Dopo una breve «primavera» ambientalista, la Calabria è tornata nelle mani degli speculatori. Al degrado da congestione di città e centri costieri, con abusi edilizi a go go, fa da contraltare il dissesto da abbandono delle zone interne, che provoca continue frane. In un territorio a rischio sismico.
In Calabria il cambio di colore dell'amministrazione regionale non è stata una sorpresa. Troppi gli influssi negativi attorno ad Agazio Loiero e alla sua amministrazione. Alcuni forse eccessivi, visto che in alcuni settori il centrosinistra calabrese aveva segnato non pochi elementi significativi. Tra questo quello del territorio. In quell'ambito in pochi anni l'assessorato regionale (Urbanistica e Governo del Territorio) guidato dall'ambientalista Michelangelo Tripodi (Pdci), ha reso operativa la nuova Legge Urbanistica (fatto senza precedenti nella quarantennale vicenda della Regione Calabria) ed ha approvato le Linee guida di Avvio della Pianificazione, un metapiano che definiva le regole per la tutela di ambiente e paesaggio e la riqualificazione sostenibile del territorio regionale. Questo si inquadrava in una logica di programmazione dello sviluppo regionale basato su risorse locali e cultura identitaria, alternativa alle opzioni del governo centrale che condannano la Calabria alla funzione di area socialmente disponibile per il capitale oligopolistico, speculativo e globalizzato, destinato a riceversi megastrutture scomode e grandi opere inutili e dannose.
Dopo circa un secolo lo "Sfasciume Pendulo" denunciato da Giustino Fortunato è sostanzialmente ancora tale. Anzi la situazione appare aggravata da una crescita edilizia e insediativa abnorme e squilibrata, rappresentata dalle dimensioni del volume costruito - oltre 800 milioni di metri cubi per poco più di due milioni di abitanti - che si concentra in una decina di «ambiti di concentrazione dell'insediamento», che si estendono su una fascia di urbanizzazione densificata pari a meno del 20% della superficie regionale.
A fronte di questo «degrado da congestione di città e centri costieri», le aree interne e le corone collinari soffrono invece di dissesti da abbandono. Quello che erano un tempo economie e produzioni di altura e di montagna sono scomparse lasciando il campo ad un "deserto", in cui l'assenza di antropizzazione significa obliterazione e mancata cura del territorio. L'assetto idrogeologico è diventato così un'emergenza urgente ed assoluta: ogni temporale di dimensioni appena rilevati diventa una catastrofe con crolli, rotture, interruzioni di collegamenti e attrezzature e, spesso, danni anche agli abitanti.
Al rischio idrogeologico si aggiunge quello sismico: la gran parte del territorio calabrese è «soggetto a rischio sismico di primo grado», ma solo poche strutture sono state messe in sicurezza. Il Quadro Territoriale Paesaggistico aveva previsto l'avvio di un programma speciale di risanamento ecologico del territorio, razionalizzando ed ampliando l'impiego di risorse già allocate in Regione. Gli esecutivi di centrodestra, nazionali e regionali, hanno cancellato tale posizione, congelando il Quadro Territoriale Paesaggistico e il Programma Operativo Regionale e dirottando i fondi Fas su operazioni affatto diverse, tra l'altro non calabresi e neppure meridionali.
Le politiche urbanistiche degli anni scorsi tentavano di sancire la fine della Calabria «dell'abusivismo e della villettopoli costiera», per disegnare nuove regole di tutela e una riqualificazione dell'assetto fondata ancora sulle caratteristiche del paesaggio. La partecipazione della base ambientalista al processo di pianificazione favoriva la riattribuzione di un ruolo strutturante alle risorse ecopaesaggistiche nelle politiche territoriali. Così dalle Linee Guida al Quadro Territoriale, ai Piani Provinciali, alla strumentazione comunale, si guardava di nuovo alla configurazione individuata decenni or sono da grandi studiosi come Manlio Rossi Doria e Lucio Gambi: una società regionale fortemente incardinata sulla propria struttura ambientale. Tale scenario di riferimento si fonda sul sistema rilievi-costa-fiumare. I quattro massicci interni (Pollino, Sila, Serre, Aspromonte) costituiscono zone geologicamente tuttora salde, ricche d'acqua, dal patrimonio ecopaesaggistico assai rilevante, anche se reso fragile dall'abbandono dell'attività primaria. I circa 750 km di costa rappresentano anch'essi una grande risorsa ambientale, purtroppo saccheggiata da un insediamento di dimensioni clamorose, sovente abusivo, che significa degrado e dequalficazione del paesaggio litoraneo. Il terzo grande elemento ecopaesaggistico di identificazione del territorio calabrese è costituito dalle oltre 220 fiumare e fiumarelle, che hanno costituito storicamente altrettanti sottosistemi dotati di propria organicità ecoterritoriale e socio-economica, oltre che elementi di legatura e collegamento rispetto ai maggiori contesti, sistemi interni, montani e collinari, le rade pianure e i due collettori costieri. La riqualificazione delle fiumare, anche con strumenti speciali e mirati (parchi fluviali, patti, contratti di fiume) permettono la riqualificazione paesistica, anche delle grandi macchie urbane che segnano oggi il territorio calabrese. In generale la tutela delle strutture paesaggistiche favorisce la riqualificazione del territorio, dal risanamento degli ambienti rurali, alla ripresa estetica, tipomorfologica, della città e degli insediamenti costieri.
Il processo di pianificazione partecipata promosso con le politiche territoriali degli anni scorsi non si limita peraltro alla tutela del paesaggio ed al risanamento ambientale. Le risorse culturali e paesistiche vengono anzi proposte e affermate quali elementi strutturanti per la riqualificazione dei luoghi urbani e addirittura per opzioni di crescita e sostenibilità sociale. Riprendendo e allargando un approccio già contenuto nella programmazione regionale, il Quadro Territoriale Paesaggistico riconosce tra i contesti un certo numero di categorie territoriali (basate ciascuna sulla propria identità paesaggistica) e, in funzione dei caratteri di questa, avanza programmi di riassetto territoriale e di localizzazione ed ampliamento di attività culturali e imprenditorialii,anche nuove. In questo quadro il territorio regionale è suddiviso in 16 contesti di sviluppo sostenibile: tre città metropolitane, i quattro grandi massicci interni - oggi Parchi Nazionali o Regionali - un certo numero di ambienti urbano-rurali ed alcuni ambiti di riqualificazione e sviluppo turistico costiero. Le tre grandi aree urbane principali prefigurano altrettanti paesaggi di città metropolitane: si affermano le istanze della cultura e della conoscenza (Università) a Cosenza, le funzioni direzionali e terziarie a Catanzaro, le valenze ecopaesaggistiche e turistico-culturali (Stretto di Messina e Aspromonte) di nuovo collegate a conoscenza e ricerca, a Reggio.
Nei Parchi (Pollino, Serre, Sila e Aspromonte) lo sviluppo turistico si declina nell'integrazione con l'intera "filiera della sostenibilità ecoculturale", visiting sociale e ambientale, ricerca e didattica, educazione, uso culturale del tempo libero; oltre che con le nuove istanze di produzione primaria, legata alle produzioni locali, anche bio. Nelle aree ex rurali, la limitazione dell'ingombrante insediamento degli ultimi anni comporta, oltre la ripresa, specie innovativa, delle attività produttive, anche la tutela e la valorizzazione di beni immateriali (parchi ambientali in luogo di attività agricole). Negli ambiti costieri la riqualificazione paesaggistica ed il risanamento ambientale regolano e qualificano l'insediamento turistico esistente.
L'intero quadro territoriale è arricchito dal riconoscimento, affermazione e valorizzazione del patrimonio artistico, storico- culturale e archeologico, assai rilevante, esistente in Calabria. Dalle vestigia magno- greche ai centri storici greci e albanesi, ai poli religiosi, alle fortificazioni, ai beni sparsi, si possono prospettare reti che attribuiscono ulteriore qualificazione culturale e paesaggistica ai programmi e i progetti previsti per ciascun ambito territoriale. La "primavera" del territorio calabrese non tentava soltanto di segnare una svolta di per sé significativa nella gestione urbanistica, nella fruizione dell'ambiente e nella tutela del paesaggio. Prospettava ambiziosamente un modello di sviluppo sostenibile e partecipato, basato sulle risorse culturali e paesistiche, alternativo alle politiche centrali.
La svolta nella politica regionale ha bloccato tutto ciò, rilanciando invece il ruolo della Calabria come spazio socialmente disponibile per operazioni speculative, territoriali e finanziarie, promosse dai grandi interessi del capitale globalizzato, che trovano nel governo nazionale e dintorni grande spazio. Non è un caso che i primi atti dell'Ufficio Regionale siano consistiti nel blocco del Quadro Territoriale Paesaggistico descritto (già adottato in Giunta, era stato inviato al Consiglio per la definitiva approvazione) e nel rilancio della versione calabra del "Piano Casa" caro a Berlusconi, rifiutato dall'amministrazione precedente. Torna dunque la Calabria dello sfascio,delle grandi operazioni inutili e dannose - e spesso incompiute - dell'abusivismo, del "mare di cemento", dei disastri e dei dissesti. A tutto questo devono opporsi quei soggetti sociali, movimenti e associazioni,che avevano partecipato invece con grande entusiasmo alla nuova - e troppo breve - stagione della pianificazione sostenibile nella regione. E tutti coloro che hanno a cuore la difesa dei luoghi di vita, propri e altrui.
Il Parco dello Stelvio fatto a pezzi. E' questo il gradito pacco dono che Silvio Berlusconi è pronto a offrire a deputati e senatori altoatesini, quelli della Sudtiroler Volkspartei (Svp), in cambio della loro astensione nel voto di fiducia del prossimo 14 dicembre. Da tempo il partito egemone in Alto Adige vuole comandare in casa propria anche nella gestione della più grande riserva naturale d'Italia, divisa tra Bolzano, Trento e la Lombardia. E Berlusconi, alla caccia disperata di consensi per assicurare la sopravvivenza del suo governo, ha colto al volo l'occasione. Il vostro appoggio verrebbe ricompensato con la revisione dei criteri di amministrazione del parco. Questi, in parole povere, i termini dello scambio proposto ai cinque parlamentari della Svp, tre deputati e due senatori.
Il messaggio è arrivato forte e chiaro a destinazione. Domenica sera, in una lunga intervista alla televisione austriaca Orf, il presidente della provincia di Bolzano Luis Durnwalder ha detto di "cogliere segnali di disgelo" nei rapporti con il governo. Durnwalder, in sella da più di 20 anni, è l'uomo politico più potente dell'Alto Adige. È lui, di fatto, che decide la linea del partito. E dopo mesi di rapporti difficili con Roma il solo accenno a un possibile disgelo è stato interpretato come un'apertura di credito a Berlusconi. Durnwalder, in realtà, ha voluto essere ancora più esplicito, evocando “l’approvazione di nuove norme nella prossima seduta del Consiglio dei ministri”. Una frase che sembra fissare addirittura un ultimatum al governo. Le leggi che interessano alla Svp vanno varate in fretta, entro questa settimana. A quel punto gli altoatesini saranno pronti a fare la loro parte a fianco del governo. Il negoziato tra Roma e Bolzano è cominciato ad ottobre, quando il ministro degli esteri Franco Frattini, in visita a Merano, si è visto sottoporre da Durnwalder un elenco di 20 richieste.
La Svp, infatti, preme anche per altre concessioni, come quelle che riguardano il rafforzamento del bilinguismo nei tribunali. Per ora comunque, si parte dallo Stelvio. Se il progetto andasse in porto, il parco nazionale verrebbe di fatto suddivisa in tre gestioni autonome. Una farebbe capo alla regione Lombardia, un'altra alla provincia di Trento e la terza a quella di Bolzano. Adesso invece le tre amministrazioni collaborano all’interno di un consorzio che risponde al ministero dell’Ambiente. Ognuno per la sua strada, chiede adesso Bolzano. E così il parco nazionale verrebbe praticamente declassato a interregionale. Al posto del consorzio, destinato a essere soppresso, verrebbe istituito un semplice comitato di coordinamento con i rappresentanti delle province e dei comuni interessati.
Gli ambientalisti protestano. Secondo il Wwf nel Parco dello Stelvio aumenterebbero i pericoli per il paesaggio, il consumo di suolo, l’attività venatoria. Insomma, più cemento, più centrali idroelettriche, più cacciatori. Una vittoria del partito degli affari, con buona pace dell’oasi naturalistica. E questo perché, secondo il Wwf, gli enti locali incontrerebbero maggiori difficoltà a respingere le pressioni delle lobby economiche attive nei rispettivi territori.
Ormai però la macchina si è messa in moto. Il primo atto concreto risale a una settimana fa. Il 30 novembre scorso, il comitato dei 12, cioè la commissione paritetica tra governo di Roma e province autonome di Trento e Bolzano, ha votato un ordine del giorno ispirato da Durnwalder, che prevede lo spezzatino del parco. E’ stato messo nero su bianco lo schema di un nuovo regolamento di gestione del parco. Il via libera del governo, sotto forma di decreto del presidente del Consiglio dei ministri, potrebbe arrivare già nella riunione dell’esecutivo di venerdì. E a quel punto i giochi sarebbero chiusi. A meno che non si metta di traverso il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni. Oltre il 70 per cento del territorio del parco si estende tra le province di Sondrio e Brescia, ma pare che Formigoni non abbia fin qui potuto dire la sua sul nuovo ordinamento. Non è detto che da Milano arrivi un’entusiastica approvazione del progetto. Se non altro perché lo spezzatino della riserva naturale comporterebbe maggiori oneri finanziari per la Lombardia. Pare difficile però che Formigoni faccia lo sgambetto a Berlusconi proprio alla vigilia del voto di fiducia. Dopo tutto anche lo Stelvio ha un prezzo, basta mettersi d’accordo.
LA STRATEGIA “A PEZZETTI”
DELLA GRANDI OPERE
I piani restano faraonici, gli annunci si sprecano, ma le risorse non ci sono per realizzare le grandi infrastrutture promesse dal governo Berlusconi. Questo non induce alcun cambiamento di rotta, anzi si escogitano scorciatoie sempre più pericolose per non ammettere il fallimento. Come ha fatto anche il Cipe del 18 novembre 2010 annunciando il via libera per 21 miliardi di opere pubbliche, in realtà autorizzando lotti costruttivi, cioè pezzi di opere nemmeno funzionali che si sa quando cominciano e non si sa dove e quando finiscono.
Sono i 500 milioni per la TAV Milano-Genova ( che costa oltre cinque miliardi), il primo lotto costruttivo della galleria del Brennero (790 mln), l’approvazione del cunicolo esplorativo La Maddalena, (47 milioni) parte del progetto TAV Torino-Lione che costa 15 miliardi. Ancora 468 milioni per l’autostrada Roma-Latina che costa complessivamente 2,7 miliardi.
Anche l’Ance ha protestato contro il trucco, parlando di opere già approvate da tempo e solo riapprovate a “pezzi” dal Cipe, senza nuove assegnazioni di risorse, anzi con robusti tagli nella manovra finanziaria, mentre anche le opere medio piccole sono incagliate da mesi. Nel suo “Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni” l’Ance parla di “ progressivo disimpegno dello Stato nella realizzazione delle opere pubbliche”, analizzando il DDL di stabilità 2011 emerge una riduzione per le grandi infrastrutture del 14% rispetto al 2010 e nel triennio 2009-2011 le risorse per le grandi opere sono state tagliate del 30%.
La stessa manovra per il 2011 del Governo ha fissato il taglio di 922 milioni per le ferrovie, mentre il contributo per investimenti di ANAS nel 2011 è pari a zero perché le risorse dovrebbero venire dal pedaggiamento di diverse strade statali. Risorse al momento solo ipotetiche e che comunque - ha detto il Presidente di ANAS Ciucci – serviranno a pagare i debiti delle opere in corso, mettendo quindi a rischio manutenzione e messa in sicurezza delle strade statali.
Ma le liste sterminate restano: basta leggere l’Allegato Infrastrutture presentato al Parlamento dal Governo in occasione del DFP. Secondo il Ministro Matteoli sono 28 le infrastrutture strategiche superprioritarie da avviare entro il 2013, orizzonte della legislatura, per un totale di 110 miliardi, di cui mancano 71 miliardi da trovare in due anni. E dei 40 miliardi disponibili in realtà ben 18,7 miliardi dovrebbe provenire dai privati, che sappiamo bene quanto siano refrattari all’investimento a rischio in grandi opere.
Secondo l’Allegato Infrastrutture il costo complessivo delle opere Legge obiettivo è lievitato a 231 miliardi, cioè è più che raddoppiato rispetto al 2001, con un fabbisogno residuo di 142 miliardi ancora da trovare. Ma il Quinto Rapporto del Servizio Studi della Commissione Ambiente della Camera, in collaborazione con Cresme ed Autorità di Vigilanza sui Lavori Pubblici arriva a conclusioni ben diverse: nel 2010 le opere strategiche sono diventate 348 per un valore complessivo di 358 miliardi. (vedi www.annadonati.it infrastrutture)
In tempi di crisi è ragionevole tagliare le risorse per grandi opere, ma bisogna tagliare anche il piano di grandi opere, puntando all’adeguamento delle infrastrutture esistenti, alla manutenzione del patrimonio pubblico, investire nelle città, aggredite da degrado e mancanza di servizi, destinare risorse contro il dissesto idrogeologico, che nonostante frane ed alluvioni, è al minimo storico per investimenti.
Le solite note:
Autostrade, Mose, TAV, Ponte sullo Stretto.
La lista delle pseudo priorità dell’Allegato Infrastrutture da far partire entro il 2013 contiene le solite opere (Tabella 2): ci sono i grandi valichi ferroviari Torino-Lione e Brennero, il terzo valico Milano-Genova, la TAV Milano-Verona, l’autostrada Orte- Venezia e Roma-Latina, il completamento del Mose, la Salerno Reggio, il Ponte sullo Stretto, l’autostrada Tibre ( di cui si vuole dare il via libera a 15 km) e la Nogara-Mare, le autostrade venete, lombarde e la tangenziale est,. (per l’elenco completo vedi il sito www.mit.gov.it)
Stranamente non c’è l’Autostrada della Maremma, ma il trucco è presto svelato: sta in un’altra Tabella 3, quella che contiene tutto il resto, le opere già fatte, quelle in corso e quelle che non partiranno entro il 2013.
L’Autostrada Tirrenica della SAT costa 3,7 miliardi di euro, di cui la concessionaria si è impegnata a pagare 3,3 mld, ma al momento gli impegni fissati sono per realizzare 4 km tra Rosignano-S.Pietro in Palazzi per 45 milioni. Secondo il Governo grazie a questi 4 km l’opera è avviata anche se sul resto dei 180 km manca ancora il progetto definitivo! Dopo le prescrizioni del Cipe (che ha imposto un valore di subentro per lo Stato pari a zero) e quelle ambientali della Commissione VIA, la stessa SAT ha annunciato di voler modificare il tracciato, per utilizzare anche nel tratto Grosseto-Civitavecchia l’attuale tracciato del’Aurelia, al fine ridimensionare l’investimento che dovrebbe aggirarsi su 2,2 miliardi di euro. A giugno è stato pubblicato il progetto definitivo e SIA del tratto Tarquinia-Civitavecchia, in effetti completamente sovrapposto all’Aurelia. Siamo praticamente tornati al progetto ANAS del 2001, perdendo inutilmente dieci anni.
Un altro caso emblematico è l’autostrada Orte-Venezia, un progetto sbagliato da 400 km, costo previsto secondo l’Allegato di 9,7 miliardi di cui disponibili 8,3, e da trovare altri 1,4 miliardi. In realtà quelli disponibili sono gli 8,3 miliardi che dovrebbe mettere il soggetto privato che vincerà la gara per la concessione. Attualmente il promotore dell’opera scelto da ANAS, è la società privata Gefip Holding dell’on. Vito Bonsignore, sul cui progetto dovrà essere effettuata la gara. Non si è mai vista in tutta la storia del project financing mondiale una simile capacità di autofinanziamento per un’autostrada! Ma intanto il progetto va avanti ed ora ha ottenuto dalla Commissione VIA un inaccettabile parere positivo di valutazione ambientale. Ma comitati ed associazioni ambientaliste ha già reagito con un appello ed una serie di iniziative si preannunciano da Mestre a Perugia passando per Ravenna, chiedendo il miglioramento delle strade esistenti, ed il potenziamento delle ferrovie e del cabotaggio (vedi il sito www.retenoar.org).
Anche per la TAV Torino-Lione si procede come niente fosse, come se la crisi economica e le scarse risorse non imponessero l’accantonamento definitivo del progetto che costa complessivamente 15 miliardi di cui 8,7 miliardi per le casse dello Stato italiano. Basti pensare che per il 2011 il trasporto ferroviario regionale dei pendolari subirà un taglio pesante del servizio e le Regioni parlano di un 20% in meno. Il 29 ottobre è arrivato lo scontato via libera della Commissione VIA del Ministero per l’Ambiente al cunicolo esplorativo de La Maddalena a Chiomonte, (riedizione aggiornata del cunicolo di Venaus del 2005). Questa estate è stato pubblicato il progetto preliminare della tratta internazionale tra Italia e Francia con lo studio di Impatto ambientale che adesso dovrà essere giudicato dalla commissione VIA. Pensanti le osservazioni dei comuni, dei comitati e delle associazioni ambientaliste contro il progetto che hanno chiesto l’interruzione della procedura VIA per tre ragioni: il frazionamento artificioso della VIA dato che manca la parte italiana di innesto a Torino, per la carenza di valutazione sugli impatti ambientali, ed infine per aver riportato il progetto all’interno della Legge Obiettivo, che esclude gli enti locali dalle decisioni. E la popolazione della Valsusa è tornata in piazza con presidi e marce assai partecipate per fermare il progetto, ancora più motivate in tempi in cui si tagliano i servizi essenziali per i cittadini. (vedi il sito www.ambientevalsusa.it).
Anche per il Ponte sullo Stretto è annunciato per fine anno la presentazione del progetto definitivo, su cui dovranno essere verificati i costi reali ed aggiornato il piano finanziario di un’opera che costa 6,1 miliardi ed assegnati dal Cipe 1,3.
In questi mesi sono state effettuate trivellazioni propedeutiche a Torre Faro e Due Torri per la definizione del progetto, ed i cittadini interessati hanno fatto sentire la loro voce, così come le manifestazioni No Ponte hanno visto l’adesione di migliaia di cittadini che chiedono la messa in sicurezza del territorio come opera utile, arrabbiati perché ad un anno dalla frana di Giampilieri con il suo carico di morti e feriti niente è stato fatto. (vedi siti www.noponte.it e www.retenoponte.it )
LA SOLITA FINANZIARIA:
GIÙ DALLA TORRE I PENDOLARI,
RISORSE PER L’AUTOTRASPORTO.
La manovra finanziaria licenziata dalla Camera ed ora in discussione al Senato, trova 400 milioni di euro per l’autotrasporto, anche 471 milioni di euro per i cacciabombardieri F-35 e ben 245 milioni per le scuole private, ma conferma i tagli per il trasporto ferroviario regionale a cui manca più di un miliardo grazie alla manovra estiva di Tremonti.
La manovra “sembra” trovare 425 milioni per coprire il buco ma in realtà li prende dalle risorse previste per l’acquisto di materiale rotabile per il trasporto regionale del DL 185/2008. L’emendamento approvato, peraltro scritto in modo tortuoso ed ambiguo, in pratica azzera le risorse per i nuovi treni per tagliare un po’ meno il servizio. Una vera beffa per quei 2,5 milioni di pendolari che ogni giorno usano il treno per muoversi, e che avevano osato sperare che con l’arrivo del nuovo materiale rotabile a partire dal 2012 sarebbe migliorata la qualità del servizio.
Dal prossimo anno, a meno di novità positive dal passaggio al Senato del ddl stabilità, si annunciano tagli in tutte le regioni del trasporto per i pendolari, tra 10 ed il 20% del servizio sia gomma che ferro, e/o robusti aumenti delle tariffe. Addio quindi alla difficile strada verso la mobilità sostenibile e lo sviluppo del trasporto collettivo, tagliando servizi già scarsi e di bassa qualità, se confrontati con il resto delle città europee.
In effetti di fronte all’enormità del taglio non sembra esserci una adeguata reazione, a partire da Trenitalia, ma è probabile che esploda la protesta una volta che sarà evidente il taglio dei servizi di trasporto. ASSTRA ha elaborato alcuni scenari: se il taglio delle risorse è del 20% l’aumento delle tariffe sarà del 78% per mantenere i servizi. Se invece si tagliano i servizi, con il 20% in meno di risorse vanno tagliati ogni anno 392 milioni-km di autobus, tram e metropolitane e questo comporta 540 milioni di passeggeri/anno di meno. A questi vanno sommati il taglio di 7,8 di treni-km di ferrovie regionali ( esclusa Trenitalia), che comporta 1,5 milioni di passeggeri in meno.
