La ragazza in crisi che si ritrova unita al nuovo compagno dalla magia del raggio verde, il misterioso riflesso marino descritto da Eric Rohmer. Le dune di Ostia a pochi anni dalla guerra immortalate, assieme a Marcello Mastrioanni, in Una domenica d'agosto. I vitelloni raccontati da Fellini nel loro ondeggiare tra caffè, biliardi e amori sulle spiagge. Sarà bene tenerseli cari questi film, perché i paesaggi che li animano potremo goderli solo al cinema.
Il lungomare come prospettiva, come sfida emozionale sta sparendo, sostituito dall'affastellarsi di caseggiati, svincoli portuali, stabilimenti irregimentati. Abbiamo già perso due terzi del nostro affaccio al mare.
La denuncia viene da uno studio dei Verdi che parte da un dato Unep (il Programma ambiente delle Nazioni Unite): se nell'intero bacino mediterraneo il 40 per cento delle coste è stato occupato da interventi antropici, in Italia la percentuale supera il 60 per cento. E, all'interno di questa quota di litorale invaso, le ville antiche e i centri medioevali rappresentano la parte decisamente minoritaria. Pochi decenni di sviluppo incontrollato hanno rubato più spazio di millenni di storia.
«È stata una trasformazione urbanistica violenta, che ha cambiato anche le abitudini delle famiglie italiane», spiega l'ex capogruppo alla Camera del Sole che ride, Angelo Bonelli. «Il lungomare non è più il luogo delle passeggiate e degli incontri: ormai è un lungomuro - afferma. - In molte città la prospettiva del mare è stata completamente cancellata dal cemento, dalle cabine, dai porti, dalle attività industriali, dalle villette. E le immagini satellitari, in notturna, confermano che il rapporto con il buio è sparito dalle nostre coste».
Al lido di Ostia l'85 per cento del litorale è occupato da stabilimenti. A Fregene non esiste un vero lungomare e a Torvaianica, sempre nel Lazio, otto chilometri ininterrotti di edifici impediscono non solo l'accesso al mare ma anche la vista dell'acqua. In Sicilia la cancellata sulla spiaggia di Mondello ha acquistato un valore simbolico. A Maiori, nella costiera amalifitana, è sparita la spiaggia libera. A Forte dei Marmi la vista mare è impedita sul 70 per cento del litorale. In controtendenza la Puglia e la Sardegna, con il 70 per cento del mare visibile in molte città.
Nel complesso sono 7 mila gli stabilimenti che gravano sui 7.375 chilometri di litorali italiani. Il record spetta alla Liguria, dove su 135 chilometri solo 19 sono liberi. Segue l´Emilia Romagna con 80 chilometri su 104 occupati da stabilimenti privati (la sola provincia di Rimini su 40 chilometri di costa ha la bellezza di circa 700 bagni). In Campania i chilometri di spiaggia privata sono ottanta.
Si calcola - afferma il rapporto - che almeno 1.050 chilometri di spiagge siano occupate da stabilimenti. E agli stabilimenti vanno aggiunti le infrastrutture, i campeggi, i villaggi turistici, le opere abusive residenziali, gli agglomerati urbani a ridosso dell´arenile. Portando così il dato complessivo sull'occupazione delle aree demaniali marittime attorno al 60 per cento del totale.
Un'occupazione che spesso comporta la negazione del diritto all'accesso al mare. L'effetto gabbia provocato dal muro di cemento - come è stato sottolineato nel Manuale di autodifesa del bagnante redatto dai Verdi e nella denuncia del ministro-ombra dell'Ambiente, Ermete Realacci - restringe infatti l'accesso al mare facilitando la pratica illegale del pedaggio per il bagno. La norma approvata dal Parlamento nel 2006 è chiara: è fatto obbligo «ai titolari delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso e transito per il raggiungimento della battigia anche al fine della balneazione». Ma gli abusi e i pagamenti imposti illecitamente restano frequenti.
Qui in Italia l’unica volta che l’urbanistica in quanto tale ha “bucato” sui media risale ai primissimi anni ’60, quando l’astro nascente della Democrazia Cristiana Fiorentino Sullo si giocò il potenzialmente luminoso futuro col tentativo fallito di riformare la legge sui piani regolatori.
In Gran Bretagna, dal XIX secolo culla di tutte le innovazioni sulla città e il territorio, l’argomento è popolare al punto di scaldare gli animi e provocare titoloni di prima pagina. Ed è anche giusto sia così, visto che le decisioni sullo spazio che abitiamo, urbano o rurale che sia, hanno enormi impatti non solo sul portafoglio di qualche speculatore, ma anche e soprattutto sulla qualità della vita, dell’ambiente, e in fondo della democrazia.
Non a caso una delle parole che ricorrono maggiormente nel dibattito (in parlamento e fuori) sul nuovo progetto di legge sulle trasformazioni del territorio, è accountability: chi risponde a chi, nelle decisioni sulle infrastrutture, le grandi opere, la conversione da un uso all’altro delle superfici urbane e rurali?
Tutto comincia nel 2005, quando due pezzi da ’90 del New Labour con altissime responsabilità di governo (John Prescott, vicepresidente con delega al territorio, Gordon Brown, Cancelliere dello Scacchiere) chiedono all’economista Kate Barker “di esaminare come … politiche e procedure di pianificazione territoriale possano favorire una crescita economica e produzione di ricchezza …”. La versione finale del rapporto Barker è resa pubblica alla fine del 2006, e inizia, a partire dalle sue raccomandazioni (ovviamente orientate alla massima efficienza, rapidità, efficace delle decisioni di trasformazione) il percorso politico che porta alla revisione della legge urbanistica, a circa sessant’anni dal Town and Country Planning Act 1947, dove nel pieno della ricostruzione dopo le bombe naziste il parlamento a maggioranza laburista metteva le basi per uno sviluppo territoriale fortemente orientato dall’iniziativa pubblica. Era l’epoca delle new town, spinte anche dalla paura dell’ecatombe atomica ma che iniziavano un processo di riordino dell’intero territorio metropolitano nazionale, e la parola planning diventava il simbolo di una presenza costante dello stato nella vita del cittadino, nel quadro generale del welfare.
Ora ci sono le eco-town, nuove città “sostenibili” molto volute da Gordon Brown, ma che ben riassumono con le reazioni negative suscitate tutte le perplessità sulla nuova idea di urbanistica economicamente efficiente: non sembrano affatto “eco” perché vanno ad occupare ettari di ottime terre agricole, a volte anche fette di quella greenbelt rurale tanto cara ai cittadini britannici amanti del paesaggio tradizionale; scavalcano le popolazioni locali e le amministrazioni che si sono democraticamente elette, con procedure centralizzate di decisione sui siti e approvazione dei progetti; come se non bastasse, tutta l’operazione sembra costruita in una logica di rapporto diretto e privilegiato fra il grande business immobiliare-energetico e qualche alto papavero governativo.
Anche la riforma del sistema urbanistico, nella scia efficientista indicata dall’economista Kate Barker, tenderebbe ad esempio a indebolire l’intangibilità delle grandi greenbelt, le fasce di spazio aperto intermetropolitano di ispirazione biblica, riprese a fine ‘800 dal movimento della Città Giardino e istituzionalizzate fra le due guerre, ma che ora sono considerate possibili localizzazioni per i milioni di nuove case programmate dal governo da qui al 2020. E, dicono i critici, è abbastanza ridicolo parlare di lotta al cambiamento climatico con un’edilizia energeticamente efficiente, se poi quegli edifici “ecologici” ricoprono di cemento e asfalto la terra che dovrebbero salvare …
Altro oggetto del contendere è la Commissione speciale per le grandi opere strategiche (già approvata in parlamento), che istituisce un percorso parallelo di autorizzazioni per aeroporti, centrali energetiche, autostrade ecc. Per evitare l’ostruzionismo egoista e piccolo borghese dei soliti nimby che impediscono lo sviluppo per non rinunciare al panorama dal portico di casa, dicono i sostenitori. Per levare dai piedi la partecipazione locale, e imporre un modello decisionista autoritario, dicono gli ambientalisti e i rappresentanti delle amministrazioni comunali.
Il giornalista specializzato del Guardian Peter Hetherington un anno fa scriveva delle linee generali del progetto di legge: “ Non abbiate paura. Il governo non sembra voler distruggere il sistema di pianificazione urbanistica britannico così come dura da sessant’anni”. Ma restano forti dubbi, anche in parlamento. Da un certo punto di vista verrebbe da dire: fortunati loro!
Berlusconi ha annunciato il quarto dei miracoli con i quali, nel giro di pochi giorni, libera dai rifiuti Napoli e la Campania. I precedenti tre sono andati male; la spazzatura non se ne è andata dalle strade, oppure è ricomparsa dopo qualche mese. Qualcuno - per esempio il manifesto - lo aveva previsto fin dai primi mesi del suo governo. Non era difficile: Bertolaso non stava facendo altro che accumulare i rifiuti in discariche - illegali - che presto si sarebbero riempite. Mentre venivano trascurate, ma anche ostacolate, le misure di un ciclo «virtuoso» dei rifiuti: riduzione alla fonte, promozione del riuso, raccolta differenziata spinta, compostaggio - domestico, in impianti o in fattoria - della frazione organica; impianti per il recupero degli imballaggi; revamping degli impianti per la separazione, il trattamento e il recupero della frazione indifferenziata; studi - perché nulla se ne sa; nemmeno quante sono realmente - per risolvere il problema delle ecoballe; bonifica delle zone - ma si tratta di due intere province! - devastate dai rifiuti tossici ad opera della camorra; misure per prevenire il ripetersi di quelle pratiche; ma, soprattutto, una collocazione alternativa per due terzi degli oltre 25mila addetti campani al ciclo dei rifiuti (almeno il triplo del necessario), assunti o abbindolati con l'idea che la gestione dei rifiuti fosse un pozzo senza fondo in cui sprofondare senza alcun progetto, oltre ai residui dei nostri consumi, anche gli scarti di una gestione dell'occupazione dissennata.
Unico obiettivo strategico del governo, come nei devastanti 14 (allora) anni di commissariamento (di cui quasi 6 sotto la diretta responsabilità dei precedenti governi Berlusconi), la corsa agli inceneritori: il deus ex machina a cui affidare una sparizione dei rifiuti di cui non si sa più come bloccare la crescita: quattro, o cinque, oppure tre, di nessuno dei quali sono stati ancora stabiliti progetto o localizzazione definitiva. E' solo stato messo in funzione, con fanfare, grancassa e passaggi di mano complessi e secretati, l'inceneritore di Acerra, il cui progetto è vecchio di 50 anni e che funziona un giorno sì e l'altro no.
Eppure, per oltre due anni, a Berlusconi è stato accreditato il «miracolo» della scomparsa dei rifiuti campani: non solo dai suoi supporter, ma anche da avversari che hanno preso per buona la propaganda del governo senza fare inchieste né avere un'idea del problema: dai maggiori quotidiani nazionali, che hanno più volte tributato ampi riconoscimenti al governo, ai dirigenti del Pd, che ha approvato tutti i disastri perpetrati da Bertolaso. E questo, nonostante che in Campania, nel 2008, fosse all'opera un forum rifiuti a cui partecipavano decine di organismi di base, di associazioni del volontariato, i sindacati, le associazioni imprenditoriali, le camere di commercio, che di idee e informazioni in proposito ne stava producendo a iosa.
Vediamo per esempio che cosa scriveva il 6 agosto 2008 su la Repubblica Tino Iannuzzi, segretario regionale del PD campano: «Abbiamo giudicato con favore la nomina da parte del governo, del sottosegretario Bertolaso, figura autorevole di dirigente dello stato e di uomo delle istituzioni. Il suo operato, in proficua e leale collaborazione con la regione e gli enti locali, è stato intenso e positivo con interventi emergenziali e urgenti, che hanno consentito il superamento della fase più acuta della crisi, con la rimozione dei rifiuti dalle strade». Nemmeno accorgersi che il grosso della rimozione dei rifiuti era stata già realizzata - con metodi più che discutibili - dal precedente commissario De Gennaro sotto il governo Prodi! E, prosegue Iannuzzi: «Abbiamo sostenuto con determinazione le scelte dei siti per la localizzazione di nuove discariche e degli impianti necessari per un ciclo moderno e completo di gestione dei rifiuti. Simbolicamente (sic!) abbiamo detto e ripetiamo che sindaci del Pd con la fascia tricolore non saranno mai alla testa di proteste popolari per contestare le decisioni... Ci siamo posti l' obiettivo di lavorare, nella conversione del decreto legge sui rifiuti». E' il decreto che oltre ai quattro inceneritori e alle dieci discariche - tre delle quali persino Berlusconi è stato costretto a annullare, perché contrarie alla legge, alla salute e al buon senso - autorizzava le discariche campane ad accogliere anche rifiuti tossici - quelli fino ad allora sversati nei Regi Lagni del Casertano - e gli impianti di depurazione degli scarichi civili ad accogliere anche reflui industriali; smantellava gli impianti di separazione del secco dall'umido e di trattamento di quest'ultimo, perché tutto potesse finire negli inceneritori, la cui capacità era sovradimensionata proprio per evitare la raccolta differenziata; non stanziava alcun fondo per questa - anche se fissava al 2010 (ormai trascorso!) l'obiettivo del 50 per cento - né per il compostaggio della frazione organica. E bravo Iannuzzi!
