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Mentre a Roma i gloriosi padani appoggiano il governo Bunga Bunga, nelle loro terre, in Veneto, i fiumi straripano alla grande, le città si allagano tipo Venezia, capannoni, laboratori e fabbrichette sono inagibili. Niente male come controllo del territorio, la tanto sbandierata specialità dei leghisti, che questa volta, perdonerete la metafora, ha fatto acqua da tutte le parti. Il governatore Zaia con il cappello in mano chiede un miliardo all'odiato stato centrale: il Veneto ai veneti, per carità, ma gli schei che vengano da Roma. Certo, un'alluvione è un'alluvione ovunque, e siccome l'Italia c'è ancora e la Padania non esiste, è giusto che all'emergenza si corra ai ripari con soldi di tutti. E questo anche se sulla Padania, un leghista di Varese ha vantato opere lombarde che in Veneto non si sono fatte: magra goduria vedere i barbari che si insultano tra loro. Quella che manca all'appello, però, è proprio quella parolina magica che i giannizzeri della Lega sventolano in ogni istante: territorio. Già, cos'hanno fatto per il territorio, la sua bonifica, la sua messa in sicurezza, la sua salvaguardia tutti quei sindaci e amministratori così impegnati a scrivere cartelli in dialetto? Crescere, urbanizzare. La casa, il laboratorio, il capannone, il magazzino, il laboratorio più grosso, la strada più larga, la casa che diventa villetta e via così. Per anni, prima sull'onda del «miracolo del nord-est», e poi cavalcando il «padroni a casa nostra», il tutto mentre il famoso territorio si comprimeva e diventava una bomba d'acqua pronta a esplodere. La sacra ampolla, il dio Po, la secesiùn, il dito medio alzato, le scuole griffate lega, il tricolore piegato in modo che si veda solo il verde (lo hanno fatto in aula i consiglieri regionali veneti della Lega il 4 novembre), tutto molto folkloristico. Ma poi chissà, svegliarsi una mattina con l'acqua alle ginocchia potrebbe essere il preludio di un risveglio vero, il primo passo per capire che il territorio è una cosa seria, che va usato per vivere, e non per i comizi.

Da quando vidi il film Il maschio e la femmina (1966) la prima volta avevo l’età dei suoi protagonisti e me ne colpì l’intelligenza nella descrizione dei disagi e speranze di una generazione. Ma quel che più ne ricordo è la scritta che, a bruciapelo e senza necessità evidente, interrompeva una scena per affermare che «la pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Si è governato e si governa, in gran parte del mondo occidentale, con gli strumenti del consenso e del consumo, riuscendo quasi sempre a evitare il manganello e la censura diretta. Col companatico al posto del pane, la televisione al posto dei giochi del circo (ultima variante i festival di letteratura e altra cultura) e con la pubblicità. Pubblicità in senso lato – di uno stile di vita, di un modello di società propagandato come il migliore o l’unico possibile – ma che anche nel senso specifico e ristretto di un tipo di comunicazione che mira a far acquistare delle cose. Il potere della pubblicità è cresciuto enormemente, la stampa, per esempio, ne vive e ne è ricattata, le leggi che la limitavano sono state progressivamente abbattute e ci sono riviste dove le pagine di testo sono un terzo di quelle riservate alla pubblicità, senza considerare la pubblicità indiretta.

Fu Vance Packard per primo a denunciare questo attentato alla democrazia e alla libertà dell’informazione in un libro celebre, I persuasori occulti, a metà degli anni cinquanta. A noi poteva sembrare fantascienza, ma poi, come in molti altri campi, la fantascienza è diventata realtà, e come “genere” letterario è quasi scomparso (riprende oggi, mascherato, nella più accorta letteratura per ragazzi). Anche la battuta di Godard, che al suo tempo indicava una preoccupazione o una messa in guardia, è oggi una constatazione.

Un’idea moderna di pubblicità è esplosa in Italia negli anni sessanta, prima la pubblicità era secondaria, rozza, poco o niente mediata. Su un giornale degli anni trenta o quaranta la pubblicità di un lassativo si serviva dell’immagine celebre dell’incontro tra Dante e Beatrice lungo l’Arno accompagnata dal verso della Commedia «Io son Beatrice che ti faccio andare». Poi, col boom, vennero le grandi agenzie e la leva dei professorini che avevano sulla scrivania dei loro uffici milanesi e torinesi (l’ho visto coi miei occhi, ho avuto molti amici che si sono dati a quel mestiere) le opere di Jung e altri studiosi di simboli e miti, di immagini archetipiche, di studi sull’inconscio. La pubblicità si faceva furba e intellettuale, un settore in enorme espansione. Non sembrava disdicevole farne una professione.

La fase successiva è il ’68: quando si trattò di trovare lavoro molti passarono dal movimento alla pubblicità, soprattutto a Milano (più assai di quelli che finirono nel giornalismo o nella politica istituzionale, ma ovviamente meno di quelli finiti nella scuola). Ne vennero una perdita di sottigliezza, messaggi sempre meno velati, una aggressività via via più volgare e diretta. I giornali sono brutti anche per i ricatti della pubblicità. E se sfogliamo un quotidiano di quelli importanti (che sono due, forse tre, in stretto legame con lotte e intrighi del potere, dominatori dell’informazione bacata e nemici giurati della riflessione e delle connessioni) vediamo che vi si fronteggiano pagine di cronaca raccapricciante e di pubblicità da mondo dei sogni. E colpisce il leit-motiv, il tormentone sessuale: chi compra un’automobile X o Y scopa meglio e di più, e questo vale per una scatola di piselli o una birra, un computer o un best-seller, e volti e corpi di giovani robot da film americano imbecille vi si offrono spudoratamente, come in un Eden ritrovato dove ogni albero, animale o nuvola serve solo a veicolare un unico messaggio: comprate, solo così sarete felici. La sua logica è berlusconiana, ma chi protesta per altre forme di manipolazione trova questa normale, o meglio, la trovano normale i giornali e i giornalisti che se ne nutrono. L’elargizione della pubblicità Fiat, per esempio, è stato un modo di influire sui giornali della sinistra, anche quelli apparentemente più liberi.

La manipolazione pubblicitaria incide in profondità sulla salute mentale e sulla morale dei destinatari dei loro messaggi, e su quelli della Repubblica. È espressione del fascismo del nostro tempo. Dopo la guerra, molti figli chiesero ai padri come si erano comportati sotto fascismo o nazismo. Accadrà anche in Italia, dopo il trentennio che muore? Sarebbe sano, ma non succederà.

Uno scandalo mondiale

Salvatore Settis

Nelle guerre si contano i morti e si dimenticano le cause. Il crollo della schola armatorum a Pompei è una notizia che sta facendo il giro del mondo, come è successo negli ultimi mesi a Roma coi crolli della Domus Aurea e del Colosseo.

Ma la vera notizia è che molto altro, a Pompei ed Ercolano come a Roma, ancora "regge", a dispetto dell´incuria, dei brutali tagli di bilancio, delle continue riduzioni del personale, della mancanza di turn over. Altri crolli, altre rovine, altri disastri arriveranno, immancabili. Il punto è se vogliamo rassegnarci a tenere il conto dei monumenti condannati alla distruzione, o interrogarci sulle cause.

Quando il governo annunciò, col decreto-legge 112 (luglio 2008), un taglio ai Beni Culturali per oltre un miliardo e 200 milioni di euro nel triennio, fummo in pochi a denunciare l´enormità dello scippo a un bilancio già drammaticamente inferiore alle necessità di un patrimonio enorme come il nostro. Ma quasi nessuno volle capire che a un taglio di tale portata non potevano che seguire disfunzioni e problemi d´ogni sorta; anzi, a ogni nuovo disastro non manca chi cade dalle nuvole e si chiede "come mai?", senza collegare gli effetti con le cause. Come se dovessimo fare le meraviglie per l´insorgere della carestia in una zona di estrema povertà. L´irresponsabile taglio dei finanziamenti è dunque una causa primaria di questi e altri crolli, ma non la sola. Da vent´anni governi di ogni colore hanno fatto poco o nulla per rinnovare i quadri delle Soprintendenze, lasciando invecchiare i funzionari senza sostituirli.

Si è fatto anzi di tutto per svuotare gli organici, spedendo in pensione d´autorità eccellenti archeologi e storici dell´arte allo scadere dei 40 anni di servizio. Emblematica la situazione di Pompei: andato in pensione Piero Guzzo, uno dei migliori soprintendenti italiani, si sono succeduti nel giro di un anno e mezzo ben tre soprintedenti ad interim (uno dei quali al tempo stesso doveva reggere la Soprintendenza archeologica di Roma), creando ovvie discontinuità di gestione.

Come se non bastasse, i soprintendenti di Pompei (e non solo) sono stati ripetutamente esautorati e delegittimati mettendo al loro fianco un commissario straordinario del Ministro: il primo fu un prefetto in pensione (Profili), il secondo un funzionario della Protezione Civile (Fiori). Come mai si possa affidare Pompei a un prefetto in pensione, e non invece ritardare di un solo giorno il pensionamento di un archeologo, è un mistero in attesa di soluzione. Pompei è fra i siti archeologici più visitati al mondo, e ha introiti annui di circa 20 milioni di euro. Nei corridoi del Ministero si ritiene evidentemente che siano troppi, dato che il 30% sono dirottati su altri poli museali; inoltre, il commissario ha incamerato almeno 40 milioni di euro destinandoli in buona parte non all´archeologia, ma a eliminare i cani randagi, a illuminare strade malfamate e ad altre operazioni di facciata, peraltro a quel che pare con scarso successo. È di pochi mesi fa l´apertura di un´inchiesta della Corte dei Conti sulle procedure di emergenza adottate a Pompei.

Anziché affrontare questi ed altri problemi, anziché reperire nuove risorse, chi ci governa si accontenta di annunciare periodicamente l´avvento di prodigiose Fondazioni (che non esistono), la pioggia di capitali privati (che non arrivano), gli imminenti miracoli della Protezione Civile, credibili quanto la fine dell´emergenza spazzatura in Campania. Ingabbiati in un effetto-annuncio autoreferenziale, ministri e sottosegretari forse non riescono più nemmeno a vedere il nesso elementare fra il taglio delle risorse e il crescere dei problemi; o forse sono ancor più colpevoli, perché lo vedono e lo nascondono ai cittadini. Non fanno nulla per rimediare alle crescenti, drammatiche carenze di personale. Intanto la delegittimazione delle Soprintendenze ha fatto un altro passo avanti: il Consiglio di Stato ha appena cestinato la tutela del sito archeologico di Saepinum (Molise), con una sentenza che offende il Codice dei Beni Culturali e la Costituzione, autorizzando una centrale eolica contro il divieto della Direzione Regionale ai Beni culturali.

Italia Nostra ha già elevato in merito una vibrata protesta: l´affermata priorità di un permesso comunale sulle esigenze di tutela è gravissima non solo perché condanna a morte un sito archeologico di primaria importanza ma perché costituisce un pericoloso precedente, quasi il prevalere della Costituzione immaginaria vagheggiata da Tremonti, dove la libertà d´impresa sarebbe il principio supremo, sulla Costituzione reale e vigente secondo cui la libertà d´impresa non dev´essere «in contrasto con l´utilità sociale» (art. 41), e la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione» (art. 9) è un valore primario e assoluto.

Per affrontare degnamente i problemi della tutela in Italia basterebbe recuperare meno dell´1% della gigantesca evasione fiscale (la più grande del mondo occidentale in termini assoluti e relativi). Di fronte a Pompei che crolla, a Saepinum invasa dalla pale eoliche, che cosa intende fare il governo? Fino a quando noi cittadini dovremo proseguire la conta dei disastri? Fino a quando sapremo tollerare?

POMPEI Crolla la Domus dei Gladiatori Napolitano: una vergogna per l’Italia

Stella Cervasio

Crolla Pompei, si sbriciola uno dei suoi edifici pubblici che più evocano il passato: la Schola Armaturarum (Domus dei Gladiatori), congregazione di giovani sportivi, dove venivano custoditi i trofei dei gladiatori. Alle sei di ieri mattina il palazzetto affacciato con due begli affreschi sulla frequentatissima arteria di via dell´Abbondanza, nella regio III e insula II, si è dissolto in una nuvola di polvere. Uno smottamento del terrapieno che custodisce altri resti di Pompei, alle spalle della casa dopo le piogge che hanno fustigato il sud nei giorni scorsi, la causa del crollo. «Quello che è accaduto dobbiamo, tutti, sentirlo come una vergogna per l´Italia», dice il presidente della Repubblica Napolitano, «e chi deve dare delle spiegazioni non si sottragga al dovere di darle al più presto e senza ipocrisie». Un monito raccolto dal ministro Sandro Bondi che oggi sarà a Pompei dove incontrerà i responsabili degli scavi.

Immediatamente transennata, anzi "oscurata" alla vista di turisti e cronisti, con l´aiuto di teli bianchi, la Schola distrutta, mentre il percorso veniva deviato nei vicoli circostanti. Dove pure si vedono cornicioni sbriciolati e pezzi di muri caduti proprio in zona pedonale: la manutenzione non è il forte di Pompei. Il crollo è avvenuto alle sei del mattino, più tardi avrebbero corso seri rischi tanto i custodi, che proprio lì timbrano il cartellino, quanto le tante scolaresche che visitano gli Scavi. Secondo le dichiarazioni del segretario generale del Mibac Roberto Cecchi, sarebbe andata distrutta la parte ricostruita dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, mentre quella più bassa e affrescata dell´unico ambiente di otto metri per dieci, alto sei metri, che ospitava presumibilmente armadi con armi, si sarebbe conservata.

Ma una piramide di sassi e mattoni è quanto resta a prima vista del palazzetto dove la gioventù pompeiana si riuniva e che i gladiatori usavano come "show-room" per i loro trofei, raffigurati anche negli affreschi all´ingresso, con tuniche rosse, cataste di armi e una pelle di orso polare su un carro. L´edificio era chiuso ai visitatori, ma le pitture erano visibili all´esterno, e non c´era mai stato allarme. Anche se a gennaio e la scorsa settimana altri due crolli si erano avuti nella vicina Casa dei Casti Amanti, dove il commissario della Protezione civile Marcello Fiori, scaduto a giugno scorso, aveva creato un "cantiere-evento" visitato anche dal ministro Bondi per la Settimana dei beni culturali. Alle critiche della Uil, Fiori replica che l´edificio crollato «non era nella lista delle priorità indicate dalla soprintendenza». Ma a Pompei dal ‘96 esiste un "piano-programma" che scheda ciascun edificio indicando le priorità di intervento: in circa dieci anni quelli sull´area scavata sono passati dal 14 al 31 per cento. Nel 2006 la legge 41 effettuò il primo taglio di 30 milioni e nel 2008 saltarono altri 40.

Il budget per la gestione commissariale, affidata a due diversi responsabili, prima all´ex prefetto Profili e poi a Fiori, ammonta a 79 milioni di euro. Profili ne ha impegnati 40, di cui oltre il 90 per cento per restauri e messa in sicurezza con progetti redatti dalla soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo. A Fiori sono andati 39 milioni di euro (18 che la Regione Campania deve ancora dare), ma per i restauri ha impiegato il 25 per cento.

«Il nostro è il museo all´aperto più grande del mondo - dichiara il sindaco di Pompei Claudio D´Alessio, che protesta per il mancato coinvolgimento del Comune - ma viene trascurato: il cedimento dell´edificio è un crollo annunciato, la Schola attendeva da anni un restauro». Critici anche gli ambientalisti: «I milioni di euro spesi per lo smaccato falso del teatro restaurato - dichiara il presidente di Italia nostra di Napoli Guido Donatone - potevano essere utilizzati per monitorare le strutture di Pompei».

Lavori e manutenzione a singhiozzo: la lenta agonia degli scavi-gioiello

Francesco Erbani

Monitoraggio. Manutenzione. Sono le parole che ricorrono cercando le cause del crollo a Pompei. E tentando di capire ciò che è mancato, oltre alle risorse finanziarie e a una guida stabile e sicura. Si può cominciare da qui: gli scavi più famosi al mondo sono retti da una soprintendente, Jeanette Papadopoulos, che però è in carica da settembre e lo sarà sino alla fine del 2010. È la terza in poco più di un anno ed è ad interim, vale a dire che deve badare anche ad altro. Inoltre fino al 31 luglio, accanto al soprintendente, si sono succeduti diversi commissari, nessuno dei quali archeologo, tutti con poteri straordinari e in deroga. L’ultimo, Marcello Fiori, era un dirigente della Protezione civile. Prima di Pompei si era occupato del termovalorizzatore di Acerra e del G8 a L’Aquila.

«Il lavoro fondamentale a Pompei», dice Pietro Giovanni Guzzo, archeologo di fama e soprintendente dal 1994 al 2009, «consiste nella manutenzione. È un compito che non dà lustro, ma è il solo in grado di contenere il deperimento di quell’organismo urbano. Dal 1997 abbiamo messo in sicurezza oltre il 30 per cento dell’intera area». Un lavoro, avrebbero detto i vecchi muratori, di "cuci e scuci": analisi e mappatura dei rischi e quindi interventi che vanno dai più impegnativi restauri alla riparazione di tegole, grondaie e alla canalizzazione delle acque.

Ecco: l’acqua è uno dei più temibili agenti di degrado. Infiltrazioni d’acqua sarebbero anche all’origine del crollo di ieri. Aggiunge Guzzo: «A gennaio, a un centinaio di metri dall’Armeria dei Gladiatori, sullo stesso versante di via dell’Abbondanza, è venuto giù un muro presso la Casa dei Casti Amanti. Anche allora un’infiltrazione d’acqua. Oltre, credo, al movimento di alcuni mezzi meccanici. È una zona a ridosso di un terrapieno che con le piogge si imbeve d’acqua. In questi dieci mesi si è fatto un controllo accurato?».

Secondo Italia Nostra, due anni di commissariamento hanno concentrato le scarse risorse della Soprintendenza «su iniziative mediatiche o di cosiddetta valorizzazione». A Pompei, replica Fiori, si è riusciti ad investire 65 milioni di euro per la messa in sicurezza dell’area. La Soprintendenza di Napoli e Pompei attraversa ora una fase delicata: sta vagliando i progetti avviati dal commissario, contro il quale sono stati presentati esposti alla Procura e sulla cui opera molte riserve ha sollevato la Corte dei Conti. Alcuni di quei progetti li prosegue, altri li boccia. È il caso di un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza che prevede di collocare pali alti 4 metri. La Soprintendenza ha avanzato molte obiezioni e ora arriveranno a Pompei gli ispettori del ministero.

Un monitoraggio degli edifici di Pompei fu avviato dopo il terremoto del 1980. Vennero impiegati militari sotto la guida degli archeologi. Si iniziò una schedatura, cercando di stabilire quanto potesse durare un pavimento in quercia o un tetto in cemento armato. Oppure se erano necessari drenaggi nei terrapieni. Il lavoro è proseguito negli anni, ma sarebbe dovuto durare ancora, aggiornando i dati e intensificando i controlli. Basta poco per tornare indietro e per non accorgersi del rischio che sta correndo una domus.

Da molti viene indicato l’esempio virtuoso di Ercolano, dove da dieci anni va avanti un piano di manutenzione coordinato dalla Soprintendenza e dalla British School di Roma e finanziato dal Packard Humanities Institute, la fondazione americana presieduta da David Packard, magnate della finanza mondiale. Packard, senza aspettarsi utili e neanche ritorni di immagine, finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri, bensì, per esempio, per il recupero del sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Ancora l’acqua: ma a Ercolano di crolli non ce ne sono.

E nel vuoto di potere avanza la fondazione

Stella Cervasio

Ad accorgersi del crollo è stato un custode che ha fatto il giro di via dell´Abbondanza, come ogni giorno. Quando ha capito che la Casa dei Gladiatori non c´era più, è corso in soprintendenza e ha cercato di contattare un funzionario archeologo di quelli che di sabato di solito sono di turno. Non ha trovato nessuno. A un certo punto è arrivata l´archeologa di Boscoreale Grete Stefani, in attesa dell´arrivo del direttore Antonio Varone, che veniva da Vietri sul Mare. Ma sul posto tra i primi ad arrivare c´era Nicola Mercurio, dello staff di Fiori finché era commissario, ma ancora prima collaboratore del sottosegretario Nicola Cosentino.

