vertici di Arcus la richiesta di risarcimento del «danno erariale» per «finanziamento improprio» (Lo Stato non poteva finanziare la ristrutturazione di un palazzo all'estero). La decisione di quel finanziamento spettava ad Arcus. Ma lo stesso direttore della società, Ettore Pietrabissa, ha chiarito che i tecnici di Arcus non possono mettere in discussione le scelte dei politici». Dopo lo scandalo, Bondi ha bloccato l'ultima tranche di 500mila euro a Propaganda Fide almeno fino a quando nel palazzo non sarà aperta al pubblico (pare a
fine ottobre) la pinacoteca (prevista della convenzione del 2007 con Arcus), la cappella dei Re Magi e la biblioteca di Borromini. Bloccata da Bondi anche l'erogazione del milione e mezzo di euro per il rifacimento del cortile della Pontificia Università Gregoriana (anch'essa territorio estero).
L'esistenza di Arcus, ente pagatore senza potere, soggetto a
decisioni discrezionali, appare sempre meno giustificata. Per la Corte dei Conti si limita a distribuire denaro a pioggia, secondo la vecchia logica delle sovvenzioni statali, senza né coordinamento né visione strategica.
Intanto restano un rebus le verifiche e i controlli, soprattutto cartacei, sull'esito dei finanziamenti e i risultati raggiunti. Arcus ha un organico molto ridotto e si fa aiutare sul campo dalle direzioni regionali del Mibac. «E' un carrozzone da smantellare», dice Gianfranco Cerasoli, componente del Consiglio Superiore per i Beni culturali, segretario Uil del settore: la gestione del denaro andrebbe trasferita al Mibac. Si risparmierebbero così anche il costo della sede e gli stipendi: 2 milioni all'anno. Da luglio Arcus ha un nuovo presidente, l'ambasciatore Ludovico Ortona, che sostituisce Salvatore Italia dimissionario a marzo poco prima delle inchieste. Intanto il Governo non ha ancora presentato la relazione sull'attività di Arcus nel 2009, come vuole la legge.
È difficile sostenere che la cultura possa essere esentata dai drastici risparmi che l'equilibrio dei bilanci pubblici impone a tutti. Ed è inutile rimpiangere il fiume di denaro sciupato nel passato per beni culturali fasulli, in massima parte non meritevoli di così nobile classificazione. Beni non apportatori delle sostanze nutritive vitali con cui la cultura contribuisce alla buona salute di un Paese. I tagli dunque potrebbero perfino essere accolti con sollievo se servissero finalmente a staccare l'ossigeno ad attività pretestuose della cui privazione oggi e domani nessuno patisce, se non i diretti destinatari di denaro pubblico che serviva esclusivamente alla loro sussistenza personale.
Parassiti culturali. Lo scandalo Premio Grinzane Cavour è esemplare. Quei tagli dovevano essere fatti da tempo. Oggi comunque potrebbero venire considerati una salutare pulizia se basati su valutazioni consapevoli, caso per caso, della qualità di quanto debba essere sostenuto a qualsiasi costo e di quanto invece possa essere eliminato senza rimpianto. Tagli benvenuti dunque se imponessero uno stop definitivo alle cosiddette e maledette erogazioni a pioggia, espressioni del sistema di un Paese da secoli strutturato sulla cortigianeria e sulla mendicità intellettuale. Di un Paese sostanzialmente assistenziale. Da ciò reso pusillanime, pigro, servile e corrotto. Un Paese ben rappresentato dai personaggi impersonati da Totò e Alberto Sordi.