Che così continuava: «E' stato il Pd, con l'emendamento del sottoscritto approvato in commissione mmbiente della camera, a favorire la concessione degli incentivi Cip6 per i termovalorizzatori di Salerno, Napoli e Santa Maria La Fossa. Su questo tema ostico i parlamentari campani del Pd si sono battuti con coraggio e forza, nel partito e nella discussione in aula per la concessione, in via straordinaria ed eccezionale, di contributi indispensabili per superare le tante e rilevanti difficoltà che ostacolano da noi la costruzione dei termovalorizzatori». Due anni dopo è uno degli esponenti di punta del Pdl, Gaetano Pecorella, presidente della commissione parlamentare di indagine sulla presenza della malavita organizzata nel ciclo dei rifiuti, a spiegare che la partita degli inceneritori avrebbe dovuto essere chiusa da tempo: « residuale, perché si dovrà puntare sul riutilizzo dei materiali, sviluppando la fase del recupero. E' l'obiettivo, per esempio, che hanno in Germania: quello di arrivare al 90 per cento di riutilizzo. L'avvenire è questo». (Liberal, 20.10.2010).
Perché allora insistere sugli inceneritori? Per incassare la rendita degli incentivi Cip6, che l'Unione europea ha messo al bando. E chi se ne frega se i rifiuti restano per strada per qualche anno ancora. Sugli inceneritori passano anche, a volo radente sostanziose tangenti su cui in Campania la componente del Pdl più direttamente legata alla camorra sta mettendo le mani, con la loro assegnazione alle amministrazioni provinciali che controlla. Altro che mezzo per eliminare dalla gestione dei rifiuti la camorra, come hanno sempre sostenuto gli inceneritoristi ad oltranza! Leggere, per saperne di più, il libro La Peste di Tommaso Sodano. E per finire, Iannuzzi non fa una parola sugli «esuberi» del settore; il che, per un partito che dovrebbe occuparsi dei lavoratori, sembra una grave dimenticanza.
Dunque, se siamo arrivati a questo punto (discariche piene, impianti di compostaggio e di trattamento (Stir, ex Cdr) chiusi o fuori uso, raccolta differenziata, con poche significative eccezioni, a terra, consorzi e comuni indebitati fino al collo e impossibilitati ad avviare un ciclo virtuoso, migliaia di lavoratori a rischio di licenziamento) lo dobbiamo non solo a Berlusconi e Bertolaso, ma anche al Pd, che in materia (ma non solo) la pensa esattamente come loro.
Così, tra le scelte del Pd spicca anche la gestione dissennata dell'Asìa, l'azienda di igiene urbana di Napoli. Certo, la situazione ereditata dal management nominato dalla giunta Iervolino all'inizio del 2008 non era delle più rosee: raccolta differenziata quasi a zero, mezzi vecchi e non funzionali, personale anziano, in larga parte in subappalto, mancanza - come ovunque, in Campania - di impianti di compostaggio; scarsità di risorse liquide e forte indebitamento. Ma in due anni la raccolta differenziata su tutto il territorio cittadino avrebbe potuto venir organizzata. Decine e decine di comitati, di associazioni, di parrocchie e molte municipalità erano pronte a dare una mano (e avevano dimostrato una certa efficacia nei giorni più duri dell'emergenza). Salerno è riuscita in un anno a passare dal 14 al 70 per cento; Napoli è ancora sotto il 20, procede con passo da lumaca ed è anche tornata indietro. Perché Asìa ha puntato tutto su quello che chiama «chiusura del ciclo», cioè sull'inceneritore per bruciare tutto subito: prima cercando una partecipazione in quello di Acerra; poi aspettando quello di Napoli.
Nel frattempo non ha costruito nemmeno una stazione ecologica per i rifiuti ingombranti (li potete vedere per strada in tutte le «cartoline» televisive di Napoli; nemmeno un impianto di compostaggio (per cui c'erano due progetti già pronti); ha avuto in gestione gli impianti di separazione secco-umido di Tufino e Giugliano: il primo quasi nuovo e il secondo (dove c'è stata anche un infortunio mortale) appena ristrutturato; e li ha mandati in malora. Adesso utilizza parzialmente quello di Santa Maria Capuavetere, in provincia di Caserta, che funziona a pieno ritmo: il che significa che quegli impianti possono essere rimessi a nuovo. Ha gestito in modo demenziale, risparmiando sulle coperture in terra dei rifiuti sversati, la discarica Sari di Terzigno, che adesso le è stata giustamente sottratta. Così non sa più dove sversare; e quindi non può neanche raccogliere. Per i conferimenti dipende interamente dall'amministrazione provinciale in mano al PDL di Cesàro e Cosentino, che, in vista delle elezioni, hanno tutto l'interesse a far marcire la situazione per addossarne la responsabilità alla Giunta «di sinistra» di Napoli.
Poi c'è il problema delle ecoballe: nessuno ne parla, ma c'è quasi un miliardo di garanzie bancarie (con istituti di primaria rilevanza nazionale) affidati a quel mucchio di rifiuti come fossero altrettanti barili di petrolio (e lo diventeranno se si farà un numero sufficiente di inceneritori per smaltirle beneficiando degli incentivi CIP6). Ma se dovessero venir smaltite altrove, a pagamento, si trasformerebbero in un costo astronomico di almeno un paio di miliardi. Così, finché la cosa non sarà chiarita, a tenere in sospeso la vicenda dei rifiuti campani, oltre alla camorra e all'inettitudine di molte amministrazioni locali, ci sarà anche un pool di banche.
Infine c'è l'esercito, che continua a «presidiare» discariche e inceneritore. I militari in servizio vengono pagati (Ministero della Difesa) come se fossero in missione in Afghanistan a rischiare la vita. Ma, controllando le discariche, sanno dove portare i rifiuti che molti Comuni sono costretti a tenere per strada perché non hanno a disposizione impianti di conferimento. Così non è raro vedere squadre di decine di militari prelevare un cumulo di rifiuti stradali per cui basterebbero due addetti alla nettezza urbana. Anche per questo l'emergenza non finirà molto presto.
Nell'immediato, una soluzione per superare l'emergenza (e poi procedere subito su tutti gli altri punti) ci sarebbe: a Parco Saurino, in provincia di Caserta e in terra di camorra, c'è una discarica vuota da 300mila metri cubi (ampliabile fino a 600). C'è da anni e avrebbe potuto evitare anche l'emergenza del 2008, se fosse stata messa a disposizione. Invece è rimasta vuota per drammatizzare la situazione campana su cui Berlusconi stava conducendo la sua vittoriosa campagna elettorale. Adesso Berlusconi sostiene che qualcuno ostacola i suoi piani. Sa di che cosa parla. C'è qualcuno, nel suo stesso partito, molto interessato a mantenere le mani sui rifiuti. Costui non vuole levargli le castagne dal fuoco per fargli riuscire di nuovo il «miracolo»: fino a che, per lo meno, non gli saranno state consegnate le chiavi di tutto il ciclo dei rifiuti: cominciando dalle deroghe sulla tracciabilità dei rifiuti, che ha tanto fatto arrabbiare (per finta) lo pseudo ministro Prestigiacomo (www.guidoviale.blogspot.com)
Lido di Venezia - Lenzuola bianche ai balconi, caroselli di macchine, un lungo corteo durante la Mostra del Cinema che inaugura mercoledì e un esposto alla magistratura. Sono le iniziative al Lido di Venezia contro la costruzione in un´area dell´isola di grande pregio, l´ex Ospedale a mare, di un enorme complesso residenziale, turistico e commerciale che costringe al trasloco anche l´ultimo presidio sanitario. Ma è tutto il Lido oggetto di fermenti edificatori: si ristrutturano l´Hotel des Bains, che diventerà in parte residence, e l´Excelsior, si mette mano al Lungomare e si programmano villette e un albergo nell´ottocentesco Forte di Malamocco. Nel frattempo il placido orizzonte dell´isola è stravolto dalle gru che scavano i fondali per piazzarvi i cassoni del Mose. Per chi li propone, gli interventi segnano la rinascita di questa lingua di terra che chiude la laguna e che all´inizio del Novecento fu luogo di mondanità internazionale. Per altri è lo stravolgimento, a fini speculativi, di un territorio ancora molto verde.
La vicenda dell´Ospedale a mare è un garbuglio: con i soldi ricavati dalla cessione dell´area a un gruppo di imprese private, il Comune di Venezia pagherà la costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, che la Biennale chiede da tempo. Il progetto era nel pacchetto delle opere previste per le celebrazioni dell´Unità d´Italia. Lo caldeggiava Angelo Balducci, poi arrestato per il G8 alla Maddalena, e lo seguivano Fabio De Santis e Mauro Della Giovampaola, pure loro finiti in carcere. Ma, nonostante sia sotto l´egida di uno dei tanti commissari della Protezione civile (Vincenzo Spaziante, vice di Guido Bertolaso, fra gli artefici del Progetto Case a L'Aquila), il cantiere è fermo. C´è solo un cratere recintato che inquieterà gli spettatori della Mostra del cinema. Sono stati abbattuti settanta pini tutelati e il Parco delle Quattro Fontane n´è uscito sfigurato: una decimazione che gli architetti vincitori della gara (Rudy Ricciotti e lo studio 5+1AA) giurano di non aver mai suggerito. D´altronde tutto il progetto è stato ridimensionato. Ma il punto vero è che l´appuntamento con il 2011 verrà bucato: il Palazzo del Cinema è stato sfilato dall´elenco di opere che celebrano l´Unità.
Tanto sfascio per nulla? No. Nel frattempo l´operazione finanziaria e immobiliare resta in piedi. È un pasticcio, che in questi giorni svela l´intrico della sua trama. A un certo punto della trattativa ci si è accorti che l´area dell´ospedale aveva bisogno di una bonifica. Deve pagarla il Comune, dicevano le imprese. O, in cambio, dobbiamo avere altre concessioni: una darsena e, soprattutto, il grande edificio al centro dell´area, detto il Monoblocco. Fra il sindaco Giorgio Orsoni, che ereditava accordi presi da Massimo Cacciari, e le imprese (la EstCapital di Gianfranco Mossetto, ex assessore di Cacciari negli anni Novanta, e poi Mantovani e Condotte, colossi del mattone, impegnati nella partita Mose) si è aperto un contenzioso che è stato appena risolto. I costruttori pagheranno la bonifica, ma avranno quel che volevano: altro spazio per tirar su palazzi e il porto turistico. Senza questa intesa il Comune non avrebbe potuto girare un soldo per il Palazzo del Cinema e avrebbe rischiato la bancarotta. Un piccolo particolare: sia l´allora sindaco Cacciari che Spaziante - diventato commissario di tutti i progetti del Lido - avevano assicurato che nel Monoblocco sarebbe rimasto un presidio ospedaliero.
Quest’anno comincia con i propositi e non con le previsioni: intellettuali e cubiste non vaticinano più, lasciano il passo agli indovini di professione. Il futuro nella sua folle incertezza fa paura: nessuna persona seria vuole compromettersi. Non capisco se sia un segno di senno o l’abbandono della speranza di qualcosa di meglio, come il discorso del Presidente della Repubblica che sembrava il commiato pieno di raccomandazioni di un padre al figlio in partenza per la guerra, guerra incomprensibile e che non si vincerà ma alla quale si è tenuti per onor di firma. L’incerto per l’incerto in Italia ma anche nella piccola e provinciale Milano che si avvita sempre di più sui suoi problemi, da quelli dei servizi pubblici allo sbando, alle nuove norme urbanistiche.
Su quest’ultimo fronte di guerra, dalla trincea degli immobiliaristi stremati da un lungo digiuno, partono robuste cannonate contro la collettività che vorrebbe salvare il proprio spazio vitale, come se fossero queste strenue difese a tenerli a stecchetto e non un mercato immobiliare inesistente. La realtà è che gli immobiliaristi per primi, Ligresti e Cabassi e ora anche Ferrovie dello Stato sanno perfettamente che il problema è il mercato che non si muove ma devono difendere il potenziale edificatorio delle loro aree per ridare contenuto alle garanzie che servono loro per sostenere fragili bilanci e per continuare in quell’infinito gioco di scatole cinesi che alimenta un sistema finanziario immobiliare drogato al quale l’amministrazione milanese fa da pusher. Lo sa? Ne è consapevole? Sta al gioco?