Non si trovava invece Jeannette Papadopoulos, soprintendente nominata a ottobre, che vive a Roma. L´archeologa stessa ha annunciato che andrà via a dicembre, anche lei in pensione come chi l´ha preceduta a capo di Pompei, Giuseppe Proietti (che ha ricoperto due mandati), e chi ha a sua volta preceduto lui, e cioè Rosaria Salvatore. Nel frattempo, è diventato un pensionato anche il direttore generale per le antichità del Mibac, Stefano De Caro, pompeiano doc che non ha mai ricoperto una carica nella soprintendenza degli Scavi, se non nei primi anni Ottanta, quando soprintendente era Baldassarre Conticello.

L'area archeologica, che fino al 30 giugno scorso era commissariata da Marcello Fiori, braccio destro di Bertolaso e uomo chiave della Protezione civile, ha oggi soltanto un direttore, Antonio Varone. Ma in realtà la struttura commissariale, si dice in soprintendenza, non sarebbe stata del tutto smontata, anzi a San Paolino presso le cui case demaniali sono stati trasferiti alcuni uffici della soprintendenza, lavorerebbero ancora persone come quel Nicola Mercurio, prontamente accorso sul posto del crollo ieri mattina.

Fiori, da direttore generale del ministero con delega su Pompei, governerebbe di fatto ancora gli Scavi, pur non avendo più la carica di commissario. Un vuoto di potere che avrebbe un motivo, secondo indiscrezioni. Una mancanza di responsabilità creata se non ad arte, poco ci manca. Basta guardarsi intorno a Pompei: ovunque sono state collocate transenne in metallo che recano la scritta "Pompei Viva", e lo stesso per una presentissima segnaletica. Una sorta di anticipazione di quella che dovrebbe essere la fondazione che si occuperà delle sorti di Pompei nel futuro. Esautorando soprintendenti e direttori.

Il crollo dell’Armeria sorprende i turisti "I tesori vanno custoditi"

Stella Cervasio

Peppino è una guida di quelle antiche, cartellino al petto e giacca d’ordinanza. Ieri mattina, per lui, pessimo risveglio. É crollato quello che oggi si direbbe l´"atelier" dei gladiatori, l´Armeria, lo show-room dei combattenti da spettacolo degli antichi romani, il veterano dei tour guidati lo ha appreso dal sito di "Repubblica".

«Quaranta milioni di euro, ed ecco che ne hanno fatto di Pompei». Vuol ripeterlo alla telecamera, per favore? «Io non sono nessuno, ma - accetta Peppino - se volete faccio la voce fuori campo». Mentre registra con aria triste, passa una famiglia di turisti di colore, lei modello Michelle Obama, due bambini, e il marito: «Scusate», dicono, scansando un cagnetto minacciato da un cane più grosso. C´è chi parla di un crollo annunciato («Troppe omissioni, c´era da aspettarselo»), come il sindaco di Pompei Claudio D´Alessio mentre i turisti in coro dicono che «i tesori vanno custoditi. É un disastro, il patrimonio mondiale va difeso».

Casa crollata dopo un anno di Protezione civile e commissariato Fiori. Progetto anti-randagismo - uno dei motivi che fecero proclamare l’emergenza nel 2008 - fallito: i cani abbandonati a Pompei dovevano avere collare, microchip e trovare padrone in poco tempo. Pochissimo di tutto questo si è realizzato. Soldi stanziati e spesi: poco più di 100 mila euro. Una madre e una figlia guardano insistentemente verso la fine della via dell’Abbondanza, dove gli operai si danno da fare intorno al crollo della Schola Armaturarum. «Ma come, ieri c’era, ti ricordi, l’abbiamo vista». «Era quella bella, con gli affreschi all’esterno?». Intanto gli operai trasportano alte transenne a maglie strette. Non paghi, le ricoprono con teli bianchi.

La finalità non può essere solo la sicurezza dei visitatori. L’obiettivo principale è fare schermo ai fotografi dei giornali e alle telecamere. «Sono in giro da stamattina - dice all’Ansa una turista di Ravenna che è a Pompei da qualche giorno - non mi sono accorta del crollo, sennò l’avrei subito disegnato: non uso macchine fotografiche, sono una disegnatrice».

La Schola era su via dell’Abbondanza, strada principale di Pompei, ma verso la fine, in direzione dell’Anfiteatro, a due passi dalle due vigne che fanno rivivere il vino dell’antichità.

In genere arrivati qui, si svolta per il vicolo della Nave Europa e si segue lo stradone delimitato dai pini secolari, che riporta all’anfiteatro. Sfugge la bellezza dei due affreschi ai lati della porta d’ingresso di quella che ai turisti viene presentata come la "Casa dei Gladiatori", mai visitabile perché consistente in un unico ambiente vuoto e spoglio. Peccato, ora si vedrà solo in foto. Aggirata l’insula ci troviamo dalla parte opposta: il transennamento va avanti anche lì, il crollo a minuti non sarà più visibile da nessuna parte. Perché? Passano due tedeschi, marito e moglie, e domandano ironici: «Protezione civile?». «Io cerco la Casa di Venere - dice una signora di Milano, mostrando la piantina - ma lì che cosa è successo? È caduta una casa?». I custodi vanno e vengono, l’unica funzionaria della Soprintendenza che è stato possibile reperire sull’istante, Grete Stefani, dà perentorio ordine di non far passare nessuno. «L’abbiamo scampata bella noi sorveglianti». Gli fa eco una collega: «Ogni giorno passano centinaia di scolaresche. Se fosse accaduto qualche ora più tardi...».

Il crollo clamoroso a Pompei della Casa dei gladiatori fa il paio (in peggio) col cedimento, recente, di un soffitto dell’ambulacro centrale del Colosseo. Sono i due siti archeologici più visitati d’Italia. Li si vuole spremere per sempre maggiori incassi. Ma li si lascia deteriorare, non si avviano gli indispensabili restauri (25 milioni di euro per il Colosseo), non si fa nemmeno manutenzione ordinaria. Una politica suicida. Questi guasti ci dicono che l’intero ministero voluto nel 1975 da Spadolini si sta sfaldando. 1) per i tagli feroci di Tremonti a Soprintendenze già boccheggianti, con un ministro, Bondi, più occupato a tamponare le falle del Pdl che quelle del suo dicastero. 2) per una dissennata politica dirigenziale: da un lato si assume con un contratto principesco un direttore generale alla valorizzazione come Mario Resca (ex McDonald’s e Casinò di Campione) che poco sa del nostro specialissimo sistema museale «a rete»; dall’altro si pensionano a soli 67 anni personaggi di rara competenza come il soprintendente di Pompei, Piero Guzzo e il direttore generale per l’archeologia, Stefano De Caro.

Di più: un decreto Brunetta manda a casa alti dirigenti con 40 anni di carriera, entrati con merito a poco più di 20 anni ed ora poco oltre i 60. Uno scialo. Poiché non si sono fatti concorsi, dilagano gli interim: la stessa Pompei è ora gestita da una soprintendente che governa Napoli e si occupa pure del recupero dello opere d’arte rubate e d’altro.

Una pazzia. Come il divieto per ispettori e soprintendenti di usare la propria auto per le missioni sul posto. Ci sono mezzi pubblici di cui servirsi? No. Quindi non si va a controllare gli scavi (e i tombaroli ringraziano), i siti già aperti, i cantieri esterni, favorendo speculazione e malaffare. Così va nel Paese degli oltre 2000 siti archeologici. Ricchezza enorme senza investimenti.

A Pompei poi - dove esiste, come a Roma, una speciale Soprintendenza destinata a gestire i propri incassi - la diarchia fra soprintendente e city manager non ha mai funzionato granché. Il secondo, di nomina «politica», poteva pestare i piedi al primo quando voleva. E c’erano circa 700 dipendenti per tre quarti non assunti direttamente dalla Soprintendenza e organizzati per clan famigliari, centinaia di cani randagi che nessuno ricoverava né rendeva innocui, ecc. Guzzo ha chiamato a collaborare i migliori studiosi, lavorando sull’intero contesto urbano e sull’approfondimento del già scavato.

A camorra, corruzione e clientele ha opposto regole e legalità. «Ma - mi diceva poco tempo fa - non ho mai avuto l’appoggio del vertice politico che tiene molto ai voti».

Poi a Pompei è arrivato un commissario, Marcello Fiori, fedelissimo di Guido Bertolaso. Invece di concentrare i fondi sulla tutela più urgente, ha puntato a “spettacolarizzare” Pompei, dando al teatro romano una «cavea completamente costruita ex novo, con mattoni in tufo di moderna fattura» (denicia della Uil), O - come denuncia indignata l’Associazione nazionale Archeologi - ha speso in ologrammi virtuali e pannelli fotografici addirittura milioni. Che potevano evitare a Pompei di sfaldarsi. Al pari del ministero.

Italia Nostra

La rovina di Pompei è il risuotato

di scelte politiche disastrose

Il disastroso crollo dell’Armeria dei Gladiatori avvenuto stamane a Pompei testimonia l’urgenza della denuncia di Italia Nostra sulla gestione del più importante sito archeologico italiano.

Due anni di commissariamento non solo non hanno risolto i problemi del “degrado quotidiano” (servizi al visitatore di scarso livello, cani randagi, ecc.), ma concentrando le risorse della Soprintendenza esclusivamente su iniziative mediatiche o di cosiddetta valorizzazione (eventi al teatro grande, ologrammi e multimedia), hanno smantellato quel programma di manutenzione programmata faticosamente elaborato negli anni precedenti dagli organi della tutela, sicuramente meno spendibile in termini pubblicitari, ma indispensabile per la tutela del patrimonio stesso e quindi per la sua stessa sopravvivenza.

Come per le frane e le alluvioni che hanno devastato ampie zone del nostro territorio (dal Veneto alla Calabria) negli ultimi giorni, questo disastro non era imprevedibile, ma è frutto dell’incuria dell’uomo.

Pompei è patrimonio non italiano, ma mondiale: Italia Nostra richiede al Ministro Bondi di affidare immediatamente agli organi scientifici del suo Ministero l’elaborazione di un piano di conservazione del sito quale premessa indispensabile, non solo delle elementari ed irrinunciabili esigenze della tutela, ma altresì del rilancio culturale di Pompei.

Gli avvenimenti di oggi dimostrano, nella loro drammatica evidenza, la necessità di rafforzare l’opera degli organismi della tutela: Pompei deve diventare un laboratorio a cielo aperto dell’eccellenza italiana nel campo del restauro e della conservazione e non una Fondazione mirata al lancio di eventi estemporanei e dagli incerti valori culturali.

Come per difendere il nostro territorio non servono le “Grandi Opere”, ma la quotidiana, incessante opera di ripristino e contenimento del rischio idrogeologico, così per salvare il nostro patrimonio culturale non abbiamo bisogno di iniziative effimere e culturalmente risibili o addirittura controproducenti, bensì di restituire la piena operatività alle Soprintendenze - a Pompei come a L’Aquila - in termini non solo di risorse economico finanziarie, ma di efficienza amministrativa e di riconoscimento istituzionale.

Maria Pia Guermandi – Consigliere nazionale Italia Nostra

Corriere della sera.it

Pompei. Crollata la Domus dei gladiatori

Gravissimo danno al patrimonio artistico italiano a seguito di un crollo verificatosi nel sito archeologico di Pompei dove è crollata l'intera Domus dei Gladiatori, così chiamata perchè al suo interno si allenavano gli atleti nell'antica Pompei. L’edificio era una sorta di palestra dove i gladiatori si allenavano e nella quale deponevano le armi all’interno di alcuni incassi ricavati nei muri. Secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza, vi erano anche dipinti nella parte sottostante il perimetro della sala. L’edificio, che si apre su via dell’Abbondanza, la strada principale della città sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C., era visitabile solamente dall’esterno ed era protetto da un alto cancello in legno.

AREA TRANSENNATA - Il crollo, secondo primi accertamenti, è avvenuto intorno alle ore 6 ed è stato notato dai custodi appena arrivati al lavoro verso le ore 7.30. L'area al momento è transennata e non è possibile accedere. La Domus è sulla via principale, via dell'Abbondanza, quella maggiormente percorsa dai turisti, in direzione Porta Anfiteatro. Predisposto un percorso alternativo per i tanti turisti.

LE CAUSE - «Questa mattina presto - spiegano i custodi - è crollato prima il muro della Domus, e poi, data la pesantezza del soffitto che è in cemento armato, è crollata l'intera Domus dei Gladiatori. Sembra - dicono - che siano state le infiltrazioni d'acqua a causare il danno». Anche secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza le cause del crollo possono essere attribuite o alle piogge che hanno creato delle infiltrazioni all’interno di un terrapieno esistente al lato della Schola, oppure al peso del tetto della palestra stessa. La casa, infatti, fu bombardata durante la Seconda guerra mondiale e la copertura è stata rifatta tra gli anni ’40 e gli anni ’50. È probabile - fanno sapere dalla Sovrintendenza - che le mura antiche, dopo anni, non abbiano più retto al peso del tetto.

DENUNCIA IGNORATA - Oltre alle inchieste portate avanti dal Corriere sullo stato di salute degli scavi di Pompei, numerose erano state le denunce portate avanti da diversi esponenti politici sullo stato di degrado dell'area archeologica. «Sono mesi che denuncio, con articoli ed interrogazioni, il degrado allarmante degli scavi di Pompei. Il gravissimo crollo di stamattina è la dimostrazione che il Governo e il Ministro Bondi hanno sottovaluto la situazione e raccontano, da tempo, un bel po' di sciocchezze» afferma ora in una nota Luisa Bossa, deputata del Pd e ex sindaco di Ercolano. «Quando abbiamo posto la questione del degrado negli scavi - dice la Bossa - Bondi ha risposto in modo piccato e risentito, difendendo il lavoro dei suoi commissari. Il crollo della Domus dei gladiatori è la drammatica, ma inevitabile, risposta a chi pensa che governare significhi raccontare una balla al giorno, attaccando chi a quella balla non crede perchè le cose va a guardarle con i suoi occhi. La situazione dei siti archeologici in Campania è drammatica».

IL SINDACO - Disappunto, convinto. Il sindaco di Pompei (Napoli), Claudio d'Alessio, lo dice senza mezzi termini: «Questa ennesima brutta notizia poteva essere evitata». Il cedimento dell'edificio, secondo d'Alessio, è un crollo annunciato: «succede quando non c'è la dovuta attenzione e cura» per un patrimonio secolare che andrebbe «preservato da ogni tipo di sollecitazione, anche atmosferica. C'è il dispiacere tipico di una comunità - ha sottolineato D'Alessio - di un territorio su cui vi è il museo all'aperto più grande del mondo e che purtroppo viene trascurato».

L'ALLARME DEL MINISTERO - «Questo ennesimo caso di dissesto ripropone il tema della tutela del patrimonio culturale e quindi della necessità di disporre di risorse adeguate e di provvedere a quella manutenzione ordinaria che non facciamo più da almeno mezzo secolo». È quanto afferma Roberto Cecchi, segretario generale del Ministero per i Beni e le Attività Culturali in merito al crollo della Schola Armaturarum a Pompei. «La cura di un patrimonio delle dimensioni di quello di Pompei - aggiunge Cecchi - e di quello nazionale non lo si può affidare ad interventi episodici ed eclatanti. La soluzione è la cura quotidiana, come si è iniziato a fare per l'area archeologica centrale di Roma e per la stessa Pompei».

BONDI - «Quanto è accaduto ripropone la necessità di disporre di risorse adeguate per provvedere a quella manutenzione ordinaria che è necessaria per la tutela e la conservazione dell'immenso patrimonio storico artistico di cui disponiamo» ha spiegato successivamente il ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi. «Il crollo - conferma il ministro - ha interessato le murature verticali Schola Armaturarum che erano state ricostruite negli anni Cinquanta, mentre parrebbe essersi conservata la parte più bassa, la parte cioè che ospita le decorazioni affrescate, che quindi si ritiene che potrebbero essere recuperate. Alla luce dei primi accertamenti, il dissesto che ha provocato il crollo parrebbe imputabile ad uno smottamento del terrapieno che si trova a ridosso della costruzione per effetto delle abbondanti piogge di questi giorni e del restauro in cemento armato compiuto in passato».

Associazione nazionale archeologi

Il crollo della Domu dei gladiatori e il dissesto archeologico del Belpaese

L'ANA, Associazione Nazionale Archeologi, esprime rabbia e sconcerto per il crollo avvenuto stamattina alle 6 nel sito archeologico di Pompei:si è letteralmente polverizzata la Domus dei Gladiatori, sulla centralissima via dell'Abbondanza. Dopo i crolli avvenuti a Roma alle mura Aureliane, alla Domus Aurea e quello ben più modesto al Colosseo, questo di Pompei è l’ennesima ferita subita dal patrimonio archeologico italiano in pochi mesi.

"Stavolta il crollo è di proporzioni clamorose”, denuncia il Presidente ANA Tsao Cevoli. “E’ una ferita insanabile al sito archeologico più importante del mondo. Come denunciamo da tempo, sono l'incuria e la mancata manutenzione ordinaria del patrimonio archeologico a provocare danni irreparabili come questo di oggi

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"Fa rabbia”, conclude Cevoli, “vedere un crollo del genere provocato dall’incuria, quando sempre a Pompei, a pochi passi di distanza sulla stessa via dell'Abbondanza, si sono spesi milioni di euro per istallare ologrammi virtuali e pannelli fotografici nelle Domus di Giulio Polibio e dei Casti Amanti.

Auspichiamo che nel settore dei beni culturali alla politica delle emergenze e degli effetti speciali finora attuata dal governo, si sostituisca una politica della prevenzione e che a dettare le priorità non siano le esigenze di marketing ma i reali problemi del patrimonio culturale e che l'ultima parola spetti ai funzionari ministeriali addetti alla tutela".

Confederazione Italiana Archeologi

Crollo a Pompei. Basta commissari. Si facciano lavorare i tecnici delle soprintedenze!

La Confederazione Italiana Archeologi esprime il proprio sgomento di fronte alla notizia del crollo delle strutture della Caserma dei Gladiatori a Pompei. L’episodio si è verificato all’alba e per fortuna non si sono registrati feriti né tra il personale in servizio né tra il pubblico, visto che il sito non era ancora aperto.

“Siamo stanchi - ha dichiarato il Presidente Giorgia Leoni – di commentare continui crolli e danni al patrimonio archeologico del nostro paese, potendo almeno gioire del fatto che per ragioni del tutto fortuite si sia evitata una tragedia.”

“Ci auguriamo – continua il Presidente Leoni – che oltre alle ragioni tecniche, il Ministero abbia il coraggio di affrontare le reali cause politiche che sono alla base di questi avvenimenti. Dopo il Colosseo e la Domus Aurea continua la serie di crolli di monumenti e siti sottoposti per anni a costosissime e spesso poco competenti strutture commissariali che hanno esautorato i tecnici delle Soprintendenze dall’azione di costante tutela e monitoraggio che questi hanno sempre condotto. Evidentemente il proliferare dei commissariamenti non ha lo scopo di garantire la tutela e la conservazione del patrimonio archeologico, altrimenti le strategie e i risultati sarebbero diversi. Non possiamo più permetterci di operare in questo modo scellerato: il patrimonio archeologico italiano è un bene che appartiene a tutta l’umanità e va preservato per le generazioni future, non è un prodotto replicabile!”

La Confederazione Italiana Archeologi rinnova la richiesta di un intervento urgente del ministro Bondi per verificare lo stato di sicurezza in cui versano gli scavi di Pompei e perchè faccia un'analisi seria e trasparente dei lavori svolti e dei risultati ottenuti dalla struttura commissariale.