Il sistema delle sovvenzioni era molto apprezzato dai detentori del potere economico e politico perché garantiva la sottomissione remissiva di un settore vocazionalmente inquieto e critico che in se stesso coltiva germi di pericolose virulenze. Ma per selezionare occorre una conoscenza sicura dei prodotti e delle attività, una competenza che soltanto la pratica della cultura può dare, una severità rigorosa capace di prescindere da qualsiasi giudizio che non sia una valutazione del merito e della qualità. Nessuno degli uomini politici e degli amministratori che ci governano sembra dotato di tali requisiti, di un'autentica consuetudine, esperienza e frequentazione della cultura. Chi non usa la cultura nella propria vita privata, chi non l'ha resa parte integrante della propria esistenza quotidiana, chi quindi non sa quanto essa sia essenziale non meno del cibo e delle vesti, è improbabile che possa operare con sapienza chirurgie che possono risultare letali per il benessere profondo del Paese. Ad esempio, erano state finanziate quantità assurde di libri vanitosi, inutili, pleonastici, velleitari e dispendiosi. Eppure il libro è tuttora il principale deposito e vettore di cultura: non dovremmo finanziarne più nessuno? Alcune fondazioni e governatorati regionali hanno deciso così. Su cento libri, non è totalmente sciocco, per i 98 da gettare, negare ai due o tre meritevoli il supporto di cui hanno bisogno per esistere ed essere divulgati?
Il fatto è che fondazioni e Regioni dopo aver detto di sì a tutti ora trovano più comodo dire di no a tutti. Per risanare un'azienda occorrono, ma non bastano, tagli; di soli tagli un'azienda soccombe. Occorre innovazione, capacità di riforme spesso non costose, ma semplicemente intelligenti. Tagliare con una mano, creare con l'altra. Questa è la forza e il senso della politica, il talento del governare. Di innovazioni non vediamo il minimo segnale. Questo giornale cerca con fatica di mantenersi distaccato da pregiudizi, luoghi comuni e schieramenti di parte, finge di ignorare comportamenti e linguaggi inadeguati, imbarazzanti per la loro volgarità, limitatezza, convenzionalità e oscurantismo, ma basta scorrere la squallida cronaca degli ultimi mesi perché chiunque possa farsi un giudizio della pessima qualità, dell'incredibile mal governo dei beni culturali in Italia. Ecco l'agghiacciante sequenza (nessuno osi dire che il Governo è inattivo nei beni culturali):
Restauratori
La riforma (quasi 2Omila domande giunte) appare fatalmente destinata a impantanarsi in una dimensione che denota colpevole imprevidenza mettendo a repentaglio una tradizione professionale in cui l'Italia è ancora leader.
Parchi nazionali.
La stessa ministra Prestigiacomo ha minacciato di chiuderne almeno metà se non verranno annullati i tagli di bilanci che erano già insufficienti. Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, incalzato da Giulia Maria Crespi del Fai, ha suggerito di promuovere una campagna stampa. Il braccio destro del capo del Governo! Se ci crede, non può pensarci lui?
Arcus.
Doveva alimentare in via sussidiaria i beni culturali, ora è sospettata di usi impropri, arbitrari e non prioritari. Leggete la lista integrale delle elargizioni in questo numero comprende casi e privilegi veramente imbarazzanti.
Beni demaniali.
L'elenco di dodicimila edifici e luoghi da trasferire in nome del federalismo terrorizza le amministrazioni periferiche (Regioni e Comuni) che li equiparano in gran parte ad altre bocche da sfamare rifilate a chi non ha pane abbastanza per se stesso. Di fatto espone edifici rilevanti e paesaggi all'abbandono oppure al rischio di usi devastanti per l'inevitabile soccombenza a interessi particolaristici che localmente (per di più in condizioni di indigenza) non paiono arginabili e controllabili. Fatto sta che lo Stato si alleggerisce di colpo di una mole pesantissima di beni di rilevanza culturale. Intanto, le città di Firenze e di Roma si sbranano con il Ministero per la spartizione dei biglietti del David e del Colosseo. E’ solo l'inizio del federalismo culturale.
Permessi edilizi.
L'avvento dopo le Dia delle Scia (licenze di costruire con semplice autodichiarazione) rappresenta il comodo cedimento della classe dirigente alla propria inettitudine riformatrice, alla propria incapacità di imporre la faticosa riforma di un'asfissiante burocrazia. Diventa quasi impossibile il controllo delle Soprintendenze. La sciagurata pratica del «silenzio assenso» per le attività edilizie significa nel Paese più delicato del mondo l'abbandono all'anarchia del paesaggio (già dimezzato e devastato negli ultimi sessant'anni), del patrimonio edilizio e dei centri storici. Di fatto è un autocondono.
Il fotovoltaico.
