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Metti un sabato di fine autunno. Dopo Cristo. Arrivi agli scavi di Pompei, che magari non rivedevi dalla gita scolastica, e già t'hanno scavato via 71 euro. Undici il biglietto d'ingresso e vabbè; sessanta di taxi dall'aeroporto di Napoli. Venti minuti scarsi di tragitto. Ma come, chiedi all'autista, il tassametro segna 29... Lui ti dettaglia tutta una serie di esoteriche maggiorazioni. Non solo. Dice che devi ritenerti fortunato. Perché, nel giro, c'è chi spinge sul pedale tariffario sino a ottanta, novanta pezzi. Con gli stranieri. Scendi senza chiedere lumi aggiuntivi e quasi contento che, per una sorta di stravolto patriottismo, ti sia stato praticato lo sconto.

Tempo pochi minuti, e Pompei riprende il lavoro di scavo. Per una visita di circa due ore - è una tabella ad avvisarti - una guida autorizzata costa 106 euro. Ma ottanta con lo sconto. Pagamento informale. Che oltrettutto, spiega l'autorizzato, ti permette di non fare file e vedere posti particolari. In che senso? Normalmente chiusi. Ergo: in forza di una stravolta sofistica, se paghi di più vedi meno e male, da livido uomo massa; se invece paghi meno, vedi meglio e di più: scorci, emozioni, intérieurs (pseudo) esclusivi.

Se è così, perché diamine pagare di più? Finisce che rifiuti ogni Führer. Tua unica guida sarà quella cartacea portata da casa. Al limite il formidabile libretto Pompei com'era/com'è, con le foto delle vestigia alle quali sovrapponi i disegni delle ricostruzioni stampati su fogli trasparenti. Effettaccio artigianale che tanto ci faceva fantasticare da ragazzini e che nemmeno le magie del digitale son riuscite a scalzare dal commercio: il volume è ancora in vendita.

Ma oggi a Pompei le attrazioni sono altre. Non tanto le rovine, quanto le rovine delle rovine. Senti turisti italiani chiedere ai custodi: Scusi, vado bene per il crollo? Sempre dritti. Per vedere cosa? Alte transenne e, in lontananza, una triste duna di detriti. Quanto resta della Domus dei Gladiatori, venuta giù il 6 novembre, e della contigua Casa del Moralista, sei-sette metri di opus incertum collassati cinque giorni dopo. Davanti alle domande dei visitatori, un guardiano nicchia omertoso. Minimizza: "Bondi? Macché, qui i crolli ci sono sempre stati". "Sì, il primo nel 79 dopo Cristo" lo sfotte un collega. Eppoi ti spiega che i cumuli di terra smottano sulle vestigia perché si gonfiano d'acqua piovana. Mancano le canalizzazioni per farla defluire. Ma la pioggia esiste da prima di Bondi, gli fanno notare. "Sì, però un tempo c'era almeno una squadra di manutenzione permanente. Muratori, fabbri, idraulici... Una trentina di persone esperte. Funzionavano come una specie di pronto soccorso. Via via sono andate in pensione. Nessuno le ha sostituite". Quanto alla preparazione del personale, aggiunge: "Per i custodi non c'è uno straccio di corso di lingua. Io l'inglese l'ho studiato da me. Perché ce le vorrai rispondere due parole a uno che ti chiede Where is the house of Polibio? O no?".

A proposito della Casa di Polibio. È tra le più famose. Ma oggi è chiusa (come il 95 per cento delle altre): visitabile solo su prenotazione. Eppure negli ultimi anni è diventata un posto animato. Con tanto di animatore vestito da antico pompeiano, che accoglie i turisti dicendo: Benvenuti. Io sono Polibio e questa è la mia casa. Poi fa strada tra i vani. "Una versione nostrana di centurioni e gladiatori che trovi davanti al Colosseo" sorride Luigi Garzillo, autoctono, da poco a riposo, ma per oltre trent'anni dirigente a Pompei dell'Azienda di cura, soggiorno e turismo. "C'è stata una deriva "Eurodisney". Fatta di folklore, operazioni di facciata. Mentre l'area archeologica avrebbe innanzitutto bisogno d'un minimo di buon senso. A partire dalle guide. Oggi sono gestite da un manipolo di società, più o meno ammanigliate con le amministrazioni. E tra loro è guerra fra bande. Corsa all'accaparramento del turista appena si materializza ai cancelli. Non c'è uno sportello, un servizio prenotazioni per lingue. A lungo abbiamo proposto di disciplinare le visite guidate: dalla Regione nessuna risposta. Qui sbarcano due milioni e mezzo di persone l'anno, nei mesi di punta ottomila al giorno. Ma il visitatore è abbandonato a se stesso". In più, i guardiani (quelli ai quali sganciavi un'umanissima mancetta per farti aprire qualche lucchetto) sono sempre meno. Adesso, di turno in tutta l'area - 66 ettari - ce ne saranno una trentina. In quattro, cinque ore di visita li incontri praticamente tutti. Stanno in capannelli, soprattutto lungo via dell'Abbondanza, a sorvegliare il neoturismo del crollo (l'altro giorno, in sopralluogo, c'era una delegazione della Cgil capitanata dal segretario Susanna Camusso, che interveniva al poco rassicurante convegno: Pompei, tra crisi e degrado).

Oppure i custodi li trovi dalle parti del Foro, in prossimità dell'unico bar ristorante dell'intera zona archeologica. Un posto moderno. Ci si mangia come in autostrada. Se non altro perché l'hanno dato in concessione alla società Autogrill. Fuori, sonnecchiano alla spicciolata alcuni cani. Randagi ma con collare. Sono, notoriamente, i nuovi abitanti della Pompei antica. Quando a sera le rovine chiudono, loro restano. Padroni del buio. Qui li chiamano cani archeologici. O archeo-cani. Li hanno dipinti come ringhianti fiere da spettacoli gladiatori. Esagerando. Se lo incontri da solo, mentre girella e grufola tra le vestigia, l'archeo-cane è generalmente mansueto. Ti sgancia occhiate gandhiane. Seguendoti o tirando dritto per i suoi oscuri destini. Casomai il bullismo scatta in presenza del branco. Il quale si forma senza preavviso, come uno scroscione d'estate. Una prova? Tra le bancarelle all'entrata, assistiamo alla scena di sei o sette bestie che, con sguardo da Arancia meccanica, costringono alla ritirata un paio di zampognari colpevoli solo d'una sciancata esecuzione di Tu scendi dalle stelle.

Anche per scoraggiare simili soperchierie è stato varato il piano (C)Ave Canem. Che con un astuto gioco di parole tra ammonimento e benvenuto, ha portato al "censimento, vaccinazione, cura e sterilizzazione" della popolazione quadrupede. Nonché all'adozione, presso famiglie, di alcuni dei suoi esponenti. Ma di animali a zonzo ne restano. E ogni tanto tornano a cedere all'hoolicanismo. Talvolta, chissà perché, innescato dalla musica: "Anni fa, una bestia salì sul podio di Riccardo Muti al Teatro Grande. Non voleva andarsene. Lui fu costretto a interrompere il concerto. Era seccato assai" ricorda Luigi Garzillo. E rilancia: "Perché, invece di un cane, non facciamo adottare una casa pompeiana, magari a fondazioni e università straniere? Qui sono sempre mancati i soldi. Non è forse venuto il momento di rendere Pompei una questione internazionale, tipo Venezia o Firenze?".

Malgrado tutto, seguiti ad aggirarti tra i ruderi con l'intatta emozione della prima volta. Quando posti come il lupanare erano ancora vietati ai minori, per via dei porno murales. La censura è ovviamente decaduta. Epperò il bordello non smette di esercitare sui visitatori una fascinazione piccantina. È forse l'angolo più richiesto di Pompei. Vedi ciceroni additare i giacigli in pietra annunciando: "Qui gli antichi lo facevano" (gridolini di stupore); poi indicare il buco della vetero-latrina: "Qui gli antichi la facevano" (risatine). All'entrata c'è scritto che nel lupanare possono entrare solo dieci turisti alla volta e che i flash sono proibiti. Dentro contiamo però una ventina di persone. Tra i lampi fotografici.

Proseguendo troviamo una strada sbarrata da transenne pre-crolli. A un signore, che non è una guida ma ha l'aria disinvolta, chiediamo: Come si fa a passare di là? Lui: "Così". Apre le transenne e ci scorta dall'altra parte. Telecamere? A Pompei non è che non ce ne siano. Ma sempre meno che in un qualunque shopping center. Poche settimane fa, un giornalista del Mattino ha raccontato di essersi portato via un bel po' di tessere del mosaico ittico che decora la fontana del Vigneto del Triclinio Estivo, vicino alla Palestra Grande. Stavano ammucchiate in un angolo. Poi le ha restituite. Perché non si fa. Ma anche a scanso d'altre rogne: sui profanatori di Pompei pende infatti una specie di maledizione alla Tutankamon. "Non sa quanti stranieri impauriti mi rimandavano indietro, per posta, le pietruzze che avevano sgraffignato" racconta Garzillo.

Fra ataviche querelles, s'è fatta ora di pranzo. E qua si disegna un dilemma. Se non vuoi mangiare all'Autogrill, che fai? Il biglietto d'ingresso non dà diritto a rientrare. Almeno in teoria, argomenta un usciere. Nella pratica, ti spiega che puoi farlo. Ma attenzione: Solo per un panino. Insomma, 'Na cosa ambress. Domanda: se non ti rilasciano una contromarca né ti timbrano l'avambraccio tipo all'uscita dalle disco, come fanno a distinguere chi s'è fatto un panino da quello che s'è attardato in crapule di paccheri e delizie al limone? Risposta: Tu nun t'a preoccupà. Ci ricordiamo le facce. Perciò usciamo facendo un'espressione "da panino". Mentre, sotto l'usato Borsalino, il dottor Garzillo ha il volto amaro del vecchio umanista meridionale smarrito in un evo incertum.

Poco più di un mese fa, il 4 novembre una vera e propria alluvione si è abbattuta sul Veneto. 121 comuni colpiti per un totale di più di 500 abitanti; oltre 3000 sfollati, devastati migliaia di ettari di zone agricole, annegati 150 mila animali d'allevamento. La cementificazione selvaggia ha colpito duramente il paesaggio veneto, riducendolo ad un disordinato affastellarsi di capannoni industriali dismessi e ad un triste sequenza di nuovi ipermercati che stanno svuotando il tessuto produttivo delle sue meravigliose città.

E, almeno stavolta, tutti o quasi erano d’accordo nel dare la colpa al cemento. Sforzo inutile, perché proprio nei giorni delle piogge usciva il nuovo numero di ottobre-novembre del Giornale dell’Architettura che denunciava l’incombere sulle residue campagne venete una dose devastante di cemento e asfalto. Andiamo con ordine. Nei comuni di Vigasio e Trevenzuolo, vicino a Verona, attende di essere costruita Motorcity, che cementificherebbe 458 ettari di terreno agricolo (un campo di calcio misura un ettaro, per dare un’unità di misura) per farci un autodromo, ipermercati, alberghi e abitazioni per un totale di 7 milioni di metri cubi di cemento. Ad Arino, vicino a Venezia, il pretesto è la costruzione di “una vetrina di eccellenza veneta” fatta di immancabili ipermercati, alberghi e abitazioni: 56 ettari di suoli agricoli verranno seppelliti sotto 2 milioni di metri cubi di calcestruzzo. A Verve, nel Brenta, è in partenza la “città della moda”. Inutile dire che conterrà ipermercati, abitazioni e alberghi. Qui i metri cubi previsti sono 185 mila su 12 ettari. Portogruaro e Fossalta, a nord di Venezia attendono un “parco industriale integrato” da ipermercati che si svilupperà su 160 ettari per oltre 3 milioni di metri cubi, premiato addirittura dall’Inu, storica istituzione che fu di Olivetti. A San Bellino, provincia di Rovigo, 23 ettari per un parco logistico rigorosamente “ecosostenibile”, così la speculazione si è impadronita delle nostre parole, per un previsione di mezzo milione di metri cubi. Sempre in provincia di Rovigo, ad Arquà Polesine, altro polo logistico completo di ipermercati: 140 ettari e 1 milione e mezzo di metri cubi di cemento. Infine in ampliamento dell’aeroporto veneziano Marco Polo, 2 milioni di metri cubi faranno sparire 200 ettari di preziosa campagna: però sorgerà un magnifico parco giochi stile “Las Vegas” ci dicono le schede che non hanno ritegno a definirla come la “nuova porta di Venezia”. .

Più di mille ettari di suolo ancora incontaminato verranno cementificati mentre il paesaggio veneto è caratterizzato da centinaia di capannoni vuoti. Se dunque questi moderni “imprenditori” non fossero speculatori immobiliari e se esistessero ancora amministrazioni pubbliche non sottomesse al dominio del mattone, quelle attività imprenditoriali verrebbero indirizzate sui terreni già edificati e dismessi. Ma non è così. In Italia l’unico motore dell’economia sono i giganteschi guadagni che si fanno senza sforzo comprando a quattro soldi terreni agricoli per poi “valorizzarli”, tanto l’urbanistica è stata cancellata e non ci sono più regole ad arginare la speculazione.

Speculazione che è fatta di nomi impressionanti. La società Autodromo del Veneto; la Veneto city spa; Monte dei Paschi, Unicredit e San Paolo; Pirelli RE; non potevano mancare gli sceicchi della Dubai Word; la Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e la Mip enginering; la Savem, società che gestisce lo scalo aeroportuale veneziano. Ha ragione Marco Paolini, che nel suo recente monologo “Bisogna” tenta disperatamente di denunciare questi misfatti che cancelleranno quanto resta della campagna veneta. E tutto ciò avviene in un territorio già devastato che non resiste neppure ad una pioggia più violenta del solito. La speculazione immobiliare locale e internazionale, padrona incontrastata di questa Italia senza regole, sta divorando tutto ciò che capita, compromettendo il futuro delle prossime generazioni. Dobbiamo bloccare la cementificazione di terreni agricoli e indirizzare questi investimenti -ammesso che siano veri- verso le aree già edificate da riqualificare. Lo fanno in tutta Europa.

Per farlo ci vorrebbe un’opposizione politica, visto che quella sociale esiste già da tempo e chiede il blocco dello spreco del territorio. Ma il consenso unanime verso la speculazione è testimoniato da un fatto simbolico: il candidato al Parlamento dell’opposizione (sic!) in quelle contrade era Massimo Calearo che oggi ha permesso un’ulteriore breve vita al governo che ha cancellato ogni regola urbanistica. L’aveva scelto l’indimenticabile sindaco di Roma Veltroni che prima di consegnare la città ad Alemanno ha regalato alla sua città un piano regolatore che prevede 70 milioni di metri cubi di costruzioni! Tutti uniti nel cemento, dunque, mentre l’Italia va alla deriva.

Ascoltato Maroni che si lamenta della magistratura e osservate le mosse di Alfano che ordina un´ispezione ministeriale, si deve concludere che il governo non ha capito o non vuole capire che cosa è accaduto a Roma il 14 dicembre. Peggio, sembra non comprendere che cosa può accadere mercoledì prossimo quando al Senato sarà approvata definitivamente la "riforma Gelmini". Questo provvedimento ormai non parla più soltanto dell´università o agli studenti e ai ricercatori.

È diventato il simbolo della crisi di una generazione e del suo futuro. Si è trasformato nella rappresentazione dell´indifferenza dei governanti per i governati, dell´incapacità del potere di ascoltare chi è in difficoltà e impaurito. È ormai l´allegoria del disinteresse della politica per la sofferenza del mondo del lavoro, per lo smarrimento di chi, colpito da una catastrofe (un terremoto, la crisi dei rifiuti), è stato abbandonato a se stesso.

Il 14 dicembre a Roma non è accaduto soltanto che un gruppo di violenti si sia impadronito della protesta e - poi - la violenza di ogni ragione. È accaduto che per la prima volta nei modi del tumulto (lasciamo perdere l´esasperazione di chi parla di «guerriglia») ha preso forma pubblica e collettiva un rancore senza speranza, la rabbia di un Paese incattivito, socialmente fragile, segnato «da forme sommerse di deprivazione, di vera e propria povertà e soprattutto di impoverimento», come documenta Marco Revelli nel suo Poveri, noi. Un Paese dove il prezzo della crisi - e delle soluzioni preparate dal governo - cala come un maglio sulla vita e sulle aspettative soprattutto dei più giovani. Le statistiche ufficiali ce lo raccontano. Per l´Osce, nei 33 Paesi maggiormente industrializzati, l´Italia è al penultimo posto per l´occupazione giovanile con il 21,7 per cento di occupati: soltanto uno su cinque lavora. Tra chi è occupato il 44,4 per cento ha un lavoro precario e il 18,8 lavora part-time. Tra chi è disoccupato, il 40 per cento lo è da lungo tempo e il 14,9 ormai non studia né lavora. D´altronde - dice Marco Revelli - «l´80 per cento dei posti di lavoro perduti tra il 2008 e il 2010 riguarda i giovani, quelli che erano entrati per ultimi nel mercato del lavoro, attraverso la porta sfondata dei contratti atipici, a termine, a somministrazione, a progetto... Precari nello sviluppo, disoccupati nella crisi, senza la copertura degli ammortizzatori, spesso senza neppure un sussidio minimo. I più istruiti e altamente qualificati, quelli che appartengono al "mondo dei cognitivi", alle nuove professioni come l´informatica, sono ormai ridotti a sottoproletariato».

