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«Défilé di politici, ricchi buffet e vecchie glorie in mostra, da Leonardo a Enrico Fermi. Eppure alla fiera internazionale in Kazakistan siamo l’unico Paese senza un progetto». la Repubblica, 28 agosto 2017 (p.d.)

Come trasformare un’esposizione universale sull’energia del futuro nell’Expo degli assessori. Se anche questo è genio italico, allora abbiamo fatto centro con la passerella interminabile di presidenti e vicepresidenti dei consigli regionali, membri delle giunte e funzionari locali, burocrati periferici con assistenti, collaboratori e portaborse. Chi impegnato a testimoniare l’esistenza di una improbabile «via toscana all’energia del futuro», chi a illustrare la strategia siciliana della «specializzazione intelligente», chi più modestamente a confidare nella scossa energetica di una mostra di acquerelli di paesaggi lucani di Fabrice Moireau. Ma si può star certi che nessuna Regione, delle 15 partecipanti, ha rinunciato alla scampagnata asiatica settimanale.
La prova del pasticcio che abbiamo combinato con il federalismo straccione partorito nel 2001 si trova a seimila chilometri da qui, in una città che venticinque anni fa neppure esisteva: Astana, attuale capitale del Kazakistan. Questo Paese è uno dei maggiori produttori di idrocarburi del mondo, ma per ragioni che vanno ben oltre tale aspetto ha avuto in carico l’organizzazione dell’Expo mondiale che ha per tema l’energia del futuro. Tre miliardi di dollari investiti in una formidabile operazione di propaganda interna per una repubblica grande dieci volte l’Italia, che ha seguito il destino di altri pezzi dell’Asia centrale dopo la dissoluzione dell’Urss. Il potere è rimasto da trent’anni nelle mani della stessa persona, con relativi strascichi familiari. Nursultan Nazarbayev era il segretario del partito comunista prima del crollo dell’Urss, ed è presidente ininterottamente da 27 anni. L’aeroporto di Astana porta il suo nome. Come il Museo e l’Università. C’è perfino una banca che sembra ispirarsi al nome del leader: Nurbank. La nuova capitale l’ha fondata lui, nel cuore della steppa asiatica. Quella di prima, Almaty, nata nel 1854, era troppo vicina al confine della Cina. Dal 2010, per decisione del parlamento da lui controllato, Nazarbayev ha l’appellativo di padre della nazione, che lo ha trasformato in intoccabile, garantendogli l’immunità giudiziaria perpetua. L’ultima volta è stato riconfermato con il 96 per cento dei voti e uno dei suoi (tre) avversari alle elezioni ha dichiarato di aver votato per lui. L’opposizione semplicemente non esiste. Le procedure sovietiche, invece, sono tuttora pienamente in auge nonostante l’invasione del wifi gratuito e strade immense stracolme di immensi suv Toyota con qualche Ferrari che sfreccia di tanto in tanto.
Maturati nel decennio berlusconiano segnato dalle solide amicizie del Cavaliere con certi residui dittatoriali dell’ex impero sovietico, tipo quel Lukashenko che comanda in Bielorussia dal 1994, i rapporti fra Italia e Kazakistan non potrebbero essere migliori. L’Eni coltiva da anni interessi enormi. E fino allo scorso anno avevamo il primato del commercio con i kazaki, che ora hanno i russi. Ed è qui che la storia dell’Expo prende una piega ben diversa dalle premesse. Intanto i soldi. Dallo Stato italiano arrivano un paio di milioncini, lordi, in tutto. Briciole, in confronto alle risorse messe in campo dagli altri. Non parliamo del Kazakistan, o della Cina, oppure della Russia. Ma di Francia, Germania, Giappone, Israele, Corea… E poi i tempi con l’acqua alla gola, un classico italiano. Il commissario Stefano Ravagnan, l’ambasciatore italiano, e il suo vice Salvatore Parano, responsabile dell’ufficio Ice, fanno letteralmente i salti mortali e riescono a far quadrare il cerchio. Tanto che il padiglione italiano, a due settimane dalla chiusura dell’Expo, è uno dei più frequentati. Gli ambienti disegnati da Paolo Desideri, piacevoli e accoglienti. Lo stile, al livello made in Italy. L’organizzazione, impeccabile.
Una specie di miracolo, insomma. Che tuttavia non risolve il problema di fondo. Qui ogni Paese avrebbe dovuto presentare la propria idea per l’energia del futuro. La Cina, per esempio, dichiara apertamente di puntare sulla fusione nucleare. Idem la Francia. La Russia di Vladimir Putin espone ad Astana un enorme pezzo di iceberg: la sua strategia è senza infingimenti per lo sfruttamento delle risorse petrolifere artiche. La Corea investe sull’intera gamma delle energie alternative. E dopo Fukushima anche il Giappone ha voltato pagina. La Germania, dove Angela Merkel ha decretato che entro il 2050 l’energia sarà prodotta solo da fonti rinnovabili, scommette sull’efficienza. Perfino il Kazakistan si interroga sul superamento dei combustibili fossili. E l’Italia? L’Italia mette in bella mostra Duomo di Milano, Torre di Pisa, Fontana di Trevi e piazza San Marco. Tutto magnifico. Peccato solo che manchi l’idea. Semplicemente perché quella idea non c’è.

Intendiamoci, non che altri Paesi abbiano poi fatto tanto meglio. Il padiglione dell’India, per dirne una, sfocia in un mercatino di bigiotterie. Ma da Astana giunge implacabile il messaggio che siamo l’unico Paese del mondo sviluppato a non avere un preciso disegno di politica energetica. Per legge. Lo abbiamo deciso nel 2001 con la riforma del titolo V voluta dal centrosinistra che per inseguire le spinte leghiste ha devoluto troppi poteri alle regioni. Compreso questo: «produzione, distribuzione e trasporto dell’energia». Una prerogativa insensata. Ma impossibile da mettere in discussione, dopo la bocciatura del referendum costituzionale che l’avrebbe riportata in capo allo Stato.

Inutile allora stupirsi se anziché un grande progetto italiano, che non esiste, all’Expo sull’energia ci presentiamo con mandrie di assessori e buffet di prodotti tipici regionali come intermezzo fra le foto di una turbina piemontese e le immagini di un campo eolico siciliano. Mentre le pubblicazioni specialistiche titolano trionfanti: «L’Umbria sbarca ad Astana 2017», «La Liguria protagonista all’Expo di Astana», «Astana Expo, ecco le eccellenze laziali ». E via di questo passo. Soltanto Valle D’Aosta, Abruzzo, Molise, Calabria e Trentino Alto Adige si sono chiamate fuori da questa giostra grottesca e ben più costosa dei 10 mila euro di contributo iniziale uguale per tutti. Ad Astana financo la Confindustria è regionale: Assolombarda.

E siccome un’idea nazionale non c’è, la soluzione per dare un’immagine comunque italiana è l’armamentario delle care vecchie glorie. Antonio Pacinotti, Alessandro Volta, Enrico Fermi, Leonardo da Vinci… L’Eni proietta un filmato su Enrico Mattei, l’uomo che ebbe il coraggio di contrastare le Sette Sorelle e ci lasciò la pelle. Mentre fuori dal padiglione un giovane artista che ha fatto la scuola di Brera, Ottavio Mangiarini, ha la fila incessante di chi vuole il ritratto. Ed è forse l’attrazione più sorprendente. Del resto i visitatori non sono quasi tutte famiglie locali, comitive e scolaresche? Già. Ma siamo sempre l’Italia, ed essere qui è obbligatorio. Anche perché le imprese italiane fanno un sacco di affari. Chiedere per conferma al ragionier Giuseppe Bergamin, la cui azienda veneta Sunglass ha fornito i vetri curvi per l’immensa sfera di cristallo del padiglione kazako. Ragion per cui se c’è qualcuno che con questa storia porta a casa qualcosa di concreto è soprattutto lui.

«Il presidente liberalizza un’enorme riserva istituita ai tempi della dittatura con giacimenti d’oro, rame e ferro». il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2017 (p.d.)

Non è stata certamente una bella settimana per i difensori dell'ambiente in Brasile, dove un’area della foresta amazzonica superiore al territorio della Danimarca sarà presto ceduta a multinazionali dell’industria mineraria e affamati broker della finanza, i quali sfrutteranno giacimenti d’oro, manganese, rame e ferro celati tra gli Stati del Pará e dell’Amapá. Non finisce qui. Mercoledì, nello stesso giorno in cui Temer dava un ’altra spallata alla distruzione dell'Amazzonia, firmando il decreto con cui liberalizzava lo sfruttamento minerario nell’area, il Supremo tribunale federale ha votato a favore della continuazione dell'uso dell'amianto, nonostante il minerale sia considerato cancerogeno in più di 60 Paesi del mondo.
L’amianto continua a essere prodotto da 16 aziende multinazionali in Brasile, inclusa l'Eternit (assolta due anni fa in Italia a Torino, per prescrizione, ma ancora sotto processo per omicidio colposo nel processo “Eternit bis”), che produce tetti e rivestimenti usati nelle sterminate e popolose favelas brasiliane.
Le grandi imprese d’estrazione mineraria internazionali - soprattutto nordamericane, canadesi, australiane e sudafricane - hanno estremo interesse a sfruttare i giacimenti all’interno dell’area di 46.450 chilometri quadrati che circoscrive l’estinta Riserva Nacional de Cobre e Associados, creata nel 1984 durante la dittatura militare. Nel suo perimetro esistono nove aree di biodiversità considerate uniche al mondo. Le zone di preservazione sono il Parco nazionale delle montagne del Tumucumaque, le foreste statali del Paru e di Amapá, la riserva biologica di Maicuru, la stazione ecologica del Jari, la riserva estrattiva del Rio Cajari, la riserva di sviluppo sostenibile del Rio Iratapuru e le terre indigene Waiãpi Aparai e Wayana.
Le organizzazioni ambientaliste, come il Wwf, ma anche intellettuali e artisti mobilitatisi contro il decreto Temer, sostengono che la liberalizzazione dell’attività mineraria nell’area causerà danni irreversibili all'ambiente e alla popolazione indigena. “Il decreto è il maggiore attacco all’Amazzonia negli ultimi cinquant’anni. Né la dittatura militare ha osato tanto, né la Transamazzonica è stata così offensiva”, ha affermato il senatore Randolfe Rodrigues che ha presentato un’iniziativa popolare contro il decreto alla giustizia di Amapá. Nuove strade saranno tracciate, facilitando l’esodo di migliaia di lavoratori disoccupati a causa della recessione brasiliana che ha eliminato 14 milioni di posti di lavoro.
Il decreto Temer giunge dopo altri recentemente firmati dal presidente, che ha chiaramente negoziato con i deputati in cambio della sua assoluzione nella votazione per la richiesta d’impeachment avvenuta contro di lui il 3 agosto a Brasilia. Il 60 per cento dei deputati e senatori del governo, secondo la Ong Trasparencia Brasil, sono accusati a vario titolo di corruzione, broglio elettorale, omicidio e sequestro.
Alla Camera e al Senato è tracciata in modo chiaro la presenza della lobby dell’industria mineraria, dell’agrobusiness ed evangelica. Sono settori dichiaratamente contrari alla causa dell’ambiente, degli indigeni e dei quilombo (comunità di origini africane) e hanno guadagnato ulteriormente potere negli ultimi anni di grande kermesse delle rinomate alleanze politiche. Le lobby sono compatte tra loro e possiedono un potere economico fortissimo, con cui dominano la politica nazionale.
Le imprese produttrici di amianto finanziano tutti i partiti politici in occasione di ogni campagna elettorale, e l’ultima raffica di decreti è parte di un più ampio pacchetto di iniziative nel settore dello sfruttamento minerario che il governo del presidente Temer porta avanti nell'ambito del “Programma di rivitalizzazione dell’industria mineraria brasiliana”, il quale include anche la creazione della Agência Nacional de Mineração. In sostanza, l'ambiente e le riserve indigene sono oggi la moneta di scambio impiegata dai politici, non solo per salvarsi da processi giudiziari, ma soprattutto per gratificare i loro padrini, multinazionali e latifondisti, che sfruttano la recessione per impadronirsi dei territori federali e riserve indigene dove sono presenti giacimenti minerari.

«C’è un altro aspetto che viene ignorato ed è quello del danno economico causato dagli immobili non in regola». la Repubblica, 27 agosto 2017 (c.m.c.)

E sempre accade in occasione di un terremoto o di un’altra calamità naturale, l’Italia scopre di avere un assetto idrogeologico deplorevole, che la gran parte dei propri immobili non a norma rispetto alle regole di costruzione antisismiche ed una fetta notevole di case, villette, palazzetti sono abusivi.

Ischia, che ha subito danni superiori a quelli che sarebbe stato lecito aspettarsi per una scossa di valore 4 della scala Richter, risulta essere una sorta di paradiso del mattone illegale. Su una popolazione di 65mila abitanti ci sono 27mila domande di condono ed è probabile che vi siano altri abusi edilizi del tutto sommersi. I numeri dell’illegalità immobiliare italiana sono impressionanti e sono stati già ricordati da numerosi quotidiani. Basti qui ricordare il dato generale di 1.200.000 immobili abusivi e la perdurante capacità dei palazzinari di costruirne migliaia ogni anno.

Naturalmente, come su ogni argomento, si contrappongono varie fazioni. Quella “ impresentabile”, chiamiamola così, sotto più o meno mentite spoglie propone un bel condono generalizzato e chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Ci sono poi gli “ equilibristi” che parlano di abusi di necessità, sanatorie condizionate a ristrutturazioni, un ecomostro abbattuto di qui, una villetta perdonata di là. Non mancano i rigoristi che vorrebbero procedere con le ruspe ad ogni violazione del piano regolatore.

I guai dell’abusivismo sono di varia natura: paesaggistica, idrogeologica, di sicurezza, ecologica. C’è un altro aspetto, tuttavia, che viene ignorato ed è quello del danno economico causato dagli immobili non in regola. Non si tratta solo dell’evasione fiscale ( su cui torneremo) ma della vera e propria sottrazione di ricchezza all’intera economia.

Andiamo con ordine. Nel 2000 l’economista peruviano Hernando de Soto pubblicò un libro che ebbe e continua ad avere risonanza mondiale,
The Mystery of Capital. La tesi fondamentale del libro, che riprendeva precedenti scritti dello studioso, era che l’Occidente era diventato prosperoso grazie alla Rule of Law, il principio di legalità o, se preferite, lo Stato di diritto. Un aspetto particolare della Rule of Law è stato l’emersione della proprietà immobiliare e l’accatastamento in pubblici registri di case e terreni. Perché questa certezza della proprietà era importante? Perché faceva emergere e quindi immetteva nel circuito economico dei beni altrimenti invisibili. Gli esempi, riferiti al suo Perù, erano semplici e convincenti: non si poteva dire che i milioni di casette e palazzine abusive in cui vivevano i peruviani non avessero valore economico, ma esse erano inutilizzabili.

Ad esempio, se qualcuno voleva iniziare un’attività imprenditoriale non avrebbe mai potuto ottenere un prestito da una banca dando in garanzia un’abitazione legalmente inesistente. Gli scambi stessi erano insicuri: come succede anche in Italia, le compravendite di immobili non accatastati sono nulle e quindi il passaggio di mano diventa difficoltoso, con alti costi di transazione per ottenere garanzie informali e, ovviamente, senza poter far ricorso a mutui ipotecari. Servitù, usufrutto, uso: tutti i diritti reali che sono conosciuti ed utilizzati fin dai tempi dei praetores romani, non sono a disposizione in tali situazioni.

Nei frangenti più complessi l’illegalità violenta approfitta dell’illegalità documentale, con occupazioni ed espropri che non possono essere impediti dall’ordinamento giuridico.

Inoltre, l’inesistenza giuridica degli immobili priva il proprietario di allacciamenti alle reti idriche o elettriche, con rimedi che vanno dal semplice furto al fai- da- te, a rischio di pompare acqua inquinata per il rubinetto di casa.

Il furto si accompagna al problema dell’evasione fiscale generata sia in fase di edificazione ( difficilmente geometri e imprese edilizie faranno fattura per abitazioni abusive ed in più non vengono pagati gli oneri di costruzione) che successivamente rispetto al pagamento di tasse comunali. Ora, conosco bene l’obiezione che viene sollevata rispetto a questa “ evasione di necessità”: se lo Stato prendesse quei soldi li utilizzerebbe peggio dei privati e non diminuirebbe le altre imposte, ma aumenterebbe la spesa. C’è del vero, così come è molto probabile che alcune violazioni siano incoraggiate da regolamenti urbanistici assurdamente restrittivi ( di qui il successo del famoso slogan elettorale “ padroni a casa nostra”). Inoltre è veramente difficile fidarsi anche dei proclami di un governo che prometta di restituire automaticamente in minori tasse quanto viene recuperato: promessa già fatta e non mantenuta.

Quindi, dato per acquisito che il problema dell’abusivismo dovrebbe essere messo in cima all’agenda di politica economica, cominciando ad esempio a rendere chiaro al paese che danni provocati da cataclismi naturali ad immobili illegali non verranno mai risarciti dallo Stato, d’altra parte il primo passo, rappresentato da una riduzione fiscale generalizzata preventiva e non solo eventuale, deve essere compiuto dal governo. I mezzi tecnologici per scoprire case e capannoni fantasmi ci sono; le ruspe per abbattere eco- mostri e mostriciattoli che violano le regole paesaggistiche, di prevenzione idrogeologica o di preservazione dei beni culturali, si possono azionare. Ma un modo affinché questo patrimonio nascosto del paese non solo non venga aumentato, ma possa entrare nel circuito legale dell’economia, bisogna trovarlo.La prosperità dell’Occidente è stata alimentata dalle leggi sugli immobili La questione deve essere in cima all’agenda politica

Tante buone intenzioni. Efficacia prevista: poco. Bisognerebbe liberare la testa degli italiani dai virus diffusi almeno da Berlusconi in poi. la Repubblica, 26 agosto 2017

«Stop agli abusi, investiamo sulla trasformazione edilizia risparmiando il territorio già martoriato». Quanto agli abusi già perpetrati il ministro della Giustizia Andrea Orlando boccia «qualsiasi forma di condono ».

In Italia si muore sotto le case abusive. Di chi è la colpa: governo, Comuni o Regioni?
«L’attuale sistema che regola gli abbattimenti non funziona. La legge assegna un ruolo centrale ai Comuni. Che però sono condizionati dalla ricerca del consenso. Ampi settori dell’elettorato tifano contro chi vuole fare gli abbattimenti. Un argomento usato dai Comuni è sempre stato quello delle scarse risorse finanziarie a disposizione. Ma, su una mia proposta del 2013, da ministro dell’Ambiente, abbiamo creato un fondo per fare gli abbattimenti. Ma ecco la sorpresa: nel 2016 hanno fatto domanda solo tre Comuni e non è stato speso un euro».