La tolleranza di un regime folle di incentivazioni dì insediamenti non regolati costituisce la minaccia di un cancro distruttivo di paesaggi agricoli ancora bellissimi e incoraggia l'abbandono di pregiate colture incontaminate da secoli. In pratica, si annuncia la replica di ciò che le serre sono state per la deturpazione del paesaggio. Liguria docet.
Questi sono soltanto alcuni e più vistosi comportamenti dell'attuale politica italiana. Berlusconi, Tremonti (che tace ma agisce) e Bondi certamente hanno loro problemi, meriti e talenti, ma di fatto nel settore artistico e culturale dimostrano cinica e terrificante incomprensione o indifferenza per le vere esigenze di tali beni malgrado il loro grande valore, rivelandosi persone stranamente prive di sensibilità e dimestichezza culturale (al di là di vacue e tronfie dichiarazioni di circostanza che ormai non riescono a ingannare neppure il più ottuso seguace. Ma è possibile che sia soltanto questa, così nefasta e spericolata, così cinica, la nostra «politica» nei beni culturali? Consoliamoci: sono state anche varate le ricompense per gli sponsor che dovranno finanziare i restauri del Colosseo. Uno dei principali simboli e richiami turistici del Paese) e il direttore Resca ha predisposto le gare per la gestione delle fonti di introiti per 25 musei e luoghi archeologici (biglietterie, negozi, pubblicazioni, mostre). Sono iniziative necessarie e indispensabili (da sole non giustificherebbero l'aver creato un'apposita Direzione). Passi che tali gare siano tanto restrittive da far temere d'esser state anch'esse progettate ad personam (anzi ad aziendam: lo scandalo è che gli italiani non si scandalizzano più), ma appaiono mostruosamente caratterizzate da un solo obiettivo, da una monomaniaca ossessione: lo «sfruttamento». In questo modo di fare politica la redditività dei beni artistici sembra essere l'unico valore ammesso. Una concezione davvero rozza e riduttiva per un Paese assai dotato di arte e bellezze come l'Italia.
Zero assoluto invece per riforme che sarebbero davvero necessarie e innovative. Per esempio, modificare la legislazione affinché la gestione degli introiti non sia più centralizzata ma venga assegnata a ciascun museo renderli autonomi perché assumano la responsabilità diretta del proprio successo e della propria conduzione. Premiare i dirigenti in relazione a iniziative e risultati. Restauratori, parchi nazionali, beni demaniali, paesaggio, edifici e centri storici, culture agricole tradizionali: sono capacità professionali, beni e temi a dir poco capitali del patrimonio nazionale (nostra vera, unica ricchezza), che ci accingiamo a perdere irrimediabilmente. Perderli è una prospettiva spaventosa. Perderli per un deliberato banditismo o per rapina sarebbe orribile e doloroso, come subire una violenza, come una guerra persa, ma perderli per insipienza o incompetenza di qualcuno cieco e sordo (o, se preferite, ignorante e arrogante) è irritante in misura insopportabile. Tutto ciò che uccide la nostra cultura, uccide la capacità di difendere e conservare quanto rendeva ancora diversa, ancora bella, ancora attraente la nostra Italia. Non s'illuda, caro lettore, non è uno scherzo. Nessun pentimento, nessun lieto fine a sorpresa. E la condanna a una morte certa dalla quale non sarà possibile resuscitare.
“Il piano casa non funziona perché le regioni lo hanno reso troppo vincolistico”. La campagna stampa dei grandi quotidiani nazionali era iniziata con questo efficace slogan non appena si comprese che il regalo che Berlusconi aveva fatto alla rendita immobiliare riguardava un ristretto numero di persone. Invece di ragionare con onestà intellettuale sul fatto che la produzione edilizia in questo paese ha superato il limite di guardia e rischiamo un generale e irreversibile svalutazione immobiliare, la classe dirigente, incapace di pensare ad una prospettiva per uscire dalla crisi, non ha fatto altro che chiedere ulteriori deroghe urbanistiche, e cioè altri ricchissimi regali in termini di rendita immobiliare.