Valentina Di Stefano

ufficiostampa@archeologi-italiani.it

UIL

Pompei. Crollo della "Schola armaturam iuventis pompeiani"

Gravi le responsabilità di Bondi

che non nomina un soprintendente

Sono veramente gravi le responsabilità del Ministro Bondi che si è affidato alle cure del Commissariamento di Pompei e aldilà della propaganda i risultati di scelte dissennate e incomprensibili la dice lunga su ciò che è stato fatto nell’area archeologica più importante del mondo.

Stamane attorno alle ore 6/7 , meno male che gli scavi erano ancora chiusi, è letteralmente crollata ( sembra quasi sotto l’effetto di un terremoto o di un bombardamento) la casa chiamata "Schola armaturarum iuventis pompeiani".

Tale casa fu rinvenuta nel 191 e restaurata nel 1946 , da allora non sembrano essere stati fatti interventi salvo il rifacimento dell’asfalto del tetto durante la gestione commissariale.

Infatti l’asfalto risulterebbe essere stato rifatto da circa 7 mesi.

Molto probabilmente la casa è crollata per effetto delle infiltrazioni d’acqua ma è veramente singolare che durante la gestione commissariale che era deputata proprio alla messa in sicurezza , nessuno si sia reso conto dello stato in cui tale casa si trovava.

A questo punto, la Procura a cui la Uil aveva già sporto denuncia dovrebbe indagare per capire e passare al setaccio tutti gli interventi e l’operato legato alle attività commissariali che per fare gli interventi avrà redatto un piano con le emergenze. Ricordo che il Direttore degli scavi Varone aveva segnalato la pericolosità degli scavi tanto che temeva per l’incolumità dei visitatori e degli stessi dipendenti.

Ora si faccia luce su ciò che è accaduto tenuto conto che vi sono altri aspetti che lasciano perplessi come nel caso della stipula del contratto con la Società WIND per attività di videosorveglianza e valorizzazione che tra gli altri caratteri prevedono la collocazione nell’area archeologica di pali alti 4 metri ,la collocazione nell’area archeologica dei cavidotti, che hanno un effetto ed un impatto visivo micidiale , fatta con estrema leggerezza dal Commissario e che oggi non sembra assolutamente compatibile con la tutela dell’area archeologica.

A ciò si aggiunge anche la recente sentenza del Tar Lazio che ha annullato la gara per la gestione del ristorante per difetti procedurali che dimostrano il pressappochismo nell’attività di aggiudicazione dell’appalto.

Insomma va fatta chiarezza e vanno individuate responsabilità precise fermo restando che la prima responsabilità è di ordine politico poiché mentre Roma sta discettando sul modello di governante da realizzare , Pompei continua a registrare crolli, ricordiamo anche la Domus di Polibio ed il Termopolio con un sito che non ha un Soprintendente a tempo pieno.

Gianfranco Cerasoli, Segretario Generale UIL Beni e Attività Culturali

Giovedì sera al Tg3 il presidente del Veneto, l’ex ministro Luca Zaja, è stato molto tranciante: l’ennesima disastrosa alluvione veneta è soltanto frutto di “calamità naturali”, la cementificazione della collina e il dissesto idrogeologico non c’entrano nulla. Ieri però una nota della la Società Italiana di Geologia Ambientale, dopo aver descritto i disastri verificatisi dal Lombardo-Veneto alla Calabria, dice fra l’altro: “Dal punto di vista scientifico, i fenomeni naturali sopradescritti rientrano nella normalità. E’ normale che in autunno si registrino piogge di tali intensità e durata”. Non è invece per niente normale che un territorio geologicamente “giovane” come il nostro sia diventato “strutturalmente fragile” perché si costruisce in zone “pericolose”.

Di recente l’Istat collocato il Veneto fra le tre regioni italiane con la massima concentrazione edilizia, case e capannoni, tanti capannoni da far esclamare nel 2003 all’allora presidente Renzo Galan “Basta capannoni!” Un grido senza alcun seguito pratico. Sempre l’Istat definiva la pedemontana veneto-lombarda – in termini meno tecnici, la un tempo splendida collina di Piovene e di Parise – una delle zone più cementificate e asfaltate d’Italia. Basta scendere in aereo su Venezia: il continuum edilizio è agghiacciante senza uno spicchio di verde in mezzo, per centinaia di chilometri da Venezia-Mestre.-Padova, ormai saldate, alla Lombardia. Ed è, per lo più, edilizia “legale”, eretta in base a piani urbanistici sforacchiati da continue varianti. Perché un territorio collinare così maltrattato dovrebbe “tenere” con le piogge autunnali o primaverili? Difatti le alluvioni, qui e altrove, sono ormai permanenti.

Cosa fa il governo Berlusconi, il “governo del fare”? Concorre potentemente a disfare il Belpaese riducendo nell’ultimo triennio del 60 % (così il Wwf) i fondi destinati alla difesa del suolo e al restauro di un territorio massacrato. Eppure ci eravamo dati una buona legge – la n. 183 del 1989, nella deprecata Prima Repubblica – creando, sul modello dell’Authority del Tamigi, le Autorità di bacino. Solo che nel Regno Unito le competenze forti sono tutte andate alla Themes Autority, mentre qui si è fatto l’opposto togliendo alle Autorità (specie se interregionali, orrore) soldi e competenze. Un anticipo di federalismo all’italiana che smantella i poteri pubblici, li regionalizza, poi magari li municipalizza e infine lascia fare ai privati quello che vogliono. Case e capannoni, capannoni e case. Nel decennio 1991-2001 in provincia di Vicenza la popolazione è aumentata del 32 %, ma la superficie urbanizzata è esplosa: + 342 %. In tutta Italia nel periodo 1995-2006 – secondo un calcolo attento (e su dati Istat) dell’urbanista Paolo Berdini – sono stati mangiati dall’edilizia di tutti i tipi ben 750.000 ettari di suoli liberi, una regione grande come l’Umbria. Da una parte stiamo rendendo impermeabile ogni anno circa 70.000 ettari, dall’altra lo spopolamento agricolo (ripreso con forza visto che sui campi si guadagna sempre meno) abbandona a se stesse montagna e alta collina. Coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti alla prima pioggia un po’ più forte.

A questo consumo di suolo sfrenato si comincia a dare uno stop dal basso. Un buon esempio viene proprio dal Milanese, dal sindaco, Domenico Finiguerra, di Cassinetta di Lugagnano (sul bellissimo Naviglio), premiato come il più “virtuoso” poiché ha varato un piano territoriale a “consumo zero” di suoli liberi. Una sacrosanta battaglia che nel Regno Unito, pensate un po’, ha prodotto una legge severa negli anni ’30 e poi una ancor più rigorosa con Tony Blair. In Germania vige dagli anni ’90 una legge Merkel che punta ridurre il consumo di buona terra, anche se quello di partenza era un terzo del nostro. E da noi? Si rincorrono i guasti di frane e alluvioni spendendo infinitamente di più in rattoppi di quanto si spenderebbe in prevenzione. E si contano tristemente i morti: dal Polesine ad oggi, o a ieri, 3.255 includendo il Vajont che qualcuno cercò allora di spacciare per “calamità naturale”.

Le prime due settimane del mio soggiorno a Nairobi sono stata ospitata a casa di Gathogo e Polly (lui ex compagno di master, lei la sua simpaticissima moglie che abbiamo conosciuto nel 2004). Da loro, in Langata, e più precisamente ad Uhuru Gardens, prima periferia di Nairobi, ho fatto vera vita africana urbana (da middle class).

Questa comprende lunghi viaggi sui matatu (pulmini a 13 posti che suppliscono alla carenza di trasporto pubblico) nel traffico allucinate (sempre peggio aimè, ed ugualmente polveroso) e assordante (musica a manetta e ora anche video!) tra casa e lavoro. Ma devo dire che è più comodo, di una volta: non stipano più persone di quelle consentite perchè il conducente rischia ora di prendere una salatissima multa se lo beccano.

Matatu e sfera pubblica

Il viaggio in matatu non si può descrivere senza perdere gran parte del suo fascino, e anche della sensazione di terrore. Guidano spericolatamente, su strade dal fondo sconnesso, salendo su marciapiedi, cordoli, deviando per carraie, sorpassando sia a destra che a sinistra, tutto nel tentativo disperato di evitare il traffico.

Innanzitutto, dove si prende il matatu? Siccome non fa parte del sistema di trasporto pubblico, le sue rotte non sono scritte da nessuna parte, bisogna chiedere in giro, ma sta pur sicuro che un matatu che va dove hai bisogno di andare quasi sicuramente c’è. Ogni tratta ha due punti di carico e scarico “fissi”: i capolinea, i punti intermedi sono piuttosto flessibili (traffico permettendo), diciamo a richiesta. A Nairobi centro il capolinea è in downtown, nei pressi della fire station oppure vicino alla bus station, in entrambi i posti e più generalmente nella downtown, c’è un caos di mezzi e di persone inimmaginabile. La downtown si sviluppa a est e nord est di Nairobi, il confine è la mitica Tom Mboya Street. Al di là, la Nairobi “locale” al di qua, la Nairobi “internazionale”.

In questo caos, trovare il numero giusto non è cosa da poco. Ma se tu non trovi lui, lui, o meglio il “controllore” del matatu trova te. Siccome c’è concorrenza spietata tra mezzi, ogni business cerca di riempire il prima possible il matatu per poi partire, quindi urlano (in Swahili) la meta e il prezzo, con una cantilena che sembra quasi una filastrocca.

Non è neache il caso di specificare che anche i prezzi sono mutabili… la tariffa dipende dal mezzo (più o meno alla moda e dotato di IT, come il video), dall’ora (nell’ora di punta costano di più) e dal tempo atmosferico (quando piove il prezzo della corsa subisce immediatamente un incremento!). Ogni matatu può caricare 15 persone: l’autista, due passeggeri davanti, 12 passeggeri dietro e il “controllore” che ha il compito di trovare i viaggiatori, risquotere il pedaggio, e gestire le fermate.

Dal momento che comincia la corsa, le comunicazioni tra passeggeri, controllore e autista sono fatte perlopiù di segni… la musica assordante rende qualsiasi conversazione orale assolutamente inutile. Il controllore comunica all’autista attraverso delle manate date sulla lamiera del mezzo (oppure utilizzando una moneta, provocando quindi un suono metallico che riverbera ovunque). Un picchio significa che può ripartire, due picchi che alla prossima fermata (ipotetica, immaginata, sottointesa) si deve fermare. Le comunicazioni tra passeggeri e controllore consistono in tocchi con un dito sulla spalla. Se è il controllore che te lo da, significa che gli devi pagare la corsa. Se sei tu che lo dai a lui, significa che alla “prossima” vuoi scendere.

E’ un luogo privilegiato il matatu, riesci a vedere come funziona la città, come comunicano le persone, riesci a guardare quelle bellissime faccie senza essere insolente. E ne puoi sentire l’odore e ti puoi togliere il desiderio e la curisità di sfirorare il braccio di un bambino, di una donna o di un uomo senza che questo provochi alcun problema: lo spazio nel matatu è risicato!

Tutto sommato è un mezzo efficiente nell'inefficienza assoluta del sistema. Il matutu è un icona della città Africana. A Nairobi rappresenta la trasgressione (dalle regole del traffico, dell’economia, e della politica, che in più momenti ha tentato di bandirli), la creatività, la bizzaria dei kenioti. E’ al tempo stesso mezzo di comunicazione, non solo perchè trasporta persone da un luogo all’altro, ma anche perchè offre uno spazio di comunicazione, e prodotti culturali. Alcuni matatu sono dei veri e propri oggetti d’arte, per i colori, i graffiti che riportano sulla carozzeria, per la cura degli interni, per la musica o i programmi radiofonici che trasmettono.

Sono anche parte di quella “sfera pubblica” che si nutre di “rumours”, potenti mezzi di “verità” paralleli al sistema formale di informazione (media, giornali, radio e TV). Questa rete di comunicazione informale (detta anche da Musila “Kenyan grapevine”) prende vita dai discorsi popolari che si formano al mercato e sui matatu, e può diventare una forma potente di contestazione. La sua “legittimità” e forza la si capisce dal momento che le istituzioni e i media tentano di screditarla o ancora peggio di cooptarla. Qeusto “rumor” non è l’esclusivo dominio del pubblico discontento, ma un mezzo polivalente di cui talvolta si serve anche la classe politica. E’ soprattutto attraverso questo media che i Kenioti sono informati e totalmente coscienti della corruzione che divampa nel loro paese. Non c’è persona, per quanto distante essa sia dalla città, che non è a conoscenza delle malefatte della classe politica e dell’elite (c’è una strettissima correlazione tra i due gruppi, quasi una sovrapposizione geometrica…).

Tuc tuc e boda boda

Oltre ai matutu ci sono anche i tuc tuc, ovvero dei mini matatu che fanno la spola tra fermate dei matatu e quartieri non serviti dai mezzi collettivi. Affrontano tragitti più brevi e spesso su strade non asfaltate e raggiungono gli slum oppure i compound distanti dalle arterie principali. Ci stanno 4, a volte anche 5 persone, se magre. Si tratta di un Ape della Piaggio adattata al trasporto di passeggeri. E’ un servizio importantissimo, soprattutto per le donne che alla sera dalla fermata del matatu (da una arteria principale quindi) devono raggiungere la loro abitazione, attraverso strade non illuminate e non molto frequentate.

In questi ultimi anni sono proliferati i boda boda ovvero i taxi motocicletta, che fanno più o menoil servizio dei tuc tuc. Sono diffusissimi soprattutto nelle città minori e nei paesi. Questo mezzo si è diffuso perchè hanno prezzi di molto inferiori alle automobili e permettono ai giovani di guadagnarsi da vivere. Ma purtroppo, data la precarietà del mezzo, il non essere avezzi alle due ruote, alle condizioni delle strade e la guida spericolata (anche senza patente), i boda boda sono oggetto di tantissimi incidenti. Mi diceva un taxista, che nella città di Eldoret la metà dei pazienti in ospedale sono vittime di incidenti da motocicletta.

Tran tran giornaliero

Arrivata a destinazione (università, uffici comunali, biblioteca, archivio, etc.) la mia giornata prosegue tra appuntamenti, attese, attraversamenti (sto al passo degli africani!), studio, letture, e si conclude piuttosto presto, 5-6 del pomeriggio, per consentire un rientro a casa prima che faccia buio.

A meno che... si prenda un taxi (cosa che evito il più possibile, visto che non sono poi così economici) o non si aspetti Gathogo, che da buon professionista possiede un automobile e spesso passa a prendere la moglie e rientrano a casa insieme. Lui dice sempre “I am on my way… almost in town…” ma magari non arriva in città prima delle otto di sera.

E allora sto 2 ore nel loro cafè preferito “The Mug” (un Giava più locale, ma sempre per middle-high class, però più africano che europeo) dove praticamente loro sono di casa. Spesso aspetto con Polly, anche lei in attesa e magari altre persone che passano e poi vanno.

Il rientro a casa con Gathogo comprende SEMPRE una tappa al supermercato che è aperto se non tutta notte almeno sino alle dieci di sera. Sono incredibili, altrochè il Nakumatt del 2004! Questi fanno competizione a quelli inglesi e americani per la quantità di roba e ‘schifezze’ varie (tra patatine e dolcetti c'è da perderci l'occhio e la linea!). Anche qui è arrivato il latte appena munto che si scarica nelle bottiglie di plastica da un mega dispenser. Famiglia Gathogo (soprattutto Polly) da buoni ecologisti usano questo metodo, il che richiede almeno due tappe settimanali a riempire le 4 bottiglie da 1.5 litri!

Ora che siamo a casa sono le 9 passate e anche se non ho fatto niente dalle 5 del pomeriggio sono esausta e la testa sta per esplodere dalle chiacchiere e dalle infinite immagini che durante la giornate si sono accumulate e che continuano a mandare impulsi al cervello. Ma non è finita... doccia veloce e poi cena... televisione praticamente sempre accesa... spesso i bambini sono ancora alzati: Anissa di 30 mesi, che richiede un pò di attenzione e Fathili, 7 mesi che aspetta la sua tettata. Ci si aggiunge un gattino che miagola in continuazione...

Sometimes is just too much!

Dimenticavo, c'è una tata tuttofare che vive con loro, che accudisce i bambini, tiene in ordine la casa e prepara da mangiare: chapati favolosi!!!!!! Ma anche il resto non è male. Frutta deliziosa e riso saporitissimo, ugali (che poi non è altro che una specie di polenta) e quelle verdurine che tagliano finissime che non ricordo il nome. Raramente carne, ma poi fagioli, di vari colori, lenticchie e altre cose.

"Dam view estate" in Uhuru gardens

Vivono in un tipico appartamento da middle class: in una palazzina di 4 piani (a volte sono anche di 8), parte di un compound che comprende altre palazzine, ovviamente recintato da un alto muro e monitorato da una guardia 24 ore al giorno, che controlla chi entra e chi esce.

La palazzina ha dei tipici dettagli che a me sembrano "nairobesi" tipo l'uso del bowindow inglese ma usato per tutta l'altezza, richiami di semitettucci a capanna o addirittura a mansarda o peggio da chalet di montagna, e un archetto messo sempre da qualche parte. Nell'insieme diventa tipico di qui, comunque nulla di peggio di quanto succede da noi, anzi quasi piacevoli!

C'è un cortile, spazio per stendere e parcheggiare. Ci sono tutti i comfort: luce, gas (bombole) acqua potabile (o quasi), fognature. Ma al di fuori del compound sembra di essere in campagna, le strade interne, cioè quelle che dall'arteria principale (Langata Road) portano alle lottizzazioni sono sterrate, con buche che potresti annegarci dentro in tempo di heavy rain! Ai bordi delle strade i soliti gabbiotti che vendono immancabilmente le ricariche della Safaricom (rete cellulare), caramelle sciolte, i banchetti delle verdure, le donne che a terra cucinano ugali e spezzativo da vendere ai lavoratori nei paraggi (in these days vicino c'è sempre un cantiere). Non mi manca la compagnia nel percorso da casa alla fermata del matatu.

C'è anche un mini market, very basic (dove Gathogo famility non ha mai messo piede, ma la tata si, a comprare qualcosa che manca all’ultimo minuto) con gestori molto simpatici. A fianco un hotel (bar) dove fanno un chapati delizioso. E' una versione antecedente al centro commerciale moderno, che è ancora diffuso fuori Nairobi. A me ricorda un pò i “minimarket” che si trovavano nelle frazioni di campagna, dove accanto al bar c’era un piccolo alimentari con le cose essenziali, generalmente gestito dalla moglie del barista!

Questi negozietti, credo che siano utilizzati soprattutto dalla lower class che si trova in zona, o perchè lavora per la middle class (le varie tate, house help, lavandaie eccetera) o perchè hanno subaffittato una camera nelle casa della middle class, che così arriva a fine mese meno strafogata e si può permettere una macchina!

Ma entriamo in casa... potresti essere da qualsiasi parte del mondo, non c'è quasi nulla dentro che ti fa pensare che sei in Africa, forse la televisione se stanno trasmettendo un programma in swahili. C'è praticamente tutto quel che occorre, tranne la lavatrice. Al suo posto viene utilizzata una signora che tutti i venerdì viene a lavare a casa a mano tutto quello che si accumula in una settimana, e torna il lunedì a stirare. Per un totale di 3 euro alla settimana! Insomma conviene usare lei piuttosto che comprare una lavatrice. Di tipico c'è una stanzetta a fianco della cucina: qui c'è un rubinetto che butta acqua direttamente a terra e un fornelletto di quelli africani, è praticamente l'equivalente dell'aia che si trova nelle case rurali. Finestra sempre aperta, si distende qui la biancheria intima, si mette l'immondizia, si cuociono le cose ingombranti, si lavano frutta e verdura, c'è la cuccia del gatto e adesso c'è anche un gallo... ma questa è un'altra storia.

