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Tutti pazzi per il social housing. È da non credersi la mole di progetti che in pochi mesi è nata in tutta Italia per agganciare uno dei pochissimi business che in questo momento sintetizza il panorama delle costruzioni e dell’immobiliare.

Con la Cassa Depositi e Prestiti a fare da regista col suo Fia (Fondo investimenti per l’abitazione, che attualmente conta su una dotazione di circa 2 miliardi) sta prendendo il via una maxi operazione che si pone come obiettivo di dare una risposta al problema del fabbisogno abitativo in Italia

Per ora non ci sono dati certi, ma facendo un po’ i conti, il numero di alloggi che potrebbe essere realizzato nelle diverse regioni varia tra i 30 e i 40 mila, ben lontani dai 100 mila annunciati dal governo in un primo momento, ma comunque non pochi. I progetti in cantiere sono arrivati rapidamente a una ventina, di questi dieci sono già all’esame della Cdp e uno (il fondo Parma Social House) ha già ottenuto il via libera.

Arriva il Superfondo

Si tratta di tutte iniziative che, per la prima volta, vedono coinvolti investitori privati ed enti pubblici, come sottoscrittori dei fondi immobiliari regionali ai quali il superfondo della Cdp potrà partecipare con un quota massima del 40%. Un meccanismo che fa del social housing un cantiere da almeno 6-7 miliardi, visto che all’equity che la Cdp mette piatto vanno sommate l risorse (anche terreni e aree) stanziate dagli investitori locali e la leva finanziaria.

Va detto che agli inizi di questo processo, cioè nel 2009, quando è stato approvato il decreto sul piano casa che conteneva anche le norme per la nascita di un sistema integrato di fondi immobiliari destinati all’housing sociale, in molti erano scettici sulla redditività di queste operazioni, mete altri erano convinti che l’intero affare diventasse di esclusivo appannaggio di coop e istituzioni no profit.

Sarà che l’attesa dei rendimenti nel settore real state si è fortemente ridotta, ma sono numerosi gli operatori privati, anche di grosso calibro, che stanno scendendo in campo con iniziative, e questa è la vera novità, che addirittura non prevedono la presenza di enti locali (ma sono lo stesso finanziabili dalla Cdp). Secondo quanto risulta al Mondo, nel Lazio si sta muovendo un gruppo finanziario cme la Banca Finnat della famiglia Nattino, che avrebbe invitato un pool di soggetti privati, tra i quali la cooperativa Anagnina ’97, a ragionare su un’ipotesi di investimento nellarea romana attraverso una società in via di costituzione.

Il Mattone dell’Est

Anche in Veneto si registrano due nuove iniziative analoghe.

La prima è di Est capital sgr, che ha appena ottenuto da Bankitalia il via libera per al costituzione del fondo Real Quesrcia, al quale parteciperanno due gruppi imprenditoriali il cui nome resta per ora riservato, con un equity di 40 milioni e progetti per Venezia, Padova, Vicenza e Verona.

La seconda è del gruppo di costruzioni Sarmar di Antonio Sarti, che punta alla costituzione di un fondo privato per costruire centinaia di alloggi in tutta la regione Veneto.

Passando più a sud, in Basilicata, si trova un’altra iniziativa a carattere totalmente privato: Matera ’90 (capocordata di un gruppo di imprese e cooperative locali di costruzione) sta costituendo un fondo per realizzare 350 alloggi in provincia di Matera. Va detto, però, che questi ultimi sono eccezioni, poiché nella maggior parte dei casi, come si può vedere dalla mappa dei progetti, la presenza di Regioni e Comuni nei fondi è d’obbligo visto che sono loro a metetre a disposizione le aree su cui edificare, quando non offrono anche dotazioni finanziarie.

Pubblico & Privato

In alcune regioni, come Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, questo processo di partnership pubblico-privata è già in fase avanzata grazie soprattutto al lavoro di promozione e di mediazione svolto da Fondazioni bancarie come Cariplo, pioniere del settore come dimostra il fatto che le creature di sua emanazione, Polaris sgr e Fondazione Housing sociale (Fhs) sono presenti in un gran numero delle iniziative nate nella Penisola, anche nella veste di advisor.

Sergio Urbani, presidente di Fhs, spiega che “è come se di colpo molti imprenditori avessero compreso di poter accettare guadagni inferiori rispetto al passato, facendo girare ugualmente l’economia della propri azienda e del territorio”.

Una dimostrazione dell’enorme interesse suscitato dall’affare social housing è la risposta al bando di gara internazionale indetta dal Fondo Abitare Sociale 1 per due progetti di Milano (Figino e via Cenni): hanno risposto 1.100 studi di progettazione sono state presentate 260 proposte.

Ma faranno profitti?

Per tutti i progetti, ora, si pone il tema della sostenibilità, cioè della loro capacità di soddisfare un’esigenza sociale e allo stesso tempo di produrre ricchezza. Guido Inzaghi, giurista esperto di edilizia e territorio e partner dello studio Dla Piper, che segue alcuni dei maggiori progetti, spiega: “È importante una giusta articolazione delle destinazioni d’uso all’interno dei progetti di social housing. La sostenibilità economico-finanziaria dell’investimento si raggiunge dando spazio anche all’edilizia residenziale, libera, degli uffici, e terziaria in genere. A questo ampliamento non deve tradire la finalità sociale dell’investimento”.

Ma c’è un’altra questione, che questa volta sta a cuore alla Cassa ed è rappresentata dal tema della gestione degli immobili. L’orientamento che sembra prevalere è quello di accordare una preferenza ai progetti che prevedono in modo chiaro il coinvolgimento di una società specializzata che si occupi di manutenzione, riscossione affitti e così via. Bisognerà tenerne conto per ottenere il placet della Cassa.

la Repubblica ed.nazionale

Milano 2015, odissea nell’Expo viaggio nel grande sacco dei privati

di Alessia Gallione, Andrea Montanari

MILANO - La foto di gruppo è quella del 31 marzo del 2008 e Letizia Moratti la conserva ancora nel suo ufficio a Palazzo Marino. Tutti sorridenti, in quell’istantanea che immortala la vittoria di "squadra" bipartisan di Milano sulla rivale Smirne: il sindaco, Roberto Formigoni, l’allora presidente della Provincia del Pd Filippo Penati, il premier Romano Prodi. Un’era geologica fa. Perché da allora sono passati 927 giorni. Il "grande evento" del 2015 aspetta ancora di partire e dopo mesi di scontri e impasse, soltanto ieri è stato sciolto quello che avrebbe dovuto essere il primo dei nodi: la disponibilità dei terreni (privati) su cui sorgeranno i padiglioni di Expo. Un accordo in extremis raggiunto a cinque giorni dall’esame – martedì 19 – di fronte al Bureau International di Parigi, che aveva dettato un ultimatum in vista della registrazione ufficiale. Ma a cui tutti, a cominciare dai protagonisti del centrodestra, sono arrivati divisi.

La strada è segnata: i proprietari di quei terreni, Fondazione Fiera e gruppo Cabassi, hanno risposto positivamente alla richiesta della Moratti che, per presentarsi con qualcosa in mano a Parigi aveva chiesto «l’immediata e incondizionata disponibilità delle aree». «Un accordo un po’ sofferto, ma sulla scelta più idonea – ha commentato il presidente di Fondazione Fiera Gianpiero Cantoni – Non siamo né speculatori né interessati a operare se non in grandissima trasparenza».

Ma in quel gran gioco dell’oca che è diventato Expo, siamo tornati alla casella di partenza: il destino di quel milione di metri quadrati alla periferia Nord-Ovest della città era già stato scritto nel 2007. Un pezzo di niente, sulla carta terra agricola o con destinazioni industriali o artigianali, su cui caleranno però investimenti pubblici per più di un miliardo (oltre ai 10 per strade e metropolitane) rendendo appetibile quel triangolo stretto tra autostrade e ferrovie. È allora che fu abbozzato con Fondazione Fiera (proprietaria di 520mila metri quadrati) e il gruppo Cabassi (260mila) l’accordo finalmente approvato ieri: un comodato d’uso con diritto di superficie. Con la possibilità di costruire, 18 mesi dopo l’Expo, oltre 400mila metri quadrati di nuove case, uffici e negozi concentrati su metà dell’area (340mila metri quadrati), mentre l’altra metà resterà pubblica. L’indice di edificabilità è dello 0,52, in realtà raddoppia visto che si dovranno concentrare le volumetrie, facendo nascere palazzi da 14-18 piani. Un nuovo quartiere da 15mila abitanti, accusa il centrosinistra, un’operazione immobiliare da 400 milioni di euro.

Un tesoro conteso fino all’ultimo, perché è attorno a quelle plusvalenze che si è giocata la partita. Nonostante i privati siano chiamati oggi a pagare, oltre agli oneri di urbanizzazione, anche parte delle infrastrutture: il modo per garantire l’interesse pubblico. Attacca Penati: «Quello della Moratti è un regalo ai privati. La partita dell’Expo è politica ed è tutta giocata nel Pdl». Stefano Boeri, candidato sindaco alle primarie di centrosinistra, è uno degli architetti che ha disegnato il progetto del 2015: campi da coltivare con tutti i sapori del mondo al posto dei tradizionali padiglioni. Un orto planetario che questo accordo «sbagliato», dice, cancellerà con «una colata di cemento». Secondo i suoi calcoli, tra opere Expo e residenze future si arriverà a oltre 700mila metri quadrati: l’equivalente di 25 Pirelloni.

L’evento che avrebbe dovuto rilanciare la Capitale del Nord, finora è stato soltanto il palcoscenico di uno scontro di potere interno al centrodestra, per stabilire chi gestirà le leve di comando e i futuri appalti e cantieri. È così che se ne sono andati 927 giorni. In un braccio di ferro tra Letizia Moratti, il sindaco-commissario a cui il governo ha appena affidato altri poteri da "Bertolaso del Nord" per velocizzare i lavori a colpi di deroghe, e Roberto Formigoni, il governatore del "ventennio" di dominazione in Lombardia. Una battaglia di personalismi, una contesa tra l’anima laica del Pdl e quella cattolico-ciellina. Non a caso l’area scelta per i futuri padiglioni sorge vicino al nuovo polo fieristico di Rho-Pero e, per la maggior parte, è in mano alla Fiera, feudo ciellino e formigoniano fino all’avvento alla presidenza di Cantoni, fedelissimo del Cavaliere.

Gli ultimi mesi sono stati contrassegnati dall’indecisionismo del sindaco, che ha sempre propugnato la scelta del comodato d’uso con i privati, e dai veti del presidente della Regione che ha difeso fino all’ultimo la strada di una "newco" pubblica per acquistare i terreni. A comprare le aree ci aveva provato anche la società di gestione guidata allora da Lucio Stanca, l’ex ministro chiamato da Berlusconi alla guida: l’offerta arrivò a 180 milioni, ma finì in nulla. Formigoni iniziò così la sua partita a scacchi deflagrata in uno scontro aperto tra istituzioni: lo scorso luglio il Pirellone propose di comprare il milione di metri quadrati.

Per il governatore, che è arrivato a ventilare l’ipotesi dell’esproprio, era la via migliore e più trasparente per garantire «l’interesse pubblico». Per i detrattori, una mossa per mettere le mani su Expo tagliando fuori l’alleata-nemica Moratti e gestire attraverso Infrastrutture lombarde – il braccio operativo di Regione Lombardia – i lavori. Non solo. Chi possederà le aree deciderà anche cosa vi sorgerà. Per ora, in mano pubblica rimarrà un parco tematico che ruoterà attorno alle serre con tutte le colture del mondo, un auditorium, le case del villaggio Expo e tre padiglioni destinati al centro di produzione Rai. Ma il resto è tutto da inventare e anche qui il mondo dell’edilizia milanese vorrà pesare. Chi si contenderà quei lavori? E poi ci sono gli interessi di chi, oggi, non è della partita, come Salvatore Ligresti (che pure possiede gran parte di un’area dismessa non lontana dal sito Expo, che il Comune ha in programma di trasformare in una nuova Défence), ma che osserva con aria nient’affatto disinteressata quel che accade intorno a Rho-Pero. Nella peggiore delle ipotesi, perché sul mercato asfittico di questi anni si riverseranno altre migliaia di metri quadrati costruiti e da vendere, e la concorrenza dà sempre fastidio. Nella migliore, l’affare sarà così grande che forse anche gli esclusi di oggi troveranno un posto a tavola.

Corriere della Sera ed. Milano

Expo, via libera dei privati

di Elisabetta Soglio



Arriva in extremis, ma arriva. Fondazione Fiera e gruppo Cabassi hanno ieri scritto al sindaco commissario di Expo dichiarando la «disponibilità immediata e incondizionata» dei terreni che ospiteranno l’evento del 2015. La notizia verrà portata al Bie martedì prossimo. Restano da decidere, però, le modalità dell’accordo fra privati e soci pubblici sia per le spese di infrastrutturazione dell’area, sia per i criteri di edificabilità che verranno concessi. Dall’opposizione piovono critiche: «Ci opporremo a questa colata di cemento regalata ai privati». I terreni ci sono e lamacchina di Expo ricomincia a muoversi. Il consiglio generale della Fondazione Fiera, presieduto dal professor Gianpiero Cantoni, ha deliberato ieri «la messa a disposizione incondizionata, con decorrenza immediata e sino al diciottesimo mese successivo alla fine dell’evento» delle aree che ospiteranno Expo 2015. Anche il gruppo Cabassi, proprietario del 30 per cento degli spazi di Rho-Pero su cui sorgerà l’esposizione, ha scritto al sindaco-commissario garantendo la disponibilità chiesta.

Una precondizione indispensabile per poter continuare il cammino verso la registrazione del dossier italiano, che il Bie dovrebbe firmare il 23 novembre. Ma per martedì prossimo, 19 ottobre, è previsto l’incontro con il comitato direttivo del Bureau, al quale la Moratti e l’amministratore delegato della società Giuseppe Sala dovranno portare la garanzia dei terreni rimasta fino ad oggi in sospeso.

Il sospirato via libera, comunque, non risolve tutti i problemi: nel senso che, dal 20 ottobre, i soci pubblici dovranno tornare a discutere con quelli privati delle condizioni del comodato d’uso. I Cabassi e la Fondazione Fiera lasciano intendere che chiederanno il rispetto dell’accordo di programma sottoscritto dalle istituzioni nel 2007 e riconfermato nel settembre scorso. Questo, per quanto attieneagli indici di edificabilità: in realtà, tutto il discorso potrebbe essere rivisto dai consigli comunale, provinciale e regionale che dovranno ancora approvare la delibera.

Altra questione è quella della partecipazione dei privati alle spese di infrastrutturazione. Come chiesto dalla Regione, su indicazione dei pareri legali presentati dal Governatore Roberto Formigoni al sindaco commissario, oltre agli oneri di urbanizzazione Fondazione Fiera e Cabassi dovranno partecipare alle spese di infrastrutturazione dell’area. Pagando quanto, è tutto da decidere.

Per ora ci si accontenta del passo avanti comunque decisivo. Cantoni ha ammesso che «è stato un accordo un po’ sofferto», ma che quella scelta è parsa «la soluzione più idonea, perchè garantisce contemporaneamente l'interesse pubblico complessivo di tutti gli attori istituzionali coinvolti e evita un impatto negativo sul patrimonio e sul conto economico della Fondazione». Ripercorrendo le varie ipotesi prese in esame per la proprietà delle aree (l’esproprio, la costituzione di una newco e il comodato) il senatore Cantoni ha ribadito la preferenza per il comodato malgrado il presidente Formigoni abbia sostenuto la via della newco. Ma non ci sono dissidi: «Abbiamo concordato le linee con la Regione», puntualizza il presidente.

Nessun commento, fin qui, da Regione e Comune, anche se i vertici istituzionali sono soddisfatti perché comunque «ora abbiamo le carte in regola». Già oggi Formigoni e Moratti avranno un incontro privato per fare il punto della situazione, alla luce dei documenti nel frattempo esaminati. Arrivano invece le critiche del centrosinistra. Apre le danze l’architetto Stefano Boeri, che aveva realizzato il masterplan di Expo. «Quella del comodato— attacca— è una scelta profondamente sbagliata, che oltretutto seppellisce sotto una montagna di cemento il progetto di un orto botanico planetario per l'Expo 2015». Critico anche l’altro candidato, Giuliano Pisapia, che punta il dito contro Moratti e Formigoni: «Sarà vostra responsabilità non trasformare l’Expo in un affare d’oro per i soliti noti».

Dichiara guerra il capogruppo pd Pierfrancesco Majorino: «Andiamo verso una possibile cementificazione selvaggia dell’area Expo dopo il 2015. In consiglio ci opporremo all’ipotesi di una quartiere di lusso pagato dai contribuenti».

la Repubblica ed. Milano

"Addio orto planetario sull’area tanto cemento come per 25 Pirelloni"

Intervista a Stefano Boeri, di Alessia Gallione

«Questo accordo è la pietra tombale sull’idea di orto planetario presentato al Bie. Expo è stata usato come grimaldello per regalare migliaia di metri quadrati ai privati». Quel progetto di un’Esposizione leggera e verde, Stefano Boeri l’ha seguito fino a quando ha lasciato la Consulta architettonica per candidarsi alle primarie. Ed è «dall’eredità tradita», che parte l’accusa.

Dopo 927 giorni, siamo tornati alla scelta iniziale: il comodato d’uso.

«È umiliante che dopo più di due anni si sia arrivati a una soluzione che per certi aspetti peggiora l’accordo di programma presentato all’atto della candidatura».

Perché parla di scelta peggiore?

«Se nell’accordo iniziale era prevista un’edificazione sul sito di 580mila metri quadrati, la variante attuale in attesa di essere presentata in consiglio comunale consentirà ben 740mila metri quadrati di costruzioni, l’equivalente di 25 Pirelloni. Con buona pace dell’orto botanico e dell’idea di una grande area agricola di sperimentazione e di ricerca».

Secondo Moratti, però, Expo lascerà un grande parco su metà dell’area. Non basta a salvaguardare l’orto globale?

«Dai miei calcoli, dopo il 2015 i privati potranno costruire 505mila metri quadrati. A questi ne vanno aggiunti i 230mila che Expo realizzerà. E in questa quota sono compresi le serre, il villaggio, ma anche 80mila metri quadrati di una non ben chiarita sede Rai. In totale è l’equivalente di un quartiere come la Bicocca concentrato su un territorio più piccolo. Si tratta, nonostante la partecipazione dei privati ai costi delle infrastrutture, di un’indebita valorizzazione di un terreno privato prodotta grazie a investimenti pubblici».

La proposta della Newco avrebbe tutelato di più il pubblico?

«La linea di Formigoni era più seria e trasparente, ma non si misurava comunque con il problema di fondo: è profondamente sbagliato realizzare un grande investimento pubblico su aree private senza averle prima espropriate o avere chiarito che nessun vantaggio derivante da quegli investimenti favorirà i proprietari. Oggi quelle aree non valgono più di 10 milioni. Mi risulta che per l’acquisto si sia arrivati a offrirne fino a 180».

Chi ritiene che sia giusto costruire un nuovo quartiere lo fa sostenendo che così si farà vivere la zona.

«La nostra idea di orto botanico, oltre che dalla necessità di creare un paesaggio attrattivo e inedito, nasceva dalla volontà di non dare vantaggi ai proprietari privati e di valorizzare un terreno mantenendo la sua natura di grande spazio verde, permeabile e coltivabile. Oltre alle serre sarebbero rimasti l’auditorium e il villaggio. Il viale centrale si sarebbe potuto trasformare in un boulevard dell’alimentazione e della ristorazione italiana e con la Fiera si sarebbe potuta organizzare una grande esposizione dedicata al tema».

Quando ha iniziato a lavorare al progetto, però, l’accordo era quello. Perché non ha denunciato allora questi pericoli?

«I membri della Consulta avevano manifestato una totale contrarietà all’accordo di programma, ma avevamo avuto rassicurazioni sul fatto che i terreni di Rho-Pero sarebbero stati acquisiti o gestiti come pubblici. La verità è che, dopo il nostro progetto, non è stato fatto nulla per ridurre le premesse e promesse fatte ai privati».

Jacques Herzog ha espresso preoccupazione per la necessità di affrontare subito i contenuti. La condivide?

«Condivido pienamente la posizione di Herzog e il suo richiamo al coinvolgimento di Carlo Petrini, una delle anime del progetto. Bisognava partire subito anche con la valorizzazione delle cascine e di un’Expo diffusa. Ma si è fatto poco anche da questo punto di vista».

Expo può ancora essere un successo?