L’amministrazione regionale del Lazio è molto sensibile ai voleri del mondo della speculazione edilizia. Ne ha infatti avuto il prezioso appoggio per vincere le elezioni e ora le cambiali sottoscritte devono essere onorate. Così l’assessore all’urbanistica Luciano Ciocchetti (Udc) ha illustrato le linee del nuovo piano casa del Lazio. Rispetto a quello già molto generoso approvato dall’intrepida giunta Marrazzo aumentano ancora i premi di cubatura: ai proprietari di abitazioni verrà data la possibilità di aumenti compresi tra il 20 e il 50%. Ai proprietari di edifici industriali verranno invece concessi due strepitosi regali, un aumento del 30% delle volumetrie esistenti e il cambio della destinazione d’uso: appartamenti invece di linee di produzione.
Facciamo un esempio. Un’attività industriale di media grandezza ha una dimensione pari a 100 mila metri cubi, e cioè 12 mila metri quadrati di superficie coperta. Oggi, nella crisi industriale che viviamo le attività industriali hanno una rendita molto bassa: quei metri quadrati possono valere al massimo 1 milione di euro. Si pensi ad esempio che a Detroit la crisi industriale del comparto automobilistico ha provocato un collasso delle quotazioni immobiliari produttive dai 2000 dollari del 2008 agli attuali 60 dollari!
Ma torniamo nel Lazio. I capannoni hanno, come noto, altezze di 9 metri, con il cambio di destinazione d’uso si potranno realizzare tre piani di abitazione, e cioè il triplo della superficie esistente: 36 mila metri quadrati invece dei 12 di partenza. Poi, con il gentile regalo del 30% concesso dalla Polverini, la superficie totale arriverà a 47 mila metri quadrati. Il valore delle abitazioni nella periferia romana sono pari a circa 4 mila euro al metro quadrato: il capannone che valeva 1 milione con il piano casa regionale raggiunge i 188 milioni di euro. La Polverini ha inventato la gallina delle uova d’oro.
Ad esclusivo favore della speculazione però. Perché l’effetto dello sciagurato piano casa sarà quello di favorire inevitabilmente l’abbandono delle attività produttive e cioè l’ulteriore aggravarsi della crisi produttiva ed economica della regione. Quale imprenditore può ancora avere la voglia di rischiare investimenti in un qualsiasi settore produttivo se di fronte alla speculazione immobiliare viene aperta un’immensa autostrada? Sono venti anni che, colpo dopo colpo, sono state smantellate tutte le regole di governo del territorio e della tutela dell’ambiente. I piani regolatori che, con tutti i limiti che ben conosciamo, tentavano di delineare un futuro condiviso alle nostre città sono stati sostituiti concetti come la “valorizzazione immobiliare” e “l’accordo di programma” per superare ogni previsione urbanistica.
Lo stato liberale, che pure aveva a cuore l’iniziativa economica privata, aveva trovato nell’urbanistica un efficace punto di equilibrio tra interessi della collettività e interessi della proprietà, limitandone lo strapotere e imponendo vincoli. Oggi siamo in un’altra prospettiva sociale e culturale e tutto questo viene cancellato. Così la collettività deve rassegnarsi a subire sempre e comunque il dominio della proprietà immobiliare. In quale altro paese europeo, infatti, è la proprietà a decidere che i ceti meno fortunati dovranno vivere in luoghi desolati - come sono la totalità delle aree industriali - invece che in città dove si può vivere meglio? In nessuno, solo nell’Italia dominata dalla speculazione.
Con il piano casa delle regione Lazio tocchiamo con mano che, se non si taglia il dominio della rendita immobiliare – dominio che è bene precisarlo non esiste negli altri paesi della civile Europa - il nostro declino economico e civile non si interromperà. Il problema non è Berlusconi: il vero nodo che stringe alla gola l’Italia è quello di un’opposizione politica incapace di avere un’idea di sviluppo lungimirante in grado di favorire gli investimenti produttivi veri. In questi anni di liberismo urbanistico trionfante la sinistra non ha saputo costruire una visione critica alternativa, limitandosi ad inseguire il centro destra. Ed anche oggi che si toccano con mano gli effetti della cancellazione dell’urbanistica con l’espulsione dalle nostre città di centinaia di migliaia di famiglie verso periferie lontane, il tema dell’urbanistica è sempre più assente dalla politica.