Quindi la colpa è degli enti locali?
«Il governo deve sottrarre a Comuni e Regioni questa materia e affrontarla in modo pragmatico. Non si tratta di abbattere tutto, ma di rendere certo il percorso degli abbattimenti partendo dagli abusi che rappresentano pericoli per la pubblica incolumità. Bisogna rompere il fronte tra abusi totali, abusi parziali, piccole realizzazioni e veri e propri ecomostri, un fronte al quale i Comuni e le Regioni raramente riescono a sottrarsi».

Condivide la proposta del presidente dell’Anac Raffaele Cantone illustrata su “Repubblica”?
«Sono d’accordo con lui su un piano nazionale di abbattimenti e anche con le modalità da lui indicate, di confische degli abusi che non creano pericoli, al limite laddove risolvono problemi abitativi, mettendoli nella disponibilità di chi li utilizza. Però questo piano dovrebbe inserirsi in un quadro urbanistico diverso. Non solo gli abusi costituiscono un rischio, anche l’edilizia di scarsa qualità, legittimamente autorizzata ».

Lei cosa propone?
«Sempre da ministro dell’Ambiente ho proposto un ddl sul consumo del suolo, approvato dalla Camera e fermo al Senato, che autorizza i Comuni a pianificare nuove costruzioni solo dopo il riuso di quelle già esistenti. Bisogna riorientare l’attività edilizia. Perché non ci sono solo gli abusi, c’è anche la cattiva urbanistica che ha prodotto molte più stanze del fabbisogno reale del Paese, per cui calano gli abitanti e irresponsabilmente si continua a consumare suolo».

Perché ha fatto spedire alla Consulta la legge regionale della Campania?
«Si trattava di un tentativo di sanatoria. Le sanatorie sono pericolose non solo perché non puniscono gli abusi, ma anche perché generano nuovi abusi. Chi costruisce senza permesso, pensa che prima o poi arriverà una sanatoria, come è sempre avvenuto in passato ».

Però il governatore De Luca propone due anni di carcere contro chi fa abusi...
«Il carcere sono le lacrime di coccodrillo. È inutile prevederlo per il futuro e lasciare impunito chi ha ignorato i piani regolatori, chi non li ha fatti, chi non ha proceduto con gli abbattimenti, chi ha speculato. Il carcere rischia di essere solo la foglia di fico su un corposo sistema di interessi. Chi realizza un manufatto da un milione di euro può mettere anche nel conto qualche mese di carcere. Credo che sarebbe assai più spaventato dalla certezza dell’abbattimento. E poi è inutile introdurre nuovi reati e allo stesso tempo proporre leggi assai tolleranti con l’abusivismo».

Perché oltre quella bocciata da lei, De Luca e la Campania sono recidivi?
«C’è una legge proprio di questa Regione, attualmente al vaglio del governo, che vorrebbe consentire la costruzione di piccoli manufatti in zona sismica senza dare preavviso all’Ufficio regionale competente. Va fermata ».

Sì, ma dopo Ischia il governo che fa?
«Deve lavorare sulla realizzazione di Casa Italia, il piano di trasformazione edilizia contenuto nell’ultima legge di stabilità. Un’impresa immane. Parliamo di trasformare 40 milioni di vani e 8 milioni di case che non sarebbero adeguate alle norme antisismiche».

Ma la legislatura sta per finire. Le sembra un obiettivo realistico?
«Va considerata non solo un’emergenza legata alla sicurezza e all’ambiente, ma anche una grande leva per la ripresa economica. Per questo insisto che Casa Italia dev’essere accompagnata da una legge, in dirittura di arrivo, che dica: trasformiamo l’esistente, adeguandolo dal punto di vista sismico, termico, idrogeologico e paesaggistico e non costruiamo nuove case dove non è necessario sprecando ulteriori parti del territorio».

I sindaci avrebbero gli strumenti per verificare che le costruzioni non crollino come castelli di carte al primo soffio di vento, ma non sanno o non vogliono adoperarli. Del resto, quando il numero degli abusivi si avvicina a quello degli elettori... Emergenza cultura online, 24 agosto 2017

Dalla cronaca emerge dunque che sull’isola d’Ischia le pratiche di condono ovvero gli abusi edilizi denunciati sino al 2003 sono stati 27mila. Non dispongo dei dati relativi agli ultimi 14 anni, ma sembra sufficiente attenersi alle statistiche per sostenere che, rapportando tale dato al numero di famiglie residenti sull’isola, si avrebbe che “mediamente” ogni famiglia abbia esattamente un abuso da condonare.

In contesti nei quali i sindaci chiedono il voto ai cittadini è impensabile che essi possano mai avere la minima intenzione di procedere all’esame delle richieste di condono giacenti negli uffici, se forte è il rischio di un loro rigetto e del conseguente obbligo a demolire. Si aggiunga a ciò l’obbligo invece sistematico della demolizione di tutti i volumi abusivamente realizzati dopo il 2003 che la legge del terzo condono esclude dalla sanatoria.
Ne deriva che il compito di demolire che la legge impone ai Sindaci viene sistematicamente disatteso e le sole demolizioni praticate sino ad oggi siano state quelle disposte dai tribunali, in esito ad anni di lunghi processi, tirati avanti nel tempo grazie alle ordinarie disfunzioni della macchina della giustizia e all’abilità di molti avvocati che hanno costruito fortune difendendo gli abusivi. Demolizioni che saranno disciplinate (impedite) “per legge”, se passa il disegno di legge “Falanga” di prossima discussione alle Camere.
Nel frattempo il giudice non può nemmeno utilizzare gratuitamente il genio militare per demolire, ancora vigendo un protocollo tra ministeri della difesa e delle infrastrutture (governo Berlusconi) che stabilisce l’onerosità dell’intervento del genio militare con un prezzario cinque volte superiore agli ordinari prezzari utilizzati per le opere pubbliche (avete letto bene: “5 volte superiore”). Ciò impedisce di fatto al giudice di avere mano libera per demolire.
La stessa prima legge del condono ha consentito pure a molti notai di costruire fortune stipulando atti di vendita di immobili abusivi -seppur ancora non condonati- in quanto, in attesa dell’esame delle relative istanze da parte dei comuni, tali “corpi del reato” possono essere liberamente trasferiti. Sia chiaro che nel comportamento delle citate categorie professionali non va individuata alcuna illegalità, dal momento che la stessa legge consente la vendita degli abusi oggetto di domanda di condono ancora non esitata, se all’atto di trasferimento basti soltanto allegare la copia della istanza di condono e poche altre formalità.

Il sindaco di Casamicciola lamenta che il piano paesistico vigente impedisce la demolizione e ricostruzione degli edifici precedenti al 1945, così impedendo che l’isola possa avere un’edilizia “di qualità”. Certo il sindaco ignora secoli di pagine di storia del suo comune e dell’isola d’Ischia, ignorando che non sono soltanto i paesaggi naturali ad attirare i turisti dal mondo intero, ma pure ignora che “adeguare” sismicamente un edificio significa adeguarlo non necessariamente demolirlo, ignora che l’edilizia - tutta post bellica - del cemento armato da ferri “da calza” e povera polvere cementizia quali sono i materiali tipici dell’abusivismo, è quella che in ogni parte d’Italia genera le cosiddette “vittime degli eventi naturali” ed è quella che più opportunamente va demolita. Aggiungo che alle domande di condono è normalmente allegato il prescritto “certificato di idoneità statica a firma di tecnico abilitato” che generalmente sbriga in poche righe, quanto invece più corposamente e matematicamente verificato e calcolato per le nuove opere - legittime - in riferimento alle vigenti normative antisismiche.

Il sindaco trascura pure il fatto che il Piano Paesistico dell’ Isola d’Ischia offre una via di uscita, utile alla collettività intera. L’articolo 19 stabilisce infatti che nelle aree, anche vaste, dove si addensano le opere abusivamente eseguite, il parere di compatibilità paesaggistica di cui all’art. 32 della legge 47/85 verrà reso in conformità alle prescrizioni contenute in un piano di dettaglio da redigersi entro il termine di dodici mesi dalla data di entrata in vigore del presente piano a cura del Ministero per i BB.CC.AA. e con il supporto degli Uffici Tecnici dei Comuni interessati. Detto piano è finalizzato ad una valutazione specifica della compatibilità delle opere abusivamente realizzate con il grado di compromissione ambientale della relativa area.
Di fatto la vigente norma di piano paesistico fa ancora sopravvivere la conveniente prescrizione di obbligatorietà di tale strumento di pianificazione, che era contenuta nell’art. 29 della legge 47/85, abrogata dalla terza legge (“Berlusconi”) sul condono, del 2003. A detti piani di dettaglio resta subordinata la valutazione della compatibilità paesaggistica degli abusi oggetto delle istanze di condono presentate fino al 1994. La terza legge 2003 esclude invece la proponibilità del condono nelle zone vincolate (tutta l’isola d’Ischia), da ciò derivando che le domande riguardanti l’abusiva esecuzione di volumi sarebbero tutte irricevibili (ma, in pratica, tutte in giacenza negli armadi comunali).

A questo punto risulta chiaro che, al bisogno di residenze per gli abusivi ad Ischia debbano provvedere i comuni con la pianificazione urbanistica di dettaglio che la legge nazionale imponeva sin dal 1985 e fino al 2003, e che la pianificazione paesaggistica ancora impone dal 1999.
Specificamente ne deriva che proprio nelle zone tartassate dall’edilizia selvaggia né i sindaci e nemmeno la Regione Campania -che aveva l’obbligo (ex art. 29 l. 47/85) di esercitare i poteri sostitutivi- hanno mai provveduto, dal 1985, a redigere il Piano di dettaglio delle opere abusive
e che né il disastrato Ministero BBCC assieme ai Comuni hanno mai provveduto, dal 1985 ad oggi, a redigere il Piano di dettaglio delle opere abusive.

Insomma, proprio la legge che istituì il condono edilizio prescrisse l’obbligo della redazione di tali piani di dettaglio, finalizzai a salvaguardare gli interessi storici e paesaggistici e i vincoli idrogeologici e sismici nei territori interessati, e al contempo fornire risposte adeguate alle esigenze dell’abitare.
Mai in Campania si è visto alcun piano del genere e mai si è visto che la Regione che fino al 2003 ne aveva l’obbligo, abbia commissariato i comuni inadempienti (tutti) come la legge imponeva. Quell’articolo non esiste più, ma resiste il problema e le sue soluzioni rinviate, sine die, alla ordinaria latitanza delle pianificazioni di iniziativa comunale.
Resiste invece ancora l’articolo 19 del Piano Paesistico dell’Isola d’Ischia che, non potendo (per incompetenza) proporsi di salvaguardare gli interessi tutelati dai vincoli idrogeologici e sismici dei territori interessati, si limita (per competenza) a quelli di carattere storico e paesaggistico, prescrivendo il preventivo “Piano di dettaglio … finalizzato ad una valutazione specifica della compatibilità delle opere abusivamente realizzate con il grado di compromissione ambientale della relativa area”.

Il problema di oggi sembra essere il terremoto (oggi blando, nonostante i suoi pur gravi effetti). Ma il vero problema è l’abusivismo che, quando sarà associato a un più forte sisma (il terremoto del 1883 fece 2.300 morti) o ad altri fenomeni “naturali” di carattere idrogeologico, ci costringerà a ben altre “conte”. L’Autorità di Bacino regionale che governa il corretto uso del territorio sotto l’aspetto idrogeologico disciplinandone le trasformazioni attraverso il “Piano di assetto idrogeologico”, si è chiamata fuori dal problema. Nelle norme del Piano l’Autorità dispone che siano i comuni a pronunciarsi sugli immobili ricadenti nella zone di rischio. Ad alcuni comuni (Napoli, ad esempio), l’Autorità regionale ha precisato la propria incompetenza ad esprimersi sulle domande di condono, ma ha pure ricordato che nelle zone di rischio “elevato” e “molto elevato” (indicate come R3 e R4) non sia compatibile alcuna nuova edificazione, ancorché quelle abusivamente realizzate.

E’ vero, i sindaci sembrano aver ragione, non è questione di “materiali scadenti che non corrispondono alla normativa vigente”, quanto piuttosto la presenza sul territorio di volumi costruiti anche a prescindere dalla qualità dei materiali.
Aspettiamo di piangere quando verrà il momento in cui un altro “fenomeno naturale” avrà mietuto centinaia di vittime?

24 agosto 2017

«Dopo dieci anni il Consiglio di Stato respinge il ricorso del Wwf su Malamocco e dà ragione al Consorzio Venezia Nuova». La Nuova Venezia, 25 agosto 2017 (m.p.r.) con riferimenti

«I cassoni si devono fare in laguna, per ragioni occupazionali». Era stata questa la motivazione addotta dalla Commissione di Salvaguardia, presieduta allora dal presidente della Regione Giancarlo Galan, per sistemare l'enorme cantiere del Mose sulla spiaggia di Santa Maria del Mare. Milioni di tonnellate di calcestruzzo avevano trasformato la spiaggetta in un cantiere per la produzione dei cassoni, condomini in cemento oggi affondati alle tre bocche di porto per sostenere le paratoie. Era stato costruito anche un grande villaggio per gli operai, il territorio stravolto. Ricorsi all'Europa, tardive ammissioni che per realizzare quelle infrastrutture non tutti i vincoli di legge erano stati rispettati. Battaglia allora di minoranza condotta da coraggiosi ambientalisti, dal Comune e da pochi altri. Poi nel 2014 gli arresti e l'inchiesta penale. E la scoperta che molte di quelle denunce erano fondate.

Venezia. Il cantiere del Mose forse non era in regola. Ma il ricorso è stato presentato «tardivamente». E anche annullando oggi quella delibera della Regione che autorizzava il progetto, «i ricorrenti non ne trarrebbero alcun vantaggio». Sono le motivazioni, per certi versi sorprendenti, con cui il Consiglio di Stato mette la parola "fine" al contenzioso tra Comune e Wwf da una parte, Regione, ministero delle infrastrutture e Consorzio Venezia Nuova dall'altra.

Una sentenza che arriva dodici anni dopo i fatti, dieci dopo il ricorso presentato dal Wwf sulla illegittimità di quella decisione, già bocciato in primo grado dal Tar del Veneto nel 2008. In mezzo è passato di tutto. Una grande inchiesta penale che ha dimostrato come molti dei pareri favorevoli al Mose fossero viziati dalla corruzione, come molti si siano arricchiti con il denaro dello Stato. Quasi conclusa l'inchiesta penale, ancora in corso i processi della Corte dei Conti che chiede la restituzione di milioni di euro ai protagonisti della vicenda, adesso arriva la sentenza.«Ricorso che va respinto», scrivono i magistrati Giuseppe Severini (presidente), Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa, Valerio Perotti e Stefano Fantini. E condannano il Wwf al pagamento delle spese, 5 mila euro.
È stata accolta dunque dopo molti anni la tesi del Consorzio Venezia Nuova, allora difeso dagli avvocati Alfredo Biagini, Angelo Clarizia e Benedetto Giovanni Carbone. Respinta quella dei legali dell'associazione ambientalista (Alessio Petretti, Angelo Pozzan e Alfiero Farinea) che ricordava le violazioni di legge commesse dalla Regione - nella mancata acquisizione del parere paesaggistico - e l'eccesso di potere. «Non può ritenersi», scrivono i giudici amministrativi di secondo grado, «che l'associazione appellante potrebbe conseguire una effettiva utilità dall'eventuale annullamento della sola delibera della Commissione di Salvaguardia del 31 luglio 2007, perché un tale annullamento non determinerebbe comunque lo spostamento della contestata localizzazione».
Non basta, perché secondo i giudici il Wwf non ha nemmeno titolarità per ricorrere e non ha formulato in modo esplicito la richiesta di risarcimento danni ambientali». Sentenza che farà discutere, anche per l'inedita tempistica. Nove anni di ritardo per chiudere una vicenda che nel frattempo ha mutato contesto. Ed è stata ampiamente trattata nelle aule dei Tribunali. L'episodio sollevato dal Wwf era stato contestato anche dal Comune, allora guidato da Massimo Cacciari, che all'epoca aveva ingaggiato un braccio di ferro proprio sull'utilità del Mose, proponendo alternative poi scartate. Esprimendo parere contrario alla decisione dalla Regione del ministero di cementare la spiaggia di Santa Maria del Mare per installarci i l cantiere dei cassoni del Mose.


Riferimenti
In linea con la sentenza, addirittura anticipandola, il Consorzio Venezia Nuova ha stipulato una convenzione triennale con lo IUAV e MIT di Boston per studiare come riutilizzare l'area ora sommersa dal cemento un tempo tra le più belle della laguna, in barba all'impegno preso di smantellare l'opera “temporanea alla chiusura del cantiere. Si veda su eddyburg: Summer school Iuav nel villaggio MoSE e Piattaforma del Mose esposto in corte dei conti

Una meraviglia della storia e della cultura, divenuta oggetto di uno scandalo, iniziato dai governi di centrosinistra, che prosegue indisturbato con la giunta M5s. In calce il link a un'ampia illustrazione del caso

In un articolo su il manifesto del 7 marzo 2017 intitolato Pareggio di bilancio, la 'rivoluzione' mancata di Chiara Appendino, Maurizio Pagliassotti ha tracciato un'analisi sconfortante della Amministrazione comunale pentastellata che si conclude così:

«Da questo percorso emergono alcuni cardini culturali del M5S in salsa sabauda: la post ideologia pentastellata – non siamo di destra né di sinistra – è neo liberismo mimetizzato, dato che il dogma è rappresentato dal pareggio di bilancio da raggiungere attraverso l’austerità. In tal senso l’elettorato di movimento, dagli animalisti agli sfrattati, passando per quelli che non vogliono la privatizzazione dei beni comuni, è tutto sacrificabile. Rimane la prospettiva di lungo termine, il punto di fuga della propaganda via internet permanente, fatto di sempre nuove promesse per un futuro sempre più lontano e sempre più radioso».

Difficile non condividere l'analisi del giornalista torinese, buon conoscitore del cosiddetto 'Sistema Torino' e difficile sottrarsi al dovere di documentarla con un contributo di pensiero critico relativo ad un caso emblematico e complesso, quello della Cavallerizza Reale.