«Sono profondamente amareggiato da questa vicenda, ma la speranza è che si riesca a superare questo momento. Per questo faccio un appello alla città, a cominciare dai nostri governanti. Bisogna ridurre drasticamente le aspettative dei privati, valorizzate l’investimento pubblico sull’orto, che deve essere considerato come l’unica eredità possibile, e misurare su questo il valore del terreno. Se non si riesce spostiamo subito il progetto all’Ortomercato: è un’area pubblica e può ospitare lo stesso progetto con costi minori e procedure corrette e veloci».

Centoventi ettari di fertile campagna e di bel paesaggio nel mezzo del quadrilatero Fermo-Sant’Elpidio a Mare-Porto Sant’Elpidio-Porto San Giorgio, stanno per essere sommersi da una coltre di cemento e asfalto nella forma di un faraonico motodromo del quale la maggior parte degli abitanti della zona, francamente, non sente il bisogno. Il Comitato per la Bellezza si unisce alla denuncia contro questa iniziativa che porta ad altro inutile consumo di suolo e di paesaggio e che colpisce una zona di alto valore paesaggistico, storico e naturalistico. Il motodromo in questione, dovrebbe infatti sorgere alle porte di Fermo, in località San Marco, a trecento metri dall’Abbazia di San Marco alle Paludi, a poca distanza da una storica torre medievale, ai margini del Parco fluviale Alexander Langer.

In questo ambiente incontaminato, attualmente destinato ad agricoltura estensiva, la società Agrisea, sostenuta dal sindaco di Fermo, intende realizzare il megaimpianto sportivo che, nelle più rosee prospettive, quando sarà in piena attività, darà lavoro al massimo a quaranta addetti. Quanti posti di lavoro – anche a voler ragionare soltanto in questi termini economicistici – può invece produrre un paesaggio ben conservato sotto forma di turismo culturale, di agriturismo, di residenze qualificate in antichi borghi e casali, di agricoltura specializzata, di “immagine” internazionale? Certamente molti ma molti di più. E senza dissipare un solo ettaro di suoli liberi e di paesaggio.

Qui, invece, 120 ettari rischiano di venire ‘consumati’, asfaltati e cementificati, per creare 40 ipotetici posti di lavoro (30.000 metri quadrati a testa), in una regione che in termini di impianti dedicati al motociclismo risulta già piuttosto fornita, senza contare la relativa vicinanza con quelli di Montorio al Vomano, nel Teramano, di Magione nel Perugino e di Misano Adriatico, fra Riccione e Cattolica, nel Riminese, per non parlare poi del Mugello e Vallelunga abitualmente frequentati dai centauri marchigiani.

La preoccupazione delle associazioni ambientaliste fermane e marchigiane è dunque più che fondata e condivisibile: il pericolo che la colata di cemento si abbatta su una zona di particolare pregio è incombente. Il richiamo alla mobilitazione per la difesa del suolo e del paesaggio è un dovere civico che ogni cittadino dovrebbe ascoltare e sostenere: soltanto nel decennio 1995-2006 in Italia sono spariti sotto un coltre di cemento e asfalto terreni agricoli o boschivi liberi pari alla superficie dell’intera Umbria. Si può soltanto immaginare con raccapriccio quale enorme porzione di Bel Paese abbia fatto la stessa fine dal 1946 al 1995. Con l’aggravante che il più recente “boom” edilizio, durato dal 2000 al 2007, non ha neppure scalfito l’emergenza-casa per le giovani coppie, per gli immigrati, per i ceti più deboli, concentrandosi per lo più su condominii a caro prezzo e su seconde e terze case. Facciamo pertanto appello alla sensibilità e all’intelligenza politica di quanti alla Regione Marche, in Provincia e in Comune sono politicamente preposti alla pianificazione urbanistica e paesaggistica e alla promozione turistica affinché questo nuovo grave scempio venga risparmiato al paesaggio fermano e marchigiano la cui particolare bellezza è ormai nota a livello internazionale. Uno straordinario valore “in sé” che va tutelato e quindi attentamente preservato.

Il Comitato per la Bellezza

Sottoscrivono:

Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza

Desideria Pasolini dall’Onda, fondatrice di “Italia Nostra”, presidente onorario Comitato per la Bellezza

Giulia Maria Mozzoni Crespi, fondatrice e presidente onorario del FAI

Marisa Dalai, presidente Ass. Ranuccio Bianchi Bandinelli

Alberto Asor Rosa, presidente Rete Comitati Difesa Territorio

Fulco Pratesi, fondatore e presidente onorario Wwf Italia

Danilo Mainardi, etologo, presidente onorario LIPU-Birdlife Italia

Stefano Leoni, presidente nazionale Wwf Italia

Vittorio Cogliati Dezza, presidente nazionale Legambiente

Alessandra Mottola Molfino, presidente nazionale Italia Nostra

Gabriele Tarsetti, Comitato promotore contro Motodromo, LIPU

Stefano Papetti, presidente FAI Marche

Luigi Manconi sociologo e scrittore

Vezio De Lucia, urbanista

Gianfranco Amendola, magistrato

Paolo Berdini, urbanista

Edoardo Salzano, urbanista, sito eddyburg.it

Maria Pia Guermandi, archeologa, sito eddyburg.it

Giuliano Cannata, Pianificazione fluviale, Università Siena

Andrea Emiliani, storico dell’arte, già Sopr. Bologna e Romagna

Tullio Pericoli, pittore di paesaggi

Mario Dondero, fotografo

Gaia Pallottino, ambientalista

Irene Berlingò, archeologa, responsabile Assotecnici

Nicola Spinosa, storico dell’arte, già Sopr. Napoli

Bruno Toscano, storico dell’arte

Virginio Bettini, ecologista, IUAV Venezia

Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la Decrescita Felice

Marco Dondero, italianista, Università di Macerata

Pier Luigi Cervellati, urbanista

Antonio Pinelli, storico dell’arte, Università di Firenze

Renato Nicolini, architetto, Università Reggio Calabria

Gianni Mattioli, Movimento Ecologista, Fisica Teorica, La Sapienza Roma

Libero Rossi, Cgil, componente Consiglio Sup. Beni Culturali

Gabriele Simongini, Accademia Belle Arti di Roma

Giuseppe Basile, presidente Ass. Cesare Brandi

Pietro Giovanni Guzzo, archeologo, già Sopr. Pompei

Paolo Baldeschi, paesaggista, Università di Firenze

Magda Mercatali, attrice di prosa

Mauro Gallegati, Macroeconomia, Università Politecnica, Ancona

Nino Criscenti, giornalista tv, autore di “Paesaggi rubati” (RAI3)

Annarita Bartolomei, operatrice culturale

Licia Colò, conduttrice “Alle falde del Kilimangiaro”, Rai3

Fernando Ferrigno, giornalista, esperto Beni Culturali

Marta Bruscia, filologa, Università di Urbino

Sauro Turroni, urbanista, Costituente Ecologista

Massimo Marcaccio, Presidente Parco Nazionale dei Sibillini

Olimpia Gobbi, Osservatorio Nazionale per la Qualità del Paesaggio

Donatella Fagioli, restauratrice

Pino Coscetta, già caporedattore Regioni del “Messaggero”

Ginevra Sanfelice di Monteforte, operatrice culturale

Costanza Pera, architetto

Gianandrea Piccioli, dirigente editoriale

Violante Pallavicino, ambientalista

Valentino Podestà, urbanista, Rete Comitati Difesa Territorio

Corinna Vicenzi, Comitato Terre di Maremma

I paesaggi sono sensibili, chi li abita no. E' la conclusione della campagna di Italia Nostra per monitorare le coste minacciate da quattro patologie: «infrastrutture invasive, costruzioni sui litorali, erosione delle spiagge, abusivismo». Le regioni in cima al «libro nero» sono Sardegna, Liguria e Campania. In tre mesi di lavoro, i volontari di Italia Nostra hanno raccolto sul campo migliaia di casi, selezionando infine un'amara classifica delle dieci coste sulle quali incombono le minacce più gravi. A partire dal golfo di Teulada, Sud Ovest della Sardegna, dove sta sorgendo un mega-albergo di 700 ettari, sfuggito alla valutazione di impatto ambientale, in una zona già definita «ad alta vulnerabilità» nel piano paesaggistico. Secondo posto tra le «palme nere» per la costa ligure intorno a Savona.

Motivazione: «Cinque megaprogetti di cemento comprometteranno l'intero fronte del mare». Nell'ordine: il porto della Margonara («15 mila metri quadri di costruzioni in un tratto con scogli e flora marina di grande valore»), un capannone sulla darsena fluviale, il palasport e il centro congressi intorno alla rocca del Priamar, diversi edifici residenziali al posto dei cantieri navali sulla spiaggia di ponente, una piattaforma per container nella rada di Vado. Non mancano gli evergreen: l'abusivismo sulla costiera amalfitana, l'aggressione delle pinete a Castiglione della Pescaia, le grandi opere sulla Maremma tosco-laziale (anche qui, ormai è una moda nazionale, spuntano porti turistici a distanza di pochi chilometri), il degrado delle coste adriatiche, da Lignano Sabbiadoro a Brindisi. Salutati i turisti, le coste italiane vengono dimenticate.

Per questo Italia Nostra ha deciso di organizzare una settimana di eventi (dal 19 al 24 ottobre) in cinquanta località marine, perché finita l'estate non cali il silenzio sulle emergenze dei «paesaggi sensibili». Spiega Alessandra Mottola Molfino, presidente di Italia Nostra: «Oltre alla distruzione della bellezza naturale, si compromettono l'ecosistema e la salute dei cittadini. Siamo stufi di essere dipinti come quelli che si battono solo per questioni estetiche». Per salvaguardare le coste, Italia Nostra propone di istituire un'autorità indipendente sul modello del Conservatoire du littoral francese, ente statale dotato di 50 milioni di euro l'anno per acquisire pezzi di coste e «metterli in sicurezza». Oggi la Conservatoria dispone di 135 mila ettari di coste (superficie grande quanto la provincia di Novara) che affida in gestione a enti locali e privati, con norme molto severe. Il sistema dà lavoro a mille addetti e raggiunge decine di milioni di visitatori ogni anno. Secondo la presidente di Italia Nostra, «anche in Italia servirebbe un'autorità indipendente, al riparo dagli appetiti della politica e dagli interessi dei privati».

«In caduta libera». Non poteva avere titolo più appropriato il X rapporto sulla povertà e sull’esclusione sociale in Italia, curato dalla Caritas italiana e dalla Fondazione Zancan e presentato ieri dal segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, dal direttore generale della Caritas Italia, monsignor Nozza, dal presidente della Fondazione Zancan, monsignor Pasini.

Analisi lucida, numeri precisi, attenzione al dato qualitativo e alla condizione concreta della popolazione, quindi denuncie e proposte chiare: questo emerge dallo studio, con una secca smentita dei dati ottimistici sulla povertà presentati nel luglio scorso dal governo e dall’Istat. Nel nostro paese la povertà non è affatto diminuita, anzi è in aumento, come il disagio sociale e la percezione della precarietà, della fragilità sociale di chi con l’avanzare della crisi è a rischio. Tocca 8.370 mila persone che hanno visto cambiare pesantemente le loro condizioni di vita. Un dato diverso, e più pesante rispetto ai dati forniti dall’Istat che indicava in 7.810 mila i «poveri» in Italia. Secondo lo studio «In caduta libera» vanno conteggiati, invece, anche quelle 560 mila persone che, visto l’abbassamento della linea generale della povertà passato da 1007 euro per coppia a 983, sarebbero state classificate come «povere relative». Nessuna «contrapposizione» tra Caritas e Istat, affermano i ricercatori che hanno curato il «Rapporto», soltanto letture «qualitativamente» dei dati che darebbero per il 2009 un aumento dei poveri del 3,7% sul 2008. Solo il 45% delle famiglie italiane sarebbe al riparo dalla crisi economica.

NESSUNA POLEMICA CON L’ISTAT



Preoccupato e fortemente critico il giudizio espresso della Chiesa italiana. «Il dramma della povertà - commenta il segretario generale della Cei, monsignor Crociata - offusca la nostra comunità e le ricadute pesanti sono sotto gli occhi di tutti. E a tutti chiedono rinnovato impegno nell’azione di contrasto e nelle forme di solidarietà». Mette il dito sull’elusione ed evasione fiscali «particolarmente gravi». «Si tratta di sottrazione di risorse - denuncia - che pesano sugli onesti e diminuiscono le disponibilità di aiuto agli ingenti». La Cei invita a giocare la carta del «federalismo solidale», che può portare «a nuovi e più efficaci assetti diunsistema assistenziale caratterizzato da troppi squilibri». Per smuovere l’attuale «situazione di stallo», monsignor Crociata chiede un cambio di passo: interventi soprattutto a favore della famiglia e delle giovani generazioni. «Non si tratta di occuparsi semplicemente dell’assistenza - puntualizza -. È una questione di giustizia, di dignità e di libertà».

Che la crisi economica sia bel lontana dal superamento lo testimonia l’esperienza concreta dei centri di ascolto della Caritas. Emerge la difficoltà delle persone disoccupate, delle famiglie impoverite, di chi sa che prima o dopo finiranno gli ammortizzatori sociali. Dallo studio emergono i diversi livelli di «povertà»: quella «assoluta» di chi non può accedere ai beni essenziali, quella «relativa » e gli «impoveriti». Coloro che sono «a forte rischio di povertà, colpiti dall’aumento della disoccupazione e della cassa integrazione, dal calo del potere reale d’acquisto e dalla disuguaglianza dei redditi. Il dato preoccupante è «l’aumento delle disuguaglianze e la sensazione di un impoverimento generalizzato, non solo dal punto di vista del reddito, ma anche delle aspettative e delle risorse culturali».

La povertà colpisce particolarmente nel Mezzogiorno e le famiglie numerose, con bassi livelli di istruzione. Ha anche il volto degli 800mila italiani «ridotti all’indigenza a causa di separazioni e divorzi». Per i vescovi va cambiato registro. È fallita la «social card». Occorre gestire diversamente le risorse che pure «sarebbero sufficienti». Dei 49 miliardi di euro stanziati ogni anno per la spesa sociale, l’86% va in trasferimenti alle famiglie e solo il14% in servizi. Al governo chiedono meno trasferimenti e più servizi.

Come cambia la vita di chi è colpito dalla crisi



Si rinuncia a ciò che era ritenuto necessario: è l’effetto della crisi. Così nel 2009 il credito al consumo è sceso dell’11%, i prestiti personali del 13%e la «cessione del quinto» nel settembre 2009 è aumentato del 8%. È la condizione di forte fragilità economica che fa aumentare del 10% il numero dei «poveri». È la difficoltà a pagare la spesa, il mutuo, le cambiali da anchenei primi mesidel 2010,daparte delle persone disoccupate, «impoverite », che con preoccupazione sanno che finiranno gli ammortizzatori sociali e hanno finito per rivolgersi ai centri Caritas e alle parrocchie.

LA DIFFICILE DIFESA DEL LAVORATORE GLOBALE

di Luciano Gallino

Divise e oggetto di attacchi estremistici le organizzazioni devono fronteggiare mutamenti sociali che mettono in questione il loro ruolo tradizionale. Nuove tecnologie mestieri inediti contratti atipici. La realtà di oggi sembra porre infiniti ostacoli. Quando le loro rappresentanze sono deboli, le condizioni di vita e le retribuzioni di operai e impiegati peggiorano ovunque

Relitto anacronistico della rivoluzione industriale. Superfluo come soggetto contrattuale: i contratti collettivi di lavoro sono superati. Incapace di rappresentare gli interessi dei lavoratori globali. Questo dicono del sindacato manager e politici, e anche non pochi operai e impiegati. A tutto ciò si aggiungono le divisioni interne e gli attacchi contro alcune organizzazioni. Vediamo allora qualche dato.

Nei paesi dell’Europa occidentale, tra il 1981 e il 2007 i sindacati, Pubblica Amministrazione esclusa, hanno perso in media oltre la metà degli iscritti. Nello stesso periodo la quota dei salari sul Pil è scesa in media di dieci punti. In Italia, dove un punto di Pil vale 16 miliardi, è scesa di dodici.

In Usa, grazie alle politiche antisindacali cominciate con la presidenza Reagan, i salari dei lavoratori dipendenti sono oggi al medesimo livello, in termini reali, del 1973.

In Germania, dove almeno sui grandi temi i sindacati procedono in modo unitario, ed hanno per legge un peso effettivo nel governo delle imprese, il salario netto superava nel 2008 i 20.000 euro. In Italia, dove i sindacati marciano disuniti e nel governo delle imprese contano zero, il salario netto era sotto i 15.000 euro.

Grandi imprese della Ue che intrattengono buone relazioni con i sindacati di casa, quando aprono uno stabilimento in Usa mettono in atto pratiche pesantemente antisindacali. Per dire, assumono stabilmente gli esterni che si sono prestati a lavorare al posto dei dipendenti in sciopero. Motivo? La legislazione sulla libertà di associazione sindacale è arretrata in Usa rispetto alla Ue; per di più molti giudici non la applicano.

Questi dati dicono che nei paesi sviluppati quando i sindacati sono deboli le retribuzioni, insieme con altri aspetti delle condizioni di lavoro, virano al ribasso. Ovviamente nei paesi emergenti va peggio. Qui i sindacati non esistono, o hanno scarso potere contrattuale. Risultato: a parità di produttività e di potere d’acquisto, i salari sono da due a cinque volte più bassi, gli orari assai più lunghi, i giorni di riposo e di ferie ridotti al minimo. Sono anche paesi dove chi sostiene il ruolo del sindacato rischia la vita. In Colombia, solo nel 2006 sono stati assassinati 72 sindacalisti. Nelle Filippine le vittime sono state 70 in quattro anni. Ancora nel luglio scorso, due fratelli, dirigenti del sindacato dei tessili, sono stati uccisi in Pakistan. Le colpe di tutti loro? Chiedevano condizioni di lavoro più decenti per i compagni.

Le cose sono un po’ diverse in tema di capacità del sindacato di rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori: quelli che flottano tra una quarantina di contratti atipici, fanno mestieri inesistenti dieci anni fa, o lavorano soltanto con l’immateriale che scorre sullo schermo del Pc. È vero che tale capacità appare carente. Ma non si può imputarla solo al ritardo dei sindacalisti nel comprendere le nuove realtà produttive. Il fatto è che dette realtà sembrano costruite appositamente per ostacolare il sindacato nel rappresentare gli interessi dei nuovi lavoratori.

Si prenda il caso – che qui si semplifica, ma è reale – di un piccolo elettrodomestico venduto nei supermercati. Le 50-60 parti di cui è composto sono fabbricate in una dozzina di siti posti in dieci paesi diversi, e controllati da multinazionali che hanno sede altrove. In ciascun sito gli addetti appartengono a molte nazionalità diverse. L’assemblaggio finale dell’apparecchio può avvenire in uno stabilimento sito in Umbria o in Puglia, per mano di lavoratori italiani, nigeriani, moldavi, magrebini. Essi fanno capo, pur lavorando insieme, a cinque o sei aziende differenti; inoltre tra di essi si contano una dozzina di tipi di contratti di lavoro diversi. La loro produttività dipende da componenti fabbricati a Taiwan o nel Kerala, e dalla puntualità di viaggio di innumeri aerei, navi container, tir e furgoncini, sui quali quei componenti hanno viaggiato per 30.000 chilometri. In presenza di un simile modo di produrre, per il sindacato "rappresentare gli interessi" dei lavoratori non è diventata soltanto una fatica erculea: non si capisce nemmeno che cosa voglia dire. Che è precisamente il risultato che gli architetti della globalizzazione volevano ottenere.

Quanto ai lavoratori della conoscenza, intesi come coloro che producono valore aggiunto trasformando informazioni in conoscenze e queste in altre informazioni mediante apposite tecnologie, si possono suddividere in due gruppi: quelli che di un sindacato non sentono il bisogno, e quelli che ne avrebbero un bisogno estremo, ma di mezzo ci sono, a impedirglielo, le leggi sul lavoro. Di un sindacato non sanno che farsene i traders, i negoziatori di titoli al computer che guadagnano da centomila euro all’anno in su. Non sentono la necessità di un sindacato le decine di migliaia di informatici che han messo in piedi un’efficiente azienda propria, magari individuale; né i data miners che trovano ogni genere di dato su qualsiasi persona e impresa scavando nei meandri della rete. Restano fuori gli operai del Pc, tipo molti addetti ai call center che l’azienda retribuisce in funzione di quanti secondi riescono a trattenere qualcuno al telefono. Questi avrebbero sì bisogno di un potente sindacato da lavoratori dipendenti, quali in realtà sono; ma il legislatore permette cortesemente all’azienda di applicare loro l’etichetta di lavoratori autonomi "a progetto", e la tutela del sindacato si fa più complicata e lontana.