Questo avrà anche pesanti effetti ambientali nelle città, mentre è sottovalutato l’effetto sull’occupazione sulle aziende del TPL. Con il taglio del 20% dei servizi ci saranno - secondo ASSTRA - 19.720 addetti da tagliare, per i quali non è prevista alcuna forma di ammortizzatore sociale specifica. Senza dimenticare che tagli in questo settore significa anche fermare l’industria ed i suoi occupati di chi produce autobus, treni, tram con tutto l’indotto collegato e che in Italia ha una presenza significativa.
Diverse città hanno inaugurato di recente nuove reti tramviarie o su ferro come Padova, Messina, Bergamo, Firenze, Cagliari, Sassari, ed altre linee sono in cantiere a Mestre e Palermo. Ma se si tagliano le risorse per l’esercizio come faranno a trasformarsi in servizio ai cittadini? E come sarà possibile aumentare il trasporto regionale come promesso, sulle linee liberate dai treni di lunga percorrenza che ora viaggiano sulle nuove linee veloci AV?
Il rischio concreto è che dopo aver speso tante risorse pubbliche in infrastrutture su ferro, adesso i pendolari ed il trasporto locale non traggano alcun beneficio per i loro spostamenti, nonostante che siano la stragrande maggioranza dei viaggi quotidiani.
C´era da aspettarselo. Quando si è saputo che un nordafricano è stato arrestato perché sospettato di aver ucciso Yara, è esploso il razzismo. Senza neppure aspettare conferme. E tanto meno la conferma di un giudizio. Quasi un gesto liberatorio: questa volta non è "uno di noi", ma "uno di loro". Dopo Avetrana, ove una quasi coetanea di Yara è stata uccisa da zio e cugina che era andata a trovare fiduciosa, dopo Pinerolo, dove una donna è stata uccisa dall´ex amante del marito con la complicità del figlio, finalmente le cose sono tornate a posto: i cattivi sono gli altri (anche in Calabria dove sono morti sette ciclisti), doppiamente sconosciuti, perché non familiari e soprattutto perché stranieri. Una auto-rassicurazione che cerca capri espiatori su cui rovesciare l´ansia che produce l´insicurezza derivante dal non sentirsi più in controllo del territorio e delle condizioni della vita quotidiana. Non perché ci sono gli immigrati, ma perché sono cambiate molte regole del gioco, ma molti comportamenti, e molte teste, sono rimaste le stesse. Specie per quanto riguarda i comportamenti nei confronti delle donne, incluse le ragazzine.
Essere genitori oggi, specie di una figlia, è spesso fonte di ansie e paure. Non è sufficiente sapere che la maggior parte delle violenze avvengono in famiglia, da parte di familiari (italiani e no). Oggi come un tempo ogni genitore sa che una figlia femmina è più vulnerabile. Non perché sia più debole di un figlio maschio (per altro anch´esso non del tutto protetto dalle attenzioni improprie e violenze, anche da parte di insospettati, come ha segnalato il grande scandalo della pedofilia da parte di ecclesiastici). Ma perché più di un maschio è considerata preda cacciabile da parte di uomini che si credono in diritto di prendere ciò e chi desiderano. È questo timore che ha legittimato in passato la maggiore sorveglianza cui sono state sottoposte le figlie rispetto ai figli, riducendo i loro spazi di libertà, il raggio delle loro esperienze.
Chiudendo in un recinto la potenziale preda, perché non si può controllare il cacciatore. Anche se non sempre neppure il recinto è un luogo sicuro, come ha dimostrato appunto l´omicidio di Avetrana ed è documentato quasi quotidianamente dalle cronache che parlano di fidanzati, mariti, fratelli che macellano le donne che per qualche ragione considerano loro proprietà.
Ogni genitore conosce il batticuore con cui aspetta il rientro dei figli, maschi o femmine che siano, ma con un pizzico di ansia in più se sono femmine. Si è stretti tra il desiderio di dare fiducia e autonomia e la consapevolezza di non potere prevedere ed evitare tutti i rischi. L´ansia rischia di diventare divorante di fronte a casi come quello di Yara: sparita in pieno giorno, mentre torna a casa, in un paese dove si conoscono tutti e dove apparentemente il controllo sociale sul territorio dovrebbe essere maggiore che in una grande città. Invece di cercare un capro espiatorio nell´immigrazione, come se il problema dell´insicurezza e della violenza riguardasse solo o prevalentemente gli immigrati, bisognerebbe riflettere sul persistere di queste condizioni di insicurezza per le donne, che costituiscono una gabbia invisibile per tutte, ma che in molti, troppi, casi tolgono la dignità e la vita.
Soprattutto, ora, mentre le speranze di ritrovare Yara viva si stanno spegnendo, sarebbe il caso di rispettare lei, la sua vita e il sorriso bambino, e la dignità dolorosa dei genitori, che non si sono offerti al circo mediatico pronto a documentarne ogni sospiro e ogni lacrima. Che si eviti la caccia agli immigrati, ma anche di fare di una tragedia l´ennesima occasione per uno spettacolo per guardoni. Niente processi e ricostruzioni in pubblico, con o senza modellini ed esperti sempre in servizio. Niente appostamenti per spiare il dolore dei familiari. Nessuna solleticazione del narcisismo più o meno ingenuo di amici e conoscenti. Sobrietà, silenzio e molta autoriflessione.
Loro sulla luna, noi sulla Terra. La sensazione che si ha qui a Cancun è esattamente questa, parlando con i delegati delle organizzazioni sociali, contadine e indigene che da tutto il mondo sono accorse con l’obiettivo di fermare la febbre del pianeta. La separatezza tra i governi, che alloggiano al «Moon Palace » ed i movimenti e la società civile è sempre più netta. Con il passare delle ore aumenta la convinzione dell’ennesima occasione sprecata.
Dal Moon Palace nessuna proposta convincente. Invece di affrontare le responsabilità ed individuare le soluzioni per smetterla una volta per tutte con le politiche energivore, inquinanti ed insostenibili, la governance globale appare interessata unicamente a capire come monetarizzare a proprio vantaggio la crisi ecologica. Stando così le cose, a fine secolo la temperatura della terra sarà oltre 5 gradi superiore a quella attuale.
Il 3 dicembre qui a Cancun si è realizzata una mobilitazione per denunciare il ruolo della Banca Mondiale, che con la propria politica dei prestiti in questi ultimi venti anni ha causato molti dei disastri ambientali. «Giubileo Sud», una delle reti globali impegnate da anni sulle questioni del debito dei Paesi poveri, ha promosso questa prima mobilitazione pubblica chiedendo che la BM esca dagli accordi sul clima.
Associazione A Sud
GENOVA - Si chiama "Mi Nova" e anche se sembra rimandare al nome di una stella è il più terrestre dei progetti. Il suo obiettivo è rivoluzionare il Nord ovest del Paese sfruttando le peculiarità geografiche dei territori coinvolti, il mare di Genova e la pianura padana che ha in Milano il suo baricentro, unite da un collegamento ferroviario ad alta velocità per far correre merci e passeggeri. "Mi Nova", infatti, è il prodotto della fusione fra Milano e Genova. Fusione non solo lessicale, ma economica e commerciale, e, in ultima ipotesi, anche amministrativa, se gli enti locali ne condivideranno l’operazione. A firmare il progetto Mi Nova è il presidente dell’autorità portuale di Genova, Luigi Merlo, a capo del primo scalo d’Italia (e secondo del Mediterraneo).
«Sono un uomo delle istituzioni, valuto con molta attenzione le implicazioni che possono arrivare da un’operazione di questo tipo - spiega Merlo a "Repubblica" - Ma ritengo che oggi ci siano tutte le condizioni per arrivare a una vera integrazione fra le due città, Milano e Genova, unite da interessi comuni e in grado di rappresentare, insieme, una grande realtà fatta di eccellenze e di peculiarità. Da tempo verifico con gli amministratori e i rappresentanti economici della Lombardia una sintonia sempre più forte sui progetti infrastrutturali e logistici che coinvolgono il porto di Genova. A questo punto ritengo che ci siano tutte le condizioni per fare un salto di qualità».
Il modello delle aggregazioni in chiave portuale si sta ormai affermando a livello internazionale. Non a caso, la Francia sta ipotizzando la "trasformazione" di Parigi in città portuale attraverso la creazione di un canale navigabile fino al porto di Le Havre, sul Mare del Nord. Mi Nova si muoverebbe sulla stessa scia, con un obiettivo temporale molto ravvicinato, vale a dire l’Expò 2015 di Milano. Le basi per un’integrazione sempre più spinta fra Genova e Milano, comunque, ci sono già. Basti pensare che gran parte della merce che ogni anno lascia la "Regione Logistica Milanese" (Milano e il suo hinterland) per l’estero utilizza il mare come suo mezzo di trasporto. Su 48 milioni di tonnellate di export di merce "milanese", 38 prendono la rotta del mare e 33 scelgono il porto di Genova. Da Genova a Milano, e ritorno, si spostano oltre un milione di container ogni anno. È come se il capoluogo lombardo, ogni giorno, producesse merce per riempire dodici grandi navi portacontainer. Oggi il porto viaggia al di sotto dei due milioni di container. Cifra che potrebbe triplicare, o quadruplicare con nuove infrastrutture (6-8 milioni).
La chiave di volta dell’operazione è infatti rappresentato dal collegamento ad alta velocità del "Terzo Valico dei Giovi", atteso da più di vent’anni e che, per la prima volta nelle scorse settimane, ha ricevuto il via libera dal Cipe con un finanziamento di oltre 700 milioni di euro. L’opera costa oltre sei miliardi di euro, ma l’impegno di questo governo, e di quelli che dovrebbero succedergli, è di sostenerne la realizzazione fino alla fine, prevista fra otto anni e quattro mesi. In parallelo dovrebbero proseguire i progetti di crescita infrastrutturale del porto di Genova, costo tre miliardi. Così, solo dal fronte mare, Mi Nova potrebbe muovere dieci miliardi di euro.
«È necessario creare le condizioni perché Genova e Milano diano vita a una vera e propria macrocittà, unita da un collegamento ferroviario veloce che è poi il primo anello della tratta internazionale Genova-Rotterdam - precisa Merlo - Mi Nova sarebbe la macrocittà del mare del Nord Italia». Una potenza economica e finanziaria che già oggi vale un fatturato di due miliardi e mezzo di euro (generati dai movimenti in entrata e in uscita dalla merce milanese nel porto di Genova) e che anche in chiave federalista rappresenterebbe una risposta alla voglia di affermazione dei territori. Non sfugge, infatti, al presidente Merlo, ex assessore ai Trasporti della Regione Liguria e uomo del Pd, che un progetto di questo tipo può anche avere una forte connotazione politica. «Più che di rottamatori, questo Paese avrebbe bisogno di ricostruttori - chiude il presidente dell’authority genovese - Credo che anche da un progetto come questo ci possano essere le condizioni per dare centralità, in chiave internazionale, all’economia del Nord del Paese».
postilla
anche se non ci si adegua al vecchio adagio andreottiano, del pensare male per indovinare, basta scorrere l’articolo per intuire che qualcosa proprio non va. La fascia meridionale della megalopoli padana è davvero una selvaggia prateria da occupare militarmente, col cavallo d’acciaio, i Buffalo Bill per sbrigare sbrigativamente le faccenduole locali, e dulcis in fundo un bel progetto autoritario di riorganizzazione amministrativa modellato su infrastrutture e flussi di merci?
Non basta il recente disastro sull’asse A4/TAV di alta e media pianura, con le costellazioni di scatoloni nati vuoti, di svincoli e cavalcavia a servizio esclusivo di arrancanti trattori più qualche disperata in abitino fluorescente?
Avevano ragione, quei grossi papaveri della stronzaggine nazionale, a liquidare a cavallo fra gli anni ’60 e ’70 come Libro dei Sogni il tentativo di programmare in qualche modo i grandi sviluppi territoriali! Loro si regolano perfettamente da soli, altro che grandi progetti, politica, democrazia, piani territoriali. Al massimo, quelli vengono dopo, magari cooptando qualche accademico carrierista di bocca buona. Per i superstiti, naturalmente (f.b.)
Mancava ancora qualcosa, al processo di decomposizione del berlusconismo. L´irridente «me ne frego», che gli arditi del Pdl sbattono in faccia alle regole, alle istituzioni, alla Costituzione. Ebbene, grazie a Denis Verdini, pluri-inquisito coordinatore del Popolo della Libertà, è arrivato anche questo. «Ce ne freghiamo», annuncia il plenipotenziario berlusconiano. Se ne fregano delle prerogative del Presidente della Repubblica, al quale la Carta del ´48 assegna compiti precisi nella gestione della crisi di governo. Le conoscono, queste prerogative. I falangisti del Cavaliere sanno che la nostra, ancorché malridotta, è ancora una Repubblica parlamentare, dove le maggioranze nascono, muoiono e si modificano in Parlamento. Sanno che i parlamentari non hanno vincolo di mandato. Sanno che in presenza di una crisi di governo il capo dello Stato ha il dovere di verificare se esiste un´altra maggioranza. Sanno che in caso affermativo ha il dovere di affidare l´incarico di formare un nuovo governo a chi la rappresenta.
Sanno tutto questo. Ma appunto: se ne fregano. Perché per loro, come si conviene a un populismo tecnicamente totalitario, la «ragion politica» prevale sempre e comunque sulla ragion di Stato. Il leader incoronato dalla gente è sempre e comunque sovraordinato alle norme codificate dal diritto. Questo, fatti alla mano, è dal 1994 il dna politico-culturale del berlusconismo. E così, al grido di «no al ribaltone», le truppe del Cavaliere sono pronte a marciare sul Colle, sfidando Giorgio Napolitano e stuprando la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il supremo custode.
Questo è dunque lo spirito con il quale un premier in confusione e una maggioranza in liquidazione si accingono ad affrontare le due settimane di vita che ancora restano al governo, prima del voto del 14 dicembre. Questo è il «grido di battaglia», con il quale il Pdl si prepara a combattere la guerra che comincerà il giorno dopo quella drammatica ordalia. Sapevamo, a nostra volta, che l´ultimo atto della commedia umana e politica di Berlusconi sarebbe stato pericoloso e destabilizzante. Ma non immaginavamo che al vasto campionario di violenze verbali e di macellerie costituzionali ora si aggiungesse anche il «me ne frego».
Restano una certezza e una speranza. La certezza è che la massima istituzione del Paese, il Quirinale, è affidata alle mani salde e sagge di un uomo che saprà esattamente cosa fare, per il bene dell´Italia e degli italiani. La speranza è che alla fine anche la parabola del berlusconismo, più che in tragedia, degeneri in farsa. E che per i suoi fedelissimi, come ai tempi di Maccari e Flaiano, valga un altro slogan, assai meno impegnativo: o Roma, o Orte.
m.giannini@repubblica.it
Oggi torna in piazza il movimento per l'acqua, bene comune. Vi sono iniziative in ogni regione, ciascuna convocata da un particolare comitato che le lotte hanno fatto emergere. Ogni comitato è cresciuto con un problema specifico da risolvere - una fonte inaridita o sottratta, un imbroglio, un sopruso - e per questo è sostenuto da un consenso esplicito e di massa; ma, in Italia, una rete unisce le diverse esperienze - l'unione che fa la forza - dall'esigenza di resistere all'attacco delle multinazionali e dei poteri forti, decisi a loro volta a impadronirsi dell'oro blu, in vista del formidabile affare in arrivo: la scarsità idrica nei prossimi anni e decenni. Come primo atto, il movimento chiede oggi di sospendere ogni decisione che possa provocare un ulteriore slittamento verso la privatizzazione, sulla scorta del «decreto Ronchi», finché almeno la volontà della popolazione non si sia potuta esprimere nei referendum.
Non si tratta solo di una lezione di democrazia applicata alla vita di tutti, tutti i giorni; vi è anche un suggerimento, quello di guardare oltre, verso la Terra che ci circonda e ci sostiene. Il movimento dell'acqua, pratico e legato ai fatti, è profondamente ambientalista, anzi è il maggior contributo italiano alla sopravvivenza del pianeta, l'unico che ci caratterizzi. La corsa mondiale alla privatizzazione dell'acqua può subire proprio qui, proprio da noi, una sconfitta decisiva. Dal movimento italiano può nascere un blocco per tutte le multinazionali del globo.
In questi giorni è in corso il vertice di Cancun, in Messico; anzi, senza che nessuno se ne sia accorto, esso è già arrivato a metà del suo percorso. Doveva servire a rimediare ai guasti e agli stupidi egoismi di Copenhagen, proprio un anno fa, ma se mai ha peggiorato la deludente situazione di allora.
Un anno inutile è passato, rendendo ancora più acuto il pessimismo di chi rifletta sul futuro, sulla Terra che lasceremo ai nostri incolpevoli nipoti. C'è dunque chi pensa che sarebbe opportuno lasciar perdere questa strategia dei vertici mondiali onnicomprensivi che si susseguono, con formidabili sprechi in viaggi e riunioni preparatorie, senza mai raggiungere risultati di sorta, ma alimentando sospetti e sfiducia, dimostrando anzi, ancora una volta, che non c'è via di uscita: non nella discussione, non nella inutile democrazia. Ma la discussione, nella democrazia, è l'unica forza che abbiamo.
Se non c'è tra le delegazioni, nell'ansia del vertice, la convinzione di essere sul crinale della storia umana. Se manca la preoccupazione di avere un compito decisivo nel offrire, o non offrire, alle generazioni, una forma accettabile di sopravvivenza, con politiche anche aspre, ma intelligenti, dedicate a questo obiettivo, rispettose dell'altro e dell'equità: Se molti sono convinti che è in corso una gara nella quale i forti e i furbi sopravvivono e degli altri si perde anche la traccia; proprio allora il nostro compito è quello di insistere, di spiegare, di offrire le buone ragioni; a Cancun e qui.
Ma visto che si evita questo livello di discussione, meglio trattare di un problema soltanto e cercare di portarlo a soluzione. Per esempio l'acqua.
Noi del manifesto non ci metteremo sulla sponda del fiume, per vedere gli effetti dell'inondazione o viceversa della siccità, per dare voti e criticare e commentare, all'asciutto - e all'ombra. Siamo dalla parte di chi si dà da fare, siamo una parte del movimento e vogliamo contribuire alla sua tenuta con quello che abbiamo e sappiamo. Una certa capacità di scrivere, un bel po' di persone amiche, di compagni che ci danno fiducia e ci aiutano: che scrivono per noi e per voi. Così è stato possibile dare vita al nostro quarto fascicolo speciale, «Gasati», dedicato ad Ambiente Energia e Mobilità che sarà in edicola martedì 7 dicembre, insieme al quotidiano abituale, per un modico prezzo.
Non si tratta di un contributo risolutivo, vista la pochezza delle nostre forze e l'enormità del problema davanti a noi. Speriamo però di contribuire a una discussione aperta, di muoverci nella direzione giusta, di offrire un orientamento. Difendiamo tutti insieme la nostra Terra (e il nostro giornale).
COMO — «Ora non resta che reperire le risorse e partire con la fase di progettazione». Diceva così il sindaco Bruni il 15 luglio scorso quando fu proclamato il vincitore del concorso internazionale di idee per la valorizzazione del lungolago, voluto da Formigoni dopo l’abbattimento del muro della vergogna. L’intenzione era quella di voltare pagina, lasciando alle spalle i mesi di polemiche che avevano portato la giunta di centrodestra sull’orlo del baratro, e guardare al futuro con un grande progetto.
Il concorso era costato 500 mila euro e 50 mila euro erano andati al progetto vincente realizzato da Cino Zucchi. Da allora, nella parte in cui la costruzione delle paratie è terminata, tutto però è rimasto fermo perchè non si sa dove prendere i sei milioni necessari per la sistemazione finale. E adesso c’è un’altra novità: con una lettera inviata giovedì al Comune di Como, il soprintendente per i beni architettonici e paesaggistici, Alberto Artioli, ha bocciato il progetto di Zucchi. Tutto da rifare. E il perenne cantiere del lungolago, che ha già portato i comaschi a una crisi di nervi, resterà così per chissà quanto altro tempo. Una nuova batosta che si rifletterà inevitabile sulla traballante giunta Bruni, sopravvissuta al voto di sfiducia ma in ostaggio dei ribelli del Pdl.
Esprimendo il «parere preliminare» sul progetto di Zucchi, Artioli nella sua lettera inizia con un apprezzamento del lavoro, definito di «elevata qualità architettonica». Ma subito dopo stronca proprio l’idea centrale del progetto, la creazione di una specchio d’acqua davanti a piazza Cavour che avrebbe dovuto ricreare idealmente la darsena che una tempo si trovava dove ora c’è la piazza. Lo spostamento in avanti della linea d’acqua, «travalica l’obiettivo posto a fondamento del concorso» e «non è da ritenersi necessario e prioritario». Non solo, ma le nuove strutture, secondo il soprintendente, costituirebbero un’interferenza nella percezione del paesaggio mentre i pilastri della passeggiata sospesa quando il lago è basso creerebbero «degrado e disturbo visivo». Senza contare le ripercussioni sugli equilibri idrostatici anche in terraferma che deriverebbero dai nuovi lavori, l’ulteriore allungamento dei tempi e l’aumento dei costi.
C’è da chiedersi come mai tutti questi elementi non siano stati presi in considerazione dalla commissione giudicatrice che era presieduta dal direttore generale di Infrastrutture Lombarde spa, e composta da un rappresentante del Comune e tre architetti (due nominati dalla Regione e uno dalla Provincia), che pure erano stati chiamati a valutare sulla base di precisi parametri: inserimento urbanistico e ambientale, rispondenza alle idee guida e fattibilità tecnica e realizzativa (che si suppone dovesse tener conto anche dei costi).
Dalla Russia, dove si trova per presentare un suo progetto sul «waterfront» di San Pietroburgo, Cino Zucchi replica senza polemiche: «Non condivido il parere di Artioli - dice - ma ne prendo atto e lo rispetto. L’avanzamento della linea d’acqua in piazza Cavour era un tema delicato. La nostra idea era coraggiosa ma mi rendo conto che in questo momento ha forti implicazioni politiche e psicologiche. Faremo tesoro delle indicazioni e vedremo se sarà possibile cambiare mantenendo comunque un bel progetto».
Viaggio a Tor Bella Monaca per immaginare il futuro di un mondo dove il degrado si mescola ad archeologia e verde. I nuovi metri cubi nei terreni del conte Vaselli. La minaccia alla sorgente dell’Acqua Vergine.
Prima tappa, viaggio sotto la pioggia in torpedone verso Tor Bella Monaca. All’appello hanno risposto nove dipartimenti e facoltà di architettura di Roma, Milano, Torino, Pescara, Parma, Venezia, Camerino, Napoli, Reggio Calabria. Tema: la proposta del sindaco di Roma Gianni Alemanno di demolire l’edilizia popolare degli anni Ottanta – «buttiamo giù l’architettura comunista », traduce Massimiliano Lorenzotti, presidente dell’VIII municipio - e ricostruire in stile «Garbatella» con l’aiuto dell’architetto lussemburghese Leon Krier. Seconda tappa (martedì nell’aulamagnadella facoltà di architettura a Fontanella Borghese a Roma), seminari di studio, terza: le proposte, a gennaio 2011. Gli studiosi delle periferie hanno parecchie perplessità su un’operazione che, solo con i materiali di demolizione, «riempirebbe l’intero stadio Olimpico », spiega Marta Calzolaretti, professore di progettazione alla Ludovico Quaroni di Roma.
GRA e A24, un incubo di traffico sotto la pioggia. Fa da guida Daniel Modigliani che è stato direttore dell’ufficio delle periferie e poi del nuovo Prg. C’è Renato Nicolini, c’è una piccola troupe con Pierpaolo Andriani e Roberto Giannarelli per le riprese video: il complesso del Municipio (studio Passarelli) con il cinema e il teatro è un inno – da poetica anni Settanta - al cemento nudo. Niente panchine, niente piante, niente passaggi coperti per ripararsi dalla pioggia. Primo appunto: demolire o curare la vivibilità degli spazi pubblici?
Anni Settanta, epocale manifestazione per la casa al tempo dei baraccati dell’Acquedotto Felice. Anni Ottanta, sindaco Luigi Petroselli, detto l’Etrusco o anche il Comunista, è il tempo dell’ultimo grande programma di edilizia popolare e agevolata. Nascono Corviale, Laurentino 38 e Tor Bella Monaca.
Tor Bella viene su in meno di due anni, 1982-1983. Roba da far impallidire il progetto CASE a L’Aquila. Case popolari, insediamenti privati e cooperativi. Però non ci sono servizi. Racconta Modigliani: nel progetto Isveur i servizi c’erano ma sulle aree espropriate al conte Vaselli si prevedevano gli alloggi ma non le infrastrutture. Il contenzioso del conte con il comune di Roma dura tuttora. E l’edilizia prefabbricata è un disastro dal punto di vista energetico.