Mi domando da sempre in capo a chi vada la responsabilità del governo dell’edilizia, non dal punto di vista urbanistico ma da quello economico. Le risposte che l’assessore Masseroli ha dato agli immobiliaristi sono state secche e nell’interesse del bene comune ma quanto resisterà in questa guerra che vede le alleanze farsi e disfarsi secondo la convenienza degli equilibri politici del momento? A prescindere dalla capacità di resistenza dell’assessore, dalla posizione che prenderà la Provincia, dal ruolo che giocheranno i Comuni della cintura milanese coinvolti nelle vicende del Parco Sud, e da quelli del nord Milano, resta sempre insoluto il grande nodo dell’urbanistica: è compito suo contrastare l’iniqua rendita di posizione, ossia l’appropriazione da parte di privati cittadini di una ricchezza che si genera nelle loro tasche senza alcun merito e senza alcuna fatica? Ricchezza prodotta da quella collettività che si è nel tempo fatta città pagando di tasca propria strade, scuole, edifici pubblici, servizi collettivi, insomma tutto quello che trasforma una landa incolta in luogo di residenza, lavoro e socialità. Credo sia un nodo indissolubile, che non si riesce a sciogliere ma solo a governare e che dipende dalla capacità di un Paese di muoversi verso una giustizia fiscale che recuperi alla collettività queste risorse e questa ricchezza lasciando all’urbanistica il suo vero ruolo: la definizione della forma della città e l’equilibrio delle sue funzioni. All’inizio dell’anno è lecito sognare.
"Qui c´è un problema serio di rapporto tra il capitale e la democrazia". Non lo ha detto uno dei soliti sindacalisti che, a quanto si legge, ostacolano la modernizzazione produttiva. Ma il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, in un´assemblea con i lavoratori della Eaton di Massa svoltasi poco prima di Natale. Trecento persone che dopo due anni di cassa integrazione hanno ricevuto a metà ottobre 2010 altrettante lettere di licenziamento. Forse perché l´azienda era invecchiata, le sue tecnologie superate, i prodotti rifiutati dal mercato? Niente affatto. La Eaton produceva componenti avanzati per motori d´auto, venduti ai maggiori costruttori europei, con buoni margini di utile.
Ma è successo che nell´Ohio, sede dell´azienda madre, qualcuno ha fatto due calcoli e ha scoperto che in Polonia si possono produrre gli stessi componenti a un costo inferiore. Si sa, laggiù costa tutto meno: il lavoro, i terreni, i servizi. Quindi il management ha deciso di chiudere lo stabilimento di Massa e spostare la produzione in quel paese. Gli azionisti apprezzeranno.
È un´azione di chiara razionalità economica, si dirà. Che c´entra la democrazia? La risposta sta in quelle centinaia di lavoratori che occupano la loro fabbrica senza macchine perché sono state spedite all´estero, che fanno lo sciopero della fame, bloccano per qualche ora l´autostrada. Democrazia è la possibilità di avere voce nelle decisioni che toccano la propria vita, partecipare in qualche misura ad esse, poter discutere del proprio destino; magari per accettarlo, alla fine, anche se ingrato.
A modo loro, quei lavoratori ripropongono un detto che ebbe peso agli esordi stessi della democrazia: siamo tanti, non contiamo niente, vorremmo contare qualcosa. Ci ricordano pure che c´è qualcosa di profondamente distorto in un sistema economico e politico che separa il lavoro dalla persona. Il primo è considerato una merce che un´impresa ha pieno diritto di comprare al prezzo che le conviene, o buttare da parte perché non serve più. La seconda è un essere umano che ha una storia, sentimenti, rapporti familiari, desideri, amicizie, un senso di dignità. È possibile, dobbiamo chiederci, che dinanzi al rischio di restare senza lavoro, che significa anche perdere gran parte dell´identità di persona perché la società intera è stata costruita attorno all´idea di lavoro retribuito, nessuno in pratica abbia il diritto riconosciuto di discutere se ci sono soluzioni possibili, altre strade meno impervie, di affermare che una razionalità economica che non lascia nessuna voce agli interessati al di fuori degli azionisti è una forma di irrazionalità che sta minando alle radici la democrazia?
Bisogna dire che nel caso particolare della Eaton il comune e la regione, insieme con i sindacalisti e un certo numero di politici, sono stati ad ascoltare la voce dei lavoratori. Hanno formulato controproposte alla casa madre, hanno messo sul tavolo capitali per mantenere anche in altre forme la produzione industriale nell´area. Finora le risposte della società dell´Ohio, per la quale lo stabilimento di Massa, Italia, è forse solo un paio di pixel sullo schermo dei computer centrali, sono state in prevalenza negative. Si può sperare vi sia ancora qualche margine per ottenere ulteriori sostegni al reddito, e recuperare un´attività produttiva che ridia prospettive di occupazione stabile agli ex dipendenti. Ma l´occupazione da parte degli operai della fabbrica svuotata delle sue macchine pone la politica, e tutti noi, dinanzi a una questione che il prosieguo della Grande Crisi farà diventare sempre più impellente. C´è un problema generale di rapporto tra capitale e democrazia, che non si risolverà anche se qui e là si porrà rimedio a problemi locali.
Nuovi progetti infrastrutturali per la base aerea di Aviano (Pordenone), sede del principale comando dell’Us Air Force in Europa e trampolino di lancio dei cacciabombardieri a capacità nucleare F-16 nei Balcani e in Medio oriente. “Priorità strategica per i piani di lavoro 2011”, come ha spiegato Jeff Borowey, responsabile del Comando d’ingegneria navale Usa per l’Europa, l’Africa e l’Asia sud occidentale, Aviano assorbirà da sola più del 27% degli investimenti destinati per il nuovo anno al potenziamento delle basi aeree Usa nel vecchio continente. Si tratta di 29 milioni e duecentomila dollari, 10 milioni e duecentomila destinati alla costruzione di una “Air Support Operations Squadron (ASOS) Facility” e 19 milioni per 144 alloggi per il personale del 31° Stormo dell’Us Air Force.
“La nuova facility di Aviano deve rispondere adeguatamente alle necessità amministrative, operative, addestrative e di manutenzione e stoccaggio veicoli ed attrezzature dell’8° Squadrone per le Operazioni di Supporto Aereo (8th ASOS)”, scrive il comando dell’Us Air Force nella richiesta di finanziamento per il 2011 presentata al Congresso. Giunto nella base friulana a fine 2006 dalla caserma Ederle di Vicenza, l’8° Squadrone è composto da una quarantina di uomini che forniscono il supporto al “Comando e Controllo Tattico delle componenti congiunte delle forze aeree e terrestri statunitensi per le operazioni di guerra”. “Questo progetto - aggiunge il comando dell’Us Air Force - consentirà di sostenere l’iniziativa di trasformazione voluta dall’aeronautica militare per consentire il collegamento diretto dell’ASOS con le unità aeree e dell’US Army di stanza ad Aviano”. Dallo scorso anno è infatti operativa nella base, accanto ai reparti aeronautici, la 56th Quartermaster Company, letteralmente 56^ Compagnia Timonieri, unità dipendente dalla 173^ Brigata trasportata dell’Us Army di Vicenza, specializzata nelle tecniche di aviolancio. “Secondo le linee guida progettuali”, spiega il Pentagono, “le aree destinate ad uffici ASOC cresceranno in superficie del 30% (2.414 mq), mentre quelle riservate a deposito veicoli di un 25% circa (550 mq). È prevista l’installazione di condizionatori d’aria, sistemi antincendio e distribuzione di energia, collegamenti internet e telefonici, apparecchiature di protezione luminosa e attenuazione dei rumori. Questo progetto risponderà alle richieste del Dipartimento della difesa in materia di protezione da attacchi terroristici e richiederà l’approvazione da parte di una commissione mista USA-Italia”.
La seconda importante tranche finanziaria ottenuta dall’Air Force è riservata alla realizzazione di nuovi dormitori multipli per gli avieri, dotati di saloni, servizi, lavanderia e ampi parcheggi. “Saranno demoliti i tre dormitori attualmente utilizzati nell’Area A2 di Aviano in vista della sua restituzione al governo italiano (rimozione dalla lista delle infrastrutture di proprietà Usa)”, scrive il comando Us Air Force nella richiesta di finanziamento al Congresso. Il nuovo complesso abitativo sorgerà accanto alle sei palazzine esistenti nella cosiddetta Area 1 (distante circa 5 chilometri dall’Area 2), dove sono concentrate le unità abitative, l’ospedale e le scuole per i figli del personale militare. Secondo il comando del 31st Civil Engineer Squadron, le modalità per la restituzione dei circa 13 acri (52.611 mq) dell’Area 2 sono in via di definizione con le autorità militari italiane e la decisione di “ricongiungimento” dei dormitori sarebbe stata dettata dai “rischi per i militari” e dalle difficoltà di protezione dei veicoli in transito sulla strada statale che collega i due siti. “A causa della gravità delle violazioni ai sistemi di sicurezza nell’Area A2, un dormitorio è già stato chiuso del tutto e solo il 50% di un secondo dormitorio è usato ancora oggi”, spiegano ad Aviano. “La costruzione di una struttura con 144 alloggi nel principale campus della base secondo le prescrizioni dell’Air Force 2008 Dormitory Master Plan, consente a tutti i residenti di non essere più “facile obiettivo” in caso di evento terroristico; la chiusura dell’Area A2 elimina inoltre il grande blocco stradale esistente”.
Aviano si conferma dunque come una delle principali basi-cantiere delle forze armate Usa in Europa. Nell’ottobre 2009 è entrato in funzione l’“Airborne Equipment/Parachute Shop”, costo 12 milioni e 100 mila dollari, un megadeposito di 4.000 mq che ospita i materiali necessari per le operazioni di aviolancio e altre attrezzature pesanti dei reparti Us Army di Vicenza. Recentemente è stata pure completata la costruzione di una infrastruttura di 5.000 mq atta ad ospitare sino a un migliaio di paracadutisti della 173^ Brigata in attesa di imbarco (“PAHA - Personnel Alert Holding Area”). Accanto ad essa sorge pure una piattaforma per le soste operative dei grandi velivoli da trasporto delle forze armate Usa, in grado di ospitare simultaneamente sino a dodici C-130 o cinque C-17. A fine 2009 sono stati completati infine i lavori di riparazione della rete stradale e del sistema d’illuminazione del parcheggio della base per una spesa complessiva di 750 mila dollari.
Attualmente il distretto europeo dell’Us Army Corps of Engineers sta eseguendo una serie di lavori di manutenzione per circa 4 milioni di dollari, che includono la riparazione di alloggi, scuole, piste aeree e di una facility per l’addestramento anti-incendio. Il 31st Civil Engineer Squadron ha inoltre dato il via ad un piano biennale con un investimento di 5 milioni di dollari che prevede la realizzazione di 16 progetti di “risparmio energetico”, tra cui l’installazione di un impianto geotermico nel Fitness Center, pannelli solari per la piscina e i dormitori destinati ai militari e un sistema d’irrigazione con acqua piovana dei campi sportivi e del campo da golf realizzato nel 2006 su 3 ettari e mezzo di superficie dell’aeroporto “Pagliano e Gori”. Per la rizollatura dell’“Alpine Golf Corse” di Aviano, l’Us Air Force ha pubblicato a fine settembre un bando di gara e i lavori dovrebbero iniziare a giorni. Altro bando per un milione di dollari è stato pubblicato a fine luglio per la ristrutturazione dei fabbricati Command Post Facility n. 1360 e Alternate Command Post n. 1135, ubicati entrambi nell’Area F della base. Tutti questi impianti rientrano nel piano di ammodernamento e potenziamento infrastrutturale per il valore di 610 milioni di dollari denominato “Aviano 2000”: si tratta complessivamente di 99 grandi progetti (33 gestiti dall’Aeronautica militare italiana e 66 dalle forze armate statunitensi), a cui si aggiungono 186 interventi di dimensioni minori. Obiettivo strategico è quello di trasformare Aviano nella maggiore installazione dell’Us Air Force per “condurre la guerra aerea e nello spazio e le operazioni di supporto al combattimento nella Regione europea meridionale”. Come specificato dal Comando dell’aeronautica nel suo report finanziario 2011 “ad Aviano si mantengono operativi due squadroni di cacciabombardieri F-16 fighter per operare regionalmente ed extra-area su richiesta della NATO, di SACEUR o della nazione con munizioni convenzionali e non-convenzionali. La base mantiene operativo anche uno squadrone di controllo aereo per le attività di sorveglianza, controllo e comunicazioni”. Le schede allegate al nuovo piano forniscono il censimento aggiornato del patrimonio immobiliare Usa ad Aviano: si tratta di una lunga lista di infrastrutture, alloggi, depositi, ecc. presenti in 1.192 acri di terreno, valore complessivo 740 milioni e 700 mila dollari. Lo scorso anno, l’Us Air Force ha pure pubblicato uno studio sul cosiddetto “impatto economico” generato delle basi estere, il quale prende in considerazione i “beni e i servizi acquistati localmente” dal personale militare, gli stipendi versati al personale civile locale, gli affitti degli alloggi e i lavori appaltati a ditte e imprese delle nazioni ospitanti. Stando ai militari Usa, nell’ultimo anno “il valore totale del denaro immesso nell’economia locale di Aviano raggiunge i 427 milioni di dollari”. Di questi, 199 milioni corrisponderebbero alle spese sostenute fuori dalla base dal personale militare e civile statunitense e dai dipendenti civili italiani; 47,3 milioni sono stati generati dalle attività di costruzione, 16 milioni dalle spese “per servizi”, 104,9 dall’acquisto di materiali ed attrezzature. L’Us Air Force si spinge nel quantificare in 1.743 i posti di lavori “secondari” generati dalla base aerea friulana, con un apporto di 59, 8 milioni di dollari in retribuzioni e contributi salariali. Anche se restano misteriose le modalità e i parametri con cui sono stati stimati i presunti “benefici” economici dell’installazione, una prima incongruenza traspare dal computo degli appartenenti alle forze armate e dei dipendenti civili in forza ad Aviano. Lo studio “sull’impatto economico” calcola infatti una presenza di 348 ufficiali, 3.409 militari semplici, 594 civili Usa e 934 lavoratori civili italiani. Nella scheda presentata al Congresso, sempre dall’Us Air Force, per i fondi infrastrutturali del 2011, il personale Usa ad Aviano è invece leggermente inferiore (303 ufficiali, 3.196 militari semplici e 764 civili). Nelle stime manca poi qualsivoglia riferimento agli impatti “negativi” sull’economia e la società locale, non certo indifferenti in termini di contaminazioni ambientali, traffico veicolare, inquinamento acustico, consumo di territorio, depauperamento risorse idriche e naturali, rischi di dispersione di materiali radioattivi, accumulazione rifiuti solidi e speciali, ecc.. I comandi Usa, che lo scorso anno hanno pubblicamente enfatizzato il “business” generato dal mercato degli affitti degli immobili destinati al personale statunitense (“36 milioni e 600 mila euro all’anno”), preferiscono glissare sul fatto che la stramaggioranza dei contratti sottoscritti direttamente dal Dipartimento della difesa riguardano immobili di proprietà di quattro grandi società immobiliari che hanno sede fuori dalla provincia di Pordenone. A ciò si aggiunge il piano di drastico ridimensionamento delle spese recentemente varato dal Pentagono il quale prevede entro la fine del 2011 una riduzione degli alloggi locati ad Aviano da 726 a 531 unità e del canone medio mensile da 8.712 dollari a 6.372, con una spesa finale di 16.078.000 dollari contro i 20.734.000 del 2009.