DAL TRIONFO AL DECLINO

Il passato glorioso, i problemi attuali

di Giorgio Ruffolo



Gli inizi sono segnati da lotte impetuose e da repressioni cruente. Poi, con le leggi sociali e lo stato del benessere, diventano una delle grandi istituzioni della democrazia moderna

Nella Roma imperiale i Collegia erano una specie di sindacato nato per proteggere categorie proletarie esposte al rischio di malattie invalidità povertà. Nel Medioevo queste funzioni furono assunte dalle Corporazioni di arti e mestieri. Ma è con la rivoluzione industriale e con i suoi tremendi traumi sociali che sorge, insieme con i partiti politici della sinistra proletaria, il sindacato, parte integrante del movimento operaio, per proteggere la vita la salute e la dignità dei lavoratori.

Ispirandosi al socialismo, ma anche al cristianesimo sociale, il sindacato percorre in poco più di due secoli una triplice grandiosa vicenda storica: l’epoca eroica, quella del potere, quella del declino.

La prima è segnata da lotte impetuose e cruente, nelle condizioni talora terrificanti delle fabbriche e delle miniere descritte in Inghilterra da una Commissione governativa: donne e fanciulli che lavorano da 12 a 15 ore al giorno in condizioni igienicamente spaventose; bacini carboniferi come inferni, la disciplina di una prigione, i bambini picchiati se si addormentano. Le prime leghe operaie sono represse col carcere. I primi scioperi sono stroncati col sangue. Il sindacato nasce nel martirio e cresce con l’ardimento, sfidando la violenza e l’ipocrisia (come quella della pia liberale Henriette Martineau che dichiara: ogni intervento di assistenza pubblica è una violazione dei diritti del popolo).

La seconda è l’epoca del suo trionfo. Attraverso i grandi scioperi, le leggi sociali, lo Stato del benessere il sindacato diventa tra la metà del XIX e la metà del XX secolo una delle grandi istituzioni della democrazia moderna. E anche delle più potenti. Potenza della quale talvolta abusa generando privilegi burocratici e suscitando tensioni inflazionistiche.

La terza è l’epoca del declino, aperta da una controffensiva capitalistica scatenata dalla liberazione dei movimenti internazionali di capitale che rovesciano i rapporti di forza tra le grandi imprese multinazionali e gli Stati nazionali e tra capitale e lavoro.

In Italia, dove l’unità sindacale, raggiunta nel giugno 1944 col Patto di Roma, era stata rotta nell’ottobre 1948 con la scissione della Lcgil (poi Cisl) il sindacato registra le ripercussioni del nuovo corso politico di centro-destra. Si ribadisce la separazione tra Cgil da una parte, Cisl e Uil dall’altra, la prima a intransigente difesa della contrattazione collettiva, le altre alla ricerca di un compromesso tra diritti sociali e pretese capitalistiche motivate dalla pressione della competizione economica. Svanisce la pratica della concertazione tra Governo e sindacati, sostituita da un dialogo che culmina con il Patto per l’Italia del luglio 2002, sottoscritto da Cisl e Uil ma non dalla Cgil, e che segna il massimo di conflittualità tra i sindacati. Una conflittualità poi parzialmente stemperata, sia per senso di responsabilità da parte dei sindacati, sia anche per l’incapacità di un governo più confuso che reazionario, di trarre profitto dal vantaggio acquisito sviluppando una politica delle relazioni industriali degna di questo nome. Conflittualità parzialmente stemperata, dunque, ma sempre latente e pericolosamente riemersa in questi giorni.

Il sindacato, col suo passato glorioso, vive oggi una condizione di ansiosa incertezza in un mondo del lavoro che minaccia di spaccarsi tra precari e protetti, in un mondo economico esposto ai venti della finanza speculativa, in un mondo politico insidiato dall’inconsistenza.

IL DIVORZIO DAI PARTITI

di Marc Lazar

Perché si è allentato il legame con la politica. La svolta storica è avvenuta tra gli anni ‘70 e ‘80 Le mutazioni del capitalismo, il cambiamento dell’organizzazione del lavoro, l’offensiva liberista hanno drasticamente ridotto il loro potere negoziale



I sindacati proclamano la loro indipendenza, ma hanno sempre intrattenuto rapporti con la politica. Legami forti, organizzativi, organici, umani, univano i sindacati ai grandi partiti socialdemocratici, ad esempio nella Repubblica federale tedesca, nella Svezia o nell’Inghilterra del dopoguerra. Questi stessi sindacati erano gli interlocutori privilegiati dei poteri pubblici per distribuire i frutti – abbondanti – della crescita secondo due modelli principali. In Nordeuropa, la negoziazione e il compromesso erano largamente praticati, senza escludere le azioni collettive. La zona "eurolatina", come nel caso della Francia e dell’Italia, era caratterizzata da una grande frammentazione sindacale e da una forte conflittualità sociale.

Gli anni ‘70 e ‘80 rappresentano una cesura storica. Le mutazioni del capitalismo, il cambiamento dell’organizzazione del lavoro, le mutazioni delle strutture di produzione, la spinta dell’individualismo, l’offensiva liberista, le nuove forme di gestione delle risorse umane, la rapida accelerazione della globalizzazione e l’unificazione dell’Europa hanno colpito i sindacati. Le iscrizioni sono diminuite, il loro potere si è ridotto, le loro capacità di negoziazione e di mobilitazione si sono assottigliate. Di conseguenza, sono cambiati anche i rapporti con la politica.

I legami tra i partiti socialdemocratici e i sindacati si sono allentati. I partiti, in Svezia, in Germania o in Inghilterra con il New Labour di Tony Blair, hanno voluto emanciparsi dai sindacati per potersi rivolgere agli elettori borghesi di centro. Le loro politiche di austerità e modernizzazione del welfare, la loro volontà di introdurre nuovi temi, ad esempio l’ecologia, il loro tentativo di adattarsi ai comportamenti dell’epoca, più individualistici e consumistici, hanno provocato delle tensioni con i sindacati. Da parte loro, questi ultimi hanno cercato di adattarsi offrendo dei servizi, formulando proposte costruttive, aprendo trattative sia dentro le imprese che con i governi, coordinando le loro azioni a livello europeo e interessandosi ad altri argomenti. Sindacati e partiti ormai sono molto più autonomi. Ma dopo la crisi del 2008 e le ripetute sconfitte della sinistra europea, i secondi, constatando la disaffezione dei ceti popolari, tornano ad avvicinarsi ai primi. Ed Milliband ha vinto la sua battaglia all’interno del Labour grazie ai sindacati.

Questa autonomizzazione e questa maggiore responsabilità dei sindacati sono stati oggetto di contestazione ed è iniziato un processo di radicalizzazione politica. In Germania, una parte della Dgb e il sindacato del settore dei servizi Ver.di sono molto legati alla Linke, mentre in Francia il sindacato Sud, comparso nel 1981, è vicino a tutti i partiti collocati alla sinistra del Partito socialista.

Indeboliti, invecchiati, ripiegati sul settore pubblico, i sindacati continuano ad assolvere a un ruolo di difesa e di protezione sociale e a esercitare un’influenza indiretta sulla politica. Dopo il 2008 hanno ritrovato il sostegno di una parte degli europei, che pure non aderiscono ai loro appelli allo sciopero. È quello che succede attualmente in Francia rispetto alle pensioni, dove Nicolas Sarkozy è deciso a imporre la sua riforma ma sembra aver perso la battaglia dell’opinione pubblica. Con il rischio di pagarne lo scotto alle presidenziali del 2012.

Traduzione di Fabio Galimberti

Non si possono tenere in edicola i giornali, di destra o di sinistra, dal manifesto ad Avvenire, dal Secolo all' Unità, non allineati alla casa madre berlusconiana. Né si può tenere accesa la televisione di Santoro con il rischio che il paese reale e le opposizioni abbiamo la possibilità di partecipare a un programma visto da cinque milioni di persone. Tanto più se il governo rischia una morte prematura e bisogna prepararsi per tempo alle elezioni anticipate. Del resto su come sistemare l'informazione il presidente del consiglio non conosce rivali e il ministro Tremonti è uno che impara subito. Una coppia perfetta. Imbracciando lo scudo della crisi, il ministro si appresta a rendere definitivi i tagli all'editoria, chiudendo una novantina di testate (compreso il nostro giornale), mentre il direttore generale della Rai si occupa del pubblico televisivo e sospende Annozero, la gallina con le uova d'oro.

Naturalmente stiamo parlando sempre dello stesso Masi citato nelle intercettazioni dell'inchiesta di Trani, quando indecenti e minacciose conversazioni, tra il premier e i suoi collaboratori, portarono alla luce la regia contro alcuni programmi del servizio pubblico. Masi prometteva al commissario dell'Agcom di «mettere su una strategia operativa», per risolvere il «problema Santoro che è un problema tutto particolare», sperando nel passo falso: «se lui fa la pipì fuori dal vaso...». Stiamo parlando del dirigente che nell'ultima campagna elettorale chiuse i talk-show della Rai.

Dunque guardate Annozero questa sera perché giovedì prossimo non ci sarà, quello successivo nemmeno, poi, forse, potrebbe tornare ma anche no, tutto dipenderà da come evolverà lo scontro tra l'azienda e il giornalista. Intanto si blocca un programma che produce il 20 per cento di share e tra i più alti fatturati pubblicitari. Un bella botta all'azienda pubblica, con tanti saluti alla concorrenza con Mediaset, ma è il conflitto di interessi bellezza e se siamo a questo punto non è solo colpa del Cavaliere.

Come ci ricorda Carlo Freccero (altro cavallo vincente azzoppato) nell'intervista al nostro giornale, togliere programmi di informazione significa, automaticamente, colmare il vuoto con l'intrattenimento. Fino a sostituire, una dopo l'altra, le voci critiche con lacrime, sangue e gossip. Con la chiusura di Annozero e il provvedimento disciplinare contro Santoro si colpisce il mezzo e il messaggio. Chi lavora nella più grande azienda culturale del paese si adegui alla nuova regola.

La contrapposizione fra centro e periferia non regge più. Dopo la polis monocentrica classica e la città industriale agglutinante, che si espande indefinitamente a pelle di leopardo, mossa dai sottostanti interessi economici e dai rapporti materiali di vita, sta emergendo un nuovo aggregato urbano, dinamico e policentrico. Nella presente fase di transizione, il centro ha sempre più bisogno della periferia. Se questa si fermasse, tutta la vita urbana si arresterebbe. Le due grandi categorie storiche della città monocentrica e della città industriale agglutinante non sono più sufficienti. Nasce una realtà urbana imprevista. Si può anche parlare di realtà post-urbana. (...) Lo sviluppo urbano è mosso dalle nuove esigenze di visibilità e di partecipazione di masse umane di recente inurbate (urbanizzazione senza industrializzazione), dal gioco degli interessi socio-economici, dai diritti di proprietà dei suoli, dalla corsa alla privatizzazione del pubblico allo scopo di garantire il parassitismo della rendita fondiaria e la massimizzazione dei profitti per la speculazione edilizia.

(...) Nessun dubbio che realtà urbane come quella dell'odierna Los Angeles, tipico esempio di realtà post-urbana, con le free ways che la cingono, la stringono e la «tagliano», funzionando anche come drive in e drive through, appiattiscono la città in un fitto crocevia e ne fanno un paradossale insieme di centoventi sobborghi in cerca di una città che non c'è o non c'è più. Il nuovo aggregato urbano ha da recuperare un senso al di là della pura congestione della città industriale, storicamente accentrata anche per la facile dissipabilità del vapore, all'epoca della prima Rivoluzione industriale primaria fonte di energia. Il nuovo aggregato urbano recupera il senso della convivenza urbana ponendosi come realtà policentrica, articolata e dinamica, non puramente dispersa, polverizzata. Per questa ragione, è dubbio che si possa avere una nuova città, policentrica e post-urbana, senza un'idea nuova di città o, più precisamente, senza ridefinire il rapporto fra spazio e convivenza. (...)

Le migrazioni di grandi masse umane su scala planetaria rendono il concetto tradizionale di cittadinanza chiaramente inadeguato. Non si tratta né di jus soli né di jus sanguinis. Il polítes ateniese, il civis romanus, lo stesso citoyen della Rivoluzione dell'89, che è considerato tale solo se proprietario di un lembo di terra francese, indicano figure più esclusive che inclusive. Non sono quindi in grado di accogliere, né giuridicamente né esistenzialmente, i nuovi arrivati, quegli immigrati extracomunitari di cui le economie dei paesi tecnicamente progrediti non possono fare a meno. (...) Purtroppo, è giocoforza constatare che la logica della città industriale sta prevalendo su scala planetaria. Occorre oggi un nuovo profilo del costruire. Urbanisti e architetti non progettano nel vuoto sociale. Bisogna imparare a costruire senza violentare la natura o snaturare il territorio, sfigurare il paesaggio. Una sfida ardua. Implica l'andare oltre il progetto singolo, nella sua peculiarità di invenzione artistica, scoprire e rispondere alle domande del luogo, acclimatare il progetto al territorio, alla sua conformazione fisica, far incontrare l'estetica e la geografia.

(...) Ma un'alternativa al grattacielo c'è. È il nuovo aggregato urbano policentrico. Centro e periferia sono ormai categorie concettuali obsolete. Città e campagna non si fronteggiano più come ancora al termine del Secondo conflitto mondiale. L'effetto di padronanza della città si è esteso, ha coinvolto l'hinterland, ha investito e trasformato la campagna. Urbano e rurale costituiscono ormai un continuum. Non è più lecito parlare di urbanizzazione. Bisogna far ricorso a un neologismo non troppo elegante ma perspicuo: «rurbanization», vale a dire la congiunzione di rus, «campagna», e urbs, «città». Ciò significa che la periferia non è più periferica e che il centro non ha da de-centrarsi, pena il soffocamento, il declino e la morte. (...) Occorre un patto di collaborazione, quanto meno di non belligeranza, con la Natura. L'iniziativa più rivoluzionaria è in realtà un ritorno: la riscoperta del modo di costruire mediterraneo. (...) L'impostazione predatoria oggi va rovesciata con un nuovo stile del costruire, uno stile fondato su un concetto di natura non nemica, bensì collaboratrice. La nuova architettura si inserisce nell'ambiente senza violentarlo.

* Di «Cultura della metropoli» si discuterà oggi [14 ottobre] e domani in un convegno alla Sapienza di Roma (dalle 9, facoltà di Scienze umanistiche)

Quasi 53 milioni di metri quadrati di aree agricole saranno cancellati dalle grandi opere previste sul territorio lombardo. L’allarme è di Coldiretti, nel mirino Pedemontana, Tangenziale esterna di Milano, Brebemi, terza corsia della A9. «Le grandi opere disegneranno un fiume d’asfalto lungo 303 chilometri, pari quasi alla metà del fiume Po, che toccherà 214 comuni, ‘speronando’ centinaia di aziende agricole» spiega il presidente lombardo Nino Andena.

Una ferita di 53 milioni di metri quadrati: questo, secondo i calcoli della Coldiretti regionale, sarà il prezzo che l’agricoltura lombarda dovrà pagare per il completamento delle grandi opere infrastrutturali già in cantiere o in attesa di partire, dal collegamento autostradale tra Brescia, Bergamo e Milano (Brebemi) alla Pedemontana, dalla tangenziale est esterna di Milano (Tem) alla tratta ferroviaria ad alta velocità Milano - Verona. Senza dimenticare la strada statale 38 tra Como, Lecco e Sondrio con la tangenziale di Morbegno e l’ampliamento dell’autostrada dei Laghi.

«È un fiume d’asfalto lungo 303 chilometri, che tocca 214 comuni e "sperona" centinaia di aziende agricole - sottolinea Nino Andena, presidente di Coldiretti Lombardia - E a questi dati vanno aggiunti i 400mila ettari già cementificati dal 1990 a oggi, pari al 15 per cento del suolo agricolo lombardo. Negli ultimi vent’anni abbiamo perso un’area grande due volte le province di Milano e Monza Brianza».

Moltissime realtà imprenditoriali da sempre radicate sul territorio rischiano di essere spazzate via a suon di espropri. È il caso dell’azienda agricola di Ivana Regazzetti, che alleva mucche da latte a Paullo: «La Tem passerà a pochi metri da casa nostra - racconta - Già 30 anni fa la mia famiglia si è dovuta spostare in campagna per fare posto alla speculazione edilizia, ma ora ci hanno raggiunto anche qui. Dove andiamo se non possiamo ricominciare da un’altra parte?».

Per pianificare il futuro, gli agricoltori avrebbero bisogno degli indennizzi garantiti negli accordi di cessione volontaria delle terre che molti di loro hanno già stipulato, senza però vederne i frutti. «Le quasi 1500 imprese toccate dalla Brebemi hanno rinunciato ai terreni necessari all’autostrada a luglio dello scorso anno - sottolinea Rossana Cozzolino, responsabile dell’area legislativa e dei rapporti istituzionali di Coldiretti Lombardia - ma ad oggi non hanno ancora ricevuto gli indennizzi previsti dal protocollo d’intesa che abbiamo siglato a ottobre 2009 con Brebemi per ragioni burocratiche. Manca la firma del Cal, Concessioni autostradali lombarde, uno dei troppi enti coinvolti».

Coldiretti chiede al Pirellone uno snellimento della burocrazia per rendere più diretto il rapporto tra esproprianti ed espropriati, oltre a «un piano regionale di salvaguardia dei suoli agricoli - come sottolinea Andena - Noi vogliamo le grandi opere e pensiamo che possano trasformarsi in vetrine per le aziende locali, ad esempio dando la possibilità agli agricoltori di vendere i loro prodotti nelle aree di servizio o di occuparsi della manutenzione delle aree verdi a margine delle autostrade».

Richieste che appaiono in sintonia con quanto recentemente dichiarato da Giulio De Capitani, assessore regionale all’Agricoltura: «Le infrastrutture sono necessarie, ma serve un’adeguata compensazione che consenta al settore primario di mantenere i propri standard di produzione»

Milano. Speculatori a chi? Marco e Matteo Cabassi da mesi hanno l'aria di prendersela a morte con chi li accusa di voler cavalcare l'occasione dell’Expo per fare un sacco di soldi a spese delle casse pubbliche. Ma adesso che, dopo mesi di ricatti e dispetti tra i politici di centrodestra, l'incredibile vicenda dell'esposizione universale del 2015 sembra giunta a una svolta decisiva, i due fratelli immobiliaristi, tra i più grandi operatori nazionali, si trovano in una posizione a dir poco imbarazzante.

La lettera siglata dal sindaco di Milano Letizia Moratti chiede “l’incondizionata e immediata disponibilità” delle aree a nord della città dove sorgeranno, almeno secondo i programmi di partenza, i padiglioni dell’Expo 2015. In sintesi significa che i Cabassi dovranno cedere gratis (in comodato) i loro terreni (260 mila metri quadrati) per poi vederseli restituire a esposizione conclusa con il diritto di costruire su metà di quelle aree. La risposta alla richiesta della Moratti, concordata con il governatore della Lombardia Roberto Formigoni e il presidente della provincia di Milano Guido Podestà (che però non l’hanno firmata), dovrà arrivare entro dopodomani, giovedì. Solo che, qualunque sia la loro replica, i Cabassi rischiano di perdere la partita. Se dicono no al sindaco, faranno la figura di quelli che boicottano un grande progetto descritto come la panacea di tutti i mali della metropoli lombarda.

E, peggio ancora, rischiano di vedersi espropriare le aree a prezzi di saldo. Se invece cedono al diktat del sindaco si imbarcano in un'operazione immobiliare dai ritorni incerti e comunque proiettati in futuro indeterminato. In più saranno anche chiamati sborsare subito alcune decine di milioni (la somma esatta non è chiara) a titolo di “contributi per infrastrutture”. Gli avvocati sono al lavoro. E di qui a giovedì non sono escluse nuove clamorose sorprese. Tra l'altro in gioco ci sono anche i terreni (circa 500 mila metri quadrati) controllati dalla Fondazione Fiera di Milano. Quest'ultima fa capo alla regioneLombardia, ma è presieduta dal berlusconiano Giampiero Cantoni, in rapporti non proprio idilliaci con il governatore Formigoni. Quanto basta per rendere ancora più incerto il risultato finale.

Sta di fatto che i Cabassi al momento non sanno bene che pesci pigliare. La grana dell’Expo è arrivata in una fase molto delicata per il gruppo che hanno ereditato da Giuseppe Cabassi, soprannominato il sabiunatt, uno dei protagonisti della Milano del mattone e della Borsa negli anni Settanta e Ottanta. La crisi partita alla fine del 2007 ha picchiato duro sugli imprenditori immobiliari. I Cabassi, meno indebitati dei concorrenti, sono fin qui riusciti a limitare i danni, ma, Expo a parte, i prossimi mesi sono decisivi. Il progetto di gran lunga più impegnativo, quello del nuovo quartiere Milanofiori (a sud della città sull'autostrada per Genova), è stato completato solo in parte. E il lotto già costruito, cioè 120 mila metri quadrati su 210 mila, non è ancora del tutto piazzato. La parte residenzialeper esempio, (12 mila metri quadrati) è stata venduta per il 30 per cento. La scommessa è riuscire a trovare compratori senza fare sconti troppo elevati rispetto ai 3.500 euro al metro quadro previsti inizialmente. I Cabassi si dicono fiduciosi. A dicembre, con cinque anni di ritardo rispetto alle previsioni, è prevista l'inaugurazione della fermata della metropolitana del nuovo quartiere. E questo almeno in teoria dovrebbe favorire le vendite.