Viale dell’Archeologia, il famigerato R5 con le sue tre grandi corti (architetto Barucci). Alle spalle c’è il rudere rugginoso del mercato mai entrato in funzione per l’ortofrutta ma perfetto per lo spaccio di stupefacenti. Non si è mai riusciti ad abbatterlo. Però,R5 hauno spettacolare panora-ma verso i Castelli. È Agro romano vincolato, tenuta Vaselli, sarà oggetto delle nuove edificazioni di Alemanno. «Così il conte si prepara a guadagnarci due volte», chiosa Renato Nicolini. Là sotto c’è una villa romana ed emerge, trattato come una discarica, il lastricato preromano della via Gabina. Al confine fra Agro e abitato piccoli orti e baracche sorvegliate dal latrato dei pit bull. Ma non c’è solo abbandono, anche i campi sportivi e la piscina.
Il rischio accertato è un ulteriore consumo di suolo: dagli attuali 77,7 a 97,7 ettari, da 28mila abitanti previsti attuali a 44mila. Cifre che spiegano l’arcano del presunto costo zero per l’amministrazione comunale a fronte di un miliardo di spesa: il pagamento è in cubature che passano da duea tre milioni e mezzo. L’operazione ideologica copre una gigantesca speculazione immobiliare, mentre sul comune ricadranno i costi di urbanizzazione e sociali. E l’espansione andrà a lambire la sorgente dell’acqua Vergine che sgorga sotto la cresta vulcanica dell’insediamento. La prospettiva sono tre anni di un immenso cantiere senza contare tutto il tempo necessario ai progetti e alla ricerca dei finanziamenti e senza che si sia risposto ad una domanda fondamentale: perché dovrebbe migliorare la qualità della vita delle persone, come si contrasterebbe la microcriminalità che affligge alcune zone del quartiere?
C’è un problema di degrado edilizio e gli spazi pubblici sono lande desolate, gli spostamenti dentro al quartiere si devono fare in macchina, mancano ciclabili, marciapiedi, servizi agli anziani e ai bambini. Marta Calzolaretti: «È a questi problemi che si deve rispondere e a quello del risparmio energetico, mentre nuovi alloggi potrebbero sorgere dove è già urbanizzato». E, se si allarga lo sguardo, Tor Bella Monaca fa parte di una città di 90mila abitanti con Torre Angela e Torre Gaia, Capanna Murata e Rocca Fiorita che sconfinano verso i Castelli. Un mondo pieno di ricchezze naturali e archeologiche che la presenza della seconda università a Tor Vergata ha profondamente modificato, attirando studenti e albergatori per chi usufruisce del Policlinico. Il cantiere del metro C entra nelle case. Ce n’è abbastanza per chiedersi quali problemi risolvano le casette basse di Alemanno a parte l’indubbio guadagno di chi si vedrà modificare le proprietà agricole in edificabili.
House Living and Business
Il PGT di Milano è a rischio bolla quanto il mercato immobiliare!
di Greta La Rocca
I numeri del Mercato immobiliare sono falsi e gonfiati. Ve l’abbiamo scrittoL’immobiliare italiano risale per la bolla fiscale!presentando il Terzo Rapporto Immobiliare 2010 di Nomisma (importante società fondata, agenzia di rating per l’Industria delle Costruzioni e per l’Industria Immobiliare Italiana), smentito dai dati Istat.
Dopo Nomisma, è stata la volta di Scenari Immobiliari: istituto indipendente di studi e ricerche, analizza i mercati immobiliari e l’economia del territorio in Italia e in Europa; fondata nel 1990 da Mario Breglia (che è anche socio onorario diAICI – Associazione Italiana Consulenti e Costruttori Immobiliari–AICI, elenco soci 2010) è la più grande banca dati di valori e compravendite, guru del mattone per imprenditori e immobiliaristi; tra le attività anche pubblicazioni, seminari a inviti e forum a pagamento tra cui l’European Outlook organizzato tutti gli anni a Santa Margherita Ligure.
Mercoledì 1 dicembre, alla Sala Colonne di Palazzo Affari ai Giureconsulti a Milano, Scenari Immobiliari e AIM, Associazione Interessi Metropolitani hanno organizzato il convegnoIl nuovo pgt: conseguenze e impatti sulla città e sul mercato immobiliare. Scenari Immobiliari ha presentato lo studio che avrebbe dovuto tracciare il quadro dettagliato di quello che sarebbe stato lo sviluppo della città con l’introduzione del Pgt. Studio che non è stato commissionato da AIM, ma è stato realizzato da Scenari Immobiliari che di AIM, Associazione culturale fondata nel 1987 da un gruppo di imprese e banche milanesi (tra i soci,Gruppo Bancario Credito Valtellinese, Intesa San Paolo, a2a, Gruppo Falck…) per promuoverericerche e progetti sulla città di Milano, è socio e nel cuiConsiglio Direttivoc’è anche Mario Breglia.
I dati presentati da Breglia dimostrano che nel periodo 2016-2030, quando il Pgt sarà entrato a regime, l’offerta media annua di case a Milano ammonterà a 40mila abitazioni all’anno di cui 5mila nuove, mentre nel quinquennio 2010-2015 saranno 38mila annue di cui 4.300 nuove… se moltiplichiamo le 40mila abitazioni all’anno per 15, otteniamo 600mila abitazioni che, se sommate alle 190mila (le 38mila del quinquennio precedente moltiplicate per 5) fanno 790mila abitazioni totali… senza considerare l’invenduto che a Milano oggi è pari a 100mila abitazioni…
Abbiamo chiesto a Breglia, se l’offerta totale non fosse alta…38mila abitazioni all’anno per 5 anni, dal 2010 al 2015, vuol dire 190 mila…
No, è totale quel dato… non è annuo…
38mila abitazioni all’anno… è annuale, abbiamo visto la ricerca…
Ah, sì….
190mila dal 2010 al 2015… dopo l’Expo, dal 2016 al 2030, parliamo di 40mila case… quindi 40mila per 15 anni… fa 600mila…. dimentichiamoci dell’invenduto, sommiamo questo dato alle 190mila dei 5 anni precedenti… il totale fa 790mila…
… troppe moltiplicazioni…troppe
mi scusi, 38 dal 2010 al 2015 all’anno….. 40 mila dal 2016 al 2030 all’anno…. il totale è 790mila…. sono tante…
sì… non lo so… però….
A Milano ci sono 100mila abitazioni invendute…
Questo dipende dal mercato…
…guardiamo i dati, le transazioni vanno dalle 28mila alle 32mila che è stato il massimo storico nel 2007…. se si parla di 38mila nel primo quinquennio e 40mila nel secondo periodo, significa che mediamente ogni anno ci saranno dalle 6 alle 10mila case che rimarranno invendute… se le moltiplichiamo per 20 anni….
No, rimangono… cioè si sommano negli anni precedenti.. cioè negli anni successivi…
…scusi, le transazioni nel 2009 sono state 32.000, il massimo storico… se moltiplichiamo questo dato per il periodo 2010-2030, otteniamo 640mila transazioni in 20 anni… se sottraiamo a 790mila, il totale dell’offerta abitativa, quest’ultimo dato… abbiamo 150mila abitazioni invendute… senza calcolare l’invenduto di oggi… è altissimo..
No… ogni anno c’è l’invenduto dell’anno precedente, più le nuove costruzioni, più l’invenduto dell’anno…
…appunto… sono tante…
No, non è che rimane invenduto per 5 anni… se un’abitazione su 4 rimane venduta, viene aggiunta l’anno successivo… e l’anno successivo se ne possono costruire un po’ meno…
Mi sta dicendo che i dati, 38mila per il primo quinquennio e 40mila per il secondo periodo,… non sono dati annuali, sono valori da cui va sottratto l’invenduto dell’anno precedente?
…certo… l’invenduto rimane anno per anno e viene assorbito dall’anno successivo… abbiamo fatto un’ipotesi… noi abbiamo fatto una media, ma in realtà alcuni anni va meglio e alcuni peggio…
…per cui i dati sono…
la media non è corretta, avremmo dovuto fare tutte le tabelle anno per anno… l’anno medio è per dimostrare una tesi non per fare un convegno sul mercato immobiliare… noi abbiamo fatto un’ipotesi, queste sono simulazioni.
Breglia, nel presentare la ricerca al tavolo dei relatori, parla di suggestioni… e invita a guardare i dati e a prenderli per quello che sono, suggestioni… e precisasono ipotesi, possono variare…
I dati di Scenari Immobiliari, precisa Breglia, non guardano all’Expo, non pensano a quale incremento l’Esposizione Universale potrebbe portare in città… sono previsti posti di lavoro a Milano? Se fosse, ci sarebbe anche una domanda abitativa… E, precisa la ricerca, i dati non prendono in considerazione l’housing sociale, vera preoccupazione però del Pgt e dell’Assessore Masseroli, ma per Breglia un buco nero nella mia ricerca
Abbiamo chiesto a Breglia, che ha parlato didisponibilità di abitazioni a prezzi più abbordabili, come sarà possibile?
Non sarà possibile, perché se non faccio una vera politica di costruzioni a prezzi bassi e in affitto non posso modificare il mercato…
Breglia lancia frecciate all’Assessore Masseroli, per abbassare i prezzi delle abitazioni, il Comune dovrebbe incentivare trasformazioni di aree dismesse consentendo maggiori volumetrie però facendo soltanto case in social housing… dovrebbe coinvolgere molto le cooperative, essere più presente sul mercato… proprio quello che l’Assessore non vuole fare….. e Masseroli, rispondeBreglia non ha letto il Pgt… No, Breglia ha detto “Facciamo i conti a prescindere dall’Housing sociale”… fare i conti su un piano del territorio in cui, nelle grandi aree, il 35% sarà obbligatoriamente in housing sociale… credo che sia una semplificazione… un’ipotesi di lavoro che falsa molto i numeri finali……
Breglia non parla di abbassare i prezzi delle case perché vorrebbe dire sgonfiarli e quindi ammettere che quelli attuali sono falsi… anche se, sgonfiare i prezzi delle abitazioni sarebbe l’unica soluzione per far ripartire il mercato, vendere il nuovo già costruito e far fuori l’invenduto. L’economia italiana è crollata, le famiglie sono in crisi, il reddito (dati Istat) è a crescita zero dal 1997 a oggi… se il prezzo delle case non viene allineato alle attuali possibilità degli italiani, e quindi non viene riportato al valore dei redditi degli anni ’90, le case non verranno vendute…L’immobiliare italiano ritorna alla Lira, si venderà solo al prezzo degli anni ’90!
Breglia dichiara che il numero delle nuove abitazioni ogni anno dipenderà dall’invenduto dell’anno precedente… se ho tanto invenduto, costruirò di meno… Partiamo dai dati presentati: se l’invenduto fosse pari a 40mila abitazioni, vuol dire che delle 40mila ipotizzate ne realizzerò zero… il nuovo sarà zero… i costruttori saranno felici…
la Repubblica ed. Milano
Quanti saremo fra vent'anni
di Alessia Gallione
All’inizio era la Milano da 2 milioni di abitanti. Un sogno ambizioso, quello immaginato a Palazzo Marino. Dopo l’esodo verso l’hinterland, oltre i confini di una città sempre più piccola e cara. Talmente ambizioso da essere subito ridimensionato. Eppure, il Pgt che disegna la città del 2030, continua a crederci nella "Grande Milano": potrà crescere fino a 1.787.637 abitanti: 500mila in più rispetto a oggi.
È per loro, per i nuovi "milanesi per scelta" su cui punta il Pgt, che dovranno essere costruite le nuove case. Abitazioni per giovani coppie e per chi un’abitazione ai prezzi di mercato non se la può permettere: questa è l’ambizione del Piano. Proprio coloro che, in passato, da Milano sono fuggiti. Sugli ex scali ferroviari, al posto delle caserme e delle aree dismesse: sono oltre 6 milioni di metri quadrati le nuove costruzioni disegnate - in teoria - soltanto nei nuovi quartieri. Ma a quel sogno di far tornare a crescere la città, non tutti ci credono. A dispetto delle ottimistiche previsioni del Comune, a leggere i dati dello studio di Scenari Immobilari, l’asticella andrebbe fermata molto prima. Nei prossimi vent’anni la rivoluzione del Pgt non creerà 500mila milanesi come sostiene il piano. Al massimo, è la previsione del presidente Mario Breglia, l’impatto che le regole urbanistiche avranno sulla popolazione porterà a un incremento di 111.000 abitanti. E nel 2030, Milano sarà una città da 1 milione e 400mila abitanti. «Purché ci siano i servizi», è l’avvertimento.
Per iniziare a capirlo, quanto sarà davvero grande Milano, bisogna guardare ai dati dell’anagrafe. Eravamo 1.256.000 nel 2001; siamo poco più di 1.300.000 nel 2010. Un saldo positivo di 50mila abitanti, ottenuto soprattutto grazie agli stranieri. Breglia ha analizzato i motivi che spingono a uscire dalla città: l’inquinamento, il traffico, le poche infrastrutture, i prezzi elevati delle abitazioni. E su quest’ultimo punto, il Pgt non darebbe risposte certe. Bisognerebbe seguire l’esempio di Londra «che ha varato un piano di edilizia per chi lavora in città: i pompieri, le infermiere, i vigili. È a loro che dovremmo pensare». Eppure Carlo Masseroli ci crede nell’opportunità di costruirle, queste case per le fasce medie: «Se c’è un numero certo nel Piano - dice - sono le 30mila abitazioni in housing sociale». Del resto, ovvero di quanti saremo nel 2030, sostiene di non volerne sentir parlare: «Non mi interessa: quello sui numeri è un approccio vecchio. Non si può disegnare il futuro contando gli abitanti e quello del Pgt è uno strumento nuovo. A me interessa che chi viene a vivere a Milano lo faccia per scelta». Milano, è uno degli slogan del Pgt, diventa grande quanto vuole e può essere grande. Tutto lasciato alla "libertà" del mercato e dei privati.
E, allora, quanti saremo nel 2030? Il demografo della Bicocca Giancarlo Blangiardo crede che sia più realistica la stima a 1 milione e 400mila abitanti. «Se dovessimo essere ottimisti non avremo più di 100mila abitanti. Milano sta resistendo faticosamente a mantenersi attorno al milione e 300mila per effetto della componente immigratoria. Il capoluogo, però, ha già iniziato a perdere un po’ della sua attrattiva iniziale per gli stranieri rispetto alla regione: ormai ci sono province come Mantova e Cremona, che crescono più velocemente». Anche secondo Blangiardo, «una delle grandi scommesse sarebbe mantenere il proprio patrimonio di giovani, che quando escono dal nido vanno dove la vita è accessibile».
Anche per il geografo del Politecnico, Matteo Bolocan, «è già molto se il Pgt riuscirà a tenere per qualche anno lo stesso ritmo degli ultimi tempi. Ci sono tendenze fisiologiche di queste città - dice - che le politiche pubbliche possono provare a intercettare e pilotare ma non a determinare. Non si dovrebbe, poi, costruire di più e tanto, ma bisognerebbe farlo per fasce specifiche di popolazione». Bolocan guarda oltre i confini cittadini: «Mi interessa poco se la città centrale recupera abitanti - dice - ma se la regione urbana milanese recupera in efficienza e qualità della vita». Per il docente del Politecnico, insomma, Milano continuerà a essere vissuta ancora molto dai "city user".
Gaetano Lisciandra, architetto e vice presidente di InArch Lombardia, ha studiato i numeri del Pgt: «Gli interventi già in corso realizzeranno case per 95.000 abitanti; a questi si aggiungono quelli dei nuovi quartieri e delle volometrie generate dal Pgt per un totale di 262mila abitanti in più. Manca però buona parte della città». Eppure Lisciandra nutre «qualche legittima preoccupazione sulla reale possibilità che le previsioni insediative del Pgt possano davvero attuarsi». Il motivo? «Perché i meccanismi - spiega - sono in molti casi volontari. A cominciare dallo scambio delle volumetrie». E poi ci sono i servizi: mancano 9 miliardi di euro. Anche questo conterà per capire quanti nuovi milanesi saremo in grado di creare: «Perché la gente - conclude l’architetto - verrà a vivere qui se la città sarà attraente e darà lavoro».
Vezio De Lucia nel suo scritto molto opportunamente solleva la questione se la vittoria di candidati non sponsorizzati dalle segreterie dei partiti maggiori nelle primarie di coalizione del centro-sinistra, tra cui in particolare quella di Pisapia a Milano, possa aprire una riflessione anche sulla lunga stagione di acquiescenza di quei partiti alle politiche di deregolazione del controllo dell’assetto urbano, affermatasi sempre più estesamente con lo strumento dei PII. Confesso di essere non poco titubante a rispondere in senso affermativo. Cerco di argomentare il perché.
I Programmi Integrati di Intervento:
un ritorno alle “convenzioni” contro il PRG
nate in Lombardia e applicate ovunque
Dal 1992 in poi, col progressivo diffondersi di una sempre più estesa deregulation di ogni progetto complessivo di città, le grandi trasformazioni urbane indotte dall’attuale cambiamento del modello produttivo, attuate in un’ottica di sommatoria di singole opportunità di valorizzazione aziendale hanno di nuovo prodotto e via via continuano sempre più estesamente a produrre effetti molto più simili a quelle degli anni ’50-’60 dalle “convenzioni” fuori PRG, che non a quelle pensate e in parte prodotte dalla Legge del ’42 e dalla Legge Ponte nel periodo 1967-1992.
Si tratta, nel complesso, di una tendenza – precocemente praticata dalla Lombardia (Leggi Verga e Adamoli), ma poi generalizzatasi a livello di legislazioni regionali e nazionale - che alimenta una sostanziale sfiducia negli esiti prodotti dall’applicazione delle norme sui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici, faticosamente conquistate fra il 1967-’68 (Legge Ponte e DM sugli standard) e il 1977 (prime leggi regionali di Lombardia, Piemonte, Emilia, Liguria, Toscana e, infine, Legge Bucalossi sul regime dei suoli).
I Programmi Integrati di Intervento (PII), che costituiscono l’estensione a livello nazionale di quelle esperienze, col tempo sono andati diffondendosi sino a divenire il principale strumento d’intervento soprattutto nelle trasformazioni urbane più significative e consistenti (ma spesso anche in quelle relativamente più minute e diffuse), non solo perché potevano prescindere dalle previsioni di un determinato PRG sulla base di occasionali convenienze attuative di proprietà fondiaria e operatori immobiliari e spesso di occasionali maggioranze politico-amministrative disposte ad approvarle, ma soprattutto perché si andava affermando che – trattandosi di strumenti negoziali – essi potevano prescindere anche dai limiti normativi imposti a PRG e relativi strumenti attuativi dal DM n. 1444/68.
Tale deriva interpretativa è stata facilitata dall’introduzione nelle legislazioni regionali del concetto di standard qualitativo che, prevedendo un’equivalenza tra la cessioni di minori aree pubbliche rispetto a quelle del PRG (o addirittura rispetto a quelle minime di leggi regionali e DM nazionale) in cambio della realizzazione di opere pubbliche di maggior valore rispetto a quelle degli oneri urbanizzativi di base, rendono quanto mai aleatoria e discrezionale la valutazione della effettiva convenienza pubblica al mutamento di previsione urbanistica rispetto a quella prescritta in precedenza dal PRG per quell’area e per destinazioni analoghe a quelle propostevi.
Solo recentemente, a fronte di ricorsi di cittadini che si ritengono danneggiati da tali previsioni abnormi, i TAR hanno cominciato a sentenziare circa l’inderogabilità delle norme nazionali del DM in tema di densità edificatorie, altezze massime, distanze tra edifici e dotazioni pubbliche minime da parte di normative e piani attuativi regionali e comunali in tema di PII, sopralzi e usi di sottotetti, ampliamenti in deroga normativa a scopo di rilancio economico dell’edilizia.
E’ desolante, tuttavia, constatare che ciò possa avvenire solo come conflitto tra interessi privati contrapposti, come è tipico dei ricorsi al TAR, dove viene rigettata come legittimamente improponibile qualunque istanza di carattere generale e collettiva.
Lo scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata:
il progetto pubblico di città soppiantato
dal risparmio energetico-ambientale degli edifici
L’urbanistica, dopo essere stata al centro di grandi aspettative e rivendicazioni sociali negli anni Sessanta-Ottanta, negli ultimi decenni non gode ormai più di buona fama in un periodo di difficoltà finanziarie e di rapidità di mutamenti economico-produttivi e il suo posto nell’immaginario sociale collettivo dell’aspettativa di un futuro migliore è stato preso dall’ambientalismo ecologista.
Eppure il rischio è che anche questo si riveli alla fine un obiettivo illusorio e succube del neoliberismo economico, oggi prevalente, che ritiene un lusso insostenibile mantenere le regole di un progetto di territorio e città, pubblicamente individuato e condiviso, che è stato il pensiero fondante dell’urbanistica. Accettarne la progressiva demolizione a fronte della promessa di edifici “intelligenti”, “verdi”, “energeticamente autosufficienti”, in uno scambio ineguale tra liberismo pubblico e virtù privata, credo sarebbe la resa ad un “pensiero unico” di privatismo cui è colpevole rassegnarsi
Per quanto le pubbliche amministrazioni possano, caso per caso, contrattare alcune contropartite di utilità sociale, in assenza di un bilancio di sostenibilità urbana e ambientale complessiva, si finisce comunque per entrare in un gioco truccato a saldo finale in perdita dal punto di vista dell’utilità sociale e della sostenibilità ambientale, che finisce per produrre effetti esiziali, anche se probabilmente non necessariamente di nuovo e soltanto nella forma - come fu nel 1966 - di una frana edilizia, ma piuttosto con lo slittamento del Paese nella gerarchia produttiva e contestualmente col crollo della vivibilità sociale ed ecologica delle nostre città e dell’ambiente. C’è solo da augurarsi che non debbano solo essere tragicamente gli episodi d’intolleranza sociale o gli eventi catastrofici, che pure sempre più frequentemente si susseguono, a far sì che ci se ne debba render conto.
In campo di governo della città e del territorio, infatti, ci muoviamo ormai da tempo in una situazione che potremmo descrivere come analoga a quanto in questo periodo si cerca di attuare nei confronti dello Statuto dei Lavoratori e del contratto collettivo: cioè, ridurre ogni rapporto (in questo caso non tra lavoratore e azienda, ma tra Ente locale e trasformazioni urbane) ad un caso a sé, senza alcun criterio generale con cui operare il confronto e la trattativa nel definire l’interesse collettivo e generale da perseguire.
Una nuova “Milano da bere”:
dallo stilismo della moda
allo stilismo immobiliare delle “archistar”
A Milano, in particolare, questa stagione di allegre contrattazioni sull’orlo del baratro e senza alcun progetto generale di città ha inteso nobilitarsi dandosi il nome di Nuovo Rinascimento Urbano. La denominazione appare quanto mai appropriata, se s’intende con ciò sottolinearne il carattere di decisioni élitariamente garantite dal placet del “principe” istituzionale (formalmente di volta in volta il Sindaco pro-tempore, - Marco Formentini, Gabriele Albertini, oggi Letizia Moratti - benché, dietro la loro immagine, l’assessorato all’urbanistica sia sempre stato saldamente in mani CL) sotto l’influsso della capacità massmediatica dei progettisti di fama ingaggiati di volta in volta dai promotori immobiliari per lubrificare con fantasmagorie inusitate l’inflazione delle volumetrie edificatorie progettate senza adeguate dotazioni di verde e servizi pubblici. E’ lecito, quindi, dubitare che si tratti di prìncipi ed artisti altrettanto “illuminati” quanto quelli rinascimentali, quando comunque si poteva essere “grandi” nelle ambizioni e talvolta anche negli errori, senza con ciò provocare catastrofi irreversibili.
Senza consapevolezza della necessità di tornare ad un progetto generale del “bene comune città” è inevitabile che ogni tentativo di discutere collettivamente limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città venga bollato come un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie – col benevolo consenso di amministrazioni pubbliche sempre più condizionate dall’immediatezza delle ristrettezze di bilancio - pretendono di interpretare egemonicamente nella trasformazione delle città, e per la quale ritengono propria legittima prerogativa proporre quantità e funzioni secondo una valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta ritenute attendibili dalle proprie aspettative aziendali.
Ciò consente loro di pretendere non solo una docile adattabilità delle decisioni pubbliche alle eventuali fluttuazioni di stima di quelle quantità e funzioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione attiene piuttosto al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto o della città in cui si colloca l’intervento. In questo, occorre dirlo, supportate dal pervasivo diffondersi di una cultura progettuale veicolata in campo urbanistico-architettonico dall’ambito mass-mediatico e più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non all’individuazione di tendenze stabili e durature, che meglio si confanno a fenomeni di lunga durata come sono quelli di costruzione della città e dell’ambiente. Insomma bisognerebbe riflettere se non sia giunto il momento di promuovere un’estensione delle rivendicazioni no logo anche al campo delle manifestazioni della creatività architettonica e urbanistica !
Gli esiti morfo-tipologici dei casi milanesi più noti e rilevanti (Citylife, Garibaldi-Repubblica) sono stati giustificati dall’Amministrazione comunale sia per l’eccezionalità simbolica loro attribuita (il Rinascimento Urbano), sia per sancire che negli strumenti di programmazione negoziata vige l’insindacabilità degli esiti delle trattative “politiche”, anche in deroga alle norme strappate negli anni Sessanta-Settanta all’approvazione del Centro-sinistra storico (limiti massimi di densità fondiaria, di distanza e di altezza, limiti minimi di aree pubbliche), sinora ritenute inderogabili anche da PII e Accordi di Programma . Invece, essi sono stati fortemente contestati sia dalla cultura urbanistico-progettuale sia dall’opinione pubblica per la forte disomogeneità con il tessuto urbano circostante e l’incongrua distribuzione dei pochi spazi pubblici racchiusi tra altissime edificazioni.