A rendere ancora più asimmetrica la relazione costi-benefici per la popolazione locale l’ammontare delle risorse pubbliche dirottate dalle amministrazioni locali per interventi infrastrutturali pro-base. Nel gennaio 2009, ad esempio, sono state consegnate due rotatorie e una serie di bretelle intermedie sul confine meridionale dell’aeroporto “Pagliano e Gori”, sulla strada provinciale Aviano-Pordenone e la circonvallazione nord di Roveredo. Gli interventi si sono resi necessari per regolarizzare i voluminosi flussi veicolari verso lo scalo aereo (oltre 5.000 mezzi al giorno), e hanno comportato una spesa di oltre tre milioni di euro da parte dell’amministrazione provinciale di Pordenone e della Regione Friuli Venezia Giulia.
Il nuovo mercato e le aree di via Torino: «Un regalo ai privati» - L’occupazione alla Cini come denuncia «Il Comune ci rimette»
Le Varianti urbanistiche fanno solo l’interesse dei privati. E invece della pianificazione oggi si usa un po’ troppo l’«urbanistica concordata». Accuse pesanti quelle lanciate da Francesco Sanvitto, architetto di sinistra con simpatie leghiste. Che ha organizzato domani una clamorosa protesta bipartisan alla rassegna Urban promo, in corso alla Fondazione Cini nell’isola di San Giorgio.
Un gruppo di consiglieri comunali di varie tendenze (Lega, Grillini e altri) occuperanno nel pomeriggio la sede del convegno per protestare contro le ultime operazioni immobiliari. «Esposte in mostra come fossero grandi conquiste», dice l’architetto. Protesta sostenuta da un voluminoso dossier: nel mirino ci sono le operazioni immobiliari private autorizzate dal Comune negli ultimi anni con una semplice Variante urbanistica. Dal Lido a Tessera, da Cavergnago a via Torino. Scambi di terreni, vendita di patrimonio pubblico, operazioni di «valorizzazione» affidate ai privati. Materiale già oggetto di un esposto alla Procura e ora rimesso sotto i riflettori dal combattivo architetto.
Il caso che non mancherà di riaccendere polemiche è quello del mercato di via Torino, sfrattato dall’amministrazione per consentire a una società privata (la Venice campus di Piergiorgio Baita, presidente della Mantovani) di realizzare sei torri, 190 mila metri cubi di residenze di lusso, darsena e servizi, attività commerciali e una casa dello studente da 350 posti. progetto di Plinio Danieli. «Da questa operazione», scrive l’architetto, «il Comune ci ha soltanto rimesso, e il mercato non ha ancora una sede». Fatti due conti, Sanvitto spiega che il valore dell’operazione nell’area del Comune poteva raggiungere i 76 milioni di euro. Il costo del nuovo mercato realizzato in area industriale (650 euro per metro quadrato) non sarebbe stato superiore a 15 milioni di euro, più gli imprevisti. Insomma il Comune, scrive il Grande accusatore, ci avrebbe guadagnato 50 milioni. Ma non è andata così. E accettando lo scambio il Comune ha fatto un bel regalo alla società. Che ha offerto per il vecchio mercato Ortofrutticolo di via Torino 46 milioni 230 mila euro, da cui ha detratto anche i 2 milioni e mezzo per la bonifica. Alla fine 43 milioni 730 mila euro. Il costo del nuovo mercato è di 36 milioni di euro (l’area viene valutata 10 milioni perché in area parificata a centro commerciale. Alla fine, sostiene il professionista, all’amministrazione sono rimasti soltanto 7 milioni 730 mila euro e nel frattempo il Comune si è accorto che l’area offerta in cambio dal Grande Benefattore (il privato) non è adatta a ospitare il mercato perché non ha nemmeno accesso all’acqua. Per rientrare almeno in parte il Comune è stato costretto a metterla in vendita concedendo un’altra Variante urbanistica per cambiarne la destinazione d’uso da impianti a commerciale e direzionale. In sostanza, si legge nel dossier messo a punto dall’architetto, «si è stravolta un’area destinata allo sviluppo universitario con quasi mille residenti in più senza servizi. «Fuori da ogni logica urbanistica, in modo illegittimo e nel solo interesse del privato», sostiene Sanvitto.
Anche l’area di Cavergnago sarà trasformata da servizi a centro commerciale, con qualche problema di immissione sulla già congestionata statale 14 Triestina. La battaglia politica e legale, promette Sanvitto, è soltanto all’inizio.
Dai giovani al debito pubblico alla riforma fiscale, Napolitano ha toccato temi che la politica aveva accantonato negli ultimi mesi, concentrata com’era in una resa dei conti pronta a sfociare in una crisi al buio. Ma soprattutto, nell’ «operazione verità» andata in scena nei venti minuti del suo messaggio di Capodanno, ha accennato una questione quasi assente nel nostro dibattito pubblico: la convivenza con i fantasmi della decrescita, indagata (tra i primi) dal guru ecologista francese Serge Latouche.
Infatti, quando il presidente rileva che, anche per effetto dei collassi planetari dell’economia, «il sogno di un continuo progredire nel benessere, ai ritmi e nei modi del passato, è per noi occidentali non più perseguibile» , va al cuore del problema. Che è quello di imporre una riflessione sui limiti della cosiddetta «teologia del Pil» e dello sviluppo infinito, contro cui si batte Latouche. Dati i pericoli messi in evidenza dal risiko della finanza globale, proporre simili interrogativi non è esercizio di catastrofismo ma di realismo.
Una scelta obbligata e non in contrasto con la decisione di tenere sullo sfondo la politica interna. Specialmente dopo un 2010 dominato dalle «condizioni di persistente crisi e incertezza dell’economia e del tessuto sociale» , che ha diffuso «l’ansia di non poterci più aspettare un ulteriore avanzamento e progresso di generazione in generazione come nel passato» . Certo, il presidente ha mitigato quel passaggio del proprio monologo con l’esortazione a non lasciarci «paralizzare» dall’ansia e a non rinunciare «al desiderio e alla speranza di nuovi e più degni traguardi da raggiungere nel mondo segnato da un processo di globalizzazione» (che non esita a definire «ambiguo» per le ricadute «sul terreno dei diritti democratici e delle diversità culturali» ). Dovrebbero essere motivo di riflessione per tutti, e per i giovani in particolare.
I quali — secondo l’analisi di Napolitano, fondata sui tanti incontri con disoccupati, studenti e ricercatori e sull’infinità di lettere recapitate al Quirinale— se «denunciano un vuoto e sollecitano risposte sanno bene di non poter chiedere un futuro di certezze, magari garantite dallo Stato, ma di aver piuttosto diritto a un futuro di possibilità reali, di opportunità cui accedere nell’eguaglianza dei punti di partenza, secondo lo spirito della Costituzione» . E a un certo spirito di coesione riassunto nella Carta costituzionale sembra poi richiamarsi il capo dello Stato — oltre che quando ripropone la «storica ferita del divario tra Nord e Sud» e gli ancoraggi di un federalismo fiscale ispirato alla «solidarietà» — quando dedica un appello affinché si recuperi la rottura Fiom-Fiat. Che a suo avviso può, sì, passare attraverso una diversa «produttività del lavoro» , ma richiede pure «coraggio politico e sociale» e non una logica di eterna contrapposizione. Da parte dell’azienda e degli operai. Insieme.
Nota: su PIL, sviluppo ambiente e territorio, si veda anche la puntata di Report Consumatori difettosi (f.b.)
I giudizi sull'operato del governo non pertengono al presidente della Repubblica, sottolinea a un certo punto del suo messaggio di fine anno Giorgio Napolitano perché sia chiaro che la sua diagnosi sullo stato del paese non è, o non è solo, un atto d'accusa contro la compagnia di giro di Silvio Berlusconi: essa guarda lontano nel tempo, alle scelte necessarie per il prossimo decennio e ai ritardi accumulati nell'ultimo, e nello spazio, a una nuova collocazione dell'Italia in una Europa incompiuta, in un Occidente in crisi di egemonia, in un mondo globale con nuovi protagonisti.
Ma solo l'ipocrisia congenita del galateo istituzionale può acquietarsi, nei commenti del giorno dopo, dello stile impeccabilmente sopra le parti del discorso e di un'adesione bipartisan ai suoi contenuti. Coperta dietro la dedica ai giovani e l'invito a rilanciare sul loro futuro, la preoccupazione per il presente è grave e tutt'altro che leggera nei toni, e se non c'è attacco diretto alle colpe di governo non è per esentare la classe politica dalle sue responsabilità ma casomai per metterla tutta intera, maggioranza e opposizione, di fronte ai suoi fallimenti. Puntare il dito contro il «distacco ormai allarmante» fra politica e società, ammonire che «senza nuove prospettive la democrazia è in scacco», evocare gli anni della ricostruzione postfascista a pungolo delle capacità di rinascita dell'Italia, significa, nella retorica non certo ridondante di Giorgio Napolitano, dire che la situazione è oltre il livello di guardia. E rivolgersi direttamente a «ogni cittadino», «perché voi non siete semplici spettatori: la politica siete voi, voi potete rinnovarla con i vostri comportamenti», significa, per un uomo delle istituzioni non certo sospettabile di populismo come Giorgio Napolitano, sottolineare due volte un altro passaggio cruciale del discorso, laddove il presidente invoca «un salto di qualità della politica, essendone in gioco la dignità, la qualità, la capacità di offrire un riferimento e una guida».
È vietato dunque, o dovrebbe, accodarsi al perentorio invito del presidente a fare dei giovani la molla per una scossa della politica facendone invece un'arma per il prolungamento della sua paralisi. E siccome è prevedibile che dopo il discorso di Napolitano il genere «giovani» godrà di ampia fortuna nella retorica e della maggioranza e dell'opposizione, merita ricordare qual è il sottile confine che separa un impegno urgente nei loro confronti da un paternalismo stucchevole e controproducente. Napolitano ci ha risparmiato, nel suo messaggio, riferimenti alla situazione più che traballante del governo, ma ci ha pensato Umberto Bossi ad aprire l'anno con un richiamo alla probabilità più che ravvicinata delle elezioni.
Nel gioco dei sondaggi e delle percentuali virtuali, sarà il caso di non tralasciare quel segnale evidente dello stato delle cose che si chiama astensione, e che non è la malattia infantile della democrazia ma il suo sintomo giovanile, e oltre una certa soglia non esprime più un disagio ma un esodo.
E’ assai opportuno che il Convegno internazionale di antichistica Africa Romana da poco conclusosi a Sassari abbia promosso un ulteriore appello per Tuvixeddu, compendio ambientale ed archeologico fondamentale per la città di Cagliari con il suo sistema dei colli, con i segni della preistoria, una delle più importanti necropoli puniche del mondo, le testimonianze romane e quelle della modernità. Hanno protestato a centinaia storici, archeologi ed epigrafisti di tutto il mondo di fronte ad una vergogna tutta sarda e tutta nazionale, su animazione e spinta del Magnifico Rettore dell'Università di Sassari Attilio Mastino.