Se rimuove questo quadro, il governo si impedisce di comprendere, ammesso che lo voglia, le ragioni della violenza. Non le ragioni di chi, vestito o no di nero, centro sociale o "cane sciolto", vuole "stare in piazza" con le pratiche dei black bloc e, prigioniero di un freddo nichilismo, non si fa alcuna illusione sulla democrazia e pensa - come il "blocco nero" - che «la violenza non sia un problema morale, è semplicemente la vita, il mondo in cui siamo capitati che non lascia altra strada che l´illegalità».

Queste ragioni sono inaccettabili e questa violenza va anticipata, isolata e ogni illegalità punita. È un´operazione che può avere un esito positivo soltanto se - in tutti coloro che il 14 dicembre non si sono opposti o hanno addirittura approvato quelle violenze - si alimenta una speranza nella democrazia e la fiducia nel dialogo con le istituzioni; se si attenua la convinzione diffusa in una larga fascia di giovani (16/35 anni) di essere le vittime sacrificali del declino, le anime morte della crisi.

Il messaggio che ieri il governo ha voluto diffondere è stato di segno opposto. Come se la crisi sociale rappresentata il 14 dicembre potesse essere affrontata come "questione di ordine pubblico", Maroni e Alfano hanno voluto dire soltanto della forza, con quale violenza e determinazione il governo avrebbe affrontato l´emergenza di nuovi tumulti. Lo hanno fatto nei soliti modi di un governo che crede in un diritto diseguale e immagina, per i potenti, un diritto debole e per i deboli leggi e dispositivi brutali. Questi campioni del "garantismo" che chiedono legittimamente per Cosentino, Dell´Utri, Verdini, Bertolaso l´accertamento della responsabilità personali, la verifica della fondatezza delle accuse e dell´attendibilità delle fonti di prova pretendono, abusivamente, un lavoro all´ingrosso per i giovani e giovanissimi arrestati a Roma l´altro giorno. Invocano, al di là delle prove, una detenzione esemplare non per le dirette responsabilità degli indagati, ma per le colpe di chi è riuscito a farla franca come se la stessa presenza a una manifestazione travolta dalle violenze sia già una prova di colpevolezza. Un´idea autoritaria che trova la sua dimostrazione nella insensata proposta del sottosegretario all´interno Alfredo Mantovano di allargare il "divieto di accedere alle manifestazioni sportive" (il D. a. spo.) dagli stadi alle piazze, come se una manifestazione di dissenso possa essere paragonata a una partita di calcio.

È l´avvilita idea di democrazia della destra berlusconiana. Ci deve consigliare attenzione perché non sarà con la forza e con "la repressione", invocata già a caldo dal ministro Sacconi, che si verrà a capo della crepa che si è aperta tra le generazioni più giovani e le istituzioni. Sarebbe azzardato e imprudente se un governo politicamente e socialmente debole decidesse di rafforzare se stesso allargando quella ferita, accendendo la collera invece di raffreddarla prestando ascolto alle ragioni del disagio.

Appennino Pistoiese, è mezzanotte di giovedì, la luna splende in un gelido cielo, non c’è da credere che domani nevichi, ma si sa, oggi le previsioni meteo sono quasi infallibili. A guardar bene c’è un sottile velo di cirrostrati che avanza da occidente, appena un alone attorno alla luna, eccolo lì l’indizio. Alba di venerdì 17, cielo plumbeo e primi fiocchi, alla stazione di Prato comincia a imbiancare per terra. Treni in ritardo, anche il mio intercity da Napoli, dove tuttavia non nevica e ci sono tre gradi. Passato l’Appennino i prati sono verdi, a Bologna termometro a meno quattro, qualche fiocco svolazzante e altri treni in ritardo.

La neve ricompare a Forlì e a Rimini ce ne sono dieci centimetri, un paesaggio fiabesco che prosegue lungo un ceruleo Adriatico fino in Puglia, dove però la nevicata si era fatta vedere soprattutto mercoledì e giovedì: a Bari appena una spruzzata. E non è certo la prima volta che le spiagge e l’entroterra pugliesi si imbiancano all’inizio dell’inverno: il 15 dicembre 2007 si verificò la fioccata più abbondante degli ultimi anni, con 15 centimetri di manto a Foggia e perfino una trentina nell’entroterra barese. Per non parlare del 1993, quando il 2-3 gennaio le stesse zone furono coperte da mezzo metro di neve sotto le gelide correnti balcaniche.

Ma allora perché ogni volta improvvisamente tutto si complica e diventa difficile, e per una decina di centimetri di neve anche l’informazione assume contorni apocalittici? Nemmeno si può invocare la sorpresa, perché le previsioni l’annunciavano da tre giorni. Sarà forse perché il nostro contatto con l’ambiente naturale si è affievolito, completamente allontanato dai nostri ritmi quotidiani fatti di affari sempre più cittadini, corse contro il tempo, realtà virtuali, fiumi di telefonate e valanghe di Internet, dove improbabili spot pubblicitari inneggiano ad automobili senza limiti che arrampicano impavide sul ghiaccio e contrastano con la goffaggine quotidiana di chi non riesce nemmeno a uscire dal garage, e meno che mai a montare le catene.

Sarà che una banale nevicata diventa come una scintilla che fa esplodere una società sempre sull’orlo del collasso. O sarà forse perché psicologicamente vogliamo che la nevicata sia un evento di stacco, di purificazione di un mondo sporco che ci piace sempre meno.

Allora questi pochi centimetri di bianco che ricoprono i nostri paesaggi abituali diventano occasione per desiderare un rinnovamento, un cambio di prospettiva. Ci lamentiamo dei disagi ma in fondo siamo contenti di aver avuto per una giornata un diversivo e una testimonianza che là fuori esiste ancora un pianeta dove le cose semplicemente avvengono senza il nostro controllo.

Ma intanto, tra poche ore sarà tutto finito: dopo i venti nordici arriveranno, a partire da domani, quelli atlantici più miti e umidi. La neve fonderà e lascerà il posto alla pioggia su molte regioni italiane. Così, passato il gelo, torneremo a lamentarci di altre faccende.

Michele Prospero, su il manifesto di ieri ci ha offerto un articolo stimolante e che invita a riflettere e ragionare. La crisi di Berlusconi - scrive Prospero - c'è ed è insanabile. Berlusconi fa appello ai parlamentari delusi dai loro partiti e un po' per la delusione, e un po' di più per l'offerta di ministeri o sottosegretariati qualcosa raccoglierà. La crisi dei partiti è indiscutibile e le diserzioni non mancheranno. Ma tutto questo non risolve la crisi del Cavaliere, che sarà anche sempre più pressato della Lega, il cui peso è enormemente accresciuto dopo l'uscita di Fini. In ogni caso nelle mani di Berlusconi (pur con il timore di una crescita della Lega) resta la carta delle elezioni anticipate, alla quale il Presidente della Repubblica avrà crescente difficoltà a opporre resistenza.

A questo punto per liberarci di Berlusconi si presentano due strade. La prima è quella del logoramento lento: con l'attuale risicata maggioranza il governo andrà un sacco di volte in minoranza. Insuccessi dopo insuccessi che alla fine dovrebbero portare a una crisi politica o (probabilmente) anche fisica dell'attuale presidente del Consiglio. Ma questa linea del logoramento lento (Berlusconi non è scemo) potrebbe anche logorare e indebolire i suoi attuali e possibili avversari.

L'altra linea - quella suggerita da Prospero - è quella delle elezioni anticipate con un cartello di tutti quelli che non stanno con Berlusconi. Con l'attuale legge elettorale, che dà il 55 per cento di parlamentari a chi ha preso il 40 per cento dei voti (e Berlusconi ha ancora credito nel nostro elettorato nel quale l'astensione è crescente) la proposta del fronte unico avanzata da Prospero appare ragionevole. Ma - a mio parere - con un pericolo gravissimo e cioè la berlusconizzazione dei nemici di Berlusconi oppure la loro dissoluzione in un litigioso pasticcio. Pertanto e penso soprattutto al Pd, e altro ancora, ciascuna forza dovrebbe fare uno sforzo di fortissima caratterizzazione. Alla fine della Seconda guerra mondiale e con la resistenza, ci fu l'unità di tutte le forze antifasciste, ma ciascuno non rinunziò anzi esaltò la sua caratterizzazione. Togliatti fu d'accordo con Badoglio, i democristiani furono d'accordo con i comunisti ma nessuno rinunziò, anzi esaltò la sua specificità. Togliatti non disse che il comunismo era passato di moda e neppure De Gasperi (che pure fece un mirabile discorso al teatro Brancaccio di Roma sul contributo dell'Armata rossa) disse mai che si doveva trovare una terza via tra comunisti e democristiani.

Tutto questo per dire a Michele Prospero che l'unità nazionale contro Berlusconi è (anche con l'attuale legge elettorale) l'unica via per liberarci di Berlusconi, ma - ripeto - solo a condizione che ciascuno esalti i suoi caratteri distintivi. Una lotta di liberazione (e quella storica non dimentichiamola) non si fa annacquando ciascuno i suoi caratteri distintivi. L'obiettivo di battere Berlusconi, di liberarci del suo male non si può realizzare se ciascuno annacqua il suo vino. Ricordiamoci un po' la storia. D'accordo con Prospero, ma alla condizione che ciascuna parte accentui, senza assurdi settarismi, la proprio fisionomia.

La Südtiroler Volkspartei ha mantenuto la promessa, non ha votato la sfiducia a Berlusconi e i deputati Karl Zeller e Siegfried Brugger sono già passati all’incasso dal ministro Raffaele Fitto, incontrato già nel pomeriggio di ieri, come scrive il quotidiano in lingua tedesca Dolomiten, autorevole soprattutto in materia di Svp. Nell’incontro si è discusso di gestione del Parco dello Stelvio, uno degli argomenti più pesanti sul piatto della bilancia, ma anche dell’abolizione del controllo preventivo da parte della Corte dei conti, la stabilizzazione del personale di polizia (secondo la Svp chi viene assunto nel contingente bilingue non deve più essere trasferito), l’introduzione dell’obbligo di un esame di terminologia giuridica tedesca da parte degli uditori giudiziari e la possibilità per chi si iscrive a un concorso di presentare la dichiarazione etnica anche se si tratta di cittadini italiani non residenti o comunitari. Insomma, richieste pesanti.

Berlusconi alla vigilia della votazione alla Camera non ha avuto difficoltà ad assumersi l’impegno di esaudire le pretese della Svp, come anticipato dal Fatto Quotidiano. Per rendere più credibile la sua disponibilità il premier ha inviato come garante il ministro degli esteri Franco Frattini, maestro di sci già eletto in Alto Adige nel 1996 nel collegio Bolzano-Laives, e abile negoziatore, nonché uomo di cui Luis Durnwalder, presidente della provincia di Bolzano da 22 anni e capo indiscusso della Svp, si fida.

Così, dopo anni di guerre, dovute soprattutto alle posizioni di Giulio Tremonti, che da tempo desidera chiudere i rubinetti milionari alle province autonome di Trento e Bolzano, il partito di lingua tedesca altoatesino è pronto a fare carte false per questo governo. Tenerlo in piedi dopo che mai, dal 1994 a oggi, aveva votato a favore di Berlusconi, anche su norme legate al federalismo fiscale (parliamo di settembre, non di un secolo fa) è un passo a dir poco decisivo.

I verdi altoatesini, partito che è cresciuto tra le mani di un intellettuale del calibro di Alex Langer, non perdonano alla Svp la svolta berlusconiana. Riccardo Dello Sbarba e Hans Heiss – consiglieri provinciali – e i coportavoci Brigitte Foppa e Sepp Kusstatscher accusano il Pd di non spiegare che il governo Berlusconi si è salvato per pochi voti e tra questi c’è anche l’aiutino garantito dalla Svp con le sue astensioni che stavolta, con una maggioranza sul filo di lana, sono state molto di più di una semplice neutralità. “I parlamentari Svp hanno contribuito da giorni ad alimentare l’impressione che, tra pentimenti e scelte pilatesche, il premier se la potesse cavare. Non a caso, nella sua prima intervista, il ministro Maurizio Gasparri ha ringraziato per prima cosa la Svp citando il suo non voto come segno di sostegno al governo. Col suo voto salva-Silvio la Svp ringrazia il governo della comprensione sulla toponomastica, dello smembramento del parco dello Stelvio e di altre piccole concessioni. Un voto di scambio che conferma il cinico egoismo che caratterizza il rapporto tra Svp e Roma: Alto Adige prima di tutto, patto anche col diavolo pur di ottenere piccoli e grandi favori. Come se tutto il mondo non esistesse: come se non esistesse una Europa che considera il premier italiano uno dei più pericolosi e imbarazzanti uomini politici dei nostri tempi”.

La questione centrale, secondo le opposizioni, è quella del parco dello Stelvio, diviso territorialmente tra Bolzano, Trento e la Lombardia. Secondo il Wwf nel parco, frazionato per competenze come lo vuole la Svp, aumenterebbero i pericoli per il paesaggio, il consumo di suolo, l’attività venatoria. Insomma, più cemento, più centrali idroelettriche, più cacciatori. “Una vittoria del partito degli affari, con buona pace dell’oasi naturalistica. E questo perché gli enti locali incontrerebbero maggiori difficoltà a respingere le pressioni delle lobby economiche attive nei rispettivi territori”.

Ora l’interrogativo è uno solo: Berlusconi ha fatto promesse a caccia di voti o sarà disposto a concedere a Bolzano tutto quello che la Svp ha chiesto? La risposta probabilmente arriverà già dai prossimi giorni. Sicuramente Durnwalder, cresciuto politicamente all’ombra diSilvius Magnago, l’autore dell’autonomia, non è tipo da farsi imbabolare dalle promesse. Più facile che prima del voto si sia fatto mettere gli impegni nero su bianco. Non è un caso se da quasi 22 anni l’Alto Adige e l’Svp sono suo regno incontrastato.

Anche al più distratto osservatore non poteva sfuggire come alcuni dei più condivisibili principi ispiratori della legge11 del 23/4/2004 (‘Norme per il governo del territorio’) fossero destinati ad una rapida demolizione. L’operazione, annunciata da vulnus tipici del diritto urbanistico regionale, é iniziata nel periodo di transizione dalla legge61/1985 con il ‘fantastico ciclo delle varianti’ [1], è proseguita con la pubblicazione degli atti di indirizzo relativi alle zone agricole [2], con le modifiche alla legge11 nel quadriennio 2006-2010 [3] e con l’alleggerimento strategico e normativo del Ptrc. Si è andata, quindi, precisando con la messa a punto di piani di assetto territoriale (Pat/i) molto costosi, ancorati a preliminari insipidi, con contraddittori quadri logici e di limitata efficacia. Pat/i si basano di frequente su uno squilibrato rapporto fra quadro conoscitivo, regole e strategie, subiscono una frammentaria quanto formale istruttoria, si prestano disinvolti alla commedia valutativa. In molti casi, come attratti da una sirena, abboccano alla ‘formale’ copianificazione [4] e avviano Piani degli interventi fortemente condizionati da pregresso, inerzie e diritti acquisiti.

A questa demolizione contribuisce la paradossale ‘assenza’ della Regione che, sollevata da incombenze ‘operative’ a livello locale e provinciale, rafforza alcune deroghe del periodo transitorio e suggerisce discutibili strategie per uscire dalla attuale crisi.

Nonostante le deroghe concesse, il cosiddetto ‘Piano casa’ [5] (adottato precocemente dal Veneto rispetto ad altre regioni italiane), non ha risposto a presunte domande abitative pregresse, non ha contribuito al rilancio delle attività di costruzione (già in crisi di sovrapproduzione), né ha svolto alcuna mitigazione anticiclica. I dati raccolti dal Consiglio Regionale con apposito monitoraggio sullo stato di attuazione del ‘piano casa’ [6], per quanto volutamente ‘poveri’, danno un’idea del bluff. Gli interventi, contrariamente alle attese, hanno interessato prevalentemente edifici residenziali non destinati a prima abitazione o immobili adibitia diverso uso. Il piano non ha stimolato incentivi a livello locale ed è stato sottoposto a limiti che ne hanno ridotto l’ipotizzata efficacia. Il 70% dei comuni non ha, infatti, adottato incentivi. Questo atteggiamento è più diffuso nei comuni piccoli (inferiori ai 15.000 abitanti), con minore densità abitativa (meno di 195 abitanti/kmq), minore reddito comunale disponibile (inferiore a 81 milioni di euro). Non sembra discriminante invece la densità abitativa misurata dal rapporto numero di abitazioni / 100 abitanti. Dal 60 al 70% dei comuni ha imposto limiti di vario genere, con riferimento preferenziale alle zone territoriali omogenee (45-70%), agli edifici (50-60%), a demolizioni e ricostruzioni (40-50%).

Il recente testo di legge, contenente ulteriori modifiche alla normativa veneta in materia di urbanistica, si posiziona con coerenza in questo contesto, causando un ulteriore indebolimento dell’impianto pianificatorio regionale. L’assessore regionale alle politiche per il territorio, esprimendo soddisfazione per l’approvazione, sottolinea che “si tratta di un provvedimento di modifica che nasce dall’unificazione di quattro progetti di legge presentati ed è stato approvato in un un’ottica di semplificazione delle procedure che interessano amministrazioni e cittadini”.