Bagnoli è uno dei quartieri più belli di Napoli. I Campi Flegrei, storia e futuro della città. Doveva essere l’occasione per la rinascita partenopea. Città della scienza, bonifica dell’area, cultura, innovazione tecnologica, attività sportive, piccole e medie imprese, commercio, turismo, il porto, unità abitative residenziali. Napoli tra ricchezza della sua storia e progresso. Bagnoli ha ottenuto il più cospicuo finanziamento di fondi europei della storia dell’Unione. La politica, attraverso il partito unico trasversale della spesa, ha sostanzialmente fallito, al di là di qualche risultato. Bagnoli è servita per creare l’ennesima società per azioni, BagnoliFutura spa, il solito giro di professionisti e politica, mentre Napoli e i napoletani possono attendere. Ma questa non può essere solo la solita storia, sia pur grave, dell’ennesima occasione perduta, servita solo a consolidare il potere di pochi. È giunta l’ora di chiedere il conto – politico e istituzionale – sotto un duplice aspetto. Il primo. La Corte dei conti, la commissione e il Parlamento europeo hanno evidenziato gravi irregolarità nella gestione dei fondi pubblici. Chi intende assumersi la responsabilità politica? Chi pagherà contabilmente, chi risarcirà il danno? Mi auguro che la magistratura ordinaria verifichi la sussistenzadi condotte che possano avere rilevanza penale.

Il secondo. Circolano dati allarmanti sui quali si deve fare chiarezza e solo la magistratura, nella sua indipendenza, può verificare se Bagnoli sia divenuta una bomba ecologica a orologeria. Buona parte dei terreni dell’area, dichiarati bonificati e certificati da BagnoliFutura, sarebbero caratterizzati da concentrazione di composti e sostanze dall’elevata potenzialità tossica (idrocarburi, IPA e PCB) che eccedono i limiti di legge imposti per un uso residenziale/verde pubblico e spesso anche per uso commerciale/industriale. Il terreno risulterebbe, quindi, in diverse aree contaminato e non bonificato contrariamente a quello che si vuol far credere. Una valutazione del rischio sanitario-ambientale in caso di uso residenziale/verde pubblico conduce, secondouno studio della cui attendibilità non abbiamo motivo di dubitare, a un rischio rilevante per la salute umana da sostanze cancerogene per bambini e per adulti sia per brevi che per lunghe esposizioni. Si parla di un rischio oggettivo di un cospicuo aumento di decessi l’anno per coloro i quali frequenteranno i settori: infrastrutture pedemontane, Porta del Parco e strutture turistiche, Parco urbano lotto 1 e Parco dello Sport. Il rischio sarà elevato anche per i lavoratori qualora si scelga un’esclusiva destinazione industriale/commerciale.

La situazione rappresentata evidenzia, paradossalmente, un generale peggioramento post-bonifica delle condizioni ambientali. Va inoltre rappresentato che, inizialmente, il progetto di bonifica è stato avviato tenendo presente che le concentrazioni di sostanze non erano compatibili con un uso residenziale/verde pubblico (previsto per gran parte dell’area una volta completata la bonifica) ma solo con un uso industriale/commerciale del sito. Oggi, per aggirare artificiosamente la situazione, si intende risolvere il problema della mancata bonifica attribuendo ai suoli una fittizia destinazione d’uso industriale/commerciale, mentre nella realtà si registra un aumento della volumetria destinata a unità abitative. I napoletani non possono essere accerchiati da bombe ecologiche. Bagnoli non può trasformarsi da mancata occasione di sviluppo del Sud intero a ordigno ambientale. Ci auguriamo che le istituzioni tutte, in primo luogo la magistratura, facciano chiarezza su una storia che non ci lascia tranquilli.

Signori si chiude: dai Musei capitolini a Palazzo ducale di Venezia le istituzioni culturali, in particolare quelle che fanno capo a Regioni ed Enti locali per un giorno, il prossimo 12 novembre, chiudono le porte, anzi le sbattono in faccia alle politiche del governo Berlusconi. Una iniziativa nata da Federculture e dall'Associazione comuni italiani, cui ha aderito un schieramento molto ampio per una protesta clamorosa che ha pochi precedenti in Italia e nel mondo, coinvolgendo musei, siti archeologici, fondazioni culturali, biblioteche: tutti colpiti, e in molti casi a morte, dalla legge 122 del 2010. Si tratta del decreto uscito a maggio dal cappello di quel mago di Oz dei risparmi del superministro Giulio Tremonti, a luglio convertito dal parlamento in legge con il nome di «manovra finanziaria» — da non confondere con la legge finanziaria di cui si discuterà nei prossimi giorni. Nella sostanza è fatto divieto ai comuni con meno di 30 mila abitanti di avere società, gli enti locali sono obbligati a ridurre dell' 80% le risorse per mostre, missioni culturali e così via, e a ridimensionare la composizione dei consigli di amministrazione delle aziende partecipate con denaro pubblico. Gli effetti sono devastanti: a esempio il sito nuragico di Su Nuraxi, gestito dal comune di Barumini attraverso una fondazione che dovrà essere chiusa, rischia di restare senza personale. Spazi espositivi come la Triennale di Milano o Palaexpo di Roma non avranno fondi per le mostre, il tutto mentre si costruisce la Nuova Brera, e vista la situazione è difficile prevederne l'utilizzo.

Ma più bizzarro è il caso dei consigli di amministrazione: quelli di fondazioni come la Scala o Musica per Roma hanno rispettivamente 11 e 13 componenti per la presenza dei privati e dovranno essere ridotti a 5, cacciando i soci finanziatori. Un bell’incentivo per l'intervento dei privati nella cultura! Incerte sul da farsi, le amministrazioni locali stanno scivolando nel caos. Intanto però le regioni Liguria e Toscana hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, poiché la legge 122 intaccata la loro autonomia e quella degli Enti locali. Fioccano le adesioni alla protesta del 12 novembre, dall'Unione province italiane, alla Conferenza delle Regioni, fino all'Associazione delle città d'arte, Fondo per l'ambiente italiano, la Lega delle cooperative, nonché musei, associazioni come quella che riunisce i parchi naturali italiani, e fondazioni come il Maxxi, che pure sarebbe dello Stato, Musica per Roma o il Consorzio teatro pubblico pugliese. «L'obiettivo è la abrogazione della legge», ha spiegato ieri alla presentazione dell'iniziativa l'assessore alla cultura capitolino Umberto Croppi, che già a maggio aveva proposto, per primo, la serrata dei musei. Lo schieramento è compatto contro la legge 122, meno sulle forme di protesta, a esempio alcuni puntano sull'apertura gratuita, come probabilmente farà il comune di Milano. «Ma il castello Sforzesco deve restare chiuso: è un fatto simbolico! — sbotta Andrea Ranieri assessore alla cultura del capoluogo ligure —A Genova i grandi musei saranno chiusi, mentre i piccoli saranno a ingresso gratuito, con lo slogan venite adesso che l'anno prossimo non ci saremo più». A Ranieri non sfugge l'aspetto politico della protesta, uno schieramento così ampio è la reazione al governo Berlusconi che, di fronte a un imbelle ministro, Sandro Bondi, ha picchiato duro sulla cultura, ma anche su scuola, ricerca, università. E ancora più duro picchierà nella legge di bilancio, la finanziaria 2011.

A metà del Ventesimo secolo il capitalismo occidentale sembrò vicino alla definitiva soluzione della questione sociale. Lo sviluppo economico non seguiva più il modello "marxiano" dello sfruttamento del lavoro; i salari potevano salire nella stessa misura dell´aumento della produttività senza intaccare i profitti, integrandosi nel meccanismo dello sviluppo e integrando i lavoratori nella struttura sociale. Questa combinazione virtuosa dipendeva da una condizione fondamentale: che i lavoratori disponessero di una loro organizzazione, il sindacato, tanto forte da sostenere i loro rapporti di forza con le imprese capitalistiche.

Questa condizione è venuta meno con la liberalizzazione mondiale dei movimenti di capitale intervenuta verso la fine del secolo, e con la conseguente globalizzazione dell´economia. Le grandi imprese, libere di spostare i loro investimenti in tutto il mondo, sono in grado di "ricattare" i lavoratori dei vari paesi. Questo è il senso del brutale ma ineccepibile vangelo di Marchionne.

La scomparsa della invisibile frontiera tra il capitalismo avanzato dell´Occidente e le economie sottosviluppate del resto del mondo ha risospinto il primo indietro nel tempo, riproponendo condizioni di divisione e di concorrenza tra i proletari di tutti i paesi.

Sembra, oggi, che restino due vie: sottrarsi a questa concorrenza ricorrendo al protezionismo; o accettare per un tempo indefinito la pressione di quella concorrenza con una svalutazione del lavoro, che si manifesta nella flessibilità dei salari e nella precarizzazione dei contratti.

Un’alternativa, veramente, c´è: convertire il lavoro da attività più tradizionali, esposte alla concorrenza, ad attività più specializzate e "competenti": un processo che è spontaneamente in corso: ma che è pur sempre condizionato nel tempo (la concorrenza "insegue", spostandosi verso le attività più specializzate) e nello spazio (quel processo non può investire che settori limitati).

C´è però un´altra alternativa, più vasta e radicale, che riguarda non il modo di produzione ma il modo di impiego delle risorse: il rapporto tra consumi privati e spesa sociale. È solo nell´ambito dei primi che agisce la concorrenza tra i produttori. In una società che destinasse ai telefonini la metà della spesa attuale e all´istruzione generale permanente il doppio (assumendo questi due tipi di beni come rappresentativi delle due categorie) il ricatto evangelico di Marchionne sarebbe molto meno efficace. Ciò comporterebbe ovviamente uno spostamento massiccio della tassazione dall´istruzione ai telefonini. Vaste programme, avrebbe detto De Gaulle. Ma è proprio un programma così vasto, di riorientamento delle preferenze, delle scelte, dei valori, che dovrebbe costituire l´impegno politico, anzi, propriamente, la ragion d´essere di una sinistra che insegue oggi vanamente la "concretezza" della sua agenda irrisoria.

Non sono certo che l'era berlusconiana sia finita. Sono invece certo, certissimo, che ogni giorno che passa il proseguimento dell'era berlusconiana porta il paese sempre più verso la catastrofe.

Perché non proviamo a ragionare per punti, secondo le regole di una buona sequenza logica? Ora, il punto iniziale di ogni corretto ragionamento oggi, quale che ne sia poi lo sbocco finale, - quale che ne sia, ripeto, lo sbocco finale, - è che il proseguimento dell'era berlosconiana porta il paese sempre più verso la catastrofe: catastrofe politica, istituzionale, economica, sociale, civile, morale. (Intendo «catastrofe» nel suo senso più vasto: dissoluzione dei legami di unità nazionale; sfascio dei meccanismi decisionali; incapacità ormai definitiva di risollevarsi dal baratro).

Vorrei proprio vedere gli argomenti di chi si provi a dimostrare che le cose non stanno così (anzi, è proprio su questo fondamentale discrimine dell'analisi che si verifica la prima, grande e per ora decisiva separazione dei due elementari, generalissimi fronti: fra chi è tuttora a favore della prosecuzione dell'era berlusconiana; e chi le è ormai decisamete contrario). Ma se le cose stanno così, come non arrivare rapidamente (e quasi facilmente: naturalmente non ne ignoro le immense difficoltà, come dirò, ma per ora m'interessa fissare il punto logico) alla seguente riflessione: per tentare di evitare la catastrofe (se siamo ancora in tempo), non c'è che da mettere fine il più rapidamente possibile all'era berlusconiana.

Mettere fine seriamente all'era berlusconiana dipende, non c'è dubbio, da molti fattori e da molte forze, se guardiamo alle cose in profondità, e cioè agli innumerervoli germi portatori di catastrofe, che l'era berlusconiana ha generato, proliferato e scatenato in tutte le direzioni e con molteplici travestimenti. Ma nell'immediato dipende innanzi tutto dalle scelte parlamentari del partito finiamo. Ho manifestato all'inizio simpatia per il complesso di ripensamenti, non solo politici ma culturali, cui la nascita di questo tentativo di creare una destra autentica e pulita, si è richiamata (andando incontro, anche a molti mugugni di sinistra). Ora però provo lì'impressione di un avvitamento dell'esperimento intorno a ragioni fondamentalmente tattiche e di opportunità. Se ciò dovesse avvenire, l'esperimento rivelerebbe di avere fiato corto e prospettive poco ambiziose: male, molto male, per un movimento nascente (o rinascente su nuove basi). Il secondo punto della sequenza logica, dunque, è affidato essenzialmente alle decisioni prossime future del Fli. Mi rendo conto che a qualcuno possa dispiacere, ma è così.

Del resto, io credo che, non solo per Fini e i finiani ma un po' per tutti sia ormai arrivato l'hic Rhodus hic salta. Non è vero che incombe ancora, sulle aule del sempre più malmesso Parlamento italiano, il cosiddetto Lodo Alfano? Allora, il terzo punto della sequenza logica è: una legge che protegga dalla «persecuzione giudiziaria» (strano concetto, peraltro!) le alte cariche di uno Stato è pensabile e ammissibile, forse, in una situazione di totale normalità istituzionale ed etico-politica. Ma una legge che cala su di un paese disastrato nel momento stesso in cui un'ondata di sporcizia e di fango sommerge, ormai strutturalmente e direi geneticamente, alcune di quelle figure, - anzi una, quella per cui tutto l'osceno teatrino è stato immaginato e montato, - come può essere giustificata, accettata e tranquillamente votata? Il cosiddetto Lodo Alfano dunque non è più votabile in nessuna delle forme più o meno attenuate in cui è stato presentato e discusso. Più esattamente: chiunque voti oggi il Lodo Alfano è fuori da qualsiasi ipotesi di ricostruzione democratica. Anche qui, a qualcuno può dispiacere, ma è così.

Il punto successivo è una domanda: esistono le condizioni per cui questa scelta che si preannuncia dirompente (perché, bisogna saperlo, di una scelta dirompente si tratta) si realizzi e faccia fronte agli innumerevoli ostacoli che le saranno frapposti? (Il ricorso alla piazza ventilato più volte negli ultimi giorni disegna un ulteriore scenario della catastrofe nazionale: quello eversivo). Le condizioni parlamentari esistono. Anche in questo caso con un ulteriore requisito: a un governo, per quanto provvisorio, di «ricostruzione democratica» non possono in nessun modo essere chiamati a partecipare quanti hanno costituito in questi anni il tessuto solidale dell'era berlusconiana, e cioè (et pour cause) il medesimo Berlusconi, qualsiasi altro esponente del Pdl in quanto rappresentative del Pdl e in Lega: possono, anzi dovrebbero partecipare senza esclusione alcuna, tutti gli altri, o per meglio dire, tutti quelli che in un modo o nell'altro, prima o poi, hanno contribuito a mettere la parola fine, all'era berlusconiana.

Insisto: un governo siffatto dev'essere estremamente serio e robusto, altrimenti non reggerà all'urto. Se non sarà così, - lo dico molto sinceramente, - meglio imboccare dall'inizio un'altra sequenza logica. Un «governicchio» che nasce deliberatamente a tempo, quali che ne siano le finalità, non serve a niente, anzi è destinato a peggiorare le cose. Per essere un governo serio e robusto, non potrà limitarsi alla riscrittura della legge elettorale, misura per altro da prendere fra le prime: la gente non capirebbe, penserebbe che un gigantesco terremoto è stato provocato solo per far vincere i perdenti. E allora cosa?

Esiste innanzi tutto l'amplissimo e praticabilissimo campo delle regole, nel quale forze eterogenee dal punto di vista della tradizione e delle prospettive, possono trovare un'intesa, diciamo, «costituzional-repubblicana»: i problemi della comunicazione e della libertà (sostanziale) di espressione; la separazione dei poteri; la difesa della legalità e il rispetto della magistratura; la lotta alla corruzione e all'evasione fiscale; la rivendicazione e la difesa dell'unità nazionale (non sarebbe auspicabile che per il 150°, il quale attende finalmente da una qualche parte un soffio vitale di entusiasmo e di condivisione, ci sia un governo italiano autentico di patriottismo repubblicano?). Insomma, i prodromi della «ricostruzione democratica», che precedono e condizionano tutto il resto. Ma forse non è impossibile pensare, con il medesimo spirito, che anche la lotta per la difesa e il rilancio della scuola pubblica, dell'Università e della ricerca, possa essere inscritto in questo capitolo, dopo la vergognosa stagione gelminiana.

E l'economia? Sì, è vero, in quel campo eterogeneo di forze, di cui stiamo parlando, esistono, per dirla con estrema approssimazione, sia i sostenitori di Marchionne sia i sostenitori della linea Fiom. Ma forse nell'immediato anche questa contraddizione si può ragionevolmente affrontare, se il problema è, come dicevo, evitare la catastrofe, la catastrofe non giova agli operai, di sicuro molto meno che ai padroni; oggi più di sempre, direi. E forse, sempre nell'immediato, salvare l'economia nazionale, che sta andando anch'essa come tutto il resto verso la catastrofe, si può, al tempo stesso frenando, impedendo, invertendo di rotta la débâcle operaia.

Periferie, il piano d'oro di Alemanno

di Eleonora Martini

Tra le proteste dei movimenti di lotta per la casa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha presentato ieri il «masterplan sulla riqualificazione urbanistica di Tor Bella Monaca». E, contrariamente a quanto preannunciato e propagandato, lo ha fatto nella cornice più rassicurante dell'auditorium dell'università Tor Vergata, non certo nel cuore del quartiere tra i più degradati dell'estrema periferia est della capitale. Il piano, affidato «a titolo gratuito» all'architetto lussemburghese Leon Krier, prevede la «demolizione programmata» del quartiere, in particolare le cosiddette "torri", il peggio dell'edilizia popolare anni '80, preceduta dalla costruzione «nelle aree libere esterne» al quartiere «di nuovi alloggi pubblici, la cui altezza non supererà i quattro piani, destinati ai residenti». Al posto degli edifici demoliti, secondo il masterplan, saranno realizzate aree verdi, strade, piazze, servizi, «allo scopo di far riscoprire il valore dello spazio pubblico». Bello no? E allora vediamo i numeri: rispetto ai 629 mila metri quadri di Superficie utile lorda (Sul) attualmente costruiti su 77,7 ettari di territorio, con una volumetria complessiva di oltre 2 milioni di metri cubi, tra «cinque anni» la superficie lorda utilizzata sarà quasi il doppio (1.100.000 mq), l'area edificata salirà fino a 96,7 ettari, e la volumetria arriverà addirittura a 3.520.000 metri cubi. Altro che villette: cemento quasi raddoppiato. Al posto degli attuali 28 mila abitanti su 78 ettari circa (300 abitanti a ettaro), il piano prevede un incremento della popolazione fino a 44 mila abitanti. Che su 100 ettari circa fa 440 abitanti a ettaro. Altro che «tipologia abitativa meno densa»: qualcosa che assomiglia più alla speculazione edilizia anni '60 di viale Marconi, per esempio. Il tutto a costo zero per l'amministrazione, malgrado per «l'intera operazione» si spenderanno 1.045 miliardi di euro. Ma, spiega Alemanno tra le grida dei cittadini che protestano, sarà tutto pagato dai privati.

Riqualificazione? No: debiti pagati col cemento

di Paolo Berdini

Era apparso subito misterioso il motivo per cui il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, avesse deciso di realizzare case a bassa densità al posto del quartiere di Tor Bella Monaca, proprio ora che i comuni non hanno un soldo per fare alcunché. Ci sarà tempo per valutare nel merito il "piano direttore" presentato ieri alla città. Ma fin d'ora è possibile rendere chiari quali siano le motivazioni della estemporanea proposta.

Le motivazioni stanno nella deliberazione n. 3 del 5 ottobre 2009 presa dallo stesso sindaco Alemanno nella veste di Commissario straordinario di governo per il piano di rientro del comune di Roma. Come si ricorderà, nel primo periodo di vita della giunta di centrodestra ci fu una forte polemica riguardo l'ammontare del buco economico lasciato dall'amministrazione precedente: per questo il governo Berlusconi affidò poteri speciali al sindaco proprio per definire tempi e modalità di rientro.