Con motivazioni attente. Contro l'ennesimo misfatto sul quale non ha vigilato un ministro dei Beni e delle attività culturali che dicono, e ci auguriamo, dimissionario o sfiduciato. Tuvixeddu è un bene paesaggistico che si fonda su una risorsa archeologica di incredibile rilevanza: per dimensione, storia, architetture. Aspetti pittorici, corredi tombali con materiali punici e greci di fabbrica ateniese. Nonostante le battaglie decennali, l'area è oggetto di una speculazione immobiliare che prosegue con modifiche gravi e irreversibili. Accanto alla passione ed agli appelli di intellettuali e cittadini, iniziando da Giovanni Lilliu sino a quello promosso prima dal Cagliari Social Forum e infine dal Manifesto Sardo ed eddyburg, con migliaia di firme pesanti in tutta Italia (il voluminoso dossier del 2007-2008, con i saggi degli studiosi, l'acceso dibattito e le adesioni, è in rete all'indirizzo: http://www.manifesto-sardo.org/wp-content/uploa-ds/2007/b9/Dossier-3—Tuvixeddu.pdf), vi è una classe politica che ha dato su Tuvixeddu principalmente il peggio di sé.
L'esperienza regionale di Renato Soru ha avuto il grande merito di mettere al centro il problema, con un'azione purtroppo attraversata da errori sia procedurali sia politici, come il tentativo di imporre un certo tipo di progetto al meritorio lavoro della Commissione Regionale per il Paesaggio. La classe politica al governo capeggiata da Cappellacci ha dato seguito alla tradizione cementificatrice dei ceti dei quali è espressione, talora con promesse di soluzione, soprattutto da parte sardista, alla quale in maniera 'bipartisan' si è creduto, o fatto finta di credere, per ingenuità e soprattutto per non agire. Si sono persino sentite prese di distanza: in fin dei conti, secondo alcune correnti rozzamente nazionaliste, Tuvixeddu è l'espressione di antichi colonizzatori, essendo necropoli di fase cartaginese. Un'ottica davvero preoccupante. Cosa salveremo della tutela dei monumenti ragionando così? Se il concetto di identità ha una sua validità, ecco chi lo tradisce e snatura davvero.
Discorsi probabilmente astratti perché intanto la necropoli, circondata dalle orribili fioriere di cemento autorizzate a suo tempo dalla Soprintendenza Archeologica, è sotto sequestro da parte della speculazione edilizia. Non sappiamo se la speranza sia possibile, di fronte alla sostanziale assenza della classe politica e in ogni caso alla scarsa efficacia della sua azione. La battaglia del mondo scientifico la farà riemergere? E chissà se Tuvixeddu entrerà nel dibattito che si prepara per le elezioni a sindaco di Cagliari. Ne dubitiamo. Se così non fosse, non dovrà essere in ogni caso un argomento bandiera, perché è in gioco un discorso più ampio e difficile, che ci auguriamo venga sollevato all'attenzione generale dei cittadini: il modello di città da scegliere, per capire se paesaggi e monumenti saranno centrali oppure ospiti indesiderati, al massimo monumenti danneggiati per i concerti della contemporaneità.
Nel Paese degli opposti estremismi, il caso Fiat è diventato un paradigma della Modernità. Sedicenti leader sindacali lo usano con poca prudenza: una clava da brandire contro i "padroni", rispolverando un conflitto di classe irripetibile e rievocando un clima di fascismo improponibile. Ma sedicenti pensatori liberali lo usano con poca conoscenza: una pietra angolare del riformismo, da lanciare contro tutti i conservatorismi.
Pomigliano e Mirafiori si impongono nel discorso pubblico come luoghi-simbolo di ogni cambiamento, non solo industriale. Secondo questa chiave di lettura, conservatrici sono quelle migliaia di operai che non si adattano all'idea di veder ridotto il perimetro dei diritti e peggiorato il modo della produzione. Conservatrici sono quelle casamatte della sinistra sindacale che non si rassegnano alla dura legge del mercato globale. Conservatrici sono quelle trincee della sinistra politica che non scorgono nella trasformazione post-fordista della fabbrica l'opportunità di riscrivere il proprio decalogo di valori. Conservatrici sono persino quelle frange della rappresentanza confindustriale, con modelli di relazioni solide nel settore pubblico delle public utilities e collaudate nel settore privato delle piccole imprese, che non capiscono la chance irripetibile offerta dalle vertenze-pilota aperte dal Lingotto.
Chi non accetta la "dottrina Marchionne" è dalla parte sbagliata della Storia. Quasi a prescindere. E così, per sconfiggere l'ideologia delle vecchie sacche di resistenza corporativa, si adotta un'ideologia uguale e contraria: quella delle nuove avanguardie della "modernizzazione progressiva". Questa impostazione del problema Fiat deflagra in modo potente, e patente, con l'ennesima firma separata prima sugli accordi per Mirafiori e ora sulla riapertura di Pomigliano.
Pochi ragionano sui contenuti degli accordi. Molti si preoccupano di giudicare i torti della Fiom che ancora una volta si è sfilata dal tavolo. La si può raccontare come si vuole. Ma in questa vicenda ci sono due dati di fatto, oggettivi e incontrovertibili. Il primo dato: l'accordo di Pomigliano doveva essere un'eccezione non più ripetibile. Si è visto ora a Mirafiori che invece quell'eccezione, dal punto di vista della Fiat, deve diventare la regola. Chi ci sta bene, chi non ci sta è fuori da tutto, dalla rappresentanza e dunque dall'azienda. Il secondo dato: questo accordo è obiettivamente peggiorativo della condizione di lavoro degli operai e della funzione di diritto del sindacato. Si può anche sostenere che non c'erano alternative, e che firmare era la sola opzione consentita, per evitare che la Fiat smobilitasse.
Tuttavia chi oggi parla di "svolta storica" abbia il buon senso di riconoscere che si è trattato di una firma su un accordo-capestro basato su un ricatto. Legittimo, per un'impresa privata. Ma pur sempre ricatto. Per questo c'è poco da brindare di fronte al passo compiuto dal nostro sistema di relazioni industriali verso la "terra incognita" indicata da Marchionne. Per questo fanno male i modernizzatori, che inneggiano agli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano come se si trattasse degli accordi di San Valentino dell'84 (quelli sì, davvero storici) che troncarono il circolo vizioso del "salario variabile indipendente" e salvarono l'Italia dalla vera tassa occulta che falcidia gli stipendi, cioè l'inflazione. La verità è che in questa partita quasi tutti i giocatori usano carte false o fingono di avere carte che non possiedono. Il giocatore che non ha carte da giocare è il governo.
Berlusconi non è Craxi, e Sacconi non è Visentini. Questo governo non è stato capace di mettere in campo uno straccio di proposta, né sulle misure per la competitività del sistema né sulla legge per la rappresentanza: ha saputo solo gettare benzina ideologica sul fuoco delle polemiche. Il giocatore che non ha carte da giocare è anche il Pd, che sa solo dividersi e non sa capire che l'unico metro per misurare il suo tasso di riformismo sta nel proporre un'agenda alternativa e innovativa per la crescita del Paese, un progetto per l'occupazione, per la produzione del reddito e per la sua redistribuzione. E sta nel riconoscere i diritti, uguali e universali, nel difenderli dove e quando serve, rinunciando a tutto il resto. Il giocatore che usa carte false è il sindacato. La Fiom ha le sue colpe, per non aver saputo accettare il confronto con solide controproposte e non aver voluto prendere di petto il drammatico problema dell'assenteismo nelle fabbriche. La Cgil ha le sue ambiguità, per non aver potuto ricondurre a unità la sua dialettica interna, ancora dominata da una logora "centralità metalmeccanica". Ma Cisl e Uil che si gridano "vittoria" spacciano carte false. Bonanni e Angeletti porteranno a lungo sulla coscienza una gestione gregaria dei rapporti con la politica e con la Fiat, e un accordo che per la prima volta riconosce il principio che chi non accetta i suoi contenuti non ha più diritto di rappresentanza sui luoghi di lavoro. C'è poco da festeggiare, quando peggiorano le condizioni di lavoro e si comprimono gli spazi del diritto, a meno che non ci si accontenti di monetizzare tutto questo con 30 euro lordi di aumento mensile. Il giocatore che bluffa, infine, è Sergio Marchionne. Ha il grande merito di aver salvato la Fiat quando il gruppo era a un passo dalla bancarotta, e di aver lanciato il gruppo da una proiezione domestica a una dimensione finalmente sovranazionale, grazie all'accordo con Chrysler.
Ma ora il "ceo" col golfino e senza patria, l'inafferrabile manager italo-svizzero-canadese che vive "tra le nuvole" (come il George Clooney dell'omonimo film) in transito perenne tra il Lingotto e Auburn Hill, ha il dovere della chiarezza. Verso il Paese e verso i lavoratori. C'è una questione di merito. Nessuno ha ancora capito cosa ci sia nel piano-monstre Fabbrica Italia: quali e dove siano indirizzati i nuovi investimenti, quali e quanti siano i nuovi modelli di auto che il gruppo ha in programmazione, dove e come saranno prodotti. Nessuno ha ancora capito di cosa parla l'azienda quando esalta, giustamente, la via obbligata del recupero di produttività. Con le condizioni pessime nelle quali versa il Sistema-Paese, c'è davvero qualcuno pronto a credere che questa sfida gigantesca si vince riducendo le pause di 10 minuti al giorno, o aumentando gli straordinari di 80 ore l'anno? E' vero che in Germania e in Francia le pause sono già da tempo minori che in Italia. Ma solo un cieco può non vedere che Volkswagen e Renault hanno livelli di produttività giapponesi, macinano utili e aumentano quote di mercato grazie all'innovazione di prodotto e di processo, prima ancora che all'incremento dei tempi di produzione.
C'è poi una questione di metodo. Dove porta questa volontà pervicace e quasi feroce di mettere fuori gioco la Cgil, con piattaforme divisive che servono solo a spaccare il fronte confederale? Dove porta questa necessità di disdettare il contratto dei meccanici e di uscire da Confindustria? Si dice che Marchionne punti a un modello di relazioni industriali all'americana, dove il parametro è Detroit e non più Torino. Probabilmente è così. Ma questo tradisce una volta di più i contenuti veri del Lodo Fiat-Chrysler. Non è la prima che ha comprato la seconda, com'è sembrato all'inizio. Ma in prospettiva sarà la seconda ad aver comprato la prima, nello schema classico del "reverse take-over".
Uno schema che non prevede compromessi. Il modello è il capitalismo compassionevole degli Stati Uniti, non più il Welfare universale della Vecchia Europa. Se vi sta bene è così, altrimenti il Lingotto se ne va. Questa è la vera posta in palio del caso Fiat. Alla faccia della Modernità.
m.gianninir@epubblica. it
L’OPERAZIONE LIDO PRENDE IL LARGO
di Alberto Vitucci
Il Comune salva il bilancio, via libera a hotel, darsena e villette
Il bilancio del Comune è salvo, almeno per il 2011. Ma il Lido sta per essere investito da una nuova edificazione come mai nella sua storia. Ieri a Ca’ Farsetti la Conferenza dei servizi ha approvato i progetti preliminari per l’Ospedale al mare e per la darsena di San Nicolò.
Per i comitati dell’isola è «una colata di cemento», trasformazione di aree pubbliche a uso privato. Per gli investitori un’occasione di rilancio economico del Lido. Per il Comune un matrimonio di necessità: autorizzazioni in cambio dei soldi per costruire il nuovo PalaCinema e salvare il bilancio. I progetti vanno avanti: entro il 31 maggio saranno approvati i definitivi dopo la Valutazione di Impatto ambientale.
Ospedale al mare. 250 milioni di investimento, di cui 61 per l’acquisto oltre ai canoni demaniali. Nella grande area occupata dall’ex nosocomio sorgeranno villette, un supermercato e un centro per la talassoterapia, tre torri con appartamenti. In riva al mare l’hotel di lusso e il centro congressi, e 50 mila metri di spiaggia in concessione. Il Monoblocco, ha messo a verbale il sindaco, «sarà abbattuto solo una volta ultimata la nuova sede dei servizi sanitari a Malamocco».
La darsena. Più che una darsena è un vero porto con annessi edifici, servizi e parcheggi quello che sorgerà a San Nicolò. Ieri è stato dato il via libera al progetto di massima, pur con qualche perplessità del vicepresdiente del Magistrato alle Acque Giampietro Mayerle e prescrizioni sui materiali e sugli ingombri date dalla soprintendente Renata Codello. I posti barca saranno 1500, con 750 posti auto sopra la diga, una nuova strada di collegamento verso San Nicolò, un ristorante, edifici della Finanza e della Capitaneria, palestre, cantieri e officine. La nuova città dovrà armonizzarsi con le strutture del Mose e le opere in corso per la «mitigazione ambientale» dall’altra parte della diga. La darsena occuperà una superficie di 480 mila metri quadri in mare, 200 mila a terra.
Il Des Bains. Modificato anche il progetto per la trasformazione del Des Bains in appartamenti. «E’ stato cambiato il distributivo, concentrando l’albergo ai piani inferiori, gli appartamenti ai piani alti», dice Spazianti, «ma le quantità sono le stesse».
Forte di Malamocco. Ieri non se ne è parlato, ma anche quel progetto, sempre presentato da Est Capital, va avanti. nell’area storica del Forte sorgeranno 32 villette, un albergo, servizi.
Gli altri. Lavori in vista anche per l’Excelsior, per i lungomari attrezzati con rotonde sull’acqua e punti di ristoro, percorsi pedonali.