I grattacieli sghembi o il “verde verticale”, bizzarramente teorizzato e praticato dallo stesso Boeri come surrogato degli spazi pubblici mancanti, sono stati oggetto non solo dei lazzi dei comici e degli anchormen delle televisioni pubbliche e private, ma persino delle critiche dello stesso Berlusconi e della rivista del suo consigliere culturale Dell’Utri, sia pure in nome di uno spirito di preservazione della tradizione espressiva locale e nazionale, ambiguamente contraddittorio con l’altrove decantato liberismo economico nell’uso immobiliare della città .
Il diffondersi dell’insoddisfazione e della vera e propria protesta popolare di fronte agli esiti delle prime trasformazioni in corso d’attuazione a Milano (ex Fiera, Isola, Garibaldi-Repubblica) e le preoccupazioni per l’annunciato riproporsi di quel metodo sulle ancor più vaste aree (ex scali ferroviari in dismissione: Farini-Romana-,Vittoria-Greco-S. Cristoforo; Expo 2015, ex caserme, aree a margine dei grandi Parchi urbani: Parco Sud, Parco Groane; ecc.) sono in parte stati alla base del rifiuto ad avallare la scelta del PD verso la candidatura di Boeri ed è forse l’argomento più palese per pretendere che anche tra i fautori di quanto sinora attuato si avvii una riflessione sulla necessità di mutare radicalmente il modo di affrontare un tema di portata così vasta e collettiva.
Senza voler rinfocolare le polemiche in corso su quelle due aree e sui motivi del trattamento di favore loro riservato, è tuttavia evidente che esso non potrà essere riproposto sull’intera estensione delle aree degli scali ferroviari in dismissione (1.340.000 mq, più di cinque volte l’area dell’ex Fiera!), né su quello delle aree destinate ad Expò per sei-sette mesi nel 2015 (circa 1 milione di mq) senza mettere in discussione la sostenibilità ambientale dell’assetto insediativo.
Occasione per dare impulso ad un disegno complessivo e largamente condiviso di sostenibilità insediativa nel lungo periodo (imposto anche dalla direttiva europea sulla Valutazione Ambientale Strategica) o ennesimo cedimento al pervasivo diffondersi di una cultura amministrativa e progettuale dell’occasionalità, improntata più al carattere della riconoscibilità del marchio aziendale o del logo pubblicitario, che non a quello dei caratteri insediativi e culturali del contesto urbano, mutuata dall’ambito mass-mediatico, più affine al mondo della novità effimera della moda e del design che non ai fenomeni di lunga durata della conformazione urbana e assunta acriticamente da pubblici amministratori inclini (tanto a destra, quanto a sinistra) alla politica-spettacolo ?
In particolare nel caso milanese, se non si vuole ridurre la discussione sulla morfologia urbana che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore o uomo politico, di questo o di quell’architetto di grido (come già avvenuto non senza contrasti anche trasversali agli schieramenti politici nel caso dell’ex Fiera e di Garibaldi-Repubblica), occorre, che il potenziale espresso dal riuso di quelle aree si indirizzi fuori da quell’effimera temperie di iniziative progettuali che producono una frammentata congerie edifici dalle variegate figure organiche sparse quasi non noncuranza, al limite della casualità dell’objet trouvé, in un pot pourri che vorrebbe alla fine dare soddisfazione a tutti i palati, sia nel campo delle aspettative di commesse professionali che in quello della pubblica opinione. Una rassicurante miscela tra l’effimera inusualità formale e un’aura di internazionalismo mondano che evoca il clima di compiaciuta autocelebrazione della “Milano da bere” poco prima del suo tracollo in Tangentopoli.
Il PGT di Milano:
Un consumo di suolo
quadruplo che in Germania
Molti articoli di stampa hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che il Piano di Governo del Territorio (PGT) in corso di approvazione a Milano in base alla Legge regionale del 2005 ne segnerà il destino urbanistico per i prossimi venti-trent’anni (ma, per vero, del tutto analogamente in quasi tutti i comuni dell’hinterland, compresi quelli tuttora amministrati dal centro-sinistra, come Sesto San Giovanni e Cinisello a nord o San Giuliano a sud): i giornali non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e assai probabilmente illegittima, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni del PGT di Milano cesseranno di avere effetto verso il 2016, giusto all’indomani del mitizzato evento di Expo.
Ciò nonostante le quantità edificatorie messe in gioco corrispondono effettivamente ad un ritmo di crescita che è dell’ordine di tre-quattro volte quello ritenuto sostenibile da realtà socio-economiche ben più solide e strutturate di quella italiana, anche se per qualche verso comparabili con quella lombarda, come quella della Repubblica Federale Tedesca, la quale ha imposto alle proprie amministrazioni locali previsioni urbanizzative con un consumo massimo di suolo di 1,34 mq/abitante/anno (cioè 30 ettari l’anno per l’intera RFT). Se applicassimo quel parametro alla situazione milanese, il PGT dovrebbe consentire la nuova urbanizzazione di 8-9 milioni di mq, mentre ne prevede invece quasi 32 milioni di metri quadri. Vale a dire, appunto, un consumo urbanizzativo di suolo che la Germania riterrebbe sostenibile in un orizzonte temporale di venti-venticinque anni.
Su quelle aree alla densità geografico-urbanizzativa attualmente in atto a Milano (comprendendo cioè il consumo di suolo per reti infrastrutturali e attrezzature generali), che è di oltre 90 mq/abitante e che, come constatiamo quotidianamente, produce una qualità di vita assai congestionata, si può stimare una nuova quantità edificatoria dai 10 ai 17 milioni di metri quadri di superficie lorda abitabile (intesa in senso lato, ossia comprendendovi sia le funzioni residenziali che terziarie), a seconda dell’indice di affollamento stimato (un abitante/utente ogni 30 o 50 mq abitabili). Gli stessi dati del PGT (in genere piuttosto propensi alla sottovalutazione) stimano una quantità abitabile di nuova realizzazione di 12-13,5 milioni di metri quadri.
E’ assai interessante rilevare, inoltre, che l’ulteriore residua superficie di suolo ancora urbanizzabile dopo quella messa in gioco dal PGT è di altri 8 milioni di metri quadri: cioè, dopo questo PGT ci resta nuovo suolo urbanizzabile solo per un altro PGT, ma se in fatto di consumo di suolo ci acconciamo a comportarci come la prudente Germania.
A queste quantità edificatorie vanno aggiunte le nuove edificazioni negli ambiti già urbanizzati che, come dimostrano alcune simulazioni recentemente illustrate all’Ordine degli Architetti di Milano, con densità edificatorie ammesse superiori ai 7 mc/mq, alcuni stimano possano produrre altri 12 milioni di metri quadri edificatori abitabili. E’ assai difficile credere che tutte queste quantità possano davvero realizzarsi nel prossimo quinquennio, anche in considerazione delle iniziative immobiliari già in atto e della difficile situazione economico-finanziaria.
I nostalgici del sovradimensionamento
scorazzano nella prateria delle iniziative immobiliari
In realtà ciò che il PGT prefigura è una vasta prateria di iniziative immobiliari nella quale la finanza possa scorrazzare acquisendo diritti edificatori virtuali (dei veri e propri futures speculativi, cui possono accedere solo banche e finanziarie che abbiano una dimensione economica in grado di attendere nel medio-lungo periodo la ripresa dei mercati, come dimostrano le recenti estromissioni degli immobiliaristi più tradizionali alla Zunino e Ligresti dalle più rilevanti iniziative immobiliari in corso), e che, con il meccanismo dei cosiddetti scambi perequativi, non si sa dove, come e quando si consolideranno in forme insediative.
Ma al Comune questo sembra non importare gran che: l’importante è far girare il business. In fondo è quello che già era accaduto con il sovradimensionamento dei PRG negli anni Cinquanta-Sessanta, e per alcuni la nostalgia sembra davvero irrefrenabile, se si è avuto il coraggio di rievocare, rivalutandolo, il cosiddetto “rito ambrosiano”, tempo addietro simbolo di pratiche consociative deteriori tra amministratori pubblici e interessi speculativi. Basti dire che per garantire l’attuale livello della rendita fondiaria (900-1.200 Euro/mq abitativo realizzabile) basterebbe un indice edificatorio di 0,40 mq/mq ad uso privato, mentre il PGT promuove senza alcuna contropartita usi edificatori privati di 0,65 mq/mq, cui si aggiungono le quantità edificatorie per l’edilizia sociale e per la premialità ambientale, sino a spingere la densità edificatoria a superare 1 mq/mq (di nuovo anche in questo aspetto del tutto indifferentemente tra amministrazioni di centro-destra o di centro-sinistra e nel capoluogo milanese o nei grandi comuni dell’hinterland).
Invertire questa tendenza sarebbe possibile proprio a partire dalla risorsa strategica rappresentata dalle grandi proprietà pubbliche istituzionali di aree destinate alle trasformazioni urbane (gli ex scali ferroviari, le ex caserme, ecc.), se il Comune, anziché incentivarne l’omologazione al comportamento degli speculatori immobiliari nella ricerca della massimizzazione delle rendite, subordinasse la sottoscrizione degli accordi di programma con queste proprietà all’impegno da parte loro ad attuare un meccanismo di alienazione dei propri patrimoni fondiari con il criterio del ribasso sulla quota di edificazione privata e conseguentemente con la crescita della quota di edilizia sociale, ferma restandone l’edificabilità totale ammessa. In tal modo si potrebbe sia stabilizzarne il livello della rendita fondiaria attorno ai valori attuali sia massimizzarne l’utilità sociale.
Purtroppo è esattamente il contrario di ciò che i Comuni amano fare quando sono condizionati dal dover far fronte a necessità immediate cui non sono più in grado di rispondere con le ordinarie risorse di bilancio: si accetta l’omologazione del comportamento di queste proprietà istituzionali a quello degli immobiliaristi, alla sola condizione che le rendite fondiarie vengano totalmente o parzialmente reinvestite in ambito locale, non importa se in un orizzonte di investimenti infrastrutturali di lungo periodo o, come per lo più accade, anche solo in modo congiunturale. In questo modo si finisce per incentivarne lo sviamento di comportamento persino quando si tratta di enti, quali FS, che per compito istituzionale e funzionalità aziendale dovrebbero indirizzare prioritariamente i propri investimenti a sostenere gli obiettivi di riequilibrio territoriale di area vasta e di lungo periodo. I proventi derivanti dalla rendita fondiaria delle trasformazioni urbane più rilevanti, anche se milanesi, dovrebbero infatti essere indirizzati prioritariamente al finanziamento dei collegamenti infrastrutturali a livello regionale, interregionale e internazionale, quali le tratte italiane di collegamento su ferro da Milano al progetto svizzero AlpTransit/NTFA, via traforo del San Gottardo, o, a livello interregionale, la Gronda ferroviaria Novara-Malpensa-Seregno-Verdello-Orio al Serio. Gli investimenti sul nodo ferroviario di Milano verrebbero così indirizzati a sistema con i centri di interscambio delle merci e le nuove polarità intermedie dell’area padana, anziché finire per surrogare le carenze di investimento dei bilanci municipali, provinciali e regionali nel far fronte ai costi dei movimenti pendolari sul capoluogo milanese, il cui ruolo di dominanza finisce per esserne confermato ed anzi esaltato.
D’altra parte, anche rimanendo in ambito municipale, l’assoluta illogicità urbanistica di attribuire gli indici edificatori in base alle crescenti aspettative di rendita delle proprietà fondiarie nel medio-lungo periodo (e che come si è detto potranno essere incamerate solo da grandi investitori finanziari) si evidenzia nel fatto che con l’indice di edificabilità territoriale di 1 mq/mq non solo nei singoli piani attuativi non è possibile realizzare le aree pubbliche per 17,5 mq/abitante di parchi pubblici e grandi servizi prescritti dalla legislazione nazionale , ma persino i servizi propri di quartiere sono inferiori al minimo di 18 mq/abitanti sempre fissati dalla legislazione nazionale nel mitico 1968 e mai abrogata.
La legge urbanistica della Lombardia:
un regressivo protofederalismo urbanistico
La legge regionale lombarda del 2005, in una sorta di empito anticipatorio di un regressivo protofederalismo in campo urbanistico , proclama che con l’approvazione dei nuovi strumenti urbanistici quinquennali inventati in Lombardia (i PGT) si disapplicherà l’odiato Decreto ministeriale del 1968. Tuttavia, ogni qual volta i cittadini hanno l’accortezza e la forza di impugnarli di fronte ai Tribunali Amministrativi, le sentenze ribadiscono che questo non è assolutamente legittimo, in assenza di un quadro di sostenibilità dell’assetto insediativo finale cui essi metteranno capo.
Per confondere le acque il Comune di Milano va sbandierando il fatto che nei PII ai privati si chiede la cessione ad uso pubblico del 50% delle aree di intervento, e tende surrettiziamente a presentare questa richiesta (in realtà del tutto immotivata dal punto di vista logico) come una sorta di equispartizione mezzadrile tra interesse pubblico e privato, mentre è possibile dimostrare che anche solo per garantire le dotazioni pubbliche minime di quartiere e quelle per parchi e servizi territoriali generali (da 35,5 a 44 mq/abitante, a seconda che quelle di quartiere siano le minime del 1968 o quelle maggiorate dalle regioni), persino con l’indice 0,65 mq/mq occorre oltre il 67% dell’area da destinare ad uso pubblico. Come ho già detto, con l’indice di 1 mq/mq è, invece, addirittura fisicamente impossibile realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e contemporaneamente farci stare gli edifici se la maggior parte delle aree pubbliche non viene monetizzata e non si aggirano i vincoli di altezza e distanza tra gli edifici privati.
E’ questo, infatti, l’altro vincolo che con la disapplicazione da parte della legge regionale lombarda del Decreto ministeriale del 1968 ci si propone di aggirare, poiché con densità edificatorie così elevate è spesso comunque fisicamente difficile farci stare tutte le volumetrie se non facendole salire molto in altezza e accostando molto gli edifici tra loro. Il Decreto ministeriale, invece, pur con la macchinosa rigidità di meccanismo normativo che talvolta gli è stato rimproverato, impone un obbligo di semplice ma grande sensatezza: se si interviene con un piano urbanistico attuativo che realizza tutti gli spazi pubblici richiesti, il progetto può liberamente proporre altezze e distanze degli edifici secondo un proprio autonomo criterio insediativo; se invece le densità sono talmente elevate da non consentire di realizzare tutti gli spazi pubblici richiesti e occorre monetizzarne una parte rilevante (e quindi il progetto urbanistico non è autonormato, ma si impianta sulle condizione urbane contestuali) il decreto impone, oltre a limiti massimi di densità fondiaria, che gli edifici rispettino le altezze massime degli edifici preesistenti e circostanti ed abbiano distanze pari almeno alla propria altezza.
Un obbligo odioso ed intollerabile per le fantasie da archistar cui fanno ricorso i promotori immobiliar-finanziari del Rinascimento Urbano, ma che rischia soprattutto di mandare in fumo tutte le lucrose architetture finanziarie che si celano dietro l’incremento degli indici edificatori. Un obbligo che, ovviamente, è invece visto come l’ultima ancora di salvezza da parte dei cittadini che si trovano malauguratamente a vivere letteralmente all’ombra di quei mastodonti che la deregulation normativa consentirebbe; ad esempio, nel progetto Citylife (Ras, Generali, Deutsche Bank, Ligresti) sull’area dimessa dalla vecchia Fiera – indice edificatorio 1,15 mq/mq, 50% di area pubblica - gli edifici sul margine sono alti tre volte quelli circostanti e le tre torri centrali (alte il doppio dei grattacieli più alti della città, simbolicamente rappresentati dal mitico Pirelli degli anni Sessanta, ora sede del Consiglio regionale e dal nuovo Palazzo del Governatore recentemente voluto da Formigoni) in inverno oscureranno molti edifici circostanti per l’intera giornata.
Per l’assessore all’urbanistica del Comune di Milano, il CL Masseroli, tuttavia, tutto questo non è un problema (soprattutto nel caso dell’area dell’ex Fiera perché il venditore dell’area, che ha realizzato il doppio della base d’asta proposta, era Fondazione Fiera, sino a poco tempo fa completamente egemonizzata da CL a partire dal Presidente Roth e giù per li rami di Fiera Congressi, Fiera Esposizioni dai vari Lupi, Intiglietta e Compagnia delle Opere cantante), perché, come spiega l’assessore, se gli edifici crescono in altezza, attorno rimane comunque dello spazio libero. Che il peso insediativo e addirittura l’ingombro fisico sia abnorme non lo preoccupa affatto: è come se ci spiegasse che la sera nelle discoteche alla moda della “Milano da bere” può non esserci alcun limite alla quantità di alcolici che si può ingerire, purché la si beva in bicchieri alti e stretti!
Il problema, come ho spiegato, è che non si vuol intaccare la possibilità di attribuire ai privati l’intera densità edificatoria di 0,65 mq/mq, che è la massima ragionevolmente ammissibile per ottenere un insediamento urbanisticamente ed ambientalmente sostenibile, devolvendola invece interamente all’accresciuta aspettativa della rendita immobiliar-finanziaria, salvo poi dovere e volere incrementare ulteriormente l’edificabilità totale per riconoscere delle premialità all’accresciuta sensibilità verso il risparmio energetico degli edifici o far fronte alle esigenze di housing sociale, su cui si appuntano gli appetiti delle sussidiarietà dei più svariati orientamenti politico-sociali. Chi ne fa le spese è il carico insediativo sul territorio, i cui effetti negativi si misurano solo su un orizzonte temporale di lungo periodo, cui la politica amministrativa degli enti locali non è interessata né dal punto di vista degli interlocutori né da quello dei risultati.
Tuttavia tutti questi provvedimenti dal punto di vista della conquista di un consenso di massa hanno avuto il limite di tornare utili quasi esclusivamente alle aspettative delle grandi e medie proprietà fondiarie, quali quelle delle aree dimesse e dei PII. Questo avviene nonostante la Regione Lombardia abbia da tempo provveduto a introdurre la possibilità di trasformare ad uso abitativo e in deroga agli indici edificatori prescritti dagli strumenti urbanistici non solo i sottotetti degli edifici già esistenti da tempo, ma anche quelli degli edifici di nuova progettazione (anche se per questi ultimi, un po farisaicamente e al fine di evitare il rischio di impugnazione per mancato rispetto degli indici edificatori che vengono violati, solo dopo un periodo di “invecchiamento” di cinque anni dalla avvenuta realizzazione dell’immobile cui appartengono.
Molte sono state le proteste degli ambienti più sensibili alla qualità storico-estetica dell’immagine urbana per le aberranti e invadenti incombenze visive delle sopraelevazioni che sono andate dilagando per l’intera città. Sta di fatto che questa liberalizzazione è stata diffusamente applicata per la trasformazione d’uso dei sottotetti condominiali, ma ben poco nelle piccole e piccolissime proprietà delle casette mono-bifamiliari dell’hinterland, sia nella versione spartana delle “coree” degli Anni Cinquanta sia in quella più agiata degli Anni Sessanta-Settanta del “boom” economico.
Su questo aspetto sono, quindi, intervenute più di recente le disposizioni recepite dal cosiddetto “Piano Casa” che consentono incrementi volumetrici da 300 a 600 metri cubi per gli edifici mono e bifamiliari e sino a 1000 metri cubi per quelli plurifamiliari (in pratica da uno a tre nuovi alloggi in più) e sino al 40% in più (senza limiti volumetrici complessivi e anche con la costruzione di nuovi edifici) per gli insediamenti di edilizia economica popolare. Anche nei centri storici (e salvo il parere discrezionale di una commissione ad hoc), la demolizione e ricostruzione di edifici di più recente costruzione verrebbe premiata con un incremento volumetrico del 30%, a fronte dell’utilizzo di tecniche costruttive a risparmio energetico, che tuttavia non farebbero che aggravarne la dissonanza dal contesto insediativo.
Ciò che si vuol dar ad intendere alla piccola e piccolissima proprietà è che anche loro (nel loro piccolo, s’intende!) e nonostante il degrado urbano in cui vivranno, potranno godere dei vantaggi individuali di cui hanno sinora goduto i grandi interventi mossi dai PII in spregio a qualunque criterio di logica insediativa, ma solo di valorizzazione fondiaria; e, tuttavia, con edifici di assoluta impermeabilità non solo alla dispersione energetica, ma anche all’interazione col contesto urbano. Una vera capsula di sopravvivenza individuale, in qualche modo riproposizione aggiornata all’emergenza socio-ambientale del mito del rifugio antiatomico degli anni Cinquanta-Sessanta! E’ quel che accade nei vari PII Citylife, Porta Nuova, Santa Giulia a Milano, ma anche all’ex Falck di Sesto San Giovanni, che ha un’amministrazione PD-PRC!
E’ necessario, invece, che si confermi il ruolo di indirizzo pubblico promosso dall’ente comunale, non più succube di progetti che celano dietro l’effimera novità di immagine, la più torva predominanza della rendita fondiaria elevata a sistema dominante, vera stella polare dell’azione dell’attuale amministrazione comunale.
Una perequazione non liberistica,
ma progettualmente e socialmente orientata
Ciò è possibile spalmando le aspettative di rendita immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, usandone i meccanismi perequativi non nel senso di un indistinto liberismo insediativo, come va pontificando l’assessore all’urbanistica Masseroli , ma proprio per riservare alcune aree a funzioni pubbliche di indirizzo strategico.
Occorre, quindi, riprendere una consolidata tradizione progettuale dell’urbanistica progressista imprimendo un deciso orientamento pubblico ai progetti lungo la direttrice di Nord-Ovest da quelle destinate ad EXPO, a Nuova Bovisa, all’ ex Scalo Farini e, per quanto ancora possibile, all’ex Fiera-Citylife e Garibaldi-Repubblica, su cui incombono così numerose, eterogenee ed estemporanee aspettative immobiliari, spesso veicolate da altrettali iniziative progettuali.
Soprattutto sulle aree di Expo è necessario fondare un centro di attività pubbliche permanenti tese all’indirizzo dell’uso appropriato delle risorse agricolo-alimentari, spalmando le aspettative di riuso immobiliare della proprietà sull’ampia platea di aree messe in campo dal PGT in corso, coi meccanismi perequativi tanto cari all’assessore all’urbanistica di Milano, il CL Masseroli. Si darebbe così finalmente seguito concreto alla forse unica ma essenziale, indicazione strategica nella relazione redatta nel 2000 dal prof. Mazza, come premessa al Documento di Indirizzo Urbanistico (D.I.U.) dei Programmi Integrati di Intervento (PII) introdotti dalla legge del 1992: “Un intervento nel settore nord-ovest avrebbe un rilievo strutturale sulla forma della regione urbana…La dimensione dell’area deve essere tale da permettere l’insediamento di uffici e servizi con superfici monopiano a luce diretta ed insieme una parte rilevante di verde e spazi e attrezzature per il tempo libero e sportive. Costruire uno spazio urbano capace di fare concorrenza all’attrattività dei centri storici per qualità monumentale e ambientale. Un’ambizione che dopo tanti disastri dell’urbanistica e dell’architettura moderna può far sorridere, ma è una condizione indispensabile per il successo del progetto.” .
Avrà presente Pisapia tutto ciò (ha parlato poco di urbanistica e ambiente durante la campagna elettorale delle primarie, e più di lui l’hanno fatto Sacerdoti e Onida, sia pure in termini un po’ generici di partecipazione e attenzione all’ambiente e allo svantaggio sociale) ? E soprattutto saprà resistere alle sirene neo-liberiste intonate dalle forze centriste (Tabacci in primis, coi suoi occhi dolci ai vari Albertini, Profumo & Co.) e dallo stesso PD, come condizione per confermargli l’appoggio? Non finirà che a un candidato sindaco particolarmente connotato a sinistra si pretenderà di affiancare una squadra che lo controbilanci in senso moderato, soprattutto in campo edilizio-immobiliare?
Solo dopo aver sciolto questi dubbi, i fumi che avvolgono l’ebbrezza dell’inattesa vittoria potrebbero lasciar intravedere un’alba nuova anche per l’urbanistica milanese!
Tre paradossi, secondo Salvatore Settis, gravano sul paesaggio italiano e sul suo futuro. L´Italia è il paese con un tasso di crescita demografica bassissimo (quel poco che c´è è dovuto prevalentemente agli immigrati), eppure è da noi che il cemento consuma più suolo in Europa. Solo in Italia la protezione del paesaggio è scritta nella Costituzione ed è in Italia che vigono le migliori leggi di tutela: eppure il nostro è il paese più infettato dall´abusivismo edilizio e da quel sistema di deroga costante che autorizza legalmente di costruire in modo selvaggio. Ultimo paradosso: vantiamo una letteratura sterminata sul paesaggio (giuridica, amministrativa, storica, filosofica…), eppure nella scuola italiana non c´è verso di sentir pronunciare quella parola.