Il ripristino delle regole del governo delle città e del territorio è il primo elemento per poter rilanciare lo sviluppo produttivo del nostro paese. Altro che piani casa: bisogna urgentemente chiudere la fase del sacco urbanistico dell’Italia.
Cari amici e compagni, per la prima volta in anni, all’elettorato milanese che si è stancato della conduzione di destra della città, particolarmente nella versione morattiana, viene offerta la straordinaria possibilità di scegliere liberamente un candidato alla carica di sindaco tra tre nomi eccellenti; prodotto di procedure e di proposta chiare e trasparenti: Stefano Boeri, Giuliano Pisapia e Valerio Onida. Se fosse possibile scegliere razionalmente tra questi candidati non solo in base alle simpatie personali, ma anche in base alla valutazione della sua capacità di vincere la competizione elettorale con la destra, non vi sarebbe alcun problema, ma è proprio la qualità dei tre candidati a rendere necessario il ricorso al più efficiente dei metodi irrazionali di scelta: il principio democratico del voto, consolidato da millenni di pratica.
Nel nostro sistema questo tipo di voto si chiama “primarie”: è un metodo importato dalla pratica americana e ha dato, in quel paese, complessivamente buona prova nel corso del tempo. In Italia è stato adottato dai partiti di sinistra che hanno così dato un contributo importante alle buone pratiche politiche (poche ahinoi!) del nostro paese, anche se poi si è fatta molta retorica e anche qualche cattiva applicazione. Questa volta, invece, l’elettorato milanese si trova di fronte a una reale competizione aperta e a vere primarie: è una reale novità che deve interessare non solo il popolo della sinistra, ma tutto l’elettorato milanese. Queste primarie assumono un’importanza strategica che va al di là del pure rilevante scopo di parte: se funzionano diventano uno strumento che può contribuire a ridurre l’inquietante crepaccio che si è aperto tra gli apparati dei partiti politici (nessuno escluso, nonostante la retorica delle “gente”) e la cittadinanza.
Ma che significa “funzionare”? Intanto un primo risultato è stato raggiunto, nelle ultime elezioni i partiti della sinistra hanno presentato, dopo logoranti negoziazioni interne, candidati dell’ultimo momento, spesso non molto entusiasmanti, a volte imbarazzanti, sempre perdenti. Il nuovo metodo garantirà dunque che si sceglierà un candidato vincente? Si spera, ma ovviamente non è certo: siamo alla famosa prova del pudding di cui sapremo la bontà solo dopo averlo mangiato. Credo che tutti (e non solo gli elettori di sinistra, ma tutti i cittadini interessati a ridurre il peso degli apparati politici), dovrebbero essere contenti di un risultato felice, ma forse è chiedere troppo. Non è chiedere troppo, però, esigere che gli apparati di partito locali, soprattutto dopo tante cattive prove, si astengano dal manipolare le primarie.
Beninteso ciò non vuol dire che il PD o altri partiti non debbano sostenere il candidato che ritengono migliore, ma sarebbe bene che si trattenessero dal targare troppo evidentemente un candidato alle primarie, sarebbe un grave errore di quelli che purtroppo le dirigenze di partito della sinistra negli ultimi anni hanno dimostrato di saper compiere a ripetizione, ma che oggi, in una situazione in cui si aprono delle reali possibilità di porre fine a un regime ideologico, da cattiva abitudine si trasformerebbe in peccato mortale. Purtroppo non si tratta di un timore astratto: il tentativo si è già mostrato nel più miserabile dei modi quando nelle esequie, c’è chi ha tentato di trasformare la morte tragica del povero Riccardo Sarfatti, in un lasciapassare per una linea politica che pochi giorni prima il Sarfatti vivo non era riuscito a imporre.
E’ il segno triste che la cosiddetta logica politica, nelle menti di qualcuno, ha raggiunto livelli inauditi di miserabilità intellettuale, umana e genuinamente politica, perché l’opportunismo paranoico di parte che domina nelle transazioni partitiche oggi è rifiutato da gran parte dell’elettorato che, non potendo incidere su queste perverse abitudini, rifiuta in blocco l’area della democrazia politica. Attenti quindi. Oggi, con questi tre ottimi candidati, la sinistra pr una volta può vincere, purché vinca la tentazione di dividersi come sempre, al ribasso.