La deliberazione in questione è un riconoscimento di debito nei confronti degli eredi Vaselli, famiglia di grandi proprietari terrieri. A seguito di espropri mai perfezionati proprio per la realizzazione di Tor Bella Monaca il comune fu chiamato in causa dai Vaselli e perse la prima causa civile. L'amministrazione presentò appello, ma avviò contemporaneamente procedure riservate per la chiusura bonaria del debito. Così nel 2007 - amministrazione Veltroni - furono stanziati quasi 76 milioni di euro per chiudere le controversie con i Vaselli ed una parte di essi furono pagati. Mancavano altri creditori e così il sindaco-commissario deliberava di pagare i restanti 55 milioni di euro: per capire di quale folle buco stiamo parlando, in un solo anno sono stati riconosciuti ai Vaselli 1.343.000 euro di interessi per ritardato pagamento!

Ecco perché durante la scorsa estate il sindaco ha avuto l'idea di "recuperare" Tor Bella Monaca. Se si demoliscono anche parzialmente le attuali abitazioni, occorrerà trovare terreni liberi per costruire quelle nuove. E, guarda caso, le aree libere intorno a Tor Bella Monaca sono di proprietà degli eredi Vaselli. Costruisco nuove case sui terreni dei creditori del comune e tutto finisce in gloria.

Una considerazioni finale. Da conteggi attendibili e rigorosi sembra che il debito contratto dal comune di Roma con la rapace proprietà dei suoli è stimato nell'ordine di 1,5 - 2 miliardi di euro. Se applichiamo il metodo Tor Bella Monaca, e cioè riconoscere cubature in cambio della cancellazione del debito, dovremmo costruire in ogni centimetro della città. Una follia.

Ma come mai, chiediamo, negli ininterrotti 15 anni di amministrazione di centrosinistra nessuno ha mai lanciato l'allarme su questa situazione inedita nel panorama europeo? Non se ne è accorta nemmeno l'Anci che con il presidente Leonardo Domenici non ha mai posto la questione con la dovuta forza, forse perché nella veste di sindaco di Firenze era troppo impegnato nelle trattative della peggiore urbanistica contrattata. Nessuno ha dunque fiatato e i comuni italiani sono stati lasciati in preda ai proprietari dei terreni. Non ci sono più leggi e i comuni che vogliono fare qualsiasi opera pubblica sono costretti a regalare milioni di metri cubi di cemento. E' così anche nell'ultimo caso della Formula 1 da svolgersi all'Eur. Il tanto mitizzato privato non ci mette un soldo: è il comune che paga l'operazione vendendo aree pubbliche che ospiteranno una nuova colata di cemento. Sono anni che il manifesto lo denuncia con forza ma il palazzo fa finta di nulla, impegnato a discutere d'altro. Come il finto recupero di Tor Bella Monaca.Finto perché i documenti consegnati ieri dicono che ai privati verranno "regalati" 1.500.000 metri cubi di cemento e che la densità abitativa passerà dagli attuali 300 abitanti ettaro a 440: una mostruosa speculazione edilizia. Come alla Magliana o viale Marconi. Altro che villette!

PostillaLa storia è agghiacciante. Eccola in sintesi nei suoi lineamenti generali. Nel 1977 una legge presentata dal ministro Bucalossi e tarpata dal Parlamento in un suo punto essenziale (il regime dei suoli), definì le nuove norme per gli espropri. La Corte costituzionale invalidò le nuove norme. Il Parlamento non corse mai ai ripari: l’attenzione ai problemi della città scomparve. Si dimenticò l’insegnamento che veniva dalle esperienze condotte da un paio di secoli negli stati liberali e in quelli delle socialdemocrazie europei, e perfino da quello fascista: la necessità di combattere gli incrementi della rendita per garantire città orfdinate e funnzionanti. I comuni furono lasciati allo sbando: perfino le associazioni che li rappresentavano, come l’ANCI, o come li sostenevano su questi problemi, come l’INU, abbandonarono le battaglie del passato. Non parliamo dei partiti: anche per quelli di “sinistra” la rendita divenne qualcosa che alimentava lo “sviluppo”, la pianificazione urbanistica un insieme di lacci e lacciuoli, l’esproprio una bestemmia.

Adesso se ne paga il prezzo. Assaliti dalla grande proprietà fondiari i comuni stanno perdendo le cause intentate dai privati sulla base delle sentenze costituzionali. Come fanno per resistere? Alemanno dà il segnale: bisogna cedere e anzi raddoppire il prezzo. E’ la strada giusta?

Come quando fuori piove. Il film di Monicelli (1999) è ambientato a Cittadella, nel Veneto profondo; e parla di gioco d’azzardo, di lotterie, di ipocrisie, dell’etica declive di questa terra. Nel Veneto profondo è piovuto per quattro giorni, con poche soste. Per qualche ora, se n’è parlato anche sui giornali nazionali; ma lo stesso sig. Zaia paventa ciò che ineluttabilmente avverrà, ovvero la riduzione del cataclisma alle dimensioni dell’allagamento di una cantina; meglio ancora, di una taverna.

Chi abita a Venezia, che non è Veneto profondo, percepisce sul viso il caldo dello scirocco e si spiega d’emblée l’acqua alta di ieri, quelle che verranno: la prima cosa che si racconta ai “foresti” è che l’acqua alta non dipende dalla pioggia, che è invece un fenomeno legato alle maree e a un gran numero di variabili in larga parte non meteorologiche; e infatti capita di sentire la sirena (codice giallo, codice arancio; codice rosso, perfino, come il primo dicembre dell’anno scorso) anche quando fuori c’è un sole a palla.

Dunque al diavolo le foto di Venezia con l’acqua alta. Alta è la temperatura che si sente anche in Laguna, e che ha sciolto le nevi fresche sui monti, e tutta quell’acqua, lassù, aumentata strada facendo dalla pioggia insistente, doveva pure venire giù in qualche modo. Che modi. Vicenza sott’acqua, Padova lambita, le campagne a mollo, gli ospedali evacuati, le strade interrotte. In un paese aduso a Giampilieri, a Sarno, ad Atrani, o alle periodiche esondazioni della Versilia, il fenomeno passa nel taglio basso, come erba da accorpare al fascio degli episodi analoghi (ormai dozzine negli ultimi anni) tra Pordenone, la Marca, il Polesine, il Veronese. E le immancabili geremiadi contro il dissesto idrogeologico vengono lasciate alle immancabili cassandre, ai menagrami che al prossimo giro diranno l’avevamo detto.

Ma forse il caso presente, con gli scantinati del Teatro Olimpico a mollo e le viuzze palladiane fatte canali, può rappresentare un’occasione per ricordare, sobriamente, laicamente, che non siamo soltanto in balìa di Giove Pluvio; che anche lontano dalle trame speculative della camorra, della mafia, delle bande notoriamente irrispettose del terreno (o territorio?) sul quale insistono, anche qui sono stati compiuti negli anni degli errori, nei quali si persevera pervicacemente. Non si può ridurre la questione – come fanno alcune opposizioni – al recente taglio dei fondi nazionali e regionali per il restauro idrogeologico delle aree più a rischio (tra le quali, singolarmente, proprio Vicenza); né denunciare – come pure è doveroso – l’insofferenza di alcuni settori dell’ormai ventennale governo destrorso veneto verso i consorzi di bonifica, che svolgono un’insostituibile anche se non sempre efficace funzione di tutela “sul territorio” (la formula magica).

Gli eventi alluvionali sono legati a uno sviluppo urbanistico e abitativo che nel Nordest ha seguito un modello a un tempo disordinato e preciso, nell’atrofizzazione degli spazi pubblici a vantaggio dell’abitare privato, nella cementificazione di larghi settori della pianura in nome dei capannoni (oggi spesso vuoti), dei concessionari (oggi spesso falliti), delle villette familiari dove si vive come in un bunker e dopo la colazione da Mulino Bianco si esce, rigorosamente col SUV, magari per fruire delle donnine allegre che-infangano-il-nostro-territorio. Tutto questo, tecnicamente, ha un nome dotto, nato dall’indagine sociologica americana: “privatopia”. Ma il Veneto è diventato un pezzo di America, di Los Angeles?

La piena di questi giorni viene a ricordare che qui non stiamo facendo accademia: le denunce di Andrea Zanzotto o di Salvatore Settis non hanno a che fare solo con i restauri filologici dei paesaggi di Giorgione e Cima da Conegliano, con l’atmosfera del galateo in bosco o con la nostalgia per un mondo di piccole virtù: non sono discorsi di intellettuali slegati dal mondo, ma portano (vorrebbero portare) al centro del dibattito pubblico la distruzione delle venule di drenaggio, l’intubazione (proprio così, come con i malati gravi o i neonati prematuri) dei canali di scolo, l’assedio cementizio agli spazi golenali, l’ostinata impermeabilizzazione di superfici con l’asfalto, l’erosione dei suoli fertili per un’agricoltura ormai confinata a inerte memoria del passato; e la negligenza delle oggi invocate “verifiche di compatibilità idraulica”, degli oggi millantati “Piani di assetto idrogeologico”.

La campagna che nel 1739 Charles de Brosses riteneva valesse “forse da sola il viaggio in Italia” è oggi impantanata non per una strana nemesi divina, ma perché sono state fatte determinate scelte, lucidamente esposte e denunciate con rigore scientifico e passione in un volume del 2005 di Francesco Vallerani e Mauro Varotto, Il grigio oltre le siepi: Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto. Un volume – è bene precisarlo – che invece di ricevere un premio per il coraggio e l’acutezza dell’analisi ha condotto gli autori a un processo prima in sede civile e poi anche in sede penale, con l’accusa di aver diffamato una zincheria.

L’idrografia padana, come sa qualunque visitatore di Treviso o di Milano (dove per inciso ieri sono di nuovo esondati Seveso e Lambro), è un fatto complesso, che incide sulla percezione “identitaria” dello spazio come sulla vita quotidiana di chi lo abita: non a caso si è parlato per queste terre di una vera e propria “civiltà delle acque” (è il titolo di una raccolta di saggi sulla cultura popolare curata nel 1993 da un linguista, Mario Cortelazzo), e non a caso si indica specificamente nel Veneto un modello interessante a livello mondiale per l’inusitata ricchezza di risorse idriche e per la multiforme sfida rappresentata della loro gestione. Nello spazio antropico ormai drammaticamente mutato, s’imporrebbe la creazione di “corridoi fluviali”, nel senso indicato dallo stesso Vallerani come rispetto delle specificità naturali e invenzione di nuove modalità di utilizzo del suolo: il libro Acque a Nordest (Cierredizioni 2004) è un’indagine su Brenta, Sile, Piave come modelli positivi o negativi di trasformazione dell’identità di un fiume dall’Ottocento ai tempi nostri; lì s’impara anche a suon di esempi quante forze vengano profuse per la salvaguardia e la valorizzazione dei fiumi da comitati e unioni e associazioni a livello locale (penso per es. agli “Amissi del Piovego”, che in Padova si battono per una diversa cultura e coscienza idrografica), talora anche da singole amministrazioni lungimiranti.

Ma quello che sembra mancare è una riflessione di sistema, che impegni le autorità regionali (non che quelle nazionali) a indirizzare altrimenti gli investimenti e le attività di controllo. Chi se ne voglia convincere può leggere gli articoli di un uomo che conosceva l’acqua di queste terre come pochi altri: Il respiro delle acque di Renzo Franzin (Nuova dimensione, 2006). S’imporrebbe, se non altro, la meditazione di quanto è drammaticamente accaduto in contesti limitrofi, come quello del Piave, un fiume buono per la retorica patriottarda (e ultimamente xenofoba), ma sfiancato dall’artificializzazione e dal depauperamento inflittigli da un piano idroelettrico insensato, che annovera tra i suoi “danni collaterali” la catastrofe del Vajont. Perché nell’idrografia odierna del Nordest non pesano solo le alluvioni: pesa anche, paradossalmente, la siccità.

Ieri passando in treno sopra il Brenta ho notato che l’acqua del fiume faceva la barba ai binari. Mi è venuto in mente che nell’avvio del XV canto dell’Inferno (quello dei sodomiti) Dante paragona gli argini del Flegetonte a quelli costruiti dai “Padoan lungo la Brenta, 
per difender lor ville e lor castelli” (vv. 7-8). Verrebbe da chiedersi dove sia finita tanta sapienza costruttiva, se negli ultimi anni attorno alla Cappella degli Scrovegni, che sorge a pochi passi dal Bacchiglione, si è costruito un costosissimo e brutto monumento all’11 settembre proprio in area golenale (“World Trade Center Memorial“, di Daniel Libeskind: mica da ridere), si è lasciato il cenobio degli Eremitani in preda agli allagamenti, si è ventilata l’edificabilità dell’appena smantellata stazione degli autobus (dove invece, nei progetti originari, doveva sorgere un auditorium).

Il Bacchiglione è appunto il fiume esondato ieri. Un dovizioso volume edito dalla Regione del Veneto nel 2005, sotto il titolo Il Veneto e il suo ambiente nel XXI secolo, dedicava un’intera sezione, densa di grafici e di promesse, alla gestione dell’acqua. Per un caso della sorte, le pp. 136-37 presentavano come unico studio di caso proprio la valutazione dell’Indice di Funzionalità Fluviale del Bacchiglione, sulla base di rilevazioni condotte dall’Arpav nel 2002 e nel 2003. L’esame, che misurava diversi parametri chimici, fisici e territoriali del fiume, svelava un IFF mediocre per il 55% del corso, scadente per il 42%, buono per il 3%. Non solo, ma dei tre “macrotratti” in cui era diviso il corso del Bacchiglione, si evidenziavano come punti particolarmente critici la periferia sud di Padova e il tratto cittadino di Vicenza. I medesimi posti che ieri – diversi anni dopo, per un caso della sorte – sono finiti sotto.

In questo senso, che Palladio rischi di andare a remengo “sotto i cingoli dei diluvi” (come recita un verso folgorante dei Conglomerati di Zanzotto) è quasi il simbolo di una decisa virata nella direzione di sviluppo di questa terra, il segno di un nuovo modello culturale che sembra lasciare pochi margini di reversibilità. Proprio di Vicenza è uno dei più grandi scrittori nordestini viventi, quel Vitaliano Trevisan che nei Quindicimila passi, ma anche nel più recente Il ponte, documenta fra l’altro il malessere del paesaggio, l’isteria urbanistica e il conseguente ingrigirsi delle menti, l’architettura da karaoke e le ammiccanti “pompeiane” che finiscono a decorare le villette dopo essere state pubblicizzate da testimonials incongruamente discinte, a tarda sera, sulle tivù locali. E la racconta non sotto la specie del saggista o del geografo, ma nell’ottica di chi indaga en homme de lettres il sentimento delle cose e i modi di convivenza e desistenza degli uomini.

Sono andate sott’acqua le taverne, e con esse magari le consolles dei “tavernicoli”, quel singolare stadio dell’evoluzione che Marco Paolini ha ritratto nel Bestiario veneto, sciorinando le insegne e le imprese di un miracolo i cui piedi d’argilla vacillano in tempi di crisi. Viene il sospetto che sia tuto una metonimia per la trasformazione dell’Italia tutta in una lunga taverna, dove fuori (come quando fuori piove) Giove Pluvio porta via il bambino con l’acqua sporca, e dentro, illudendosi d’essere al riparo, gli Eletti fanno battute consone al luogo. Una Taverna del Re?

L’eccellenza è finita sott’acqua. E i veneti si sono scoperti d’improvviso umani e vulnerabili, come ha osservato Ferdinando Camon. Proprio loro che, grazie a un modello di business applaudito in tutto il mondo, avevano dimostrato come si può uscire a tappe forzate dalla povertà e diventare i tedeschi della situazione, ora sono costretti a leccarsi le ferite. La furia della pioggia li ha messi in ginocchio e ha spinto qualcuno addirittura all'autocritica. Roberto Zuccato, presidente degli industriali di Vicenza, la provincia più colpita, ha dichiarato alla Stampa che «stiamo pagando il prezzo della cementificazione e del boom».

E la sortita ha creato più d’un imbarazzo tra gli imprenditori. Così come qualche mal di pancia è venuto fuori per l’articolo sulla Padania di Marco Reguzzoni, capogruppo leghista a Montecitorio. Il pezzo recitava: «In questi giorni, diversamente da quanto purtroppo accaduto in altre zone del Paese, a Varese il fiume Olona non è esondato, grazie alla nostra diga di Malnate». E letto da Vicenza suonava così: «Noi leghisti di Varese le opere di risanamento idrogeologico le abbiamo fatte e voi invece?». Romeo La Pietra è di Udine, presiede il centro studi del Consiglio nazionale degli Ingegneri e non ha remore a convenire che «il territorio in Veneto è stato sollecitato senza una strategia ben definita». È mancata una visione integrata, «una cultura che programmasse lo sviluppo assieme all’equilibrio idrogeologico».

Pur nella melma i veneti non cedono quanto a patriottismo e da qui le facili battute su cosa sarebbe capitato se Giove Pluvio se la fosse presa con la stessa cattiveria non con il Nord Est ma con la Sicilia. Un leghista, il senatore vicentino Paolo Franco, ha trovato persino il tempo per polemizzare con i giornali nazionali rei di aver dato più spazio all’immondizia di Terzigno che all’alluvione di Caldogno e di Casalserugo. «Il Veneto non fa parte della nazione. Esiste solo per essere spremuto». Anche nel giorno più difficile per i propri elettori, Pdl e Lega hanno trovato il modo di far baruffa. L’onorevole Fabio Gava ha attaccato gli alleati sui consorzi di bonifica: a suo dire sono tutt’altro che dei carrozzoni inutili da abolire come pensa e chiedono gli uomini di Umberto Bossi.

In tempo di revisionismo sul modello di sviluppo nordestino gli industriali colleghi di Zuccato stanno in campana. La Grande Crisi morde ancora e come si fa a dire agli associati, che rischiano di dover licenziare i propri dipendenti, «stiamo pagando gli errori di quando siamo cresciuti troppo»? Così chi ha buoni dati da comunicare se ne infischia del revisionismo. Ieri ad esempio la Confindustria patavina ha fatto sapere, per bocca del suo presidente Francesco Peghin, c he nel secondo trimestre 2010 il made in Padova ha segnato +34,6% di export rispetto al 2009, molto più della media veneta (+21,5%). E Andrea Bolla, numero uno degli imprenditori veronesi, chiede un time out. «Di fronte ai disastri e agli sfollati c’è il rischio di tirare conclusioni affrettate». Evitiamo, dunque, l’allarmismo e le analisi cotte e mangiate.

«La fase di sviluppo caotico del Nord Est si è fermata da anni e quindi ci sarebbe stato ampiamente lo spazio temporale per una gestione del territorio più oculata. Si è fatto poco o niente. E se le polemiche di questi giorni possono servire a qualcosa di costruttivo, aggiunge il saggio Bolla, «facciamo partire una nuova fase che tenga insieme la bonifica e l’innovazione». Il presidente veronese è infatti tra i più convinti sostenitori che il Nord Est, se vuole davvero rivedere il suo modello di sviluppo, abbia bisogno di due elementi di modernità: l’alta velocità e la banda larga.

L’equazione troppi capannoni uguale argini che cedono non convince affatto il sociologo Paolo Feltrin. «Diciamo la verità: l’imprevisto esiste e non c’è programmazione che tenga. Se ci sono precipitazioni piovose in eccesso e i mari non riescono a ricevere tutta l’acqua si verificano le alluvioni con le conseguenze che possono avere su una delle zone più popolate d’Europa. Da noi è successo nel ’52, nel ’66 e in questi giorni». Ma non perché abbiamo costruito troppo. « L’urbanizzazione crea problemi ma anche la sua mancanza ne produce. Non esiste la ricetta perfetta». Sono almeno tre i fenomeni socio-economici che non sono stati previsti: lo sviluppo impetuoso, l’alta immigrazione dal terzo mondo e l’allungamento della vita media. Con il risultato che il Veneto nel ’70 aveva 2,1 milioni di abitanti e oggi ne conta 4,9. «Che facciamo? Li deportiamo?».