Già iniziammo a parlarne su questo sito insieme a tre autorevoli urbanisti, Riccardo Bedrone, Paolo Berdini e Paola Somma, lo scorso anno quando a Palazzo Civico siedeva ancora la Giunta PD guidata da Piero Fassino, ma il caso resta tutt'ora aperto come una ferita infetta e apparentemente insanabile, nonostante l'esplicita promessa di salvataggio contenuta nel programma elettorale dei 5S, laddove nel capitolo dedicato all'urbanistica recita testualmente: “Interruzione del processo di vendita della Cavallerizza Reale . Pianificazione del processo di riacquisizione dell'immobile al fine della trasformazione dello stesso, attraverso un processo partecipativo che coinvolga i cittadini, in polo culturale sotto il controllo pubblico”.

Il “processo di vendita” al quale si fa riferimento è quello avviato nel 2010 dalla Giunta Chiamparino e proseguito con zelo dalla Giunta Fassino, osteggiato dalla allora consigliera 5S Chiara Appendino; contrastare quel processo è divenuto uno dei cavalli di battaglia del Movimento, tanto da essere esplicitamente citato nel programma che li ha portati alla schiacciante vittoria nel giugno del 2016.

Il compendio della Cavallerizza Reale è la Zona di comando dell'immenso complesso che dalle Porte Palatine, cuore della città romana, si è sviluppato a partire dalla metà del Seicento attraverso piazza Castello fino all'edificio della Zecca in via Verdi, a pochi isolati da dove sorge la Mole Antonelliana e dal fiume Po. Esso costituisce nel suo insieme unitario e tuttora esistente la eccezionale testimonianza materiale della nascita dello Stato unitario italiano, realizzato per mano dei migliori architetti dell'epoca, tra i quali Amedeo di Castellamonte e Benedetto Alfieri. Il compendio comprende diversi corpi di fabbrica per un totale di circa 40.000 mq nei quali avevano trovato spazio l'Accademia militare, le Cavallerizze, le scuderie e la Regia Zecca.

Non a caso l'intero complesso risulta iscritto dal 1997 nella lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO come insieme seriale delle Regge Sabaude. Destinato a funzioni di servizio prevalentemente improprie e svilenti col passaggio di proprietà dalla casa Savoia allo Stato italiano, è stato poi ripensato a fine anni Novanta per la rinascita postindustriale torinese in versione culturale, come emblema dell'apertura e dello status internazionale della città e come occasione di ricomposizione funzionale dell'intero Complesso, in parte già destinato a spazi museali, conservativi e istituzionali (Palazzo Reale, Galleria Sabauda, Prefettura, Archivio di Stato, Teatro Regio). L'unico intervento di recupero, coerente con questa logica, è stato la realizzazione della nuova Aula Magna dell'Università nel Maneggio Chiablese, confinante con la ex Regia Zecca, inaugurata nell'autunno 2014 su progetto di Agostino Magnaghi.

La concessione di questo edificio all'Università è stata deliberata prima che il Comune di Torino decidesse di rinunciare al progetto, partito nel 2003, di progressiva acquisizione di tutto il compendio dal Demanio (un primo blocco di circa 20.000 mq e uno successivo di analoghe dimensioni) per realizzarvi le attività istituzionali e culturali previste dalla legge e prima che, nel 2010, utilizzasse nella forma più discutibile e cruda il cosiddetto 'federalismo demaniale'.

A causa dei resti tossici della 'finanza creativa' tremontiana, cristallizzata nelle “Disposizioni urgenti in materia di privatizzazione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico” (L. 410/2001) ed al non riconoscimento dell'inalienabilità del bene in quanto appartenente al patrimonio culturale NAZIONALE (L.42/2009, art.19) che lo avrebbe messo al riparo dalla possibilità di vendita, la Giunta Chiamparino ha potuto completare la cartolarizzazione della parte di sua proprietà del Compendio (compreso l'edificio della ex Zecca), ossia ne ha decretato la morte come bene comune e ne ha affidato la vendita sul mercato immobiliare ad una sua società, la Cartolarizzazioni Città di Torino (CCT).

Ciò ha aperto la strada alla successiva rinuncia della Giunta Fassino ad acquisire l'altra metà del Compendio ancora in capo al Demanio militare (all'incirca altri 20.000 mq.) che invece è stata comprata obtorto collo nel dicembre 2014 da un Fondo Speculativo di Cassa Depositi e Prestiti.

Se la società di cartolarizzazione CCT non è finora riuscita nell'intento di vendere la sua parte di Cavallerizza, come se si trattasse di un edificio qualunque, anche il destino della parte comprata da CDP, ibrida istituzione a cavallo tra pubblico e privato, è rimasto avvolto nella più totale incertezza. Tuttavia, il senso dell'operazione nel suo complesso lo si capisce nel quadro della sciagurata politica prima statale e poi locale di 'valorizzazione' intesa come privatizzazione del patrimonio storico-architettonico italiano. CDP infatti ha puntato sulla 'valorizzazione' dell'immobile, collocando il bene nel fondo immobiliare speculativo FIV. E' l'ultima tappa della strategia neo-liberista di estrazione del valore dai beni comuni storico-architettonici di un Paese le cui città, volenti o nolenti, si trovano a far cassa con i propri gioielli di famiglia, capitolazione che vediamo oggi in atto in Grecia.

Se, come purtroppo sembra stia accadendo, la Giunta Appendino, disattendendo i suoi impegni elettorali, non tratta con CDP la retrocessione di quei 20.000 mq alla proprietà pubblica (per un valore pari a circa 12 milioni di €) la CDP, stanca di attendere un segnale concreto e credibile di un progetto culturale unitario e con esso di recupero del capitale investito, andrà senz'altro avanti nel suo autonomo progetto di 'valorizzazione', e di sicuro otterrà dal Comune la delibera necessaria ad intervenire sulla parte di sua proprietà per realizzarvi un qualche tipo di struttura alberghiera che vanificherà per sempre la possibilità di una ricomposizione unitaria.

Altra conferma che è proprio vero, come scriveva Pagliassotti, che il dogma del pareggio di bilancio è quello che detta anche la politica dei 5S.

Ma se è così, per quale ragione è stato preso l'impegno di 'riacquisizione dell'immobile'? Alla allora consigliera Appendino non mancavano certo i dati sul debito della Città, essendo vicepresidente della Commissione Bilancio! Per non svelare la contraddizione, si sta invece tentando di 'spacciare' per 'progettazione partecipata' quello che altro non è se non un accordo sulle operazioni immobiliari di CDP presentate come coerenti con le destinazioni culturali della Cavallerizza. Ma i guai non finiscono qui.

Andiamo dunque a vedere quello che sta succedendo nell'altra metà del compendio, quella cartolarizzata, e nel Maneggio Reale, l'unica parte del bene che per un necessario maquillage del bilancio della CCT è stata de-cartolarizzata da Piero Fassino nel dicembre del 2015.

Se, per fortuna, la crisi del mercato immobiliare ha ostacolato la CCT nella ricerca di uno speculatore disposto ad accollarsi l'onere di un complesso intervento di recupero di tutto l'insieme (come prescritto dal P.U.R. del 1995), l'operazione di ulteriore spezzettamento del bene, tentata col Masterplan (di cui abbiamo scritto a giugno 2016) voluto dalla giunta Fassino, è finita troppo a ridosso delle elezioni comunali per tradursi in delibera e diventare operativa prima del voto. Anche per non alienarsi il consenso elettorale di quella non piccola parte della cittadinanza contraria alla vendita del bene, la Giunta ha ritenuto meglio aspettare la scontata rielezione e poi procedere nel programma: una volta spezzettato il compendio della Cavallerizza in 10 unità indipendenti (una delle quali corrispondente all' intera proprietà di CDP) sarebbe stato più facile trovare subito dei compratori, almeno per le parti più ghiotte, quali l'edificio della ex Zecca o il lungo corpo di fabbrica con lo splendido affaccio sui Giardini Reali o la corte che affaccia su via Verdi. Il riacquisto (de-cartolarizzazione), infine, del Maneggio Reale (da destinare necessariamente, a norma di legge, ad attività istituzionali e/o culturali) ha tentato di dimostrare all'opinione pubblica la sensibilità del PD per il tema della salvaguardia dell'uso pubblico della Cavallerizza. Peccato che si sia trattato di soli 1.000 mq su un totale di 40.000: non un gran risultato. Con tante belle mappe colorate Fassino ha cercato di narrare al cittadino inesperto la favola di uno spazio pubblico che sembrava sovrapponibile in toto alla superficie lorda calpestabile del compendio (anche se non lo era affatto, come il nostro citato dossier ha messo in evidenza).

L'equilibrismo pentastellato sembra ora andare sostanzialmente nella stessa direzione, con però l'immancabile tocco di retorica sulla 'democrazia dal basso' e una complice strizzatina d'occhio al gruppo di occupanti che da oltre tre anni, era il maggio 2014, si è insediato nel compendio per denunciare le mire speculative del Comune.

Da occupazione temporanea di denuncia ad occupazione perpetua per usucapione o, per dirla in versione contemporanea più cool, per uso civico, il passaggio è stato segnato dalla tolleranza sia di Piero Fassino (e del suo Assessore al Bilancio Gianguido Passoni, forse consapevole che il marketing urbano oggi è fatto anche di fenomeni squatt-culturali o pseudo-culturali) sia di Chiara Appendino: nessuno dei due ha mai richiesto lo sgombero per il rischio che corrono sia gli edifici storici fatiscenti sia le persone che vi abitano stabilmente o che li frequentano, nonostante due incendi già scoppiati e l'allarmato sopralluogo di un docente del Politecnico di Torino che ha chiesto serie verifiche (mai fatte) sull'agibilità delle uniche scale di accesso ai piani superiori, delle quali l'Assessore all'Urbanistica Guido Montanari ha “sconsigliato in via precauzionale l'uso” inventandosi una formula elusiva della responsabilità della Amministrazione pubblica dalla valenza giuridica opinabile.

Alcuni Consiglieri comunali 5S molto vicini agli occupanti hanno, a fine luglio 2017, presentato una mozione che, se approvata da Sindaca e Giunta, permetterebbe di riconoscere agli occupanti, al di fuori di ogni sensata e oggettiva valutazione pubblica delle qualifiche e competenze necessarie, il diritto esclusivo alla progettazione del futuro della Cavallerizza, oltre alla gestione delle attività e degli spazi occupati, in nome di una loro auto-proclamata rappresentanza della cittadinanza torinese.

Negli ultimi proclami degli occupanti, che si firmano Assemblea 14:45, non c'è più traccia di rivendicazioni per la restituzione dell'intero complesso (facente capo a CDP e CCT) alla Città, Regione o Stato come conditio sine qua non per abbandonare la lotta .

La partita ora si gioca sul piano molto più prosaico del chiedere (genericamente e sul lungo periodo) molto per ottenere subito (per sé) almeno un pezzettino (il Maneggio Reale e spazi annessi), mentre è chiaro che tutto il resto, in nome del “neo-liberismo mimetizzato” servirà (inutilmente) a tappare una piccola falla nella voragine del debito pubblico e a far felici alcuni developers, forse locali o forse cinesi o del Quatar.

Il tutto con buona pace dei Movimenti dal basso, della Sindaca né di destra né di sinistra e degli Assessori al Bilancio e all'Urbanistica, uno di destra e uno di sinistra per fare media e non scontentare nessuno (o scontentare tutti).

Per chi si domandasse quale alternativa si potrebbe contrapporre ad un simile esito, la risposta la può trovare nel dossier dettagliato allegato. In esso, accanto ad una più articolata presentazione del caso, abbiamo avanzato idee sul metodo da seguire, sugli esempi più istruttivi e convincenti a cui ispirarsi. Tutti aspetti ampiamente e pubblicamente illustrati ai suddetti Assessori ma apparentemente non raccolti e non recepiti neppure dalla stessa Sindaca. Ogni contributo di chi ci legge con esperienza politica, professionalità e perfino semplice buon senso sarà benvenuto.

La Cavallerizza Reale è un bene comune di rilevanza nazionale, europea e mondiale (UNESCO) e come tale va trattata. Come ha dichiarato Gustavo Zagrebelsky nel 2015 «Abbiamo un complesso monumentale straordinario che va dal Duomo all'Antico Macello: Palazzo Reale, Archivio di Stato, Teatro Regio, Zecca, Università, ex Accademia militare, scuderie….E' un complesso straordinario collocato in una linea strategica. Io mi chiedo se i nostri amministratori sappiano quali siano questi palazzi, uno collegato all'altro. Sarebbe davvero un obbrobrio pensare che lì in mezzo si facciano delle case di abitazione private».

«La proposta di Raffaele Cantone. La politica abbia il coraggio di agire: perderà qualche voto ma restituirà fiducia ai cittadini onesti». la Repubblica, 25 agosto 2017 (c.m.c)


Caro direttore, partendo dal terremoto di Ischia, in questi giorni si è aperto un dibattito, più o meno a proposito, sull’abusivismo edilizio su cui vorrei provare anche io a dare un piccolo contributo. Vorrei farlo più che come Presidente dell’Autorità anticorruzione o come magistrato, come abitante da sempre di un Comune del Napoletano, Giugliano.

Un paese con litorale marino lunghissimo, con una macchia mediterranea ed una pineta stupefacenti (almeno in passato); uno splendido lago vulcanico (il lago Patria) con sbocco diretto al mare; i resti di una villa romana con anfiteatro che la tradizione dice di essere stata di Scipione l’Africano, ingiustamente esiliato da Roma. Grandi opportunità, quindi, che purtroppo hanno prodotto molto poco sul piano economico e specialmente turistico mentre, al contrario, si è fortemente imposta l’immagine (solo in parte meritata) di un Comune ad altra densità camorristica, confermata anche dallo scioglimento dell’amministrazione, qualche anno fa, per infiltrazioni mafiose.

Il paese ha purtroppo avuto un enorme sviluppo urbanistico e demografico; ha triplicato gli abitanti in poco meno di trent’anni giungendo a quota centoventimila, più di molti capoluoghi di regione e di provincia, senza, però, adeguate infrastrutture e servizi. Questo sviluppo disordinato e sconsiderato è stato causato proprio dall’abusivismo edilizio, che si è manifestato con forme più variegate di quelle in questi giorni descritte; accanto alle tantissime case totalmente abusive (alcune costruite persino su terreni demaniali!) ce ne sono tante altre con concessioni irregolari, date per realizzare improbabili uffici e locali commerciali, o costruite con lottizzazioni abusive.

Non molti anni fa, fra l’altro, una meritoria indagine della magistratura napoletana scoprì un’organizzazione criminale che, all’interno del comando dei vigili urbani “gestiva” (esautorando i tanti vigili onesti) di fatto l’abusivismo, consentendo il completamento di case a singoli cittadini e grosse speculazioni a rampanti imprenditori della camorra, con tanto di tariffario corruttivo: ogni tipo di pratica illecita aveva un prezzo.

Come a Ischia, anche qui sono numerose le richieste di condono edilizio, persino del 1985, che devono essere esaminate mentre gli abbattimenti degli immobili abusivi si contano sulle dita di una mano ed hanno riguardato soprattutto qualche edificio simbolo, come uno tirato su all’ingresso del foro romano. E questo andazzo non è stato radicalmente invertito nemmeno dai pur volenterosi commissari nominati con lo scioglimento del municipio per mafia.

Ho descritto la situazione di Giugliano perché so che non è purtroppo affatto peculiare ed anzi si ripresenta, in forme ovviamente diverse, in altri Comuni campani. Alcuni forse ricorderanno il caso, pochi anni orsono, di un Comune del Napoletano in cui venne “scoperto” un quartiere di palazzi tutti abusivi, cresciuti nella distrazione totale di tutti i controllori o quello, meno recente, di una cittadina completamente abusiva sul litorale domizio con costruzioni persino sulla spiagge.

È paradossalmente facile individuare le responsabilità di tutto ciò, anche perché esse sono ampiamente spalmabili su molti protagonisti: una camorra vorace che ha messo il cemento al primo posto dei suoi affari; un pezzo di imprenditoria collusa; una politica locale che non ha pianificato ma ha guardato al territorio in una logica di sfruttamento miope ed affaristico; una politica nazionale che ha sfornato leggi criminali e criminogene (come i condoni) o di rara durezza astratta ma in concreto solo “grida manzoniane” (gli abbattimenti previsti sono difficilissimi da attuare); una cittadinanza in parte distratta, in parte egoisticamente convinta che a casa propria si può fare tutto; un ambientalismo debole e in qualche caso più interessato alle carriere politiche di singoli esponenti e persino una magistratura con picchi di grande impegno ma anche di poco comprensibili distrazioni. È molto più difficile, invece, tentare di trovare soluzioni giuste e concretamente perseguibili.

Non sembrano tali, nelle loro opposte radicalità, quelle indicate, anche in questi giorni, sia da chi dice “abbattiamo tutti gli immobili abusivi” (ci vorrebbero anni e la militarizzazione del territorio) sia da chi propugna provvedimenti legislativi di più o meno mascherata sanatoria (e sono tali quelli che individuano criteri di priorità negli abbattimenti o prevedono acquisizioni al patrimonio); entrambi finiscono, forse loro malgrado, per rinviare il problema alle future generazioni, lasciando una situazione (anche) di irregolarità di un vasto patrimonio immobiliare che rende persino incerti i rapporti giuridici.

E nemmeno pare accettabile la posizione di chi invoca la tutela degli abusi di necessità, termine dietro il quale si può nascondere di tutto; nel corso di un incontro pubblico un cittadino rivendicò il suo abuso di necessità, costituito da una villa quadrifamiliare in cui ogni appartamento era di 200 metri quadrati che aveva fatto per sé ed i suoi figli, fra gli applausi scroscianti di quasi tutti i presenti.

Sarebbe invece utile pensare ad una soluzione definitiva del problema e predisporre un piano straordinario che, coinvolgendo anche le realtà locali, ridisegni con chiarezza la geografia urbanistica dei territori; verifichi la recuperabilità di quegli immobili che sono inseriti in contesti ormai urbanizzati, prevedendo in parte l’acquisizione degli stessi al patrimonio pubblico, in parte la possibilità, per quelli più modesti, di riacquisto da parte dei costruttori, previo pagamento di oneri che consentano di fornire servizi adeguati e l’abbattimento, senza alcuna remora, da parte del Genio militare di quelli costruiti in zone vincolate o su terreni demaniali. Il tutto modificando contestualmente la normativa sugli illeciti edilizi in modo da rendere certi e spediti i futuri abbattimenti ed evitando si riparta punto e daccapo.

È evidente che una scelta del genere richiederebbe grande coraggio (ma non sarebbe questo il compito della Politica?) e forse nel breve periodo farebbe perdere qualche voto ma certamente restituirebbe un po’ di fiducia ai cittadini onesti, che sono tanti, ed al territorio. Se questo - come è probabile - non accadrà, attenderemo la prossima tragedia (annunciata), per risentire inutili e sterili giaculatorie.