Tre modifiche nefaste



Le modifiche riguardano in primo luogo gli interventi in zona agricola. Per le case di abitazione esistenti gli interventi edilizi sono consentiti a prescindere dal fatto che il proprietario sia o meno imprenditore agricolo. La seconda modifica riguarda il regime transitorio previsto dalla legge 11. Si stabilisce che, a seguito dell’approvazione del Pat, il Prg vigente, per le parti compatibili con il Pat stesso, diventi a tutti gli effetti il Piano degli Interventi (PI) anticipando, rispetto a quanto attualmente previsto, la fine del regime transitorio. La terza modifica riguarda la proroga al 31 dicembre 2011 della deroga al divieto, per i comuni sprovvisti di Pat, di adottare varianti allo strumento urbanistico generale. In tal modo le amministrazioni comunali che non hanno il Pat approvato (la stragrande maggioranza), attraverso la predisposizione di alcune fattispecie di varianti urbanistiche ai sensi della legge 61/1985, potranno comunque fornire ‘risposte operative’ alle domande che provengono dal territorio o sollecitarle, over fossero ancora in fieri. L’art. 48 della legge11 ( Disposizioni transitorie) prevedeva che ‘fino all'approvazione del primo Pat, il comune non potesse adottare varianti allo strumento urbanistico generale vigente salvo quelle finalizzate, o comunque strettamente funzionali, alla realizzazione di opere pubbliche e di impianti di interesse pubblico’.

Si tratta di tre modifiche che rallentano l’introduzione di adeguate politiche ambientali, paesaggistiche ed energetiche e che avranno impatti territoriali la cui intensità sarà tanto maggiore quanto più rapida sarà l’uscita dalla attuale crisi economica.

Nel Veneto, diversamente da altri contesti in cui è stata più intensa la riqualificazione di aree dismesse di dimensioni considerevoli, gli i nterventi edilizi diffusi in zona agricola (soprattutto non residenziali) sono stati il volano preferito delle politiche immobiliari e finanziarie pubbliche e private. In questa prospettiva, particolare rilevanza assume la modifica dell’articolo 44, comma 5, relativamente alla sua ‘autentica interpretazione’.

Nelle intenzioni del legislatore, tale norma dovrebbe porre fine a ‘qualsiasi incertezza interpretativa ribadendo che per le case di abitazione esistenti in zona agricola gli interventi edilizi sono sempre consentiti a chiunque a prescindere dall’essere o meno imprenditore agricolo’. Com’è noto, l’articolo 44 della legge 11 riguarda l’edificabilità, potenziale implicito nel diritto di proprietà fondiaria e congiunturale leva finanziaria. La modifica del comma 5 avviene in spregio al comma 1 dello stesso articolo che vale la pena ricordare. Il comma 1 dice: ‘Nella zona agricola sono ammessi, in attuazione di quanto previsto dal Pat e dal Pi, esclusivamente interventi edilizi in funzione dell'attività agricola, siano essi destinati alla residenza che a strutture agricolo-produttive così come definite con provvedimento della Giunta regionale ai sensi dell'articolo 50, comma 1, lettera d), n. 3’. Il comma 2 limita in modo ancor più preciso l’edificabilità quando dice che ‘gli interventi di cui al comma 1 sono consentiti, sulla base di un piano aziendale, esclusivamente all'imprenditore agricolo titolare di un'azienda agricola’, regolarmente iscritto all'anagrafe regionale nell'ambito del Sistema Informativo del Settore Primario (Sisp). L’ azienda deve occupare almeno una unità lavorativa a tempo pieno regolarmente iscritta nei ruoli previdenziali dell'INPS (con l’eccezione delle aziende agricole ubicate nelle zone montane) ed avere una redditività minima definita sulla base dei parametri fissati dalla Giunta regionale. Il piano aziendale deve essere redatto da un tecnico abilitato e approvato dall'ispettorato regionale dell'agricoltura (IRA). Nel piano aziendale è richiesta la ‘descrizione dettagliata degli interventi edilizi, residenziali o agricolo-produttivi che si ritengono necessari per l'azienda agricola, con l'indicazione dei tempi e delle fasi della loro realizzazione, nonché la dichiarazione che nell'azienda agricola non sussistano edifici recuperabili ai fini richiesti. Per gli interventi con finalità agricolo-produttive il piano deve dimostrare analiticamente la congruità del loro dimensionamento rispetto alle attività aziendali’. Al di là della evidente ridondanza procedurale e della contraddittoria relazione fra politiche micro e macro nel settore agricolo, la modifica del comma 5 e gli ampliamenti concessi rafforzano il carattere edilizio dell’economia rurale, allontanandola definitivamente da visioni multifunzionali condivise dalle competenti Direzioni regionali e dal Piano di sviluppo rurale, ma presenti anche in misure del Por e in programmi strutturali a finanziamento europeo.

Non va sottaciuto il paradosso implicito nelle nuove norme, specie quando tendono a trasformare le zone rurali in strumento di sovrapproduzione edilizia, di deprezzamento dei valori immobiliari e del capitale fisso sociale.

[1] Vedi ‘Progetto di monitoraggio delle varianti urbanistiche nel periodo di transizione dalla leggeRegionale 61/85 alla Nuova leggeUrbanistica (LR 11/04) e di valutazione dei processi di pianificazione’. Lo studio è stato diretto nel 2008 da D Patassini come responsabile di convenzione fra Università IUAV di Venezia e Regione Veneto, Direzione Urbanistica.

[2] Gli atti più pertinenti in proposito riguardano il calcolo del limite quantitativo in zona agricola trasformabile in rapporto alla Sau, l’edificabilità in zona agricola e le tipologie di architettura rurale.

[3] Modifiche sono contenute nella Lr 18/2006 sulle zone agricole, nelle Lr 4/2008 e 26/2009 (entrambe collegate alla Finanziaria), nella Lr 11/2010 collegata alla legge finanziaria regionale per l’esercizio 2010.

[4] Ad oggi Pat e Pati adottati in copianificazione sono rispettivamente 62 e 9, per un totale di 71, mentre quelli approvati sono rispettivamente 40 e 15. Con procedura ordinaria sono stati trasmessi 13 Pat, di cui 9 approvati. 144 strumenti urbanistici sono stati sottoscritti dalla Direzione Urbanistica, in attesa della comunicazione di avvenuta adozione, per un totale di 280 comuni.

[5] leggeregionale n. 14 del 2009, “Intervento regionale a sostegno del settore edilizio per favorire l’utilizzo dell’edilizia sostenibile e modifiche alla legge regionale 12 luglio 2007, n. 16 in materia di barriere architettoniche”.

[6] I dati riguardano aspetti procedurali e non le attività di costruzione nei 474 (96 montani, 100 collinari e 279 planiziali) dei 581 comuni della regione. Elevato è il tasso di mancate risposte ai quesiti relativi alle modalità di attuazione del piano.

LA CODA VELENOSA

di Norma Rangeri



Il presidente del consiglio ieri è salito al Quirinale, ma per rilanciare se stesso e il suo governo. Anche se con solo tre voti, anche se con una maggioranza in crisi, anche se la sua è stata definita una vittoria di Pirro, Berlusconi ha battuto l'avversario e strappato la fiducia. Ora sarà lui a decidere quando buttare all'aria il tavolo per portarci alle elezioni. Con questa legge elettorale, con questo potere mediatico, con la forza della sua ricchezza.

E' evidente che questo governo camminerà sul filo. L'offerta platealmente esibita all'amico Casini, nell'emiciclo di Montecitorio, di sostituire il traditore Fini, per il momento è stata rispedita al mittente. Ma se non la stabilità, certo è confermata la leadership che ha combattuto per vincere anche questa scommessa.

Misurare il peso del voto parlamentare è semplice, basta immaginare cosa avremmo scritto se, invece che rinnovargliela, la Camera gli avesse negato la fiducia. Ancora di più pesa la reazione della piazza, esplosa di rabbia subito dopo la diffusione della notizia. Sulla grande manifestazione di Roma, di confortante partecipazione e inedita violenza, è calato il peso di un governo e di un potere che non avrà scrupoli nella cancellazione di ogni mediazione sociale, pronto a imporre la sua riforma dell'università (con l'aiuto del ministro dell'interno), indifferente alla contestazione giovanile, impermeabile alla gravità di una crisi segnalata ancora ieri dalle cifre allarmate della Banca d'Italia sulla diminuzione delle entrate fiscali e l'aumento record del debito pubblico.

Alle scene di una città messa a fuoco, corrispondeva lo spettacolo della corruzione, delle consorterie, delle cricche. Con la sfilata dei deputati appena conquistati che vanno a votare solo all'ultima chiamata per avere il palcoscenico sgombro e mostrare il rito dell'obbedienza.

Il voto di ieri è la coda velenosa di un sistema in crisi. Bisognerà mettere in campo l'antidoto e rinforzare gli anticorpi di un'altra politica.

IL PALAZZO E LA STRADA

«Dentro» e «fuori», la verità della fiction

di Ida Dominijanni



L'uomo cammina da solo lungo via del Corso, sono circa le tre del pomeriggio. Parla al telefono con l'auricolare, sta dando a qualcuno delle informazioni, dice «poi Casini ha fatto quella dichiarazione...» ma potrebbe parlare invece di Bossi, o di Fini, o di Berlusconi o di Scilipoti, l'eroe della giornata, o di chiunque. Fa freddo, molto, e la frase si gela nell'aria, senza significato. Giù in fondo, da Piazza del Popolo, sale fumo, nero. A terra tracce di tutto: berretti di lana perduti, tavolini da bar capovolti, sedie curvate, vetri rotti, pezzi di legno, portarifiuti finto '800 rovesciati, e sanpietrini in quantità per ogni dove, citazioni di una stagione che fu o forse opera prima, senza citazioni, di una generazione che di quella stagione non sa niente. L'uomo procede, non guarda, continua a parlare: di Casini, Bossi, Fini, Scilipoti o chissà chi. Frasi gelate che dicono la distanza, gelida, fra quello che è successo «dentro» il Palazzo e quello che succede «fuori». Ammesso che ci siano un «dentro» e un «fuori», e non piuttosto un diritto, la strada, e un rovescio, il Palazzo.

Dentro elenchi, somme, calcoli cifrati: il governo va sotto di uno, no, è in vantaggio di due, Guzzanti vota la sfiducia anzi no, non la vota, alla prima chiamata ne mancano dieci, si asterranno? no, aspettano di vedere se sono decisivi, votano alla seconda. Retoriche in gara: le metafore a catena di Bersani, le iperboli di Bocchino, i teoremi di Cicchitto inchiodati a Tangentopoli. Sventolio di bandiere tricolori per il vincitore redivivo, di fianco ai fazzoletti e alla cravatte verdi dei Padani. Agguato a Fini , «dimissioni!», all'uscita dall'aula: si regolano pur sempre i conti fra ex fascisti, che di modi ruvidi se ne intendono. Tutta la politica, quando vuole, se ne intende: compravendite, false promesse, conflitti all'ok Corral e ricomposizioni artificiali, alleanze fatte a pezzi, governi morti senza sepoltura che sopravvivono come spettri, «abbiamo i numeri, andiamo avanti», il tutto all'ombra del galateo istituzionale. Dove sta la violenza, «dentro» o «fuori»?

«Fuori» non c'è galateo. Non si ricorda a memoria un'invasione di campo a partita in corso come quella di ieri: studenti, precari, operai, terremotati, «rifiutati», cortei concentrici sul bordo del Palazzo. Mai come ieri, non c'era un «dentro» e non c'era un «fuori»: di qua e di là si giocava la stessa partita, «è ora di voltare pagina», e se dentro non ce la fate fuori ci sono i rinforzi. «Dentro», la pagina si è bloccata: «ho i numeri, vado avanti». «Fuori», non c'è posto per gli spettri: l'era berlusconiana va seppellita, per davvero, dai suoi prodotti più autentici: studenti senza università, terremotati senza casa, operai senza diritti, precari senza lavoro. Il diritto del rovescio. La verità della fiction. Piazza del Popolo, la parola fine sulla sceneggiatura scritta e diretta da Silvio Berlusconi.

Alle tre del pomeriggio «dentro» è tutto finito da un pezzo, pranzo compreso. «Fuori», Via del Corso non pullula di onorevoli. Saranno altrove, in via del Babuino, davanti all'Hotel De Russie, quello dove Tarantini preparava le ragazze per le cene a Palazzo Grazioli, e dove ora c'è la carcassa di una macchina bruciata? Non pullulano neanche lì. Le immagini di Roma bruciata impazzano sui siti e in tv, ma non è lo stesso che vederle dal vivo, e dal vivo non le guardano: il Palazzo è blindato, e non solo dalla polizia. Poi cominciano le geremiadi sulla violenza, i buoni e i cattivi, le proteste civili e quelle incivili. Il reale, però, non si lascia catalogare. Non tutte le fiction finiscono con l'happy end prescritto dall'autore. Qualche volta, finiscono a soggetto.

LA SOLITUDINE DEI BRAVI RAGAZZI

di Loris Campetti



Brucia piazza del Popolo, bruciano le strade di Roma, brucia la rabbia di decine di migliaia di studenti quando alle 13,41 viene annunciato il voto di fiducia a Berlusconi. Hai voglia di dire che tanto quello lì ha perso politicamente: i simboli sono importanti. E quella maledetta legge Gelmini fermata dalla rivolta delle scuole e delle università ora torna in campo. I tre voti che salvano il governo cancellano definitivamente la fiducia della piazza nella politica, cancellano il futuro di una generazione. E ne condannano un'altra alla precarietà. La stessa rabbia degli operai metalmeccanici arrivati da Padova o da Pomigliano che vedono il modello sociale di Marchionne puntare contro di loro come come i blindati della Polizia e della Finanza. Vedono tornare il panzer Sacconi lanciato a bomba contro lo Statuto dei lavoratori.

Quel voto del Palazzo, quel mercato sub-politico che umilia il Parlamento cambia l'umore della piazza, la protesta esplode e poche voci si alzano contro chi magari è arrivato organizzato in piazza, non invitato, per far casino. Nessuno prova pietà per qualche suv sfasciato sul Lungotevere, per una Jaguar che brucia, per i bancomat presi a colpi di sampietrini: sono simboli di un potere odiato oggi più di ieri, rappresentano anch'essi un modello diseguale, ingiusto, basato sul furto ai poveri, tanti, per dare ai ricchi, pochi. Goliardia? Non solo, e non soprattutto. Il blindato e qualche altro mezzo che bruciano tra piazza del Popolo, via del Corso e via del Babbuino non trovano solidarietà tra i giovani e giovanissimi che si affollano dietro chi resiste alle cariche della polizia. Quando un blindato tenta di sfondare il muro umano che, a differenza del Parlamento, sta sfiduciando Berlusconi ma viene ributtato indietro, parte un applauso corale. Questa non è goliardia, è rabbia di chi vede sfilarsi futuro e diritti e non ci sta.

Così brucia piazza del Popolo. La politica ha fallito, le istituzioni sono fuori, lontane, nemiche di queste ragazze e ragazzi così simili ai loro compagni di Atene o di Londra, che ieri hanno messo in campo la più grande manifestazione studentesca che il cronista, non più ragazzino, ricordi. Non hanno tutti contro, però. Con loro ci sono le tante Italie che resistono, e cominciano a incrociarsi. C'è la Fiom con il suo gruppo dirigente che chiede, insieme ai ragazzi, lo sciopero generale. Che se ci fosse stato avrebbe contribuito a farli sentire meno soli e meno lontani da tutte quelle rappresentanze che non rappresentano più, non svolgono più alcun ruolo di mediazione. Ci sono i terremotati dell'Aquila e il popolo avvelenato di Terzigno e Chiaiano, persino le «Brigate Monicelli», il popolo dell'acqua pubblica. Movimenti che dovranno intrecciarsi, meticciarsi, costruire insieme un percorso duraturo, perché domani è un altro giorno e bisognerà continuare il cammino insieme. Per questo è nato «Uniti contro la crisi» che ha promosso la manifestazione.

La piazza ondeggia sotto le cariche della polizia. C'è chi resta fuori dagli scontri, come gli operai della Fiom, perché non sono nel suo dna e punta da piazzale Flaminio verso il Muro torto per raggiungere la Sapienza. Ma alla fine la polizia sfonda, riconquista piazza del Popolo, si riversa sul piazzale mentre il fumo acre dei lacrimogeni intossica e fa crescere ancor più la rabbia. Un candelotto va a finire dentro il lungo sottopassaggio della metropolitana trasformandolo in una camera a gas. Sopra, nel piazzale, vola di tutto contro un blindato della Finanza, isolato e impazzito, una scena che nella memoria dei meno giovani richiama una dannata piazza di Genova.

Alle 13,41 è cambiata non solo la piazza ma anche l'atteggiamento di chi avrebbe dovuto garantire l'ordine: fino al voto, fino a davanti al Senato, confronti anche duri, ma senza volontà di precipitazioni. Poi la «difesa dei Palazzi» è diventata aggressiva, quasi alla ricerca dello scontro. Che alla fine, immancabilmente, è arrivato con tanto di fuoco, ragazze e ragazzi in fuga inseguiti dai manganelli.

I Palazzi hanno ignorato la protesta della piazza, hanno offeso la dignità di chi chiede quel che sarebbe giusto avere ma da oggi dovrà farci i conti. E sarà dovere di ogni organizzazione democratica costruire ponti con una generazione offesa ma determinata, e sostenere una battaglia per l'istruzione, la cultura, il lavoro, la giustizia sociale, che è una battaglia di civiltà e parla di diritti. Per costruire un'altra politica e differenti relazioni sociali, non mercificate, per pretendere giustizia sociale. Gli studenti sono in prima fila. Con loro ci sono altri movimenti, c'è un pezzo di Cgil. E gli altri dove sono?