I superpoteri. Forti le critiche avanzate da più parti alla procedura adottata per approvare progetti così importanti. «Si espropria il Consiglio comunale e quindi la democrazia», ha denunciato il consigliere di Italia dei Valori Nicola Funari. Il commissario straordinario Vincenzo Spaziante ricorda che lui ha inteso coinvolgere la Conferenza dei servizi, e dunque tutte le istituzioni e gli enti che hanno approvato il percorso. «Vigileremo sul rispetto delle normative ambientali per le infrastrutture delle darsena», dice Beppe Caccia della lista «In Comune».
La protesta. L’avvocato Mario d’Elia, a nome dei comitati del Lido e dei consumatori, ha inviato ieri una diffida al sindaco Orsoni e per conoscenza alla Procura. Invita a sospendere il rogito per la vendita dell’Ospedale al Mare ai privati ravvisandone un «grave danno patrimoniale» per il Comune perché venduto a 61 milioni di euro, prezzo «non congruo rispetto ai valori di mercato». I comitati ambientalisti e per la Difesa della Sanità hanno annunciato nuovi esposti per quella che definiscono «un’operazione illegittima».
Cordata con Est Capital, Mantovani e Condotte
Corsa contro il tempo Ca’ Farsetti incasserà oggi l’anticipo di 17 milioni
Un maxi investimento che cambierà il volto dell’isola
Una firma a tempo quasi scaduto. Trattativa serrata fino a tarda sera ieri nello studio del notaio Chiaruttini. Alla fine la firma del preliminare è arrivata. Il commissario Vincenzo Spazinte da una parte, i legali della Finanziaria Sgr - che rappresenta gli investitori di Est Capital e le imprese del Mose Mantovani, Condotte e Grandi Lavori Fincosit - dall’altra. A far da garanzia per il Comune il direttore di ragioneria Piero Dei Rossi. 61 milioni di euro il prezzo pattuito, di cui il 55 per cento (34 milioni di euro doveva essere versato come anticipo. Tolti i 16 milioni di caparra già versata - e mai restituita - per la gara 2009, il Comune ha incassato una somma di 17,1 milioni di euro. O meglio li intascherà stamattina, a poche ore dalla scadenza dell’anno solare, evitando dunque almeno per ora il rischio di sforare il Patto di stabilità. Il resto della cifra - 27 milioni di euro - sarà versato nei primi mesi del 2011. Quando si saprà il destino definitivo dei grandi progetti edilizi dell’isola presentati dalla cordata di imprese. (a.v.)
Parco delle Rose rinviato: «Problemi tecnici»
Il sindaco ferma il progetto del Gran Viale, ma tornerà all’esame tra due mesi
Rinvio a sorpresa per il progetto di riqualificazione del Parco delle Rose in Gran Viale. Lo staff di Antonio De Martino, l’imprenditore calabrese trapiantato al Lido e fondatore della società Adm, era presente numeroso a Ca’ Farsetti - con tanto di architetti e avvocati - in attesa di festeggiare l’approvazione del progetto. Ma al termine della riunione è arrivata la doccia fredda. «Ci sono ancora dei problemi tecnici da risolvere», ha detto il sindaco Giorgio Orsoni uscendo dalla sala giunta, «dobbiamo fare un approfondimento per verificare l’interesse pubblico del progetto». Il commissario Vincenzo Spaziante ha assicurato che una nuova riunione della Conferenza dei servizi - la stessa che dovrà esaminare i progetti esecutivi dell’Ospedale al Mare e della darsena - valuterà il progetto entro due mesi. «Per un imprenditore due mesi sono una rovina», protestava ieri De Martino, «sono due anni che aspettiamo, avevamo avuto delle garanzie precise». Il progetto già bocciato nel dicembre 2009 era stato in larga parte rifatto. Due edifici da quattro piani - più due interrati con garage e supermercato - una torre centrale con grande tetto spiovente sul Gran Viale. E in mezzo colonne, collinette, pasaggi pedonali e una «piazza pubblica». Secondo De Martino un’occasione per recuperare a uso pubblico un’area oggi chiusa e sottoposta a degrado. «Là dentro», dice De Martino, «ci sono bunker, vecchie roulotte, garage anni Sessanta, infissi in alluminio. Gli alberi sono malati e andrebbero abbattuti comunque». Dura invece l’opposizione dei comitati dell’isola. «Che c’entra un progetto privato con i poteri speciali del commissario?». I volumi edificati passeranno da circa 4 mila a oltre 16 mila metri cubi. Ma ieri la Conferenza - e il sindaco - avevano l’attenzione rivolta ad approvare prima della scadenza del 31 dicembre i progetti per l’operazione Ospedale al Mare. E il Parco dele Rose dovrà aspettare gennaio. (a.v.)
L’AUGURIO: I PIANI PER IL LIDO SIANO DISCUSSI CON TUTTI
di Amerigo Restuucci
Di solito a fine anno ci si aspettano messaggi che aprono a speranze di buone cose per l’anno che sta per entrare. Purtroppo dalle notizie che appaiono sulla stampa odierna a proposito del completo stravolgimento di una delle zone più interessanti, oltre che cariche di valori storici e ambientali come il Lido di Venezia, scaturisce un senso di amarezza e di sfiducia in un futuro segnato da regole e rispettoso di quanto a tutt’oggi, a fatica, si è salvaguardato. E allora, si può dire che si guarda al Lido con un piano che dia ordine al territorio, seguendo quello che le leggi urbanistiche consentano? A riflettere su quanto si sta decidendo, sembra di essere molto lontani da un piano nel quale i cittadini si riconoscano e che scaturisca dal ruolo che dovrebbe avere il Consiglio di Municipalità e quindi la Giunta che governa la città e il suo Consiglio comunale.
Da quello che si capisce dovrebbe sorgere una grande darsena a ridosso del molo del Lido per 1.500 posti barca, già bocciata in Commissione di Salvaguardia e fortemente inquinante per tutte le spiagge; a terra di conseguenza un parcheggio per 750 posti auto e, ove non bastasse, una piscina, una palestra, un ristorante panoramico da costruire su una collina artificiale, in disaccordo con le regole più elementari che la salvaguardia del paesaggio consente (si veda il codice dei Beni culturali nelle parti riguardanti il paesaggio). Sembrerebbe finita qui l’operazione, ma non si trascuri la distruzione dell’Ospedale al Mare in cambio di progetti di case e alberghi. E, per finire, oltre al cambiamento di funzioni dell’hotel Des Bains, le 32 villette nell’area storica del Forte di Malamocco. Tutto questo avviene assieme, senza un piano discusso democraticamente dai cittadini, ma presentato da un commissario, prima preposto alla realizzazione del nuovo Palazzo del Cinema e in seguito indicato come il pianificatore di tutto il territorio del Lido (appare solo consolatoria la dichiarazione che il commissario sia nato a Venezia, ma in seguito si è appropriato dei complessi problemi che si agitano in città?). Venezia è stata costruita con un intreccio tra tradizione e innovazione inserite in piani programmi, in piani regolatori che chi guida le operazioni previste per il Lido sembra non conoscere.
Si apra un dibattito vero, si dia ascolto ai tanti che da mesi protestano sulle ventilate operazioni sopra descritte e venga un segnale di buon governo da parte di chi abbiamo votato per governare la città con scelte condivise: sarebbe un bell’auspicio per il 2011.
Carta patinata, quattro facciate e in prima pagina la foto di un’elegante porta d’ingresso ripresa dall’alto e di uno zerbino dove sta scritto: “Da inquilino a proprietario il passo è breve, non devi neanche uscire di casa”. Firmato Enasarco, l’ente di previdenza dei 400 mila rappresentanti di commercio e promotori finanziari. Migliaia di depliant di questo tipo sono stati diffusi in questi giorni nei palazzi di proprietà dell’istituto, con un volantinaggio di massa che ha avviato il lancio del piano Mercurio, cioè la vendita del gigantesco patrimonio immobiliare dell’ente, 17.063 appartamenti di cui 15.245 solo a Roma, per un valore di circa 4,5 miliardi di euro. Un’impresa che durerà mesi e sta scatenando una guerra tra inquilini ancora prima che sia venduto il primo alloggio.
I portavoce dell’ente raccontano che il call center è tempestato di telefonate di gente che vuole dettagli sull’affare e preme perché i contratti si facciano alla svelta. Sempre secondo le stesse fonti, le condizioni offerte non solo sono trasparenti in quanto garantite da un accordo siglato con i sindacati, ma sarebbero particolarmente vantaggiose per gli acquirenti: sconto del 30 per cento sul prezzo a metro quadro fissato dall’Agenzia del territorio, mutui Bnp Paribas-Bnl della durata di 40 anni con interessi ridotti e senza spese di perizia, costi notarili bassi, possibilità di far partecipare all’acquisto anche parenti fino al quarto grado dei titolari dei contratti di affitto.
In effetti per le centinaia di affittuari privilegiati e di lusso dell’ente, dal ministro Elio Vito al vice Roberto Castelli, dai parlamentari ai sindacalisti, quei signori che per alloggi nelle zone in di Roma e Milano hanno pagato per anni canoni da case popolari, poter comprare a quelle condizioni è la ciliegia sulla torta: dopo una vita da inquilini vip ora diventerebbero proprietari in carrozza. Anche per gli affittuari con redditi medi e medio-alti l’offerta di acquisto delle case può risultare un’occasione vantaggiosa, anche se a costo di molti sacrifici.
Ma il pianeta Enasarco ha anche un’altra faccia: migliaia di inquilini anziani con redditi bassi o medio-bassi e famiglie di lavoratori dove in casa entra solo uno stipendio, probabilmente la maggioranza, che considerano il piano Mercurio non un affarone, ma una sòla, una pistola puntata alla tempia, pronta ad esplodere facendoli sprofondare nella miseria. Per far sentire le loro ragioni si sono organizzati in comitati; solo a Roma ne sono sorti una dozzina, dall’Ostiense a Monteverde, da Torre Rossa alla Cassia. Conti alla mano, nonostante tutti gli sconti e le garanzie, loro, gli inquilini con i redditi più bassi, non ce la faranno mai a comprarsi casa.
Prendiamo un caso classico: un pensionato ultrasessantenne con un reddito mensile netto tra i 1.000 e i 1.500 euro che abita in un appartamento tra i 60 e gli 80 metri quadri. Dando per scontato che non abbia i 180 mila euro per comprarsi sull’unghia e con lo sconto la casa, dovrà per forza accendere un mutuo. Dal momento che non può usufruire di quello della durata di 40 anni pubblicizzato nei dépliant Enasarco e riservato a chi ha al massimo 38 anni, il nostro pensionato bene che vada otterrà un mutuo di 15 anni e dovrà pagare una rata mensile di 1.350 euro, a cui dovrà aggiungere la rata del condominio e le spese per la manutenzione straordinaria, particolarmente onerose in immobili generalmente trascurati come quelli in vendita. Insomma, dovrà decidere se rinunciare alla casa o fare la fame.
Se rinuncerà all’acquisto, però, non sarà salvo, perché entrerà nel girone dei dannati dello sfratto. Non subito, magari, perché tra le “clausole di tutela dell’inquilinato” ce n’è anche una che consente agli affittuari di restare negli alloggi invenduti per 5 anni, con una proroga di altri 3. La regola, però, vale solo per determinate categorie: chi è senza famiglia e ha un reddito imponibile sotto i 30 mila euro all’anno, oppure chi vive con un familiare e non supera i 33 mila euro fino ad arrivare a 42 mila euro per una famiglia di 4 persone. Dopo i 5 anni di tregua, gli alloggi invenduti saranno comunque trasferiti dall’Enasarco a fondi immobiliari gestiti da Prelios (la ex Pirelli Re) e da Paribas Real Estate. E a quel punto per gli inquilini le possibilità di non essere buttati fuori di casa si ridurranno davvero al lumicino.
Strada facendo gli inquilini anziani e le famiglie con redditi bassi hanno trovato alleati inaspettati: le organizzazioni dei rappresentanti di commercio tipo la Federagenti o l’Ugifai e quelle dei promotori finanziari come l’Anasf, assai dubbiose sull’operazione Mercurio. Agenti di commercio e promotori, cioè coloro che ogni mese pagano fior di contributi all’Enasarco, temono che la vendita del patrimonio immobiliare si trasformi in un boomerang e finisca per affossare l’ente i cui conti sono già abbastanza malmessi, mandando in fumo le pensioni future. Secondo loro l’operazione di vendita degli appartamenti, pensata per incamerare un’ottimistica plusvalenza di 1,4 miliardi di euro in tre anni (500 milioni nel 2011, 600 nel 2012 e 300 nel 2013), è sbagliata perché polverizza il patrimonio immobiliare, trasferisce il ricavato in investimenti in titoli ed azioni in un momento di grande volatilità del mercato finanziario e quindi rischia di trasformarsi in un bagno storico.