Per ricordare meglio una storia dolorosa, alcune pagine dalle Memorie di un urbanista, sui contrastati rapporti tra comunisti e abusivismo all'interno del Partito comunista italiano degli anni Ottanta.

Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista, l'Italia che ho vissuto, Corte del fòntego, Venezia 2010, pp.119-123

Intanto, sull’abusivismo

All’inizio del 1984 il Parlamento inizia la discussione della conversione in legge di un decreto del governo che, nel dichiarato intento di raggranellare un po’ di entrate, condona a pagamento l’abusivismo edilizio. Si apre un lungo dibattito, nel quale emerge con chiarezza che il Pci (la cui politica del territorio è guidata dal nuovo responsabile del settore Infrastrutture, casa e trasporti, Lucio Libertini) è favorevole al condono, motivando il fenomeno del mancato rispetto delle regole urbanistiche con la loro rigidezza, astrattezza, incuranza delle esigenze della gente.

Le vicende parlamentari sono attentamente seguite dall’Inu e dalla sua rivista. Gli organi dell’istituto esprimono sistematicamente le loro censure. Un articolo di Luigi Scano su Urbanistica informazioni[1] critica in particolare un emendamento, proposto da Franco Bassanini e altri deputati indipendenti di sinistra, pienamente appoggiato dal Pci, che prende pretesto dal condono per liberalizzare, rispetto alle previsioni dei piani urbanistici, i cambiamenti di destinazioni d’uso e allargare il campo del silenzio-assenso.

La tesi del gruppo dirigente dell’Inu era che, se le regole dell’azione pubblica non vanno bene, allora si cambiano con altre regole, non si cancellano. Lo ribadivo nell’editoriale del n 75 di “Urbanistica informazioni”: “Il problema non è quello della deregulation, ma è quello delle nuove regole da costruire. Il problema non è quello di smantellare gli strumenti attraverso i quali oggi si attua il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali, ma è quello di rinnovarli, di adeguarli alle nuove esigenze, ai nuovi problemi, alle nuove possibilità tecniche”.

Inizia un mio carteggio (ero allora presidente nazionale dell’Inu), con Lucio Libertini e altri esponenti della Direzione del Pci, che proseguirà per qualche anno. La critica principale che gli urbanisti, pienamente rappresentati allora dell’Inu, facevano alla legge e all’atteggiamento del Pci era di aver completamente invertito il processo logico che si sarebbe dovuto seguire. Secondo noi si sarebbe prima dovuto rafforzare le norme capaci di arrestare l’abusivismo, poi provvedere a redigere piani urbanistici volti a recuperare gli insediamenti abusivi conferendo loro la necessaria dignità umana, e solo dopo provvedere al condono delle diverse situazioni soggettive, senza però accrescere l’iniquità tra chi aveva costruito abusivamente e chi, pur avendo la stessa necessità, la legge aveva rispettato. La legge, secondo un percorso tollerato dal Pci, partiva dalla coda: ciò che interessava era il condono, per ragioni di cassa (il governo) o per ragioni di demagogia (Libertini).

Lo scontro raggiunse livelli acuti, sia dentro che fuori il Pci. Libertini scrive che “si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme perverse di oppressione burocratica” (Libertini, 1984), e su questa base attribuisce legittimità alle norme regolative, noi rivendichiamo la necessità di fondare in Italia una “nuova cultura della pianificazione” e di affrontare con coerenza l’insieme delle questioni del governo del territorio.
Le elezioni amministrative segnano un notevole arretramento del Pci. In una lettera al segretario generale del Pci (Alessandro Natta), e ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche[2].

«Dobbiamo dire innanzitutto che - come urbanisti - fin dalle prime battute dello scontro elettorale ci ha preoccupati la debolezza delle posizioni, e della propaganda, del Partito sui temi della qualità urbane e dell'ambiente. E i risultati hanno non solo confermato, ma accentuato le nostre preoccupazioni.

«Infatti, sebbene nella propaganda elettorale abbiano giocato un peso rilevante i temi della politica nazionale, ci sembra indubbio che un ruolo non marginale abbiano svolto i temi dell'assetto territoriale e urbano.
«E allora non si può non sottolineare che siamo stati sconfitti anche per i colpi ("severi", nel giudizio dell'elettorato) di una determinata propaganda delle forze politiche avversarie e concorrenti: a destra, dove la DC ha impostato la sua campagna elettorale, sia pure con toni da crociata, sul tema della inefficienza delle giunte rosse; e a sinistra, dove i "verdi" hanno esplicitamente dichiarato che il voto per le loro liste sarebbe stato l'espressione di una critica all'insufficienza, all'ambiguità e ai ritardi dei partiti di sinistra (ma in primo luogo del Pci) sui temi dell'ambiente».

Chiedevamo «una riflessione profonda, e a un dibattito aperto e impietoso» poiché siamo stati colpiti proprio sul punto su cui avremmo potuto essere più forti: sui temi che ci hanno storicamente visti come protagonisti, e per i quali regioni e comuni amministrati da noi sono stati proposti e riconosciuti come modelli, all'Italia e all'estero». A nostro parere, avevamo perso perché non vi era stata «un'adeguata direzione nazionale, o quanto meno un efficace coordinamento, del Partito sulle questioni urbanistiche e territoriali. Di queste ci si è occupati a pezzi, a spezzoni, a settori, dimenticando, o ignorando, che ciò che è essenziale è una visione unitaria dei problemi del territorio, che un governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali ha il suo metodo e strumento irrinunciabile nella pianificazione urbanistica e territoriale, e che infine consolidare nel paese una cultura e una prassi della pianificazione esige uno sforzo determinato, tenace, continuo, di lunga durata».

Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il Pci voleva superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari. La risposta ai 40 urbanisti era stata preceduta da una lettera dello stesso Libertini a tutti segretari regionali e provinciali e alla commissione casa e infrastrutture del Pci, in cui, difendendo il comportamento del Pci sull’abusivismo, respingeva le critiche delle “associazioni che difendono l’ambiente e il territorio” attribuendole “ai legami intensi che tutte queste associazioni hanno con i partiti di governo”[3].
Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti

Un ulteriore picco del dissenso si ebbe quando, il 17 febbraio 1987, il Pci appoggiò platealmente una manifestazione di piccoli costruttori abusivi, accompagnati da numerosi sindaci: quarantamila persone erano venute a Roma, in larghissima prevalenza dal Mezzogiorno, guidati dal sindaco comunista Paolo Monello, sindaco del comune di Vittoria (Ragusa), per chiedere un’ampia estensione dell’abusivismo e l’abolizione della tassa per il condono.

Case abusive tasse esose, Rabbia e protesta dal Sud, era il titolo sparato in apertura della prima pagina de “l’Unità”, su cinque colonne. Nelle pagine interne altri articoli commentavano la manifestazione e raccontavano del fruttuoso incontro dei sindaci leader del movimento con un’autorevole delegazione di senatori comunisti. Il giorno dopo continuano le cronache del movimento degli abusivisti, e un corsivo di Emanuele Macaluso prosegue la giustificazione degli abusi commessi. “Si vuole che chi doveva finalmente costruire una casa […]avrebbe dovuto farlo con i bolli. E dove erano i bolli? E chi li metteva questi bolli? Ed in quali aree fabbricabili si sarebbe potuto costruire?”[4]

Naturalmente la polemica divampò. Su Urbanistica informazioni raccogliemmo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna (la Repubblica, 19 febbraio), Giovanni Russo e Cesare De Seta (Corriere della sera, 9 febbraio), Filippo Ciccone ed Enrico Testa (il manifesto, 20 febbraio), Fabrizio Giovenale (Paese sera, 22 febbraio), Vezio De Lucia (l’Unità, 23 febbraio), Giulio Di Donato (Avanti!”, 6 marzo), Edoardo Salzano (Rinascita”, 24 febbraio), Pierluigi Cervellati (La Nazione, 28 febbraio), Carlo Melograni (l’Unità 6 marzo). Le posizioni del Pci erano state difese da Emanuele Macaluso (l’Unità, 20 febbraio) e Lucio Libertini (la Repubblica, 21 febbraio), mentre Guido Alborghetti, parlamentare del Pci, aveva preso le distanze dal sostegno al movimento degli abusivi pur tentando di mediare tra le opposte posizioni (Rinascita, 24 febbraio).

Nei mesi successivi ulteriori tentativi furono compiuti dagli urbanisti vicini all’Inu per convincere i dirigenti del Pci a mutare registro. La risposta del Pci venne sempre da Libertini, e non cambiò di tono. Finalmente il 22 ottobre 1988 diedi le dimissioni dalla commissione casa, infrastrutture e trasporti. La mia battaglia proseguiva all’interno dell’Inu, dove le cose non andavano bene. La svolta era arrivata anche lì.

NOTE
[1] L. Scano, L’emendamento Bassanini. Deregulation ovvero sregolatezza, “Urbanistica informazioni”, 1984, n. 73/74.
[2] La lettera è stata firmata da Luigi Airaldi, Carlo Alberto Barbieri, Massimo Bilò, Piero Beccaria, Giuseppe Boatti, Felicia Bottino, Vittoria Calzolari Ghio, Giuseppe Campos Venuti, Massimo Carmassi, Pier Luigi Cervellati, Elena Camerlengo, Filippo Ciccone, Alessandro Dal Piaz, M. Franca De Forgellinis, Sandro Del Fattore, Piero Della Seta, Vezio E. De Lucia, Giorgio De Rosa, Valeria Erba, Stefano Garano, Mario Ghio, Ugo Girardi, Tommaso Giura Longo, Francesco Malfatti, Laura Mancuso, Giorgio Morpurgo, Carlo Melograni, Roberto Matulli, Federico Oliva, Stefano Pompei, Giuseppe Pulli, Raffaele Radicioni, Anna Renzini, Amerigo Restucci, Ezio Righi, Edoardo Salzano, Stefano Stanghellini, Giancarlo Storto, Lino Tirelli, Alberto Todros.
[3] Lettera del 24 giugno 1985, firmata Lucio Libertini. Archivio Salzano
[4] “Em.ma., Dove stanno i veri eroi dello scempio edilizio, “l’Unità”, 19 febbraio 1986.

«Intervista di Adriana Pollice a Vezio De Lucia. L'urbanista, autore nel 2004 del piano regolatore di Napoli, demolisce la legge De Luca: "Favorisce l’illegalità con conseguenza disastrose"». il manifesto, 25 agosto 2017 (c.m.c)

«Quello che è successo a Ischia con il sisma di lunedì scorso ha la sua origine nella mancanza di pianificazione territoriale, una condizione molto diffusa da Roma in giù, capitale inclusa»: Vezio De Lucia è uno dei maggiori urbanisti italiani, padre del Piano regolatore di Napoli, approvato nel 2004.

De Lucia, Ischia è un caso particolarmente grave o l’abusivismo è un problema diffuso?
L’isola partenopea ne è un esempio ma tutto il meridione è attraversato da fenomeni di edificazione selvaggia. Al Nord non ci sono le stesse proporzioni. Una grande responsabilità è anche della sinistra. Nel 1983 venne varata la prima sanatoria dal governo Craxi: il sindaco comunista di Ragusa, Paolo Monello, capeggiava la rivolta affinché gli abusivi pagassero oneri più bassi. C’era un vasto consenso intorno alla sua battaglia: una parte del Pci voleva che il condono non fosse oneroso. Alla fine Monello diventò anche parlamentare. Da allora si è sdoganata una politica che ha lasciato mano libera al privato anche nel centrosinistra e nel suo maggior partito, lungo tutti i suoi cambi di nome.

Cosa c’è di differente nelle regioni del centro nord?
Al Nord e, in particolare, nelle «regioni rosse» ci sono amministrazioni comunali forti e tecnici preparati. Al Sud il tessuto della macchina pubblica è fragilissimo. L’abusivismo è una scorciatoia quando mancano la pianificazione del territorio e le politiche per la casa, anche se così quasi nobilitiamo gli amministratori. Tollerare è diventato uno standard. A Ischia il numero delle richieste di condono è tale da superare una a famiglia, questo determina un blocco elettorale fortissimo. Eppure chiudere gli occhi provoca una serie di effetti negativi: crolli, nubifragi, degradazione ambientale fino a impattare su settori come il turismo. Ci vorrebbero norme che consentano di intervenire immediatamente, invece si innesca l’iter amministrativo, intanto la casa viene abitata e così cominciano le pressioni per non lasciare le famiglie senza un tetto.

Il ddl Falanga rende possibile eludere gli abbattimenti, stessa filosofia per la legge voluta dal governatore campano ma bocciata dal governo. Sono provvedimenti che possono sanare il problema?
Favoriscono l’abusivismo con conseguenze disastrose. La norma del governatore Vincenzo De Luca, ad esempio, ha due elementi gravi: affida ai comuni la decisione su cosa salvare dalle ruspe, ciò al livello soggetto in via diretta alla pressione degli abusivi. A Ischia ci sono 600 richieste di demolizione pendenti, tutte emesse dalla magistratura, nessuna dai comuni. E poi rende commerciabile l’immobile. Una casa abusiva non ha un valore di mercato; con il provvedimento regionale, il comune l’acquisisce per poi affittarlo o venderlo a prezzi calmierati, così lo legalizza e rende poi possibile metterlo in vendita.

De Luca dice che è impossibile abbattere 70mila immobili abusivi, troppo alti i costi e il materiale da smaltire.
Quando si è deciso di abbattere lo si è fatto, anche in condizioni difficili. A Eboli l’allora sindaco Gerardo Rosania, dal 1998 al 2001, fece abbattere 472 villette abusive costruite dagli anni Sessanta agli anni Ottanta sul demanio pubblico, lungo la pineta sulla fascia costiera. Le aveva realizzate la camorra. Ci volle l’impegno dell’esercito e della prefettura.

Il senatore Falanga, De Luca e i 5S chiedono di salvare gli abusi di necessità. Poi ci sono quelli che hanno presentato domanda di sanatoria, pagato l’onere e aspettano da 30 anni una risposta.
Gli abusi di necessità sono finiti da 50 anni. In quanto alle domande giacenti, la maggior parte dovrebbe essere destinataria di un diniego, l’impiegato lo sa e la mette da parte e lì resta, nel limbo. C’è molta connivenza anche negli uffici. L’unico modo è tenere una linea ferma. Come fatto a Napoli: il Piano regolatore del 2004 è a consumo di suolo zero, l’unico caso di grande comune in Italia, però non si cita mai. Si preferisce ricordare Cassinetta di Lugagnano, 2mila abitanti in provincia di Milano, e non Napoli. Resiste l’immagine de Le mani sulla città, il film di Francesco Rosi, che però non vale più. Il Piano regolatore ha posto dei principi che si sono affermati e hanno condizionato anche l’accordo col governo su Bagnoli, raggiunto a luglio.

A Ischia lamentano che la rigidità dei divieti, alla fine, innesca la necessità di trasgredire
Ogni pianificazione urbanistica, legge o piano lascia dei margini per adeguare o migliorare le condizioni degli edifici che necessitano lavori. E comunque l’interesse pubblico deve essere la stella polare dell’azione amministrativa.

Un sintetico ricordo, da parte dello storico dell'Italia contemporanea. dei primi anni del dibattito sull'abusivismo e sulle tendenze al "condonismo", che in quegli anni coinvolsero pesantemente anche il PCI. Temi sui quali torneremo. la Repubblica, 23 agosto 2017

C’è qualcosa che ferisce nella divisione che sembra attraversare il Paese in queste ore, dopo la tragedia di Ischia. Con la contrapposizione esasperata dai social fra parti diverse e contrapposte, fra Nord e Sud. Con chi dice che lo Stato non dovrebbe pagare la ricostruzione delle case abusive o di quelle costruite dai camorristi, e con le urla contro i “giornalisti sciacalli”. E con una polemica politica che è incentrata non sull’analisi ma sulle colpe da rinfacciare all’avversario. Né sembrano esservi stati in queste oreveri moti di solidarietà.

È difficile nasconderselo, sembra emergere un Paese che reagisce alle difficoltà e alle tragedie sentendosi vittima e al tempo stesso irresponsabile (nel senso proprio di non responsabile, privo di colpe perché privo di doveri civili). E un ceto politico che usa anche le tragedie come arma contundente di un giorno o di un mese contro il “nemico”.
Eppure proprio l’abusivismo edilizio ci permetterebbe una riflessione pacata quanto amara sulle radici di molti degradi attuali: ci permetterebbe di cogliere quel momento della nostra storia recente in cui la legge ha iniziato a diventare un po’ meno legge. Certo, si può risalire più all’indietro (magari scorrendo le pagine de La speculazione edilizia di Calvino, che ci parla del “miracolo economico” degli anni Sessanta e della Liguria) ma forse le radici più prossime della deriva attuale stanno proprio in quegli anni Ottanta ai quali per tanti versi il nostro presente rinvia.
Fu invocato allora per la prima volta l’“abusivismo per necessità”, ed eravamo nel pieno dell’era Craxi: fu un suo governo infatti a decidere un enorme condono edilizio. Eppure il panorama era devastato e devastante già allora: Cesare De Seta ne tracciava una mappa che andava dalle “pendici brulle ed arse del violaceo ‘sterminator Vesevo’” al “cuore verde dell’Umbria e alle sponde del Trasimeno”, e poi alle grandi città del Sud e del Nord. Furono 3.900.000 allora le domande di sanatoria, panorama eloquente di un’aggressione al territorio che quel condono venne definitivamente a sancire, se non a incentivare. E la vera opposizione a quella legge, i veri ostacoli che essa dovette affrontare non vennero dalla voce ancora flebile dell’ambientalismo ma — tutto all’opposto — dalla forza prorompente di un “abusivismo popolare” che considerava troppo esosa la tassa prevista dalla sanatoria. In Sicilia e altrove - soprattutto nel Mezzogiorno - le proteste si moltiplicarono e culminarono con una grande manifestazione nazionale a Roma: l’“abusivismo per necessità” fu allora il cavallo di battaglia dei molti sindaci che le promossero, minacciando dimissioni in massa (volevano “stralciare” anche la norma che escludeva dal condono le zone a rischio sismico ).
Oggi sembra paradossale ma essi furono sostenuti con decisione dal Partito comunista, e non di rado ne facevano parte (non mancarono proteste interne ma contarono poco). Un Partito comunista che era ancora grande e nazionale ma che nei rivolgimenti degli anni Ottanta stava smarrendo la bussola e cercava confusamente di ritrovarla negli attacchi al “nemico” (Craxi, allora). A completare il quadro, e a far cadere la divisione fra Nord e Sud, è sufficiente poi ricordare le grandi difficoltà incontrate in tutta Italia nello stesso periodo dalla “legge Galasso” per la tutela dell’ambiente. Essa imponeva alle Regioni di mettere a punto un piano per evitare ulteriori guasti: alla scadenza fissata solo tre lo avevano predisposto, e l’opposizione alla legge fu corposa e variegata, “sociale” e politica.
Sono stati molteplici dunque gli attori che hanno innescato la deriva attuale: una deriva in cui l’illegalità sembra diventata la nostra regola. E in cui — annotava qualche anno fa Barbara Spinelli — tutto sembra “tremare in comtemporanea: terra e politica, senso dello stato e maestà della legge”. Certo, è un processo che ha avuto delle accelerazioni più intense: le corruttele profonde che furono all’opera nel terremoto dell’Irpinia hanno danneggiato il Mezzogiorno molto più dei comizi di Bossi, ma fu allora l’Italia nel suo insieme ad essere in gioco. E così è oggi, perché questa più generale partita si può vincere solo essendo nazione. E ricostruendo con ostinata, disperata tenacia un
perimetro di regole.
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«Inutile parlare di ritardi nei piani regolatori e abusivismo di necessità. Le persone che costruiscono case lo fanno perché risparmiano. E se affittano ci guadagnano». Linkiesta, 24 agosto 2017 (c.m.c)

Non perdiamo tempo tirando in ballo la lentezza della burocrazia, i ritardi nei comuni nei piani regolatori o l’abusivismo di necessità. C’è una piccola verità non detta sull’abusivismo: che costruire una casa al di fuori delle regole costa molto molto meno. Quanto? Circa la metà, spesso meno della metà di una casa regolare. Tra chi lo dice apertamente c’è Legambiente, che lo ricorda all’inizio di uno speciale sull’abusivismo sul proprio sito.