Storico dell´arte, archeologo, direttore prima del Getty Research Institute di Los Angeles, poi, fino a quest´anno, della Normale di Pisa, titolare della Cátedra del Prado, Settis sta per mandare in libreria Paesaggio, Costituzione, Cemento. La battaglia per l´ambiente contro il degrado civile (Einaudi, pagg. 326, euro 19). Il libro fa capire quale profilo ormai affianchi quello del Settis studioso e docente: l´essere diventato fra i più affidabili riferimenti di quel vasto schieramento che in Italia fronteggia aggressioni e insensatezze a danno del paesaggio. E questo saggio raccoglie riflessioni culturali e civili, cifre, scenari economici, storie e una ricca documentazione di fonti legislative e amministrative che consentono a chi si batte per evitare un sopruso di avere uno strumento in più.
Settis, gli italiani non crescono, ma le case sì. Perché?
«Al fondo anche delle più sfacciate operazioni speculative io ci leggo una cultura arcaica, la memoria di una povertà ancestrale: persino nelle zone più ricche del paese quel che conta è la rendita fondiaria che blocca capitali e non produce ricchezza».
Il culto del mattone?
«L´idea che il modo migliore per investire un capitale sia di tradurlo in immobile. Che poi questo venga utilizzato o venduto è secondario. È un carattere che accompagna la nostra economia da decenni, comprensibile, forse, in un cittadino comune, meno in Giulio Tremonti».
Che però non è il ministro addetto al cemento.
«È lui ad aver varato nel 2001 la norma che detassa il reddito d´impresa se si investe in capannoni industriali: si spiega così, e con qualche trucco aggiuntivo, perché le province di Treviso, Padova, Vicenza e Venezia – ma anche altre in tutta Italia – siano disseminate di stabilimenti vuoti che sfigurano il paesaggio pedemontano veneto già massacrato quando la crescita economica di quelle aree era impetuosa e quando incalzava il cosiddetto sprawl urbano, la dispersione abitativa».
Ecco il paradosso: mattone senza crescita.
«Un altro potente fattore di devastazione è stata l´abrogazione di quella parte della legge Bucalossi del 1977 che imponeva a chi costruiva di contribuire ai costi che il Comune avrebbe sopportato per gli allacci di luce, gas, acqua, per le strade, le fogne. Dal 2001, ultimi giorni del governo Amato, quei soldi che il privato paga finiscono nel bilancio del Comune che li usa come crede».
E qual è stata la conseguenza?
«Che i Comuni, strozzati dal calo dei finanziamenti statali e poi dall´abolizione dell´Ici, sono stati spinti a fare cassa concedendo quante più licenze edilizie possibili. Hanno venduto suolo senza altra logica che quella di tenere in piedi i bilanci. E sono incentivati a continuare. Poi ci si mettono i condoni, il cosiddetto "piano casa"…».
Lei raccoglie tantissimi dati sul consumo di suolo.
«Le informazioni non mancano. Talvolta sono parziali. L´Istat ha accertato che dal 1995 al 2006 sono stati rilasciati permessi per 3,1 miliardi di metri cubi. E con questi dati l´urbanista Paolo Berdini ha calcolato che si è costruito su 750 mila ettari di suolo, una superficie grande quanto l´Umbria. Ma a queste cifre vanno aggiunti i numeri dell´abusivismo».
Sotto questa marea di case, strade e stabilimenti annega parte consistente del paesaggio italiano. Che cosa replica a chi sostiene che non si possa guardare al paesaggio come a un bene immutabile, dato una volta per sempre?
«Che è verissimo. Il paesaggio cambia continuamente. Gli alberi di un bosco crescono e poi vengono potati. Tutte le leggi, da quella di Benedetto Croce degli anni Venti del Novecento al Codice varato nel 2004 considerano il paesaggio come un prodotto storico, culturale, cui cooperano natura e uomo».
Però?
«Però bisogna fare attenzione a quanto di capzioso può nascondere chi si scaglia contro una presunta ibernazione del paesaggio. Le modifiche che si possono apportare devono essere controllate e devono rispondere a una logica che i paesaggi contengono dentro di sé e che va interpretata. Il paesaggio non va protetto perché estetizzato, ma perché è portatore di valori civili, garante della vita associata. È il filo che lega esperienze sociali, delle classi ricche e colte e delle persone umili, a cominciare dai contadini».
Quando è saltato questo codice condiviso?
«Dagli anni Cinquanta in poi. Il fenomeno ha assunto aspetti antropologici ed è poi diventato impetuoso negli ultimi decenni. Almeno all´inizio è prevalsa la combinazione di diversi fattori: la crescita demografica e del reddito, la voglia di rinascita dopo la guerra, il calo delle professionalità e dei controlli pubblici, nuove tecnologie edilizie e l´irrompere sulla scena macroeconomica del settore immobiliare».
E venendo ad anni a noi più prossimi?
«È saltato l´equilibrio città-campagna. La campagna è invasa dalla città, ma non è diventata città e non è più campagna. Si è posto il mercato al di sopra di ogni altro valore e lo spazio sociale, che era carico di senso, è stato travolto dal meccanismo consumistico di una violenta rottamazione, è diventato esso stesso una merce, vale non perché possiamo viverlo, ma solo in quanto può essere occupato, prezzato, cannibalizzato».
"Sa indignarsi solo chi è capace di speranza", lei scrive citando Seneca. Qualcosa sta cambiando?
«Il degrado di cui parliamo è parte di un degrado che investe le regole del vivere comune. E l´opposizione cresce. Ovunque sorgono comitati di cittadini, che scavalcano la mediazione dei partiti, attivano forme di rappresentanza nuove, acquistano competenze, manifestano, vanno al Tar e vincono. Si muovono con passione e abilità politica. Il paesaggio rappresenta una cartina di tornasole, un test per intendere come il cittadino vive se stesso in rapporto all´ambiente e alla comunità che lo circondano».
UN PASSO AVANTI
di Valentino Parlato
Questo governo si può battere. Ieri il grande movimento di giovani e studenti (sembra ai più vecchi di rivivere il '68, ma i ragazzi, i ricercatori, la condizione precaria di oggi sono un'altra cosa) ha ottenuto una straordinaria vittoria. Il voto al senato sulla legge Gelmini, che il ministro chiedeva di svolgere subito, è invece stato rinviato a dopo il voto di fiducia fissato per il 14 dicembre. Questo governo, arrogante e prepotente, non se l'è sentita di andare al voto di fiducia, in scontro frontale con il movimento.
E che lo scontro non fosse da poco, e pericoloso per il governo, lo aveva capito anche il Corsera, quando il giorno del voto alla camera aveva titolato in prima pagina «Sì alla riforma tra proteste e scontri». Le proteste e gli scontri hanno pesato sul clima generale e consigliato il governo a cambiare l'agenda facendo un passo indietro.
Naturalmente se avrà la fiducia tornerà all'attacco e il senato approverà la controriforma Gelmini, questo è sicuro, ma dovrà pensare ai guai suoi. Intanto già una mozione di sfiducia è stata presentata da parte di Fini, Casini, Rutelli e anche dal partito siciliano di Raffaele Lombardo. Un atto politico di rottura, seguito dalla richiesta al presidente del consiglio si farsi da parte senza attendere il voto dell'aula.
Certo la situazione generale non è buona, mi viene da ripetere una frase scritta sulla copertina del più recente libro di Marco Revelli: «La nostra presunta modernizzazione è un piano inclinato verso la fragilità e l'arretratezza».
I giovani hanno preso coscienza di questo piano inclinato, nel quale anche lo spazio per i favori e le raccomandazioni è sempre più ristretto e sempre più costoso in termini di dignità e rispetto di sé.
C'è la ribellione, sui tetti e nelle piazze, ma soprattutto c'è la coscienza che così non si può andare avanti, che bisogna cambiare e si può cambiare. In questo scontro decisivo il nostro-vostro manifesto è da tempo in prima linea. Questo dicono i nostri editoriali dei giorni scorsi. Questa possibile svolta, lo ripetiamo, ha la data del 16 ottobre, la grande, e piena di contenuti culturali e politici, manifestazione della Fiom, degli operai che muovono l'industria italiana.
Insomma «ci sono - come ha scritto ieri Campetti - braccia e teste per scrivere un'altra storia». E a testimonianza di questa emergente realtà per il 14 dicembre, quando al parlamento, si voterà per tentare di mandare a casa (in quali delle sue tante residenze?) Silvio Berlusconi, piazza del Parlamento sarà invasa da una massa di giovani, studenti, lavoratori, precari e disoccupati che peseranno assai più dei Fini e dei Casini.
Il 14 dicembre, se ci impegnamo nelle scuole, tra i giovani, nei luoghi di lavoro può essere una giornata di vera svolta e una svolta di popolo. Impegnamoci. I prossimi dieci giorni sono di straordinaria importanza.
WALTER TOCCI - Il ddl? Un monstre burocratico
«Il Pd si è mosso tardi, ma segna una vittoria»
intervista di Daniela Preziosi
«Intanto lasciatemi dire che quella del senato è una bella vittoria. Abbiamo, per ora, fermato la legge Gelmini. Merito di un grande movimento di studenti, ricercatori e professori che, e questo è finalmente un bel fatto nuovo, si è dato la mano con l'opposizione parlamentare. E stavolta il Pd ha dispiegato tutta la sua forza di opposizione, dai gruppi parlamentari ai leader, Franceschini e Bersani alla Camera, Finocchiaro al Senato». Walter Tocci, deputato democratico, già vicesindaco di Roma e oggi direttore del Centro riforma dello stato, è stato fra quelli che, alla Camera, hanno condotto la battaglia contro la Gelmini. Che ieri è stata fermata, per ora, al Senato.
La battaglia in parlamento è stata serrata. Eppure il Pd non si è mobilitato dall'inizio. Vi siete accorti in ritardo dei guasti della riforma?
Forse qualcuno, sia nel mondo dell'accademia che in quello della politica, all'inizio ha sottovalutato l'intenzione distruttiva della manovra governativa. Se invece debbo fare una riflessione più generale, posso dire che questa legge proviene da una mentalità dominante, e sbagliata, che negli scorsi anni ha coinvolto anche la sinistra. Si è legiferato ogni anno sull'università, raggiungendo un apparato che sfiora le 1500 leggi in vigore. Ora quest'ultima porta all'esasperazione il modello burocratico dell'università. Altre 170 norme, che diventeranno più di 500 con le deleghe e richiederanno mille regolamenti attuativi.
È la meritocrazia, dice la ministra. E chi va in piazza difende i baroni.
Bugie e propaganda. È ampio il consenso fra le burocrazie accademiche. A protestare sono invece ricercatori che non hanno gestito concorsi, né creato nuove sedi, né amministrato i bilanci. Questa legge non suscita competizione né promuove sperimentazioni. Il ministro ha bloccato le attività di valutazione: non basteranno tre anni per mettere in funzione l'agenzia nazionale (Anvur, ndr), e non si capisce perché nelle more non viene mantenuto il vecchio comitato (Civr, ndr). Anzi, si capisce: perché la meritocrazia delle chiacchiere non scontenta nessuno. Infatti i principali sostenitori del ddl sono le burocrazie accademiche che fin qui hanno gestito l'università e adesso vedono la possibilità di continuare a farlo.
Uno dei punti cardine della propaganda di Gelmini è l'ingresso dei privati nei cda degli atenei.
E questa o è una una banalità o è un pericolo. Dipende da chi li nomina, ma guarda caso, nella legge non si dice. Se la nomina è interna, serve solo a rafforzare il potere del rettore. Se è esterna, il rischio è forte. Anche negli anni 70 per ridimensionare l'autoreferenzialità della classe medica si inventarono le Asl. La peggiore università e la peggiore politica sono due energie che vanno subito in risonanza e tendono a esaltarsi a vicenda.
A proposito, arrivano i regali di Natale per i diplomifici amici del premier.
C'è una bozza di decreto inviata dal ministro alla Crui. Una disposizione grave, che consentirebbe al Cepu di entrare nel sistema pubblico, tramite la trasformazione della sua telematica E-Campus in università non statale autorizzata a svolgere didattica anche frontale. Insomma il Cepu assume lo stesso rango della Bocconi, della Cattolica o della Luiss. Abbiamo chiesto in ogni modo un impegno a ritirare la bozza. Non è arrivato. Sono i saldi di fine stagione di un governo che sa di essere agli sgoccioli. Fra l'altro, per puro intento speculativo, la Lum ha sede in un supermercato di Bari. C'è un altro aspetto molto grave, su cui alcuni rettori che ora chiedono l'immediato voto al senato, dovrebbero riflettere meglio. C'è un comma finale che in sostanza introduce il commissariamento del ministro dell'Università che deve 'monitorare' e 'riferire' a quello dell'economia, che sposta i fondi a suo piacimento. Un testo così non si può chiamare neanche legge, è una doppia ordinanza di commissariamento: gli atenei sotto il controllo del ministero dell'Università e questo sotto il controllo dell'Economia. Nel secolo appena iniziato le università più innovative giocano le proprie carte nella dimensione internazionale e in quella territoriale, guardano sempre meno alla dimensione statale. Solo da noi si torna al centralismo burocratico.
Il ministro Tremonti ha giustificato la mancanza di investimenti sostenendo «che non si mangia il panino con la Divina Commedia».
Dieci anni fa profetizzava che la Cina ci avrebbe superato nella produzione di magliette e invece oggi la Cina investe in ricerca molto più dell'Europa. Il capo del governo poi si è chiesto 'perché dovremmo pagare gli scienziati se facciamo le più belle scarpe del mondo'. Se questo pensa chi ci governa, si capisce meglio perché si è fermata la crescita italiana. Anche nel settore delle belle scarpe, fra l'altro. Da venti anni sono in corso formidabili rivoluzioni conoscitive e tecnologiche nella scienza della vita. L'Italia non ha strategia. Il paese rischia di mancare la transizione dalla società industriale a quella della conoscenza e di uscirne più povero di saperi. Non è stato sempre così. Nel miracolo economico i nostri padri seppero giocare da protagonisti nel passaggio alla società industriale e colsero formidabili successi: la plastica di Natta, il primo grande computer prima degli americani, il primo satellite spaziale europeo, la scuola di fisica di livello mondiale, e poi cinema e letteratura. Tutto ciò in un paese quasi analfabeta e distrutto da una guerra. Oggi non riusciamo a fare un balzo in avanti della stessa portata? Nei nostri atenei ci sono scienziati che nonostante le difficoltà tengono il passo. Nei laboratori europei e americani ci sono colonie di italiani che primeggiano. E anche nei nostri dipartimenti ci sono giovani che ottengono il riconoscimento dalle comunità scientifiche internazionali, ma non dal nostro sistema amministrativo. Sono i ricercatori saliti sui tetti delle loro università. Il governo li ha dipinti come dei mangiapane a tradimento. E poi ha tentato di blandirli con qualche concessione corporativa.
Il Pdl vuole il sì finale entro l'anno. Alcuni rettori, insieme alla ministra, sostengono che in caso contrario ci sarebbe la paralisi degli atenei. Bloccati i posti da ricercatore, gli scatti di stipendio, i nuovi concorsi.
È tutto il contrario. Una volta approvata, la legge richiede moltissimi regolamenti governativi, e se il governo non c'è, allora sì che ci sarebbe la paralisi. Finché invece non sarà approvata, vige la vecchia legge. I provvedimenti urgenti, nel caso, potranno essere inseriti in un milleproroghe di fine anno, e lo può fare anche un esecutivo dimissionario. Se ci sarà un nuovo governo proporremmo di ritirare il testo, per discutere un provvedimento sobrio con pochi punti davvero prioritari: valutazione, finanziamento, accesso dei giovani e diritto allo studio.
La prima pagina del New York Times del 1° dicembre portava la stessa fotografia della prima pagina di Repubblica: quella che riprende lo scontro tra gli studenti di Bologna e la polizia. la foto a colori lascia intravedere del sangue sullo scudo di un poliziotto. Segno di una tensione non epidermica. In diversi Paesi europei questi mesi autunnali sono stati segnati da proteste e manifestazioni che hanno visto come protagonisti gli studenti. In Francia come in Grecia o in Spagna e in Inghilterra. L´Italia segue a ruota. In tutti i casi l´elemento centrale dei movimenti è stata la denuncia di riforme che minano alla radice il futuro vicino e remoto dei giovani. Lo minano in due sensi: perché mettono in discussione l´eguale opportunità di avere una formazione qualificata, riducendo con ciò le possibilità dei giovani di competere per un´occupazione che non sia un lavoro quale che sia per un misero salario; e perché mettono a repentaglio la solidarietà intergenerazionale (cosa che è già iniziata nel nostro Paese) con proposte di riforma della previdenza che penalizzeranno coloro che ne dovranno usufruire in futuro.
Queste politiche sono evidentemente indirizzate a colpire i giovani; ma, ed è importante osservarlo, non tutti allo stesso modo. Penalizzano la generalità dei giovani perché intaccano il sistema delle eguali opportunità e quello della solidarietà; una penalizzazione selettiva, dunque, e che crea le condizioni per una trasformazione in senso meno democratico della società di domani. Coloro che oggi riusciranno ad acquisire una migliore formazione saranno più avvantaggiati domani e quindi anche in minor bisogno di una previdenza pubblica. Sono allora due i piani dei tagli: da un lato smantellano lo stato sociale, dall´altro intaccano radicalmente le eguali opportunità. Circa il primo dei due piani, pare evidente che esso comincia in quei settori della società nei quali è più necessario l´impegno pubblico: per coloro che devono prepararsi alla vita e per coloro che non sono più nel ciclo produttivo. La difesa del legame giovani/anziani (che un´astuta regia cerca di recidere con l´argomento del "largo ai giovani") è quindi cruciale. In Francia più che altrove gli studenti hanno dimostrato di comprendere la portata di questo legame aderendo in massa alle proteste contro la riforma delle pensioni.
L´altro piano dei tagli ha preso di mira un esito più direttamente antidemocratico: la riduzione delle eguali opportunità. E veniamo così alle disastrose politiche scolastiche che i governi, soprattutto quelli conservatori, stanno intraprendendo con più o meno accanimento e radicalità un po´ dovunque - ma l´Italia e la Gran Bretagna sono all´avanguardia. Nella migliore tradizione inglese, gli studenti della più prestigiosa università europea, Cambridge, stanno facendo circolare una petizione fra docenti e studenti di tutto il mondo per chiedere sostegno alla loro denuncia del provvedimento con il quale il governo inglese ha deciso aumenti ragguardevoli delle tasse di iscrizione e un taglio altrettanto ragguardevole dei finanziamenti alla formazione. Il gioco è ironico nella sua feroce ingiustizia: più soldi per iscriversi all´università con la prospettiva di ricevere meno servizi per la ricerca. Un´incongruenza che merita una petizione e che ha provocato anche molte manifestazioni in quasi tutte le università britanniche. Sono due le accuse mosse dagli studenti cantabrigensi. La prima (simile a quella che rivolgono gli studenti italiani al loro governo) è di voler privatizzare il sistema universitario e di servirsi proprio dei soldi degli studenti e delle loro famiglie per farlo! La seconda accusa è di avviare una trasformazione aziendalista dell´alta educazione (lo stesso sta succedendo da noi, come ha ben spiegato su questo giornale Carlo Galli), con la conseguenza di creare amministrazioni d´ateneo meno attente alle ragioni educative che a quelle di badget.
Un segno dei tempi in un´Europa sempre meno sicura di voler essere sociale. Un fatto che indica un mutamento molto esplicito di indirizzo generale poiché, come scrivono gli studenti di Cambridge, il governo persegue con sistematica determinazione una politica di diseguaglianza: rendendo l´accesso a questa grande università di élite regolato meno dal merito e più dalle possibilità economiche. La strada verso il privilegio è segnata. Sarebbe dunque miope pensare che le manifestazioni degli studenti siano un segno irrazionale di resistenza a riforme giuste perché fatte all´insegna della qualità e del rigore: a Cambridge non si può certo imputare di avere un sistema di reclutamento che incentiva baronie e genera sprechi senza produrre merito. Eppure a Cambridge come nelle università italiane la politica dei governi è la stessa: parla la lingua dei tagli alle eguali opportunità. Dietro alle argomentazioni altisonanti della ministra Gelmini, come dietro a quelle del suo collega britannico, si annida un´unica logica che il contesto locale non fa vedere bene (da noi le riforme cercano credibilità presentandosi come restauratrici del merito): legare i giovani al destino della classe sociale alla quale appartengono le loro famiglie, togliendo loro la possibilità di provare se stessi. Queste riforme non sono solo ingiuste; esse sono anche improvvide perché penalizzando all´origine chi ha meno possibilità economiche, questi paesi si privano della possibilità di avere una futura generazione di migliori. Non c´è scampo: ogni logica antiegualitaria nel campo dell´educazione è alla fine dei conti una logica che favorisce il privilegio. Essere per sorte venuti al mondo in una famiglia invece che in un´altra non dice nulla sulle proprie potenzialità. Il taglio sulle eguali opportunità educative è un taglio sul merito.
Il governo chiude la Camera per paura di dovere affrontare la crisi politica. In un solo colpo evitate le mozioni di sfiducia per il ministro Bondi e quella per il pluralismo della Rai presentata da Fli.
«Chiuso in attesa di (s)fiducia». Questo l’immaginario cartello che da oggi pomeriggio potrebbe essere appeso all’ingresso di Montecitorio. Ieri la capigruppo della Camera, infatti, ha deciso di chiudere i battenti fino a lunedì 13 dicembre, quando inizierà la discussione della mozione dei sfiducia a Berlusconi presentata da Pd e Idv. Una decisione fortemente sponsorizzata dal Pdl e dalla Lega, cui si sono uniti i finiani. Mentre le opposizioni si sono dette decisamente contrarie. La Grande Paura di Berlusconi dunque congela la Camera per altri dieci giorni, dopo che in questi due anni il governo ha praticamente svuotato il Parlamento, a colpi di decreti e voti di fiducia. Ma questo stop, che viene fatto passare come qualcosa di normale, complice anche il ponte dell’Immacolata, non arriva per caso. La settimana prossima la maggioranza avrebbe traballato almeno due volte, con due voti assai pericolosi: la mozione di sfiducia contro Bondi, presentata da Pd e Idv, e quella dei finiani sul pluralismo in Rai. Due sconfitte quasi certe, per Berlusconi. E allora Cicchitto ha chiesto e ottenuto di chiudere i battenti. Sperando forse che una settimana di pausa possa servire a raggranellare qualche deputato utile alla causa del Cavaliere.
Anche Calderoli rischiava. Si sarebbe dovuta votare anche la mozione Idv che chiede il ritiro delle deleghe al ministro “taglialeggi”, reo di aver tagliato anche la norma che faceva rischiare la galera a 36 camicie verdi rinviate a giudizio per associazione di carattere militare. «Sarebbe stato opportuno mantenere il calendario già fissato», ha protestato il capogruppo Pd Franceschini. E Bondi? «Ritengo che per la sera del 14 non sarà più ministro», ha ironizzato. E Di Pietro: «È scandaloso che la Camera non lavori la settimana prossima ». «In un momento di crisi economica di questa portata, i deputati si concedono il lusso di una settimana di ferie a spese dei contribuenti », ha proseguito il leader Idv. «Un vero schiaffo a chi lavora e a chi un lavoro non ce l’ha a causa dell’incapacità di questo esecutivo ». Ma è stato il moderato Gian Luca Galletti, numero due del gruppo Udc, l’unico a citare la vera ragione della chiusura: «Nel Pdl c’è troppa preoccupazione ad affrontare la Camera, è un errore, non bisogna avere paura del Parlamento ». Quanto a Fli, tutto fa pensare che abbiano voluto sgombrare il campo da ulteriori incidenti fino al 14. «È positivo che il terreno rimanga sgombro fino a un atto squisitamente politico come la mozione di sfiducia, che chiarirà in modo definitivo il quadro politico », spiega Carmelo Briguglio.
Niente tregua, dunque. Solo un rinvio delle ostilità. Ma il Pd non è soddisfatto. In calendario c’era anche una mozione sul fisco di Bersani e ieri Franceschini alla capigruppo una seduta straordinaria della Camera il 9 dicembre per discutere sulla riunione dell’Ecofin prevista per il 14: niente da fare. «Una decisione che stupisce, un altro atto di scadimento di questo Parlamento », dice il vicecapogruppo del Pd al Senato Luigi Zanda. «Stento a credere che Montecitorio blocchi i lavori fino al 14 dicembre. Dà il senso di una politica ferma, impigrita, chiusa su se stessa », protesta il sindaco di Firenze Matteo Renzi. «Che fanno i parlamentari da qui al 14? Vanno in ferie? Fanno il mercato delle vacche sul voto di fiducia? Peccato. Complimenti ai piccoli genietti che hanno preso questa decisione, un gigantesco spot per chi detesta la politica. E i politici...». «Ma in che paese siamo?», protesta Orazio Licandro della Federazione della Sinistra. «La crisi sta subendo una drammatica accelerazione, e il Parlamento chiude? Spero che il Capo dello Stato faccia sentire la sua voce». Calderoli, e soprattutto Bondi, tirano un sospiro di sollievo. DopoScajola, Brancher e il sottosegretario Cosentino, non subiranno l’onta di cadere come altri “birilli”. Se cadranno, lo faranno insieme a Berlusconi.