Ci sono modi e modi per fare le primarie: si possono fare delle primarie esclusive per dividere l’elettorato di sinistra da parte di ogni tifoseria, concentrando l’azione sul demolire gli altri concorrenti. Sarebbe un disastro perché poi il perdente o i perdenti resterebbero a casa o voterebbero altrove. Ma si possono anche fare primarie inclusive incentrate sul fare emergere in positivo le doti di ciascun candidato; alla fine ogni candidato ne uscirebbe comunque con un’immagine rafforzata e il vincitore sarebbe comunque invogliato a recuperare gli altri nella squadra, una squadra che avrebbe intanto ricevuto un insieme di giudizi positivi. Si può fare, non è impossibile, purché tutti ci impegniamo a non cadere nel gioco puerile dell’ammazzalamico e nello sparo nei garretti (propri) che ha dominato la politica del PD negli ultimi anni.
Cerchiamo di crescere fuori da queste puerili regressioni e di aiutare i nostri amici politicos a non ricadere nell’usuale curva sud parlamento mediatico. Sono moderatamente ottimista perché la mobilitazione anticipata dell’elettorato che questa volta c’è stata ha evitato che gli apparati tirassero fuori il solito coniglio all’ultimo momento. Su può fare, si può davvero fare se gli apparati non manipoleranno le primarie e si impegneranno a seguirne il risultato. E’ una preghiera fatta da un singolo individuo, ma chi ha orecchie per sentire l’opinione dei tanti che la sordità degli apparati relega al mutismo, non ci mette molto a capire che si tratta di una seria intimazione condivisa da molti: giù le mani dalle primarie.
Comprare e vendere case non è solo comprare e vendere metri quadri e le loro qualità prestazionali. Si comprano e vendono possibilità di relazione. Relazioni a distanza (trasporti, ma anche banda larga ecc.); relazioni di prossimità (disponibilità di servizi, qualità degli spazi pubblici, sicurezza). L’incidenza delle potenzialità relazionali sul valore degli immobili varia dunque in relazione alla posizione (le cosiddette “economie esterne”). È qui che si forma la rendita immobiliare urbana. La quale è in buona parte il frutto di un investimento pubblico e di un lavoro collettivo. Per questo le società politicamente evolute hanno cura che la quota di rendita che è frutto dell’investimento pubblico ritorni alla Pubblica Amministrazione. Non è solo una questione di giustizia sociale: solo così la Pubblica Amministrazione è in grado di operare la manutenzione e l’ammodernamento delle reti, dei servizi e dello spazio pubblico, senza cui una città e un territorio decadono.
E in Italia? Si dirà: ci sono gli standard e gli oneri di urbanizzazione. Vero; ma si è fatto di tutto per rendere i primi inadeguati e per trasformare i secondi in fonte per garantire il funzionamento corrente delle amministrazioni locali. Così le nostre città non sono messe in grado di competere sul terreno dell’efficienza e della qualità della vita.
Il Pgt di Milano punta tutto sulla possibilità dell’investimento immobiliare. Ma è come se sull’albero di Natale si appendessero balocchi di un peso spropositato. Se mai uno di questi balocchi si appenderà, il ramo è destinato a spezzarsi. L’interesse pubblico è fare città, quello privato è vendere metri quadri. Se non si trova l’armonizzazione fra obiettivi tanto distanti, il fallimento è assicurato. E a pagare il prezzo saranno le future generazioni.
Sono passati 911 giorni da quando Milano ha vinto la gara internazionale per l’Expo 2015 (era il 31 maggio 2008). Ora mancano solo 19 giorni all’esame del Bie (il Bureau international des expositions) di Parigi, che deve ufficializzare la candidatura. Ma Milano non ha ancora risolto neppure il primo problema: dove farlo, l’Expo. Ha bruciato un paio di manager che avrebbero dovuto realizzare l’evento (prima Paolo Glisenti, poi Lucio Stanca), ha perso tempo in interminabili litigi tra partiti, gruppi e cricche, ha sfrondato i bilanci perché i soldi sperati all’inizio, ora non ci sono. E adesso? Tutto rischia di saltare perché non è stato trovato un accordo su come acquisire i terreni a nord di Milano previsti per l’Expo.