Abbiamo chiesto a Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente che è architetto e ha insegnato urbanistica nelle Università di Roma e Pescara, come si arrivi a quella stima. La risposta è che si passa da cinque fattori.

Primo: il costo del terreno su cui si costruisce una casa abusiva, tipicamente un terreno agricolo non edificabile o un terreno sottoposto a vincolo, è molto inferiore a quello di un terreno edificabile. Può costare anche un decimo di un terreno edificabile. Secondo: quando si costruisce abusivamente non c’è bisogno di un architetto che firmi il progetto. Terzo: non si pagano gli oneri di urbanizzazione, legati ai servizi comunali (come i servizi idrici) e gli oneri di costruzione, legati al valore aggiunto che si ha costruendo una casa. Quarto: si costruisce con materiale di scarso valore, non fatturato e non certificato. Visto che per costruire abusivamente bisogna fare in fretta, si usa tipicamente del cemento armato. I mattoni spesso sono degradati, tanto non ci sono verifiche. Quinto e ultimo: il costo del lavoro è dimezzato, perché è tutto in nero e realizzato non con imprese ma con manovali presi per due soldi. Le conseguenze sulla sicurezza del lavoro, oltre che sulla concorrenza sleale di chi opera in questo modo, sono superflue. Più importante è ricordare che questa economia sommersa si lega a doppio filo alle cave fuorilegge, alla movimentazione terra e al calcestruzzo e alle imprese dei clan.

Zanchini tira anche le somme: il costo di costruzione di una casa legale, senza contare costi del progettista e oneri di urbanizzazione e costruzione, è di circa mille euro al metro quadrato (chiaramente con differenze grandi tra Nord e Sud, dove costa meno). Aggiungendo progettisti e oneri, si arriva a circa 1.400-1.500 euro al metro quadrato. Per contro, una casa abusiva costa tra i 500 e i 700 euro al metro quadrato. «Sono stime, ma ho avuto modo di verificare personalmente questi valori», commenta.

Un secondo parere è arrivato a Linkiesta da Nomisma. L’amministratore delegato Luca Dondi conferma sostanzialmente la stima. «Non abbiamo fatto studi - premette -. Tra le voci di risparmio, oltre all'evasione fiscale (dalle imposte all'utilizzo di manodopera in nero, all’acquisto di materiali non fatturati) occorre considerare che la costruzione avviene quasi sempre su terreni che non sono edificabili. Fatto 100 il valore dell'edificio, il 20-25% è riconducibile al terreno, con l’ovvia variabilità territoriale. Nelle grandi città si può arrivare al 30, nei piccoli centri scendere al 15. A conti fatti, il risparmio che si può stimare per l'abusivismo con ogni probabilità eccede il 50 per cento».

Costruire una casa abusiva significa edificare una casa insicura, frutto dell’evasione fiscale e destinata a gonfiare gli interessi della malavita. Basta dare un’occhiata alle voci di risparmio: lavoro nero, materiali in nero e non certificati, nessuna firma di un architetto, nessun onere di urbanizzazione, terreni agricoli o vincolati dal costo irrisorio

Che considerazioni si possono trarre da questi dati? Intanto che sarebbe il caso di parlare di questi dati, prima di lanciarsi in riflessioni sulle lentezze della burocrazia e sulla necessità di liberalizzare i permessi di costruire (su questo si rimanda a un post dell’economista Thomas Manfredi).

Tutte queste condizioni, in secondo luogo, concorrono a rendere l’edificio, oltre che più economico, anche più insicuro. Spiega Zanchini: «L’abusivismo non è solo quello nuovo e il caso di Ischia lo mostra chiaramente. Nell’isola ci sono state 28mila domande di condono e in larga parte si tratta di secondi e terzi piani di edifici costruiti negli anni Trenta o Cinquanta, spesso originariamente a un piano e senza fondamenta. Nei piani superiori, per fare in fretta in modo che i lavori non vengano bloccati, si costruisce con strutture in cemento armato. Questo è pesante ed è rigido, in caso di sisma si spezza e schiaccia tutto quello che c’è sotto, è una delle condizioni più pericolose in caso di terremoto». Una tipica casa abusiva non nasce completa ma è frutto di continui accrescimenti, spesso da edifici agricoli nati come capanni per attrezzi.

Una terza considerazione riguarda l’“abusivismo di necessità”. Secondo Zanchini di questo fenomeno si può parlare fino agli anni Ottanta e inizio Novanta, quando c’era una “fame di casa”, ossia c’era più domanda di case che offerta. «In città come Roma e Napoli sono sorti interi quartieri abusivi, sono l’immagine del malgoverno», commenta. Nel 2017, però, è scorretto rievocare quel termine. «Oggi parlare di necessità vuol dire scusare comportamenti molto diversi. Le case abusive in Italia sono in larga parte seconde case, belle o brutte, in aree più o meno piacevoli, in zone sostanzialmente agricole. Ci sono anche quelli di cui non vogliamo parlare: i rom che si tirano una casa un po’ meglio, gli immigrati. Di questo dovremmo parlare, di chi ha bisogno davvero di una casa e se la costruisce così abusivamente. Ci sono poi i fenomeni, che ancora ci sono in larga parte d’Italia, di vere e proprie speculazioni. Ci sono venditori che si mettono a lottizzare i terreni, a dividerli per fare insediamenti abusivi che provano a rivendere (o affittarle, ndr). E poi c‘è chi si fa la villa sul mare».

«L’abusivismo non è solo quello nuovo e il caso di Ischia lo mostra chiaramente. In larga parte si tratta di secondi e terzi piani di edifici costruiti negli anni ’30 o ’50, originariamente a un piano e senza fondamenta. Nei piani superiori si costruisce con strutture in cemento armato. Questo è pesante ed è rigido, in caso di sisma si spezza e schiaccia tutto quello che c’è sotto» Edoardo Zanchini, Legambiente

A oltre 30 anni dalla legge Galasso del 1985, che ha vietato questo tipo di costruzioni, succede ancora. «Il sindaco di Carini, in provincia di Palermo, nei giorni scorsi mi ha confermato che continuano a costruire a due passi dal mare, dove qualcuno possiede un terreno agricolo -continua Zanchini -. Sta portando avanti le demolizioni, un po’ alla volta. Qual è lo stato di necessità di costruire una casa sul mare a Carini? Nessuno. Normalmente se per qualcuno figura come prima casa è perché è intestata a un membro della famiglia in modo fittiizo». Per il vicepresidente di Legambiente la strada delle demolizioni potrebbe essere affiancata da altre misure. «Andiamo fino in fondo - commenta -. Ci sono delle situazioni, penso a comuni interni del casertano e del napoletano, di abusivismo con persone che non hanno nient’altro. Io dico: diamo ai comuni gli strumenti. Ci sono centinaia di case vuote, diamo ai comuni il potere di sequestrare e affittare a prezzi calmierati quelle case vuote, invece che farli diventare proprietari di una casa abusiva».

Per Zanchini uno dei banchi di prova per verificare la serietà del governo, dopo le parole sulla sicurezza e abusivismo arrivate prima a cavallo di Ferragosto e poi dopo il terremoto di Ischia, è l’inserimento nella prossima legge di Bilancio dell’obbligo del fascicolo del fabbricato per chi vende una casa. «Sarebbe un modo per rendere consapevoli gli italiani dei rischi che corrono nelle loro abitazioni. Per questo le associazioni dei proprietari di casa lo osteggiano tanto, gli inquilini chiederebbero di pagare meno affitti perché le case sono insicure. Penso che il ministro Graziano Delrio abbia capito il probleme e sembra convinto, ma in Parlamento diventerà un tema elettorale. Quello che preoccupa di più è il cambiamento di toni dei Cinque Stelle. Finora la loro opposizione era stata uno stimolo per il governo, come nel caso degli ecoreati. Ora stanno andando sulle posizioni più classiche del Centro-Destra, quella per cui la casa di proprietà non si tocca per nessun motivo».

«Qual è lo stato di necessità di costruire una casa sul mare a Carini? Nessuno. Normalmente se per qualcuno figura come prima casa è perché è intestata a un membro della famiglia in modo fittiizo» Edoardo Zanchini, Legambiente

«L’unica certezza rimane l’urgenza della messa in sicurezza dei territori, la vera grande opera pubblica necessaria al Paese, incompatibile con qualsiasi forma di sanatoria edilizia». il manifesto, 24 agosto 2017

Chi in queste settimane sta cavalcando il tema dell’abusivismo di necessità, per un consenso elettorale, speriamo si fermi. In un paese civile e democratico l’illegalità si combatte e non può essere in nessun modo autorizzata o giustificata dalla politica. Il terremoto a Ischia ci ricorda che l’Italia è un Paese fragile, a rischio sismico ed idrogeologico. Investire nella riqualificazione degli edifici per renderli sicuri non è più rinviabile. L’abusivismo edilizio, la cementificazione selvaggia, è un elemento che crea fragilità, toglie sicurezza, bellezza, dignità ai nostri territori.

Ischia è un simbolo di questa piaga che affligge il Paese e non è certo un caso isolato. Qui il cemento si è aggiunto al cemento in modo disordinato, senza regole, indebolendo versanti che poi con le forti piogge cedono e trascinano a valle quello che trovano. Come successe nel 2009 con la morte di una povera ragazza.

L’isola conta 600 case abusive colpite da ordine definitivo di abbattimento e 27 mila le pratiche di condono presentate in occasione delle tre leggi nazionali sulle sanatorie edilizie. A Ischia ci sono più abusi che famiglie, questa è la verità. Lo dicono i dati ufficiali, le carte della magistratura, le interminabili pratiche burocratiche per chiedere un condono che di fatto garantiscono impunità.

Il tutto in nome e per conto di una «economia del turismo» fatta di piani e ampliamenti venuti su in pochi giorni, pronti da affittare nella stagione turistica, magari in nero.
Questa è, semplicemente e drammaticamente, la storia dell’attrazione fatale per il cemento che contraddistingue gran parte delle coste del nostro Meridione.

L’Italia è un paese deturpato da cemento speculativo e illegale, i cui numeri sono eloquenti: nel 2016 gli abusi sono stati circa 17 mila. In dieci anni in Campania sono state realizzate circa 60mila case abusive. E non parliamo di abusi di necessità, un fenomeno terminato alla metà degli anni novanta, ma di soggetti organizzati che hanno tirato su negli anni interi quartieri, in aree dove controllano tutto.

Così negli anni abbiamo consumato il 66% delle coste calabresi, oltre il 50% di quelle campane e siciliane. E se il cemento illegale avanza velocemente le demolizioni di immobili abusivi procedono con lentezza: in Italia, dal 2001 al 2011, solo il 10,6% degli immobili è effettivamente andato giù. Una percentuale che precipita al 4% nella provincia di Napoli e rasenta lo zero a Reggio Calabria e Palermo. Ecco la situazione.

Il terremoto di Ischia deve suonare come un tragico campanello di allarme che ci aiuti a mettere in campo un piano straordinario di messa in sicurezza del patrimonio abitativo legale anche grazie a strumenti innovativi come il sismabonus: una prima ed importante misura per aiutare gli italiani a riqualificare le proprie case. Così come non è più rinviabile l’obbligatorietà del cosiddetto fascicolo di fabbricato, una sorta di carta di identità del costruito che riuscirebbe finalmente a garantire un monitoraggio puntuale della situazione delle abitazioni del nostro Paese.

A Ischia occorre mettere in campo una grande alleanza tra istituzioni, cittadini, operatori economici che riconoscano la gravità della situazione e rilancino in positivo un piano di messa in sicurezza, legalità e partecipazione.

L’unica certezza, oltre le polemiche se un terremoto di magnitudo 4 possa giustificare o meno i crolli, rimane l’urgenza della messa in sicurezza dei territori, la vera grande opera pubblica necessaria al Paese, incompatibile con qualsiasi forma di sanatoria edilizia.

L'autrice è presidente nazionale Legambiente

I drammi e i suicidi di massa provocati dall'abusivismo non turbano i numerosi sciagurati membri del potere legislativo che, per raccattare qualche voto in più continuano a proporre leggi che l'abusivismo lo incoraggiano. il manifesto, 23 agosto 2017, con riferimenti in calce

Alla Camera è in attesa di approvazione definitiva il ddl Falanga, primo firmatario Ciro Falanga, deputato di Ala. Il testo prevede un elenco di criteri per stabilire l’ordine degli abbattimenti: per ultimi gli edifici di chi ha commesso un abuso di necessità e non ha un’altra casa. Sostenuto da Fi, Ala e Pd, secondo le opposizioni è un regalo agli abusivi: il contenzioso che si genererà bloccherà le procure. In Italia si è creato un fronte che va da Falanga al governatore Campano dem Vincenzo De Luca fino ai 5S con il sindaco di Bagheria e il candidato governatore grillino per la Sicilia, tutti pronti pro abusi di necessità.

Gli ambientalisti li definiscono condoni mascherati: «In quelli istituiti per legge – ha spiegato Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente – almeno era prevista una tassa che copriva i costi per portare strade e fogne. A Bagheria il sindaco Patrizio Cinque ha fatto un regalo agli abusivi e le spese per le infrastrutture finiscono a carico della collettività. Si tratta spesso di immobili insicuri, realizzati risparmiando sulla qualità del cemento, utilizzando lavoro in nero o ditte dei clan». Fronte caldo anche in Campania: ad agosto il Consiglio dei ministri ha impugnato la norma della giunta De Luca che blocca le demolizioni dal titolo «Misure di semplificazione e linee guida di supporto ai comuni in materia di governo del territorio». In regione ci sono 70mila case da demolire, per il governo la legge sarebbe in contrasto con le norme statali a tutela dell’ambiente.

Il testo prevedeva, in caso di abuso di necessità, la possibilità per il comune di acquisire l’immobile per poi rivenderlo o fittarlo a prezzi calmierati all’ex proprietario. Dopo la bocciatura c’è stato il commento sarcastico di De Luca: «Mi aspetto che siano impegnati l’esercito, il Genio militare, i provveditorati alle Opere Pubbliche per procedere alle immediate demolizioni». Ieri anche Falanga ha tenuto ferma la sua posizione: «È assurdo strumentalizzare la tragedia di Ischia a fini politici». E Lucio Barani di Ala: «Ci auguriamo che la camera dei deputati approvi con urgenza il ddl Falanga».

Contro De Luca Angelo Bonelli dei Verdi: «Il governatore ha appena detto che l’abusivismo è un’emergenza. Una affermazione pronunciata da un presidente che ha fatto approvare a giugno dal Consiglio regionale una legge che blocca le demolizioni anche nelle zone vincolate e che, su nostro ricorso, è stata impugnata dal governo. L’8 agosto De Luca ha pronunciato una memorabile frase: “non ce ne frega niente e andiamo avanti”».

Due settimane fa il candidato 5S a governatore della Siciliana, Giancarlo Cancelleri, aveva distinto tra «abusivismo che non è tollerabile e abusivismo di necessità». Alle accuse contro il partito dell’onestà, Luigi Di Maio aveva replicato: «Polemiche incomprensibili». Ieri ha twittato: «Fi e Pd sono la causa di tutti gli abusi e sanatorie in Italia. Dovrebbero star zitti e piangere i morti, non sciacallare». .

Riferimenti

Un provvedimento obbrobrioso, un vero incentivo a proseguire l'abusivismo inventando una casistica che pone la repressione degli abusi all'ultimo gradino. Si vedano su eddyburg gli articoli Il Salva abusi e Appello contro l'abusivismo permanente Si fermi la legge blocca demolizioni

«Basta con le opere dell’uomo che uccidono gli uomini. Ma perché questa non resti una semplice affermazione di principio non c’è che una via: il ripristino della legalità. Un concetto che a Ischia, forse ancor più che nel resto d’Italia, non è mai stato troppo popolare». la Repubblica, 23 agosto 2017

A un anno esatto di distanza dal terremoto di Amatrice, dunque, altri morti sotto le macerie. Mai come in questo caso, tuttavia, tirare in ballo il cinismo del destino appare decisamente fuori luogo. E guardando le immagini della tragedia di Ischia non si può non ricordare ciò che disse il vescovo di Rieti Domenico Pompili ai funerali delle vittime della catastrofe dal 24 agosto 2016: «Non è il terremoto che uccide, ma le opere dell’uomo.

Esattamente come lui, siamo convinti che è arrivato il momento di dire basta. Una volta per tutte. Basta con le opere dell’uomo che uccidono gli uomini. Ma perché questa non resti una semplice affermazione di principio non c’è che una via: il ripristino della legalità. Un concetto che a Ischia, forse ancor più che nel resto d’Italia, non è mai stato troppo popolare. Le 28mila domande di condono denunciate da Legambiente in un territorio dove d’inverno non si arriva a 50mila abitanti sono la dimostrazione degli stupri che l’abusivismo ha imposto a una delle nostre isole più belle.