Di fronte ad una crisi reale del settore edile, 250 mila posti di lavoro persi in due anni, è naturale che i sindacati manifestino contro il governo. Devono difendere il proprio insediamento sociale e quindi hanno chiesto che le amministrazioni pubbliche paghino finalmente le imprese che da anni hanno maturato crediti.
Che di fronte a questa insostenibile situazione protesti anche l'Ance, associazione nazionale dei costruttori edili, è altrettanto sacrosanto: difendere le imprese rientra nel suo compito istituzionale. Non è dunque sulla manifestazione davanti alla Camera dei Deputati che si possono avere perplessità. È sul merito della proposta, o meglio sull'ambiguità e sulla genericità delle proposte che è doveroso interrogarsi.
Afferma il presidente dei costruttori nazionali che il governo «deve rimettere al centro l'edilizia». E quando mai, viene da chiedersi, l'edilizia non è stata al centro dei pensieri dei governi degli ultimi venti anni? Dai primi anni '90 è stata abolita qualsiasi regola urbanistica proprio perchè l'Ance affermava che era il mercato che doveva regolare lo sviluppo delle città. Ai piani urbanistici pubblici è stato sostituito l'accordo di programma privato: da allora proprietari fondiari e costruttori hanno potuto fare tutto ciò che volevano.
La «centralità dell'edilizia» di questi anni è stata misurata da Nomisma, Cresme e Istat: si è costruito a ritmi pressochè uguali a quelli degli anni del boom edilizio. Non è un problema soltanto italiano. Nell'inserto economico di lunedì scorso de la Repubblica, Marcello De Cecco individuava nel laissez faire in materia urbanistica uno dei più importanti elementi che hanno permesso la tumultuosa crescita economica dell'Irlanda e l'altrettanto rapida crisi di questi giorni.
La genericità delle parole d'ordine della manifestazione di ieri è dunque comprensibile. Il «mercato» senza regole non ha risolto ma aggravato la crisi delle città: le periferie si espandono senza fine e i cittadini hanno sempre meno servizi.
Per ridare spinta al comparto edile bisogna soltanto voltare pagina. Tornare a programmare e utilizzare al meglio i soldi pubblici. Non è vero infatti che «non ci sono». È che vengono spesi soltanto in grandi opere privilegiando pochi cartelli di impresa. Occorre invece finanziare gli interventi di riqualificazione urbana senza consumare altro suolo agricolo, tagliando così, siamo l'unico paese europeo a non controllarla, la rendita parassitaria che toglie risorse economiche preziose all'economia italiana: nello sviluppo distorto di questi venti anni ha guadagnato la rendita fondiaria e non le imprese produttive.
Per uscire dalla crisi occorre dare segnale nuovi, non si può continuare con il gioco devastante di una crescita urbana senza fine e con la cultura delle grandi opere. Che questa richiesta non sia venuta dall'Ance non stupisce più di tanto: questo sviluppo distorto ha fatto comodo a molti degli associati. Che sia stata taciuta dal sindacato è invece un brutto segnale di incapacità a farsi carico degli interessi di tutti contrapponendoli a quelli di pochi.
Il nuovo piano regolatore? Nato moribondo dopo 15 anni di gestazione e approvato dal consiglio comunale nel febbraio 2008, solo due mesi prima dell’avvento dell’era Alemanno, reso instabile dalle lotte intestine alle maggioranze di centrosinistra che l’avevano elaborato – le due giunte di Rutelli e le due Veltroni (1993-2008) – ha ormai l’encefalogramma piatto. Alcuni suoi organi – l’impianto normativo e il sistema perequativo – sono già stati espiantati, il resto probabilmente verrà sepolto in un cassetto. Sono altri gli sviluppi che interessano il futuro di Roma, che galleggia fra le visioni elettorali di Alemanno – il piccone risanatore nelle periferie pubbliche del Corviale o di Tor Bella Monaca, la voglia di grattacieli – e molto più concrete occasioni di business, come il progetto della Formula 1 all’Eur, la candidatura per le Olimpiadi del 2020, il ridisegno del waterfront di Ostia.
Nel presente, il problema più serio è la questione abitativa, a Roma vero e proprio nodo urbano. La capitale conosce fenomeni d’altri tempi: continua a macinare residenze (in media 10 mila all’anno) accumulando forti quote di sfitto e invenduto, mentre 2 mila famiglie vivono in abitazioni occupate. Il centro storico e la città consolidata, del primo Novecento, perdono abitanti (300 mila negli ultimi dieci anni), mentre ingrassano i comuni di prima, seconda e terza cintura, ben oltre il Raccordo anulare, al punto che c’è chi parla ormai di periferia regionale. Sul suo territorio sterminato – 129 mila ettari, dieci volte l’estensione di Milano – insistono 114 quartieri di edilizia pubblica dove vivono 600 mila abitanti, nati anche per sanare la prevalente periferia abusiva. Ovunque i servizi sono carenti. Nello sprawl urbano favorito dalla presenza dell’Agro, grande riserva di aree, oltre che di archeologia e natura, anche il traffico rappresenta “una patologia urbanistica”, come spiega Walter Tocci, vicesindaco e assessore alla Mobilità nelle giunte Rutelli (1993-2001). Nel bel libro “Avanti c’è posto” (Donzelli editore) Tocci scrive: “Se analizziamo, ad esempio, le strade bloccate regolarmente tutte le mattine, come la Cassia o la Prenestina, constatiamo flussi di traffico non impossibili, poco sopra le 1.000 auto/ora, alla portata di autobus capienti e frequenti. Se in quelle condizioni si arriva alla saturazione significa che non è un problema di quantità, ma di cattiva disposizione degli elementi nello spazio”. Inevitabile in una città dove – ricorda sempre Tocci – l’abusivismo è stato “il vettore della grande espansione novecentesca, […] il catalizzatore dei processi, la forza propulsiva che va oltre le prime borgate pubbliche, oltre i confini del piano del 1931 e di quelli del 1962, che travolge […] il tentativo di contenimento della cosiddetta ricucitura degli anni Ottanta, fino a contaminare l’ultimo piano del Duemila”.
Ma a chi importa davvero sistemare questo blob edilizio a bassissima densità? La classe imprenditoriale, costruttori compresi, cura legittimamente i propri interessi, ad ampio spettro per pochi grandi (come Francesco Gaetano Caltagirone, affaccendato in partecipazioni bancarie, giornali, muncipalizzate), di medio o piccolo cabotaggio per quasi tutti gli altri. E l’amministrazione pubblica, tendenzialmente, si adegua. “In Italia, e anche a Roma, ha sempre inseguito gli interessi privati. Meglio: li ha sempre assecondati, ricevendone una risposta funzionale alla propria sopravvivenza. Questi sono i rapporti di forza in campo”. Parole condivisibili e un po’ sorprendenti, visto che a pronunciarle è l’attuale assessore comunale all’Urbanistica Marco Corsini, un tecnico che conosce bene i meccanismi della politica: “Nelle grandi città le scelte urbanistiche fondamentali sono compiute dal sindaco, con cui si relazionano i grandi poteri. L’assessore è solo un attuatore, a Roma come a Venezia”, dove Corsini è stato assessore ai Lavori pubblici della giunta Costa. Sarà per questo che Alemanno è sommerso da visioni così irraggiungibili? Fra i suoi sogni pare esserci anche l’eredità politica di Silvio Berlusconi. In fondo, ci hanno provato anche Francesco Rutelli (2001) e Walter Veltroni (2008) a sfruttare il Campidoglio per tentare l’assalto a Palazzo Chigi, interrompendo con le rispettive legislature processi molto importanti: per esempio l’approvazione del prg, che come ricorda Domenico Cecchini, assessore all’Urbanistica di Rutelli, poteva essere varato comodamente entro la scadenza naturale del mandato, nel 2003. Perché se è vero che l’urbanistica è politica, nella capitale della politica italiana questo è vero due volte: una iattura, per la città e anche per i candidati premier (sempre perdenti). Alemanno ci pensi: la maledizione della Lupa incombe.
Ma c’è un’altra partita politica molto importante in corso, quella per Roma Capitale. Dopo l’approvazione del primo decreto legislativo la città ha ufficialmente acquisito un nuovo status giuridico. Ma sarà il prossimo dlgs, se mai vedrà la luce, a portare in dote la ciccia, ovvero le nuove competenze di scala metropolitana: sacrosante, date le dimensioni territoriali in gioco. In palio c’è probabilmente troppo, compresa la funzione urbanistica (che la Costituzione affida alle Regioni) e la valorizzazione paesistica e dei beni culturali. Se l’operazione andasse in porto cambierebbe il peso di Provincia e Regione, che rischiano di trasformarsi, rispettivamente, in un ente di testimonianza e “in un buco con un po’ di territorio intorno”, come afferma efficacemente l’urbanista Vezio De Lucia. Dire che i presidenti Zingaretti e Polverini siano contrari all’ipotesi è un eufemismo. Volano coltelli anche a mezzo stampa e viene sollevata l’ipotesi (non infondata) di incostituzionalità della norma. E qui torniamo alla domanda iniziale: chi ha cuore davvero le magagne di Roma? A chi interessa la gestione efficiente del suo malconcio territorio? La sensazione è che la speculazione edilizia non sia la peggiore delle malattie. La speculazione politica è pure peggio.
Adagio con il piano
La struttura del prg è costruita su tre elementi cardine. Anzitutto la cosiddetta cura del ferro, basata su un accordo di programma fra Comune, Provincia, Regione e Fs, che prevede “la la prosecuzione delle attuali linee metropolitane A e B – ricorda il presidente dell’Inu Federico Oliva, uno dei superconsulenti del piano – l’introduzione di due nuove linee, C e D, e tre passanti ferroviari di superficie che utilizzino la rete esistente di Rfi. Il tutto articolato sulla cintura ferroviaria, che a Roma è poco più ampia delle mura aureliane e ancora incompleta nella parte nord”. Gli enti coinvolti si sono impegnati a finanziare un’operazione da 12 miliardi di euro, in grado di servire la metà dei cittadini. Seconda gamba del piano, il nuovo sistema del verde: la rete ecologica, formata da parchi, aree naturali e territori agricoli, “copre il 68 per cento del territorio romano”, spiega Domenico Cecchini, che diede impulso alla prima fase del prg. Terza gamba: il policentrismo. Accantonata l’idea di Luigi Piccinato, che nel piano del 1962-65, per decongestionare il centro storico, aveva disegnato lo Sdo, sistema direzionale dell’area orientale ove decentrare i ministeri, si privilegiò una nuova visione: “Si prese atto che il territorio di Roma è metropolizzato – sostiene Oliva – caratterizzato da insediamenti da 100-150 mila abitanti, vere e proprie città, e si pensò di addensare sui nodi del ferro tutte le nuove previsioni, creando nove centralità: alcune nuove, altre già esistenti, come Tor Vergata. Qui dovrebbero essere realizzate non residenze, molto presenti nel contesto territoriale, ma funzioni urbane di qualità e attività produttive”. Per centrare l’obiettivo si utilizza lo strumento della perequazione/compensazione: vengono riconosciuti i diritti edificatori maturati nel precedente prg, ma i proprietari sono chiamati a esercitarli nelle nuove polarità o comunque a tiro di ferro. A questi si aggiunge “una limitata previsione di nuova edificazione, pari a circa 400 mila stanze”.
La scelta di riconoscere i diritti edificatori del piano del 1962 scatena l’opposizione interna al centrosinistra, che non fa che riverberare in chiave politica (l’asse Rifondazione-Verdi contro il resto del centrosinistra) la spaccatura tecnica maturata all’inizio degli anni Novanta all’interno dell’Istituto nazionale di urbanistica fra il gruppo di Federico Oliva e Giuseppe Campos Venuti (altro padre del piano di Roma) e il gruppo Polis (Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Paolo Berdini, fra gli altri). Il piano viene accusato di determinare una nuova colata di cemento in città, “pari a 64 milioni di metri cubi”, quantifica Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio. Vezio De Lucia accusa il prg “di essere privo di qualunque elaborazione sul dimensionamento, poiché a fronte di un incremento volumetrico complessivo pari a circa il dieci per cento dell’esistente – tutto sommato ragionevole – corrisponde un aumento del 35 per cento della superficie occupata”. E ricorda che Italia Nostra, di cui è consigliere nazionale, incaricò l’avvocato amministrativista Vincenzo Cerulli Irelli (“Un ex democristiano, non un sovversivo”) di presentare un parere pro veritate in cui venne chiarito “un principio che noi urbanisti di vecchia scuola conoscevamo già molto bene: l’edificabilità è data dal piano e il piano la toglie, i diritti edificatori non esistono”. Paolo Avarello, già presidente dell’Inu e docente di Urbanistica a Roma 3, sottolinea che “il prg, che voleva essere uno strumento innovativo, ha ereditato in effetti il passato”. Compreso il problema dei rentier “che hanno già pagato le tasse sulla proprietà di terreni edificabili: tornare indietro sarebbe molto difficile, oggi, così come espropriare”. Se non si riconoscono le previsioni edificatorie pregresse, ragiona Avarello, c’è il rischio fondato di paralisi da contenzioso.
In ogni caso, alla perequazione si affida il compito di realizzare il nuovo. Cui bisogna aggiungere il cosiddetto contributo straordinario connesso al rilascio del permesso di costruire: “Le norme tecniche del prg – sottolinea Cecchini – prevedono che il plusvalore derivante dalle decisioni urbanistiche debba tornare alla città attraverso una contribuzione straordinaria pari al 66 per cento”. La norma era stata affossata dal Tar del Lazio, ma è stata ripescata il primo settembre scorso da un pronunciamento del Consiglio di Stato. La decisione è stata salutata con grande favore dall’assessore Corsini: il Comune, del resto, aveva difeso in sede giudiziaria il prg. “Adesso vedremo se l’amministrazione Alemanno avrà la forza di esigere il contributo straordinario”, chiosa uno scettico Cecchini.
Ma che cosa vuol fare l’amministrazione capitolina del prg? Una fonte interna che ci chiede l’anonimato conferma che sul tema centralità non si sta muovendo foglia. Corsini ammette che si sta ragionando su un loro “ripensamento funzionale”. Si consideri poi che il primo atto urbanistico della giunta Alemanno, maturato subito dopo l’insediamento, è stato un bando per il reperimento di nuove aree ove realizzare 30 mila alloggi di edilizia residenziale, snobbata dal prg, almeno secondo il Campidoglio. Sono pervenute 300 proposte, “ma vi daremo seguito – afferma Corsini – solo dopo aver esperito altri strumenti, dalla densificazione al recupero di superfici pubbliche all’interno degli sviluppi urbanistici, dall’acquisto e vendita di immobili ai cambi di destinazione d’uso. Perché non vogliamo consumare altro territorio. Quel che manca sarà oggetto di una variante al prg, che verrà presentata forse entro il 2011”.
Le politiche di Alemanno sull’housing sono contestate da Cecchini e da Daniel Modigliani, alla guida dell’Ufficio di piano al momento dell’approvazione del prg, che sottolineano come “trasformare aree agricole in edificabili serve solo alla speculazione fondiaria, non a dare case a chi è effettivamente in condizioni disagiate”. Perché il problema “non sono le aree, ma i finanziamenti pubblici necessari a costruire le case sovvenzionate e a ridurre i prezzi delle convenzionate”. In ogni caso, secondo Cecchini e Modigliani, basta dare corso ai 35 piani di zona già approvati e ad altre disposizioni del piano per realizzare nei prossimi cinque anni “non meno di 10 mila alloggi in aree già previste come edificabili dal prg”. Senza consumare altro Agro o attentare ulteriormente a parchi intorno a Roma, fra cui quello dell’Appia Antica, che nei sogni del giornalista e scrittore Antonio Cederna e dell’ex soprintendente ai Beni archeologici Adriano La Regina avrebbe dovuto essere valorizzato e unito al cuore della città eterna. Un progetto bellissimo e cancellato, con via dei Fori imperiali oggi ridotta ad arteria di scorrimento viario verso l’ingorgo mefitico di piazza Venezia. Ma questo è un altro discorso.
Tornando all’housing sociale, va tenuto presente che trattasi di tema sensibile. È stato uno degli slogan forti della campagna elettorale di Alemanno: da qui tanta fretta nell’approcciarlo. Del resto, dal mondo dei costruttori – con la benedizione preelettorale di Francesco Gaetano Caltagirone, le cui rare parole pesano come pietre – e dal popolo delle periferie sono venuti molti voti per il sindaco. Il resto è poesia, o quasi. L’analisi di Corsini non lascia adito a dubbi: “Condividiamo il sistema di regole del prg, non gli aspetti operativi. La realtà corre ben più velocemente delle previsioni del piano, che è privo di una visione strategica. Inoltre sono maturate altre riflessioni, che ci hanno portato a investire sul waterfront di Ostia, sulla candidatura alle Olimpiadi del 2020, sul riutilizzo delle aree che erediteremo con il federalismo demaniale, sulla realizzazione dei nuovi stadi per Roma e Lazio, sulla pista di F1 da realizzare all’Eur. E così il prg è entrato fisiologicamente in crisi il giorno dopo l’approvazione”. Anche la cura del ferro sarà annacquata: “Nessuno ha intenzione di fermare questo processo, data la sua tempistica per ere geologiche”, continua Corsini. Ma nel frattempo, per cautelarsi, la giunta ha presentato un nuovo piano della mobilità. Sostenibile, va da sé.
Consigli per gli acquisti
Archiviato il prg, si pensa ad altro. Secondo Paolo Berdini, docente di Urbanistica all’Università Tor Vergata, “l’amministrazione comunale, attraverso l’uso dell’emergenza legata ai grandi eventi, sta cercando di definire il nuovo volto della città, depotenziando un piano che non condivide. E per centrare l’obiettivo sta orientandosi su altri progetti”. Per esempio i nuovi stadi per le squadre di calcio capitoline, veri e propri pezzi di città. Quello della Lazio, per esempio, è un complesso polifunzionale di “seicento ettari, fuori dal Raccordo anulare, al 90 per cento del costruttore Gianni Mezzaroma”, suocero del proponente Claudio Lotito, in una zona – lungo la strada Tiberina, al confine con il Comune di Fiano – che per “l’80 per cento fa parte dell’agro romano vincolato” (da “La colata” di Garibaldi Massari Preve Salvaggiulo Sansa, editrice Chiarelettere). Anche la location individuata per il villaggio olimpico a Tor di Quinto, in un’area piena di vincoli, lascia perplessi. Passare da un piano anche criticabile (e criticato) a una visione così puntiforme può sembrare espressione di una visuale un po’ limitata, magari provinciale, almeno per una grande città. Ma va considerato “che questa non è Milano – spiega Antonello Sotgia, dello studio di architettura Marchini Sotgia – qui i grandi sogni che si rincorrono sono soprattutto grandi slogan”. Qui nel dna ci sono borgatari e palazzinari “e Alemanno ha compreso che la città con cui dover fare i conti è questa, è fatta di allontanamenti forzati delle comunità rom e di progetti/eventi capaci di apparecchiare e rendere possibili i soliti esercizi di rendita”. E ora, con Roma Capitale “e i poteri assoluti che con questa legge vorrebbe assumere”, il gioco potrebbe cambiare. “Veltroni era costretto a rivolgersi al migliore offerente – continua Sotgia – prefigurando un piano regolatore delle offerte in cui leggere le normative tecniche come consigli per acquisti. Alemanno oggi, quando parla di abbattere case e palazzi, spostare persone, ricostruire edifici secondo precisi modelli estensivi, non parla da urbanista e neppure solo da sindaco, ma da nuovo ingegnere istituzionale”.
Nell’attesa dei nuovi poteri, “seduce le periferie giocando sul loro male di vivere. E deve dare una risposta ai piccoli costruttori, che l’hanno sempre appoggiato”. E che sono prodighi di suggerimenti su come intervenire nello sprawl. La relazione che il presidente dell’Acer Eugenio Batelli ha presentato nel corso dell’ultima assemblea dell’associazione dei costruttori romani, alla fine di settembre, batte molto sul tema. Per esempio, negli “insediamenti nati spontaneamente”, da Montespaccato a Vermicino, da Infernetto a Centocelle, è consigliata la sostituzione edilizia, “ma gli incentivi attualmente previsti dal piano casa regionale non garantiscono il necessario riequilibrio economico”. Batelli chiede dunque un premio di almeno il 60 per cento della cubatura, andando oltre le pur generose previsioni del piano Polverini, che sta ritoccando la legge varata dalla giunta Marrazzo ma si ferma, nello specifico, al 50 per cento. I costruttori sanno che tocca a loro colmare la “mancanza di risorse” che ha impedito di mettere mano al problema periferie, anche perché in cassa il Campidoglio ha soprattutto un mare di debiti: “Il Comune di Roma deve sostenere fino al 2043 il piano di rientro dal dissesto finanziario”, sottolinea Batelli. Sicché prova a dettare qualche condizione: “Negli interventi di edilizia agevolata del secondo piano peep (edilizia economico-popolare, ndr) a Castelverde, Torraccia/Casalmonastero e Muratella” si richiede di densificare i piani “nelle aree extra standard non utilizzate”. Discorso analogo sia per i piani di recupero urbano meglio noti come articoli 11, per i quali Batelli propone “di riconsiderare le destinazioni d’uso non residenziali ormai superate, reperendo così contributi straordinari necessari per il completamento delle opere pubbliche”, sia per i print (piani di recupero integrato), per i quali sollecita “premi di cubatura adeguati all’onerosità degli interventi”.