Intanto però i debiti crescono. La posizione finanziaria netta del gruppo che fa capo alla holding Raggio di Luna (controllata dai Cabassi) alla fine del 2009 era negativa per 350 milioni di euro, quasi il doppio rispetto ai 177 milioni del 2007, prima che esplodesse la crisi mondiale del mattone. Anche la Brioschi quotata in Borsa, a cui fa capo l’operazione Milano-fiori, ha visto aumentare il peso dei debiti, che a giugno 2010 erano 261 milioni contro i 217 milioni di fine 2009. Non per niente nei mesi scorsi i Cabassi sono tornati al tavolo delle trattative con le banche per riformulare le condizioni dei prestiti, di cui è stata allungata la scadenza con garanzie supplementari.

Bilanci alla mano, la situazione non è da allarme rosso. La questione Expo però potrebbe rivelarsi decisiva per il futuro. Sul piano dei numeri, ma soprattutto per quanto riguarda i rapporti con la politica. Va detto che di recente i Cabassi hanno avuto modo di farsi apprezzare dalla famiglia Berlusconi comprando per 40 milioni l'area della Cascinazza a Monza. Su quei terreni è in corso da tempo una battaglia per una mega speculazione. Paolo Berlusconi, il fratello del premier, si è sfilato vendendo ai Cabassi, che hanno promesso altri 50 milioni in caso di via libera alla costruzione. Artefice della soluzione il neo ministro Paolo Romani, assessore a Monza. Un affare targato Pdl. Con tanto di lieto fine. Con l'Expo doveva arrivare il bis. Ma le liti nel centro-destra hanno mandato tutto a monte.

Il tipo di assenso necessario dipende essenzialmente dal tipo di fonte rinnovabile, dalla potenza dell'impianto e dal possibile impatto sul territorio (si veda la tabella in alto). A grandi linee, si può dire che l'iter più complesso (l'autorizzazione unica) è previsto solo per gli impianti oltre una certa taglia (60 kW per l'eolico, 20 kW per il fotovoltaico, 100kW per l'idraulico e via elencando). Invece, la preferenza per la più semplice comunicazione in comune rispetto alla Scia dipende essenzialmente dai criteri di realizzazione: pannelli fotovoltaici non sporgenti dal tetto e non siti nei centri storici, pale eoliche alte fino a un metro e mezzo e di dimensioni contenute, impianti geotermici e idraulici che non alterano la volumetria degli edifici, eccetera. Tuttavia se il proponente l'impianto non ha titolo sulle aree o sui beni interessati dalle opere e dalle infrastrutture connesse, l'autorizzazione diviene l'unica strada da seguire.

A proposito di Dia, va segnalato che il testo del decreto non ha tenuto conto degli aggiornamenti normativi introdotti con la manovra finanziaria (legge 122/2010, articolo 49) che introduce la Segnalazione certificata di inizio attività (Scia). La nota del 16 settembre del ministero della Semplificazione chiarisce che la Scia è integralmente sostitutiva della Denuncia di inizio attività (Dia), salvo quando questa è a sua volta sostitutiva del permesso di costruire e si configura quindi come «SuperDia». Nel campo dell'installazione delle rinnovabili c'è da supporre che tale ambiguità non dovrebbe presentarsi: in altre parole, dove si parla di Dia deve intendersi Scia (salvo ulteriori chiarimenti). Per i lavori non strettamente legati all'installazione delle fonti rinnovabili - ma eseguiti in contemporanea - resta possibile eseguire le opere interne, anche di manutenzione straordinaria, agli edifici, quelle di pavimentazione di aree esterne, le strutture temporanee con semplice comunicazione: insomma, il decreto recepisce la nuova versione del testo unico dell'edilizia, senza titoli abitativi ma con la stessa comunicazione prevista per gli impianti.

Vengono infine dettagliati i contenuti minimi dell'autorizzazione unica: progetto, relazione tecnica, attestazioni di disponibilità dell'area, concessioni e preventivi per gli allacciamenti, destinazione urbanistica, cauzioni, oneri istruttori eccetera. Si ripercorrono tempi e modi per ottenere l'autorizzazione: avvio del procedimento entro 15 giorni dalla presentazione; convocazione della conferenza di servizi entro 30 giorni; eventuale procedura di assoggettabilità odi valutazione di impatto ambientale, se prescritta; casi in cui interviene il ministero per i Beni e le attività culturali, connessione in rete da parte del gestore dei servizi, intervento delle Soprintendenze e via elencando. L'autorizzazione è di per sé titolo costruire ed esercire l'impianto e, ove occorra, variante allo strumento urbanistico.

Un'emergenza continua che ci è costata 213 miliardi di euro. Questo è il conto – attualizzato ai valori 2009 – che abbiamo pagato dal dopoguerra a oggi per tamponare e rincorrere le mille fragilità del suolo italiano, dai terremoti alle frane, dalle alluvioni alle esondazioni.

A fare i conti con una fotografia dei costi del dissesto stavolta sono i geologi, addetti per mestiere alla valutazione (e alla prevenzione) del rischio. Il nuovo centro studi dell'Ordine, guidato da Pietro De Paola, ha aggiornato la mappa delle emergenze in Italia, ha incrociato per la prima volta i dati statistici sulle presenze sul territorio con le carte del rischio sismico e idrogeologico, ha rastrellato e attualizzato i mille rivoli in cui dal dopoguerra a oggi si sono incanalati gli stanziamenti pubblici per fronteggiare le emergenze, dall'alluvione di Firenze del 1966 al terremoto in Abruzzo.

Il dato più significativo è proprio quel conto finale: 213 miliardi per la ricostruzione e il risanamento dopo le emergenze, spesi dal 1944 al 2009. Di questi, 161 a coprire i danni da terremoti (il 48% pari a 48 miliardi solo per l'Irpinia) e 52 a riparare quelli per il dissesto.

Una cifra enorme se si pensa che, sempre secondo le stime dei geologi e le richieste dei Piani delle Autorità di bacino, per mettere in sicurezza tutto il territorio dal rischio idrogeologico di miliardi ne basterebbero (si fa per dire) 40, il 68% dei quali dovrebbe andare al centro Nord.

Già perché il dossier «Terra e Sviluppo – Decalogo del territorio 2010 – messo a punto con la collaborazione scientifica del Cresme - che i geologi presenteranno a Roma mercoledì (primo di quello che sarà un appuntamento annuale sul uso e sul consumo di suolo e sui costi anche economici delle emergenze) contiene alcune preziose informazioni.

Si scopre ad esempio che il nostro Paese ha speso per la protezione dell'ambiente (difesa del suolo, riduzione dell'inquinamento e assetto idrogeologico) 58 miliardi nel decennio dal 1999 al 2008, una cifra inferiore alle attese, ma non trascurabile. Ma il problema è che ben 31 di questi (il 54%) è stata assorbita dalle spese di parte corrente (stipendi soprattutto) e solo 26 miliardi sono veramente andati alla prevenzione dei rischi.

«Per cinquant'anni non abbiamo fatto pianificazione – ricorda amaro De Paola – dal 1998, dopo la tragedia di Sarno qualcosa lentamente si sta muovendo e siamo ormai arrivati, anche con il contributo dei geologi, ad avere una mappatura dettagliata del rischio».

«Ma ora – aggiunge – occorre intervenire e frenare il consumo di suolo». Come? De Paola è diretto: «I sindaci hanno in mano tutto il potere di controllo, sorveglianza e gestione del territorio, spetta a loro, ad esempio, reprimere l'abusivismo». Ma avverte: «Sembriamo non ricordarci quanto sia importante la manutenzione del territorio: non più tardi di una settimana fa tre donne sono morte a Prato in un sottopassaggio allagato per una banale fognatura ostruita».

Il rapporto lo dice chiaro: l'89% dei nostri Comuni è a rischio idrogeolico. Vivono con questa minaccia 5,8 milioni di italiani che abitano dentro 1,3 milioni di edifici in zone pericolose. E invece 2,4 milioni di italiani e 6,3 milioni di edifici si trovano in zone ad alto rischio sismico, con il record di Napoli in cui il 92% della popolazione corre pericoli. «I nostri numeri confermano una realtà a tutti nota – lamenta Lorenzo Bellicini, direttore del Cresme – spendiamo male le nostre risorse con interi capitoli di spesa dirottati dalla prevenzione all'emergenza».

Un'emergenza che può arrivare a durare anche cinquant'anni. Il rapporto dei geologi ci ricorda che ancora oggi dopo 42 anni paghiamo (e pagheremo fino al 2018) un obolo di 168 milioni all'anno (8,4 miliardi in tutto) per il sisma che rase al suolo la valle del Belice, nel lontano 1968.

Poco più di dieci anni fa, nel 1998, Risorse per Roma - braccio operativo del comune di Roma potenziato nel periodo in cui era sindaco Francesco Rutelli al fine di perseguire ogni spregiudicata avventura immobiliare - fu reso pubblico un documento sul futuro del Mattatoio che aveva al primo posto la «valorizzazione immobiliare» tanto cara ai giorni nostri a Tremonti e Berlusconi.

Si ipotizzò di vendere quello straordinario compendio urbanistico per fare cassa. La Camera del lavoro della Cgil del centro storico aveva per segretario Antonio Castronovi e fu grazie alla mobilitazione del sindacato che fu in primo luogo scongiurata la vendita e poi, intorno al presidio della terza Università di Roma, riprese vigore una visione pubblica dello sviluppo dell'area che portò anche alla apertura della Città dell'Altra Economia, e cioè alla preziosa esperienza di sperimentazione di un nuovo modello di sviluppo economico e urbano.

Oggi questa esperienza è a rischio di cancellazione da parte del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, insofferente che potesse perdurare una voce fuori dal coro. Forse dietro questo accanimento ci sono le stesse pressioni speculative di dieci anni fa, rese ancor più fameliche dall'aprirsi della stagione della grande svendita del patrimonio immobiliare pubblico. Ma l'atto scellerato del sindaco di non rinnovare il contratto al consorzio che gestisce l'area non sarebbe potuto avvenire se ci fosse stata intorno all'esperienza di Testaccio una rete forte e convinta di esperienze urbane.

Ha dunque profondamente ragione Giulio Marcon (il manifesto del 2 ottobre) a riportare la ricerca delle cause di questa ancora evitabile sconfitta all'interno della nostra cultura e tentare così di superare timidezze e reticenze che non hanno permesso all'esperienza dell'Altra Economia di mettere radici ancora più profonde e collocarsi irreversibilmente nel panorama economico e sociale della città. Alla base delle debolezze c'è sicuramente una esasperata frammentazione delle esperienze e la loro scarsa attitudine a divenire rete. Marcon ci sollecita però di andare oltre a queste motivazioni soggettive e tentare di costruire una politica comune sui temi dello sviluppo economico e urbano senza la quale assisteremo a sconfitta dopo sconfitta.

Ritorno sul tema delle città. Quando nel 1998 fu sconfitta la logica speculativa della valorizzazione dei beni pubblici in favore di un uso sociale degli spazi pubblici, non si continuò coerentemente su quella strada maestra. Dubbi e incertezze conquistarono la sinistra tradizionale, ma coinvolsero i gruppi dirigenti della sinistra senza aggettivi allora al governo regionale e comunale. Da lì a pochi anni fu approvato il piano regolatore di Walter Veltroni che prevedeva 70 milioni di metri cubi di cemento (il più grande sacco urbanistico della capitale!) per una città che non cresce più demograficamente. Era evidente la contraddizione: si tentava di avviare l'esperienza del Mattatoio nel quadro di una acritica accettazione del liberismo urbanistico. Ci si illudeva dunque di stabilire pratiche alternative accettando in toto una cultura che non ci appartiene.

Ma di questo strabismo non si riuscì a parlare. Pur di garantirci preziosi spazi istituzionali abbiamo anche evitato di dare spazio a chi dissentiva. È solo tagliando il nodo di questi ritardi culturali nel campo del governo delle città e delle tematiche più generali relative al modello economico della decrescita che esperienze come la città dell'Altra Economia di Testaccio non solo non saranno più messe a rischio, ma si riprodurranno anche in altri luoghi di Roma e in molte altre città. Se continuiamo in un estenuante gioco di difesa, rischiamo davvero di non essere attori credibili in questo momento in cui si sta decidendo il futuro delle città e del paese.

Gli investigatori parlano di un vero e proprio “rompicapo”: dell’uomo che avrebbe tentato di uccidere il Direttore di Libero Maurizio Belpietro si sa poco e nulla. Un fantasma.. Nell’attesa si possono riepilogare i fatti. Ecco tutte le stranezze sull’”attentato” alla vita di Maurizio Belpietro.

1. Belpietro è appena stato accompagnato in casa. Il caposcorta, dopo anni di routine, decide di non prendere l’ascensore, ma di scendere per le scale. Per potersi fumare una sigaretta, dice. Sarà proprio questa provvidenziale casualità a farlo imbattere nel malintenzionato, prima che questi possa bussare alla porta del Direttore di Libero.

2.. L ’attentatore prova immediatamente ad uccidere l’agente, sparandogli “in faccia” da una distanza ravvicinata. La pistola però s’inceppa, fa “click”, poi il killer scappa. Un’altra provvidenziale casualità. La seconda.

3.. La pistola viene descritta dal miracolato come una “Beretta”, quindi una semiautomatica. Pistola affidabilissima, scelta come arma ufficiale da molti eserciti del mondo, compreso quello italiano. Un proiettile difettoso? Forse, ma le probabilità sono in ogni caso remote.

4. .Spunta anche l’ipotesi pistolagiocattolo, ma i media vicini al Premier sono gli unici a non prenderla nemmeno in considerazione: non ne fanno cenno.

5.. La reazione dell’attentatore alla vista del capo-scorta (sparo in faccia) appare eccessiva, immotivata. Il poliziotto era vestito in borghese, perché ucciderlo? E se fosse stato un normale condomino? Perché non provare a far finta di niente, e risalire tranquillamente le scale? E soprattutto, perché bruciare il vero obiettivo dell’attentato, perché bruciare l’intera operazione?

6.. E ancora: perché l’attentatore non aspetta l’uscita del caposcorta per agire - sarebbe bastato attendere qualche minuto - magari servendosi di un complice, come sempre avviene in questi casi?

7.. La reazione del capo-scorta: dopo aver visto la morte in faccia (una Beretta puntata “ad un millimetro” dal volto, che fa “click”) si getta a terra, o dietro un angolo, poi fa fuoco mirando al killer in fuga. Due colpi, quindi si alza, insegue giù per le scale l’attentatore - un paio di rampe - e spara una terza volta. Poi risale da Belpietro, per vedere che tutto sia apposto. Nessun colpo giunge a segno. La sezione balistica della Questura di Milano sta indagando sulla traiettoria dei proiettili esplosi. Inizialmente si era parlato di “3 colpi in aria”, sparati con il semplice obiettivo di dissuadere il malintenzionato.

8. Gli agenti di scorta sono figure molto preparate, che devono saper fronteggiare qualsiasi situazione di pericolo. In questo caso il poliziotto ha sì messo in fuga l’attentatore, ma non è riuscito a colpirlo da una distanza ravvicinata ed in uno spazio ristretto, dopo aver subito un tentato omicidio. Poi se l’è lasciato scappare, desistendo dall’inseguirlo dopo una manciata di rampe.

9. Sono attimi concitati, fuori è notte, la luce fioca delle scale, a rischio la vita, il criminale in fuga. Tutto avviene in un lampo, ma il capo scorta riesce a descrivere con precisione il tipo di pistola, il volto, l’età, il naso, la carnagione, le pupille, la corporatura, le scarpe, i capelli ingellati e l’abbigliamento del fuggitivo: prima si parla di un uomo vestito da finanziere, poi le ore passano e si scopre che quel tizio aveva i pantaloni di una tuta “tipo adidas”, bianca con righe nere, ed una camicia “grigio-verde con mostrine” che potrebbe ricordare una pettorina della Gdf. Siamo passati da killer professionista sapientemente travestito da finanziere per fregare Belpietro a semplice sgherro di periferia, conciato con qualcosa di verde.

10. In molti già parlano di terrorismo e anni di piombo - apocalittico il tono dei vari Pansa, Feltri, Zurlo, Vespa, Sechi, Farina, Maroni, Capezzone, Cicchitto e tanti altri - ma il fallito attentato non è stato ancora rivendicato. Un po’ insolito.

11. La scientifica ha analizzato scale e garage: nessuna traccia dell’attentatore. Pure le possibili vie di fuga, tra cespugli, mura e siepi alte 2 metri da scavalcare, appaiono immacolate.

12. Un solo testimone. Per ora la quasi totalità della ricostruzione si basa sulle parole dell’agente coinvolto, tale Alessandro M., promosso agente scelto dopo aver sventato un altro possibile attentato. Era il 1995, e la vittima designata il procuratore D’Ambrosio. La dinamica ricorda molto quella avvenuta nel palazzo di Belpietro: anche allora A.M. mise in fuga l’attentatore, ma non riuscì a catturarlo o a colpirlo. Nessun testimone, oltre ad A.M., vide quella scena. Ed i responsabili del tentato omicidio non furono mai individuati.

13. Lo stesso D’Ambrosio afferma: “Mi sembrò strano quell’attentato, in una terribile giornata di pioggia. A. mi disse di non scendere, mi affacciai e vidi soltanto un uomo che parlava con una donna all’interno dell’asilo. Una volta in strada A., bagnato fradicio e in stato di alterazione, mi spiegò che aveva inseguito una persona dentro l’asilo, un uomo armato di fucile che poi aveva saltato un muro ed era scappato su una moto guidata da un complice. L’indagine non approdò poi a nulla. Sinceramente non ci ho mai creduto molto”.

14. Gli investigatori hanno deciso di riascoltare il capo-scorta: nella sua ricostruzione ci sarebbero alcune “incongruenze” (Tg La7, 3.10).

15. L’attentatore è molto probabilmente fuggito dall’uscita secondaria, che dà su Corso Borgonovo (quella principale era presidiata da un agente). D’obbligo quindi imbattersi nella relativa telecamera, o nel custode, che abita proprio lì. Ma nessuno ha notato niente, né l’occhio umano, né quello bionico. Pensate, il custode all’ora X si trovava proprio nel cortile indicato da tutti come unica possibile via di fuga: e di lì non è passata anima viva. Stesso discorso per il portiere di casa-Belpietro: visto o sentito niente. Da dove sia fuggito l’attentatore, rimane un mistero. Da dove sia entrato, pure: nessun condomino ha visto o segnalato qualcosa di strano.

16. Il baccano a quell’ora di sera - erano circa le 23 - ha fatto sobbalzare tutti gli abitanti dell’edificio. In molti si sono precipitati a vedere cosa fosse successo, ma nessuno ha visto l’attentatore in fuga.

17. Casa Belpietro è situata in pieno centro a Milano - vicino allo show room di Armani - ed è circondata da telecamere di ogni genere. Se qualcuno fosse davvero entrato o uscito da quel palazzo, impossibile farla franca, soprattutto a quell’ora di sera, quando la zona è particolarmente calma. Ma gli investigatori hanno già controllato tutte le registrazioni, e vagliato telecamere fino a 4 isolati di distanza: per ora niente, i video sono molti, la risoluzione bassa, e ogni esito è risultato negativo.

18. Un colpevole c’è già. Maurizio Gasparri ha cominciato a seminare infamie sul Procuratore che si occupa del caso, quell’Armando Spataro che ha speso una vita intera a combattere ogni tipo di criminalità organizzata, da quella mafiosa a quella terroristica: “Bisogna togliere l’indagine a Spataro, ed affidarla ad un altro Pm, imparziale ed autorevole: Spataro non lo è”.

19. 4 ottobre: a soli 3 giorni dall’attentato, la notizia scompare dal Giornale. Nada, nemmeno un trafiletto. Stessa cosa per tutti i media vicini al Presidente del Consiglio: come se non fosse successo niente. Ma scusate, non erano tornati gli Anni di Piombo?