Carlo Massaro, presidente dell’Ugifai, un passato da consigliere Enasarco dove contribuì a bloccare l’operazione di vendita dei palazzi dell’ente ai “furbetti del quartierino” di Stefano Ricucci, lo ha scritto in maniera chiarissima in una lettera alla commissione parlamentare degli enti gestori: “Trasformare oggi il mattone in moneta significa correre rischi enormi”. Il presidente dei promotori finanziari Anasf, Elio Conti Nibali, ci aggiunge un carico da novanta: “I dirigenti Enasarco ritengono di far fruttare al 3,5 lordo per 10 anni il ricavato delle vendite immobiliari. É un’illusione”. Una proiezione attuariale preparata dallo studio Orrù e consegnata a Luca Gaburro, segretario della Federagenti, dimostra inoltre che la gigantesca vendita degli immobili Enasarco non è in grado di garantire la sostenibilità finanziaria trentennale stabilita per legge a garanzia dell’erogazione delle pensioni e quindi sarebbe inevitabile un inasprimento della quota contributi-va, addirittura il raddoppio. Insomma, i conti Enasarco stanno saltando e il progetto Mercurio non è risolutivo. Riflette Gaburro: “Per salvare le nostre pensioni, a questo punto l’unica strada è passare armi e bagagli l’Enasarco all’Inps”.
Pgt, l’affondo dei signori del mattone
di Teresa Monestiroli
È partito l’attacco dei costruttori al Piano di governo del territorio del Comune. Sommerse fra le oltre 4.700 osservazioni che sono state presentate in novembre al documento urbanistico, ci sono anche quelle depositate da due tra i maggiori immobiliaristi della città: Salvatore Ligresti e i Cabassi. Entrambi proprietari di aree strategiche nella Milano del futuro, i costruttori battono cassa e chiedono a Palazzo Marino - come rivela l’agenzia Radiocor - piccole, ma sostanziali modifiche al Pgt. In una parola: volumetrie per costruire, nel caso di Ligresti, in terreni che con il Pgt entrerebbero nel Parco Sud, in quello dei Cabassi nell’area Expo.
In un gruppo di osservazioni presentate dalle holding della famiglia dell’ingegnere Immobiliare Costruzioni (Imco) e Altair viene contestato uno dei punti cardine del nuovo Piano di Masseroli: il trasferimento dei diritti volumetrici di Ligresti (con indice 0,50) dalle aree Ticinello, Macconago, Vaiano Valle sud e Bellarmino a quelle dell’ex Macello dietro Porta Vittoria. Stando al Pgt, quindi, l’Imco perderà la proprietà di questi terreni - che una volta passati al Comune verranno annessi al parco e quindi non saranno più edificabili - per acquistare, attraverso il meccanismo della perequazione, volumetrie altrove. L’operazione non piace a Ligresti. La sua contestazione riguarda sia la «serie di vincoli» da rispettare (una strada storica e la previsione di alcuni collegamenti a verde) che caratterizza l’ex Macello, sia «l’evidente problema di densità edilizia dell’area» (qui verranno costruiti anche nuovi edifici della Sogemi). Quindi chiede di riportare i suoi diritti volumetrici nella zona di Macconago, cioè vicino ai terreni (sempre di sua proprietà) dove sorgerà il Cerba. La risposta dell’assessore all’Urbanistica è secca: «Quelle aree fanno parte del Parco Sud e, in quanto tali, saranno governate dai Piani di cintura urbana della Provincia. L’osservazione verrà respinta e rinviata alla discussione sui piani».
Ma le critiche di Ligresti non si fermano qui. L’ingegnere chiede anche di applicare le nuove regole del Pgt ai terreni del Cerba che, essendo un servizio pubblico per la città, dovrebbe produrre volumetrie da trasferire altrove. Anche in questo caso la risposta degli uffici è dura: «Non è possibile applicare in maniera retroattiva le regole del Pgt. Il Cerba dipende da un accordo di programma antecedente e quello verrà rispettato». Infine, sempre tra le recriminazioni dell’Imco, c’è quella di avere una maggior destinazione residenziale (quindi più redditizia) in via Stephenson, l’area periferica con un indice di densificazione molto elevato (2,7) che Masseroli vuole trasformare nella Défense milanese. La risposta dell’assessore è: «Il Pgt segue il principio della flessibilità e quindi non dà alcuna destinazione d’uso alle aree. In via Stephenson il nostro orientamento è che diventi zona del terziario, ma non imponiamo nulla».
Ma non è solo Ligresti a voler costruire di più di quanto previsto nel Pgt. Anche Matteo Cabassi ha presentato una richiesta di modifica al Piano per avere un indice di edificabilità sulle aree Expo pari a 1 metro quadrato per metro quadrato, invece di 0,50. «Anche questa osservazione verrà rifiutata - risponde Masseroli - perché il consiglio comunale ha stabilito che sulle aree Expo il riferimento è l’accordo fatto dalla società e non il Pgt».
Il Cerba e i terreni nel Parco Sud
L’ingegnere vuole allungare la città
di Alessia Gallione
La città nella città che da sempre sogna di costruire inizia dove finisce via Ripamonti. È questa Ligrestopoli. Distese e distese di terre ai confini e all´interno del Parco Sud, che l´immobiliarista ha accumulato nei decenni con la pazienza di un Mazzarò. Ai suoi ospiti di riguardo, si racconta che ami mostrarle lui stesso accompagnandoli in speciali pellegrinaggi. Su molte non può costruire. Non potrebbe. E anche dove - fuori dal perimetro del verde tutelato - ha acquisito diritti volumetrici ai tempi del Piano casa degli anni Ottanta, il Pgt adesso gli chiede di spostare altrove i volumi. Ma Salvatore Ligresti, all´affare del Parco Sud, non ha mai rinunciato. Anzi. E proprio ora che il documento urbanistico è arrivato al traguardo finale, vuole passare all´incasso. E vuole farlo sfruttando la grande opportunità del Cerba, il polo di ricerca e cura che sorgerà su 620mila metri quadrati posseduti da una sua società.
È lì, sull´area di Macconago attaccata al Centro, che Ligresti vuole realizzare un nuovo quartiere da almeno 60mila metri quadrati. Senza accettare di far atterrare sull´ex Macello i suoi futuri palazzi. Perché è lì che Milano si allargherà, portandosi dietro una via Ripamonti raddoppiata, il tram 24 che partirà dal Duomo, magari una metropolitana leggera se il Comune manterrà le promesse dopo aver cancellato la linea "6": un pezzo di periferia (stralciato dal Parco Sud), destinato a diventare strategico. Perché quando il Centro sarà pronto - con le sue cliniche, laboratori, strutture ricettive e residenziali per i parenti dei pazienti e i medici, i bar, i ristoranti, il parco attrezzato da 320mila metri quadrati, muoverà insieme allo Ieo 20mila persone al giorno - diventerà appetibile tirar su in zona nuove case. Una gallina dalle uova d´oro. A delineare la visione sono le stesse società di Ligresti: «Edificare sulle aree vicine al Cerba potrebbe contribuire a dare un assetto conclusivo a questo lembo di città e si collocherebbe lungo una direttrice di trasporto pubblico per la quale il progetto Cerba ha già previsto il relativo rafforzamento».
La giunta ha appena adottato il piano del Centro per la ricerca biomedica avanzata e, a febbraio, si prepara ad approvarlo. I cantieri, che potrebbero partire in primavera, si avvicinano. Allora, le terre su cui sorgerà la cittadella scientifica e che oggi sono in pegno alle banche come garanzia per il rifinanziamento della principale cassaforte dei Ligresti, dovranno passare di proprietà. Saranno del fondo immobiliare etico che si occuperà di raccogliere i fondi necessari (1 miliardo e 226 milioni) per costruirla. Come, dovrà essere stabilito. Ma la Imco dell´ingegnere potrebbe o vendere subito la superficie o entrare con quel capitale (ancora da quantificare, ma sicuramente di valore) nello stesso fondo, incassando nel tempo gli utili.
Si torna sempre lì, al Parco Sud. Proprio da Macconago, e da un Piano integrato di intervento rimasto per anni nei cassetti degli uffici del Comune, era partita l´ultima offensiva di Ligresti sull´urbanistica. Per tre progetti (nella lista anche via Natta e Bruzzano) che non decollavano, ufficialmente, il costruttore aveva chiesto alla Provincia di Guido Podestà il commissariamento di Palazzo Marino. Tutto rientrato in extremis. Per via Macconago, che prevede case su oltre 20mila metri quadrati, la giunta è pronta a votare all´inizio del 2011. Ma all´immobiliarista non basta. Chiede altri volumi per allargare quel quartiere con vista Cerba e Parco. Ma ad avere l´ultima parola sul destino della zona sarà Guido Podestà. È il presidente della Provincia che si è aggiudicato il primo round dello scontro con il Comune per decidere la competenza: sui 40 milioni di metri quadrati di verde milanesi del Parco, compreso Macconago, saranno i suoi Piani di cintura a dover valutare le "proposte" del Comune e dire cosa fare.
La méthode Berlusconi appliquée à la conservation du somptueux site archéologique est une catastrophe.
Marcelle Padovani a mené l'enquête sur cet incroyable gâchis qui désespère les chercheurs et les amoureux de l'histoire antique, effarés par cette ubuesque allégorie de l'Italie contemporaine
0n attendait Silvio Berlusconi, évidemment. A l'aube de ce matin du 6 novembre dernier, la célèbre maison des Gladiateurs s'était écroulée comme un château de cartes. De l'élégant cube de 60 mètres carrés décore de fresques sublimes, où, au temps de la splendeur de Pompéi, les combattants venaient déposer leurs armes, il ne restait que des gravats. Il y a bien longtemps que Berlusconi ne s'était pas rendu à Pompei mais, cette fois, sa visite paraissait s'imposer. Comme le lointain rappel de la visite de Néron au Colisée, en 64 après Jesus-Christ, lorsque Rome s'effondrait dans les flammes ! Face au désastre, comment ne pas trouver logique que le président du Conseil italien manifeste sa solidarité aux archéologues et au monde de la culture en général ? D'autant que, déjà, un scandale couvait : une équipe d'ouvriers chargée du contrôle du site avait prévenu trois jours plus tôt que les pluies pouvaient entraîner l'éboulement du célèbre édifice... et personne n'avait entendu le signal d'alarme. L'incurie était scandaleuse. Mais Silvio Berlusconi, retenu à Rome par une énième crise politique, n'avait pas fait le déplacement. Ce n'était pas la première fois que le président faisait défaut. Au début du mois d'octobre 2009, Berlusconi devait déjà se rendre en visite officielle sur le célèbre site archéologique.
L'atmosphère était électrique, dans les bureaux du commissaire spécial, un manager expédié en toute hâte par le même Berlusconi pour résoudre, en dehors des circuits normaux et d'un coup de baguette magique, tous les problèmes de la ville mythique ensevelie sous les cendres après l'éruption du Vésuve, il y a près de deux mille ans. On attendait le « Cavaliere », ses cheveux gominés, son maquillage outrancier et sa dégaine de politicien bedonnant. On se racontait déjà les commentaires qu'il ne manquerait pas de faire devant la maison des Chastes amants, si chastes qu’ils esquissent à peine un baiser. Et surtout devant le Lupanar. Ah, le Lupanar ! Si quelqu'un avait une bonne blague à raconter, ce serait bien lui, Silvio Berlusconi, grand spécialiste en escort girls, ces dignes descendantes des meretrici, les prostituées romaines. On le voyait bien devant les trois fresques, celle où « la dame et le monsieur font 69 », comme dit un guide, celle où « la dame fait le tire-bouchon » et celle où « elle fait la levrette ». On entendait déjà les rires gras de l'escorte et des fonctionnaires et journalistes de la suite présidentielle... Pour accueillir dignement Berlusconi, le commissaire spécial Marcello Fiori avait d'abord pensé dérouler des tapis rouges au milieu des ruines, mais cela paraissait vraiment trop difficile sur les énormes pavés pompéiens. Il se replia alors sur le ciment, tellement plus facile à étaler et qui éviterait au «Cavaliere » de se fouler la cheville.
Aussi, devant la nécropole de la porte Nocera, lieu majestueux où reposent les riches aristocrates pompéiens, il a eu l'idée de génie de faire couler du ciment. «Nous avons découvert le massacre un beau matin, raconte Maria Rosaria, étudiante en archéologie. Des ouvriers avaient été envoyés par le commissaire Fiori la nuit précédente et avaient tartiné la promenade de ciment, sans aucun contrôle archéologique » Coût de l'opération :60000 euros, plus 9600 pour «l’accueil» du président et 11000 pour un «nettoyage extraordinaire ». Hélas, une fois de plus, Berlusconi n'est pas venu voir la nécropole. Et pas davantage les petites ruelles qui montent droit vers le Vésuve et ont reçu, elles aussi, le même traitement de choc, les pavés millénaires ayant été recouverts d'une couche de ciment gris. Belle illustration de la conception berlusconienne de la conservation du patrimoine, infiniment plus meurtrière que l'usure du temps, les pluies, le vent, les intempéries et les grosses chaleurs de l'été qui érodent les pierres, creusent des tranchées et effacent les fresques... Mais les dégâts du berlusconisme ne s'arrêtent pas là. Si l'on s'approche du Grand Théâtre, un bel amphithéâtre en demi-cercle, qui abritait autrefois les spectacles musicaux de cette ville de 12 000 habitants, on voit tout de suite qu'il a été littéralement défiguré. Les gradins en tuf gris, typique de Pompéi, ont été remplacés par des gradins en tuf jaune des Campi Flegrei, une localité voisine. C'est comme une gifle en plein soleil. Le travail a été fait à la va-vite en mai dernier et a coûté une fortune : 6 millions d'euros sur un budget annuel de 20 millions. Le prétexte de cette rénovation sauvage ? Le 10 juin, une soirée inoubliable devait avoir lieu dans les ruines : le concert de l'Orchestre du Teatro San Carlo sous la direction du maestro Riccardo Muti. Le concert est passé. Le désastre est resté. La hâte du commissaire berlusconien a été dénoncée dans la presse. Marcello Fiori a aussitôt répliqué qu'il «ferait enlever les déplorables gradins jaunes ». Mais, pour les archéologues, « c'est un remède pire que le mal, parce que, pour enlever le tuf jaune, il faudra faire revenir les grues, les pelleteuses et les excavatrices, qui feront une fois de plus trembler ces antiques chefs-d'œuvre ».