Cristiano Gasparetto Una speranza per Venezia

Due proposte alternative per rinnovare la legislazione per la salvaguardia di Venezia in un articolo pubblicato (parzialmente) sul quotidiano Terra, 14 dicembre 2010

Quattro Novembre 1966: condizioni meteorologiche avverse, con piogge torrenziali in tutto il Veneto e maree con venti eccezionali sulle coste dell’alto Adriatico, fanno entrare dalle tre bocche di porto della laguna di Venezia un’ altrettanto eccezionale quantità d’acqua. I fiumi attorno alla laguna rompono in più punti gli argini come le enormi onde marine quelli, naturali ed artificiali, che separano il mare dalla laguna ed altra acqua entra. Sei ore dopo, la marea uscente non riesce a scaricarsi in mare perché bora e scirocco, i venti dominanti, tappano le bocche portuali e la marea successiva entra, sommandosi alla precedente. Centonovantaquattro centimetri sul livello medio del mare la marea che sommerge Venezia e i centri lagunari abitati in quella aqua granda, come poi verrà chiamata quella catastrofe sfiorata.

L’Italia e il mondo, la cultura e la politica si interrogano su come sia potuto succedere. Il dibattito è lungo e complesso, centrato più sul che fare che sulla prioritaria ricerca delle cause. Comunque, soprattutto per una particolare congiuntura politica (Venezia apriva la pista del primo centrosinistra tra Dc e socialisti) e, forse, per le sensibilità personali di deputati e senatori locali, con la collaborazione di tutte le forze politiche, nel 1973 col numero 171 viene approvata una legge che ancora oggi, per antonomasia, viene chiamata la legge speciale per la salvaguardia di Venezia alla quale altre due, con lo stesso spirito, seguiranno (798/1984 e 139/1992). Senza enfatizzare e con il distacco anche del tempo, possiamo oggi dire che senza quelle leggi speciali Venezia non si sarebbe salvata fino ad oggi: per la prima volta, anche rispetto a leggi speciali precedenti che il Parlamento aveva adottato, nella 171/1973 si inseriva la città di Venezia nel suo contesto territoriale (il comprensorio lagunare) e si coglieva il decisivo nesso tra la società formata dalle popolazioni di quello specifico territorio e le sue condizioni di vita: di fatto tra condizioni occupazionali e servizi al vivere sociale. Ciò che rende ancora oggi non solo importante questa legge ma imprescindibile, anche per una sua revisione, è stato l’ inserimento di Venezia per un verso nel sistema ambientale di cui essa stessa è divenuta parte - come una antropizzazione virtuosa e salvifica testimonia-; per un altro, l’ inserimento della città nel più ampio e complesso contesto sociale dei suoi abitanti. Abitanti per i quali, condizioni di lavoro e di vita associata diventano garanzia, necessaria anche se non sufficiente, di presidio e controllo delle strutture che costruiscono la città fisica. Inevitabilmente ne consegue che ogni salvaguardia reale (come il nome delle legge recita) comporta che, per intervenire in questo territorio, vengano istituite norme, indicazioni, indirizzi come pure proibizioni e incentivi. Questo di fatto è contenuto nelle tre leggi speciali. E sono disposizioni tutte ancora valide oggi, anche se le mutate condizioni possano suggerirne l’aggiornamento. Ciò non significa che tutti gli interventi attuati siano stati giusti e virtuosi ma certamente il contrario: tutti gli interventi che in questi anni hanno modificato dannosamente l’ambiente e peggiorato i modi di vivere si sono realizzati aggirando, eludendo e, spesso, violando la legge. L’esempio più eclatante è stata la decisione di passare alla realizzazione del MoSE (lo sbarramento mobile alla bocche di porto che dovrebbe evitare le acque alte) senza le procedure e le verifiche che la legge imponeva.

All’inizio dell’estate, il Ministro Brunetta ha deciso che la legge speciale andava rifatta perché superata dai fatti e quindi solo appesantimento burocratico alla procedure d’intervento. E’ un classico: per smantellare norme e procedure di salvaguardia si inizia sempre a dire che sono superflue e che rallentano il fare. La realtà è che il Ministro in due riunioni di un’ora (!) “ha sentito” le Istituzioni, le corporazioni dette portatrici d’interessi e qualche Associazione; a tutti ha chiesto di esprimersi sulla sua nuova strategia per Venezia, perché prima dell’inverno voleva portare in Parlamento una nuova proposta di legge. Ecco la nuova strategia proposta. La salvaguardia della città e della laguna è ormai raggiunta con la costruzione del MoSE (sorvolando, tra l’altro, che il MoSE non è ancora cominciato e sono state realizzate solo le sue opere complementari). Rimane “solo” il problema economico costituito essenzialmente da uno Stato non assistenzialista che non vuole e non può più dare finanziamenti alla città e da una zona ex industriale e operaia (Porto Marghera) che, una volta bonificata dai veleni sepolti dalle industrie del passato, deve rinascere rilanciando soprattutto la sua vocazione portuale. Venezia oggi ha la sua nuova opportunità, pari se non maggiore di quella che nel passato l’ha resa grande sui mari: è lo snodo dei traffici del “mondo che conta” nel terzo millennio e che dalla Cina risalgono Suez fino all’alto Adriatico, per incrociarsi, appunto, a Venezia con il grande asse Est-Ovest (TAV Barcellona Kiev). Grande occasione da non perdere e dalla quale un nuovo e travolgente sviluppo garantirà tutte le ricadute economiche che serviranno, appunto, a società e città.

La bozza di legge che il Ministro ha già presentata alla stampa, articola questa strategia. Strategia che in realtà è una sbornia visionaria perchè vuole rilanciare lo stesso sviluppo che ha degradato e avvelenato il territorio di Porto Marghera, allo stato attuale inutilizzabile. Sviluppo che ha profondamente modificato l’ecosistema lagunare fino a ridurlo quasi a un braccio di mare e che ha aumentato frequenza e altezza delle acque alte che sommergono sempre più spesso i centri abitati. Sviluppo, ancora, che ha ridotto l’economia veneziana a una monocultura turistica “mordi e fuggi” ma che ha, nel frattempo, svuotato la città dei suoi abitanti (da 150.000 del dopoguerra ai 59.000 attuali) facendo entrare 21 milioni e mezzo di visitatori e promettendone altri. Sviluppo, infine, che per cercare di risolvere le acque alte, prodotte dalle precedenti trasformazioni “produttive” della laguna, inventa la megaopera “salvifica”, il MoSE. Opera dalla costosissima realizzazione (il prezzo “chiuso” previsto di 4,27 miliardi di euro è ad oggi lievitato a 5,49, con un aumento di 1,22 miliardi) e gestione (60 milioni di euro ogni anno). Opera comunque inefficace a proteggerci dalle acque alte dopo la sua realizzazione - la cui data rimane tra l’altro problematica - perché con particolari condizioni di altezza e frequenza di onde in mare, l’acqua più alta del mare entrerà comunque in laguna, provocando ancora quelle acque alte che si sarebbero dovute evitare. Ad un aumentare del livello marino esterno per l’effetto serra di “soli” anche 30-35 cm. (dati considerati come molto probabili nei prossimi anni dagli scienziati più seri), le paratie del MoSE dovrebbero chiudere anche per 150-200 giorni all’anno, vanificando così ogni possibilità di rilancio portuale per Marghera. E, con questo, una possibile economia per Venezia, alternativa a quella turistica.

Venerdì 10, ospitato in una sala del Municipio di Venezia, il Senatore Felice Casson del Partito democratico, in una conferenza stampa appositamente convocata, ha comunicato che, due giorni prima, aveva depositata alla Camera un disegno di legge per la riforma della legislazione speciale per la salvaguardia di Venezia e della sua laguna e ne ha brevemente illustrato scopo e contenuti.

Lo scopo è stato quello di dimostrare che una strategia alternativa non solo è possibile ma che solo una alternativa reale al tipo di sviluppo, presente nella “Bozza Brunetta” vuole normare, è realistica perché ripropone l’intuizione della Legge Speciale 1973: il legame stretto tra territorio e società per cui o entrambi si salvano o entrambi si disgregano

Il disegno di legge presentato da Casson è stato elaborato con il contributo di esperti, universitari (era presente il rettore Amerigo Restucci dell’Università Iuav di Venezia) e non, che in questi anni si sono molto impegnati sui temi della salvaguardia del territorio e dei suoi abitanti e con quello di molte associazioni vitali e vigilanti nell’analisi delle trasformazioni.

A breve entreremo nel merito dei contenuti di questa nuova proposta e delle modalità che prevede perché ci sembra decisivo per la salvezza di Venezia ricercare quell’ unità che già in passato si era trovata. Conoscenza della complessità del territorio e limpido confronto sulla proposta ne sono comunque la condizione. A tal fine gli antefatti che qui abbiamo ripreso, ci sono sembrati opportuni.

Abbiamo vissuto il silenzio della democrazia, e questo peserà in futuro, quale che sia l´esito del voto di oggi. La chiusura del Parlamento, evento davvero senza precedenti nella storia della Repubblica, ne ha rappresentato il terribile simbolo e, insieme, la condizione necessaria perché altre procedure, altri riti, altri luoghi potessero prenderne il posto.

Doveva tacere il Parlamento non perché potessero tacere le passioni, e si potesse così giungere con giusto distacco e adeguata meditazione a una giornata nella quale si concentrano le molte ragioni che ci hanno progressivamente portato ad una vera crisi del sistema politico. No. Quel silenzio era necessario perché l´unica forma di persuasione legittima in democrazia, quella che nasce dall´aperta e pubblica discussione parlamentare, venisse sostituita da un´altra forma di "persuasione", quella affidata a reclutatori, a cacciatori di voti che si muovono senza inibizioni o pudori sulla scena pubblica, menando anzi vanto d´ogni nuovo scalpo conquistato.

Riflettano i cittadini della Repubblica. La vicenda di questi giorni riproduce lo schema che avevamo imparato a conoscere nel tempo triste delle escort. I procacciatori continuano ad entrare e uscire da Palazzo Grazioli, ma questa volta non portano con sé giovani donne, bensì i corpi ormai domati e acquisiti di "rappresentanti del popolo".

Ammaestrato dall´esperienza passata, questa volta l´"utilizzatore finale" ha deciso di non ricevere nessuno tra quelli che sono passati o si accingono a passare dalle sue parti, timoroso di qualche registratore nascosto che possa poi certificare la vera natura della trattativa.

Quelli che ieri si ergevano a difensori della privacy hanno poi scrutato nelle pieghe della vita privata, si sono diligentemente adoperati, ce lo dicono le cronache, nello scoprire le debolezze umane ed economiche di deputati e senatori che, per queste ragioni, apparivano più vulnerabili. Lì un mutuo troppo oneroso, qui un debito pesante… Ed ecco tracciato l´identikit del parlamentare al quale riservare il massimo delle attenzioni. Vicende miserabili, ma che illustrano pure, come meglio non si potrebbe, quale sia il ceto parlamentare che risulta da una scelta ormai svincolata da ogni rapporto con gli elettori, affidata tutta a una ventina di oligarchi d´ogni parte che da due legislature hanno l´incontrollato potere di designare 945 parlamentari. Una sorta di "elezione diretta", che con la democrazia ha poco a che vedere.

E´ una ben avvilente trasparenza quella che ci è stata offerta dalla quotidiana rivelazione di queste miserie personali e istituzionali. Non era questa la democrazia come "governo in pubblico" di cui ci aveva parlato Norberto Bobbio. E´, invece, la conferma definitiva dell´impudicizia, della fine dell´etica pubblica, della nascita di legami impuri che avvincono procacciatori e procacciati. Sono nati improbabili nuovi gruppi parlamentari, destinati a durare il tempo d´un voto di fiducia. Il Parlamento è stato chiuso, ma le sue regole sono state mortificate attraverso un loro uso tutto strumentale.

Ma questo non è già avvenuto anche in passato? Questa è la replica di chi difende le prassi di queste avvilenti settimane. Però la vergogna che viene da lontano non diventa per questo meno vergognosa. E l´interessata difesa dei procacciatori e del loro mandante rimuove proprio l´insieme dei fattori che rendono la situazione attuale irriducibile a quelle precedenti. Se pure un processo degenerativo era in corso, davvero era legittimo portarlo a tutte le sue estreme, distruttive conseguenze?

In realtà siamo di fronte a un mutamento di scala, quantitativo e qualitativo, che attribuisce al fenomeno del reclutamento, del cambio di casacca, caratteri che lo portano al di là della soglia di "trasformismo" accettabile in una democrazia. Mai, infatti, vi era stata una così pubblica esibizione, e quindi una così esibita legittimazione, di queste inammissibili pratiche. Mai le iniziative di reclutamento si erano diramate in tutte le possibili direzioni. Un altro cambiamento delle regole, un altro tassello di quella inammissibile "costituzione materiale" che si vuole porre a fondamento della cosiddetta "Seconda Repubblica"?

Qui è il nodo. Al di là di questa vicenda estrema e mortificante bisognerà pure interrogarsi sulle ragioni profonde che hanno portato a questa "notte della Repubblica". Qui davvero serve una pubblica riflessione, che non può limitarsi alla deprecazione dei costumi berlusconiani. Una folta schiera di apprendisti stregoni ha dato il suo contributo alla creazione di un contesto politico e istituzionale propizio alle scorrerie di chi voleva giovarsi di tutte le debolezze del sistema.

Una ingegneria costituzionale senza principi ha preso il sopravvento sulla consapevolezza storica e sulla riflessione politica, ignorando del tutto gli incitamenti a riflettere e le proposte diverse che pure non mancavano. Il risultato è la evidente decomposizione del sistema politico, che non può essere esorcizzata ricorrendo all´eterno stereotipo italiano della rivoluzione incompiuta o tradita, ottimo per rimuovere le responsabilità di persone e forze politiche, pessimo perché permette di eludere l´obbligo di analisi capaci di andare a fondo nelle dinamiche trascorse, e così avviare una progettazione adeguata del futuro. Denunciamo le miserie di oggi, ma liberiamoci pure dagli schematismi che ancora condizionano l´azione politica di troppi tra gli oppositori, veri o di facciata.

Dall´abisso nel quale siamo stati trascinati bisognerà pure cominciare a risalire. Ma senza veri cambiamenti di rotta, senza vera intransigenza politica e morale, qualsiasi ricostruzione sarà assai difficile.

Non ci sono più soldi per le città e per il welfare, è il ritornello più gettonato dagli adoratori del liberismo. È un disco suonato talmente di continuo che ci hanno creduto in molti e in assoluta buona fede. Credo che la vicenda delle migliaia di assunzioni nelle società municipalizzate della Roma di Alemanno servirà a ripristinare un po' di verità. Duemila (il numero è sottostimato, ma vogliamo essere generosi) persone messe a lavorare a spese della collettività costano tra stipendi, oneri, edifici da affittare per alloggiarli e servizi vari una cifra non inferiore ai 200 milioni di euro all'anno. Ha ragione Sandro Medici che da queste colonne affermava ieri che «l'ampiezza dello scandalo fa impallidire qualsiasi ricordo di passate gestioni»: sta alla nostra capacità fare di questo scandalo uno strumento per ripristinare la legalità e non permettere che ci raccontino più la storiella che non ci sono soldi.

Anche quando i costi delle opere realizzate dalla cricca della Protezione civile lievitavano vertiginosamente in modo da poter mettere da parte 800 mila euro per la casa di Scajola continuavano a suonare la canzone del non-ci-sono-soldi. A Roma dovrà essere completato il palazzo del nuoto voluto da Veltroni e ci costerà un miliardo di euro, mentre in periferia chiudono uno dopo l'altro servizi sociali, doposcuola e biblioteche. I soldi ci sono, dunque. Il problema vero è che un immenso apparato se ne appropria per spenderli nel modo peggiore. Un paese in crisi dovrebbe invece utilizzare ogni euro nell'interesse della popolazione e per migliorare le città.

E proprio alla città volevamo arrivare, perché sempre sulla base del (fin qui) ben riuscito teorema che mancano le risorse, per risanare le devastate periferie urbane sono state consegnate le chiavi delle città alla speculazione edilizia. L'urbanistica contrattata ha trionfato in tutta Italia per questo motivo. In questi giorni nella Roma di Alemanno si sta discutendo del caso di Tor Bella Monaca: per risanare quell'immensa periferia l'attuale amministrazione vuole regalare un milione e mezzo di metri cubi (25 mila abitanti aggiuntivi, una città grande come Orvieto, per capirci) alla proprietà fondiaria. Visto che non ci sono i soldi pubblici, siamo costretti a regalare metri cubi perché il generoso "privato" investirà oltre un miliardo di euro, è stato impudentemente affermato.

Torniamo allora alle cifre dello scandalo Atac e Ama. 200 milioni all'anno per cinque anni consecutivi di amministrazione fanno un miliardo, tondo tondo. Insomma, i soldi ci sono ma vengono spesi per clientele fatte di tatuati con la svastiche e croci celtiche (ne ho incontrati sui bus pubblici) e parenti a vario titolo: basterebbe dunque mandare a casa i famelici clientes e demolire le torri invivibili senza dover espandere all'infinito Tor Bella Monaca.

E visto che siamo in tema, il 17 prossimo il sindaco andrà nuovamente a Tor Bella Monaca per reclamizzare i risultati del "referendum" sul progetto organizzato dal comune di Roma. Una delle domande è così formulata: «Condivide il progetto di sostituzione delle torri con dei quartieri a misura d'uomo, con case nuove di massimo quattro piani, dotati di più servizi....»? Che domande, certo che gli abitanti risponderanno sì. Ma a guardare bene, anche i cacciatori di consenso puzzano di parentopoli, perché i questionari sono stati distribuiti porta a porta da "Risorse per Roma", società pubblica a cui si accede - il trucco è sempre lo stesso! - solo per chiamata diretta e sembra che negli ultimi mesi i soldi siano stati trovati per tanti giovani amici degli amici.