C’è chi obietterà che nel caso dell’ultimo terremoto le opere abusive c’entrano fino a un certo punto, visto che sono venute giù case costruite molto tempo fa, e comunque prima che entrassero in vigore le norme antisismiche. Vero. Ma è sempre osservando quei terribili fotogrammi che non si possono non notare i crolli di intere coperture e solai in cemento armato, innesti evidentemente successivi all’impianto originario ma assolutamente sconsiderati alla luce del rischio sismico, che hanno avuto un ruolo letale anche in occasione di altri terremoti come quelli di Amatrice e dell’Aquila, dove interi palazzi sono crollati come castelli di carte sotto il peso di quelle strutture mentre le murature tradizionali di tufo e laterizi non reggevano alle scosse. E qualcuno quelle opere dell’uomo che uccidono gli uomini le ha progettate, qualcun altro le ha eseguite, e c’è chi le ha autorizzate. Se non si è trattato addirittura, come invece spesso è successo, di sopraelevazioni illegittime magari anche condonate.
Ischia è un’isola ricchissima di risorse naturali, ma proprio per questo altrettanto fragile e delicata. Dalla notte dei tempi l’attività sismica è incessante. Ogni intervento dell’uomo dovrebbe perciò rispettare regole ferree, anche indipendentemente dalle disposizioni e dai regolamenti. Proprio il contrario di quanto avvenuto. Qui abbiamo assistito impotenti alla più spaventosa aggressione ambientale in territorio italiano dal dopoguerra, con la complicità della politica. Non si ricorda elezione nazionale o locale che non sia stata caratterizzata dall’annuncio sfrontato di un condono ad hoc o di un blocco delle demolizioni nell’isola: memorabili le promesse berlusconiane alla vigilia del voto regionale del 2011, poi fortunatamente non realizzate. Ma la tentazione di grattare la pancia agli abusivi ha colpito dovunque. Nel 2009 il vescovo Filippo Strofaldi si unì al grido di dolore del segretario del partito comunista italiano marxista-leninista Domenico Savio, fieramente contrario agli abbattimenti delle case illegali nell’isola fra le più turistiche del Mediterraneo con la motivazione di salvaguardare l’abusivismo “di necessità”. Un concetto aberrante: quanti cittadini per soddisfare il bisogno dell’abitazione ne tirano su una a Ischia alla faccia delle norme? Ma che ha fatto breccia, in modo apparentemente incredibile trattandosi di una forza politica che rivendica la legalità, anche nel Movimento 5 Stelle. Per non parlare della legge tesa a frenare le demolizioni delle costruzioni illegali appena partorita dalla regione Campania governata da Vincenzo De Luca che il governo di Paolo Gentiloni ha appena giustamente impugnato.

Non c’è posto dove la politica si sia mostrata tanto spregiudicata e indifferente al rispetto delle regole, arrivando a compromettere la propria credibilità pur di racimolare qualche voto, poco importa se maleodorante. Come si fa a criticare pubblicamente i condoni e poi farli passare nelle leggi regionali sotto mentite spoglie? E lì ha in questo modo toccato il punto più basso finendo per fornire armi a chi spara nel mucchio sostenendo che tanto sono tutti uguali, destra e sinistra. Troppo facile, per fortuna.

L’inchiesta pubblicata da Repubblica in queste settimane sulla piaga dell’abusivismo, fra le più gravi che affliggono l’Italia fiaccandone la spina dorsale, ha dimostrato che il Paese non è solo pieno di ipocrisie ma anche di amministratori che si battono contro i soprusi e di cittadini impegnati a contrastare lo scempio del territorio. Prove di coraggio che non possono e non devono restare isolate. Alla politica il terremoto di Ischia offre ora con i suoi dolori un’occasione di riscatto, quella di dare finalmente applicazione seria a una delle norme meno osservate della Costituzione: l’articolo 9, che impone allo Stato di tutelare il paesaggio. Una prescrizione che non prevede “se” e non prevede “ma”. Qualcuno saprà coglierla?

Nessuna anomalia sismica, le responsabilità sono tutte umane. il Fatto Quotidiano, 23 agosto 2017 (p.d.)

Niente di nuovo, anche dal punto di vista geologico, all’ombra del monte Epomeo, la sommità del grande vulcano sottomarino su cui si è moltiplicata la caotica edilizia ischitana. La zona è stata scossa ancora una volta da un’inquietudine antica che non ha molto a che spartire con gli altri due grandi “osservati speciali” dell’area partenopea, il Vesuvio e il supervulcano dei Campi Flegrei, osserva Carlo Meletti, responsabile del centro di pericolosità sismica dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che segnala: “Terremoti di questa intensità ne capitano in Italia decine l’anno e non fanno questi danni”.

Ischia si trova sulla sommità emersa di un vulcano spento da millenni, è il segnale che si sta risvegliando?
Non è magma che sta risalendo verso la superficie, quello che ha scosso l’isola il 21 agosto. Ischia è sotto monitoraggio continuo e non si segnala nessuna ripresa dell’attività eruttiva, a scuotere la terra e il fondo marino è stato un sisma di natura tettonica scatenato da una faglia che si è rotta a nord dell’isola e molto in superficie.

È stato un fenomeno anomalo rispetto alla storia sismica dell’isola?
No, è molto simile ai terremoti avvertiti in passato, almeno dal 1200 in poi; lo stesso sisma del 1883, che ha causato la distruzione della cittadina di Casamicciola e oltre 2 mila morti, non aveva una magnitudo molto più elevata di quello dell’altro ieri ed era anch’esso molto concentrato nella stessa zona.

Il terremoto di Ischia c’entra qualcosa con i movimenti dei Campi Flegrei che in quste settimane hanno rimesso in allerta vulcanologi e protezione civile?
No, l’ultimo terremoto non è collegato a quei fenomeni e non si registra nessuna anomalia: tutta la zona è sotto un monitoraggio capillare, l’osservatorio vesuviano è dotato di strumenti di tutti i tipi per cogliere anche la minima ripresa dell’attività vulcanica e recentemente abbiamo rivisto e aggiornato tutti i piani di intervento con la Protezione civile che riguardano i tre vulcani della zona.

Ma allora che tipo di terremoto ha colpito Ischia?
Rientra nella tipologia dei terremoti che si verificano in una zona vulcanica: sono molto superficiali e hanno un impatto maggiore e circoscritto intorno all’epicentro, basti pensare che a sud di Ischia non si è avvertito nulla; poi molto dipende dalla struttura geologica, se i terreni sono sciolti, di consistenza sabbiosa e argillosa, possono amplificare l’onda sismica. Casamicciola è costruita su una grande frana che prosegue anche in mare, non su rocce compatte e anche se la magnitudine è stata abbastanza contenuta lo scuotimento prodotto sull’isola è stato molto forte.

La magnitudo allora non basta a spiegare tutto.
Gli effetti del sisma non dipendono solo dall’in tensità: oltre alla natura del terreno su cui sono state costruite le case, bisogna considerare anche la qualità edilizia, come abbiamo visto ne crollano alcune ma non tutte.
Ieri si è scatenato un piccolo giallo sulle misurazioni dell’intensità della prima scossa: l’Ingv ha fornito in sequenza tre valori diversi.
Non c’è stata nessuna approssimazione o inesattezza da parte dei tecnici dell’istituto, sono semplicemente stime diverse fatte in momenti e con parametri diversi: il primo valore, 3,6 sulla scala Richter, è stato rilevato in automatico al momento della prima scossa dalla sala sismica di Roma; la seconda, di grado 4, è stata definita con un’altra scala più dettagliata basata anche sulla durata, più significativa per le zone vulcaniche e usando i dati dell’osservatorio vesuviano che tengono conto anche della struttura del sottosuolo; adesso stiamo applicando un’altra misurazione ancora più raffinata, la cosiddetta “magnitudine momento” utilizzando i parametri applicati per i terremoti molto forti, tenendo conto della saturazione delle stazioni di rivelazione più vicine e analizzando tutta la traccia; con questo ultimo calcolo abbiamo definito una magnitudo che rimane compresa tra il 3,8 e il 4.
Anche i sismografi dell’agenzia degli Stati Uniti hanno registrato un picco diverso, 4,3 gradi.
Gli americani rilevano le scosse con sismografi lontani e con modelli della crosta terrestre standardizzati per tutto il pianeta, ma non sono i decimali in più o in meno che contano: in Italia registriamo ogni anno decine di terremoti di magnitudo 4, la differenza è l’effetto che scatenano da un territorio all’altro e qui ha fatto morti e feriti.

Uno dei suicidi collettivi prodotti dall'abusivismo e al conseguente condonismo, mali endemici dell'Italia della piccola e grande speculazione immobiliare. il Fatto quotidiano, 22 agosto 2017
«Nel maggio 2009 smantellato il primo abuso disposto dalla Procura di Napoli: da allora il "Comitato per il diritto alla casa" si batte con cortei e manifestazioni di piazza perché il terzo condono sia applicato anche all'isola. Che figura al 4° posto nella classifica degli ecomostri stilata nel dossier "Mare Monstrum 2017" di Legambiente»

Seicento case colpite da ordine di demolizione dal 2009, oltre 27mila “le pratiche di condono presentate dagli abitanti in occasione delle tre leggi nazionali”. E’ Legambiente a tracciare, nel dossier Mare Monstrum 2016, i contorni della piaga che da decenni divora Ischia: l’abusivismo edilizio. In una nota congiunta, i sei sindaci dei comuni dell’isola stravolta dal terremoto minimizzano e “deplorano le notizie false relative alle inesistenti connessioni tra l’evento sismico e i fenomeni legati all’abusivismo”, ma in attesa di capire le connessioni causali tra il sisma e i crolli, le cifre raccontano una realtà desolante. Nella classifica degli ecomostri stilata nel 2017 dall’associazione ambientalista, “quelli che in virtù della loro storia, del loro impatto sul territorio e della loro forza simbolica rappresentano meglio di altri la devastazione illegale e impunita”, le “case abusive dell’Isola di Ischia figurano al 4° posto dopo “gli scheletri di Pizzo Sella a Palermo, il villaggio di Torre Mileto a Lesina in provincia di Foggia, le 35 ville nell’area archeologica di Capo Colonna, a Crotone”.

Fu una battaglia, ma alla fine la prima delle 600 demolizioni disposte dalla Procura di Napoli arrivò: era il 16 maggio 2009. A finire sbriciolato fu un soppalcone in cemento e mattoni di 80 metri quadrati nella frazione Terone, comune di Barano. L’immobile era stato costruito nel 1998 e non aveva beneficiato del condono edilizio perché inattuabile sull’isola, area sottoposta a vincolo ambientale e paesaggistico. Il lunedì successivo gli allora sindaci dell’isola, più quello di Procida, si erano riuniti nella sede del comune di Casamicciola minacciando le dimissioni: “Vogliamo – spiegavano – richiamare l’attenzione del governo affinché il terzo condono edilizio (quello del 2003 varato dal governo Berlusconi, ndr) abbia efficacia sulle isole del Golfo di Napoli”. Dove secchio, cazzuola e betoniera sono gli strumenti di una redditizia liturgia praticata soprattutto nottetempo, che ha quasi del religioso e che ha eretto in 35 anni qualcosa come 135mila vani in calcestruzzo.

La lotta era appena cominciata. Il ricordo delle frana che il 30 aprile 2006 interessò un’area in cui sorgevano circa 200 “abusi di necessità” e costò la vita a 4 persone era già lontano. Il 26 gennaio 2010 erano arrivati i cortei in strada. Qualche migliaio di ischitani, con in testa il il sindaco di Lacco Ameno Restituta Irace, sfilavano a Casamicciola sventolando al sole striscioni eloquenti: “Basta con gli abbattimenti delle prime case. Rivendichiamo il diritto alla casa e la sua condonabilità anche col terzo condono edilizio nelle aree vincolate”, gridavano inveendo contro il governo Berlusconi, reo di non aver ancora varato un decreto legge ad hoc. Un’altra manifestazione organizzata alla pineta del Castiglione metteva, per converso, nel mirino il provveditorato alle opere pubbliche della Campania che, abbattendo 80 pini, aveva dato il via alla costruzione di una caserma (approvata dal piano territoriale paesaggistico del 1999) destinata al corpo forestale.

Il 25 luglio 2010 la protesta faceva un salto di qualità: in piena stagione turistica, il Comitato per il diritto alla casa riusciva a portare in strada un migliaio di persone in un corteo che, partito alle 19,30 da Lacco Ameno, si concludeva alle 23,30 a Piazza Antica Reggia nel Comune di Ischia, paralizzando per 4 ore il traffico e gli spostamenti di migliaia di turisti. Gli isolani erano furiosi perché il 23 marzo, a 6 giorni dalle Regionali, il governo Berlusconi li aveva sedotti approvando un decreto legge che bloccava le demolizioni in Campania e poi, vinte le elezioni con Stefano Caldoro, e li aveva abbandlasciando che il testo si fermasse alla Camera grazie anche alle assenze tra i banchi della maggioranza. Le proteste, i cortei e le fiaccolate continuavano ma la mano salvifica del terzo condono sull’ufficio del catasto di Ischia non si posava. E continua tutt’oggi a non posarsi.

Così prime, seconde case, poi gli alberghi, poi i ristoranti venuti su come funghi in un paio di notti senza licenza continuano a essere abusivi. Una cementificazione che gli abitanti difendono coltello tra i denti e carta bollata alla mano: “Solo per il Comune di Ischia sono state presentate 7.235 domande di condono in 30 anni – Sandro Simoncini, ingegnere e docente di Urbanistica e Legislazione Ambientale alla Sapienza di Roma e presidente di Sogeea SpA – 4.408 delle quali risultavano ancora da evadere ad aprile dello scorso anno: molte di queste si riferiscono ad abusi che non possono essere sanati e che quindi, qualora le istanze fossero esaminate, sfocerebbero in ordinanze di demolizione. Senza dimenticare – prosegue Simoncini – che ciò significa anche che migliaia di edifici sono sprovvisti dell’agibilità e delle altre certificazioni”.

Il triste destino dei centri storici lasciati all'abbandono, all'incuria e al menefreghismo. il manifesto, 22 agosto 2017 (p.d.)

La Calabria va a fuoco da mesi. Bruciano i suoi boschi, bruciano le pendici delle sue montagne precipiti sul mare, bruciano le valli e le pianure coltivate, brucia il terzo paesaggio delle desolate periferie urbane, brucia anche la maestosa Silva Silae dei romani senza che nessuno riesca a porvi rimedio. Sabato è andato a fuoco anche un palazzo, fra i più antichi e importanti, del martoriato centro storico di Cosenza. In questo caso, gravissimo, sono morte nel rogo violentissimo ben tre persone. Hanno perso la vita tre individui marginali che avevano occupato abusivamente una casa, proprio in quel centro storico diventato, ormai, l’estremo riparo degli ultimi. I diseredati, per un accidente del destino, sono diventati gli unici eredi della bimillenaria storia della città di Telesio.

Un centro storico che , fino a non molti anni or sono, era, pur con tutte le sue debolezze, uno dei più integri da un punto di vista urbanistico ed architettonico, quasi privo di superfetazioni ed interventi moderni perché era stato abbandonato dai cosentini che preferirono, soprattutto dal secondo dopoguerra, insediarsi in pianura. Negli ultimi anni, a causa di incuria ed assenza di ordinaria manutenzione da parte delle Amministrazioni comunali, questa città, fondata dai Bruttii nel IV sec. a.C. sul colle Pancrazio, ha iniziato a crollare, a smontare, a scivolare, pioggia dopo pioggia, verso valle. Per tutta risposta a questo degrado strutturale, ed abitativo, l’attuale Amministrazione ha deciso, per mezzo di ben due ordinanze, di abbattere alcuni palazzi antichi di Cosenza perché pericolanti.
La stessa Amministrazione che ha investito 14 milioni di euro per costruire un piccolo ed inutile parcheggio al centro della città nuova, 20 milioni (altri 40 o 50 serviranno per le infrastrutture) per costruire un ponte, disegnato da Calatrava, che collega il nulla con il nulla e che vorrebbe spenderne altri 7 per costruire un Museo in onore di Alarico, re dei Goti che, per caso, morì sulle sponde del Crati e del quale non abbiamo nessuna testimonianza archeologica. Una Amministrazione, guidata dal sindaco di Fi Occhiuto, che, invece di investire energie e progetti nello straordinario centro storico della città, lo considera solo come un gravoso ed inutile fardello del quale occuparsi, con fastidio, solo per mezzo di demolizioni preventive ed indiscriminate.

Dopo lo sgombero dei centri sociali dagli edifici ex militari bolognesi è il momento di riaprire una discussione seria sulla utilizzazione più ragionevole di questa ampia categoria di spazi pubblici inutilizzati. La Repubblica, ed. Bologna, 20 agosto 2017


LE discussioni accese che hanno seguito losgombero agostano di Làbas, non quelle corali di indignazione per l’azionepoliziesca, ma quelle dei giorni successivi sulla Staveco come possibiledestinazione del centro sociale, nella loro asprezza e inconciliabilità,portano a ragionare sulla strana sorte toccata a Bologna alle ex aree militari.Comparti preziosi per la vivibilità urbana, su cui da anni si discute e sispendono progetti ma continuano a restare dominio dei ratti.