Lo stallo nelle decisioni
Perché è così difficile? Che cosa impedisce di trovare una soluzione? Giuseppe Sala, il manager che ha assunto la guida di Expo spa, sa che non dipende da lui. La decisione sulle aree è nelle mani di tre persone: Roberto Formigoni, Letizia Moratti, Guido Podestà, cioè i politici al vertice di Regione, Comune e Provincia di Milano. Sono loro che non hanno ancora trovato un accordo. Perché? Per spiegare l’attuale rebus delle aree, bisogna capire una sproporzione, una differenza, uno scarto: tra le iniziali aspettative di guadagno per gli operatori (altissime) e ciò che è rimasto invece oggi sul tappeto (molto meno). Nel 2007, quando l’Expo è stato pensato, politici e operatori economici speravano di partecipare a uno dei ricorrenti banchetti italiani, grandi eventi o terremoti, in cui una cascata di soldi pubblici arriva ad accontentare amici e amici degli amici. Nella convenzione iniziale, sottoscritta nel giugno 2007 dal Comune di Milano e dai due proprietari dell’area prescelta (Fiera e gruppo Cabassi), si prevedeva di cedere i terreni in concessione all’Expo per vederseli restituiti nel 2017 con i diritti a costruire un milione e mezzo di metri cubi di uffici, residenza, spazi commerciali. Come l’intero quartiere di Milano-Bicocca. E in un’area già ben infrastrutturata, con strade, mezzi pubblici, metropolitana, parcheggi, aree verdi... Un bingo.
La speculazione quasi mancata
Tre anni dopo, le cose sono cambiate. Invece dell’Expo “pesante”, molto costruito, è prevalso un progetto “leggero”, con poco cemento e grandi orti: un immenso giardino botanico in cui i paesi partecipanti potranno presentare le loro coltivazioni, con serre e terreni che riproducono le biodiversità, i climi del mondo e le loro tipicità alimentari. Secondo l’architetto Stefano Boeri, autore con altre archistar internazionali del concept plan del nuovo Expo e oggi candidato sindaco a Milano, i metri cubi di cemento sopravvissuti sono circa 350mila. Solo un quarto dell’ipotesi iniziale. Ecco allora da dove nasce la litigiosità che ha impedito finora a Regione, Comune e Provincia di mettersi d’accordo.
Prima c’era da mangiare per tutti,e comunque si litigava per avere i posti migliori a tavola. Ora in tavola è rimasto uno spuntino e i commensali fanno fatica a rinunciare a quanto era stato apparecchiato. I due commensali principali sono, appunto, i proprietari dei terreni. Cabassi, per una piccola parte. E la Fondazione Fiera di Milano. Che vuol dire, semplificando un po’ ma non troppo, Roberto Formigoni. Ecco perché Formigoni sta facendo da mesi il braccio di ferro contro tutti: deve recuperare il più possibile della tavola imbandita. Come? Diventando egli stesso immobiliarista, un inedito immobiliarista pubblico, che oggi compra le aree e dopo l’Expo le valorizzerà. Letizia Moratti e Podestà preferivano invece il comodato d’uso. Staremo a vedere chi vincerà. Con un problema: le aree oggi sono agricole, dunque hanno un valore basso; può un’istituzione pubblica come la Regione pagarle più del loro valore (l’ultima offerta era di 90 milioni di euro per il tratto di Cabassi), in nome di una speculazione immobiliare futura?
L’ipotesi Ortomercato
A questo punto Stefano Boeri spariglia: “Andiamo a fare l’Expo all’Ortomercato: un’area già pubblica. È la soluzione migliore”. Replica Giuliano Pisapia, altro candidato sindaco del centrosinistra: “No, è meglio impiantare l’esposizione universale del 2015 negli spazi già attrezzati della nuova Fiera”. A entrambi replica Giuseppe Sala, il gran manager di Expo spa: “Impossibile fermare per sei mesi le attività della Fiera. E impossibile spostare altrove per sei mesi tutte le attività dell’Ortomercato. L’area scelta resta quella. I politici decidano come acquisirla e ce lo dicano in fretta. C’è molto da lavorare, per recuperare il tempo perduto”.