Smesso il ruolo del sociologo bastian contrario, Feltrin pensa anche lui che si debba migliorare il territorio. La crisi «ce lo consente» perché non abbiamo la pressione della domanda, non servono più manufatti, nuove industrie e nuovi centri direzionali. Anzi, caso mai si tratta di riqualificare quelli che ci sono. A cominciare dai mitici capannoni che si potrebbero rottamare come hanno fatto a Montebelluna e S. Donà di Piave. È vero che per ridisegnare il paesaggio nordestino occorrerebbe avere un’idea più definita di cosa sia un terziario moderno. Ma questo è un discorso da fare con calma. Ora soccorriamo gli sfollati.

Premessa

Nei sistemi di welfare, in particolare in Europa, le politiche pubbliche nel settore delle abitazioni hanno svolto e tuttora svolgono un ruolo fondamentale.

Mediamente nei paesi Europei il patrimonio abitativo pubblico, gestito dagli enti locali o da agenzie a hoc, rappresenta il 20 – 25% del totale dello stock d’abitazioni esistenti, con la rilevante eccezione dei Paesi del Mediterraneo. Nel nostro Paese il patrimonio pubblico può essere stimato attorno al 3 – 4% del totale. Una percentuale risibile. (1)

Va detto tuttavia che in Italia, come in Spagna e in Grecia, questo dato trova una parziale spiegazione nel fatto che il 70 – 80% delle famiglie sono proprietarie dell’abitazione, mentre di norma negli altri Paesi europei non si supera il 50%.

In ogni caso l’offerta pubblica appare assolutamente inadeguata rispetto alla domanda sociale – fra l’altro in crescita per effetto dell’immigrazione e della crisi economica mondiale – determinando così una situazione che non consente alcuna politica d’efficace contenimento degli affitti. (2)

Inoltre in questi ultimi anni i Comuni hanno svenduto parte del loro patrimonio immobiliare per fare cassa.

Le case non mancano, solo che spesso non corrispondono alle esigenze e/o alle tasche delle famiglie. Negli ultimi 10 – 15 anni, si è costruito troppo, ma soprattutto male. Accade così che in un mercato sempre più segmentato e articolato per fasce di reddito e tipologie famigliari possano coesistere enormi eccedenze nell’offerta complessiva d’abitazioni e allo stesso carenze anche forti d’offerta rispetto alla struttura della domanda effettiva d’abitazioni.

Reggio detiene, sotto questo profilo, un non certo invidiabile primato. Per questo motivo le considerazioni qui svolte possono essere estese, in linea di massima, a livello nazionale.

La condizione abitativa a Reggio Emilia

Si calcola che a Reggio Emilia vi siano attualmente circa 7.000 abitazioni invendute, a fronte delle quali abbiamo registrato nel corso del 2009 un aumento del 27% dei depositi bancari.

Una situazione anomala che ha attirato l’attenzione della DIA (direzione investigativa antimafia). Che a Reggio ci sia una forte e radicata presenza di cosche mafiose è cosa arcinota, anche se mai seriamente contrastata.

Il settore in cui esse sono maggiormente presenti è quello dell’edilizia. Ma esse operano anche in altri settori “grigi” dell’economia nei trasporti, nella distribuzione commerciale al dettaglio, nella ristorazione, inoltre controllano il businnes della droga, che ha un ruolo importante nel reperimento dei capitali che vengono poi investiti, non solo per ampliare il mercato della droga, ma anche e principalmente nei settori “grigi” dell’economia.

Si tratta di fenomeni con una lunga storia alle spalle e ormai profondamente radicati nel tessuto urbano della città, dando origine ha fenomeni d’intolleranza e di disgregazione sociale. Il mito di Reggio Emilia città solidale mostra ormai crepe profonde e sempre più, negli episodi della vita quotidiana, si manifesta per quello che è: una balla politica! (3)

Tali fenomeni sono in vario modo conseguenza ed espressione del modello di sviluppo che Reggio Emilia ha avuto in questi ultimi 15 anni: uno sviluppo fondato su una crescita prevalentemente estensiva e di tipo quantitativo - pur non mancando le eccellenze - che ha portato ad un forte incremento demografico per effetto dell’immigrazione dai paesi extracomunitari e dal mezzogiorno: l’aumento della popolazione residente è stato di oltre il 25% negli ultimi 15 anni, un primato a livello nazionale fra le città capoluogo di provincia. La città si avvia ormai a contare 170.000 abitanti, cui si aggiungono diverse migliaia di clandestini.

Il nuovo piano strutturale, se realizzato, determinerà una crescita: stimata fra i 35.000 e i 50.000 abitanti, a seconda delle stime, mentre il territorio urbanizzato dovrebbe passare dagli attuali 31 Kmq ai 45 Kmq.

Neppure l’intensità e la durata della crisi economica che, probabilmente, farà sì che queste cifre saranno largamente disattese, hanno indotto l’amministrazione comunale ad andare ad una rivisitazione del potenziale di crescita espresso dagli strumenti urbanistici in vigore, basti pensare al convegno “Gli Stati Generali dell’Area Nord”, tenuto in piena campagna elettorale per le regionali, convegno nel quale tutti i grandi progetti sono stati rilanciati in una logica da anni sessanta. Ma si sa la nostra amministrazione continua ad essere prigioniera del mito.

Nella Francia degli anni cinquanta si diceva “Quand lo batiment va tout va”. Da allora sono passate due generazioni e mezzo, forse quel mito andrebbe rivisto, anche perchè di territorio da divorare c’è n’è sempre di meno.

Il mercato dell’edilizia abitativa è completamento bloccato. Il paradosso al quale stiamo assistendo è che con 7.000 abitazioni vuote, gli sfratti sono in continuo aumento. La crisi ha impoverito vasti settori di ceto medio, che hanno sempre più difficoltà ad accedere al bene casa: il sogno d’ogni italiano.

Il caso Reggio, quindi non è frutto del caso, ma anche di precise scelte politiche fatte a livello locale, che hanno creato le premesse economiche e urbanistiche per un crollo del mercato, che la crisi internazionale ha fatto poi esplodere con gli effetti perversi che sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Eppure l’Amministrazione comunale era da tempo a conoscenza della situazione che si stava determinando. Da uno studio, commissionato dal Comune di Reggio Emilia a Caire – urbanistica, la cui sintesi è stata pubblicata dalle Edizioni Diabasis “Questione abitativa e politiche per la casa”, risulta che la Provincia di Reggio Emilia è di gran lunga la Provincia della Regione in cui più alta è stata, nel breve scorcio del nuovo secolo, la produzione edilizia, ben al di là del fabbisogno di una popolazione in continuo aumento.

Quello studio dimostra anche come oltre che troppo, si sia costruito male, con tipologie, in particolare, che nulla hanno a che fare con un’edilizia di tipo sociale, l’unica in grado di soddisfare le esigenze degli strati più deboli della popolazione, oltre che con tipologie che non tengono conto delle nuove caratteristiche delle famiglie, che sono profondamente mutate rispetto a quelle ancora prevalenti negli anni settanta.

Non è questa la sede per approfondire tali problematiche, sulle quali intendiamo comunque ritornare in sede di costruzione di una proposta, che sia in grado di dare una risposta adeguata alla gravità della crisi sociale ed economica che stiamo attraversando.

Quello che con queste note vogliamo fare è, piuttosto, di chiarire il senso di una proposta, per altro già anticipata dagli organi di informazione locali, sicuramente innovativa nel panorama nazionale, ma largamente praticata a livello europeo.

L’idea centrale è quella di andare in controtendenza, puntando ad una ricostituzione del patrimonio pubblico, come condizione per dare una risposta credibile alle nuove domande abitative che vanno emergendo e che, nel medio periodo, sono destinate a consolidarsi fino a creare una situazione socialmente ingestibile.

La situazione potrà essere governata solo trovando nuove e ingenti risorse, che a nostro parere esistono, certo non nei bilanci pubblici, a condizione che ci sia la volontà politica di attivarle e metterle in circolazione.

Una proposta ampiamente praticata in Europa. Basti pensare, a titolo d’esempio che la città di Parigi, che certo è ancora lontana dall’aver trovato una soluzione in qualche modo esaustiva al problema dell’abitazione, dispone attualmente di un patrimonio abitativo pubblico imponente: qualcosa come 200.000 appartamenti.

La costruzione di tale patrimonio è stata finanziata dai parigini stessi, attraverso l’acquisto di certificati di credito immobiliari garantiti dal Comune di Parigi sulla base del patrimonio immobiliare, che via, via si è venuto costituendo nel tempo.

Come ricostituire e potenziare il patrimonio abitativo pubblico.

La nostra proposta muove dalla considerazione che alla questione abitativa il mercato non è in grado di dare risposte socialmente soddisfacenti, se così fosse, dato il livello di ricchezza cui sono giunti i Paesi dell’Occidente europeo e del Nord America, il problema sarebbe stato, in quei Paesi, risolto da tempo.

In realtà questi Paesi hanno dovuto dotarsi in varia misura di politiche pubbliche più o meno efficaci e penetranti.

La situazione della nostra città, e più in generale quella dell’Italia intera, può diventare drammatica e socialmente ingestibile, se ad essa non verranno date risposte nuove in grado di fare i conti anche con il fatto, che non è possibile, se non in misura minimale, farlo con soldi pubblici.

Occorre trovare nuove risorse. La situazione economica italiana è caratterizzata, ancora e per fortuna, da una robusta capacità di risparmio delle famiglie e dalla mancanza di alternative sicure per il risparmio privato, specie per quello delle famiglie a reddito medio e medio basso, questo fa sì che nelle banche giacciano grandi quantità di fondi liquidi inoperosi. La situazione reggiana costituisce, sotto questo profilo, un caso esemplare.

Si è creata quella che, nell’economia keynesiana è chiamata “una trappola della liquidità”, per cui nella sola Reggio, a fronte di un ancora elevata liquidità detenuta dalle famiglie, ci sono circa 7.000 appartamenti invenduti, parte dei quali già in mano alla banche e che prima o poi potrebbero essere messi all’asta.

Non c’è bisogno di costruire, basterebbe poterne comprarne una parte e affittarli a canone convenzionato (300 – 350 Euro al mese).

L’operazione potrebbe essere fatta attraverso l’emissione di certificati di credito immobiliare. In pratica il sistema bancario potrebbe collocarli a un tasso del 3%, meglio se superiore. Naturalmente questi certificati sarebbero garantiti dallo stesso patrimonio edilizio, che via, via, verrebbe acquisito dall’ente locale. L’Acer potrebbe/dovrebbe occuparsi della gestione delle abitazioni.

Naturalmente il rendimento deve essere competitivo. Si tenga conto che le famiglie potrebbero trovare conveniente un tasso del 3% che si collocorebbe al di sopra di quello garantito dalle banche virtuale sui depositi. Inoltre sui certificati si pagherebbe un’imposta del 12,5% e non del 27%.

Naturalmente per garantire la collocabilità dei titoli e l’equilibrio finanziario dell’operazione (i costi di gestione sono elevati e probabilmente il rendimento delle abitazioni non basterebbe), bisogna che una parte degli interessi pagati ai sottoscrittori siano sostenuti dal pubblico. I fondi potrebbero provenire da:

- enti locali

- un’apposita legge del governo

- fondazioni bancarie

- eventuale possibilità di attingere ai fondi dai TFR.(4)

- una tassa di scopo.(5)

Naturalmente la proposta va definita tecnicamente e ha bisogno del sostegno di un ampio arco di forze sociali e politiche. Essa inoltre potrebbe/dovrebbe dare luogo ad apposite iniziative legislative.

A questo proposito è necessario verificare rapidamente le esperienze che in Europa non mancano. E costruire una vera e propria piattaforma sulla quale, e qui i sindacati e non solo quelli confederali penso ad esempio alle associazioni dei consumatori, potrebbero avere un ruolo decisivo.

Reggio potrebbe tentare di partire anche subito e proporsi come terreno di sperimentazione. Questo naturalmente comporterebbe un ripensamento e una ridefinizione strategici della politiche abitative e urbanistiche sin qui seguite.

Franco Cefalota, Rossana Benevelli, per Gente di Reggio – Forum dei cittadini.

NOTE.

Ultima versione 01/10/2010. Essa sostanzialmente coincide con quella data alla stampa il 17/10/2010. Il documento, del resto, è aperto ai contenuti di tutti coloro che ne condividono l’ispirazione politica e programmatica. In questo senso vuole mantenere il carattere di work in progress, almeno fino a quando un vero e proprio piano di fattibilità non ne avrà assorbito le istanze e l’ispirazione politica.

(1) Del resto il nostro Paese destinava nel 2005 all’edilizia sociale 5 Euro pro – capite, a fronte delle 396 sterline del Regno Unito.

(2) E’ appena il caso di ricordare che l’Italia ha da tempo rinunciato a una qualsiasi politica abitativa. Le responsabilità dei governi di centro – sinistra sono pesantissime. Nel 1993 (Governo Ciampi) sì da il via alla svendita del patrimonio immobiliare di enti, banche e assicurazioni. Viene meno così uno strumento che, al di là dell’uso distorto e clientelare che n’è stato fatto, in qualche modo contribuiva a calmierare il mercato dell’affitto. Nel 1998 si attua la liberalizzazione degli affitti. Circa gli effetti di tale misura ricordiamo questo due dichiarazioni di Cipolletta (Uffico studi di Confindustria). Nel 2001 Cipolletta annunciava con enfasi :” Il mercato degli affitti deve essere libero, perché aumentando l’offerta, i prezzi scenderanno”. Cinque anni dopo a Vicenza veniva presentato uno studio (firmato anche da Cipolletta) dove, fra l’altro, si legge :”La riforma non ha avuto alcun effetto di rallentamento sulla dinamica dei canoni. Inoltre la penuria di abitazioni a basso costo ha acuito il disagio di determinarti strati di popolazione”. Ancora più esplicite le dichiarazioni di Lorenzo Bellicini (Cresme): “Con la fine degli anni ottanta in Italia non c’era più una questione abitativa”: negli ultimi anni è fragorosamente esplosa, con “fenomeni di sovraffallomento, di coabitazione forzata: condizioni da anni sessanta”. Nel 1999 si consente ai Comuni di vendere le aree Peep. Nel 2007 secondo governo Prodi si consente l’utilizzo degli oneri di urbanizzazione per finanziare la spesa corrente. Il nuovo Governo Berlusconi completa l’opera: abolizione ICI sulla prima casa, aumento fino al 50% della quota di oneri di urbanizzazione per il finanziamento della spesa corrente e infine, ciliegina sulla torta (siamo nel 2009), federalismo demaniale, primo atto per l’attuazione del federalismo fiscale.

(3) Il fatto che la Lega abbia triplicato i voti in cifra assoluta e rappresenti ormai quasi il 18% del corpo elettorale non ha insegnato nulla. Certo la democrazia è fatta di voti e d’idee. Non bastano le buone idee per avere un buon risultato elettorale. Ma forse non sarebbe il caso d’interrogarsi sulle ragioni profonde (strutturali) di un disagio sociale sempre più evidente e smetterla con un atteggiamento predicatorio, stucchevole, talvolta perfino arrogante nella sua presunzione pedagogica, come se i cittadini fossero tutti dai bambini egoisti e viziati.

(4) A questo proposito va detto che è in atto un dibattito nel sindacato. Il modello potrebbe essere quello dei fondi pensioni americani. Per la prima volta nel nostro Paese nell’edilizia sociale opererebbero investitori istituzionali.

(5) A questo proposito giova ricordare la vicenda dei contributi Gescal, istituiti con la legge 805 del 1971. Tali contributi sono serviti a finanziare case per i lavoratori dipendenti e a istituire IACP, successivamente le graduatorie sono state aperte a tutti con il che si è modificata la natura del contributo, che è diventata di fatto una tassa sull’occupazione. Successivamente i contributi Gescal sono stati aboliti di qui la crisi degli IACP. Viene da chiedersi se non sarebbe stato di sostituirli con una tassa di scopo e farli pagare alla generalità dei contribuenti.

postilla

Obiettivi e spirito della proposta sono condivisibili. Occorre però assicurarsi che il prezzo di acquisto sia commisurato ai costi di produzione e non ai valori di mercato, o quantomeno allineato ai valori dell'edilizia convenzionata, per non remunerare oltre misura i percettori della rendita immobiliare. (m.b.)

Nel Veneto delle migliaia di sfollati nelle province di Verona e Padova, della città di Vicenza allagata, dei 121 comuni gravemente colpiti dagli straripamenti, di un disperso a Caldogno per la piena del Bacchiglione, delle frane nel trevigiano e delle strade interrotte, si sono permessi lo stravagante lusso di tagliare perfino i fondi per la manutenzione ordinaria di fiumi e canali. E lo hanno fatto concentrando le sforbiciate proprio nelle zone ora più in sofferenza, Padova e Vicenza. Da un momento all’altro, di colpo, hanno cancellato circa 15 milioni di euro sui 100 impegnati di solito per ripulire i fossi, tenere in efficienza le casse di espansione, consolidare gli argini e riparare paratie e idrovore. È stata una decisione ponderata, presa addirittura con una legge, la numero 12 articolo 37, approvata dalla giunta uscente di Giancarlo Galan e sostenuta dalla stessa maggioranza di centrodestra che ora appoggia il leghista Luca Zaia.

L’intenzione dichiarata era quella di sgravare i cittadini da una tassa, i contributi che i proprietari di immobili fino a quel momento erano tenuti a versare ai Consorzi di bonifica per pagare lo smaltimento delle acque “meteoriche”, cioè le piogge. Al posto dei cittadini, a tirar fuori i soldi sarebbero stati i gestori dei servizi idrici integrati, per esempio le società degli acquedotti. Ma fino a questo momento non hanno versato nemmeno un euro e alla voce manutenzione idrogeologica nei mesi passati sono mancati, appunto, 15 milioni. Con questi quattrini si sarebbero evitati i disastri di questi giorni? Probabilmente no, ma forse i danni sarebbero stati più contenuti.

Di fronte all’esito disastroso delle scelte della giunta veneta, ora pare che tutti, maggioranza e opposizione, vogliano innestare una rapida marcia indietro, approvando un secondo provvedimento a correzione del precedente. Ma intanto il danno è fatto. E mentre il Veneto vive uno dei momenti più dolorosi della sua storia recente, nessuno è ancora in grado di assicurare se alla fine la manutenzione ordinaria sarà rifinanziata davvero e per intero e soprattutto se saranno attuati gli interventi strutturali di prevenzione su cui a parole nei momenti di emergenza tutti concordano, ma che di solito vengono speditamente riposti nei cassetti appena rispunta il primo raggio di sole.

L’Unione dei Consorzi veneti di bonifica, che con i suoi circa 1.300 dipendenti, in prevalenza operai, è uno dei pochi organismi che fa qualcosa perimpedire il peggio curando come può i 6 mila chilometri di canali della regione, ha calcolato che ci vorrebbero circa 750 milioni di euro per ridare sicurezza agli abitanti. Ma il presidente nazionale dell’associazione, Massimo Gargano, da mesi non riesce neppure ad accennare questi programmi al ministro, Stefania Prestigiacomo, da cui non è stato mai ricevuto. E neppure riesce a discutere con un delegato tecnico, magari un direttore generale.

Al Ministero non esiste più neanche una direzione specifica per la Difesa del suolo, è stata soppressa ed accorpata a quella per l’Inquinamento. Fonti ufficiali dicono che la decisione è stata presa nell’ambito di una riorganizzazione complessiva degli uffici che prevedeva la riduzione delle direzioni da 6 a 5, con l’obiettivo di risparmiare. Di fatto, però, in seguito a queste modifiche, i soggetti che dovrebberoavere scambi ripetuti e continui con gli uffici ministeriali sui temi dell’ambiente non trovano più nessuna porta aperta. La faccenda è tanto più anomala perché capita proprio nel momento in cui almeno sulla carta sarebbero disponibili i primi finanziamenti per gli interventi più urgenti, circa 1 miliardo e 200 milioni di euro dei Fas, i fondi per le aree sottoutilizzate, soldi in parte nazionali, ma soprattutto di provenienza comunitaria, da utilizzare con programmi concordati con le Regioni, i comuni e i Consorzi di bonifica.