Nel 2015 il Comune ha approvato un Poc (Pianooperativo comunale, l’ultimo stadio della pianificazione) che ha un titolosornione “Rigenerazione di patrimoni pubblici”. Un documento in cui siindividuano una serie di aree afferenti a proprietari pubblici: Agenzia delDemanio, Cassa Depositi e Prestiti Investimenti Sgr, Invimit Sgr, Ferroviedello Stato; c’è anche l’Università di Bologna ma lì sappiamo come,saggiamente, è andata a finire. La ritirata dell’Università, proprio dall’areaStaveco da cui siamo partiti, la dice lunga.
Un'idea dalle gambe corte, o addiritturamonche, sbocciata sul finire di due mandati, uno da rinnovare, l’altro daglorificare.
La questione però è seria, ci si ubriaca di parolema nulla mai cambia. Neppure i costruttori, che avrebbero tutto l’interesse afarlo, protestano. Il Poc prevede infatti una bella quantità di edifici a variadestinazione d’uso in tutte le aree identificate: ai Prati di Caprara larealizzazione di residenze (da 800 a 1200), centri direzionali e commerciali,parcheggi; al Ravone di residenze se ne prevedono tra 750 e 790; alla casermaSani 340 ma non mancano centri commerciali e direzionali; alla caserma Masini,quella occupata da Làbas, un albergo, una trentina di alloggi, attivitàcommerciali e ristorative.
Una previsione esorbitante, poco assennata con isupermercati che falliscono e il tanto residenziale invenduto (pensiamo anchesoltanto al mostro Trilogia Navile).
Ma tanto quella programmazione non ha piùvalore delle chiacchiere, nei fatti si procede per deroghe. Com’è successo peril campus nell’ex-Telecom, sgomberato per consentire un business tutto privato,in deroga al Poc che prevede invece uno studentato nell’area ferroviaria exOMA, retrostante Borgo Masini.
Rinunciando insomma a dirottare investimenti supatrimoni pubblici. Ma in quel tripudio di esuberante progettualità non mancanoscuole, housing sociale e parchi. Che meraviglia, hanno pensato a tutti!Macché, come nei più crudeli giochi dell’oca sempre si torna alla casellainiziale. Ogni volta tutto daccapo a discutere e infervorarsi per poi nondecidere nulla — come per l’annosa questione della cittadella della giustizia,sballottata tra Staveco e Stamoto come in un ping pong.
Ma vuoi che sia per favorire interessi privati oper una sorta di pulizia preludio della gentrificazione, le uniche decisioniprese sono quelle di sgombero. Avvenute, ohibò, all’insaputadell’amministrazione!
Dunque persino su operazioni di questo pesosociale le potestà politiche dell’amministrazione non si sono esercitate.Allarmante. E chi decide allora le sorti della città, tra annunci roboanti poidisattesi, bisticci e inerzie?
E i cittadini? Forse amareggiati per larepressione della creatività giovanile, preoccupati della qualità della vitaurbana e dell’inutile degrado di aree che potrebbero costituire dei regolatoriambientali essenziali, comunque incerti sul destino economico di una città cheha sposato il turismo come unica vocazione e non sa prendere decisioni di piùampio respiro, si chiedono quale sia il disegno che l’amministrazione ha inmente. L’urbanistica è sempre una buona lente con cui guardare la realtà, laconfusione e l’afasia attuali dicono molto intorno alla crisi delladecisionalità e al vuoto di idee di cui la politica soffre. Un problema nonsolo bolognese ma che qui si presenta paralizzante.

Una critica apparentemente ragionevole del sociologo agli effetti economici del «turismo a buon mercato». Ma il problema non colpisce solo l'economia, e non sembra risolubile con qualche regola in più. Internazionale, 18-24 agosto 2017, con postilla (i.b.)

Quest’anno il numero dei turisti in Spagna si avvicinerà agli ottanta milioni, con un aumento dell’11 per cento rispetto al 2016. La Catalogna ne ha ospitati quasi il venti per cento. Nel 2015 l’industria turistica rappresentava l’11,1 per cento del Pil e il 12 per cento dell’occupazione. Oggi 2,8 milioni di persone lavorano in questo settore. Il turismo traina l’economia spagnola e il paese è avvantaggiato, perché le altre possibili mete nel Mediterraneo sono diventate più rischiose e perché i cittadini europei spendono sempre più per i viaggi (questo, paradossalmente, non vale per i cittadini spagnoli: il 40 per cento di loro quest’anno infatti non è andato in vacanza).

Si tratta di un turismo a buon mercato, con una spesa media di 129 euro al giorno, molto più bassa rispetto a Francia o Italia. È anche diminuita la permanenza media, che è scesa a 7,9 giorni. Il settore sta passando sempre di più dalle mani dei tour operator e delle grandi catene alberghiere a quelle dei siti internet come Airbnb, che gestiscono pernottamenti non sempre in regola con la complicità di proprietari e inquilini speculatori in rotta con i vicini.

La saturazione è evidente: alle Baleari quest’anno sono attese due milioni di persone, quando i residenti delle isole sono in tutto 1,1 milioni. Una situazione che ha delle ripercussioni sui servizi pubblici (in primo luogo sulla sanità), che non riescono a soddisfare le necessità di questa popolazione stagionale. C’è un rincaro di affitti e prezzi, per la distorsione tra la domanda globale e l’offerta locale. I residenti sono costretti ad abbandonare le loro città e a volte la convivenza civile è messa in crisi dai turisti che esagerano con l’alcol e le droghe.

Questo spiega le reazioni dei cittadini in diverse località di villeggiatura, soprattutto in Catalogna e alle Baleari, i territori più sottoposti a questa pressione incontrollata. Non sono reazioni violente. Il lancio di coriandoli non provoca feriti e nessuno slogan scritto sui muri da persone esasperate si è tradotto in aggressioni. Paragonare questa protesta, come ha fatto il Partito popolare, alla kale borroka (le azioni di guerriglia urbana degli indipendentisti baschi) è un’offesa a chi in passato ha sperimentato sulla sua pelle le violenze dei separatisti dell’Eta.

È eloquente che i popolari, sempre più al centro delle critiche, vedano in qualsiasi protesta un potenziale reato. In realtà, considerando il mondo in cui viviamo, le iniziative simboliche di protesta contro il turismo senza limiti sono servite a risvegliare la coscienza civile e politica, facendo capire che siamo di fronte a un problema serio.

Per molti i disagi sono il prezzo da pagare per un’attività economica che dà da vivere a molte aree del paese. In realtà, i vantaggi sono discutibili. Chi pensa che questo tipo di turismo faccia bene alla Spagna ha un’idea obsoleta dell’economia, in cui contano solo i profitti delle aziende e la creazione di posti di lavoro. Dimentica però il contributo allo sviluppo della ricchezza del paese a lungo termine e non considera i costi non contabilizzati: di bilancio, sociali e ambientali.

Perché la madre dell’aumento della ricchezza è la produttività del lavoro.

Tra il 2000 e il 2014 la produttività spagnola non è cresciuta e oggi aumenta quasi dell’un per cento all’anno, molto meno rispetto ai paesi vicini. Questa situazione è direttamente legata al predominio

di settori a bassa produttività, come il turismo e l’edilizia. La bassa produttività non dipende solo dal tipo di attività (negli Stati Uniti e in Francia, il turismo è più produttivo della media), ma anche dall’abbondanza di lavoratori scarsamente qualificati.

Nei pochi mesi in cui lavorano nel settore turistico, le persone non hanno il tempo di diventare più qualificate e gli imprenditori non hanno interesse a investire nella formazione.

Come denunciano i sindacati, spesso le condizioni di lavoro sono difficili (sovraffollamento, alti ritmi di lavoro, precarietà). I salari sono i peggiori sul mercato del lavoro, mille euro o meno in media. Questa situazione ha conseguenze importanti sul welfare, perché gli stipendi bassi finanziano a malapena la previdenza sociale, mentre i servizi di sanità, istruzione e pensione devono comunque essere garantiti a questi lavoratori e alle loro famiglie.

Più lavoro precario si crea nel settore turistico, più si aggrava la crisi del welfare e meno si contribuisce al miglioramento dell’economia, che è legato alla capacità di consumo della popolazione. Le Baleari, che erano la regione spagnola più ricca, stanno perdendo terreno proprio per questo motivo. Al buon andamento del settore si accompagnano la precarietà e i bassi salari, oltre all’impatto negativo sull’ambiente e sulla qualità della vita dei residenti. Un turismo con più regole,
come propone il governo delle Baleari, sarebbe una benedizione per il nostro paese. Quello attuale
non è sostenibile e fa danni sia dal punto di vista sociale sia da quello economico.

postilla

La critica al “turismo di massa” o al “turismo a buon mercato” come lo chiama Castells puòessere un punto di partenza per comprendere gli effetti collaterali di un’economiabasata sul turismo. Ma focalizzando la critica a questo tipo di turismo emettendone in evidenza gli svantaggi economici, il rischio è quello che laregolamentazione si traduca nella scelta di un “turismo di élite”. Quest’ultimocertamente ha dei vantaggi apparenti e immediati, come la riduzione del numerodei turisti, la crescita della loro spesa giornaliera, la specializzazione deilavoratori del settore, ma non quello di contenere i prezzi e di evitare lagentrificazione delle aree più appetibili e l’alienazione dei beni più belli aconsumo turistico. Esemplare è il caso di Venezia.La logicacapitalistica impedisce di concepire e pensare a un turismo di massa, quindidestinato a tutti e non solo ai pochi che se lo possono permettere, che consentaalle città e ai suoi abitanti di convivere con il turismo senza farseneschiacciare. Nel capitalismo c’è solo una logica: lo sfruttamento. (i.b.)

il manifesto 18 agosto 2017, con riferimenti (c.m.c.)





«Non credo che si possa far crescere il turismo in Sardegna senza alcun intervento nella fascia dei 300 metri dal mare». Mario Ferraro, amministratore delegato della Smeralda Holding (la società con cui il Qatar controlla il patrimonio immobiliare della Costa Smeralda) esce allo scoperto. Nel dibattito sulla legge urbanistica che la giunta presieduta da Francesco Pigliaru (Pd) sta per presentare al consiglio uno dei principali player della partita che ha come posta il futuro delle coste sarde interviene per dire che gli interventi di ampliamento degli alberghi nella fascia protetta dei 300 metri dalla battigia sono assolutamente necessari si si vuole «far crescere il turismo».

Un sostegno aperto alla giunta Pigliaru che Ferraro consegna a un’intervista al quotidiano l’Unione sarda. «Gran parte del futuro sviluppo turistico dell’isola dipenderà da quella legge», specifica l’uomo del Qatar. E come se non bastasse, Ferraro non esclude che, se resta l’articolo 43 della legge, quello che in presenza di «progetti di rilevante interesse economico e sociale» concede alla giunta la facoltà di far costruire nuovi alberghi anche nelle aree sinora non toccate dal cemento, la Smeralda Holding possa approfittarne. «In quel caso – dice – parleremmo con i comuni eventualmente interessati e con la Regione Sardegna per capire quale sviluppo vogliono promuovere, e faremmo le nostre valutazioni».

Riferimenti
Sull'argomento vedi su eddyburg le interviste di Edoardo Salzano a la Nuova Sardegna e al manifesto, e gli articoli di Costantino Cossu, di Antonietta Mazzette e di Sandro Roggio.

«Un danno ambientale di almeno 1,5 miliardi di euro: 300 ettari di terreno inquinato, 25 mila abitanti coinvolti. Per quasi vent'anni la produzione è andata avanti nonostante i documenti interni avessero lanciato l'allarme». L'Espresso online, 17 agosto 2017 (p.d.)

Più di 20 mila documenti dell'industria dei veleni. Note riservate, lettere interne, verbali di riunioni e studi scientifici che mostrano le avanzate conoscenze che i grandi gruppi della chimica mondiale, dalla Monsanto alla DuPont, dalla Union Carbide alla Dow, avevano a disposizione già negli anni ‘70 sulla tossicità di erbicidi, pesticidi e composti chimici. Li hanno chiamati "The Poison papers", le “carte dei veleni”. Un vasto archivio formatosi negli anni grazie alle richieste inoltrate alle agenzie federali statunitensi e alle cause intentate contro le industrie chimiche, raccolto dalla scrittrice e attivista Carol Van Strum e pubblicato dal Bioscience Resource Project e dal Center for Media and Democracy. E da questa immensa mole di documenti, che risalgono fino agli anni '20, emergono i primi risvolti italiani.
Basta seguire la storia dei Pcb, i policlorobifenili, composti brevettati nei primi anni '30 dalla Monsanto, per arrivare a una fabbrica chimica alle porte di una laboriosa città del nord Italia. Alcune note confidenziali della Monsanto rivelano che anche la società che ha prodotto quelle sostanze in Italia tra il 1938 al 1984 grazie a un brevetto della Monsanto, la Caffaro di Brescia, era stata informata da tempo dagli americani della pericolosità dei Pcb usati fino agli anni '80 dall'industria elettrica come isolanti nei trasformatori. Almeno tre documenti riferiscono gli esiti di incontri riservati avvenuti all'inizio degli anni ‘70 in Europa tra gli statunitensi e gli altri produttori europei di Pcb, tra cui la Caffaro, per discutere l'opportunità di abbandonare quelle sostanze di cui ormai si conosceva ampiamente la dannosità. Come diverrà di pubblico dominio solo anni dopo, i Pcb sono inquinanti organici persistenti e cancerogeni tra i più pericolosi insieme alle diossine.
Stando alle minute della Monsanto, la Caffaro partecipò nel febbraio e nel maggio del 1970 a due incontri riservati a Francoforte e a Bruxelles, insieme alla tedesca Bayer e alla francese Prodelec sul problema ambientale del Pcb. Ma anziché lavorare per la dismissione della produzione e la riconversione industriale, decise di proseguire come se niente fosse: «Il 9 e 10 febbraio si è tenuta a Francoforte una riunione speciale - si legge in un documento confidenziale del 9 marzo '70 firmato da H. A. Vodden - per discutere il problema dei Pcb nell'ambiente. Pare non vi sia ancora preoccupazione pubblica in Germania, Francia o Italia».
Mentre i tedeschi della Bayer temono ripercussioni internazionali e sembrano voler correre ai ripari, l'azienda francese e quella italiana non vogliono sentir ragioni: «La Prodelec e la Caffaro - prosegue Vodden - non hanno ancora cominciato alcun lavoro su questo tema e il loro principale contributo pare sia stato sollecitare la bonifica, in particolare degli askarel dei trasformatori».

Alla fine, nel piano d'azione predisposto dalla Monsanto viene annotata la decisione: «Scambio di informazioni con Bayer, Prodelec e Caffaro come stabilito». Già nel 1970 dunque la Caffaro aveva avuto accesso agli studi statunitensi sulla dannosità per l'uomo e per l'ambiente dei Pcb, e scambiava informazioni privilegiate con gli altri produttori europei e con la “casa madre” americana.

Un secondo incontro, sempre tra Monsanto, Prodelec, Bayer e Caffaro, si sarebbe svolto poi a Bruxelles il 14 maggio 1970. Pochi mesi dopo Monsanto, nel fare il punto sulla necessità di riformulare i suoi prodotti escludendo i Pcb, sottolineava ancora una volta la linea degli italiani: «Progil/Caffaro non sono ancora d'accordo - è riportato in un documento dell'8 dicembre '70 firmato W. B. Papageorge - e vogliono studiare ulteriormente la questione. Abbiamo invitato i loro rappresentanti a Ruabon per una discussione tecnica».

Nonostante l'attenzione riservata alla pericolosità dei Pcb, anche negli Usa la produzione si è protratta fino al 1977, dunque ben otto anni dopo la pubblicazione del primo documento interno dell'11 ottobre del 1969 - il Monsanto Pollution Abatement Plan - in cui il gruppo chimico cominciava a discutere la necessità di mettere al bando quelle sostanze a causa dei rischi ambientali, sanitari e finanziari che avrebbero potuto travolgere l'azienda.

In Italia, invece, la produzione di “Fenclor” (una delle denominazioni commerciali del Pcb della Caffaro) è proseguita per altri 15 anni, fino al 1984, provocando a Brescia un danno ambientale che il Ministero dell'Ambiente oggi stima in almeno 1,5 miliardi di euro: 300 ettari di terreno inquinato, 25 mila abitanti coinvolti, 10 kg al giorno di Pcb fuoriusciti dallo scarico della fabbrica secondo le stime dello storico Marino Ruzzenenti, che con la sua ricerca Un secolo di cloro…e Pcb nel 2001 fece esplodere il caso del grave inquinamento nella città lombarda.

Dal 2002, una vasta area a sud del centro storico della città di Brescia a valle dello stabilimento Caffaro è stata inserita tra i Siti inquinati di interesse nazionale in base a un decreto del Ministero dell'Ambiente. Interi quartieri sono colpiti da allora da un'ordinanza del sindaco che vieta di coltivare orti, asportare il terreno, far giocare liberamente i bambini nei parchi pubblici e nei cortili delle scuole.

Gli ultimi studi confermano che i livelli di Pcb nel sanguesia della popolazione di Brescia esposta che di quella non esposta direttamente agli inquinanti sono tra i più elevati al mondo. E sul fronte sanitario, lo studio Sentieri coordinato dall'Istituto Superiore di Sanità nel 2014 ha riscontrato un aumento dell'incidenza di alcuni tumori correlati al Pcb: i melanomi cutanei (uomini +27 per cento, donne +19 per cento), i linfomi non-Hodgkin (uomini +14 per cento, donne +25 per cento) e i tumori della mammella (donne + 25 per cento).

Non è dato sapere se il consiglio di amministrazione della Caffaro dell'epoca fu informato degli incontri riservati di Francoforte e Bruxelles con la Monsanto della primavera del '70 riportati nell'archivio Usa. All'inizio degli anni '70 e fino all'84 la Caffaro era di proprietà degli azionisti Mediobanca, Pechiney-Ugine-Kuhlmann, Finanziaria Pas, gruppo Oronzo De Nora, Feltrinelli, Loro e il Cda - allora presieduto da Gianbattista Loro, consigliere delegato Paolo Fontana - potrebbe anche essere stato tenuto all'oscuro sui dettagli del dibattito scientifico e strategico sulla dannosità dei policlorobifenili.

Di certo la produzione di Pcb assicurò alla proprietà importanti profitti: secondo le relazioni di Mediobanca sulle società quotate in borsa, il fatturato della Caffaro aumentò dai 13 miliardi e 134 milioni di vecchie lire del '69 ai 54 miliardi e 450 milioni del '77, i dividendi da 324 a 608 milioni.

Nel frattempo sono passati più di 33 anni dalla dismissione dell'impianto dei Pcb alla Caffaro, ma nessuno è stato condannato in sede penale né in quella civile per l'inquinamento e nessuna bonifica è stata ancora avviata, eccezion fatta per la messa in sicurezza di un parco pubblico e dei giardini di due scuole comunali. E mentre negli Usa lo stato di Washington nel 2016 ha citato in giudizio la Monsanto per l'inquinamento da policlorobifenili, trascinandola in una causa che potrebbe costare alla multinazionale diversi miliardi di dollari, in Italia dall'entrata in vigore della legge Merli nel ‘76 nessun governo ha stabilito i limiti per lo scarico di Pcb nei corpi idrici superficiali (rogge, fiumi e laghi).

E così la Caffaro, fallita nel 2010, continua ad inquinare: dallo scarico dello stabilimento, da dove vengono emunti e filtrati costantemente milioni di metri cubi d'acqua, secondo l'Agenzia regionale per l'ambiente continuano ad uscire circa 2 etti di Pcb all'anno.