20. 5 ottobre: .. sentite che si dice sul Corriere della Sera di oggi: “Gli investigatori non pensano a un’azione studiata da qualche gruppo armato. «Potrebbe essere un Tartaglia armato», dice un detective. Anche se tra i poliziotti circola uno strano convincimento: che l’agente di tutela del direttore di “Libero” si sia inventato tutto»

da http://nonleggerlo.blogspot. com

Nemmeno il caldo agostano ha bloccato a Firenze polemiche e iniziative contro il "Grande Buco": il megatunnel con annessa Grande stazione sotterranea che dovrebbe segnare l'attraversamento della città da parte delle linee ad alta velocità - unico nodo ancora irrisolto della tratta Milano-Napoli. Si tratta di un progetto inutile: il tunnel e la grande stazione sotterranea - se i lavori effettivi partissero, come da cronoprogramma, nel febbraio 2011 - non sarebbero pronti prima di fine 2020, nella migliore delle ipotesi; nel frattempo, come già avviene, il treno ad alta velocità continuerà a passare in superficie. Anche per questo il gruppo di studiosi della locale università che ha indagato l'impatto ambientale del progetto ha avanzato la proposta di razionalizzare proprio il passaggio di superficie, con uno schema progettuale di semplicissima attuazione (due nuovi binari totalmente in aree di pertinenza ferroviaria, con alcuni piccoli interventi di riassetto della linea e di allargamento dell'intorno) che sarebbe ad impatto pressoché nullo e poco costoso (ma forse questo è il problema). Lo studio prevede la ristrutturazione della vecchia stazione di Statuto-Circondaria, in collegamento con il principale polo ferroviario di Santa Maria Novella; per creare un sistema, un "blocco stazione"-Firenze Novella - che permetterebbe di recuperare brani importanti del patrimonio industriale, infrastrutturale ed insediativo storico della città, riqualificando tessuti decisivi del suo centro storico. Logica opposta a quella del progetto attuale che si abbatte sul centro, con un impatto urbanistico assai negativo.

Numerosi comitati cittadini - in primis il "Comitato contro il sottoattraversamento"- si oppongono al "Grande Buco" e chiedono di attuare il progetto di superficie; svolgendo un ruolo prezioso di informazione, trasparenza e collegamento tra studiosi ed esperti, istanze della politica istituzionale, movimenti e abitanti. La novità delle ultime settimane è l'avvio di una sorta di class-action per il blocco del progetto di sottoattraversamento da parte di centinaia di cittadini le cui case sono minacciate dai lavori: è stato infatti costituito un pool di legali - supportati da alcuni tecnici - che ha depositato l'istanza tecnico-giuridica di blocco dei lavori, con denuncia e richiesta di risarcimento per «danno temuto» da parte degli abitanti titolari.

La crescita del movimento anti-Buco ha scosso il quadro politico fiorentino e toscano: il sindaco Renzi ha chiesto alle Ferrovie e al governo un rallentamento e una nuova riflessione sul progetto che ha portato al rinvio dei lavori a febbraio, previa nuova verifica dei rischi. Tutte le opposizioni e buona parte delle maggioranze sono per il passaggio di superficie. Restistono le componenti dalemiane del Pd, ancora maggioritarie, che rifiutano qualsiasi riflessione sui danni ambientali e sulla mancanza di garanzie del progetto.

È ormai acclarato che per la nuova stazione sotterranea non è stata mai effettuata alcuna Via, un abuso clamoroso in contrasto anche con le maglie larghe della Legge Obiettivo. Come hanno più volte sottolineato geotecnici del calibro di Giovanni Vannucchi e Teresa Crespellani, è altissimo il rischio di «crolli e danni rilevanti al patrimonio abitativo» (Ferrovie ammette i rischi di «danni anche ingenti» per 270 edifici, ma stime realistiche, ancorché prudenziali, portano a cifre almeno doppie; i manufatti dell'intorno sarebbero comunque sottoposti a una sorta di «sciame sismico permanente» per tutto il decennio di durata dei cantieri) e al «patrimonio storico-artistico».

Alberto Asor Rosa ha avanzato una proposta di mediazione, sotto forma di Variante generale del progetto Tav, che permetterebbe di abbandonare «il folle progetto di sottoattraversamento» e passare alla soluzione di superficie. La proposta prevede di impiegare interamente la cifra già prevista da Ferrovie (1.5 miliardi di euro), ma per attuare la proposta del gruppo dell'Università di Firenze ampliandola ancora, per realizzare un pezzo consistente della linea ferroviaria metropolitana, già programmata per risolvere i problemi di mobilità dell'hinterland.

Cade a pezzi anche il Colosseo

Tommaso Cerno

Siti archeologici abbandonati. Teatri in crisi. Opere d'arte dimenticate. E poi biblioteche, archivi, cinema... I tagli del governo mettono in ginocchio la cultura. Che ora rischia il crac.

Sulla carta è il monumento più famoso al mondo. Nella realtà sta cadendo a pezzi. Il Colosseo ha bisogno di un restauro da 25 milioni di euro, ma di quattrini nelle casse dello Stato non c'è traccia. Così il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, ha aperto la caccia agli sponsor privati: s'è già offerto Diego Della Valle per guidare la cordata che salverà facciata e faccia alla cultura in crisi ormai cronica. Ma ecco che quei calcinacci che di buon mattino si sono staccati dall'ambulacro centrale sono anche il simbolo del fallimento italiano: addirittura all'anfiteatro Flavio, che da solo fa milioni di turisti e nelle statistiche mondiali è sul podio con un valore d'immagine pari a 91 miliardi di euro, più dei Musei Vaticani e quasi come il marchio della Coca-Cola, occorre un salvagente per restare in piedi. E presto lo vedremo avvolto da quei mega-cartelloni pubblicitari che ricoprono i tesori in restauro a spese di multinazionali o del magnate di turno, facendo infuriare le archistar.

Perché se lo Stato arranca già nel cuore dell'Urbe, figuriamoci cosa capita a musei, scavi, teatri, fondazioni, archivi e biblioteche di mezza Italia. I conti del ministero del Beni culturali sono rossi come certe, ormai abbandonate rovine romane. E i tagli soffocano quello che dovrebbe essere, piuttosto, il core business del Belpaese. Per denunciare il crac della cultura l'artista Mimmo Paladino ha coperto con un drappo nero la sua ultima opera, i cavalli donati al teatro San Carlo di Napoli. «L'ho fatto per protestare pubblicamente, indignarsi, criticare le autorità», racconta l'artista. Ma quel drappo dovrà presto allargarsi fino al teatro di Roma, al Goldoni di Venezia, alla Scala di Milano. Come all'Accademia di Santa Cecilia, a Pompei ed Ercolano, alla biblioteca di Firenze, passando per la Crusca e il Centro sperimentale di Cinematografia.

E’ UNA LOTTERIA.

Solo nell'ultimo anno la dieta Tremonti ha abbattuto il Fus, fondo unico per lo spettacolo, a 400 milioni di curo, perdendo quasi 70 milioni. Mentre gli investimenti per la manutenzione di musei, opere d'arte, scavi archeologici, biblioteche e archivi hanno subito tagli che superano il 30 per cento. Significa 200 milioni in meno fra cinema, teatro, musica, danza e opera ogni anno. Soldi spesso già impegnati per restaurare monumenti, ripulire facciate di palazzi e chiese, mettere in sicurezza i depositi librari, progettare nuove sale per i nostri capolavori: «La situazione per il 2011 sarà ancora più dura: il Fus che scenderà a 300 milioni di euro., spiegano al ministero. Che fare? Se le nonnine scaramantiche a corto di quattrini s'affidano al lotto, ai nostri antenati non sarà più concesso nemmeno di darci i numeri in sogno. Perché il governo ha già tagliato anche la ruota: quest'anno solo 60,8 milioni sono stati trasferiti ai beni culturali dalle giocate, un calo del 50 per cento che ha messo in ginocchio tutti i settori storicamente finanziati con le lotterie. Erano stati promessi 353 milioni in tre anni, soldi che invece non arriveranno. Denaro destinato alla salvaguardia dei tesori nazionali, come il cantiere delle navi romane di Pisa, le aree archeologiche di Gravisca e Tarquinia o il palazzo reale di Genova. Ai musei è andata pure peggio: è andato in fumo addirittura il 91 per cento degli introiti già inseriti a bilancio e dovranno accontentarsi di 4,5 milioni. Soldi spesso inutili, perché i progetti sono già avviati e ora costano troppo per cui dovranno comunque fermarsi.

CIAK SI TAGLIA.

Botteghini pubblici serrati anche per il cinema. E i tagli del ministero stanno per diventare addirittura legge. Una norma voluta da Bondi per razionalizzare le spese di Stato sul grande schermo taglierà, di fatto, i fondi per le piccole produzioni. Non potendo più pagare tutto e tutti, perché la pioggia di soldi pubblici è ormai poco più che un rigagnolo, il ministro punta su opere prime e film cult. Almeno a parole. Lo slogan è: basta milioni a pellicole come "Puccini e la fanciulla" di Paolo Benvenuti, costato un milione per un incasso di 6 mila 392 euro. O ancora come "Sleeping around" di Marco Camiti che dallo Stato ha incassato 716 mila euro e dagli spettatori 1.794. «Un criterio che si rende necessario dal momento in cui sarebbe impossibile, con i conti dello Stato, continuare a foraggiare qualsiasi produzione di lungometraggio», spiegano al ministero. E la Rai, che ogni anno gira 40 milioni alle produzioni, si adegua. Anche se questo significa infliggere un colpo forse letale al cinema, già in crisi nera di fondi e di distribuzione: «Molti film buoni fanno difficoltà al botteghino, perché il multisala favorisce altri tipi di prodotto. Senza fondi -96,19 pubblici è ovvio che sempre meno registi saranno in grado di montare un film da soli, ma questo non è un problema solo di tagli, riguarda i gusti degli spettatori e le regole del mercato», spiegano i vertici di RaiCinema.

Così produttori e registi guardano sempre più interessati al federalismo, che da qualche anno ha trasferito soldi e competenze alle Regioni. Al punto che "I demoni di San Pietroburgo" di Giuliano Montaldo è stato girato in Piemonte e fra le strade che si rincorrono sui fotogrammi non c'è la Prospettiva Nevskji, ma gli incroci nel centro di Torino. Il risultato è che dal Nord fino alla Sicilia, aiuti economici e loca-tion gratuite sono in aumento. Una boccata d'ossigeno che ribalta, però, la tesi di Bondi che aveva giustificato i tagli spiegando che «finora il cinema italiano era stato servo della politica». Come se governatori e sindaci non fossero il rovescio della stessa medaglia. E soprattutto ossigeno insufficiente: «Nel 2011, se i tagli saranno confermati, non solo si toccherebbe il punto più basso della storia del Fondo unico per lo spettacolo, ma si raggiungerebbe il momento più basso della politica in questo settore», denuncia il presidente dell'Agis, Paolo Protti. Con la chiusura di molte imprese e la perdita di migliaia di posti di lavoro.

CALA IL SIPARIO. Intanto, a Venezia, andrà in scena Pedro Almodóvar in versione teatrale, peri palati fini della Laguna. Ma il pubblico del Goldoni non sa ancora che sul palcoscenico troverà una sorpresa. Per non ammazzare le produzioni, la presidente del teatro stabile Laura Barbiani s'ingegna nel low cost: «Non lo scriva, la prego. Ma con i tagli non riusciremo a fare lo spettacolo con 12 attori. Per cui qualcuno sarà costretto a fare due o tre parti per stare nel budget. Succede sempre più spesso», racconta a "L'espresso". Lo spettacolo deve continuare e, dal vivo, i tagli pesano ancora di più: ogni anno il bilancio in Veneto chiude a circa 8 milioni, ma il 70 per cento se ne va in stipendi. Eppure hanno già tagliato tutto il tagliabile: le scenografie sono più piccole, i giochi di luce hanno sostituito i vecchi e costosi effetti speciali e, quando fanno i piani, devono ricordarsi di caricare pochi mobili perché se per caso lo spettacolo è itinerante tutto deve stare su un solo camion: «Un secondo mezzo significa 50-60 mila euro di più e rischia di farti saltare la produzione, aggiunge la Barbiani: «Mentre, coi fondi regionali, spuntano festival, sagre e vere e proprie strutture di produzione parallele foraggiate da sindaci e assessori locali

ROVINE IN ROVINA. Nell'Italia dei mali culturali la scure non risparmia certo l'archeologia, che fino a pochi anni fa ci vedeva leader mondiali. È talmente rosso il bilancio che il nuovo diktat suona brunettiano: vietata la macchina per le missioni. Ma mentre il governo difende la norma propagandando fantomatiche riduzioni di auto blu, l'esito pratico è che archeologi e storici dell'arte non possono più raggiungere i siti e gli scavi in restauro o le necropoli che sono pagati per tutelare. L'elenco dei tagli è lungo. Si va dai soprintendenti in pensione mai sostituiti, al blocco dei turn over, alla necessità di firmare autorizzazioni, anche edilizie, senza aver potuto vedere con i propri occhi dove e cosa si intenda costruire. Fino al caso limite di Pompei, dove da sei mesi il ministero non ha nominato il dirigente, come ha denunciato "Repubblica". Soldi non cene sono nemmeno qui. I turisti diminuiscono e molte zone dello scavo devono restare chiuse al pubblico. Una fune blocca l'accesso al sito dei fuggiaschi, finanziato dal Fio e ancora inaccessibile. Sono i corpi dei sopravvissuti alla prima eruzione, uccisi poi dai fanghi mentre tentavano di scappare. Un patrimonio dell'umanità che nessuno può vedere, mentre sui giornali finiscono le inchieste della procura di Salerno su presunte irregolarità nell'uso dei fondi Ue. A Ercolano la musica è simile. C'è il museo Antiquarium, costato miliardi di lire già negli anni Settanta e mai aperto. E ci sono oltre 4 mila reperti che giacciono in qualche magazzino. Lontano dai milioni di curiosi che da tutto il mondo pagherebbero caro per vederli. «La situazione di Roma, Pompei ed Ercolano è gravissima perché la mancata conservazione significa favorire il decadimento del nostro patrimonio. Assurdo in un Paese che fonda il suo benessere sul turismo. E’ come per la Fiat: gli investimenti non dovrebbero essere considerati un costo, ma una fonte di guadagno e invece in Italia tagliano addirittura i mezzi di trasporto dei tecnici, costringendoli a stare negli uffici e poi lamentandosi, come fa Brunetta, se fanno le parole crociate«, denuncia il presidente dell'istituto nazionale di Archeologia Adriano La Regina.

MUSEI NEL CAOS. La scura è uguale per tutti. Dai musei di arte contemporanea, fino alle grandi istituzioni nazionali. A Reggio Calabria non hanno più i soldi nemmeno per il restauro della "casa" dei Bronzi di Riace. Per finire i lavori in tempo, entro il 2011, servono 9 milioni di euro in più e così rischia di saltare pure il tour mondiale annunciato dal manager Mario Resca. I numeri sembrano migliorare rispetto all'anno nero 2009. Ma proprio per questo fermare gli investimenti adesso potrebbe essere letale. Chi ripete che la colpa è del Sud se va sempre tutto male, sappia che a Verona va anche peggio. In terra leghista i reperti preistorici del museo di Storia naturale venduto dal Comune per farci un parcheggio, marciscono in una cantina e, per colpa della muffa, sono diventati blu. Alle biblioteche arriverà poco più di un milione, l'82 per cento in meno del previsto, quando fra gli scaffali ci sarebbe bisogno di ben altro. Mentre Regioni e Comuni strapagano le scuole di dialetto dal Piemonte, al Veneto al Friuli, l'Accademia della Crusca non ha un finanziamento stabile, la Biblioteca di Firenze ha rischiato la chiusura, la Treccani ha minacciato di abolire il Biografico, la memoria della cultura italiana.

MELODRAMMA NEL DRAMMA. Stretta sulle assunzioni e tagli alle retribuzioni anche all'Opera. I toni melodrammatici della Finanziaria Tremonti non risparmiano nemmeno chi quel canto ha reso celebre. Alla firma del decreto sugli enti lirici, è seguita la più imponente raffica di scioperi del Dopoguerra. Alla Scala di Milano è apparsa una bara, a Napoli hanno recitato il funerale della cultura, al Regio di Torino s'è formata una catena umana composta da centinaia di lavoratori del teatro e il coro dell'Accademia di Santa Cecilia ha annullato il concerto a San Pietro. E mentre Riccardo Muti parla di «delitto« riferendosi alla mannaia ministeriale sui fondi per la musica d'eccellenza italiana, la crisi sta scritta nei numeri: la Fenice produce un terzo rispetto a Monaco di Baviera, la Scala un quarto rispetto a Vienna. E nei foyer le orchestre improvvisano concerti di protesta. Proprio come sul Titanic della cultura italiana che affonda.

Così si cancella la nostra identità, colloquio con Salvatore Settis

Daniela Minerva

Blocco del turn over. Sovrintendenze senza vertici. E un taglio del 5 per cento al fondo ordinario. Così le opere d'arte, i monumenti, i siti archeologici che sono l'anima stessa dell'Italia sono abbandonati al degrado da un governo pop, tutto televisione e décolleté. Con quali conseguenze? Lo abbiamo chiesto a Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, uno dei più autorevoli antichisti del mondo.

Professor Settis, cosa succede a un paese che dismette il suo patrimonio culturale?

«La situazione è gravissima. Basti pensare che le due istituzioni più grandi del Paese che gestiscono le aree archeologiche più importanti del mondo, quella di Roma e quella di Pompei, sono senza un sovrintendente. Non si fanno i concorsi e man mano che le persone vanno in pensione si creano dei vuoti che si traducono nell'impossibilità di mantenere un patrimonio così vasto e capillare come il nostro. Non solo: questa idea di poter sostituire i sovrintendenti con soluzioni temporanee, anche nominando un prefetto in pensione come è accaduto all'area vesuviana, è grottesca. Per tener dietro a Pompei ci vuole un archeologo non un prefetto”.

Lei sembra suggerire che più che di denaro sia una questione di sine cura del governo.

«Le sovrintendenze dei beni culturali e archeologici funzionano benissimo da oltre un secolo. Tutto il mondo ce le invidia. Ma oggi sembra che le si voglia chiudere. Perché, si dice, si deve risparmiare. E da qualche tempo, se si deve risparmiare è sulla cultura che si decide di farlo, giacché la si considera un optional. Quando, invece, non lo è neppure se si vuole soltanto mettere l'accento sull'economia”.

I beni culturali come drive per l'economia?

«Il premio Nobel Amarthya Sen e diversi economisti hanno ormai dimostrato che la produttività di un Paese si promuove rafforzandone l'identità civica. Che noi abbiamo solidissima proprio grazie alla nostra identità culturale: un senese come un leccese o qualunque cittadino di questo Paese è fiero di essere tale anche per l'enorme e straordinario patrimonio culturale che lo circonda e di cui è parte. Se perdiamo i nostri beni perdiamo la nostra identità”.

Il governo non sembra esserne consapevole.

«Ma nemmeno l'opposizione. Sono colpito dalla totale assenza di dibattito pubblico su questa emergenza. I partiti, di tutti i fronti, hanno completamente marginalizzato la cultura. Mentre è solo creando una maggiore consapevolezza nell'opinione pubblica che si può intervenire. Unitamente, è ovvio, al fatto che si mettano a disposizione dei fondi per ripristinare organici e mezzi delle sovrintendenze”.

Non pensa che anche dentro le sovrintendenze possano esserci stati degli sprechi?

«Non lo escludo. Ma bisogna dimostrarlo e bisogna razionalizzare le spese in baso a ciò che si è scoperto. Altrimenti, con la scusa degli sprechi, mai dimostrati e analizzati, si sfascia tutto”.

A molti sembra che, nell'attuale contingenza economica, si debba fare ricorso ai finanziamenti privati.

«Che già ci sono, e grazie ai quali stiamo restaurando molte opere d'arte, ad esempio. Ma il patrimonio è e deve restare pubblico. E allora: perché un privato dovrebbe erogare ingenti fondi se poi non lo si fa entrare nella gestione del patrimonio? In altri Paesi fondazioni e imprese finanziano il patrimonio culturale perché ne hanno benefici fiscali. E questo è un buon modo di procedere. Ma ogniqualvolta ci si è provato, in Italia, il ministero del Tesoro ha posto il veto perché, si è detto: non è sostenibile fiscalmente. Ma proviamo a pensare se non ci fossero 120 miliardi di evasione. Se tutti pagassero le tasse, allora resterebbero i soldi per tutto”.