Intanto, mentre le prime pioggeautunnali portano lutti e disastri, circolano previsioni da brivido per i prossimi mesi ed anni. Il presidente del Consiglio dei geologi, Antonio De Paola, in un voluminoso rapporto sullo stato del territorio redatto alcune settimane fa in collaborazione con il Cresme, il centro di ricerche economiche per l’edilizia, elaborando i dati Istat ha previsto che da ora al 2020 crescerà in maniera massiccia la popolazione nelle zone ad alto rischio sismico ed idrogeologico, circa 700 mila persone in più, in prevalenza immigrati, e metà si insedieranno proprio nel Nordest.

Alla domanda se l’evento è ineluttabile o se al contrario sarebbepossibile impedire che queste previsioni nefaste si avverino, risponde sconsolato che le leggi ci sarebbero e anche severe, ma nessuno, a cominciare dalla maggioranza dei sindaci, ha la minima intenzione di farle rispettare. Grazie alla disinvolta disattenzione delle autorità locali negli ultimi 15 anni è stato costruito ed asfaltato un pezzo d’Italia grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme. Senza contare la marmellata delle case abusive spalmata su tutto il territorio nazionale.

Nel Veneto sott’acqua affonda il modello leghista

di Ernesto Milanesi

L'autostrada chiusa perché invasa da acqua e fango a Soave. Argini che saltano da Monteforte d'Alpone (Verona) fino a Ponte San Nicolò (Padova). Alluvionato il centro storico di Vicenza con Guido Bertolaso impegnato a schierare l'esercito. Traffico paralizzato fino ai confini con il Friuli e interi quartieri evacuati nella notte in mezza regione. Con il terrore che la vera onda di piena non sia ancora passata.

E' Legaland, letteralmente con l'acqua alla gola. Pioggia battente, vento di scirocco e idrovore in tilt hanno trasformato il «cuore» del Veneto in un immenso lago color melma. Il bilancio, finora, parla di un anziano disperso. Ma ha rischiato grosso il teatro Olimpico di Vicenza; s'è svegliata dentro un incubo la Marca trevigiana che frana; annaspa quasi tutto il Veronese; trema, come nel 2002, Motta di Livenza nel veneziano.

Una catastrofe difficile da spacciare per «naturale». Gli effetti si avvicinano alla Grande Alluvione del 1966, quando il Polesine fu sacrificato per salvare Ferrara. Oggi sono la «città metropolitana» e l'ex «locomotiva» a finire in ginocchio perché è definitivamente saltato il salvagente di scolmatori, consorzi di bonifica, manutenzione degli argini.

La verità è che, nel giorno dei morti, affiorano gli effetti del «sistema Galan» ereditato dal governatore leghista Luca Zaia. Ma anche le conseguenze dissennate dell'urbanistica che nei municipi accomuna berlusconiani, centrosinistra e Lega. Contano più gli «eletti» in combutta con gli immobiliaristi di qualsiasi evidenza da buon padre di famiglia. E' l'alluvione dell'incuria, dell'interesse privato, della politica irresponsabile. Il modello veneto imperniato su Grandi Opere, project financing e sussidiarietà si è tradotto in un folle consumo del territorio a senso unico. Ed esattamente come il crac dell'economia era stato annunciato dai documenti ufficiali degli uffici di Bankitalia in piazza San Marco, anche la catastrofe «naturale» si poteva prevedere studiando un dossier di una trentina di pagine.

Pubblicato da Legambiente nel 2009, si intitola «Veneto: cancellare il paesaggio». Spiegava l'architetto Sergio Lironi: «Nel 2004, con la nuova legge regionale urbanistica, i Comuni autorizzano 38 milioni di metri cubi di nuovi capannoni commerciali e 18 milioni di volumetrie residenziali, superando la media di 40 milioni di nuovi fabbricati realizzati annualmente nel Veneto dal 2001 ad oggi». E Tiziano Tempesta del Dipartimento territorio e sistemi agroforestali dell'Università di Padova contabilizzava: «Le abitazioni costruite dal 2000 al 2004 sono in grado di alloggiare 600 mila nuovi abitanti. Anche se rimanessero costanti i tassi d'incremento demografico alimentati dagli immigrati, ci vorrebbero 15 anni per utilizzare tutte le case».

Insomma, era un mega-villaggio architettato snaturando le fondamenta. E' già un immenso non luogo strangolato dal cemento. Sarà sempre più in balìa della natura violentata da ruspe, gru, betoniere? La politica partorisce quasi esclusivamente suggestioni: dalla candidatura alle Olimpiadi 2020 a nuove autostrade, ospedali, centri congressi fino alla gigantografia di Veneto City, la super-fiera delle vanità nella Riviera del Brenta. Nessuno (nemmeno i sindaci del Pd) si concentra sulla «normale manutenzione» del bene comune che si chiama territorio. Oltre l'indistinta melassa dell'ex miracolo economico, incombe l'urbanistica: l'immobiliare che si fa stato permanente degli affari, con la politica che appalta territorio e futuro. Finora nemmeno la «rivoluzione» della Lega di governo ha dimostrato di arginare la tendenza.

Le statistiche sono agghiaccianti. Proprio l'area centrale collassata in questi giorni rappresenta il 25,7% del territorio e accoglie il 50,7% della popolazione nel 47,2% delle abitazioni (ben 930 mila, di cui 80 mila senza inquilini). Nella sola provincia di Vicenza, feudo della Lega, in 50 anni la «macchia» urbanizzata è aumentata del 342%, con un incremento di popolazione limitato al 32%. Significa che i volumi urbani della città diffusa in ogni angolo sono passati da 8.647 ettari a oltre 28 mila: la cementificazione è quadruplicata.

E nella sola Padova con la giunta di centrosinistra del sindaco Flavio Zanonato si sono trasformati oltre 4,7 milioni di metri quadri di aree destinate a verde pubblico in aree di perequazione, delegando ai privati le nuove lottizzazioni in cambio di spezzatini verdi. Cinque anni fa in Regione sono state protocollate 1.276 varianti urbanistiche (più 220% rispetto alla media degli anni precedenti). Si appoggiavano a 389 piani di riqualificazione urbanistica e ambientale attuati nel biennio 2005-2006: la soluzione più semplice per costruire. Sempre e comunque. Anche a costo di veder tracimare torrenti fin dentro il «salotto» di Vicenza o il castello di Soave. L'autostrada a tre corsie chiusa è l'emblema del Veneto che annaspa. Nella sua stessa melma. E non sarà l'ultima volta...

Un disastro a chilometro zero

di Gianfranco Bettin

«Quando la natura si ribella, accade questo... è un indice di grande cambiamento climatico»: a parlare non è un militante ambientalista ma il governatore del Veneto, Luca Zaia, a commento dell'emergenza meteorologica e idraulica di queste drammatiche ore, da lui definita «peggiore che nel 1966». Paragoni storici a parte, Zaia ha ovviamente ragione: lo spettacolo che il Veneto e l'intero Nordest offrono in queste ore è quello di territori in rovinoso subbuglio, di centri abitati e di comunità sconvolte, in preda a un'emergenza che, puntualmente, si affida a Bertolaso (che svolazza in elicottero sopra città e campagne, planando di prefettura in prefettura) e alla proclamazione richiesta dello stato d'emergenza. Zaia invita ad affrontare i compiti urgenti del momento. E va bene, sul campo. Ma in sede di analisi bisogna dire che emergenza e normalità - ormai, nell'attuale situazione storica, consolidata, strutturale, di questi territori - sono tutt'uno anche quando non piove.

Quando piove, il disastro si vede meglio. Ma anche nei giorni di sole non si faticherebbe a vederlo. È su questo che Zaia si dovrebbe pronunciare. Non c'è in Italia un territorio che sia stato più stravolto di questo in un tempo più breve. Questa è la radice del «dissesto idro-geologico» che in queste ore echeggia di bocca in bocca e ad esso hanno posto mano innumerevoli protagonisti. Infatti, se vi sono catastrofi nate da responsabilità accentrate, come per il Vajont o come per la nascita e lo sviluppo di una Porto Marghera in piena laguna e in pieno centro abitato, per ridurre in questi stati un'intera vasta regione ci sono volute e ancora sono all'opera generazioni di amministratori irresponsabili, ignavi o incoscienti. Se escludiamo i consapevoli criminali che, qua e là, hanno svenduto la loro (la nostra) terra, tutti gli altri, spesso in modo desolantemente trasversale, hanno messo insieme una tale montagna di micro e macro atti, di delibere, di piani urbanistici, di sanatorie, di folli interventi sui corsi d'acqua, di infrastrutture, che sono la vera causa dell'attuale emergenza.

Certo, i cambiamenti climatici concorrono, come no. Era ora che lo dicesse un esponente importante, come Zaia è, dell'attuale maggioranza di governo, la più pervicace di tutto l'Occidente nel negare questa emergenza, guidata dal premier Berlusconi, che più vi ha irriso e meno l'ha affrontata. Ma il modo in cui il clima fuori di sesto si produce in un luogo dipende anche da come quel luogo è conciato. Per i dati Istat, tra 1978 e 1985 ogni anno nel Veneto sono stati edificati quasi 11 milioni di metri cubi di capannoni. Dal 1986 al 1993 sono stati oltre 18 milioni all'anno per poi salire negli anni successivi a oltre 20 milioni. Con un salto dal 2000: 27 milioni nel 2001, 38 nel 2002 e così via. Per le abitazioni, negli anni '80 e '90 venivano rilasciate concessioni edilizie pari a 9-10 milioni di metri cubi anno. Nel 2002 oltre 14, nel 2003 quasi 16, nel 2004 oltre 17.

In provincia di Padova in vent'anni la superficie agraria è diminuita del 20%, in quella di Treviso del 30%, in quella di Vicenza, ieri epicentro dell'emergenza, del 40%. E sopra questo territorio compulsivamente e affaristicamente cementificato e asfaltato, Prealpi e Alpi sono in abbandono, senza una politica che non fosse la droga turistica, aumentando il dissesto evidentissimo, nella sua interdipendenza, proprio in giorni come questi, quando l'acqua precipita irruenta a valle e in pianura.

Questo è il disastro, nella connessione con il clima che muta ma anche con quello che è stato fatto al territorio. Legioni d'amministratori - con i leghisti da tempo in prima fila - portano gravi responsabilità. Qui non c'entrano né Roma ladrona né gli invasori stranieri. È una colpa d.o.c., a chilometro zero.

L’eventuale decisione dell’IUAV di vendere una delle due sedi più significative per il rapporto con la città (Ca’ Tron e Ca’ Badoer) si iscriverebbe certamente nell’attuale tendenza prevalente nella società: privilegiare la quantità sulla qualità, il presente sul futuro, il privato sul pubblico, il valore di scambio sul valore d’uso; trasformare il cittadino in cliente, il lavoratore in consumatore, il servizio pubblico (dalla scuola al trasporto, dall’università all’ospedale) in azienda privata; cancellare dalla vita della società tutto ciò che non è riducibile a merce, e dalle istituzioni tutto ciò che non produce ricchezza privata.

Se questa tendenza non viene contrastata il destino dell’università è già scritto. Essa completerà la sua trasformazione da luogo destinato alla formazione di intellettuali (cioè di persone capaci di guardare al presente con la libertà e le capacità necessarie per criticarlo e individuare le possibilità del futuro) a macchina capace di fornire la forza lavoro necessaria per proseguire lo sviluppo attuale. I patrimoni culturali, materiali e immateriali, dei quali essa è depositaria saranno ridotti a quanto serve nell’immediato a quanti ne sostengono il costo: gli sponsor e i clienti.

Le gravi difficoltà di bilancio di cui l’IUAV soffre oggi dipendono certamente anche da questa tendenza. Sarebbe però – a mio parere – del tutto sbagliato assumere la decisione sul modo di affrontarle senza una preventiva valutazione politica del contesto, e del modo in cui l’IUAV vi si colloca. Tanto più che, come la lettera di Stefano Boato argomenta, esistono alternative diverse: si può decidere se vendere uno degli edifici “storici”, oppure un’area nella quale i progetti, delineati e finanziati in anni in cui gli occhi erano ancora bendati, prevedevano la realizzazione di nuove costruzioni di prestigio.

A me sembra indubbio quale debba essere la scelta. L’università (come tutte le istituzioni) può resistere alla tendenze in atto unicamente se rafforza i suoi legami con la società, se si collega alle altre realtà analogamente minacciate, se è capace di dimostrare la sua utilità nel collaborare alla critica e alla proposta di soluzioni alternative. A questo fine, abbandonando l’illusione di un prestigio basato sulle magnificenze architettoniche in un futuro improbabile, mi sembra indispensabile per l’IUAV rafforzare - anziché dismettere - le sedi che hanno le potenzialità e la tradizione di “servizio alla società”, esaltarne il valore di centri di informazione, formazione e diffusione di sapere critico alle realtà sociali, farne dei luoghi di elaborazione di proposte utili per una società rinnovata.

P.S. - Gli organi dirigenti dell’IUAV, come informa il rettore, hanno deciso di basare le loro decisioni su un’analisi costi benefici affidata a una commissione di economisti. Si spera che non sarà solo sulla base dei conti economici che la decisione sarà presa. Non sarebbe, oltretutto, una bella lezione.

(In calce la lettera di Stefano Boato che ha aperto il dibattito, e argomenta le alternative possibili)

«L’Iuav non ha affatto già deciso di vendere la sede di Ca’ Tron, che ospita la Facoltà di Pianificazione del Territorio ed è attualmente inagibile, ma è certo che una sede tra Palazzo Badoer, l’area degli ex Magazzini Frigoriferi e appunto Ca’ Tron, dovrà necessariamente essere venduta per problemi di bilancio. Su mandato del Consiglio di amministrazione e del Senato Accademico, ho incaricato una commissione di economisti di farmi avere in tempi brevi un’analisi di costi e benefici della vendita delle tre sedi, per stabilire quale convenga alienare». A parlare in questi termini su una vicenda sempre più spinosa per Architettura e infuocata dalle polemiche che hanno coinvolto anche gli studenti, è il rettore Amerigo Restucci.

Ma la polemica è tutta su Ca’ Tron e i lavori di risistemazione sembrano ormai conclusi.

«Sì, ma potranno rientrare non più di un centinaio di studenti, e il resto del palazzo resterà inagibile. Per recuperarlo interamente servono circa 2 milioni di euro, che l’Iuav in questo momento non può spendere. Lo faremo solo se decideremo, sulla base dell’analisi costi-benefici di vendere un’altra sede tra Magazzini Frigoriferi e Ca’ Badoer. Spero che anche i colleghi di Pianificazione Urbanistica lo capiscano»

Qualcuno teme che la decisione sia già presa e che ci sia la volontà di depotenziare Pianificazione.

«Non è assolutamente così, fermo restando che tutta l’organizzazione della didattica dell’Iuav sarà presto necessariamente rivista sulla base delle nuove aree dipartimentali previste anche dalla riforma Gelmini. Ma il punto è che bisogna vedere il futuro dell’Iuav e delle sue sedi in un’ottica di sistema. Ad esempio, a Santa Marta, abbiamo acquisito da Ca’ Foscari il cosiddetto “parallelepipedo“ che però in questo momento non abbiamo i fondi per restaurare».

Ma se si dovesse rinunciare a Ca’ Tron, dove finirebbe Pianificazione del Territorio?

«Appunto nell’area di Santa Marta-San Basilio, dove c’è spazio per ospitare l’intera Facoltà, che ha comunque una dimensione limitata»

Non c’è dunque una linea «immobiliarista» Iuav su Ca’ Tron, che vuole vendere, per farne l’ennesimo hotel, “a prescindere”?

«Non è così, ma, ripeto, una scelta dovremo farla sulla base di ciò che è più conveniente per l’intero ateneo».

Il Fatto Quotidiano

Contro le frane bastano 4 miliardi: la stessa cifra destinata al Ponte sullo Stretto

di Ferruccio Sansa,

Massa. Quattro miliardi e duecento milioni di euro. È la somma che, secondo l’Associazione Bonifiche, sarebbe necessaria per risistemare torrenti e rogge, pendii e canali di tutta Italia. Una cifra importante, ma non impossibile per un Paese come il nostro. Denaro che salverebbe migliaia di vite umane. E invece l’Italia preferisce investire altrove: grandi opere, ponti e autostrade di dubbia utilità almeno per i cittadini, ma certo vantaggiosi per le imprese.

Così ecco altre tragedie, lutti cittadini, disastri ambientali: 6 morti nell’ultimo mese in una Toscana fragilissima, ormai in allarme rosso, gli ultimi tre la scorsa notte a Massa, uccisi da una frana (mamma e bimbo abbracciati), un treno deragliato in Liguria, caos nel Veronese (2500 sfollati).

E poi di nuovo tutti avanti a costruire e a maltrattare il territorio. Mentre uomini e donne muoiono. Perché in Italia le frane sono migliaia ogni anno, colpa della conformazione geologica, ma anche della mancanza di cura del territorio: negli ultimi cinquant’anni, secondo i dati dell’Associazione nazionale Bonificheci sono state 470 mila frane, a una media di 9.400 l’anno (783 al mese). Una tragedia continua: a volte i giornali se ne ricordano, altre volte passa tutto sotto silenzio. Così ogni mese, in media, sei vite umane vengono spazzate via da crolli e fango: in mezzo secolo ci sono stati 3.500 morti.

Giampilieri, Serchio, Atrani: Paese fragile

È passato meno di un anno dall’alluvione della Toscana provocata dal lago di Massaciuccoli e dal fiume Serchio e siamo di nuovo da capo. Neppure un mese dal ritrovamento del corpo di Francesca Mansi, 25 anni, a Panarea, trascinata alle Eolie dalle correnti dopo esser stata travolta da una frana ad Atrani, in Costiera amalfitana il 9 settembre scorso. E quanti ricordano ancora il disastro di Giampilieri, in provincia di Messina, dove il 1° ottobre 2009 sono morte 39 persone? Pochi. E in Calabria? Quasi nessuno sa che soltanto a febbraio ci sono state 180 frane e che il 100 per cento dei Comuni della regione sono a rischio idrogeologico, come ricorda la Coldiretti. Intanto a pochi chilometri di distanza cominciano i primi scaviper il faraonico Ponte sullo Stretto voluto dal governo Berlusconi.

Un’opera che rischia – in una zona ad altissima penetrazione mafiosa – di avere ricadute positive solo per le tasche della criminalità organizzata, oltre che per quelle delle imprese che hanno vinto l’appalto. Di sicuro da un punto di vista scenografico (ed elettorale) paga molto di più un ponte lungo 5.300 metri, sorretto da due piloni alti 382 metri. Già, i più alti del mondo, c’è di che gonfiarsi il petto d’orgoglio. Invece, risanare tutti i rivi e i fiumi d’Italia, ridurre drasticamente il rischio delle frane sarebbe un’opera che pochi noterebbero e non porterebbe benefici politici. E pensare che il costo dei due progetti sarebbe quasi uguale: 3 miliardi e 900 milioni (salvo aumenti in corso d’opera) per il Ponte sullo Stretto, appena 300 milioni meno della bonifica del territorio di un intero Paese.