«Nel 2008 meno di una nuova casa su dieci era abusiva, nel 2015 quasi una su cinque. Al Sud è quasi una su due. Lo dice l’Istat e il dato dice tutto sul nuovo sport nazionale: lisciare il pelo agli elettori che hanno costruito senza permessi». Linkiesta, 16 agosto 2017 (c.m.c)


Prendiamo due spiagge nel sud-est della Sicilia, distanti un paio di chilometri l’una dall’altra. Una ha un lungomare, una pineta sul litorale, un parcheggio organizzato, un borgo relativamente ordinato e due villaggi turistici a qualche centinaio di metri nell’entroterra, invisibili dal mare. È diventata un punto di riferimento per il turismo in uno degli angoli d’Italia che più è riuscito a far salire gli arrivi in questi anni. L’altra non ha lungomare, perché è disseminata di case abusive, poste a distanza di una trentina di metri l’una dall’altra per diversi chilometri.

Stanno tutte a una ventina di metri dalla riva, dove prima c’era un arenile usufruito da tutti, in un luogo dove gli stabilimenti sono un’eccezione alla regola della spiaggia libera. Qualcuno in quei venti metri che separano la casa dal mare ha costruito anche un capanno, una sorta di dependance, e perfino un vialetto di sassi dalla porta di casa alla battigia. «Hanno mangiato la spiaggia e hanno impedito ogni sviluppo turistico, per sempre», dice un abitante del luogo.

Forse bisognerebbe partire da questa distruzione del bene comune e del potenziale turistico di ampie zone d’Italia, quando si parla di abusivismo. Un vantaggio per pochi, uno svantaggio per tutti. Eppure è un discorso che in Italia evidentemente non fa presa. Se si guardano i dati diffusi dall’Istat ogni anno nel suo rapporto Bes (Benessere Equo e Sostenibile), si deve concludere che nonostante i fiumi di belle parole le cose stanno peggiorando. Spiega l’istituto nazionale di statistica che nel 2008 era abusivo il 9,3% delle nuove costruzioni a uso residenziale, mentre nel 2014 la cifra era salita al 17,6%.

Nel 2015, ultimi dati disponibili, si è sfiorato il 20 per cento. È una consolazione magra sapere che i numeri assoluti sono in calo, perché, aggiunge l’Istat, nel 2015 il flusso delle costruzioni a uso residenziale autorizzate dai comuni si è ridotto del 70,5% rispetto al 2007, mentre quello delle costruzioni realizzate illegalmente soltanto del 35,6%. Stesso discorso per la differenza tra il 2014 e il 2015: -16,3% di costruzioni autorizzate, solo -6% di quelle abusive. Secondo il Cresme tra costruzioni ex novo e ampliamenti significativi, l’abusivismo produce circa 20mila case ogni anno. Il fenomeno è drammatico al Sud, perché in Molise, Campania, Calabria e Sicilia si stima che nel triennio 2012-2014 il numero degli edifici costruiti illegalmente sia stato tra il 45% e il 60% di quelli autorizzati. Stiamo parlando di un periodo distante un decennio dall’ultimo condono del 2003, segno che nessuno crede nell’eventualità di una demolizione e la maggioranza delle persone è sicura che prima o poi una sanatoria arriverà.

Spiega l’istituto nazionale di statistica che nel 2008 era abusivo il 9,3% delle case costruite, mentre nel 2014 la cifra era salita al 17,6%. Nel 2015, ultimi dati disponibili, si è sfiorato il 20 per cento. È una consolazione magra sapere che i numeri assoluti sono in calo

L’Istat mette il dito nella piaga quando spiega che, alla luce di questi dati, «non sembra delinearsi alcun miglioramento dell’indicatore di urbanizzazione delle aree sottoposte a vincolo paesaggistico, che già al Censimento del 2011 rilevava nelle aree costiere, montane e vulcaniche protette dalla Legge Galasso del 1985, un sensibile incremento delle costruzioni». In altre parole, si continua a costruire sulle spiagge, alla faccia di ogni legge, ignorata come la più classica delle grida manzoniane. Il rapporto Ambiente Italia di Legambiente è chiaro: in Italia il 51% delle coste è stato trasformato dall’urbanizzazione. Dei 6.477 chilometri di costa da Ventimiglia a Trieste e delle due isole maggiori, 3.291 chilometri sono stati trasformati in modo irreversibile. Di questa parte, la diffusione di insediamenti a bassa densità, con ville e villette, interessa 1.653 chilometri, pari al 25% dell’intera linea di costa.

«Tra le regioni, la Sicilia ha il primato assoluto di chilometri di costa caratterizzati da urbanizzazione meno densa ma diffusa (350 km), seguita da Calabria e Puglia; la Sardegna è invece la regione più virtuosa per quantità di paesaggi naturali e agricoli ancora integri e comunque è la regione meno urbanizzata d’Italia», si legge. Dal 1988 ad oggi, continua il rapporto, «malgrado fosse in vigore la legge Galasso che avrebbe dovuto tutelare le aree entro i 300 metri dalle coste, sono stati trasformati da case e palazzi ulteriori 220 chilometri di coste, con una media di 8 chilometri all’anno, cioè 25 metri al giorno. Tra le regioni più devastate la Sicilia con 65 chilometri, il Lazio con 41 e la Campania con 29. Nelle aree costiere, secondo i dai Istat, nel decennio 2001 – 2011 sono sorti 18mila nuovi edifici. Ben 700 edifici per chilometro quadrato sia in Sicilia che in Puglia, 600 in Calabria ma anche 232 per chilometro quadrato in Veneto, 308 in Friuli Venezia Giulia e 300 in Toscana, Basilicata e Sardegna».

In Italia il 51% delle coste è stato trasformato dall’urbanizzazione. Dei 6.477 chilometri di costa da Ventimiglia a Trieste e delle due isole maggiori, 3.291 chilometri sono stati trasformati in modo irreversibile. Di questa parte, la diffusione di insediamenti a bassa densità, con ville e villette, interessa 1.653 chilometri, pari al 25% dell’intera linea di costa. Tra le regioni la Sicilia ha il primato assoluto rapporto Ambiente Italia di Legambiente

Come ricorda ancora Legambiente, sono le ragioni economiche che hanno contribuito al boom del mattone illegale. Una casa abusiva può costare anche la metà di una costruzione in regola, perché tutta la filiera ha un prezzo ridotto: i materiali acquistati in nero, la manodopera pagata in nero, zero spese alla voce sicurezza del cantiere. Una distorsione del mercato che danneggia chiunque decida di seguire le regole. Una villa costruita in nero, ha ricordato nei giorni scorsi Stefano Boeri, può costare solo tra gli 80mila e i 100mila euro. Per una casa costruita sulla spiaggia e affittata in nero, la distorsione è doppia.

E gli italiani di tutto questo cosa pensano? Secondo l’Istat sperimentano sempre più disagio, nella loro vita quotidiana, per il degrado del paesaggio e per il peggioramento della qualità percepita degli spazi pubblici. Ma sempre di meno si dichiarano preoccupati per “la rovina del paesaggio causata dall’eccessiva costruzione di edifici”. E visto che un miglioramento delle condizioni oggettive non c’è stato, questo calo di attenzione è dovuto più probabilmente una perdita di consapevolezza, come affermano gli stessi statistici.

Gli italiani sperimentano sempre più disagio per il degrado del paesaggio e per il peggioramento della qualità percepita degli spazi pubblici. Ma sempre di meno si dichiarano preoccupati per “la rovina del paesaggio causata dall’eccessiva costruzione di edifici”

Il disinteresse degli effetti dell’abusivismo non riguarda solo il potenziale turistico delle spiagge, ma il fatto che le costruzioni illegali alimentano le cave fuorilegge e le imprese dei clan nei settori della movimentazione terra e del calcestruzzo. «Il ciclo illegale del cemento non è solo il costruito dove non si può, ma è anche appalti truccati, opere dai costi esorbitanti per alimentare giri di mazzette, corruzione e speculazioni immobiliari con le carte truccate», ricorda Legambiente nell’introduzione di uno speciale sul tema.

Così come si perde la memoria, in giornate in cui si torna a parlare di “abusivismo di necessità” (sull’interpretazione politica delle affermazioni del candidato del M5s in Sicilia, Giancarlo Cancelleri, e di Luigi Di Maio si rimanda a un articolo di Flavia Perina su Linkiesta), del nesso tra abusivismo e rischio sismico e idrogeologico. Tra i punti più interessanti di un’intervista a Graziano Delrio su Repubblica, il ministro delle Infrastrutture insiste su questo tasto: «Chi vive in una casa abusiva deve sapere che ha molte più probabilità di morire per colpa della scarsa qualità del cemento, degli scempi che hanno alterato il suolo, di un piano rialzato costruito senza rispettare le norme. L’Italia è un Paese sismico, lo sappiamo bene. Abbiamo pianto troppe vittime sepolte dalle macerie di una abitazione tirata su nell’illegalità. È ora di dire basta».

Un modo per dire basta concretamente non è solo quello di non lasciare soli i sindaci coraggiosi, come quello dimissionario di Licata (Agrigento), Angelo Cambiano, appena costretto alle dimissioni, o di impugnare le leggi regionali permissive, come quella della Campania. La priorità per la politica nazionale deve essere quella di rendere effettivamente possibili le demolizioni, sapendo che abbattere una casa costa molto (il prezzo dipende dai metri cubi e dai materiali). In Italia, dal 2001 al 2011, ha spiegato al Manifesto Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, solo il 10,6% delle 46.760 ordinanze emesse è stato effettivamente eseguito. Una percentuale che precipita al 4% nella provincia di Napoli e rasenta lo zero a Reggio Calabria e Salerno. «Il meccanismo si blocca per i ricorsi, per le difficoltà della macchina amministrativa e, spesso, perché i comuni non hanno i soldi da anticipare per le ruspe», commentava Zanchini.

La strada della giunta a 5 Stelle di Bagheria (Palermo), ossia espropriare le case abusive e poi affittarle ai proprietari abusivi o come case popolari, non tocca il tema delle demolizioni. Il contestato Ddl Falanga ha invece seguito la via della priorità nelle demolizioni: prima gli immobili di rilevante impatto ambientale o costruiti su area demaniale o in zona soggetta a vincolo ambientale e paesaggistico o a vincolo sismico o a vincolo idrogeologico o a vincolo archeologico o storico-artistico; gli immobili che costituiscono un pericolo per la pubblica e privata incolumità; gli immobili sottratti alla mafia. In ognuna di queste categorie la priorità sarà attribuita agli immobili in corso di costruzione o non ultimati alla data della sentenza di condanna di primo grado e a quelli non stabilmente abitati.

Gli ultimi saranno gli edifici abitati “la cui titolarità è riconducibile a soggetti appartenenti a nuclei familiari che non dispongano di altra soluzione abitativa". È un modo, secondo le opposizioni (ma anche secondo esponenti della maggioranza) per tutelare di fatto l’“abusivismo di necessità” e quindi permettere a chi vive in una casa abusiva di non rischiare praticamente nulla. Nell’ultima versione del Ddl, almeno, la decisione delle priorità è stata tolta ai sindaci e data alle procure, non soggette a pressioni elettorali. E i soldi stanziati sono stati 45 milioni di euro fino al 2020. Molto poco. Meglio sarebbe, probabilmente, sancire il principio che le demolizioni vanno fatte comunque e prevedere degli incentivi per chi accetta di farsi abbattere la casa, magari a proprie spese.

Le autorità cittadine hanno assicurato che la prossima volta provvederanno a trasferire le cittadine e i cittadini veneziani in un campo provvisorio realizzato dagli amici libici del Sindaco tra Misurata e Bengasi. la Nuova Venezia, 14 agosto 2017



L'articolo e l'ordinanza sono autentici. La presentazione no (e.s.)la Nuova Venezia
VENEZIA. CIAK SI GIRA,
L'ORDINANZA PER LE RIPRESE
DEL FILM DI EASTWOOD
di Roberta De Rossi

«Tutto quello che occorre sapere durante i tre giorni di riprese del film del grande regista. Anche un vaporetto utilizzato per le sequenze»


VENEZIA. Il Comune di Venezia ha emanato la ordinanza per la regolamentazione della viabilità acquea in Canal Grande e in alcuni rii della Ztl interna al Centro storico di Venezia per consentire lo svolgimento delle riprese cinematografiche del film di Clint Eastwood “The 15:17 to Paris”.


Mercoledì 16 agosto 2017 vengono riservati in esclusiva per l'ormeggio delle unità di servizio impiegate per le riprese cinematografiche: dalle ore 7.30 alle ore 13.00 il tratto di riva pubblica dell'ex “Direzione Compartimentale Ferrovie” compreso tra l'ormeggio riservato alle unità Granturismo, alle quali comunque deve essere consentito l'approdo, e il Ponte della Costituzione; dalle ore 9.00 alle ore 13.00 il tratto di riva pubblica di Piazzale S. Lucia compreso tra le fermate Actv- linea 1 e linea 2, rive pubbliche n° 020 20-21-22-23; dalle ore 13.30 alle 15.30 circa è autorizzata la circolazione in Canal Grande, da Piazzale Roma a S. Angelo, di un vaporetto Actv impiegato esclusivamente come unità di scena. Nella fascia oraria immediatamente precedente è consentito lo stazionamento del vaporetto presso l'approdo riservato in Bacino S. Chiara, giusta concessione PMV n° 69947/2015, per il carico del personale e delle attrezzature tecniche; sono anche consentite le manovre di cambio direzione di marcia, in Canal Grande all'altezza del Bacino S. Chiara e Canale Scomenzera e all'altezza della confluenza con il Rio di S.Polo; è autorizzato, visto il parere positivo della Direzione Navigazione di Actv, l'uso del pontile della fermata di linea “S. Samuele”, per l'imbarco-sbarco degli addetti dalle imbarcazioni di servizio, l'eventuale trasbordo di carichi non trasportabili a mano dovrà invece avvenire dalla riva pubblica a fianco della fermata; l'uso del pontile PMV a S. Chiara, della suddetta fermata e la navigazione del vaporetto, sono subordinati allo svolgimento del servizio di trasporto pubblico di linea, rimangono valide in particolare le disposizioni di transito nel tratto di canale circostante il ponte di Rialto; dalle ore 16.00 alle 22.00 le rive pubbliche n° 083-12 di Campo S. Vidal e F-083-005 e n° 083-09, di Fondamenta Barbaro in Rio dell'Orso, vengono riservate in esclusiva allo stazionamento delle unità di servizio impiegate per le riprese.
Inoltre si dovrà garantire il funzionamento del servizio gondola da nolo ubicato in Canal Grande-Campo S.Vidal,
- le rive in Rio dell'Orso dovranno essere usufruite consentendo la movimentazione delle gondole con stazio presso la testata del rio; durante la fascia oraria di ormeggio alle rive vengono temporaneamente sospese le occupazioni di spazio acqueo in Rio dell'Orso n° 54747/2013 e n° 63428/2014, i concessionari interessati dovranno provvedere allo spostamento delle imbarcazioni; è autorizzato il transito in Rio del Santissimo, fino all'edificio del Conservatorio, delle unità di servizio e da trasporto, che dovranno comunque permettere in qualsiasi momento il transito di altre imbarcazioni.

Giovedì 17 agosto 2017: dalle ore 09.00 alle ore 13.00, il pontile pubblico P028-030 in Canal Grande-Campo dell'Erbaria a Rialto è riservato in esclusiva allo stazionamento delle unità di servizio
impiegate nelle riprese; dalle ore 13.00 alle ore 15.30 circa, è autorizzata la circolazione in formazione raggruppata in Canal Grande, da Campo dell'Erbaria a S. Maria del Giglio, di una gondola di scena, di non oltre tre imbarcazioni da trasporto e non oltre tre unità in servizio pubblico di noleggio con conducente; nel tratto di Canal Grande da Campo dell'Erbaria all'incrocio con il rio di S. Luca si dovranno rispettare le disposizioni di transito vigenti, navigando in fila indiana in prossimità della sponda lato S. Polo-Riva del Vin e con unità distanziate l'una dall'altra; dalle ore 16.00 alle ore 21.00, nel tratto di Canal Grande compreso tra gli approdi Actv “S. Maria del Giglio” e “Salute”, imbarcaderi esclusi, viene autorizzato lo stazionamento operativo di una gondola e di quattro unità tipo “taxi“ di scena; è brevemente interrotto il traffico acqueo, per periodi ripetuti di massimo 3 minuti alla volta, facendo in modo di non ostacolare il servizio di trasporto di linea, mentre il servizio di traghetto gondole dovrà cadenzare i passaggi secondo le brevi limitazioni; l’interdizione temporanea della viabilità acquea è subordinata alle esigenze di transito dei mezzi del Pronto Intervento in servizio di emergenza; il personale della società dovrà richiedere la vigilanza e concordare con la Polizia Municipale l’attività disegnalazione delle aree interdette al transito; dovrà comunque provvedere costantemente alla delimitazione e segnalazione dell'area e all'esposizione della segnaletica indicante la temporanea chiusura della viabilità acquea e alla relativa rimozione una volta ultimate le riprese; dalle ore 13.00 alle ore 21.30, è riservata in esclusiva allo stazionamento delle unità di servizio la riva F087-005, in Rio della Vesta-bacinetto della Fenice, da Ponte Maria Callas alla calle del Piovan; durante la stessa fascia oraria è sospesa l'occupazione di spazio acqueo n° 9627/1995, il concessionario interessato dovrà provvedere allo spostamento dell'imbarcazione.

Venerdì 18 agosto 2017: dalle ore 14.00 alle ore 21.30, sono riservati in esclusiva allo stazionamento delle unità di servizio il pontile pubblico comunale del Molo di San Marco-”Todaro” e la riva n° 92-010 di Calle dell'Ascension nel rio dei Giardinetti; nella riva di Calle dell'Ascension dovrà essere consentito l'approdo alle unità Veritas per il carico dei rifiuti solidi urbani dall'area Marciana.

Altre disposizioni e prescrizioni: nei giorni 16-17-18 agosto durante la fascia oraria giornaliera delle lavorazioni, dalle 7.30 alle 21.30 circa, è autorizzata la circolazione in Canal Grande delle unità di servizio opportunamente identificate, sia adibite al trasporto cose che a noleggio con conducente per il trasporto persone; è consentito anche il transito sotto il ponte di Rialto (tra i rii del Fontego dei Tedeschi e di S. Salvador), rispettando il senso unico di marcia in direzione Ca' Foscari dalle ore 12.00 alle ore 15.00, osservando la precedenza alla circolazione dei mezzi dei servizi di trasporto pubblico e in maniera che sia sempre possibile la normale viabilità; tutte le unità dovranno essere impiegate in conformità alle normative vigenti in base alla categoria di trasporto di appartenenza, secondo quanto stabilito dai documenti di navigazione e dalla Legge Regionale n. 63/93; i responsabili delle riprese dovranno concordare con Polizia Municipale la presenza di agenti per provvedere al controllo del traffico e in ogni caso adeguare le operazioni alle direttive comunicate sul posto.

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