Allora, quando il sindaco tornerà a Tor Bella Monaca per dire che il 100% ha risposto sì al referendum, proviamo a formulare un'altra domanda ai cittadini: «Volete che i vostri figli vengano assunti per chiamata diretta e a tempo indeterminato all'Ama, all'Atac o a Risorse per Roma o preferite che continuino a fare i baristi o le commesse ai super market con contratti precari?» Vediamo se verrà superato il 101% dei consensi.

Con la decisione dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione che ha completato il controllo per così dire di "legalità ordinaria" dei quesiti referendari sull'acqua bene comune si è compiuto un altro piccolo ma significativo passo avanti istituzionale nella direzione giusta. Non era tanto il controllo formale di validità di almeno mezzo milione di firme a preoccupare, visto che il Forum ne aveva consegnate e certificate quasi il triplo.

Preoccupava invece una possibile confusione fra il limpido e charissimo disegno tecnico-giuridico contenuto nei nostri tre quesiti e l'ambigua formulazione del quesito referendario presentato dall' Italia dei Valori. Confusione che si era temuta, vista la proposta dell'Ufficio centrale per il referendum di accorpare il nostro secondo quesito volto ad abrogare i modelli privatistici formali di gestione (Spa indipendentemente dalla natura pubblica o privata dell'azionariato) con quello dipietrista, che invece fa salva la gestione inhouse formalmente privatistica. L'accorpamento non c'è stato e quindi la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi entro il 15 febbraio sulla "legalità costituzionale" della nostra operazione complessiva.

Naturalmente, il controllo di legalità ordinaria non è limitato alla validità delle firme ma si estende al controllo circa la vigenza formale delle leggi sottoposte a referendum, cosa non del tutto banale in un quadro normativo complesso come quello attualmente vigente, in cui si sono susseguiti negli anni molti interventi legislativi tanto contingenti quanto capaci di far scivolare il referendum su una buccia di banana. Per noi redattori dei quesiti, quindi, c'è la soddisfazione di essere riusciti a ricostruire in poco tempo un edificio referendario congruente con i criteri di legalità formale richiesti (il referendum nel nostro ordinamento è solo abrogativo) ma tuttavia capace di proporre un quadro radicalmente innovativo, che ieri la Cassazione ha riconosciuto coerente al suo interno.

Se tutto il nostro impianto riuscirà a passare indenne anche il vaglio della Corte Costituzionale, in giugno gli elettori avranno di fronte una scelta di grande chiarezza e radicalità: continuare nel processo di progressiva "recinzione" del bene comune acqua o finalmente invertire la rotta?

È evidente che questa domanda, che abbiamo posto sul piano tecnico in modo assolutamente prioritario per l'acqua, coinvolge sul piano politico l' intero sistema dei beni comuni, toccando una quantità di interessi di grande delicatezza e valore. Non sorprende quindi affatto che la copertura mediatica continui ad essere quasi completamente assente in modo ormai imbarazzante dal punto di vista democratico.

C'è da augurarsi che le cose cambieranno se la Corte Costituzionale nel proprio giudizio di costituzionalità del nostro impianto sarà a a sua volta disposta a riconoscerne la piena coerenza con la Costituzione. Nel farlo essa avrebbe certo la prerogativa costituzionale di spingersi, con sentenza manipolativa, a dichiarare incostituzionale la Legge Ronchi qualora la data certa dei suoi effetti (a oggi il 31-12-2011) non venisse a sua volta procrastinata di un anno nell'ipotesi in cui il Parlamento dovesse essere sciolto, con conseguente rinvio del referendum ad una data del 2012 (successiva quindi agli effetti "saccheggiatorii" della legge che si vuole abrogare).

Questa sarebbe una bella ed innovativa giurisprudenza costituzionale, che darebbe prestigio alla Corte rendendola garante del rispetto della volontà del popolo sovrano che deve esprimersi in modo rilevante (e non dopo che il bottino è stato sottratto) su una questione troppo importante per passare sotto silenzio.

Il tunnel da Linate a Cascina Merlata non si ferma. La società Condotte ha presentato al Comune il piano di fattibilità per costruire la maxigalleria (11,5 chilometri) che attraverserà la città passando fino a 40 metri sotto terra. Un progetto da 2,5 miliardi, pagati dai privati, che la Condotte ha in programma di realizzare insieme a Impregilo, pronta a entrare in gioco al posto della Torno, recentemente fallita. Secondo i calcoli dei costruttori è possibile costruire un primo tratto di tunnel da Rho-Pero a Garibaldi entro il 2015.

È stato calcolato che da viale Forlanini a Cascina Merlata ci sono ottanta semafori. Ipotizzando di incontrare una luce verde su due, in totale assenza di traffico, per percorrere quegli oltre dieci chilometri di strada che attraversa il centro città un automobilista impiega 40 minuti. Che diventano facilmente un’ora durante il giorno, anche di più nelle ore di punta. Quando sarà terminato il tunnel che da Linate porterà fino all’autostrada dei Laghi, passando fino a 40 metri sotto terra, lo stesso automobilista impiegherà 12 minuti.

È una delle principali attrattive di quest’opera mastodontica secondo il piano di fattibilità presentato qualche giorno fa al Comune dalla società Condotte, il colosso dell’edilizia che ha partecipato al traforo del Monte Bianco e che ora cerca di accaparrarsi l’appalto per realizzare la galleria sotto Milano. Un tunnel a pagamento che, sempre secondo le stime dei costruttori, dovrebbe portare fino 110mila auto sotto terra ogni giorno, liberando le strade dal traffico e favorendo il miglioramento della qualità dell’aria (e della vita) in città. Una galleria a pedaggio (0,60-0,70 euro al chilometro) che collegherà il city airport con la nuova Fiera Rho-Pero e ancora oltre con Cascina Merlata.

Il progetto, che con l’approvazione del Piano di governo del territorio in consiglio comunale sembrava rinviato a data da destinarsi, in realtà procede. A fine novembre, infatti, la Condotte ha presentato il piano di fattibilità e ora l’amministrazione ha sei mesi di tempo per rispondere. Ma la società, già pronta a imbarcare nell’affare anche Impregilo al posto della fallita Torno, si augura che la pratica venga sbloccata prima. Secondo i calcoli dei tecnici, infatti, per costruire gli 11,5 chilometri previsti - l’ultimo tracciato è stato ridotto di due chilometri e mezzo rispetto all’originale - ci vogliono circa sei anni di lavori. Quindi, per arrivare all’Expo con almeno una prima parte realizzata - il tratto da Cascina Merlata a Garibaldi-Lancetti, pari a 4 chilometri - bisogna che gli scavi partano entro la fine del 2011. Per farlo, dice Condotte nella sua relazione, il Comune dovrà bandire la gara d’appalto non oltre l’inizio dell’anno (gennaio - febbraio). Altrimenti sarà tardi per l’appuntamento con il 2015.

Resta però il vincolo che il consiglio comunale ha approvato durante la discussione del Piano di governo del territorio, la scorsa estate. Allora il centrosinistra presentò un emendamento in cui si chiedeva di inserire il tunnel nel futuro Piano urbano della mobilità, che non verrà discusso prima della prossima primavera. Secondo Condotte, però, se il sindaco fosse davvero intenzionata (come era parso all’inizio della storia) a concludere almeno la prima parte della galleria entro il 2015, potrebbe spingere il piede sull’acceleratore sfruttando i poteri speciali per le infrastrutture legate all’Esposizione. Naturalmente non è affatto detto che Letizia Moratti acconsenta, soprattutto ora che la campagna elettorale è cominciata e il suo programma è ancora avvolto nelle nebbie: bisognerà vedere cosa sarà previsto nel capitolo traffico-inquinamento. Quel che è sicuro è che l’opposizione cercherà in ogni modo di fermarla, avendo più volte manifestato la propria totale contrarietà. Ed Enrico Fedrighini, consigliere dei Verdi, ha già espresso i suoi dubbi: «Il progetto sta marciando spedito - commenta - . Mi chiedo quali siano le ragioni di interesse pubblico per portare avanti questo intervento visto che al momento è solo una previsione nel Pgt senza alcun riferimento né nel Piano urbano della mobilità né nel Piano delle opere pubbliche».

In questi giorni il Comitato per la Bellezza ha deciso unanimemente di attribuire a Desideria Pasolini dall'Onda, componente del Comitato stesso, la presidenza onoraria. Una attribuzione che avviene in spirito di amicizia ricoscendo all'indomita Desideria di condurre una battaglia, più che cinquantennale e senza sosta, per la tutela del paesaggio, con particolare attenzione a quello agrario (che considera quasi una sua "fissazione"), e del patrimonio storico-artistico delle Nazione. Seguendo alla lettera il dettato dell'articolo 9 della Costituzione. Desideria Pasolini, allieva di Pietro Toesca e di Cesare Brandi, studiosa di letteratura inglese, traduttrice di Robert Louis Stevenson e di Virginia Woolf, è stata fra i fondatori, nel 1955, con Umberto Zanotti Bianco, Elena Croce, Giorgio Bassani, Pietro Paolo Tormpeo e altri, dell'associazione Italia Nostra. Della quale è stata consigliere nazionale e quindi presidente per un lungo periodo conducendo alcune fondamentali campagne di denuncia, di studio e di proposta. In anni più recenti è entrata a far parte del Comitato per la Bellezza che si onora della sua sempre attiva e stimolante presenza.

Il Corriere del Veneto

Ore 7.45, giù il primo albero

addio alla pineta del Casinò

di Luca Ferrari

Ore 7.45, crolla il primo pino davanti all'ex Casinò del Lido. A sera la piccola pineta del lungomare, sotto la quale hanno passeggiato attori e registi, oltre a intere generazioni di lidensi che, d'inverno, hanno imparato ad andare in bicicletta, non esiste più.E' il primo segno forte dei lavori per la costruzione del nuovo palazzo del Cinema, quello che è stato soprannominato il «sasso» e che dovrebbe essere pronto per il 2011.

Le seghe elettriche sono entrate in funzione ieri mattina, in ritardo sulla tabella di marcia di qualche giorno. «Dispiace sempre quando si abbattono degli alberi — dice il presidente della Municipalità del Lido, Giovanni Gusso — ma bisogna saper guardare in prospettiva. Così agendo, abbiamo la garanzia della Mostra del Cinema, il cui indotto economico nei quindici giorni è di venti milioni di euro nel nostro territorio, abbiamo delle prospettive di ricaduta economica-occupazionale, le garanzie della costruzione del nuovo futuro del Lido, il tutto comunque dentro parametri di compatibilità e sostenibilità ». Pochi giorni fa Veritas ha iniziato la piantumazione di 143 alberi in varie zone dell'isola dalla piscina al parco giochi di Ca' Bianca — bagolari, lecci, frassini, pini, querce — a indennizzo verde del taglio, ma questo non è bastato a placare le polemiche. «Non vogliamo stravolgere niente, ma valorizzare quello che c'è», agggiunge Gusso.

Le associazioni ambientaliste, però, non mollano. Già martedì scorso durante un'assemblea affollatissima sulla questione del verde cittadino, Salvatore Lihard, a più riprese aveva bacchettato il consiglio della Municipalità per l'assenza. E puntuali ieri, non appena è iniziata a circolare la notizia del taglio dei pini, sono arrivati gli esponenti delle realtà ecologiche. Federico Antinori, presidente della Lipu Venezia,è arrivato per primo. «Gli ambientalisti non sono contro il Palazzo del Cinema, noi chiedevamo che venisse costruito rispettando ambiente e paesaggio. Per noi l'ideale era che si facesse con il minor consumo possibile del suolo e si usassero strutture già esistenti. Se avessero usato l'edificio dell'ex- Casinò, si sarebbe evitati tanti problemi». Dopo una giornata molto difficile, verso sera, i rappresentanti delle associazioni locali hanno deciso di mobilitarsi con altre forme di protesta. «Non ci arrenderemo».

Il Gazzettino

Pini marittimi, la scure è mattiniera

di Lorenzo Mayer

Abbattuti i pini marittimi in lungomare Marconi per far posto al nuovo Palazzo del cinema. Ieri mattina, di buon ora, verso le 7, è iniziato l’intervento di tecnici e addetti del cantiere che, secondo quanto previsto dal programma dei lavori, hanno dato il via all’operazione con il taglio di 66 pini, piantati nel 1941. Ma anche sul numero complessivo di alberi tagliati è “guerra” di numeri. Le associazioni ambientaliste continuano a sostenere che, a conti fatti, alla fine dei lavori gli alberi sacrificati saranno non 66 ma 140. Ieri mattina sul posto, a sorvegliare la situazione, sono arrivati anche carabinieri, polizia e vigili urbani. L’area, già da alcuni giorni era stata opportunamente recintata, e la prima fase dell’abbattimento, che verrà completata oggi, ha riguardato 50 pini. Anche gli ambientalisti sono stati presi un po’ in contropiede da una mossa così repentina. Quando, intorno alle 9.30, nell’isola si è sparsa la voce che l’abbattimento era partito a gran ritmo, per i contrari che si sono mobilitati in queste settimane, raccogliendo 2.500 firme, era ormai troppo tardi per tentare di qualsiasi forma di protesta. Sono arrivati sul posto, tra gli altri, Paolo Fumagalli e Giovanni Battista Vianello, del coordinamento delle associazioni ambientaliste che con una piccola telecamera ha girato alcune riprese, Federico Antinori della Lipu, il consigliere in municipalità dei Verdi, Roberto Romandini, oltre ad un piccolo gruppo di persone. Ieri sera alle 18.30, poi, il coordinamento si è dato appuntamento per un’altra riunione d’urgenza. «Stiamo piangendo per quanto si sta consumando – ha detto Fumagalli – ma non finisce qui. I responsabili di questa operazione la pagheranno cara, politicamente, quando si andrà a votare tra un anno. Inoltre nei prossimi giorni studieremo altre proteste e iniziative». Ci sono anche voci di albergatori contrari alla collocazione del nuovo Palazzo. «Sono sotto choc – ha aggiunto una delle proprietarie dell’hotel “Quattro Fontane” che sarà a pochi passi dalla nuova opera. – quella pineta era stata voluta da mio padre».

Il direttore dei lavori, architetto ingegner Manuel Cattani, precisa alcuni punti: «Abbiamo iniziato con gli abbattimenti esattamente come era previsto, non appena la pioggia è cessata e c’erano le condizioni per intervenire. Inoltre prima, come avevamo promesso, sono arrivate le nuove alberature che verranno piantumate nelle zone già stabilite dalla municipalità come compensazione ambientale per questo sacrificio. Entro lunedì, martedì termineremo gli abbattimenti con il frazionamento delle ramaglie».

La Nuova Venezia

Motoseghe in azione, abbattuta la pineta

di Simone Bianchi

LIDO. Il profumo di resina è tutto ciò che rimane dei pini del piazzale dell’ex Casinò. Ieri mattina lo si sentiva a grande distanza avvicinandosi al cantiere dove verrà costruito il nuovo Palazzo del cinema. Le motoseghe che hanno compiuto l’operazione di abbattimento sono entrate in funzione sin dalle 7. Come scheletri inermi circa 60 alberi, che per decenni hanno adornato il piazzale, giacevano a terra, caduti sotto l’azione delle lame all’interno di quella sorta di bunker realizzato con cemento e grate di ferro per delimitare il cantiere e, probabilmente, evitare intrusioni da parte degli ambientalisti. Un fortino al quale mancava solo filo spinato; fuori poliziotti, vigili e carabinieri sorvegliavano l’andamento dei lavori.

Si temeva, infatti, un massiccio intervento di protesta da parte delle associazioni ambientaliste; ma la mobilitazione non c’è stata.

L’azione. Le forze dell’ordine erano state informate del «blitz» programmato dagli operai delle ditte incaricate fin dalle 16 di mercoledì; il Coordinamento ambientalista dell’isola lo temeva soltanto e ieri rimasto colto di sorpresa, lasciando il campo libero alla devastazione autorizzata. Appena 6-7 attivisti hanno potuto seguire con occhi e orecchie l’abbattimento di decine di pini, filmando e fotografando l’andamento delle operazioni per poi lanciare il loro grido di indignazione sui siti internet, su Facebook e su You-tube.

Le firme. Gli altri 2.600 che avevano aderito alla petizione contro il taglio degli alberi ieri non c’erano e, come con l’Ospedale al Mare - che aveva già visto i cittadini mobilitarsi anni fa - anche stavolta i comitati hanno perso, almeno in parte, l’ennesima battaglia popolare. Mentre le benne delle ruspe raccoglievano ciò che dei pini rimaneva una volta caduti a terra, i vigili urbani verificavano i permessi della ditta, peraltro tutti in regola, in attesa di un sopralluogo anche da parte del Corpo Forestale.

Disperazione. «Abbiamo saputo cosa stava accadendo quando ormai lo scempio era stato già compiuto» dice Salvatore Lihard, del citato Coordinamento, mentre la notizia viene diffusa tra gli ambientalisti via sms. Il vento solleva la polvere e la segatura derivata dal taglio, il sole illumina l’area che prima, per decenni, era stata il regno incontrastato dell’ombra. A dar voce agli alberi ci sono soltanto i volantini affissi ovunque col celebre dipinto dell’«Urlo» di Munch, passato da cartello dell’espressionismo nordico a quello di denuncia ambientalista.

Spiazzati. «Cosa faremo adesso? - si chiede Federico Antinori della Lipu - Faremo tesoro di questa esperienza per tentare di salvaguardare altre zone verdi dell’isola e in pericolo. Qui al Casinò non possiamo purtroppo fare più nulla, ma smentisco categoricamente chi va dicendo che gli ambientalisti hanno avvallato il progetto perché si realizzasse l’opera tra i pini anziché nel giardino del Casinò vincolato dal Palav. Tutti volevamo, se proprio fosse stato necessario, che il quarto Palazzo del cinema e dei congressi finisse altrove e non qui. Ma ora i problemi sono dei politici locali che hanno promosso questo scempio, il cui comportamento sarà preso in considerazione dai cittadini alle prossime elezioni».