Nuove aree e nuovi incentivi per nuove case. Quanto al ridisegno dei grandi complessi pubblici di stampo collettivista – come li ha definiti Alemanno – Batelli non si azzarda: sa che l’impresa è titanica. “La riqualificazione delle periferie non deve certo cominciare dai quartieri di edilizia residenziale pubblica – afferma l’ambientalista Lorenzo Parlati – dove i problemi sono di carattere sociale, non urbanistico. Meglio puntare sugli insediamenti abusivi”. Lì c’è trippa per gatti: “Un terzo di Roma è sorto così. Oltretutto si tratta di edilizia privata, in cui un intervento privato di riqualificazione, favorito naturalmente da un piano comunale in grado di mantenere l’interesse pubblico dell’operazione, potrebbe avere senso e dare risultati importanti”. Aggiunge il presidente dell’Ordine degli architetti di Roma, Amedeo Schiattarella: “Sono d’accordo con il principio di fondo: l’amministrazione deve poter demolire e riabilitare intere parti di città. Il caso del quartiere Giustiniano Imperatore – parzialmente ricostruito dopo gravi problemi di dissesto, ndr – dimostra che l’operazione è complessa, ma si può fare. Coinvolgendo anche i privati, naturalmente. Che però, nella fattispecie, devono essere portatori anche di valori generali. Ci vuole un progetto serio, insomma, che può essere garantito soltanto dallo strumento concorsuale”. Schiattarella chiede quindi l’avvio di una stagione di concorsi, meglio se di progettazione, perché quelli di idee “spesso restano nel cassetto”. E riferiti non solo al ridisegno delle periferie, ma a tutti i futuri sviluppi della capitale. A cominciare dalla riconversione delle aree ex demaniali. Ben consapevole che il passo, finora, è stato diverso, con rari monumenti contemporanei – dal Maxxi di Zaha Hadid alla teca dell’Ara Pacis di Richard Meier, che ora forse perderà il suo muretto – nel deserto dell’architettura. Sullo sfondo, il mare di sprawl, di cui Roma è capitale. La Lupa non ha ancora perso il vizio e finché c’è Agro, c’è speranza.
box 1 - Densificare, non consumare
Dal 2002 al 2008 la popolazione di Roma è cresciuta del 7 per cento e supera i 2,7 milioni di abitanti, ma nello stesso periodo i residenti della Provincia, esclusi quelli della capitale, sono aumentati del 17 per cento, mentre nella cintura romana l’incremento ha raggiunto il 23 per cento. Elementi che evidenziano “come la crescita di Roma ormai avvenga essenzialmente fuori dai confini comunali”, soprattutto lungo la direttrice nord, grazie alla presenza del collegamento ferroviario Fiumicino-Orte. “Roma cresce a Orte” è infatti il titolo della prima di una serie di ricerche sviluppate in questi ultimi anni dalla facoltà di Architettura dell’Università Roma tre, coordinate dal docente di Progettazione urbanistica Giovanni Caudo. Un lavoro che fornisce una ricca documentazione di dati e che consente di comprendere le dimensioni della questione abitativa romana, “che intreccia dinamiche di complessità urbana”, afferma Caudo. I numeri sono impietosi: a Roma gli sfratti sono numerosissimi (uno ogni 220 famiglie nel periodo gennaio-dicembre 2008) ed è tornata di moda la pratica delle occupazioni, che dal 2002 al 2008 hanno fornito una risposta abitativa a 2.500 famiglie, mentre nello stesso periodo i numeri di alloggi di edilizia economico-popolare assegnati dal Comune di Roma sono stati circa 1.700. La risposta alla domanda abitativa resta dunque molto debole. La città si sviluppa nelle periferie anche oltre il Gra, a cavallo del quale un milione circa di romani ogni mattina si muove per raggiungere il centro della città. Un inferno. Al quale però si può rimediare. Anche perché è possibile intervenire con una densificazione edilizia mirata, anziché continuare nella pratica dello sprawl. La capitale si è sviluppata a bassa densità: ogni abitante dispone di 230 metri quadrati di aree urbanizzate, un valore sei volte superiore a quello di Parigi. Per invertire la tendenza, il gruppo di ricercatori di Roma tre ha svolto un ragionamento sulle aree che insistono sull’attuale sistema di ferrovie e metropolitane, ovvero sui nodi di scambio, compresi quelli in corso di trasformazione. “E abbiamo scoperto – afferma Caudo – che nelle zone centrali già oggi vi sono ettari di superficie sottoutilizzata, destinati magari a ospitare solo parcheggi a raso”, come a Tordivalle. Le strategie elaborate indirizzano in questi ambiti (11 in tutto) la localizzazione di residenze, servizi, funzioni direzionali e amministrative: gli interventi di densificazione consentirebbero di realizzare 7.800 alloggi e una superficie utile non residenziale pari a 286 mila metri quadrati. Un altro ambito d’intervento potrebbe essere il completamento del piano di edilizia economico-popolare di Roma, il più grande d’Italia, che in 40 anni ha prodotto 114 piani di zona con una dotazione di standard ancora insufficiente (-18% rispetto alle previsioni, 423 ettari in tutto). “Si tratta di una quota importante del territorio comunale – afferma Caudo –composta da centinaia di aree, di scarto e di interstizi, che ricadono nel perimetro dei singoli piani di zona, molti dei quali all’interno del Gra, già raggiunti dalle infrastrutture e dalle opere di urbanizzazione. Una dote che l’amministrazione comunale potrebbe considerare per la formulazione di un nuovo progetto per la città”. Anziché consumare nuovo suolo.
box 2 - cittadinanza attiva
Capire “che la città non esiste più, che è esplosa, ha perso il suo tessuto di relazioni sociali”. Ma anche comprendere “quale altri spazi si vanno creando, quali nuove realtà genera l’impatto urbano su paesaggi storici, agricoli, in contesti marginali, in villaggi che non conoscevano la metropoli”. Lorenzo Romito è un progettista dell’associazione Stalker, realtà che da sempre coniuga architettura e sociale, in passato molto impegnata in lavori nei campi rom e al Corviale. Racconta un percorso molto interessante, che da uno spunto conoscitivo legato alle mille periferie di Roma sta sviluppando un percorso di aggregazione e cittadinanza attiva. “Il nostro primo tentativo è stata l’esplorazione di Campagna romana. Abbiamo formato otto gruppi, nei quali erano sempre presenti un urbanista, un fotografo e uno scrittore, e abbiamo percorso a piedi le principali direzioni regionali: cinque giorni di marcia per intercettare i processi che produce quella che ho definito l’Oltrecittà. Parlare di città oggi significa fare riferimento a una dinamica di relazioni centro-periferia che mi pare superata. Mi sembra che stia emergendo qualcosa di nuovo e cercare di capirlo può forse significare la possibilità di indirizzare lo sviluppo. Se si riesce a visualizzare questa trasformazione e se gli abitanti riescono a coglierla, forse da loro stessi possono venire spunti, pratiche, idee per rovesciare le dinamiche attuali”. Chi ha detto che la periferia è solo marginale, ragiona Romito. E lo dimostra con una seconda esperienza, Primavera romana (2009): ancora una lunga camminata, stavolta attorno al Raccordo anulare, accompagnata dall’esplorazione di tutte le realtà presenti, “dai campi rom agli orti urbani, dai comitati di quartiere che lottano contro la speculazione edilizia alle occupazioni”. L’esplorazione ha dato origine a una mappatura e la cartografia è stata messa online, a disposizione di tutti. Primavera romana è stata replicata quest’anno successivo: la ricerca questa volta si è concentrata in quelle che vengono definite le sette città fuori porta, ovvero “nelle periferie consolidate – Prenestino-Casilina, Ostiense, Trionfale, il Salario, il Nomentano, il Tiburtino – che ormai, con la musealizzazione del centro, sono l’unico residuo di città esistente, dove ci sono dialogo, confronto, conflitto sociale”. Qui è forte il tema del riuso delle grandi strutture pubbliche abbandonate, “dal mattatoio agli ospedali – continua Romito – spazi centrali attorno ai quali si sono formate le sette città e che sarebbero il luogo da cui ripartire per ridisegnare questi ambiti, sottraendoli alla speculazione futura o all’oblio. Reinventarsi un’articolazione dei luoghi, riferendosi alle comunità esistenti e alle problematiche comuni, è un modo per visualizzare un disegno amministrativo della città”. Un tema forte, tenuto ancora sottotraccia perché il punto per Romito “non è esprimere idee e visioni, ma condividere la consapevolezza dei problemi, assecondando un passo più lento, che però produce maggiore coinvolgimento e partecipazione attiva”. Da qui nasce, il mese scorso, l’ultima iniziativa, l’autoconvocazione degli Stati generali della cittadinanza, che nasce “per mettere assieme comitati e movimenti, aggregando esperienze importanti ma spesso autoreferenziali, condividendo pratiche, facendo comprendere l’interdipendenza dei problemi”. Una sorta di rete che, se riuscirà a formarsi, è destinata a diventare un soggetto politico attivo, sulla scia delle esperienze maturate in altre città (a Venezia per esempio, vedi Costruire n. 326). “Roma nasce in un luogo di passaggio lungo il Tevere – afferma Romito – come aggregazione di villaggi che stringono un patto di cittadinanza per trasformare un’area conflittuale in uno spazio condiviso. Se la città non ritroverà questa sua marginalità strutturale e continuerà a vivere di rendita, propagandando l’idea imperiale e un po’ fascista di centro, è destinata a perdere forza e identità”.
A proposito dei ”Diritti edificatori" vedi il parere pro veritate di Vincenzo Cerulli Irelli e il documento "Forse che il diritto impone di compensare i vincoli sul territorio?" di Edoardo Salzano.
1. E' senz'altro vero che la vigente normativa non pone limiti temporali alle previsioni di edificazione privata, ma questo non vuol dire che l'edificabilità prevista non possa essere modificata da un successivo intervento di pianificazione urbanistica.
La giurisprudenza amministrativa è infatti unanime e costante nell'affermare che "il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" (così Cons. Stato, sez. IV, 03-07-2000, n. 3646). Si precisa tuttavia che "è comunque necessario che l’amministrazione dia conto delle ragioni che la inducono a modificare la destinazione di un’area nella quale lo strumento generale prevedeva l’edificazione" (Cons. Stato, sez. IV, 13-05-1998, n. 814).
Sul punto è interessante sottolineare che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, "neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il prg non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" (T.a.r. Lombardia, sez. Brescia, 12-01-2001, n. 2) .
In sostanza, mi sembra che nessun ostacolo giuridico (ma vi possono certamente essere ragioni di carattere politico o comunque di opportunità) escluda che un comune, in sede di variazione degli strumenti urbanistici vigenti ovvero in sede di nuova redazione del piano regolatore, disciplini il regime di trasformazione degli immobili in modo difforme dal precedente atto di pianificazione, ad esempio prevedendo per alcune aree la destinazione a zona agricola.
Resta inteso che tanto maggiore sarà l'affidamento ingenerato nel proprietario, tanto più analitica ed esauriente dovrà essere la motivazione posta alla base del nuovo atto di pianificazione.
2. Effettuata questa premessa mi preme formulare un ulteriore considerazione.
La nuova destinazione di un'area non deve coincidere necessariamente con l'imposizione di un regime di inedificabilità assoluta (ossia un vincolo di carattere sostanzialmente espropriativo ovvero preordinato all'espropriazione) né di un vincolo di carattere morfologico (caratterizzato cioè dalla particolare natura del bene).
Per quanto attiene alla prima ipotesi, è noto che la Corte costituzionale, con la sentenza 179/99, ha stabilito che si pone un problema di indennizzo per quei vincoli che 1) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni; 2) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.
Orbene, non vi è dubbio che, tra la previsione di una nuova destinazione su un'area, comportante la drastica riduzione degli indici di edificabilità (ad esempio destinazione agricola) e l'imposizione sulla stessa di un regime di inedificabilità assoluta (con tutte le conseguenze con riguardo all'obbligo indennitario, in caso di reiterazione), si collocano una serie di soluzioni pianificatorie intermedie, comunque compatibili con l'attuale disciplina della materia, non rappresentando cioè lo svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà.
Ricordo peraltro che la stessa sentenza costituzionale 55/68 ha riconosciuto che non ogni disciplina restrittiva dell'attività edificatoria comporta un obbligo di indennizzo: "rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse senza indennizzo dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, e, quindi, tra l'altro, quelle che fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia nell'edilizia …".
Ed infatti è stato autorevolmente stabilito che "la destinazione a zona agricola contenuta in un piano regolatore generale non concretizza un vincolo a contenuto espropriativo, bensì conformativo del diritto di proprietà; ne consegue che la relativa prescrizione non è indennizzabile, né è soggetta al limite temporale d’efficacia di cui all’art. 2 l. 19 novembre 1968 n. 1187" (C. Stato, sez. IV, 06-03-1998, n. 382); "anche se i vincoli compressivi della proprietà immobiliare soggetti a decadenza quinquennale ai sensi della l. 19 novembre 1968 n. 1187 non sono solo quelli preordinati all’espropriazione ma anche quelli che comportano l’inedificabilità assoluta, o comunque che privano il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, deve peraltro ritenersi che fra tali vincoli non rientri la destinazione a verde agricolo, atteso che quest’ultima non si configura come una limitazione tale da rendere inutilizzabile l’immobile in relazione alla destinazione inerente alla sua natura, restando al proprietario la possibilità di trarne un utile mediante la coltivazione e, inoltre una possibilità, sia pure contenuta entro parametri prestabiliti, di limitata edificazione" (C. Stato, sez. V, 07-08-1996, n. 881); ancora "è legittima la previsione di un’edificazione estremamente rada e la conservazione di ampi intervalli di verde finalizzata al più conveniente equilibrio delle condizioni di vivibilità della popolazione, in quanto la destinazione agricola può servire per orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero per salvaguardare precisi equilibri di assetto territoriale" (T.a.r. Lazio, sez. I, 19-07-1999, n. 1652).
In sostanza, l'amministrazione comunale, fermo restando l'obbligo di motivazione, può rivedere le destinazioni urbanistiche vigenti senza dover necessariamente addivenire all'espropriazione delle aree il cui regime intende innovare ovvero integrare una delle fattispecie che, sulla base della citata sentenza costituzionale, impongono un obbligo indennitario.
Quanto ai vincoli cosiddetti morfologici, concordo in pieno con le affermazione del prof. Campos Venuti, essendo indiscutibilmente vero che il regime giuridico preordinato alla tutela di tale tipologia di beni prevale sulle prescrizioni urbanistiche con esso eventualmente incompatibili.
Resto a disposizione per ogni chiarimento e approfondimento che ritenessi necessario e porgo i più cordiali saluti
Vincenzo Cerulli Irelli
Barbara Spinelli Chi ha paura della glasnost
Solo chi ha un´idea cupa dell´informazione indipendente, e paventa persecuzioni non appena se la trova davanti, e per di più nulla sa della rivoluzione in corso nell´universo dei blog, può parlare, come il ministro Frattini, di un 11 settembre della diplomazia scatenato da WikiLeaks contro il mondo bello, composto e civile nel quale siamo supposti vivere. Solo chi fantastica planetarie offensive contro le notizie che da tempo circolano senza confini può credere che al caos comunicativo si debba rispondere, come negli attentati del 2001, con una bellicosa e «compatta alleanza: senza commentare, senza retrocedere sul metodo della diplomazia, senza lasciarsi andare a crisi di sfiducia». WikiLeaks non è una cellula terrorista e il suo fondatore, Julian Assange, è magari indagato per violenza privata ma comunque non è un uomo che – la fine osservazione è del ministro – «vuol distruggere il mondo». Alla mutazione mediatica nata prima di lui non si replica con un globale schieramento, per «continuare a far vivere un metodo della diplomazia» che ha fatto disastri.
Mettere insieme in una battaglia contro Internet Roma e Mosca, Berlino e Kabul prefigura il Brave New World di Huxley, fatto di gente china e sedata dalla droga, il «soma» che rilassandoti uccide ogni critica. Più che un´utopia: una distopia. Il mostro tanto temuto è la glasnost che d´un tratto irrompe in una zona politica non solo opaca ma sommamente inefficace: la diplomazia, il più chiuso dei recinti, dove il segreto, non sempre immotivatamente, è re. La glasnost è una corrente sotterranea potente, non un breve tumulto come fu Al Qaeda, e l´unica cosa da dire è: la politica ancora non sa fronteggiarla, organizzandosi in modo da disgiungere il segreto indispensabile dal superfluo. Se quello necessario viene alla luce è sua colpa, non di WikiLeaks. In realtà i 250.000 cabli non sono affatto top secret. Sono consultabili da ben 3 milioni di funzionari americani, e disponibili in siti interni al ministero della difesa Usa (Siprnet). Nella globale ragnatela Internet le fughe di notizie (i leaks) sono inevitabili. Scrive Simon Jenkins, sul Guardian: «Un segreto elettronico è una contraddizione in termini».
Nei paesi democratici, dove l´informazione indipendente esiste, il diplomatico è alle prese con una trasparenza non di rado ostacolata come in Italia, ma tangibile. Non è cancellata dalle ghignanti foto di gruppo dei vertici internazionali, che s´accampano monotoni su giornali e tv. Gli ambasciatori a Roma o Parigi raccontano quel che leggono nei giornali più liberi, che apprendono dai blog, che ascoltano da chi non nasconde il vero.
Si dice: «Ce n´è per tutti», nei dispacci. Per il Cancelliere tedesco, il regno britannico, l´Eliseo, oltre che per Roma. Nulla di più falso. Se la Merkel appare «refrattaria al rischio e poco creativa», Berlusconi «suscita a Washington sfiducia profonda»: è «vanitoso, stanco da troppi festini, incapace come moderno leader europeo». Inoltre «sembra il portavoce di Putin in Europa». Un abisso separa i due leader. Resta che nelle democrazie le rivelazioni non sono fulmini che squarciano cieli tersi, neanche da noi. I diplomatici Usa comunicano quello che da 16 anni gli italiani hanno sotto gli occhi, sempre che non se li bendino per vivere in bolle illusorie e ingurgitare «soma televisivo». Sanno dei festini in dimore private spacciate per pubbliche. Sanno che Berlusconi coltiva con Putin rapporti personali torbidi, lucrosi, di cui non rende conto né all´Europa né al popolo che pure tanto s´affanna a definire sovrano. Non c´è bisogno di WikiLeaks per conoscere la pasta di cui son fatti i governanti, per capire lo scredito internazionale che non da oggi li colpisce, per allontanarli dal potere che democraticamente hanno occupato, e poco democraticamente esercitato.
Non così lì dove non c´è democrazia e nelle aree di crisi, nonostante le verità siano in larga parte note anche qui, a chi voglia davvero sapere. Non c´è praticamente notizia che i blog non dicano da anni ( Tom Dispatch, Antiwar. com, Commondreams, Counterpunch, e in Italia, nel 2005-2010, Contropagina di Franco Continolo).
L´altra cosa che va detta è che gli ambasciatori che divulgano informative non sono sempre di qualità eccellente, e forse anche questo, in America, crea imbarazzo. Nelle aree critiche – Italia compresa, dove gli equilibri democratici vacillano – non hanno idee meticolosamente maturate, né si azzardano in analitici suggerimenti e prognosi. Fotografano l´esistente, sono figli essi stessi di Internet, tagliano e incollano schegge di verità senza osare approfondimenti. Nulla hanno in comune, ad esempio, con l´immensa ricerca in cui si sobbarcò George Kennan nel ´44-46, lavorando per la missione Usa a Mosca. Il «lungo telegramma», che inviò nel febbraio ´46 al Segretario di Stato James Bynes, descrive la natura oscura del sistema sovietico: le sue forze, le fragilità, il suo nevrotico bisogno di un mondo ostile. Ne scaturì l´articolo scritto nel luglio ´47 su Foreign Affairs, firmato X: fondamento di una politica (il containment) che per decenni pervase la guerra fredda senza infiammarla.
Nulla di analogo nei dispacci odierni, ma messaggi raccogliticci, frammentari, pericolosi infine per le fonti, nei paesi a rischio. Non la forza americana è esposta alla luce, ma la sua inconsistenza. Non un impero nudo, ma una finzione d´impero che addirittura usa i propri diplomatici – colmo di insipienza e mala educazione da parte di Hillary Clinton – come spie all´Onu. L´occhio Usa non scruta il lontano ma l´oggi, sposando non pochi luoghi comuni locali. La glasnost online sbugiarda questo modo di scrutare, e non è male che avvenga. Fa vedere l´impotenza, l´approssimazione, l´inefficacia americana. Inefficacia pur sempre limitata, perché i dispacci non paiono contaminati dai conformismi di tanti commentatori italiani: difficile trovare accenni, nei cabli, alla «rivoluzione liberale» o all´epifanico ruolo di Berlusconi nelle crisi mondiali.
Il vero scandalo è lo spavento che tutto questo suscita, lo sbigottimento davanti a notizie spesso banali, solo a tratti rivelatrici (è il caso, forse, del nesso stretto Nord Corea-Iran), l´imperizia Usa nel tutelare confidenze e confidenti. Ora si vorrebbe fare come se nulla fosse, «tener viva la diplomazia» così com´è: ottusamente arcana, lontana dallo sguardo dei cittadini. Ma quale diplomazia? Nel caso italiano una diplomazia chiamata commerciale dal governo perché essenzialmente fa affari, e all´estero riscuote in realtà «sfiducia profonda».
Dicono che Berlusconi si sia fatto una gran risata, non appena letti i dispacci. Forse ha capito più cose di Frattini, perché lui la diplomazia classica l´ha già distrutta. E non solo la diplomazia ma l´informazione indipendente, e in Europa la solidarietà energetica. Forse ride delle banalità diffuse da WikiLeaks. Forse intuisce che se si parlerà molto di festini, poco si parlerà di conflitto d´interessi, controllo dei media, mafia. È il limite di Assange, enorme: avrà minato la fiducia nella diplomazia Usa, senza dare informazioni autenticamente nuove (la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange l´ho trovata su un sito di cinefili: http://ealcinemavaccitu. blogspot. com).
Resta la sfida alla stampa: sfida al tempo stesso ominosa e straordinariamente promettente. È vero: nel medio-lungo periodo crescerà il numero di chi si informerà su Internet, più che sui giornali cartacei. Ma da quest´avventura la stampa esce come attore principe, insostituibile: messa di fronte ai 250 milioni di parole sparse come polvere sugli schermi WikiLeaks, è lei a fare la selezione, a stabilire gerarchie, a rendere intelligibile quello che altrimenti resta inintelligibile caos, ad assumersi responsabilità civili contattando le autorità politiche e nascondendo il nome di fonti esposte dai leaks a massimi rischi. Alla rivoluzione mediatica ci si prepara combinando quel che è flusso (Internet) e quel che argina il flusso dandogli ordine (i giornali scritti). L´unica cosa che non si può fare è ignorare la sfida, negare la rivoluzione, opporle sante alleanze conservatrici del vecchio. Immagino che non fu diversa l´alleanza anti-Gutenberg quando nel XV secolo apparve la stampa, e anche allora vi fu chi, con le parole di quei tempi, parlò di un 11 settembre contro gli establishment: politici e culturali, delle chiese e degli imperi.
La Corte dei Conti 'boccia', nella sua relazione appena trasmessa alle Camere, gli appalti secretati i cui atti sono stati consegnati alla magistratura contabile per i dovuti controlli tra il 2005-2007. Le dichiarazioni di secretazione, scrivono i magistrati, ''nella quasi totalita' dei casi sono espresse in termini generici e spesso manca ogni riferimento ai requisiti di indifferibilita' ed urgenza''. In piu' negli interventi, spesso realizzati ''con enormi ritardi'', si riscontrano non poche ''anomaliè. Le opere esaminate dalla Corte riguardano per lo piu' i ministeri dell'Interno e della Difesa con riferimento al Corpo dei Vigili del fuoco e all'arma dei Carabinieri. Secondo le norme vigenti, si legge nella relazione della Corte dei Conti, gli appalti potrebbero essere coperti da segreto (e quindi derogare alle disposizioni sugli appalti pubblici) solo nei casi in cui siano richieste ''misure speciali di sicurezza e segretezza'' o quando lo esiga ''la protezione degli interessi essenziali della sicurezza dello Stato''. In piu', si ricorda, si dovrebbe trattare sempre di opere ''dichiarate indifferibili ed urgenti'': circostanza questa che dovrebbe venire ''adeguatamente motivata''. La richiesta, infine, dovrebbe arrivare dalle autorita' apicali, ad esempio i ministri, e non da ''personale dirigentè' vario.
La denuncia. Ora, denunciano le toghe contabili, quasi tutte le opere passate sotto il loro vaglio non rispondono a tali requisiti. ''Nella quasi totalita' dei casi - si legge - la dichiarazione di secretazione è espressa in termini generici e, spesso, manca ogni riferimento ai requisiti di indifferibilita' ed urgenza senza contare, con riferimento a questi ultimi, che non sono rari i casi di opere considerate (anche se in modo generico) urgenti e indifferibili affidate con notevole ritardo o la cui realizzazione si è protratta nel tempo''. ''Fatti questi - aggiungono i magistrati - che si pongono in palese contrasto con l'asserita presenza dei requisiti medesimi''. La Scuola per marescialli dei Carabinieri di Firenze, ad esempio (al centro della vicenda giudiziaria che ha visto coinvolto anche il coordinatore Pdl Denis Verdini ndr), non è ancora ultimata ''a 13 anni dall'iniziale protocollo d'intesa''. Ulteriori ''riscontri negativi'', osservano i giudici contabili, si ravvisano nei ritardi di realizzazione delle opere e nel pagamento delle penali.
Forte divario. Per queste, si legge nella Relazione, si riscontra ''un forte divario'' tra gli importi stabiliti in sede contrattuale e quelli pagati davvero. La cifra in alcuni casi è oscillata tra l'1 e lo 0,7 per mille. In tutti i casi, infine, gli appalti sono stati dati o con assegnazione diretta o con gara informale, piu' trattativa privata. Ma la Corte dei Conti lamenta anche ritardi ed errori nella consegna della documentazione necessaria per il controllo contabile e indicazioni errate degli importi di spesa. Sempre per quanto riguarda la Scuola dei marescialli dei Carabinieri di Firenze, ad esempio, è stata indicata, nella conversione in euro di circa 10 miliardi di lire (10.561.647.502), la cifra di circa 545 mila euro (545.635,71), invece che di oltre cinque milioni (5.454.635,70). Tali errori, che potrebbero sembrare semplici sviste, sottolineano i magistrati, ''potrebbero indurre in ulteriori errori nelle fasi successive dei procedimenti''.
Appello alle amministrazioni. Nella relazione della Corte dei Conti si rivolge dunque un appello alle varie amministrazioni affinchè (perchè ci siano ''positive ricadute sulla trasparenza dell'azione amministrativa'') i provvedimenti di secretazione siano sempre ''adeguatamente motivati'' e nel rispetto delle legge; che in fase di programmazione ''siano dettagliatamente indicate e descritte le opere da eseguir”; che per ''le varianti in corso d'opera si adotti un nuovo provvedimento di secretazione quando le stesse non rientrino nelle ipotesi previste dalla leggè'. Molte variazioni d'opera, infatti, lamentano sempre i giudici, sono state fatte rientrare nella richiesta di secretazione del progetto iniziale pur richiedendone una autonoma.
Alessandro Ferretti, ricercatore
Enzo Scandurra, professore
Claudio Riccio, studente
Noi ricercatori siamo l'università
di Alessandro Ferretti
Nel paese delle iperboli ridicole si dice che i ricercatori sui tetti sono manipolati dai baroni, ma su quei tetti non abbiamo visto alcun barone. Dicono che dal lancio delle uova si passerebbe alle mitragliatrici, come dalle sigarette si passa agli spinelli e dagli spinelli all'eroina. Queste sciocchezze sono un luogo comune quasi impossibile da sradicare.