PIAZZE D'AUTUNNO

di Angelo Mastrandrea

In un Paese asfissiato da un potere che usa i dossier al posto del manganello e da una crisi sociale che sempre più a fatica il governo riesce a nascondere, una giornata come quella di ieri può perfino essere considerata particolare. Cos'è accaduto di così rilevante? Che una generazione di giovani, spesso rappresentata come anestetizzata e disincantata, è tornata a riprendersi le strade e le piazze, in un ritorno d'onda forse inaspettato al tempo degli sponsor a scuola e del sole delle alpi messo in qualche aula a competere col crocifisso. È accaduto altresì che nelle strade e nelle piazze riconquistate si sono visti anche i fratelli maggiori, ricercatori precari per definizione e non per scelta, e qualche padre, docente in procinto di scioperare contro l'attacco al cuore della conoscenza sferrato da una destra incapace di pensare a un modello di società che non sia affaristico e privatizzatore. Una boccata d'ossigeno, e pazienza se il traffico cittadino ne ha risentito.

Fosse finita qui, saremmo già moderatamente soddisfatti. Ma contemporaneamente è accaduto qualcosa ancora più meritevole di nota: a Castelvolturno gli schiavi della terra, i migranti bersaglio dei Casalesi, quelli che bisogna ucciderne il più possibile per mandare un segnale (come si legge nelle intercettazioni del clan Setola), si sono presi le strade, anzi le rotonde dove tutte le mattine attendono i caporali che arrivano a reclutarli. No grazie, oggi non lavoro, hanno risposto educatamente proclamando uno sciopero che nessuno riconoscerà come tale solo perché nessuno riconosce il loro mestiere. Nemmeno il locale sindaco del Pdl: in un comune piagato dalla camorra non se l'è sentita di inaugurare la lapide per i sei africani uccisi dai clan e per questo si è meritato la riconoscenza di Forza Nuova.

In un Paese che non riesce a garantire un futuro ai suoi giovani, dove i cinesi non muoiono ufficialmente nemmeno quando li trovano affogati sotto un cavalcavia, ci pare un segnale di risveglio. Toccherà anche a noi provare a interpretarlo e ad alimentarlo, come alle forze della sinistra dargli continuità, perché non sia solo la replica di proteste senza sbocco. Le piazze riconquistate ieri erano 83. Con Castelvolturno fanno 84. È questa l'unità d'Italia che ci piace.

UNIVERSITA’

La distruggono dall'esterno,

la squalificano dall'interno

di Angelo d'Orsi*

Nella logica da condominio - incapacità di guardare lontano, e perseguire l'interesse di un singolo invece che quello generale - che domina il ceto politico non v'è da stupirsi dell'atteggiamento che si manifesta verso il mondo della ricerca e dell'insegnamento universitario: misconoscimento dell'una, svalutazione dell'altro. Quello che, ciò malgrado, un po' sorprende è l'impudicizia con cui si procede, desertificando il territorio della scienza, bloccando ogni possibilità di accesso di giovani studiosi alle professioni cui le loro capacità e aspirazioni li destinerebbero, praticamente cancellando i fondi di dotazione di atenei e strutture superiori e, a guisa di riparo, aprendo le porte a capitali privati, a cui, riconoscenti, ministeri e assessorati concedono il ruolo guida. Impudicizia: non hanno pudore a distruggere non solo università e ricerca superiore, ma l'intero sistema scolastico italiano che non era tra i peggiori del mondo; tutt'altro, specie ai livelli di scuola primaria.

Su tale logica condominiale, si sta materializzando da un paio d'anni il cupio dissolvi: la catastrofe dell'università non è la fine di un settore, magari importante, ma pur sempre un settore della vita sociale nazionale; è, piuttosto, l'annuncio della fine delle speranze di un Paese. Un documento di studenti dell'Ateneo dove insegno - quello di Torino - denuncia, nel governo nazionale, ora spalleggiato da quello regionale, nella mani dei leghisti, proprio la volontà di cancellare il futuro, con una politica demenziale che nega sostegno agli studenti e alle loro famiglie (specie le meno abbienti), ricordando il dettato dell'art. 34 della Costituzione («... I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze...»). E invece, la Repubblica non solo non aiuta, ma deprime, scoraggia, dissuade. Già, perché il primo elemento che balza agli occhi è il ritorno dell'università a luogo per privilegiati; annullando di colpo tutte le faticose conquiste degli scorsi decenni: privilegio, dico, e non élite: chi può permettersi di concludere gli studi e, ancor più, tentare l'accesso alla «vita degli studi», non può che avere alle spalle una famiglia abbiente. La «meritocrazia» di cui straparlano le Gelmini e i Brunetta (ma quali sarebbero, poi, i loro personali «meriti»? Questo lo ignoriamo), è una feroce gerarchia sociale fondata sul censo (e magari sull'obbedienza), e non sulle qualità personali, sulla capacità di lavoro, sulla disposizione all'impegno e anche, quando occorre, al sacrificio.

Naturalmente, analisi come la mia offrirebbero il destro all'esimio editorialista del Corriere della Sera, Angelo Panebianco (grande sostenitore della Gelmini insieme con il capo della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, la Crui, Enrico Decleva), per altre sparate contro i settori «conservatori» e «corporativi» che resistono stoltamente alla ventata innovatrice e modernizzatrice di cui Mariastella sarebbe intrepida protagonista: e allora per evitarlo, aggiungo, last but not least, qualche riflessione sullo stato presente dell'Università italiana. Non posso fingere che non l'Università in quanto tale, bensì il mondo accademico del Bel Paese, non sia attraversato, non da oggi, da profondi fenomeni di corruzione: morale e intellettuale. Non è solo il nepotismo, il clientelismo, la selezione degli aspiranti ricercatori e docenti, diciamo, poco attenta alla qualità; è una condizione generale, in cui le norme sono fatte per essere eluse o aggirate; le Facoltà e i Dipartimenti sono terreni di guerre per bande, definite non da orientamenti ideali e neppure da affinità disciplinari, ma semplicemente da logiche di appartenenza, per spartirsi le esigue risorse e accaparrarsi fettine di sottopotere; una condizione nella quale la differenza tra destra e sinistra è pressoché inesistente; mentre, a dispetto di tutto il Sessantotto passato e i possibili futuri, vige tuttora, in troppi ambienti, una logica feudale e mafiosa: si procede in base alla fedeltà al capo: e si è premiati se essa è totale, si è messi in guardia o direttamente minacciati se vacilla; infine, se si osa la ribellione, si subiscono pesanti ritorsioni o, semplicemente, si è «invitati» a cercare altrove il proprio destino.

E allora, io ho firmato il documento dei docenti torinesi (e anche quello degli studenti) contro le logiche sciagurate della signora Gelmini; ma non dimentico, e mi batterò con ugual forza contro lo schifo che promana dall'interno dell'accademia.

* Angelo D'Orsi professore di Scienze politiche, ha firmato l'appello contro il ddl Gelmini insieme ad altri 200 docenti dell'Università di Torino e del Politecnico

MILANO

Ventimila in piazza contro i tagli

e i corsi paramilitari del ministro La Russa

(g.sal.)



Make school not war. Gli studenti di Milano hanno tanti buoni motivi per scendere in piazza. I tagli della Gelmini, ovviamente, i favori del governatore Formigoni alle scuole private, il sindaco che era la famigerata «Morattila» - e chi l'avrebbe detto che l'attuale ministro avrebbe fatto anche peggio. In Lombardia c'è la scuola di Adro sfregiata dai simboli leghisti che nessuno ha ancora levato. Non basta? E allora ecco i corsi paramilitari «Allenati per la vita» che Gelmini e La Russa hanno sponsorizzato.

«Facciamo scuola non la guerra», hanno gridato ieri 20 mila studenti medi in corteo da largo Cairoli fino al provveditorato di via Ripamonti, dove il corteo principale guidato dai collettivi studenteschi si è fermato in presidio. Un altro spezzone invece all'altezza del Duomo si è sganciato per andare all'università Statale dove ci sono stati scontri con la polizia.

Erano partiti tutti insieme intorno, tantissimi. A ottobre queste manifestazioni studentesche sono sempre molto partecipate, ma questa volta non si riusciva a camminare per la densità dei ragazzi che occupavano le strade. Con loro c'erano anche gli insegnanti precari che da tempo presidiano il provveditorato, c'era una rappresentanza dei docenti in sciopero di Cub e Flc-Cgil, qualche universitario e l'immancabile gruppo di Retescuole. Al corteo ha partecipato anche il centro sociale Fornace di Rho minacciato di sgombero . «A scuola non abbiamo i professori, manca la carta igienica, non ci sono i laboratori e gli insegnanti di sostegno - grida una ragazza con la faccia colorata - però possiamo andare a giocare alla guerra con gli amici di La Russa». Le fa eco una prof: «Tagliano 140 mila posti di lavoro nella scuola perché Tremonti non ha soldi, però spendono 15 miliardi di euro per comprare cacciabombardieri americani». Nei giorni scorsi alcuni studenti dei Collettivi avevano già manifestato contro i corsi militareschi davanti all'Unuci, l'associazione dei militari in congedo. E avevano anche imparato che cosa vuol dire ordine e disciplina: uno dei militanti si è preso un pugno in faccia dai carabinieri. Anche per questo ieri la manifestazione contro la Gelmini aveva una vena anti militarista. La gran parte del corteo si è diretta al provveditorato dove gli studenti hanno costruito una caserma di cartapesta e hanno affisso lo striscione: «Zona militare, limite invalicabile».

Passiamo alle dolenti note. L'altro pezzo di corteo (molto più piccolo) è andato in Statale con le bandiere dei pirati. Lì alcuni manifestanti si sono scontrati con agenti della Digos in borghese, un agente è finito all'ospedale perché gli è stato spruzzato in faccia uno spray urticante. Poi il corteo è uscito dall'università e circa 200 studenti si sono recati in largo Treves per manifestare sotto l'assessorato all'educazione del Comune. Un altro gruppo invece voleva passare oltre i cordoni della polizia schierata che, come era prevedibile, ha caricato a colpi di manganello.

ALMA MATER

Ricercatori precari, a Bologna nasce il coordinamento

(ro. ci.)

Sono i fantasmi dell'università italiana. Non esistono dati attendibili, ma sembra che siano più di 60 mila. Lavorano come contrattisti, assegnisti di ricerca, borsisti. Sono i precari della ricerca e ieri all'università di Bologna sono tornati a incontrarsi. Hanno fondato il «Coordinamento precari della ricerca e della didattica università» sul modello organizzativo della «rete 29 aprile», il coordinamento nazionale dei ricercatori che ha promosso la strategia dell'indisponibilità in più di 50 atenei italiani. Nomineranno due responsabili per ateneo, a partire da Milano-Bicocca, dalla Sapienza di Roma, il Politecnico di Torino, Bologna, Catania, Firenze, Napoli e Padova. Chideranno ai loro atenei di abbandonare il «metodo Marchionne» e di non bandire le docenze a contratto per sostituire i ricercatori indisponibili, anche se individualmente nessuno di loro si sente in diritto di chiedere ai colleghi di non partecipare ai bandi. In ogni ateneo apriranno vertenze sul modello di Torino e Bologna, dove negli ultimi mesi sono stati aperti tavoli di trattativa con i rettori e le regioni per ottenere i diritti sociali di base: un trattamento previdenziale, l'assicurazione, i buoni pasto. Dopo un'assemblea iniziata di buon mattino, alla quale hanno partecipato più di 200 persone, hanno perfezionato un documento che critica radicalmente l'impianto del ddl in discussione la prossima settimana alla Camera. Quando verrà approvato definitivamente i ricercatori precari rischiano di essere allontanati in massa da un lavoro che hanno svolto, in media, per una decina d'anni. E saranno costretti a una nuova corsa del criceto che il governo chiama «tenure track», ma che in realtà è un nuovo periodo di precariato che minaccia di durare oltre sei anni. Il coordinamento parteciperà all'assedio di Montecitorio previsto per giovedì 14 e formeranno uno spezzone nel corteo della Fiom del 16 ottobre insieme al precariato cognitivo che reclama il reddito, una riforma del Welfare e nuova politica per l'economia della conoscenza.

UNIVERSITÀ · Il rettore dell'Aquila Di Orio

«Scioperi sacrosanti, basta provocazioni»

di Eleonora Martini

«Una gratuita e inutile provocazione, un attacco inaccettabile all'autonomia universitaria». A fare il questurino come gli chiede la Commissione di garanzia sugli scioperi proprio non ci sta, il rettore dell'università dell'Aquila Ferdinando Di Orio. Denunciare quei docenti e quei ricercatori che si dichiarano «indisponibili»? «Francamente un po' troppo». Proprio nel suo ateneo, poi, che viaggia «compatto contro il provvedimento Gelmini». Perciò ieri ha deciso di chiedere formalmente con una lettera al presidente della conferenza dei rettori (Crui), Enrico Decleva, «ogni possibile iniziativa per salvaguardare l'autonomia del sistema universitario».

Cosa le ha risposto Decleva?

Ho ricevuto molti messaggi di condivisione, di docenti che si sentono perseguitati e mi dicono "finalmente qualcuno che parla". È una situazione pesante. Ma finora dal presidente Decleva nemmeno una telefonata.

Lei ha sempre manifestato pubblicamente la sua contrarietà alla riforma Gelmini, cosa non le piace?

Anche dentro la Crui, dove so di essere in minoranza, ho sempre sostenuto un giudizio negativo soprattutto per un motivo: la fine dell'autonomia universitaria che è sempre stata una grande risorsa costituzionale del mondo accademico. L'intero Ddl risente di questo provvedimento assolutamente dirigistico. Ricordiamoci che le università sono sempre state separate dall'esecutivo, solo il fascismo fece giurare i professori universitari.

Decleva, invece, invita ad approvare immediatamente la riforma Gelmini per evitare che si blocchi il turn-over dei docenti.

Vede, sta succedendo qualcosa di simile a Pomigliano: mentre si dà agli operai un posto di lavoro si tolgono loro garanzie fondamentali. Non inganni nessuno, per esempio, la promessa fatta di posti per docenti associati: è l'ennesimo modo per spezzare le resistenze attraverso i soldi.

Questo governo come Marchionne?

Sì, ci stanno togliendo le garanzie istituzionali universitarie in cambio di poche risorse. Briciole, in realtà: la grande elargizione del governo sarebbe di soli 90 milioni di euro a fronte di un taglio di un miliardo e 400 milioni. Certo, in un sistema universitario ormai ridotto alla canna del gas, è cambiata la mentalità e ci siamo abituati a rinunciare alle grandi garanzie: l'autonomia di redigere statuti, la validità di un sistema pubblico che resisteva all'ingresso dei privati nell'università guidandone eventualmente l'investimento...

Nel provvedimento, invece, i privati la fanno da padrone.

Addirittura dentro il Cda universitario. È la fine del sapere critico, dell'autonomia della ricerca: tutto sarà costruito sulla base di investimenti produttivi, saremo una specie di catena di montaggio al servizio dell'industria. D'altra parte non è un caso che il provvedimento Gelmini ha avuto come grande sostenitore Confindustria.

Ma voi li avete trovati gli investitori?

Io questa fila di imprenditori disposti a portare soldi non l'ho mai vista. Viene il sospetto che si voglia appoggiare la strategia di Confindustria: al Nord un'università di ricerca e di insegnamento, con la presenza di imprenditori, e al Sud formazione senza ricerca, che costa. È emblematico di un certa cultura il fatto che il presidente del Consiglio sia andato a inaugurare l'università telematica del Cepu, lui che non credo abbia mai inaugurato un anno accademico.

Un investitore però all'Aquila lo avete trovato: l'Eni, con il quale c'è un accordo per la costruzione di un centro di ricerca interno all'ateneo...

No, lo costruiranno su un terreno di proprietà dell'università ma lontanissimo dal campus; non farà parte dell'ateneo. Era un terreno agricolo: una signora ci piantava i carciofi. E invece darà lavoro a oltre 50 nostri ricercatori e io da rettore e da cittadino aquilano, che vedo andare via i miei giovani laureati, trovo che sia davvero una bestemmia opporsi al progetto, in una città come L'Aquila che ha una vera vocazione alla ricerca. E invece in consiglio comunale, dove devono decidere il cambio di destinazione d'uso di quel terreno, l'opposizione di destra sta facendo un ostruzionismo irresponsabile, malgrado l'accordo sia stato firmato ovviamente anche dal ministro Gelmini.

Cosa riceverà in cambio, l'Eni?

Acquisirà i diritti di proprietà intellettuale sui risultati delle ricerche che si svilupperanno in campo ambientale, energetico e dei nuovi materiali.

L'accordo prevede di realizzare anche uno studio di fattibilità per la realizzazione in loco di una centrale a gas e biomasse.

Sì, però lo studio è stato fatto ed ha prodotto un giudizio negativo. Non c'è alcuna convenienza a costruire una centrale di teleriscaldamento in questa zona, e dunque non si farà.

Per una volta, dunque, è d'accordo con la ministra Gelmini?

Assolutamente sì. L'assunzione di 50 dottorandi e ricercatori per noi è una manna. Qui la situazione è tragica, altro che miracolo aquilano! Abbiamo i bilanci ridotti al minimo, entro un anno avrò difficoltà a pagare gli stipendi, su 20 mila studenti quest'anno già 8 mila fuori sede, costretti ad essere pendolari per la carenza di residenze,non hanno confermato l'iscrizione. E nessuno sa che fine abbiano fatto quei 16 milioni di euro che il ministro Gelmini aveva detto di aver stanziato per ricostruire la Casa dello studente. In queste condizioni, vuole che rinunci ad un centro ricerche?

ROMA

In trentamila assediano il ministero

«Stella ciao, il futuro ci appartiene»

di Giampiero Cazzato

La parola che più ricorre negli striscioni e negli slogan degli studenti romani in corteo verso viale Trastevere non è «tagli», troppo ovvia. La parola, dalle molteplici letture, è futuro. Un futuro da riprendere in mano, un futuro che gli studenti, i precari, gli insegnanti si vedono negato dal governo e da un ministro, che uno striscione irride, strorpiandone il nome in «Gelminator».

Piazzale Ostiense è piena di ragazzi delle scuole superiori. La manifestazione si mette in marcia alle 10. Ma c'è chi di prima mattina ha dato il buongiorno a Mariastella. Sono gli studenti di Uds-Link che alle 6,30 hanno lasciato due striscioni davanti al dicastero dell'Istruzione: «Voi l'incubo, noi la sveglia», e «La paure fa 90... cortei in tutta Italia». Sulle scale del ministero una trentina di studenti indossa maschere bianche, sono quelli del collettivo Senza tregua.

«Siamo 30 mila» annunciano dagli altoparlanti piazzati su una camionetta sgangherata. Il corteo è un caleidoscopio di colori, gonne lunghe stile anni '60, le nuove kefiah sgargianti, t-shirt autoprodotte (ce n'è una che riporta la strofa della Canzone del Maggio di De Andrè), arabeschi disegnati sulle braccia. «La scuola è un bene comune. Studenti, precari e genitori in mobilitazione» recita lo striscione che apre la manifestazione. Su uno è scritto «Chi apre una scuola chiude una prigione». Oggi le scuole sono «come il carcere - dice Tito Russo dell'Unione degli studenti - l'edilizia fatiscente, la didattica vetusta, i costi per studiare insostenibili».

Flavio è all'ultimo anno del liceo classico Socrate, zona Garbatella. La scuola, dice, vanta un credito di oltre 160 mila euro nei confronti del ministero, ma l'algida Mariastella «tanto generosa con le private non intende onorare il debito». E così i soldi che i genitori versano come contributo «volontario» (di fatto obbligatorio) e che dovrebbero servire per attività extrascolastiche vengono usati per per evitare che la didattica si fermi.

La protesta di oggi ripropone «vecchi slogan di chi vuole mantenere lo status quo», ha dettato alle agenzie la Gelmini. Peccato che non possa parlare con Claudia, terzo anno al Russel, gli spiegherebbe che «i muri cadono a pezzi» e che in tre anni ha cambiato 7 insegnati di inglese. Peccato che non ascolti Valerio, del liceo scientifico Labriola di Ostia che racconta come, con la sua riforma, le ore di matematica si ridurranno sempre di più, «come un maglione lavato a 60 gradi».

Già, «Mariastella bla bla bla». «Gelmini saremo il tuo inferno» promette un luciferino striscione. «Non che prima di lei le cose andassero bene - precisa Marco Grandinetti, della Federazione degli studenti - solo che lei e questo governo perseguono lo smantellamento della scuola pubblica con una tenacia che non ha eguali. Parlare di riforma della scuola si può. Noi non abbiamo paura di questa parola e nemmeno dell'autonomia, purché sia vera, realizzata mettendoci risorse, che dia opportunità a tutti».

Il corteo si avvicina al ministero della Pubblica istruzione, le casse sparano a tutto volume i Cento passi dei Modena, si risente Contessa e una versione stracult di Bella ciao: si chiama Stella ciao, è un capolavoro che tiene assieme antifascismo e goliardia.