Scandalo Nuova Romea

Le maxi opere volute da centrodestra e centrosinistra costellano l’intera Penisola. Che dire della colossale autostrada Mestre-Orte-Civitavecchia (Nuova Romea)? Qui i miliardi messi in preventivo sono addirittura 10,8. A favore di quest’opera sono scesi in campo tutti. Ma lo sponsor più agguerrito è Pier Luigi Bersani, che è presidente dell’Associazione Nuova Romea. Il 28 ottobre 2008 il segretario del Pd ha presentato un’interrogazione in Parlamento per sollecitare l’avvio del progetto. Un atto che sembra preso con il copia e incolla dal dossier presentato dalla Fondazione Nord-Est di Confindustria (difficile capire chi dei due abbia copiato, però). Bersani, giustamente, ricorda che sulle strade della costa Romagnola il tasso di mortalità è uno dei più alti d’Italia. Quindi la nuovaautostrada sarebbe giustificata anche da ragioni di sicurezza. Ma i cittadini contrari all’autostrada contrattaccano: “Vero – spiega Mattia Donadel, dei Cat, Comitati ambiente e territorio della Riviera del Brenta – l’attuale percorso è pericoloso, ma con 10,8 miliardi si potrebbero risolvere i problemi di sicurezza di tutte le strade d’Italia”. E ricordano altre questioni spinose: i quasi 500 chilometri del percorso taglierebbero sei regioni, toccando – e stravolgendo– zone di pregio ambientale come il Delta del Po, l’Appennino tra le Marche e la Toscana (a due passi dalla Valmarecchia di Tonino Guerra o da Sansepolcro), poi la campagna umbra e quella del Lazio.

E intanto, continuano i comitati, “sulla realizzazione dell’opera si concentrano gli obiettivi di persone come Vito Bonsignore”, politico in orbita berlusconiana, che, però, non disdegna contatti con i leader del centrosinistra. Chi non ricorda la celebre telefonata nel bel mezzo del ciclone Antonveneta-Unipol del 2005: “Ho parlato con Bonsignore… evidentemente è interessato a latere in un tavolo politico”, disse D’Alema. Basta? Nemmeno per sogno: il governatore Roberto Formigoni è un sostenitore accanito dei progetti che porterebbero oltre 400chilometri di nuove autostrade in Lombardia. Milano ha bisogno di decongestionare il traffico, ma, come ricorda Legambiente, rispetto alle altre metropoli europee mancano metropolitane e ferrovie. Non certo autostrade e inquinamento. E invece via con l’asfalto in Lombardia, su cui aveva messo gli occhi anche la Cricca (come dimostrano le carte dell’inchiesta P3).

L’autostrada Spaccamaremma

Il caso della Livorno-Civitavecchia è simbolo di tutto questo. Sponsor numero uno: Altero Matteoli, ministro delle Infrastrutture e sindaco di Orbetello. L’autostrada che taglierà la Maremma sarà realizzata dalla Sat (che fa riferimento a Benetton). Presidente del cda Antonio Bargone, ex deputato dalemiano nominato anche commissario governativo per la realizzazione dell’opera. Costo previsto: 3,7 miliardi, a carico dei privati, ma poi lo Stato dovrà pagare la stessa somma per rientrare in possesso dell’opera. Appena 500 milioni in meno di quanto servirebbe per salvare tutta l’Italia dalle frane. Per evitare tragedie come quelle di ieri a Massa.

la Repubblica online

Meglio il Ponte o la Sicurezza

di Antonio Cianciullo

Ancora vittime di frana. Quante ce ne vorranno ancora per ridurre il rischio al livello minimo? Secondo una ricerca appena completata dal Cresme e dal Consiglio nazionale dei geologi i Comuni a elevato rischio sismico sono 3.069, per un’estensione di 140 mila chilometri quadrati, pari al 46 per cento del territorio italiano. In questi Comuni risiede il 40 per cento della popolazione. Inoltre 6 milioni di persone abitano nei 29.500 chilometri quadrati del nostro territorio considerato a elevato rischio idrogeologico. E un milione e 260 mila edifici sono minacciati da frane e alluvioni ( di questi oltre 6 mila sono scuole, 531 ospedali).

Tutto ciò ci è già costato caro: dal dopoguerra a oggi abbiamo speso 213 miliardi di euro per riparare le ferite del dissesto idrogeologico e dei terremoti. Ora si potrebbe invertire la rotta e cominciare a investire per curare il territorio invece che per incerottarlo. Ma per mettere in sicurezza le aree a rischio ci vorrebbero 40 miliardi e i soldi per la prevenzione vengono progressivamente tagliati, mentre i fondi per rimediare ai danni continuano – di conseguenza – crescere. I Verdi e le associazioni ambientaliste propongono una ricetta semplice: spostare le risorse che il governo intende investire sul Ponte sullo Stretto indirizzandole alla difesa del territorio dal punto di vista idrogeologico utilizzando tecniche di rinaturalizzazione che oltretutto aumentano i posti di lavoro. Perché non farlo?

Regioni in ordine sparso sulla pianificazione: nessuna ha chiuso l'iter con il ministero

Il dossier curato da Italia Nostra denuncia il ritardo delle Regioni e il «far west» delle regole locali

La copianificazione segna il passo. La definizione insieme al ministero dei Beni culturali degli strumenti paesaggistici nelle diverse Regioni italiane va al rallentatore: nessuna amministrazione ha chiuso il cerchio sull'adeguamento del piano, mentre in diversi casi l'iter deve ancora compiere il primo passo. Le norme di tutela per le aree vincolate sul territorio nazionale, dunque, formano ancora un mosaico: dalla Calabria, che ha firmato l'intesa col Mibac ma è tuttora sprovvista di una disciplina di tutela, alla Sardegna, dove lo scorso giugno è partita la revisione del Ppr approvato meno di quattro anni fa. E questo il quadro tracciato da Italia Nostra, l'associazione ambientalista che ha appena presentato il primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica.

«L'obiettivo iniziale era di fornire un quadro aggiornato della copianificazione — ha detto Maria Pia Guermandi, autrice del rapporto insieme a Vezio De Lucia —. Un'attività che avrebbe dovuto essere, a oltre due anni e mezzo dall'approvazione definitiva del codice dei beni culturali, a un avanzato grado di elaborazione. Ci siamo invece resi conto che si trova in uno stato di scandalosa impasse». Le Regioni, osserva l'associazione, «non hanno un piano paesaggistico adeguato sebbene il codice prevedesse che entro il 31 dicembre 2009 tutte si dotassero di un piano che mettesse ordine nel far west della legislazione sul territorio». Il codice Urbani prevede, in particolare, che la pianificazione in aree vincolate sia competenza regionale, ma è riconosciuta al ministero la partecipazione obbligatoria alla scrittura di quelle parti del piano che riguardano beni vincolati con atti amministrativi ad hoc o in base all'appartenenza alle categorie geografiche-territoriali tutelate «ope legis» (che coprono circa il 47% del territorio italiano).

Ed è proprio allo scopo di avviare la pianificazione congiunta, che può essere estesa anche all'intero territorio regionale, che Regioni e ministero possono stipulare intese per definire le modalità di elaborazione dei piani. Alla prova dei fatti, però, le amministrazioni, si presentano in ordine sparso. Con Regioni che non sono neanche partite, come Liguria. Basilicata e Molise, e altre, come il Veneto, dove è appena iniziata, si legge nel rapporto, «una mera ricognizione tecnico-giuridica-cartografica dei vincoli». La mappa stessa delle normative vigenti in materia di paesaggio è molto frammentata. In Lombardia, ad esempio, è stato recentemente predisposto uno schema di piano paesaggistico all'interno del Ptr (approvato a inizio 2010) realizzato unilateralmente dalla Regione e senza «dialogo» col Mibac. Diversa la situazione in Toscana, dove è forte la centralità dei Comuni anche per le decisioni sulle aree vincolate ed è stato attribuito valore paesistico al piano di indirizzo territoriale (pubblicato nel 2007). Caso a parte quello della Sardegna: dopo una lunga fase di assenza di strumenti di tutela paesaggistica, la cosiddetta legge «salvacoste» del 2004 è divenuta il primo tassello del piano paesaggistico regionale, approvato circa due anni dopo. La nuova Giunta (in carica dal 2009), tuttavia, ne ha già iniziato la revisione.

L’articolista del New York Times dipingeva in questi giorni la situazione italiana con i colori cupi dell’emergenza rifiuti e la collegava alla politica personalistica del presidente del Consiglio: «Ancora una volta il Signor Berlusconi ha detto che risolverà il problema. Ma questa volta le cose sono diverse: pochi lo credono». La caduta della fiducia è il fatto contro il quale il presidente delle promesse deve fare i conti. E non può ben sperare dopo aver per anni insistito a tranquillizzare e imbonire promettendo di fare tutto lui, e di farlo senza perdite di tempo, anche a costo di azzerare i controlli. La promessa del fare celere partorisce il nulla, o meglio, partorisce una piramide di piccoli e grandi privilegiati che vivono all’ombra di quegli azzeramenti delle regole, e che però non riescono più a fare da cuscino tra il vertice e una massa sempre più grande di delusi e miseri.

Le promesse hanno poco peso e vengono presto dimenticate quando riguardano questioni che non incidono direttamente sul vivere quotidiano. Farle in campagna elettorale è il mestiere dei politici. Ma è un’arte, non può essere una burla; le promesse devono essere calibrate alle reali condizioni sociali ed economiche. Anche le promesse elettorali devono avere un carattere "possibile" e in questo senso realistico; solo così non sono scambiate per frottole e servono a cementare la fiducia. Promesse credibili, non promesse semplicemente: questa differenza si manifesta quando gli impegni non mantenuti riguardano questioni pressanti della vita quotidiana, come lo smaltimento dei rifiuti o la disoccupazione.

L’incapacità di questo governo a mantenere le promesse è strutturale e irreversibile. Non è un incidente di percorso dovuto alla malevolenza dei giornali, alle "persecuzioni" della magistratura, alla presenza di comunisti in Parlamento. È un’incapacità strutturale perché sono troppi e troppo pesanti i problemi personali che assorbono il tempo e le energie del presidente del Consiglio e lo tengono lontano dal governo del paese. Un uomo d’affari pensa, giustamente, ai suoi affari e usa tutte le competenze e i mezzi che ha (e che la legge gli consente) per farli al meglio. Ma fare bene gli affari degli altri per l’interesse degli altri è una cosa molto più complicata – e soprattutto non riesce spontanea. La politica è un servizio benché debba saper trattare, mediare e fare compromessi. La ragione strategica è finalizzata al perseguimento di un "interesse" che non direttamente di chi lo rappresenta, e soprattutto non è calcolabile in termini di cash return. Ecco perché il profeta delle belle promesse finisce fatalmente per essere un impostore che racconta fole agli occhi dei molti che hanno avuto fiducia in lui.

Berlusconi, spiega un intervistato al giornalista del New York Times, ci ha insegnato che si può comprare tutto, ma in effetti così non è; lui non può comprare la fiducia tradita e nemmeno un modo celere per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania. A due anni e mezzo dalla sua ultima vittoria elettorale, le sole cose per le quali ha operato quotidianamente sono state le sue proprie: «È entrato in politica per risolvere le sue grane». Questo spiega perché una maggioranza numericamente così forte non è riuscita a produrre nulla di positivo. Le altre notizie, quelle che ancora in questi giorni ritornano a riempire le prime pagine dei giornali, quelle dei baccanali e dell’uso festaiolo delle ragazze (anche minorenni), sono una costante di questo governo dei fallimenti. Una costante sempre più insopportabile non solo per i naturali sentimenti di repulsione che provoca, ma soprattutto per le forme di abuso di potere alle quali fatalmente si accompagna.

Ma giunti a questi livelli di degrado delle istituzioni, è il buon senso che ci fa trarre le giuste conclusioni. La politica ha tutti i dati per formulare il suo giudizio politico e fare il suo mestiere con competenza e coraggio; per imporre un fermo e interrompere questo insopportabile degrado della vita pubblica. Ci sono allo stato attuale tutti gli elementi per formulare un giudizio ragionevole e obiettivo che distingua tra ciò che è scandalo da rotocalco e ciò che compromette l’ordine istituzionale: questo governo danneggia il nostro paese. Lo danneggia sotto molti aspetti, per parlare dei quali un articolo non è sufficiente. Uno a caso: la sua immagine all’estero è al di là del raccontabile e rischia di trascinare con se l’immagine dell’intero paese, di tutti noi. Le tentazioni liberticide del governo contro la stampa invitano a pensare che a minare la credibilità del nostro paese siano i giornalisti: come se la conoscenza sia colpevole! Ma rovesciare le carte e imbavagliare l’opinione pubblica è un’impresa disperata e volta all’insuccesso, soprattutto quando una società si trova a dover fare i conti con una crisi economica e istituzionale enorme.

Poiché non può non restare senza eco nella mente dei cittadini il fatto che la condizione di privilegio di pochi (e di chi governa prima di tutto) debba essere pagata con manovre aggiuntive alla finanziaria, licenziamenti, decurtazione drammatica dei servizi e demolizione studiata della scuola pubblica: per avere tutto questo vengono richiesti sacrifici. Quanto costa il governo Berlusconi agli italiani? Se non sono gli scandali sarà il vaso colmo di una politica fallimentare, ingiusta e senza visioni a scuotere l’opinione pubblica.

Avevamo detto che avremmo contato tutti insieme, lo abbiamo fatto. “Prevediamo che in 10 giorni la situazione potrà tornare nella norma”, ha detto in conferenza stampa a Palazzo Chigi il 22 ottobre il presidente del Consiglio. Siamo lieti di annunciarvi, dunque, che oggi l’emergenza rifiuti è finita. Terzigno, Giugliano. Non lasciatevi ingannare dalle foto. Neppure da quelle del sabato pomeriggio in via Toledo, il cuore di Napoli, con le montagne di immondizia davanti ai ristoranti del centro. Propaganda nemica. Quello che conta sono le parole, anzi: la parola. Parola di Silvio B. “Dottore, questa ragazza è la nipote di Mubarack. La conosco”. Vi fidate? Davvero vi fidate ancora? Perché questo è: una questione di fiducia.

Poiché l’opposizione «per il momento», ha detto ieri Bersani non ha i numeri in Parlamento la mozione di censura che possa aprire un voto sulla fiducia è questione sostanzialmente nelle mani del centrodestra. In primo luogo di Fini, che ieri ha definito l’Italia «dilaniata» ed ha ben descritto l’imbarazzo che suscita nel mondo intero il traffico di prostituzione e di minorenni a Palazzo, con annesse interferenze sulle Questure. Se per una volta Fini facesse seguire alle parole i fatti questo sarebbe il primo tassello. L’Udc sembra orientata a sostenere la mozione di sfiducia. Qualcosa scricchiola anche nella Lega. Di nuovo, anche per la Lega, è difficile conciliare la battaglia alla prostituzione e all’immigrazione clandestina con il sostegno a Silvio B. in questa circostanza, salvo che non si dica che la prostituzione è consentita solo a palazzo e che gli immigrati vanno bene solo se fanno la lap dance. Sono giorni cruciali, di contatti e colloqui. Si potrebbe davvero arrivare ad un’intesa fra le opposizioni e quelle forze del centrodestra che non si riconoscano più in questo stile di non-governo, in questo decadente e pericoloso fine impero. Se ci si arrivasse, se come ci auguriamo il Parlamento avesse un sussulto di dignità e prendesse le distanze da questo grottesco epilogo del sultanato italico, si aprirebbero le porte ad un governo di scopo, o di transizione, o di sicurezza nazionale. In alternativa, voto subito. Tutto sarà comunque meglio di questo, dei colpi di coda che può ancora riservare.

P.s. A proposito del disastro culturale causato dal berlusconiano way of life lasciatemi sottolineare due “non detto” della vicenda Ruby. Il sottotesto, quello che passa ad un livello diverso dalle parole. Passa, con estrema naturalezza, che se sei nipote di qualcuno hai diritto a non sottostare alle regole, se non sei nipote di nessuno no. Se Ruby fosse davvero stata la nipote di Mubarack avrebbe avuto diritto di essere rilasciata? Naturalmente no. È bene dirlo, perché può sfuggire. È questo, letteralmente, il nepotismo che dilaga. Secondo punto: amo le donne ho giornate molto faticose mi rilasso così. Si rilassa con quaranta ragazze reclutate per gli spettacolini. Non è forse normale? Non sono forse le donne state create per questo? Il riposo del guerriero, il piacere per gli occhi. Geishe, odalische, puttane. Se Angela Merkel si riposasse la sera con quaranta adolescenti gigolò lo trovereste normale? Anche in questo caso vi dareste fuoco perché vostro figlio maschio fosse ammesso alla festa? Se la risposta è no, ecco: qui sta il problema.

Ancora la città non si è ripresa dallo choc dell´avviso di garanzia all´ex ministro Claudio Scajola ed ecco che il porto di Imperia viene pesantemente colpito da "fuoco amico". E’ il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, attraverso la Commissione Via (Valutazione Impatto Ambientale) a scrivere che le modifiche strutturali marittime che nel 2005 hanno cambiato il progetto garantendo maggiori benefici alla società, avrebbero dovuto essere sottoposte alla verifica della Commissione che aveva approvato il progetto nel 2001. Invece: «nessun parere è stato richiesto» e «non sono chiare le variazioni intervenute». Quindi le varianti «alcune già realizzate» verranno sottoposte a nuova verifica e nel caso risultassero non conformi le opere dovranno essere smantellate. E’ il contenuto di un parere della Commissione di cui Repubblica è in grado di anticipare le conclusioni.

Il Ministero dell´Ambiente "bacchetta" il porto di Imperia inteso sia come società concessionaria che come amministrazione comunale. Poca trasparenza nelle molteplici modifiche progettuali alle opere marittime «già realizzate... senza il parere preventivo del ministero». Risultato: la Commissione tecnica per la Verifica dell´Impatto Ambientale esaminerà le varianti e se dovesse scoprire che i lavori non sono stati eseguiti in «conformità con quanto prescritto», potrà «intervenire con i poteri che sono conferiti a questo ministero, qualora le opere non rispettino le prescrizioni e le tipologie valutate nel decreto Via». In altre parole il ministro Stefania Prestigiacomo potrebbe ritrovarsi a firmare un ordine di ripristino dell´esistente, ossia riportare i luoghi come erano prima degli interventi a quel punto abusivi.

Sono decisioni clamorose quelle prese dalla Commissione Via del ministero dell´Ambiente e da pochi giorni comunicate ad enti e autorità interessate, che Repubblica è oggi in grado di rivelare.

Tecnicamente si tratta di un parere che riguardava due aspetti: la variante per la parte urbanistica (ne parliamo nell´altro articolo in questa stessa pagina) e quella concernente le opere marittime. Per la precisione: «le modifiche strutturali dei moli e delle banchine... che ampliano le darsene interne, soprattutto a San Lazzaro, introducono una nuova colmata nel porto Maurizio... modificano l´orientamento e le dimensioni... ampliando le capacità ricettive dell´intero porto, variando di conseguenza il piano degli ormeggi». La Commissione vuole capire se tali modifiche decise nel 2005 siano coerenti al progetto che ottenne la Via nel 2001 visto che, scrive il presidente della Commissione Claudio De Rose «non sono chiare le variazioni intervenute rispetto agli scenari valutati» all´epoca, considerato poi che «non risulta agli atti alcun parere del ministero in merito ai potenziali impatti di tali modifiche» e che «la documentazione consegnata non contiene elaborati progettuali che illustrano tale riassetto...». Tutto nasce da una richiesta di parere presentata nel 2009 dalla Regione Liguria che - dopo l´approvazione della maxi variante del 2005 in conferenza dei servizi - non si raccapezzava più in quello stillicidio di modifiche e varianti che venivano presentate come «adeguamenti tecnico funzionali» al Piano Regolatore Portuale e che ebbero come vaglio quello della Commissione del Consiglio dei Lavori Pubblici presieduto da quell´Angelo Balducci che si insediò anche per poche settimane ai vertici della Commissione collaudo regionale ed è oggi uno degli indagati dello scandalo della cricca. Quello che sembra di capire è che le varianti "marittime" del Porto di Imperia, seppur formalmente approvate dagli enti coinvolti, non vennero sottoposte da quelli cui competeva (Comune e Ministero dei Lavori Pubblici) ad una verifica della Commissione di Valutazione Impatto Ambientale visto che, scrive oggi il presidente De Rose: «Tali modifiche rientrano nella sfera di competenza del Ministero dell´Ambiente».

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