Accuse. E Paolo Fumagalli, uno dei promotori della protesta ambientalista rincara: «Mi chiedo perché si sia dovuti arrivare a questo disastro. Le 2.600 persone che hanno firmato la petizione manifestavano il loro dolore per questi alberi. Adesso compreremo azioni della Carive per poter dire la nostra e mettere i bastoni tra le ruote al sindaco Massimo Cacciari nella vendita dell’ex Ospedale al Mare, visto che alcuni padiglioni sono lasciti di fondazioni e per i quali non era previsto il cambio d’uso». Ieri sera riunione d’urgenza del Coordinamento ambientalista per decidere le prossime mosse.

L’importanza della vittoria di Giuliano Pisapia è fuori discussione e giustamente è stato rilevato che, per tanti aspetti, assume rilievo nazionale. Da una parte, la vistosa differenza fra centro destra e centro sinistra: mentre il solo Silvio Berlusconi comunica al suo popolo la ricandidatura di Letizia Moratti, alcune decine di migliaia di cittadini hanno scelto il candidato dell’altro schieramento, e hanno scelto quello più a sinistra, il meno gradito al Pd. Questa è la seconda ragione che dà risalto alla competizione milanese. Il Pd sta sostenendo abbastanza coerentemente il ricorso alle primarie, ma a vincere, in alcuni luoghi anche assai importanti, non è il suo candidato. In Puglia ha vinto Nichi Vendola, detestato da autorevoli esponenti Pd, a Firenze ha vinto Matteo Renzi, anche lui non certo gradito allo stato maggiore dei democratici toscani. Entrambi però hanno vinto le elezioni propriamente dette. Questi risultati, più e meglio di tante analisi politologiche, dimostrano il distacco del Pd dal suo potenziale elettorato e l’incapacità di comprendere i motivi del crescente distacco dalla politica.

A Milano, correttamente, si sono dimessi i vertici del Pd e si è aperto un dibattito. La Milano democratica, che ha assistito sgomenta alla nascita della Lega e del berlusconismo, fra quattro mesi potrebbe riprendere il filo della sua storia, che va dalla Resistenza al centro sinistra a Tangentopoli. Un risultato possibile solo se si affrontano, finalmente, i nodi autentici della crisi della politica di sinistra. Chi segue questo sito sa che, da anni, abbiamo riconosciuto in Milano la capitale della rendita immobiliare e abbiamo attribuito la ripetuta sconfitta del centro sinistra all’incapacità di contrastare la mala urbanistica, della quale, anzi, il centro sinistra è stato talvolta complice. Perciò vale la pena di ricordare almeno le tappe principali della vicenda ambrosiana.

In primo luogo, il documento del 2000 “Ricostruire la grande Milano” curato da Luigi Mazza per conto di Maurizio Lupi, assessore allo sviluppo del territorio. 160 pagine in cui si recita il de profundis all’urbanistica pubblica e si trasferisce tutto il potere all’iniziativa privata. Il principio ispiratore è che i piani regolatori non servono (“i piani regolatori servono a chi non si sa regolare”, si diceva a Napoli negli anni di Achille Lauro) e sono sostituiti dalla sommatoria degli interventi edilizi. Insomma, una rivoluzione copernicana, l’urbanistica non governa l’edilizia ma ne è governata.

La seconda cosa che merita di essere ricordata è la proposta di estendere la linea milanese a tutta l’Italia. Protagonista è sempre Maurizio Lupi – intanto eletto alla Camera per Forza Italia e assiduo frequentatore di salotti televisivi – che firma il disegno di legge di riforma urbanistica noto ai nostri lettori come “legge Lupi”. Prevede esplicitamente la cancellazione del principio stesso del governo pubblico del territorio: gli atti cosiddetti “autoritativi” (quelli cioè propri del potere istituzionale) sono sostituiti da “atti negoziali” nei quali l’interesse collettivo è solo uno degli attori, insieme agli interessi immobiliari. Altri contenuti della proposta sono la cancellazione degli standard urbanistici e l’insensata incentivazione del consumo del suolo. La legge Lupi fu approvata nel 2005 dalla Camera con il voto favorevole di 32 deputati del centro sinistra (è bene non dimenticarlo), con il consenso dell’Inu e nell’assoluto silenzio della stampa, salve pregiate eccezioni. Solo eddyburg s’impegnò in un’accanita resistenza (curando anche la pubblicazione di un pamphlet, La controriforma urbanistica), e contribuì sicuramente alla mancata definitiva approvazione della legge al Senato. In effetti una vittoria di Pirro, gli stessi risultati si sono intanto raggiunti con la moltiplicazione delle leggi di deroga alla strumentazione urbanistica.

Infine, l’esempio più noto della new wave milanese: il progetto CityLife relativo all’area dell’ex Fiera con i tre grattacieli, alti fino a 218 metri (detti il Curvo, lo Storto, il Dritto) opera di grandi star dell’architettura. È l’esito di una gara vinta dal gotha dell’immobiliarismo lombardo raddoppiando l’importo a base d’asta e dimezzando gli standard urbanistici. Succede così che una scelta decisiva per il futuro della città – dal punto di vista dei pesi edilizi, dello skyline e dei servizi – non è assunta in base a regole garanti dell’interesse pubblico ma solo a beneficio della rendita immobiliare.

Com’è noto, l’urbanistica di rito ambrosiano, è stata a mano a mano imitata da molti comuni, non solo di destra. Anche il comune di Roma ha fatto propria quella linea. Per certi versi anzi a Roma è stato peggio, perché nella capitale sono state seguite le stesse procedure adottate a Milano, con l’aggravante che intanto si cercava riparo dietro l’ipocrita paravento della pianificazione ordinaria. Le conseguenze sono note. A Roma, le elezioni del 2008 il centro sinistra le ha perdute soprattutto perché non è stato capace di comprendere la delusione di vasti strati di cittadini, soprattutto delle periferie, per l’irresponsabile politica capitolina che, invece di metter mano al promesso risanamento, ha dilatato sempre di più i perimetri della nuova edificazione, attuando un’espansione senza fine, a bassissima densità, invivibile. Si sono formati centinaia di comitati, nell’assoluto disinteresse dell’amministrazione. Così, alla fine, ha vinto Gianni Alemanno.

Su tutto ciò, su Milano, su Roma, su tutti gli altri luoghi che hanno visto la degenerazione dell’urbanistica, ma soprattutto sulle ragioni politiche che ne hanno consentito lo sviluppo, ci sembra indispensabile un’ampia discussione, su questo sito e altrove, a partire dalla vittoria di Pisapia.

A Giuliano Pisapia vanno intanto i nostri auguri di cuore.

La tutela del patrimonio archeologico all’italiana: ruspe che lavorano senza sosta per realizzare dieci milioni di metri cubi di capannoni industriali e spianano le colline dove sorgeva la città sabina di Cures. Dove basta camminare nei campi per trovare resti di antiche ville, necropoli, acquedotti e templi. Siamo a Passo Corese (Rieti), a 40 chilometri da Roma: miliardi di euro di investimento per il cantiere più grande d’Italia. Un progetto voluto da centrosinistra, centrodestra e sindacati. Tutti d’accordo, tranne i comitati degli abitanti che si vedono scomparire le colline. E gli archeologi che qui speravano di poter trovare i resti della città di Numa Pompilio e Tito Tazio, antichi re di Roma.

Ormai è perfino difficile immaginare la vita degli antichi sabini, con l’immenso cantiere che stravolge il paesaggio. Allora il nostro viaggio deve partire da una fotografia: ecco una cascina, quella terra chiara che ti ricorda il sole e ti dice che sei al Sud. Poi i campi segnati da solchi precisi. È un’immagine recente, ma sembrano passati secoli. Adesso vedi soltanto caterpillar. I rilievi morbidi che segnavano il paesaggio sono spariti insieme con il profumo e i rumori della campagna. Senti soltanto quelli dei motori e voci di operai.

È il 2000 quando il Consorzio per lo Sviluppo Industriale della Provincia di Rieti (un soggetto pubblico) lancia un nuovo piano regolatore consortile che prevede un Polo Logistico a Passo Corese. Sulle mappe è una grande macchia blu a due passi dal Tevere.

Basta sovrapporre la carta a quella tracciata dagli archeologi per accorgersi che la campagna qui è una miniera: ovunque trovi antichi cocci, resti millenari. Nel 1980 Maria Pia Muzzioli dedica a queste colline uno studio nella prestigiosa collana Forma Italiae. In pochi metri quadrati sono censiti 189 siti archeologici. Il risultato di uno studio del 2000 per la British School of Rome è ancora più sorprendente: una ricognizione superficiale rivela i resti di 13 ville. Senza contare i depositi di materiale antico e i 4 insediamenti del Paleolitico.

L’area è dentro al Parco archeologico

“È un sito ricchissimo perché la presenza dell’uomo comincia migliaia di anni fa e lascia tracce fino all’epoca romana. Qui si trovava l’antica Cures, con il suo porto sul Tevere. E forse anche le catacombe di Sant’Antimo”, è convinta l’archeologa Helga Di Giuseppe che ha lavorato con la British School. “La cosa più straordinaria – racconta Muzzioli – è, anzi era, il contesto, l’insieme, che si è mantenuto integro per migliaia di anni”.

Già, fino all’arrivo delle ruspe. È Paolo Campanelli (presidente dell’associazione Sabina Futura che si batte contro il progetto) a ripercorrere le tappe: “Nel 2001 un’inserzione invita le società a manifestare il loro interesse. Nel 2003… ma c’è stata una vera gara?... arriva la convenzione con l’Ati che realizza il progetto miliardario e avrà in concessione le aree per 99 anni”.

Intanto nel 2004 viene siglato il Piano Territoriale e Paesistico della Regione Lazio (presidente Francesco Storace): l’area dei capannoni è compresa nelle mappe delle zone a “vocazione di Parco Archeologico”. Non importa: il progetto va avanti. Ma che cosa prevede esattamente? Sembra l’Eden, a sfogliare l’opuscolo con cui gli enti locali – il comune di Fara Sabina e la Provincia di Rieti, entrambi di centrosinistra – informano i cittadini di quello che sta per accadere alla loro terra. “Il Polo logistico, la nuova risorsa di Passo Corese”, è il titolo. Poi fotografie di prati verdi, dove mamme con le carrozzine si muovono felici. Intanto nel 2009 con poche righe la Regione (guidata da Piero Marrazzo) approva una variante al piano regolatore consortile che porta la volumetria dei capannoni a quasi 10 milioni di metri cubi.

A confrontare le colline spianate dalle ruspe con le immagini dell’opuscolo viene qualche dubbio. Così come colpiscono al computer: “Duecento ettari di capannoni alti 15 metri, quasi l’equivalente di una città come Rieti”, raccontano all’associazione Sabina Futura. E snocciolano i dati: “Le ruspe si stanno portando via 1.400 ulivi, 3.000 viti, 3.000 alberi da frutto, cento ettari di coltivazione a foraggio e cento a grano”.

Non ci sono solo conseguenze sul patrimonio archeologico, ma anche sull’agricoltura. I sostenitori del progetto parlano di centinaia di nuovi posti di lavoro. Possibile, ma quanti ne sarebbero arrivati (e sono invece andati perduti) se una campagna intatta e vicina a Roma avesse investito nel turismo?

L’opera porterà 4 milioni di indennizzi

Fabio Melilli, presidente della Provincia di Rieti dal 2004 e presidente dell’assemblea regionale del Pd Lazio, si dice “favorevole” al progetto. Racconta: “È un’area strategica con l’autostrada e la ferrovia, è naturale che il Polo nasca qui”. E le critiche di abitanti e associazioni? “Legittime, ma tardive. Il progetto è di dieci anni fa, se lo avessimo bloccato avremmo dovuto pagare milioni di risarcimento”. Ma i resti archeologici? “La Sovrintendenza finora non ha trovato nulla di straordinario”. Questa è una delle campagne più belle d’Italia, ogni weekend vengono migliaia di romani in cerca del verde… “Vero, siamo nella Val d’Orcia del Lazio…”. Ma in Toscana non costruiscono 300 ettari di capannoni… “Si può ridurre l’impatto del Polo con strutture più attente all’ambiente”.

Chissà. Vincenzo Mazzeo, sindaco di Fara Sabina, difende il progetto: “Frange estreme lanciano messaggi apocalittici. Il Polo porterà lavoro. Noi abbiamo preteso che fossero realizzate opere viarie e depuratori”. La sinistra anche nel Lazio è amica del cemento? “Falso, noi abbiamo stoppato il mega-progetto di un nodo intermodale delle Ferrovie”. Mazzeo, però, aggiunge: “Io non ho più l’Ici sulla prima casa, dove prendo i soldi, come risolvo i problemi? Quest’opera ci porterà quattro milioni di indennizzi”. Il sindaco, come il presidente della Provincia, spiega: “Comunque il progetto è stato avviato prima del mio arrivo”. Ammette: “Quando vedo tutta quella roba là mi si chiude il cuore… A nessuno sta a cuore la Sabina più che a me, ho investito sulla produzione dell’olio, sull’ambiente.

E da oggi cambieremo e invertiremo il ciclo”. Troppo tardi, forse.

Affare miliardario e mattone

Ma chi sta dietro il cantiere miliardario? Nella società Parco della Sabina spa che realizza l’opera sono soci (con l’1% ciascuno) la Provincia di Rieti, il Comune di Fara Sabina e il Consorzio per lo Sviluppo Industriale di Rieti presieduto da Franco Ferroni. Ma la parte del leone l’hanno i privati: tra questi – con il 44% – la Seci che fa capo al Gruppo Maccaferri, uno dei giganti emiliani delle costruzioni. Il presidente Gaetano Maccaferri è anche stato numero uno dell’Associazione industriali di Bologna. Giuliano Montagnini, presidente della “Parco della Sabina”, siede in tante società immobiliari e miliane, a cominciare dalla Edilcoop.

Nel 2008, il Silp – sindacato di polizia della Cgil – parlava di “palesi tentativi di infiltrazioni della criminalità organizzata” proprio nella zona di Passo Corese. Spuntava il nome dei Casalesi, che hanno fatto la loro fortuna con il mattone. Anche se la camorra non c’entra con le società che realizzano il Polo,qualche cautela pare doverosa.

C’è anche chi teme che il Polo possa trasformarsi in una gigantesca operazione immobiliare. Avverte Campanelli: “Sono in costruzione a servizio del Polo un depuratore sufficiente per 30.000 abitanti e un campo pozzi capace di prelevare 1.300.000 litri d’acqua al giorno, cioè il fabbisogno di 25-30.000 abitanti. Non vorremmo che attraverso qualche alchimia all'italiana, come il Piano Casa della giunta Polverini o altri provvedimenti, si riuscisse a trasformare l'area in zona residenziale. Così sulle rive del Tevere potrebbe nascere una città grande come Rieti”.

CARAVAGGIO (Bergamo) — Poca mistica, molta politica e parecchi veleni. Da monumento alla misericordia mariana, il santuario del Sacro Fonte di Caravaggio dedicato alla Madonna — che per le cronache della fede cristiana qui apparve nell’anno 1432 — pare di questi tempi più il teatro di feroci dissidi di natura tutta terrena. E di terreno si tratta, per di più ubicato in territorio del comune confinante (e storico nemico di campanile), Misano Gera d'Adda.

Pomo della discordia, un' area di circa 160mila metri quadri proprio a ridosso del tempio, un territorio ricco di sorgive naturali e pregiate, che l'amministrazione guidata dalla sindachessa di fede padana Daisy Pirovano — figlia del presidente della Provincia di Bergamo Ettore Pirovano— avrebbe destinato via Pgt ad «area produttiva».

Apriti cielo, è battaglia aperta. A fronteggiare la prima cittadina leghista si è levato un esercito di paladini della tutela del territorio, in prima fila il Fai e quindi Legambiente, con l'appoggio dei vertici porporini della curia di Cremona, competente sul territorio caravaggino, che avrebbe sposato i timori degli oltre tremila cittadini e fedeli firmatari di un appello e sollecitato l’intervento della Sovrintendenza per i beni ambientali e paesaggistici per un risoluto (e risolutivo) «altolà».

L'area produttiva, denunciano preti, fedeli e ambientalisti, sorgerebbe a soli 600 metri dalle mura del santuario, danneggiando fortemente il luogo di culto, meta di migliaia di pellegrini, e distruggerebbe un'area di pregio naturalistico.

Sulle barricate sono saliti negli scorsi giorni anche i consiglieri regionali bergamaschi Gabriele Sola (Idv), Maurizio Martina e Mario Barboni (Pd), che hanno presentato un'interrogazione al governatore Formigoni e all'assessore al Territorio Daniele Belotti da Bergamo.

«Chiediamo al presidente e all'assessore— spiega Sola— se a loro avviso un insediamento di quelle dimensioni non sia incompatibile con le indicazioni del Piano territoriale regionale. Mi riferisco, in particolare, alla tutela dei luoghi di culto e di devozione popolare. Nei cassetti della Regione giace una proposta di legge d'iniziativa popolare che lo stesso assessore Belotti aveva firmato un paio d'anni fa». Il primo a sollevare la questione era stato un privato cittadino, Gianni Baruffi, che aveva poi allertato la compagine ambientalista.

«Considerata l'importanza naturalistica e ambientale della zona interessata — tuona Patrizio Dolcini, segretario locale di Legambiente — l'area una volta cementificata comprometterebbe seriamente il paesaggio adiacente al santuario. Il nostro sospetto è che si voglia creare un maxi centro logistico. E se qualcuno pensa che a togliere le castagne dal fuoco ci pensi l’amministrazione provinciale di Pirovano si sbaglia, non sono affari di famiglia».