Lo sguardo di Silvia, dell'Istituto per il turismo, Colombo va oltre la sua classe cadente. «Oggi mi negano il sapere, come domani mi negheranno un lavoro, vero». E ai lavoratori guarda pure Marcello della Rete degli studenti. Sono in piazza con i caschetti, «per proteggerci dalle macerie in cui è ridotta la scuola, ma anche per saldare la nostra lotta con quella che il 16 ottobre porterà in piazza la Fiom».

DA BOLZANO A PALERMO

Scontri a Firenze, «cortei non autorizzati»

Partono le denunce

Quasi un centinaio i cortei, da Bolzano a Palermo ha inondato ieri l'Italia. E «da domani - annunciano gli studenti - partiranno i Cantieri della scuola pubblica, iniziative e assemblee per dare inizio alla ricostruzione della nostra scuola e del nostro futuro. Il 16 ottobre saremo ancora in piazza al fianco dei lavoratori della Fiom per dire che l'Italia non può uscire dalla crisi e immaginare un domani senza i diritti e la democrazia».

TORINO

Studenti delle superiori e dell'Università, docenti, precari e comitati dei genitori, il corteo partito da piazza Arbarello ha visto la partecipazione di 30 mila persone. L'università di Torino, avanguardia della protesta dei ricercatori, ha sospeso le lezioni fino a novembre.

FIRENZE

«Dietro ai banchi automi, nelle strade liberi» così lo striscione che apriva il corteo animato da 5mila ragazzi. Sono scoppiate scintille con gli studenti di destra all'altezza della prefettura. Sul tafferuglio Unione degli studenti e Collettivi di sinistra di Firenze affermano in una nota che «la verità è ben diversa» da quella riferita dal centro sociale di destra Casaggi. Altri disordini, dice la questura, ci sono stati a seguito di due cortei non autorizzati staccatisi da quello principale per dirigersi in percorsi alternativi. Uno, con 70 studenti pisani, è andato a protestare davanti all'ufficio scolastico regionale; l'altro, con 500 persone, ha bloccato il traffico sui viali. La Digos denuncerà alcune decine di studenti ritenuti responsabili, a vario titolo, dei reati di manifestazione non preavvisata, interruzione di pubblico servizio, danneggiamento aggravato, rissa e accensioni pericolose di fumogeni e petardi. Le identificazioni sono in corso.

PALERMO

Il corteo degli studenti medi di oltre 5mila persone, partito dal Politeama ha sfilato per le vie di Palermo. In testa al serpentone i manifestanti indossavano abiti da militari, slogan e striscioni per tutto il corteo «contro le scuole-caserme» e in via Ruggero Settimo gli studenti hanno bruciato in piazza un fantoccio raffigurante un soldato, al grido di «vogliamo più cultura e meno guerre». In contemporanea un migliaio di studenti e studentesse universitari, partiti da Viale delle Scienze, sfilavano per il centro storico della città congiungendosi in fine con gli studenti medi. Roberto Lagalla, rettore dell'università di Palermo, sostiene la loro protesta: «Il governo si impegni su ricercatori e finanziamenti».

Egregio Professore, sono un dirigente sindacale della Fiom-Cgil dello stabilimento Giovan Battista Vico di Pomigliano e come tale ho partecipato alla trattativa con Fiat. Mi occupo delle questioni sindacali inerenti lo stabilimento dal 2003 e proprio il 24 aprile 2003 fu siglato un accordo definito «storico», tra la Fiat e tutte i sindacati. Quell’accordo prevedeva 500 milioni di euro di investimenti annuali per quattro anni. Quindi complessivamente 2 miliardi di euro (altro che gli attuali 700 milioni di euro), nuova occupazione per 1500 addetti, la produzione di tutte le nuove vetture Alfa, oltre ad un fuoristrada chiamato Kamal. Dopo due anni la Fiat ci comunicò che quell’accordo non era più valido e delle produzioni previste si persero le tracce, tranne che per l’Alfa 159.

Ho voluto ricordarle quell’accordo perché, a Pomigliano, negli ultimi sette anni, spesso i piani presentati hanno subìto modifiche e ripensamenti. Capisco che siamo in un periodo di cultura critica debole, ma un po’ di dubbi sulle prospettive del piano Fiat Italia e sui risvolti occupazionali non guasterebbe. Holetto, professore, con interesse le molte sue interviste ed i suoi interventi su vari quotidiani nazionali e mi hanno molto colpito i termini che lei usa: sabotaggio, guerriglia giudiziaria, tregua, termini che noi sindacalisti della Fiom, massimalisti e conflittuali,non utilizziamo.

Se poi lei vuole equiparare il diritto di sciopero al sabotaggio, i ricorsi giudiziari alla guerriglia giudiziaria lo può fare, ma deve ammettere che lei utilizza argomenti propri della destra illiberale di questo Paese.

Ma veniamo al motivo principale di questa lettera. Innanzitutto due considerazioni. La prima: lei sostiene che nell’accordo di Pomigliano c’è una clausola di tregua. Una tregua come quella fatta alla Chrysler, negli Usa, da Marchionne con i sindacati. Infatti i sindacati americani non potranno scioperare fino al 2014 per le questioni salariali. Per Pomigliano penso che lei si riferisca alla clausola cosiddetta di responsabilità. Bene, ma la clausola successiva (... la violazione da parte del lavoratore di una delle clausole del presente accordo costituisce infrazione disciplinare...) cosa c’entra con la tregua? E un lavoratore che sciopera per esempio sul 18° turno del sabato incorre o no in un provvedimento disciplinare? Ese incorre in un provvedimento disciplinare c’è o non c’è una violazione dell’art. 40 della Costituzione?

Seconda considerazione: se Non sbaglio, oltre ad essere un famoso professore e giuslavorista lei è anche un parlamentare del Pd e di conseguenza non si può nascondere dietro la «cattedra». È legittimo che lei e alcuni parlamentari del centro-sinistra sosteniate le ragioni dell’impresa e le sue esigenze di flessibilità, ne teniamo conto anche noi nel rapporto con le aziende. Ma non le viene mai in mente che anche i lavoratori hanno delle esigenze. Lasciamo stare i diritti, ma si è chiesto cosa penserà nel 2012 un lavoratore del montaggio di Pomigliano a cui sono stati tolti 10 minuti di pausa e la mensa spostata a fine turno, inserita nello straordinario obbligatorio? Il consenso dei lavoratori per il centro-sinistra e per la sinistra è un problema. Le analisi sul dopo voto non serviranno più perché come diceva mio nonno: «la frittata è già fatta». Per carità niente a che fare con Pavese, Machiavelli e Marx, mio nonno era solo un contadino del sud.

Infine, egregio professore, spero che questa mia lettera non venga intesa come «una tecnica di demonizzazione di chi dissente ». A lei va la mia solidarietà per le continue minacce che ha dovuto subire in questi anni ma tra il capitale e il lavoro oggi ad essere demonizzato è quest’ultimo.

Quando il vicedirettore del Giornale, parlando con l'addetto stampa della presidente Emma Marcegaglia, dice «dobbiamo trovare un accordo perché sennò....», dà l'impressione di voler contrattare la pubblicazione di informazioni (c'è chi le chiama dossier) in cambio di accordi tra il suo giornale e la presidente di Confindustria. Che il giorno prima aveva attaccato il mero proprietario della testata e criticato la campagna del quotidiano di famiglia contro Fini e la casa di Montecarlo.

Quando il giornalista, proseguendo la conversazione, aggiunge «spostati i segugi da Montecarlo a Mantova, adesso ci divertiamo, per venti giorni romperemo il cazzo alla Marcegaglia come pochi al mondo», non abbiamo la sensazione di essere di fronte al Bob Woodward italiano. Quando poi la cronaca rivela che i magistrati di Napoli arrivano alle intercettazioni dei giornalisti del quotidiano milanese mentre indagano su una vicenda di rifiuti tossici di grandi gruppi industriali (tra i quali l'impresa della famiglia Marcegaglia) smaltiti in discariche comuni, sembra di entrare in una scena del film Gomorra.

Di questi «venti giorni» di fuoco del Giornale comunque non si è vista traccia. E' bastata qualche telefonata, su sollecitazione della "vittima", tra i direttori del quotidiano e Confalonieri per sistemare le cose e non disturbare più con certi scherzi la presidente di Confindustria. Tra gentiluomini e gentildonne si usa così.

Il mondo dell'informazione italiana, con le testate più importanti legate a gruppi industriali, non è mai stato un belvedere. L'autonomia dei giornali più che una favola è una vecchia barzelletta. Dietro le quinte del quarto potere si apparecchiano leccornie o piatti avvelenati a seconda della necessità del momento. E questo è uno di quelli in cui la lotta politica avviene a mezzo stampa, con la carta usata come manganello.

Noi non siamo «uomini di mondo» come reciprocamente si autodefiniscono i giornalisti intercettati quando parlano dei rispettivi padroni. Ma questo giornalismo fatto di "inchieste" con il timer incorporato, con la penna che lavora quando l'amico o l'alleato sterza e comincia ad attaccare Berlusconi e il suo governo, non profuma di buono. Ne ci convince la difesa («erano solo frasi scherzose»), il nostro senso dell'umorismo finisce molto prima.

Sarà che siamo di quelli che intendono il giornalismo, anche il foglio più di parte, come un gioco corretto, una piazza dove si discute, di fatti e opinioni, senza suggeritori. E', bisogna saperlo, un'informazione fuori mercato, con un prezzo alto da pagare (il taglio dei fondi dell'editoria lo dimostra). Non avendo pezzi da novanta a coprirci le spalle, né un partito (come del resto altre decine di testate no profit e in cooperativa), è facile metterci il bavaglio definitivo. Combattiamo da soli con i nostri lettori, e nessun Confalonieri a cui telefonare. Sono piaceri che si pagano.

Le grandi opere “prioritarie”, decise nella legge finanziaria che si appresta a essere presentata, adesso sono diventate 28 (cfr. Sole 24 Ore di martedì), quasi tutte di trasporto, strade e ferrovie. Un nuovissimo elenco. I governi di centrodestra, dopo la celebre lavagna presentata da Berlusconi a Porta a Porta con 19 opere prioritarie, hanno prodotto davvero un grande numero di elenchi: il numero delle opere ha oscillato da 9 a 184, con moltissime sottovarianti. Poi di opere ne hanno fatte pochine e spesso per nostra fortuna, visto che molte e costosissime, probabilmente non servono, o non sono affatto prioritarie.

Nel mondo sviluppato, gli elenchi di opere pubbliche si chiamano “shopping lists”, per distinguerli dai piani di investimento dotati da una qualche razionalità complessiva. Ma a quest’ultimo (ultimo?!?) elenco manca anche un minimo assoluto di elementi di valutazione e di priorità, che possano almeno suggerire ai contribuenti (nel caso delle ferrovie e metropolitane), o a agli utenti (nel caso delle autostrade) con quale logica si è deciso di spendere i loro soldi. Mancano ovviamente analisi costi-benefici sociali comparative (ma questo c’era da attenderselo, dato il deserto culturale in materia da sempre esistente in Italia). Ma mancano anche più semplici analisi finanziarie comparative (cioè il bilancio costi-ricavi, che segnala l’onere pubblico complessivo dell’opera e che per questa ragione deve contenere stime sul traffico servito). Ma manca anche il più semplice dei dati, appunto le previsioni di domanda. Queste consentirebbero ai cittadini (ai pagatori) di confrontare un’opera costosissima su cui passerà poco traffico con una più economica su cui ne passerà moltissimo e di aspettarsi che di ciò si sia minimamente tenuto conto nelle scelte di priorità. Ma se la logica della spesa è spartitoria e prescinde da ogni razionalità economica, dare dati di domanda può essere pericoloso, anche in caso di analisi di domanda “addomesticate”, cioè non fatte da soggetti indipendenti e in modo comparativo.

Basta guardare al recente passato: la linea Alta Velocità Milano-Torino per esempio (ma tanti altri ce ne sono) è costata 8 miliardi di euro, ha una capacità di 300 treni al giorno e ne porta 14, cosa largamente prevedibile e da molti tecnici invano prevista e segnalata per tempo.

Ma l’elenco delle 28 opere sarà comunque utile: farà partire molti cantieri (soprattutto in vicinanza di elezioni), per i quali poi non ci saranno i soldi per finire le opere, che si trascineranno per tempi biblici. Niente di male: l’obiettivo è aprire i cantieri, non finire le opere. L’orizzonte del consenso politico non supera certo la durata (residua) di una legislatura, e moltissime hanno durate superiori anche se realizzate secondo programma.

C’è una razionalità di fondo in questa follia: il funzionamento degli appalti nelle opere civili. La concorrenza funziona pochissimo e non solo in Italia: gran parte delle risorse devono essere reperite in loco (macchinari, cemento, inerti, parte della mano d’opera). Quindi vincono quasi sempre imprese nazionali, che in buona quota poi si servono di imprese locali. Quindi le opere civili sono uno dei pochi strumenti con cui lo stato può finanziare le imprese nazionali e locali. Poi succede a volte che le imprese manifestino gratitudine, che in sé è un sentimento virtuoso.

Purtroppo poi il settore è anche particolarmente afflitto dalla presenza della malavita organizzata, sempre a causa della scarsa competizione possibile e del diffuso intreccio politica-affari che ne segue. Malinconico ma non inspiegabile, per le ragioni sopra illustrate, il pieno supporto dato dal Pd e anche da Di Pietro a questa logica di spesa. La foglia di fico della contrarietà all’inutile Ponte di Messina del Pd infatti nasconde l’assenso a tutto il resto, spesso ancora più inutile e costoso.

Per finire, tre accorate raccomandazioni: 1) dare un minimo di dati comparativi, per rincuorare i pagatori delle opere. 2) Tener conto che il traffico è prevalentemente di breve distanza, che si serve assai meglio con le “piccole opere” locali e con la manutenzione, che generano tra l’altro più occupazione in tempi più brevi, a parità di spesa. 3) Infine, partire coi cantieri solo quando tutti i soldi necessari a finire l’opera sono allocati e “congelati”. Lo “stop and go” infinito dei cantieri è micidiale sul piano sia dei costi che della funzionalità, come troppe esperienze passate hanno mostrato.

Pompei. «Illegittimi gli atti della Protezione civile»

Marco Imarisio

«Sebbene la situazione di criticità dell'area archeologica di Pompei non sia di per sé riferibile a recenti calamità naturali, gli eventi eruttivi del 79 dopo Cristo non ci permettono di escludere i presupposti per la dichiarazione dello stato d'emergenza». Lo scorso 20 luglio Giacomo Aiello ci ha provato. In fondo un bravo avvocato deve essere anche capace di sostenere tesi ardite. Ma per il consigliere giuridico della Protezione civile quella che propugnava l'impossibilità degli enti locali di garantire da soli la salvaguardia del patrimonio culturale degli Scavi perché alcuni anni fa, 1.931 ad essere pignoli, «si è verificato il noto disastro ambientale», si presentava piuttosto in salita.

Nella stessa udienza davanti alla Corte dei conti, i rappresentanti legali del ministero della Cultura volavano più basso, sostenendo che la dichiarazione dello stato di emergenza per l'area archeologica di Pompei era dovuto «allo stato di disordine del sito, nonostante l'impegno encomiabile del Sovrintendente a razionalizzare l'azione amministrativa e la gestione per garantire servizi efficienti». La delibera emanata il 10 agosto non premia gli sforzi fatti dagli avvocati per giustificare i due anni di gestione del sito sotto l'ombrello della Protezione civile. Le ordinanze seguite alla dichiarazione dello stato d'emergenza, «dedicate in tutto o in parte alla situazione della predetta area archeologica» sono da ritenersi «illegittime». In pratica, la Corte dei conti stabilisce che l'intera gestione 2008-2010 degli Scavi di Pompei «non sembra rispondere all'esigenza di tutelare l'integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell'ambiente dai danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi o da altri grandi eventi, che determinino situazioni di grave rischio».

Alla fine si torna sempre a quel nodo, all'ampliamento dei poteri e delle competenze della Protezione civile deciso dal governo nel 2008. C'è una coerenza, nell'indirizzo della Corte dei conti, che nelle sue sentenze ha più volte contestato la patente di «Grandi eventi» e di «Grave pericolo» — il decreto su Pompei risale al 4 luglio 2008 — che rendono possibile alla Protezione civile l'emissione di ordinanze svincolate dal controllo preventivo dell'organo che si occupa di certificare le spese pubbliche. Anche qui, i magistrati contabili escludono la natura di atto politico non sindacabile della dichiarazione dello stato d'emergenza.

Su Pompei, poi, nessun dubbio. «In molte delle iniziative autorizzate con le ordinanze in questione non si ravvisa la presenza dei presupposti di emergenza». Tra queste iniziative autorizzate e gestite dalla Protezione civile c'è anche la mostra dal titolo «Pompei e il Vesuvio, scienza, conoscenza ed esperienza», che costituisce uno dei capisaldi dell'esposto presentato alla procura di Torre Annunziata dalla Uil, per via del costo finale, 619.000 euro incassati da Comunicare organizzando, «una delle società più impegnate dalle strutture della Protezione civile attraverso affidamenti e incarichi diretti», così si legge nella denuncia. La Corte dei conti si limita a ribadire che «il rilancio dell'immagine del sito archeologico nel contesto nazionale e internazionale» citato nell'ordinanza della Protezione civile come principio fondante della mostra, non rientra nelle competenze del Dipartimento, neppure in quelle «allargate» sulla gestione degli eventi straordinari.

«Pur dando atto che la situazione dell'area archeologica e delle zone circostanti presenta aspetti di criticità, non sembra che sia possibile ritenere giustificato l'intervento della Protezione civile». La Corte dei conti conclude così, sottolineando come nessuna delle ordinanze in questione risponda a criteri di «grave danno o rischio». Ormai è andata, scrivono i giudici con malcelata irritazione. La delibera è anche una ammissione di sconfitta, ogni tanto tergiversare paga. La Corte chiedeva da più di un anno di ricevere la documentazione di ogni singola ordinanza dal ministero della Cultura e dalla Protezione civile. Risposta sempre negativa, in nome dello «stato di emergenza», al punto che solo una volta che esso si è concluso, lo scorso 30 giugno, è stato possibile recuperare gli incartamenti.

Fuori tempo massimo, naturalmente. «Non può ignorarsi che, di fatto, tutti i provvedimenti di cui è stata chiesta (inutilmente) la trasmissione al controllo preventivo di legittimità hanno già compiutamente esaurito la loro operatività. Occorre domandarsi se abbia ancora senso sottoporre in via postuma quegli atti a un controllo che, per definizione, dovrebbe essere preventivo». Come a dire che, ancora una volta, si riesce ad intervenire, ma soltanto a buoi ampiamente scappati dalla stalla.

Il neo sovrintendente lascerà l'incarico a fine anno

Alessandra Arachi

È accorato Sandro Bondi, ministro per i Beni culturali, nella conferenza stampa che ha convocato ieri al suo dicastero. Prende in mano un editoriale del Corriere della Sera che parla del degrado di Pompei e scuote la testa «E’ tutto falso. C'è il rovesciamento della verità. A Pompei sono state fatte tante cose concrete». Sandro Bondi, però, è particolarmente dispiaciuto per la storia del sovrintendente: il Corriere ha scritto che un sovrintendente a Pompei non c'è, è scaduto, e che c'è soltanto un reggente, da lontano. «È tutto falso», sbotta il ministro Bondi. E spiega: «La sovrintendente è stata appena nominata, la dottoressa Jeanette Papadopoulos, con la quale vogliamo lavorare e abbiamo tanti progetti in cantiere». E allora come mai la dottoressa Papadopoulos è stata nominata soltanto fino al 31 dicembre di quest'anno? Come si fa a portare avanti tanti progetti in cantiere in poco più di due mesi? Inutile fare questa domanda adesso al ministro. Dopo aver parlato è uscito dalla stanza.

La conferenza stampa in effetti è stata particolarmente lunga. Hanno preso la parola in tanti, a cominciare da Marcello Fiori che è stato per due anni il commissario straordinario di Pompei, quindi Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali, e ancora Giuseppe Proietti che è stato «il reggente» di Pompei dal 31 maggio al 28 settembre 2010. Ma perché avvicendamenti di così breve periodo alla guida di una sovrintendenza tanto importante? In attesa che il ministro rientri nella stanza, impegnato in una telefonata urgente, è il segretario generale del ministero Roberto Cecchi che tenta di dare alcune risposte.

Dice che loro sono stati «obbligati dalla legge» a nominare persone sull'orlo della pensione, in attesa di un avviso interno che da più di un anno non viene bandito e che sarà bandito a novembre anche per Napoli, Roma e Firenze. Per fortuna rientra il ministro Bondi. E a lui che ripetiamo la domanda: «Come mai la sovrintendente è stata nominata soltanto per poco più di due mesi?». Sandro Bondi non ha esitazione: «Io di queste nomine dei sovrintendenti non so assolutamente nulla e mi rifiuto anche di seguirle, queste cose, perché mi fido totalmente dei miei collaboratori».