Da fisico sono però abituato a verificare i fatti per quello che sono e non per quello che potrebbero essere. Perché gli studenti italiani occupano i monumenti? Perché gli studenti inglesi occupano la sede del partito conservatore in segno di protesta contro i tagli all'istruzione e la triplicazione delle tasse universitarie? Entrambi insorgono contro il modello dell'aristocrazia e della baronia culturale fondato sul numero chiuso, sull'estrema selettività, sulle tasse elevatissime. Oggi iniziamo a raccogliere i frutti di un malcontento sociale diffuso. Di tutto questo pochissimi hanno messo a fuoco l'essenziale. Difficile del resto farlo in un paese in cui chi controlla i media, e chi vi ha accesso, non ha la minima idea di quali siano le prospettive di vita e di futuro di uno studente. Giovani brillantissimi e dalle capacità eccezionali hanno come unica opzione quella di lavorare come iperprecari. La riforma Gelmini punta ad abolire ogni speranza mettendo formazione e ricerca nelle mani di coloro che stanno attivamente contribuendo a mantenere, o addirittura ad aggravare, questo stato di cose, inserendo le logiche del profitto al posto dei valori umani di consapevolezza, solidarietà e responsabilità.
Molto si è detto sul taglio del 90% dei fondi per il diritto allo studio. Questo significa che il prossimo anno oltre 100mila studenti non potranno terminare gli studi, magari dopo aver fatto già anni di esami e sacrifici. Senza considerare che gli studenti più sensibili e consapevoli vedono anche altro: gli yacht da 40 metri per cui un pieno di gasolio costa qualche decina di migliaia di euro, le discoteche in cui una bottiglia di champagne costa 500 euro, l'ostentazione del lusso e dello spreco, la corruzione ed evasione fiscale impunite e anzi condonate, l'aumento dei fondi pubblici per le scuole private mentre si tagliano 8,5 miliardi alla scuola e 1,3 miliardi all'università, la privatizzazione di servizi essenziali come trasporti, elettricità, addirittura l'acqua. Il disegno di legge Gelmini che oggi sarà votato alla Camera è solo la miccia che ha fatto esplodere una situazione intollerabile, fondata sulla conservazione di un sistema che giova solo a chi ha già tutto.
Noi ricercatori ci domandiamo quanto sia violento un sistema che non permette ai cittadini di conoscere la realtà in cui vivono, spingendo i più sensibili e consapevoli a disobbedire alle leggi pur di poter sperare di invertire il corso delle cose.
Invece di allontanarci da queste persone abbiamo un altro dovere: non farle sentire sole. Con loro vogliamo interrogarci, capire, dialogare. Se invece cadremo nel facile gioco della stigmatizzazione, allora sì che quelli che oggi scalano i monumenti e i tetti rimarranno soli. E di questo crimine saremo tutti responsabili.
Noi ricercatori e studenti che si oppongono alla riforma le nostre energie le vogliamo impiegare spiegando perché rinunciamo ad una didattica che quasi tutti amiamo fare; perché ci dobbiamo arrampicare sui tetti d'inverno; perché dobbiamo bloccare strade, stazioni ed aeroporti per avere una minima chance di mostrare che esiste un problema alto come un grattacielo che riguarda la possibilità di sopravvivenza della stessa idea di società. Forse perché tutto ciò serve ad evidenziare quanto sia marcio un sistema che si interroga su se stesso solo quando qualcuno arriva ad interrompere l'orchestrina che suona mentre il Titanic affonda.
Io, barone, difeso dai ricercatori
di Enzo Scandurra
Dell'università italiana si può (ed è questo il vero dramma) dire tutto il bene possibile e tutto il male possibile, senza, purtroppo, che nessuna delle due visioni contrapposte sia necessariamente faziosa.
Esistono centri di potere corrotti, così come c'è una valanga di precari, ricercatori, docenti e "baroni" che si prodigano per tentare di farla funzionare. Come ha fatto rilevare anche Walter Tocci si fronteggiano due visioni. Chi vede in questa prestigiosa istituzione nazionale solo gli aspetti malati, di corruzione, di nepotismo e, dall'altra, chi guarda ad essa come un luogo dove ancora è possibile costruire saperi, idee, pensieri non subordinati alle ideologie dominanti. E' ovvio, allora, che le opinioni in merito alla cosiddetta "riforma Gelmini", divergano. I primi optano per una legge "di riforma" di tipo punitivo: distruggiamola, rendiamola impraticabile, così avremo distrutto un centro di potere; insomma usiamo contro l'università gli stessi metodi che usiamo contro la mafia. Si potrebbe addirittura pensare, secondo questa logica, di confiscargli i beni patrimoniali (cosa che in parte sta avvenendo) per darli a organizzazioni non-profit (ammesso che queste ultime riescano a sopravvivere dopo i tagli di Tremonti).
C'è un furore distruttivo nei suoi riguardi che va dai Panebianco ai Rutelli. Peccato, però, che in questo modo si buttano nel fiume i bambini oltre all'acqua sporca. In questo modo, sì, facciamo un vero favore ai baroni, che poi altro non sarebbero che una minoranza di professori ordinari di ruolo (ben protetti dal Ministero) che esercitano il potere di veto nei riguardi di tutte le altre categorie di docenti. C'è, al contrario, una visione opposta (ed è quella di tutti coloro che oggi sono scesi in piazza) che guarda all'università come a un luogo ancora libero, un luogo dove si fa ricerca, dove si preparano le future classi dirigenti per affrontare le sfide sempre più complesse del mondo contemporaneo. Se guardiamo da questa parte gli episodi di abnegazione, di attaccamento al lavoro, di impegno, sono addirittura eccezionali.
La cosiddetta "riforma Gelmini" è un parto malato e velenoso della prima visione, tanto che i danni, indipendentemente dalla sua approvazione - che costituirebbe il colpo di grazia finale - sono stati già fatti. Un miliardo e mezzo in meno di finanziamenti per i prossimi anni, favoreggiamento di università private, telematiche, e quant'altro di oscuro nella formazione superiore, incanalamento su un binario morto degli attuali ricercatori, blocco del turn-over, menomazione del diritto allo studio, riduzione drastica degli assegni di ricerca e così via (un elenco sterminato di provvedimenti punitivi).
Ecco il vero regalo ai baroni che possono insegnare nell'università pubblica e poi correre in quella privata che, badate bene, si mantiene con gli stipendi pubblici dei professori pagati dallo Stato. La Gelmini dice che bisogna ridurre il potere dei baroni e in questa affermazione c'è già tutta la visione punitiva, negativa dell'università (oltre a una insana propaganda di informazione). Ma sapete cosa ha fatto nel frattempo? Le commissioni di concorso per ricercatori e associati, fino a poco tempo costituite da: ricercatori, associati e ordinari, la Gelmini le ha modificate nella loro composizione. Oggi quelle commissioni di concorso sono composte solo da professori ordinari, cioè dai Baroni (per continuare ad usare questo termine ingiustamente dispregiativo nei riguardi di tutti i professori ordinari).
Oggi in piazza non scendono come dice la infame propaganda gelminiana e governativa, studenti e ricercatori che si fanno strumentalizzare dai Baroni (e dai partiti della sinistra). In piazza ci scendo anch'io, professore ordinario da oltre 25 anni; ci scendono coloro che continuano a pensare all'università come a uno dei luoghi dove si produce il futuro della nazione contro i becchini dell'università che a partire dalla loro visione cinica e mortifera la vorrebbero morta e sepolta magari a vantaggio di qualche Cepu, di qualche invenzione di fantasmi di università telematiche e a vantaggio di quei Baroni (questi sì, veri Baroni) che oggi, approfittando della "sospensione didattica", si sono prontamente spostati nei loro eleganti studi delle università private in attesa che la Gelmini restituisca loro tutto il potere.
Ebbene si, gli studenti e i ricercatori che sono scesi in piazza difendono anche me; difendono gli interesse sani del paese, difendono gli interessi di tutti i cittadini che vorrebbero vivere in un paese libero, senza mafie, senza ingiustizie, senza discriminazioni e lottano contro quelli che vogliono invece restaurare privilegi, poteri occulti, favoritismi, clientele. L'università italiana, secondo la cosiddetta riforma Gelmini si trasformerebbe da comunità scientifica transnazionale di studiosi liberi a organismo burocratico amministrativo dove si affermerebbero solo i mediocri e gli affaristi, tutti quelli che sono bravi nel compilare moduli e inutili schede amministrative. Si potrebbe dire ..la chiamavano riforma ed era invece solo una stupida restaurazione di potere. Il che non significa che l'università non avrebbe bisogno di una vera riforma.
Comunque vada abbiamo vinto
Noi non cadremo
di Claudio Riccio
Talvolta gli studenti sanno come disturbare la monotonia del potere. È successo con l'Onda quando l'Italia era ridotta al silenzio dalla schiacciante vittoria del Popolo della Libertà. E' accaduto di nuovo nelle ultime ore quando gli studenti hanno interrotto il vociare della politica del corridoio, l'asfittico posizionamento tra le forze politiche. Abbiamo ripreso parola, strade, piazze, palazzi, facoltà, binari, monumenti. La mobilitazione sul disegno di legge Gelmini ha vissuto giornate ben più difficili e meno entusiasmanti di queste. Quando abbiamo iniziato era il 28 ottobre 2009. Allora abbiamo circondato le prefetture con le tendopoli, mentre il governo avviava l'iter del ddl a suon di spot e celebrazioni. Anche dalla stampa di centro-sinistra giungevano apprezzamenti. Nasceva così un convinto spirito bipartisan. Molti esponenti dell'opposizione pensavano che la riforma Gelmini fosse buona e migliorabile in alcuni punti e, probabilmente, lo pensano ancora. Condivisibile nella sostanza.
Poi è calato un silenzio generale, interrotto dai ricercatori che si sono dichiarati indisponibili, hanno bloccato la didattica, riaprendo uno spazio pubblico di discussione. Non smetteremo mai di ringraziarli della loro indisponibilità. Anche grazie a loro questa riforma non è più bipartisan. Quella che porteremo in piazza oggi è una mobilitazione consapevole, capace di coniugare la radicalità e l'intelligenza strategica, di aprire una grande battaglia sul futuro e al tempo stesso affrontare con competenza il dibattito sulla riforma e sulla sua alternativa. L'abbiamo chiamata «l'Altra riforma». In questi mesi l'abbiamo discussa in tantissime assemblee con studenti e ricercatori.
Da questa base ripartiremo per ampliare gli spazi di democrazia e trasparenza che il ddl Gelmini restringe. Ridefiniremo gli organi collegiali. Proporremo l'introduzione di strumenti di democrazia diretta come il referendum studentesco, mutuandolo dal mondo del lavoro.
Il ministro Gelmini ha smantellato il diritto allo studio, ha tagliato l'89% delle borse di studio nel 2011. L'AltraRiforma, invece, prevede investimenti tali da raggiungere la copertura totale delle borse, estende i parametri di reddito, costruisce un nuovo welfare per i soggetti in formazione. Quella che vogliamo garantire a tutti gli studenti è l'autonomia di scelta, liberandoli dalla logica familista che governa lo stato sociale, e non solo l'università.
Se la Gelmini è stata l'utile idiota complice di Tremonti e dei suoi tagli, noi proponiamo di aumentare gli investimenti nell'università e nella ricerca a livello della media Ocse. Ma questo non basta. Noi chiediamo molte più risorse di quel che tutti dicono servire. Serve cambiare lo stato sociale, disegnare un nuovo modello di produzione. Per tutto questo servirà una gestione trasparente e controllata delle risorse pubbliche, non il gioco delle tre carte che il governo e Futuro e Libertà stanno facendo per dimostrare che questa riforma è meglio di niente.
Abbiamo bisogno di tempo e dobbiamo dare tempo ai ricercatori per sbagliare, provare e riprovare. Solo questo tempo di attesa può garantirci un futuro. Non l'ossessione dei tagli. Quella serve solo ad avere paura. Scendiamo in piazza sapendo di aver riaperto uno spazio pubblico, di aver resistito all'esproprio della politica da parte di una classe dirigente incapace ed avida, abbiamo iniziato a costruire un'alternativa alla fuga. Comunque vada è già un successo. Perché il governo può cadere, noi no.
*portavoce nazionale Link - coordinamento universitario
Le chiamano “bombe d’acqua”, sono precipitazioni intense quanto quelle di un anno intero e concentrate in un fazzoletto di poche centinaia di metri quadrati. Spianano le culture e sfondano i tetti delle costruzioni. Frequenti nelle aree subtropicali, abbiamo cominciato a fare la loro conoscenza nell’ultima alluvione nel Veneto. I meteorologi ci dicono che sono una conseguenza del fatto che l’aria calda trattiene più vapore acqueo di quella fredda. Scrive Bill Mc Kibben (Terra, Edizioni Ambiente, 2010): “Nelle zone aride aumenta l’evaporazione e quindi la siccità. Quando poi finisce nell’atmosfera, prima o poi l’acqua torna giù”. Ecco spiegato molto semplicemente il fenomeno per cui le precipitazioni totali su alcuni aree del pianeta sono aumentate di molto con eventi meteorologici estremi: temporali che in un solo giorno rovesciano decine di centimetri di pioggia. Ne sanno qualcosa le popolazioni dei comuni della pedemontana veneta da quindici giorni impegnati a svuotare cantine e riparare tetti. (Vedi i resoconti nel sito di Carta Estnord: due morti, migliaia di sfollati, decine di migliaia di case allagate, un miliardo di danni).
E’ incredibile come nemmeno di fronte ad eventi così evidenti non vi sia alcuna capacità (nei mass media e nelle forze politiche mainstream) di connettere i sempre più frequenti disastri “locali” alla catastrofe naturale globale in corso. Ci si azzuffa con “Roma ladrona” per ottenere qualche milione di risarcimenti, al massimo ci si lamenta per i mancati interventi di manutenzione delle opere di regimentazione delle acque, ma nessuno prende parola per denunciare lo scandalo di un governo che rema contro le pur insufficienti e balbettanti iniziative dell’Unione Europea sulle emissioni di gas serra. Sembra che gli ultimi negazionisti delle cause antropiche del caos climatico siano annidati nel Ministero dell’Ambiente italiano, oltre che in Polonia. Ma se ai polacchi possiamo concedere la giustificazione della necessità di sfruttare le miniere di carbone, per l’Italia la presenza dell’immarcescibile direttore generale Corrado Clini, plenipotenziario per i negoziati sul clima da Kioto a Copenaghen, dimostra che tutti i governi succedutesi di centrosinistra e di destra sono rimarti succubi ai voleri degli intoccabili padroni dell’energia: dall’Eni di Scaroni alla Sorgenia di De Benedetti, dalla Saras di Moratti agli inceneritori della premiata ditta Marcegaglia. Per non ricordare che gli italiani detengono i primati mondiali di produzione pro capite di cemento e di automobili in circolazione. Il nostro, cioè, è il modello industriale più energivoro che si possa immaginare. L’urgenza di una sua riconversione (variamente ricordata dagli scritti di Guido Viale e da pochi altri economisti) viene quotidianamente negata dalle politiche economiche governative e confindustriali. Questa è la prima ragione del declino economico e del disastro ambientale in Italia.
Anche per queste “peculiarità” nazionali, il percorso di avvicinamento a Cancun nel nostro paese deve essere più impegnativo; deve rompere il velo di ignoranza e di omertà calato sulle questioni climatiche. A questo scopo è nata una rete (Rigas) molto vasta di associazioni e comitati che prepara il contro-vertice di Cancun con varie iniziative, così come già successe lo scorso anno in occasione del precedente “incontro tra le parti” di Copenaghen.
Innanzitutto va richiamata l’attenzione sui rischi che l’umanità sta incorrendo. Il più accreditato climatologo del mondo, scienziato della Nasa, James Hansen (Tempeste, con introduzione di Luca Mecalli, Edizioni Ambiente, 2010) ci avverte che se dovessimo continuare a bruciare tutti i combustibili fossili che conosciamo - e che con tanto accanimento cerchiamo di estrarre in fondo agli oceani e tra le rocce bituminose - “le calotte glaciali si fonderebbero completamente con un innalzamento finale del livello del mare di 75 metri e gran parte di questo processo si svolgerà nell’arco di qualche secolo”. Spiega bene Mc Kibben: “Siamo all’inizio del cambiamento più vasto e profondo mai registrato nella storia dell’umanità, pari solo a quei grandi pericoli che abbiamo potuto leggere nelle tracce lasciate nelle rocce e nel giaccio (…) Non si tratta di un cambiamento transitorio, è la Terra che sta mutando (…) La calotta polare artica si è ridotta di 2,8 milioni di chilometri quadrati, più di quanto sia mai stato registrato nella storia (…) I tropici si sono espansi di due gradi di latitudine a nord e a sud, con la conseguenza che alla fascia climatica tropicale si sono aggiunti altri 22 milioni di chilometri quadrati. A conseguenza di ciò, le regioni subtropicali aride si spostano ora verso nord e verso sud, con gravi conseguenze per i milioni di persone che vivono in queste regioni aride di recente formazione (…) Le barriere coralline cesseranno di esistere come strutture fisiche entro il 2100, forse 2050”.
Tutti gli altri effetti sugli ecosistemi si possono trovare ben elencati e classificati nell’ultimo Living Planet Report del WWF 2010 (anno internazionale della biodiversità): l’indice del pianeta vivente continua a scendere mentre la pressione antropica sulla biosfera (impronta ecologica) continua a salire.
La rivista “Nature” ha pubblicato studi in cui si rivela che l’ultima volta in cui i livelli di anidride carbonica nell’atmosfera raggiunsero i valori simili a quelli attuali (390 parti per milione) fu circa 20 milioni di anni fa; ma allora il mare salì di 20 metri e le temperature di 10 gradi centigradi.
Conclude Mc Kibben: “L’Olocene è ormai agli sgoccioli e l’unico mondo che gli umani hanno conosciuto all’improvviso vacilla”. L’Olocene è la nostra era geologica, il cui inizio è stato fissato 11.700 anni fa, all’interno della quale si è potuta sviluppare la civiltà umana ad iniziare dal neolitico, 7.000 anni fa.
Insomma, di fronte a mutamenti irreversibili così sconvolgenti, servirebbe una energia positiva inversa: una rabbia benedetta, una santa indignazione… una sollevazione morale capace di imporre l’obiettivo del rientro delle emissioni in atmosfera di CO2 nella soglia delle 350 parti per milione per contenere l’incremento della temperatura ad un grado massimo centigrado a fine secolo. A partire da questo obiettivo sarebbe possibile declinare una serie di politiche specifiche. Basti pensare che il settore agroalimentare (e della carne in particolare) genera da solo tra il 40 e 50% delle emissioni globali di gas serra. Pensiamo poi ai trasporti, all’edilizia, all’energia… Per ogni settore, in ogni parte della terrà sarebbe necessario calcolare i flussi di materie e di energie impegnati nei cicli produttivi e di consumo e pianificarne la loro riduzione; ricalcolare il “metabolismo sociale” (come dice Joan Martinez-Alier, L’ecologia dei poveri, Jaka Book, 2010) di ogni attività umana in funzione della sostenibilità ambientale e tenendo conto dell’equità sociale. Politiche ambientali e politiche sociali si devono sposare. Sono noti gli enormi squilibri nella produzione pro-capite di gas climalteranti tra i vari paesi del mondo e, al loro interno, tra le diverse classi sociali. Peggio ancora: nessuno calcola che in realtà la grande parte di emissioni di CO2 nelle “fabbriche del mondo” in Cina o India in realtà è dovuta alla produzione “delocalizzata” di merci che consumiamo in questo emisfero del pianeta e che quindi andrebbero correttamente addebitate a noi, non a loro (“emissioni per procura”). Vanno poi calcolati anche i debiti climatici accumulati dalle società del nord del mondo in secoli di saccheggio e di colonizzazione del sud.
A Cancun sappiamo già cosa (non) accadrà. Avremo la conferma che dall’alto, dai vertici, dalla governace mercatoria, nulla di buono può venire per i cittadini del mondo, per i commoners espropriati dall’uso dei beni comuni della terra: dopo il suolo, l’acqua e l’aria. Anche questa volta dovremmo cominciare dal basso, a “fare la rivoluzione” in casa nostra, a partire dal rivendicare piani energetici comunali che rispettino gli obiettivi di Kioto sul modello delle Transition Town, filiere agroalimentari corte, zero sprechi e zero rifiuti, acqua in caraffa, più piste ciclabili e aree pedonali, certificazioni delle abitazioni… insomma una vera e profonda riconversione ecologica dell’economia, degli stili di vita, delle istituzioni pubbliche.
Le transizioni sono momenti particolari e strani. Assomigliano alla luce dell´imbrunire che tende a ingannare le nostre percezioni visive sull´identità dei colori e degli oggetti. Così è per l´attuale fase politica del nostro paese, che è critica ma non ancora di crisi, diretta verso una transizione al dopo-Berlusconi senza essere ancora di transizione. Un´ambiguità che offusca non soltanto gli scenari politici ma suprattutto la realtà della società e del Paese, la quale è invece molto poco ambigua se mostrata e raccontata, come si vede in questi giorni. Inchiodati da settimane a questa altalena sui possibili scenari del dopo-Berlusconi, sarebbe salutare invece spostare i riflettori sui problemi degli italiani costretti ad assistere a questa commedia seduti in ultima fila, mentre avrebbero il diritto di portare a conoscenza del pubblico gli effetti reali che questa maggioranza ha avuto sulla loro vita. Il successo travolgente della trasmissione di Fabio Fazio e Roberto Saviano è il segno di un bisogno di informazione. Bisogno di conoscenza di ció che pertiene alla vita quotidiana di tutti noi: cose che da due anni e mezzo sono scomparse dalle prime pagine e dalla politica.
Se è precipitoso ragionare in termini di dopo o post, è molto più interessante e utile parlare del governo che c´è: di quello che ha fatto e che fa, di quello che ha taciuto e tace, di quello che ha stravolto e stravolge. Di come è l´Italia a due anni e mezzo del terzo governo Berlusconi. Il premier, per il suo carattere e gli interessi che esprime e deve difendere, sembra poco agevolmente disposto a lasciare che la crisi segua i percorsi che le norme e le consuetudini hanno regolato in questi decenni di vita repubblicana. Ma l´eccezionalità di questo governo non sta solo nell´anomalia della sua annunciata infinita agonia. Essa gli appartiene fin dal suo insediamento, nella primavera del 2008. Da quando è sorta, è apparso chiaro che questa non sarebbe stata una maggioranza come le altre. L´eccezionalità ha fatto parte dell´identità di questo governo fin dalle sue prime battute. Eccezionalità sfruttata a proprio vantaggio, come la campagna sui rifiuti di Napoli sulla quale il governo Berlusconi volle seppellire il governo Prodi promettendo di avere la soluzione pronta. Eccezionalità creata ad arte, come la prima battaglia che il governo lanciò, quella sulla sicurezza, sui respingimenti dei migranti, sulle ronde, disposto anche a esaltare e ingigantire i problemi per presentarsi poi come governo dell´ordine. Eccezionalità naturale: la terza battaglia fu l´emergenza terremoto; l´Aquila diventò il palcoscenico del Primo ministro e il dramma di chi aveva perduto tutto, una straordinaria occasione per creare l´immagine di un governo efficiente e veloce.
In tutti questi casi, l´emergenza è stata senza soluzione ed emergenza è rimasta. I rifiuti sono al punto in cui erano due anni e mezzo fa. La sicurezza è stata nel mirino del governo per accattivare l´opinione pubblica, mentre nei fatti ha contribuito a fagocitare una cultura del razzismo che non ha aiutato per nulla a creare un clima di sicurezza. E infine l´Aquila. Una situazione eccezionale perché sembra che un terremoto sia avvenuto ieri: le macerie sono ancora dove erano, la città è ancora abbandonata. Consegnate le case prefabbricate provvisorie come fossero per sempre e per tutti, il premier ha spento e fatto spegnere i riflettori su quella gente e quelle macerie. Sembra difficile trovare un senso a questo governo che non sia quello dell´eccezionalità, fabbricata ad arte, alimentata, mantenuta. Ma la logica dell´emergenza è che, se tale deve essere, non può passare mai. L´emergenza è come fermare l´orologio: impedire che dall´emergenza si snodi l´evoluzione del caso e diventi un problema da risolvere. Emergenza permanente significa anche notizia spettacolare dell´evento, solo dell´evento. Il ritmo dell´attuale crisi ha lo stesso carattere: per ragioni di comportamento personale legato alla sua ben nota fama di ‘amante´ delle donne o per ragioni di legalità (quelle che compromettono spezzoni importanti del suo partito) o per l´emergenza processi (i processi del premier, che tengono in sospeso l´intero Paese e condizionano la vita del governo), l´Italia è tenuta in permanente stato di fibrillazione. Ma questo piano può funzionare fino a quando il Paese è tenuto fuori dalla porta, non messo in prima pagina; fino a quando è condannato ad assistere passivo, senza essere oggetto diretto di analisi e di attenzione. Come gli studenti universitari che sfidano la Ministra Gelmini stanno dimostrando: è necessario fare cose eccezionali perché i cittadini abbiano ascolto, perché le loro ragioni non siano derubricate come insensate e oscurate dai media. Perché sulle prime pagine ci siano solo i problemi di una maggioranza in crisi permanentemente annunciata. Per uscire dalla quale (o renderla effettiva), una strada da percorrere è proprio quella di sabotare questo piano di regia puntando i riflettori su quello che è l´Italia, sul reale dissenso e dissesto, su come sia diventata la società dopo due anni e mezzo di un governo che genera emergenza.