E l' «affaire santuario» sembra abbia sollevato malumori anche nella giunta della rampolla leghista: giovedì scorso il vicesindaco Oscar Mor ha rassegnato le dimissioni, pare — secondo rumors— proprio perché contrario al «mostro di cemento» accanto al santuario.

postilla

la cosa che sorprende davvero (ci si sorprende ancora, e per fortuna), è che nessuno abbia ancora “blindato” spazi del genere rispetto alle classiche trasformazioni idiote e inutili, come quella raccontata nell’articolo, dell’usuale manciata di capannoni a tamponare un contingente problema di immagine consenso o bilancio. Edificazione che lì significa trasformazione brutale, affatto contingente, del tutto arbitraria, e che trascina con sé uno spazio/tempo enorme. Ovvero il tempo dell’eternità, e lo spazio del paesaggio che qui (l’avevano già notato anche i nostri antenati irsuto-gutturali, gli stessi a cui fa finta di riferirsi qualche volta il partito del sindaco) sacralizzando quell’area, che segna con la risorgiva il confine fra l’alta pianura asciutta e la bassa irrigua. Il grande Santuario è spettacolare anche perché come storicamente accade aggiunge l’immaginario cristiano a riti precedenti, occupando il medesimo spazio. Per chi non conosce l’area, basta dire che si colloca a cavallo delle ultime propaggini della strada Rivoltana (quella che a Milano comincia più o meno davanti alla Mondadori di Niemeyer), tra la linea delle Prealpi e la pianura agricola quasi intatta della cosiddetta Gera d’Adda. Uscendo dall’area metropolitana verso est, il paesaggio si “scopre” via via appunto scavalcando le schiere dei capannoni, che si diradano fino a lasciare spazio, verso Caravaggio e la linea di confine fra bassa bergamasca e alto cremasco, alla campagna aperta. Insomma per riassumere in due parole, si tratta di un caso analogo a quello già trattato qui, della lottizzazione di Montalino, dall’altra parte della megalopoli a sud del Po: una trasformazione micidiale, soprattutto perché inutile, che se proprio necessaria (cosa assai dubbia) potrebbe realizzarsi benissimo altrove, ad esempio coordinando meglio il sistema degli insediamenti produttivi a scala intercomunale. Visto che, come ci racconta l’articolo, la sindaco è figlia del presidente della Provincia, si mettano d’accordo a tavola su questa questione di coordinamento territoriale. In Italia (pardon, in padania) si risolve tutto in famiglia, no? (f.b.)

Solo nel tragicomico fumetto di Berluscopoli la doverosa e persino tardiva apertura di un´inchiesta sullo scandalo del mercato dei voti può diventare «un´ingerenza gravissima della magistratura» sull´autonomia delle Camere. Solo nella grottesca manipolazione semantica dei fatti, quotidianamente praticata dai «volonterosi carnefici» del Cavaliere, il patto scellerato tra un parlamentare dell´Idv e tre «colleghi» del Pdl (che gli offrono di passare nelle file della maggioranza in cambio dell´estinzione del suo mutuo per la casa) può diventare esercizio di «una libera dialettica parlamentare».

A tanto ci ha ridotto, il collasso dell´etica pubblica di questi anni. Siamo ai «saldi di fine legislatura». Gli operosi apparatciki del presidente del Consiglio, per consentirgli di raggiungere la fatidica «quota 316» nella conta sulla fiducia di martedì prossimo a Montecitorio, offrono alle anime perse dell´altra sponda non più solo incarichi ministeriali e poltrone di sottogoverno, ma addirittura denaro sonante. Questo, oggi, è l´ulteriore «salto di qualità» nell´indecente compravendita in corso tra i deputati: i soldi. Questo, oggi, dichiarano senza pudore pseudo dipietristi come Antonio Razzi e finti democratici come Massimo Calearo

Il primo, in un´intervista radiofonica su Radio 24 al programma «La zanzara» del 16 settembre: «Sono stato avvicinato da cinque, tre del Pdl. Le offerte più concrete che mi hanno fatto sono state la ricandidatura e la rielezione sicura, ma questa volta in un collegio italiano. Ho comprato casa a Pescara, devo pagare ancora un mutuo da 150 mila euro. Io gli ho detto che avevo questo mutuo e loro: "Ma che problema c´è? Lo estinguiamo"...». Il secondo, in un´intervista al Riformista di martedì scorso: «Dai 350mila al mezzo milione di euro. E pensi che la quotazione, nei prossimi giorni, può ancora salire. Soprattutto al Senato. I prezzi, quelli per convincere un indeciso a votare la fiducia al governo, per adesso sono questi... Io sono un caso a parte... Sa cosa mi ha detto Berlusconi, quando ci siamo incontrati di recente: "Calearo, io non ho nulla da offrirle perché lei, come me, vive del suo"...».

Cos´altro sembra di scorgere, in tutto questo, se non un tentativo di corruzione (secondo l´articolo 319 del codice penale) che non ha nulla da spartire con il diritto del parlamentare di esercitare la propria funzione «senza vincolo di mandato» (secondo l´articolo 67 della Costituzione)? E di fronte a queste parole, che pesano come pietre e contengono a tutti gli effetti una possibile «notitia criminis», cos´altro deve fare una procura della Repubblica, se non aprire un´inchiesta e verificare la fondatezza delle gravissime dichiarazioni rese da questi deputati? Questo è lo scandalo. Un Parlamento, tempio sacro della democrazia rappresentativa, trasformato in un hard discount, luogo profano della politica mercificata.

Così si compie il capolavoro berlusconiano: prima la personalizzazione, poi l´«aziendalizzazione» della politica, che si riduce a una variante del marketing mentre le Camere si sviliscono in una «fabbrica» di voti. In questo orizzonte, tecnicamente a-morale e puramente economicista, tutto si può vendere e comprare. Una candidatura o un mutuo, una fiducia o una sfiducia. Perché nella logica del tycoon della televisione commerciale tutti gli uomini hanno un prezzo. Si tratta solo di individuare quello giusto, e al momento giusto.

Eppure, per i Cicchitto e i Verdini, i Bondi e gli Alfano, non è questo lo scandalo. Questa è, appunto, la «libera dialettica parlamentare». Questa è, appunto, la politica fatta di «sangue e merda», per usare una vecchia formula cara a Rino Formica ai tempi della Prima Repubblica. Non è la compravendita, che indigna questo centrodestra trasformato in appendice del cda Mediaset. Perché secondo le guardie azzurre del Cavaliere o non è vera: e dunque non c´è nulla da cercare tra le bancarelle del suk di Montecitorio. O si è sempre fatta, anche ai tempi del governo Prodi: e dunque «todos caballeros», tutti colpevoli, nessun colpevole, come da requisitoria parlamentare di Bettino Craxi all´epoca di Tangentopoli.

Il vero scandalo, per le truppe del Popolo della Libertà che si preparano alla battaglia di martedì prossimo, è ancora una volta la magistratura che indaga. Le toghe che turbano il «normale confronto» del Parlamento, alla vigilia di un voto decisivo per il futuro del governo. Anche questa, dunque, sarebbe giustizia a orologeria. Ci vuole una certa impudenza, per sostenere una tesi del genere. Proprio nel giorno in cui la Consulta annuncia il rinvio a gennaio della sentenza sulla costituzionalità del legittimo impedimento.

La verità è che questa penosa Votopoli è l´altra faccia, l´ultima, di un potere sempre più debole e disperato, e per questo sempre più temerario e velleitario. «Ora inizia il calciomercato...», dice Gianfranco Fini, commettendo un errore di metodo (perché è il presidente della Camera, e se sa qualcosa deve denunciarlo ai pm) e di merito (perché le trattative sono cominciate da un pezzo, e semmai il calciomercato sta per finire).

Tuttavia non sappiamo quanto abbia inciso la campagna acquisti del Cavaliere, proprio nelle file dei futuristi, molti dei quali si professano malpancisti. Non sappiamo quanto peseranno martedì prossimo gli anatemi del premier contro gli eventuali «traditori», che saranno «fuori per sempre dal centrodestra». Può anche darsi che l´aritmetica salvi il presidente del Consiglio. Ma se anche fosse, la politica lo ha già condannato. Non si governa un Paese instabile come l´Italia, con un paio di voti di maggioranza. Per quanto ben remunerati, restano comunque voti a perdere.

La recente scoperta che alcune iniziative di edilizia residenziale e commerciale di Milano sono state previste su terreni che nascondevano nel sottosuolo discariche di rifiuti industriali, ripropone un grave problema ambientale sempre accantonato che, silenzioso e nocivo, riemerge continuamente.

L'industria, soprattutto chimica e metallurgica, è basata sulla trasformazione di materie prime naturali - petrolio, carbone, minerali, rocce, eccetera - nelle merci volute: plastica, acciaio, carbonato sodico, alluminio, gomma, eccetera. Inevitabilmente tale trasformazione è accompagnata dalla formazione di scorie e residui; quelli gassosi finiscono nell'atmosfera e lì si disperdono, ma quelli liquidi e quelli solidi finiscono nel terreno e spesso lì rimangono per tempi lunghi e lunghissimi. L'industria, nata nella metà dell'Ottocento, all'inizio si è insediata addirittura nel centro delle città: a Milano le prime fabbriche chimiche erano in pieno centro, lungo i canali che attraversavano la città; poi a poco a poco, soprattutto dall'inizio del Novecento, le fabbriche si sono spostate alle periferie, fuori dal centro storico.

Nella loro rapida diffusione alcune industrie sono sorte, poi fallite, poi sostituite da altre; sono cambiati i processi produttivi, le materie prime, le merci prodotte e sono cambiate e si sono stratificate nel sottosuolo le scorie.

Le scorie non sono corpi morti e inerti; alcune subiscono, a contatto con le acque sotterranee, trasformazioni e reazioni che ne modificano la pericolosità e ne aumentano la mobilità al punto che talvolta riemergono in superficie col loro carico di veleni.

Il caso più famoso e drammatico è quello della cittadina di Love Canal, vicino alle cascate del Niagara: un canale abbandonato fu utilizzato, negli anni cinquanta del secolo scorso, come discarica di rifiuti tossici di una vicina industria chimica. Il tutto fu ricoperto di terra e dimenticato; poi il terreno fu venduto al comune di Niagara Falls che vi costruì sopra un quartiere residenziale e una scuola. Nel 1976 le piogge intense hanno allagato la discarica e hanno portato in superficie molte sostanze velenose che hanno provocato malori e malattie negli abitanti e nei bambini. L'evento scandalizzò l'America; gli abitanti furono fatti sloggiare, le case e la scuola furono abbattute, e il governo si decise ad emanare leggi per la bonifica delle zone contaminate, con forti investimenti e costi pubblici. Poco dopo un caso simile di terreno contaminato da sostanze tossiche, portate in superficie da un'alluvione, colpì la cittadina americana di Times Beach.

Di fronte a questi e simili eventi i paesi europei si decisero ad emanare norme per la bonifica delle zone contaminate da rifiuti e scorie industriali pericolosi. In Italia si intervenne con tutta calma, dopo il 1998, e soltanto nel 2001 fu pubblicato un elenco delle zone contaminate di importanza nazionale, con l'indicazione delle sostanze nocive presenti; vi sono poi altre zone da bonificare indicate dalle Regioni e altre ancora; in tutto sono state stimate in 4400 le aree industriali contenenti nel sottosuolo rifiuti tossici e di queste soltanto il 10 percento risulta bonificata.

Un rapporto della Legambiente intitolato: "La chimera delle bonifiche", ha denunciato la lentezza delle operazioni di messa in sicurezza delle zone inquinate; le stesse operazioni di bonifica, tecnicamente complicate e costose, vengono rallentate da infiniti contenziosi con i proprietari dei suoli che sono poi spesso le imprese che vi hanno scaricato i propri rifiuti nocivi. Spesso i suoli abbandonati dalle industrie sono attraenti per le speculazioni edilizie e vengono venduti senza sapere, o facendo finta di non sapere, che cosa c'è sotto.

Eventi come quello ricordato, alla periferia di Milano, non sono rari; qualche tempo fa è stata denunciata la costruzione di edifici pubblici e privati sulla discarica di scorie industriali tossiche a Crotone in Calabria. Per evitare i danni e i relativi costi occorrono varie cose.

Prima di tutto occorre conoscere dove le industrie, che si sono succedute sul territorio italiano nel secolo e mezzo dell'industrializzazione italiana, hanno scaricato le proprie scorie e che cosa queste contengono; un compito difficile che richiederebbe una indagine sulla localizzazione delle vecchie fabbriche, sulla conoscenza delle materie prime utilizzate, delle merci prodotte e dei residui che ciascun ciclo produttivo ha generato. Di molte attività industriali si sono persi i documenti, perfino spesso si sono perse le tracce, e nessuno saprà mai quali materie prime sono state usate, senza contare che, nel corso della sua vita, una fabbrica, per lo stesso ciclo produttivo, usa materie prime differenti, provenienti da differenti paesi.

Spesso i caratteri delle materie prime e delle merci prodotte e delle relative scorie non era nota non solo alle pubbliche amministrazioni, che pure avrebbero dovuto vigilare su quello che avveniva nel loro territorio, ma alle stesse imprese e ai tecnici e ai lavoratori. Le cose si aggravano continuamente da quando si stanno diffondendo le industrie che "trattano" i rifiuti di altre industrie, residui e scorie di cui non sanno niente per cui finiscono nel sottosuolo i rifiuti tossici del trattamento di altri rifiuti tossici.

La più utile celebrazione dei 150 anni dell'Italia unitaria, che sono anche quelli dell'Italia industriale, consisterebbe nella mobilitazione di storici, chimici, ingegneri, merceologi, geografi per ricostruire la storia e la geografia delle fabbriche, dei processi produttivi e della localizzazione e natura dei loro rifiuti. Solo con una simile indagine si possono avviare delle serie operazioni di bonifica che richiederebbero il lavoro di specialisti di discipline che non si sono mai insegnate in nessuna università: la scienza e la tecnica dei rifiuti industriali e del loro trattamento. Solo così si evitano futuri costi e dolori.

Questo articolo è pubblicato contemporaneamente sulla Gazzetta del Mezzogiorno

Siamo ad un passo dall’Eldorado. In barba ai profeti di sventura, ai “quaresimalisti dell’Apocalisse”, come Dario Paccino tanti anni fa apostrofava gli ecologisti imbroglioni, ancora una volta sarà la tecnologia ( green) a salvarci. Magari non tutti lo raggiungeranno in tempo. Qualche decina di milioni di “profughi ambientali” si perderanno per strada, risucchiati dalla “lenta” catastrofe climatica: desertificazione, salinizzazione, erosione e perdita di fertilità dei suoli agricoli. (Non dimentichiamoci che un terzo della popolazione della Terra vive ancora del proprio lavoro contadino). Altri (un altro terzo della popolazione vive inurbata negli inferni degli slum delle megalopoli) non potranno usufruire delle costose opere di mitigazione degli effetti e di adattamento al caos climatico: desalinizzazione dell’acqua del mare, combustibili alternativi, aria condizionata, barriere di difesa contro l’eustatismo, ecc. ecc. Ma per chi ha le risorse economiche sufficienti la meta è a portata di mano. Nei pacchetti anticongiunturali di “stimolo” dell’economia varati da tutti i governi del mondo (a partire da Cina, Usa, Germania, Francia, nell’ordine di grandezza degli impegni) spiccano i programmi di Clean Energy, Low Carbon, Eco-tech, ecc. Una New Deal verde, tanti piani Marshall ambientalisti, una nuova “grande transizione”.

Danimarca e Germania hanno già varato piani energetici che prevedono la decarbonizzazione (fossil free) delle loro economie in quarant’anni. Giusto in tempo per fronteggiare l’esaurimento del petrolio (previsto per metà secolo). Il miracolo si chiama efficienza (la riduzione dei flussi di energia e di materie prime impegnate nei cicli produttivi e di consumo) e fonti alternative: eolico, fotovoltaico, biomasse. Chi avrà in mano queste tecnologie non solo salverà sé stesso dalla crisi di approvvigionamento dovuta dalla progressiva, inevitabile rarefazione delle materie prime, senza risentirne, ma anzi potrà vendere brevetti, licenze, macchinari ai competitor più arretrati. Insomma, i più lungimiranti, chi ha più soldi da metterci ora, potrà ricavarne più domani. Il giro di affari della green economy ha raggiunto i 530 miliardi di dollari (il Pil della Svizzera), ci informava il Sole 24 ore. C’è già chi è pronto a giurare che la prossima “bolla speculativa” riguarderà proprio il comparto specializzato dei fondi di investimento “verdi”: acqua, biocarburanti, energie rinnovabili in genere. L’imposizione di standard ambientali (di emissione, di riciclabilità, ecc.) sempre più stringenti creeranno il mercato necessario per piazzare i nuovi prodotti “ecocompatibili”. Sembra una partita win-win: ci guadagna l’ambiente, ci guadagna anche il capitale investito. Così anche l’ultimo negazionista del climate change si è pentito. Nuclei di resistenza sono rimasti solo nel Ministero dell’Ambiente italiano e nelle miniere di carbone in Polonia. Chissà perché?