L'ex commissario Marcello Fiori «Zone vietate ai turisti? Falso, é tutto visitabile»

Alessandra Arachi

Marcello Fiori, lei è stato commissario per oltre un anno a Pompei. «E in questo periodo i visitatori sono cresciuti del 12 per cento, i ricavi da biglietteria del 15 per cento e le visite scolastiche del 4o per cento». Ma è vero che il sito è quasi in stato di abbandono, come riportato dalla stampa? «Dico che in due anni di commissariamento è stato fatto davvero tanto per Pompei». Per esempio? Le Terme Suburbane sono state restaurate ma sono ancora chiuse. «Non sono chiuse. Si possono visitare per appuntamento. Magari ci sarà stato un cretino in biglietteria che dava informazioni sbagliate”.Tra gli altri restauri terminati ci sarebbe anche l'Antiquarium che, però, non è ancora aperto al pubblico ... «Aprirà a fine novembre»

Molte polemiche sono nate sui lavori per il Teatro Grande... «Quello è un progetto dove io non c'entro niente, lo hanno fatto i sovrintendenti».

Perchè sono rimasti i camerini in lamiera? E tutti quei tubi innocenti accatastati ? A cosa servono? «Beh, a niente. Devono essere tolti».

Il ministro La Russa ha dato l'ok all'invio dell'esercito a Reggio Calabria, su richiesta di alcuni senatori del Pd e con la benedizione del Prefetto, secondo il quale i militari serviranno a proteggere i palazzi delle istituzioni. Mentre il ministro Alfano non risponde alle richieste ripetute dei magistrati reggini per più risorse umane e finanziarie, si trovano le risorse per inviare l'esercito.

Pignatone, il procuratore capo minacciato, continua un lavoro che ha portato a centinaia di arresti e una parte della società reggina continua a scendere in piazza. Come l'altra sera con una lunga fiaccolata sul corso cittadino, per sostenere questo nuovo corso della magistratura. Si riaccende una speranza di liberazione dal sistema di potere mafioso. Non si tratta di sola 'ndrangheta, di una forma di criminalità organizzata, ma di un sistema di potere che si sente minacciato, come ha dichiarato l'ex procuratore della Direzione nazionale antimafia: «Ci sono interessi e poteri contigui alla 'ndrangheta che ora sono particolarmente nervosi».

È proprio contro quella che ormai molti definiscono la «borghesia mafiosa» che si gioca la partita a Reggio Calabria. Una nuova borghesia capace di essere locale e globale, di essere fortemente radicata in questo territorio ma di riuscire a compiere, grazie ai grandi flussi di capitali illegali, operazioni finanziarie in tutto il mondo. C'è una profonda differenza tra la borghesia industriale che ha diretto lo sviluppo economico italiano e la nuova borghesia criminale.

CONTINUA|PAGINA 5 La prima ha mollato il territorio, ha perso di legittimità da quando ha scelto la strada delle delocalizzazioni e degli investimenti speculativi, non ha più un progetto industriale per questo paese e pensa solo a mettere al sicuro i propri capitali.

La seconda mantiene un forte legame territoriale e investe, oggi più che mai grazie alla crisi, nel centro-nord Italia, acquisendo imprese importanti, conquistando una egemonia nei settori dell'edilizia e della distribuzione. Grazie al vuoto politico lasciato dalla vecchia borghesia ha davanti a sé una strada a scorrimento veloce.

La questione criminale si è andata trasformando in una guerra di classe per la conquista del potere a tutti i livelli, è diventata la questione nazionale più rilevante. Per questo abbiamo organizzato a Teano, nell'incontro che si svolgerà dal 23 al 26 ottobre, un importante workshop coordinato da Tonio dell'Olio (Libera) e da Ugo Biggeri (Banca Etica), che mette al centro la questione del sistema di potere mafioso con la questione dell'unità nazionale.

Le spinte secessionistiche insieme al degrado economico e morale del paese costituiscono una miscela esplosiva che potrebbe portare ad esiti imprevedibili e terribili. L'esempio della ex-Jugoslavia ci deve insegnare qualcosa: i mini-staterelli, risultato della spartizione del paese, sono diventati veri e propri narco-stati gestiti dalle mafie in prima persona. Immaginate voi da che parte stanno i poteri mafiosi rispetto alle spinte secessioniste, al nord come al sud.

Ps. È uno strano paese il nostro, dove i magistrati vivono sotto scorta per paura di essere ammazzati da mafia, camorra e 'ndrangheta e sono sotto schiaffo del presidente del Consiglio che li mette sotto inchiesta per associazione a delinquere.

Credo che siamo tutti d´accordo sul fatto che la pubblicità, dopo aver esagerato nel XX secolo, sta invadendo tutti gli spazi nel XXI; non solo con i mega-poster sui monumenti, ma anche per esempio nella Tv e nei giornali. Alla Tv qualsiasi trasmissione è interrotta più volte dalla stessa pubblicità ripetuta all´infinito; prendo un giornale a caso della scorsa settimana e conto 20 piene pagine di pubblicità su 50 totali.

Il Ministero dei Beni culturali, le Soprintendenze e i Provveditorati fanno parte di questo XXI secolo e si inalberano se qualcuno (magari non italiano, vedi l´appello di Norman Foster e alcuni direttori di musei internazionali su la Repubblica, 4 ottobre scorso) arrivando come turista o come studioso a Venezia, a Roma, a Firenze ecc. riesce a vedere dei monumenti più famosi al mondo solo quei frammenti lasciati liberi dai mega-poster. La cosa non piace e gridano e scrivono "Viva i monumenti": ciò dovrebbe fare molto piacere a tutti gli italiani (ministri e direttori di musei compresi e forse per primi).

Ma siamo nel XXI secolo e lo Stato e i Comuni e quant´altri non hanno soldi e hanno bisogno di sponsor e questi in cambio chiedono di nascondere il monumento di cui finanziano restauri o altre opere dietro alla loro mega-pubblicità (ma che bisogno ne ha a Venezia sul Palazzo Ducale, la bibita più venduta al mondo da quasi un secolo?).

Ci sono dei casi paradossali: a Roma la chiesa di S. Maria di Loreto (XVI secolo tra piazza Venezia e la colonna di Traiano) aveva il suo fianco coperto da una esedra arborea: tagliati i grandi pini per il cantiere di una metropolitana, si è visto finalmente il suo fianco (Jacopo Del Duca, 1573-1576). Ma è stato subito coperto completamente da un gigantesco mega-poster. Dato che anche Palazzo Venezia era nascosto dietro una impalcatura con disegnato il prospetto dell´edificio con sopra due mega-poster (pubblicità Campionati di calcio 2010!) per molti mesi i romani e i turisti furono completamente privati dell´ambiente consueto in uno dei centri più frequentati e più noti.

È ancora completamente coperta la facciata di S. Andrea della Valle (Maderno, Fontana, Rainaldi, metà Seicento) e il suo mega-poster si vede fin dal fondo di corso del Rinascimento: fa la pubblicità ad una grande società pubblica per cui paradossalmente e con qualche complicazione, il suo bilancio di sponsor viaggia accanto a quello dello Stato, cioè dello sponsorizzato.

Non è solo lo Stato italiano a nascondere i suoi monumenti e la sua storia: lo scandalo forse maggiore spetta al Vaticano. La testata e alcuni tratti del porticato di sinistra di piazza S. Pietro sono da tempo coperti totalmente: sui teli di plastica che coprono l´impalcatura è ridisegnata la sagoma dell´opera di Bernini, interrotta da vari mega-schermi su cui viene proiettata molta roba (non solo pubblicitaria). La cultura, la storia e tutte le loro presenze sono la ragione fondamentale per cui Venezia, Roma, Firenze ecc. sono città essenziali per i cittadini, per l´Italia, per l´Europa e non solo. Trovino lo Stato, i Comuni ecc. i mezzi per cessare di essere succubi della pubblicità. (Magari dando seguito alle iniziative promosse dalla Fondazione Veronesi in preparazione del convegno mondiale di Science for Peace, Milano 19-20 novembre, per ridurre le spese militari: la nostra Costituzione e la Carta dell´Onu dicono chiaramente no alla guerra e quindi sì alla Pace).

la Repubblica

Expo, cala il gelo di Formigoni

"Comodato, ha deciso la Moratti"

di Alessia Gallione

È il gelo di Roberto Formigoni che cala su Expo. E su quella che avrebbe dovuto essere «la soluzione condivisa» per sciogliere, a meno di due settimane dall’ultimatum del Bie, il nodo dei terreni di Rho-Pero. Perché un accordo, al termine del vertice notturno convocato in extremis a casa Moratti, Provincia, è stato trovato. La strada è quella del comodato d’uso, come volevano Letizia Moratti e Guido Podestà. E al governatore, che fino alla fine ha sostenuto le ragioni di una newco che acquistasse le aree, non è rimasto che fare un passo indietro. Quell’ipotesi per il Pirellone resta la migliore. Lo ha fatto capire chiaramente, Formigoni, prendendo le distanze dal risultato: «Visto lo stringersi dei tempi e i poteri straordinari dati a Letizia Moratti ho ritenuto di aderire alla strada indicata dal commissario». Un sì al comodato con i privati, quindi. A cui dovranno essere messi, però, dei "paletti legali" che Regione continua a ritenere indispensabili. Ma la scelta scatena le accuse del centrosinistra: «È un regalo ai privati e non tutela l’interesse pubblico».

Si erano riuniti a tarda sera, i duellanti di Expo. Tutti a casa del sindaco, Moratti, Formigoni e Podestà. Per un incontro decisivo sui terreni. Dopo due ore di discussione era toccato al presidente della Provincia rassicurare: «Accordo condiviso e clima sereno». Anche ieri Podestà è tornato a ribadire come la decisione di fosse «unanime»: «Abbiamo deciso tutti assieme». Il patto avrebbe dovuto essere suggellato da un comunicato congiunto. Ma quella nota ufficiale, fino a ieri sera, non è arrivata: per un’intera giornata sono state rimpallate tra Comune, Regione e Provincia diverse bozze. Senza mai arrivare alla versione definitiva. Il segno più evidente che la guerra dell’Expo non è ancora finita.

Fiera, ieri mattina, ha "brindato" all’accordo con un balzo in Borsa del 16,75 per cento. Ma a Formigoni, poco dopo, sono bastate poche parole a far calare il gelo: «Il sindaco prenderà un’iniziativa in cui spiegherà la proposta che ella preferisce». E far capire che la tregua, adesso, dovrà reggere al nuovo tavolo di confronto che si aprirà tra enti pubblici e proprietari privati. Lo ha confermato anche lei, Letizia Moratti: «Ora sta ai nostri tecnici elaborare la proposta che faremo a Fondazione Fiera e al gruppo Cabassi». Arrivando a ringraziare «in modo particolare Formigoni perché, rispetto a diverse soluzioni e ipotesi che abbiamo esaminato, siamo arrivati a un accordo nel percorso condiviso». Per la Regione, infatti, il contributo che dovranno versare i proprietari per le infrastrutture dovrà salire (da 50 a 120 milioni) e le aree dovranno essere messe a disposizione subito a prescindere dai contenuti della variante urbanistica (i metri quadrati di costruzioni future) che sarà approvata. «E mi auguro - ha aggiunto Formigoni - che i privati aderiscano e la questione possa essere sbloccata». Quasi una sfida.

Perché la preoccupazione per il futuro di Expo rimane. E il centrosinistra accusa. A cominciare dal candidato alle primarie del centrosinistra Stefano Boeri: «L’accordo è la conferma di una truffa che regala ai proprietari delle aree di Rho-Pero, dopo l’Expo, una enorme quantità di metri cubi». Il suo sfidante, Giuliano Pisapia, chiede di fermare «l’osceno teatrino che offende i cittadini». Anche per l’ex presidente della Provincia Filippo Penati la soluzione «è oscura. Non è chiaro se gli ingenti investimenti pubblici verranno rimborsati dai privati». Il segretario regionale pd Maurizio Martina parla di «una toppa peggiore del buco. Sarebbe meglio l’acquisizione delle aree senza escludere l’opzione dell’esproprio».



Corriere della Sera

Pace armata sulle aree Expo

di Elisabetta Soglio

Il sindaco Letizia Moratti è soddisfatta perché «siamo arrivati ad un accordo condiviso ed è estremamente positivo per un Expo che deve avere tutte le istituzioni unite in un gioco di squadra». Anche il presidente della Provincia Guido Podestà garantisce che «siamo tutti d’accordo». Ma il governatore Roberto Formigoni si chiama fuori: «Ha deciso il sindaco e noi abbiamo soltanto aderito, nella speranza che vengano garantite le condizioni poste dai legali e che i privati ci diano una mano». Per i terreni di Expo, quando mancano 12 giorni all’incontro del sindaco-commissario con i vertici del Bie, cui bisogna garantire la disponibilità delle aree, si è scelta la strada del comodato d’uso. Il Pd al Pirellone fa da sponda al Governatore: «Sarebbe stato più trasparente acquistare i terreni, come indicato da Formigoni». I tecnici, intanto, sono al lavoro per definire la proposta che sarà presentata ai Cabassi e alla Fondazione Fiera, cui sarà chiesto di partecipare alle spese di infrastrutturazione. Basta un pronome, alcune volte, per dare l’idea del clima. «Il sindaco prenderà un’iniziativa in cui spiegherà la proposta che ella preferisce». Ella, il sindaco Letizia Moratti, aveva assicurato soltanto la sera prima che era stata condivisa una soluzione per i terreni di Expo con il presidente Guido Podestà e il governatore Roberto Formigoni. Bastano un paio di frasi, e quel pronome che sa tanto di presa di distanze, per smontare tutto.

Roberto Formigoni si chiama fuori precisando di non aver condiviso nulla: ha deciso il sindaco, punto. Parole e toni ben diversi da quelli che Moratti e Podestà hanno usato ancora ieri. «Abbiamo scelto un percorso assieme a Provincia e Regione che si riallaccia a quanto condiviso nel mese di luglio con i soci di Expo», spiega sorridente la Moratti amargine della firma del protocollo per Expo con il sindaco di Bari, Michele Emiliano.

L’ipotesi individuata per garantire al Bureau International des Expositions entro il 19 ottobre la disponibilità dei terreni, è quella del comodato d’uso: la messa da disposizione delle aree da parte dei proprietari, il gruppo Cabassi e la Fondazione Fiera, che in cambio ne otterranno la restituzione post 2015, con tanto di diritti volumetrici.

Anche Podestà ricorda che la decisione dell’altra sera «è stata unanime». Si era però detto che sarebbe stato firmato oggi un comunicato, a suggellare l’intesa raggiunta: del comunicato, ovviamente, non c’è ancora traccia. Il sindaco ha puntualizzato che «i tecnici sono al lavoro per precisare i termini della proposta, che dovrà essere sottoposta ai proprietari». Formigoni ha ancora raccomandato che vengano quanto meno rispettate le indicazioni dei legali: che impegnano a una nuova stima sul valore dei terreni e alla «compartecipazione finanziaria dei privati alle opere di infrastrutturazione». Un passaggio non da poco: tra queste e le spese per gli oneri di urbanizzazione, si parla di oltre 200 milioni di costi a carico dei privati. Paletti che rendono più tortuoso il cammino verso la soluzione.

Nel frattempo, Formigoni incassa l’appoggio del Pd regionale e del vicepresidente del consiglio, Filippo Penati: posto che «è l’unico Expo che si svolge su terreni non pubblici», Penati si chiede perché non sia stata seguita la via dell’esproprio e, in secondo ordine, «pare incomprensibile il rifiuto della proposta del presidente Formigoni anche alla luce dell’approvazione da parte del consiglio regionale di un ordine del giorno in cui si proponeva di costituire una newco in grado di acquistare i terreni».



la Repubblica

Ecco chi perde e chi dopo il 2015

farà affari d’oro

di Alessia Gallione

Doveva essere l’Esposizione dedicata alla terra: da coltivare per far conoscere a 20 milioni di visitatori tutti i sapori del mondo. Dopo 919 giorni, è ancora l’Expo dei terreni. Un milione e 100mila metri quadrati stretti tra le autostrade e la Vela di Fuksas. Aree a cavallo tra Milano (l’85% della superficie) e Rho, che su carte e mappali sono agricole o con destinazioni industriali o artigianali.

Uno spazio abbandonato, tra città e campagna. Su cui sono destinati, però, investimenti pubblici per un miliardo. Rendendo quell’area strategica. E appetibile. Non solo perché dovrà conservare l’eredità di Expo (il parco, le serre...), ma anche perché dopo il 2015 quel pezzo di niente diventerà un nuovo quartiere con case, negozi e uffici. È su questo che si sta consumando lo scontro. Tra interesse pubblico e privato. Tra chi vorrebbe acquistare quelle aree, dividere il guadagno coprendo così anche il futuro deficit della società. E chi (Comune e Provincia) non può investire adesso per comprare e, con la scadenza del Bie alle porte, considera migliore la strada originaria, quella del "comodato d’uso".

[I proprietari]

I padiglioni di Expo non sorgeranno su un’area pubblica. È questo che oggi, di fronte all’impasse, molti considerano come l’errore originario. Di quel milione di metri quadri, solo quote minime sono del Comune di Milano (51mila metri quadrati) e di Rho (120mila). I maggiori proprietari sono Fondazione Fiera, con 520mila metri quadrati, e gruppo Cabassi con 260mila.

[Il comodato d’uso]

Il destino è stato segnato tre anni fa. Era il 28 giugno del 2007 quando Palazzo Marino, dopo mesi di trattative, concluse con Fondazione Fiera e Cabassi una scrittura privata. Uno schema poi perfezionato con una delibera di giunta (13 luglio 2007) votata dal consiglio comunale (19 ottobre 2007) e arrivato fino all’ultimo vertice a casa Moratti. È da lì che parte l’idea del comodato d’uso con diritto di superficie. Cosa vuol dire? I privati si impegnano a mettere a disposizione quelle aree (in "diritto di superficie") fino alla fine della manifestazione per una cifra simbolica (la delibera votata da Palazzo Marino prevedeva 5mila euro). Nel 2017, però, si impegnano a cedere definitivamente al Comune più della metà dell’area, ovvero 430mila metri quadrati. L’altra metà rimane loro. Ed è lì, su quei restanti 340mila metri quadrati, che potranno costruire.

[L’indice e la quantità di costruzioni ]

Cosa succederà dopo Expo? Da una parte il parco con le serre e le colture del mondo, la sede della Rai, i canali, un auditorium... Tutti spazi pubblici. Dall’altra un nuovo quartiere. Lo dice chiaro la variante urbanistica appena pubblicata che, entro fine anno, dovrà sbarcare in consiglio comunale per l’adozione. È in questo strumento urbanistico che tutti gli enti pubblici (Comune di Milano e Rho, Provincia e Regione) hanno di fatto confermato le previsioni del 2007. Allora, si era deciso, dopo Expo si sarebbe potuto costruire applicando un indice di 0,6 metri quadrati su metro quadrato. Oltre 500mila metri quadrati di case e palazzi compresi, però, 55mila metri quadrati (pari allo 0,008) riservati al pubblico. Nell’ultima versione sparisce solo la quota pubblica e l’indice per i privati rimane lo 0,52. Per avere un’idea: 430mila metri quadrati di superficie. Non solo. Visto che i cantieri sorgeranno solo su metà della zona, quell’indice è come se raddoppiasse. Si dovrà puntare in altezza con palazzi di 14-18 piani.

[I VANTAGGI ECONOMICI]

È la parte più complessa dell’accordo. Chi ci guadagna con il comodato d’uso? A luglio, per aumentare il cosiddetto interesse pubblico, si era arrivati a un ulteriore accordo con Fondazione Fiera e Cabassi. Gli investimenti pubblici sono tanti e quell’area, che oggi non vale molto, moltiplicherebbe il proprio valore grazie alle infrastrutture del 2015: solo quelle legate al sito valgono 120 milioni. Per i tecnici quei 400mila metri quadrati di nuove costruzioni garantirebbero un’operazione immobiliare da 400 milioni con un guadagno attualizzato di 141 milioni, con i futuri edifici venduti a 3mila euro al metro quadro. È in base a queste plusvalenze che il tavolo riuscì a strappare benefici per gli enti locali, 195 milioni di euro tra oneri di urbanizzazione (che incasserebbe soltanto il Comune) e contributi per le infrastrutture: 50 milioni che i privati metterebbero sul piatto. Nel conteggio anche la cascina Triulza (7 milioni) e il villaggio Expo affacciato sul canale. Destinato a diventare housing sociale, vale circa 45 milioni. Tutte cifre che, adesso, una nuova trattativa cercherà di alzare. A cominciare, per il Pirellone, da quel contributo per le opere: da 50 milioni dovrà raggiungere almeno quota 120.

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