Vediamo la questione più da vicino con l’aiuto di Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini (La corsa della Green Economy. Come la rivoluzione verde sta cambiando il mondo, Edizioni Ambiente 2010). Non si tratta solo di recuperare e introdurre pratiche virtuose di lotta agli sprechi, autoproduzione decentrata di energia elettrica, riciclo di materiali, ecc. La novità sono i grandi impianti solari nelle aree desertiche sahariane: il progetto del consorzio Desertec capeggiato da imprese tedesche e quello Transgreen capeggiato da imprese francesi per l’installazione di impianti solari a concentrazione con annessa rete “super grid” per rifornire il 15% del fabbisogno elettrico di tutta l’Europa entro il 2050. Per di più tali impianti possono contemporaneamente anche desalinizzare l’acqua del mare, pronta per imbottigliarla e venderla agli Emirati. Vista dal satellite la superficie necessaria per soddisfare con tecnologie solari la domanda elettrica mondiale (un quadrato di 300 Km di lato) appare poca cosa rispetto alla superficie totale dei deserti del pianeta. Fattibile. Stesso scenario per il grande eolico offshore: è stato calcolato che tra vent’anni potrebbe soddisfare il 30% della richiesta elettrica europea. Aggiungiamoci le alghe appositamente coltivate negli oceani per farne biocarburanti e risolveremo anche il problema di cosa mettere nelle automobili (a basso consumo, ibride e a car sharing, si intende) senza sottrarre terra all’agricoltura.Il trionfo della tecnologia verde ci farà uscire dalla crisi economica e ambientale in un colpo solo. Sarà vero?

Ci sono dati di fatto e teorie comprovate che contraddicono l’ottimismo messo in scena dai fautori della industria verde. Il “consumo di natura” procapite, di materiale netto (minerali, combustibili, biomasse, ecc.), (vedi le tabelle Physical imput-output dell’Istat, segnalate da Giorgio Nebbia) continua ad aumentare anche nella “matura” Europa, nonostante diminuisca l’incidenza del costo dei materiali sul Pil. Evidentemente aumenta l’efficienza dei processi di trasformazione, ma ciò fa aumentare – non diminuire - i loro consumi. Si chiama effetto Jevons, dal nome dell’economista che a metà Ottocento non si capacitava del fatto che le nuove caldaie a vapore pur aumentando la resa energetica non facessero diminuisse l’uso del carbone. Se una famiglia risparmia nella bolletta della luce (ad esempio, installandosi un pannello solare) non è affatto detto che sia intenzionata a ridurre i consumi: anzi è più probabile che aumenti la dotazione e l’uso di elettrodomestici vari. Si chiama anche “trappola tecnologica”: l’efficienza energetica e produttiva può accrescere a livello micro, mentre l’aumento del volume complessivo delle merci prodotte fa diminuire l’efficienza macro-economica.

Anche i consumi mondiali delle commodities (riso brillato, mais, zucchero, cotone, semi di soia, rame …) e dei materiali riciclabili (ferro, carta, legno…) sono in enorme aumento, nonostante la crisi. Per non parlare dei consumi di petrolio che continuano ad aumentare ad un ritmo dell’1,2% all’anno: un vero “incubo energetico”, verso l’ Oil Crunch, il raggiungimento del picco della capacità produttiva ipotizzata a 87 milioni di barili all’anno nel 2012. Poi, incomincerà una discesa precipitosa.

Nonostante le molte chiacchiere, non siamo ancora entrati nell’era dell’economia post-materialista, della società dei servizi e al plusvalore “evoluto” estratto solo dalla produzione dei beni cognitivi. I supporti fisici dell’economia sono ancora decisivi. Anche per la auspicata (vedi gli interventi di Guido Viale) riconversione ambientale industriale. Pensiamo solo al silicio (necessario per i pannelli solari), al litio (per le batterie elettriche, il cui valore è passato in pochi anni da 350 a 3.000 dollari la tonnellata), ai minerali e alle “terre rare” (tantalio, tungstenio, ecc.) necessari per microprocessori, telefonini e per tutte le nanotecnologie. Ha ricordato il commissario Ue al Commercio, il belga Karel De Guch (il Sole 24 ore del 19 novembre 2010), che le difficoltà delle imprese europee nell’approvvigionamento di materie prime si stanno facendo sempre più acute: “le carenze rappresentano un rischio sistemico per l’economia”. tanto che: “la Ue ha delineato la possibilità di prevedere ritorsioni economiche (toh!) contro paesi che ostacolano le esportazioni di materie prime”.

Ho l’impressione che se la green economy seguirà le regole dettate dal market sistem poche speranze ci saranno di sfuggire alla catastrofe climatica. Né il mercato, né le tecnologie ci salveranno. La riduzione dell’80% delle emissioni di CO2 nei prossimi 40 anni, il rientro dentro la soglia delle 350 parti per milione di CO2 in atmosfera, il contenimento dell’aumento della temperatura in un grado centigrado a fine secolo… sono tutti obiettivi che non si raggiungono se non mettendo mano al “profilo metabolico” delle nostre società (come dice Juan Martinez Alier) tendo conto della doppia insostenibilità della situazione attuale: verso la natura (limiti delle risorse disponibili) e verso i nostri simili poveri (distribuzione ineguale, ingiusta e disumana delle limitate risorse disponibili). Il sociologo Giorgio Osti, che in passato è stato pure molto critico con i sostenitori della decrescita, ha scritto: “Temo che il potenziamento dell’industria verde, se non intacca il tabù della moltiplicazione delle merci, possa fare ben poco. Il problema consiste nel produrre meno in assoluto e produrre merci che abbiano un valore d’uso” (in Valori).

La green economy, quindi, si presta a coltivare la grande illusione di poter continuare a produrre e consumare come e più di prima, senza fare i conti con il carico di illegittima appropriazione e distruzione di risorse comuni all’intera umanità (presente e a venire) che ciò comporta.

L’articolo «Torino-Lione un’opera ad alto rischio (di figuracce)» di Sergio Rizzo, pubblicato sul Corriere della Sera del 7 dicembre, può essere occasione di aprire un dibattito non ideologico su questa costosissima opera. Innanzitutto, i francesi hanno certo iniziato a scavare, ma solo «gallerie esplorative», che costano una frazione di quelle per far passare i treni. Poi, i corridoi europei di cui quello n. 5 fa parte, hanno perso ogni credibilità funzionale e politica: per accontentare tutti sono diventati una ventina, e coprono l’Europa con una fittissima rete, non soltanto nord-sud e est-ovest, ma oggi anche con tracciati diagonali e marittimi. Ma veniamo al nocciolo economico della faccenda: i 672 milioni europei. L’Europa cofinanzia soltanto il tunnel internazionale, che costa circa 8 miliardi di euro (di preventivo…). Ma i costi totali sono oggi stimati intorno ai 22 miliardi di euro, anche se non si dice. Inoltre il finanziamento al 30 per cento del tunnel è un massimo possibile, e assai ipotetico, proprio a causa delle pressioni di altri Paesi. Quindi, nella migliore delle ipotesi, l’Europa finanzierà meno del 15 per cento del totale, e solo se i preventivi (sempre molto ottimisti come l’esperienza Av — Alta velocità — insegna), saranno rigorosamente rispettati. Dal progetto, poi, è certo che non uscirà un euro per finanziare l’investimento, dati i traffici previsti.

Ma veniamo al nocciolo funzionale del progetto: la nuova linea avrà una capacità di 250 treni/giorno. I treni/giorno passeggeri previsti ufficialmente sono circa 14. Allora si è detto: ma è una linea per le merci! Bene, ma perché farla con standard (e costi) da Alta velocità, visto che sulle linee Av francesi e spagnole i treni merci non possono passare?

Vediamo infine i dati del traffico merci: la linea attuale, appena rimodernata, consente il passaggio di 20 milioni di tonnellate/anno. Ne passavano 9 dieci anni fa, in calo costante fino a 6 (è calato anche il traffico autostradale, su quella relazione). Con la crisi, attualmente ne passano circa 3. E non è ancora in funzione il tunnel svizzero del Gottardo, che serve una direttrice non troppo diversa. Ci sono gli elementi per dire che questa è un’opera prioritaria, visto che i soldi son pochi e che, per esempio, il Brennero costa la metà e ha il doppio del traffico?

Marco Ponti Ordinario di Economia dei trasporti

La lavatrice che si programma al mattino e parte appena trova disponibile elettricità verde al miglior prezzo. Il palazzo-robot che ascolta i bisogni dei suoi inquilini e offre l´energia just in time eliminando gli sprechi. La macchina con la spina, che scivola via senza rumore e senza emissioni. La discarica che mangia il metano, abbattendo i gas serra. Il mini pannello solare che basta a tenere acceso un frigorifero e una lampadina nei villaggi più sperduti. Non è la lista dei desideri degli ecologisti, è l´offerta del mercato. E se alla conferenza sul clima di Cancun la politica arranca, l´economia galoppa.

È stata la pressione delle eco industrie a cambiare le previsioni lasciando, ancora una volta, il timone in mano a Pechino: Cina, India, Giappone e Corea del Sud nel 2020 rappresenteranno il 40 per cento degli investimenti in energia pulita, davanti ad America e Europa. In ballo ci sono, secondo le previsioni del "Pew Charitable Trusts", 2.300 miliardi di dollari in dieci anni: tanto vale il mercato dell´energia pulita, un mercato che è stato già ipotecato da chi ha scommesso al momento giusto, quando gli altri esitavano. L´Italia tra il 2010 e il 2020 avrà a disposizione un business potenziale da 90 miliardi di dollari, ma per afferrare questa possibilità dovrà accelerare il passo.

«Le grandi industrie si sono presentate a Cancun con determinazione e visione di lungo periodo», racconta Monica Frassoni, presidente dei Verdi europei. «Qua e là ci potrà essere del greenwashing (aziende che si spacciano falsamente per eco-compatibili, ndr), ma nel complesso hanno scelto la strada dell´efficienza per un´ottima ragione: risparmiano. Ad esempio la 1E, una piccola impresa inglese di informatica, ha messo a punto un software che consente di programmare gli impianti elettronici delle grandi aziende: è riuscita a tagliare di 5 milioni di euro le bollette della Dell semplicemente ottimizzando la gestione dei computer. E la Whirpool si è presentata a Cancun con elettrodomestici che partono automaticamente nelle ore in cui il costo dell´elettricità è più basso».

Una parte dei 20 milioni di posti di lavoro green previsti dal Global Climate Network entro il 2020 nelle 9 maggiori economie del mondo verrà dai rifiuti e dalle biomasse. E anche l´Italia ha carte da giocare nel campo dell´innovazione e dei progetti. Per diminuire i danni da metano, un gas responsabile di quasi un quinto del riscaldamento globale, è stato brevettato il GeCO2, la macchina mangia metano prodotta da un testimonial di Greenpeace, Francesco Galanzino, il maratoneta che ha vinto la gara dei 4 deserti in un anno: elimina completamente le emissioni di questo gas che vengono dalle discariche.

E per recuperare i 7,5 milioni di tonnellate annue di biomassa disponibile si potrebbe, secondo i calcoli di Riccardo Valentini, docente di scienze forestali all´università della Tuscia, realizzare una rete di impianti capace di creare 40 mila posti di lavoro. Sono piccole centrali che utilizzano residui di lavorazione agricola, potature e scarti del ciclo agro-industriale prodotti nel raggio di poche decine di chilometri.

Si tratta di un progetto da far invidia ai berlusconiani. In realtà è stato approvato dal governatore Claudio Burlando che l'aprile scorso, in periodo elettorale, fu congelato. Ora invece c'è il via libera in un territorio dove il 45% del territorio negli ultimi 15 anni è stato mangiato dal cemento. Record italiano.

Centinaia di messaggi dai frequentatori del blog di Beppe Grillo. Un’insurrezione delle associazioni ambientaliste. Consiglieri regionali verdi che si erano schierati apertamente contro il Piano Casa presentato un anno fa dalla Regione Liguria governata dal centrosinistra. Ma alla fine sembrava che la Liguria stavolta si fosse salvata: il documento, un colpo di grazia su una regione già devastata dal cemento, era stato ritirato.

C’era stata perfino una dichiarazione del presidente Claudio Burlandoche, dopo le proteste, aveva fornito assicurazioni precise: “Il Consiglio Regionale ha approvato in questi giorni la legge sul “piano casa”. Ritengo che sia un provvedimento equilibrato e giusto… Forse chi ha diffuso pubblicamente giudizi negativi preventivi dovrebbe oggi riconoscere che le cose stavano e stanno diversamente”. Si trattava, disse Burlando, “di giudizi affrettati e forse non formulati in buona fede”.

Che cosa dicevano i critici in malafede? Che il Piano Casa della Liguria concedeva ampliamenti volumetrici tra l’altro a edifici condonati e a strutture industriali. Insomma, che si rischiava uno scempio definitivo, morale e urbanistico, in una regione che negli ultimi quindici anni con la benedizione di sinistra e destra ha perso il 45 per cento del territorio libero da costruzioni (record italiano).

Ma sono trascorsi dieci mesi. Soprattutto sono passate le elezioni che Burlando e il centrosinistra temevano di perdere se il loro elettorato si fosse ribellato. E così ecco adesso che la Giunta ha approvato il suo Piano Casa definitivo. Il contenuto: ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni). Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Insomma, i timori avanzati da chi, secondo Burlando, “aveva avanzato giudizi negativi preventivi… e forse non formulati in buona fede” sembrano essersi quasi tutti concretizzati.

Pare il Piano Casa dei sogni per una giunta di centrodestra. Roba da far impallidire Ugo Cappellacci. E invece a votarlo è stata una giunta guidata dal Pd. Di più: le norme più contestate sono state fortissimamente volute dall’Italia dei Valori, nella persona dell’assessore all’Urbanistica (e vicepresidente della Giunta), Marylin Fusco.

Certo i liguri ormai non si stupiscono più di tanto, visto che il centrosinistra locale è sponsor da anni del cemento. Che ha appoggiato o accolto in silenzio progetti che hanno riversato sulle coste liguri milioni di metri cubi di cemento. Le gru ormai sono parte del paesaggio. La febbre da cemento non ha risparmiato nessuno: industrie, colonie, ospedali, manicomi, ogni pietra è stata riconvertita in appartamenti e spremuta per produrre fino all’ultimo euro.

Ma che cosa prevedono nel dettaglio i punti più contestati del Piano? Tanto per cominciare possono accedere ai benefici del Piano Casa, dunque agli ampliamenti, anche gli immobili condonati per abusi classificabili come tipologia 1. In parole povere sottotetti, singoli vani, cantine e verande. “Stiamo dando la possibilità di modesti ampliamenti a realtà deboli, tipiche dell’entroterra e della campagna”, assicura oggi Burlando. Ma c’è chi invece teme che la norma sia un regalo ai ricchi proprietari delle case della costa (dove ogni metro quadrato vale oro). Il punto è, però, un altro: si premia chi non ha rispettato le norme urbanistiche, chi ha realizzato degli abusi. E proprio qui colpisce l’atteggiamento dell’Idv, sulla carta paladino del rispetto delle regole.

Non basta: gli ampliamenti volumetrici fino a un massimo del 35 per cento non riguardano più solo le abitazioni ma anche i manufatti industriali e artigianali. Insomma, i capannoni, dove un ampliamento può significare migliaia di metri cubi in più. Burlando non ha dubbi: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”.

Ma visto quello che è successo in Liguria qualche dubbio è perlomeno legittimo: in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fioranistanno realizzando 174mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta con tutte le forze dall’amministrazione di centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti).

Di più: la possibilità di demolire e ricostruire con relativi aumenti volumetrici è stata estesa a tutti gli edifici, non soltanto a quelli pericolanti e ai ruderi come sembrava inizialmente. Un’altra norma che apre le porte a decine di migliaia di metri cubi nuovi. Magari in zone di pregio. Basta? Chissà. Adesso la parola passa al Consiglio Regionale e il centrodestra è già pronto a chiedere che gli edifici alberghieri siano anch’essi ammessi ai benefici.

“Il Pdl e la Lega volevano altro. Così come le associazioni dei costruttori”, disse dieci mesi fa Burlando. Oggi possono dirsi accontentati. Meno soddisfatti paiono alcuni esponenti del centrosinistra che timidamente stanno cercando di manifestare i loro dubbi.

E pensare che un anno fa perfino il centrosinistra nazionale era insorto contro il Piano Casa Burlando: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato il senatore democratico Roberto Della Seta, accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civatie Debora Serracchianinon erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi – affermò Civati – quindi invito Burlando a riflettere sui contenuti della legge e sulle conseguenze che può avere su un territorio ligure già sufficientemente maltrattato. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”.

Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di argomenti che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Di sicuro lui di cemento ne sa parecchio.

Ma ormai la Liguria si prepara a un’ennesima ondata di cemento. Anche se Burlando rassicura: “Abbiamo aperto una riflessione sullo sviluppo dei nuovi porti turistici, visto che il Piano della costa del 2000 ha già raggiunto il suo obiettivo di 10mila nuovi posti barca”.

Basta posti barca, sembra dire Burlando. E pensare che era stato proprio lui nel 2005 a dichiarare: “Un mio amico di Bologna (Romano Prodi, ndr) si è augurato di vedere sulle nostre spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Io invece dico: più ombrelloni e più porticcioli”. Era stato sempre Burlando a partecipare soddisfatto alla posa della prima pietra del Porto di Imperia voluto daClaudio Scajolae finito oggi nel mirino della magistratura. Ed erano stati amici di Burlando, come il tesoriere della sua campagna elettorale, a far parte del cda della Marinella spa (allora controllata dalla banca “rossa”, il Monte dei Paschi) che a La Spezia ha lanciato il progetto per un nuovo porticciolo da oltre mille posti nella splendida area della foce del Magra. Basta porticcioli, forse perché non c’è più un centimetro libero di costa dove costruirli: in Liguria ormai c’è un posto barca ogni 47 abitanti. Basta, adesso meglio puntare sul Piano Casa.

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