Si Pompéi a été relativement épargnée par l'histoire, elle l'est donc moins par le populisme berlusconien. Autant « recouvrir Pompéi de terre, pour biter d'autres interventions humaines, d'autres gâchis... », propose l'écrivain Erri De Luca, prix Femina étranger en 2002 pour son roman « Montedidio », comme si à l'absurde on ne pouvait répondre que par l'absurde... Les commissaires spéciaux (il y en a eu deux en deux ans, en plus des trois surintendants) ont appliqué à la lettre les fondamentaux du populisme made in Italy: tout est dans l'image. On s'en aperçoit dès l'entrée du site. Pour rajeunir Pompéi et lui donner un air à la mode, les commissaires ont inventé le sigle «Pompei viva » (Pompei vivante), qui devait attirer un tourisme d'un genre nouveau vers le site archéologique le plus connu du monde, inscrit en 1997 par l'Unesco au Patrimoine de l'humanité. Ils ont commencé avec la construction de deux galeries en verre qui encadrent l'entrée et qui ne servent à rien. Elles sont là, fermées au public par tous les temps. «Personne n'a compris leur utilité, grincent les archéologues, elles deviendront un jour elles aussi des ruines ». Décidément, à Pompéi, l'imagination est sans limites. On a ainsi inventé le projet «Ave canem » (Bienvenue aux chiens). Il s'agissait de recenser et de stériliser les chiens de Pompéi en les dotant d'une puce électronique et d'une médaille gravée d'un nom ancien, comme Plaute, Polybe ou Ménandre, et en les faisant nourrir par les gardiens.
Résultat : avec l'été, tous les Napolitains qui voulaient se débarrasser de leur bête sont venus l'abandonner dans les ruines. Les meutes, au lieu de diminuer, ont considérablement grossi. On les rencontre près des plus belles domus, occupés à lézarder au soleil ou à faire leurs besoins. «Pompei viva» a créé d'autres ennuis. Avec le lancement de «Pompei bike », 25 bicyclettes qui auraient dû offrir 5 kilomètres de balades dans les mines n'ont pu évidemment circuler sur les énormes pavés pompéiens. Elles ont d'ailleurs complètement disparu. Idem pour «Pompei friendly » : il s'agissait cette fois de faciliter l'accès aux handicapés avec des rampes spéciales devant les domus. Mais elles ont été tellement mal conçues qu'elles sont impraticables : on les voit aujourd'hui barrées d'un cordon rouge. Et les seuls handicapés moteurs que l'on croise dans les runes sont portés à bout de bras par des volontaires de la Croix-Rouge...
Ni surveillant ni camera visibles
Mais ce n'est pas tout. Plus que les infiltrations d'eau, les mosaïques décollées, les domus fermées depuis des décennies, les murs écroulés et les colonnes qui cèdent, ce sont des opérations douteuses comme «Pompei viva» qui peuvent « tuer un patrimoine », estime le recteur de l'université de Pise, Salvatore Settis. La dégradation artificielle infligée à Pompéi est révélatrice de la « philosophie » berlusconienne. Fidèle à lui-même et à son histoire, Silvio Berlusconi a voulu privilégier, même à Pompéi, l'ostentation, la politique des gadgets, les opérations de façade, les kermesses, les concerts exceptionnels, les initiatives promotionnelles, comme si Pompéi était une nouvelle marque à faire connaître aux consommateurs. Déstabilisant avec une totale désinvolture une ville fragile, qui reste une mine pour les chercheurs du monde entier, et privilégiant la communication sur la conservation. Une page de Facebook avait depuis longtemps lancé l'alarme : « Stop killing Pompei ruins» (Arrêtez de tuer les runes de Pompéi). D'autres avaient pris le relais, l'archéologue Oscar De Simone affirmant tranquillement que « le marketing est plus dangereux que le Vésuve ».
Car les vrais problèmes de Pompéi sont d'une tout autre nature. Il suffit pour s'en convaincre d'en parler avec l'excellent surintendant que fut Pietro Guzzo ou avec le directeur général des Antiquités pour les biens et activités culturels Stefano De Caro, écartés l'un après l'autre par le gouvernement Berlusconi, au motif incroyable qu'ils auraient eu une approche « de gauche des problèmes de la restauration... Il y a d'abord la question du personnel : largement insuffisant. Car «c'est une ville de 69 hectares qu'on gère, avec tour les soucis d'une vraie ville, ses rues, ses trottoirs, ses magasins, ses maison d'habitation, ses égouts, son réseau de distribution d'eau, ses jardins, où vivent ou transitent chaque jour 15 000 personnes », souligne Stefano De Caro. C'est d'ailleurs une chose qui frappe tout de suite le visiteur : jamais aucun contrôle, aucun surveillant, aucune camera ne sont visibles. Nous n'avons pour notre part entrevu qu'une seule fois quatre gardiens, et ils jouaient aux cartes assis à l'ombre de deux murs à moitié écroulés au croisement du vicolo della Maschera (ruelle du Masque) et du vicolo degli Scheletri (ruelle des Squelettes). Cette absence de surveillance peut avoir des conséquences désastreuses, notamment en termes de vols.
Car on vole beaucoup à Pompéi. Le 19 janvier dernier, lors d'une opération anti-Camorra, les carabiniers ont découvert des mosaïques, des ustensiles, des monnaies, cachés en bordure de la zone non explorée de Pompéi, qui s'étend sur 22 hectares et qui regorge de trésors ensevelis. Les malandrins les avaient stockés pour les sortir du site pendant la nuit. En juin 2009, les mêmes carabiniers avaient mis au jour une galerie souterraine qui permettait aux voleurs de transporter rapidement hors du site des amphores, des morceaux de chapiteau, des mortiers, des cornes de cerf, des monnaies et une meule en pierre lavique. En juillet 2001, ils avaient déjà arrêté 29 personnes surprises en train de s'exercer au détecteur de métal pour localiser les œuvres d'art enterrées sous les terre-pleins. Pour convaincre le gouvernement de la nécessité d'augmenter les contrôles et pour dénoncer son désintérêt pour le patrimoine, un journaliste du quotidien napolitain « Il Mattino » a fait une expérience : il a dérobé le 10 novembre à 10 h 27 à la fontana del Vigneto del Triclinio Estivo un fragment de mosaïque qu'il a replacé à 13 heures dans son alvéole. Un jeu d'enfant, a-t-il raconté. Personne ne s'est aperçu de rien. La protection de ce véritable musée à ciel ouvert exigerait donc des investissements. Chose impensable sous Berlusconi, qui a réduit de 0,85% à 0,21% du budget national les sommes consacrées à la culture. «Pour un site si étendu, les ressources sont bien faibles », dit De Caro. Car Pompéi, qui rapporte 20 millions d'euros par an rien qu'en billets d'entrée, se voit amputer de 30% de son budget par le ministère des Biens culturels, qui redistribue la somme à sa guise. Mais, surtout, il faudrait convaincre le même ministère qu'il est aberrant de séparer la gestion de la restauration. « On crée ainsi une dichotomie insurmontable entre celui qui a l'argent et celui qui veut le dépenser. On empêche en fait l'archéologue de trancher en dernière analyse face au comptable », souligne le surintendant Pietro Guzzo.
Mais, par-delà les grands choix stratégiques et les histoires de gros sous évoqués par les anciens responsables de Pompéi, il y aurait aussi une série de solutions à visage humain pour redonner des couleurs au site. Il suffit de parler avec les gens qui y travaillent, et qui vous font voir un trésor exceptionnel, dont les touristes n'ont pas idée : les vignobles cachés au beau milieu des ruines. Incroyable mais vrai : depuis 1996, chaque année au mois d'octobre, on vendange à Pompéi. Cette année-là, Pietro Guzzo avait signé à titre expérimental un accord avec le vignoble napolitain Mastroberardino. Pour exploiter un minuscule arpent, 200 mètres carrés au croisement de la via di Nocera et de la via di Castricio. Il s'agissait de replanter des cépages d'origine, tels le Greco, l'Aglianico et le Falanghina, les deux premiers ayant été importés autrefois de Grèce, comme le soulignait l'historien Pline le Jeune — chroniqueur de l'éruption du Vésuve — dans sa «Naturalis Historia ». Aujourd'hui, ces vignobles couvrent pratiquement 2 hectares et pourraient être encore étendus, permettant à la ville ensevelie de revivre grâce au vin. Car Mastroberardino a gagné de l'argent avec son vin de Pompéi, baptisé « Villa dei Misteri » (Villa des Mystères), en organisant par exemple en 2009 une vente de charité de 1781 bouteilles rares, à 30 euros la pièce. Pourquoi ne pas étendre l'expérience à d'autres spécialités régionales, comme les oliviers, qui pourraient produire de l'« huile de Pompéi », selon les recettes d'il y a deux mille ans ? Bien sir, ni l'huile ni le vin n'empêcheront les murs de Pompéi de s'écrouler. Mais ils pourraient donner un coup de pouce au budget. « Par où commencer si ce n'est par la vigne? écrivait déjà Pline le Jeune. Cette vigne où l'Italie a une suprématie incontestable et qui lui permet de dépasser en richesse même les pays qui produisent du parfum... D'ailleurs, il n'est pas au monde de délice supérieur à celui du parfum des vignes en fleur... » Pompéi sauvée par le vin ? Même au pays du «Cavaliere», il n'est pas interdit de rêver...
Loris Campetti, La Fiat mobilita la dignità operaia
Ugo Mattei, Fassino non è il nostro candidato
Roberto Della Seta, Pd, è ora di decidere cosa fare da grandi
Piero Di Siena, Le primarie e le alleanze possibili
SCIOPERO GENERALE
La Fiom mobilita la dignità operaia
di Loris Campetti
Il referendum è uno strumento democratico in cui le persone possono dire la loro su un tema che li riguardi direttamente. Imporre lo strumento del voto perché si accetti di non poter votare mai più, non è un paradosso o un ossimoro, è un gigantesco imbroglio, che si trasforma in un odioso ricatto nel momento in cui la formulazione del quesito referendario suona così: accetti di rinunciare ai tuoi diritti, compreso quello di ammalarti, scioperare, persino mangiare se la domanda di automobili dovesse schizzare in alto, eleggere i tuoi rappresentanti sindacali, in cambio della salvezza del posto di lavoro?
Siamo a Mirafiori, Pianeta Italia, fabbrica Chrysler perché la Fiat nei fatti non esiste più, salvo essere trasformata in uno spezzatino di newco da mettere sul mercato qualora a Marchionne i soldi da restituire a Barack Obama non dovessero bastare. Cosa dovrebbe dire la Fiom, se non che questo referendum, frutto di un accordo separato, è illegittimo e dunque i metalmeccanici della Cgil non possono riconoscerne la validità? Cosa dovrebbe fare la Fiom, se non indire per il 28 gennaio uno sciopero generale di tutta la categoria in difesa della democrazia, della Costituzione repubblicana, del contratto nazionale e dello Statuto dei lavoratori? Semmai, con questi chiari di luna, con un governo della deregulation liberista, con la diseguaglianza che cresce insieme alla povertà, bisognerebbe chiedersi come mai non sia l'intera Cgil a chiedere al paese di fermarsi.
Ieri si è riunito uno dei pochi organismi dirigenti democratici sopravvissuti alla berlusconizzazione (o marchionizzazione) del nostro paese, opposizioni e sindacati compresi: il Comitato centrale della Fiom. Una sede in cui la scelta degli operai iscritti è legge, una sede in cui quando una risoluzione del Comitato centrale non fosse in consonanza con il popolo lavoratore, verrebbe cambiata la risoluzione e non il popolo. È stato deciso lo sciopero generale con 102 voti a favore e i 29 astenuti della minoranza Fiom che fa riferimento alle posizioni della segretaria della Cgil Susanna Camusso. Gli astenuti, guidati da Fausto Durante, sostengono che la Fiom dovrebbe comunque accettare l'esito del referendum imposto dall'amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne. Peccato che così si legittimerebbe un voto su diritti indisponibili, cosa che non avrebbe precedenti nella storia della Cgil. I militanti della Fiom dello stabilimento torinese costituiranno un comitato per il No, ribadendo che un'eventuale vittoria dei Sì non verrebbe riconosciuta perché non è consentito mettere al voto diritti costituzionali indisponibili, non trattabili.
Il 28 gennaio, quando i metalmeccanici incroceranno le braccia per non piegare la schiena, si terranno manifestazioni in tutte le città italiane ma già dall'inizio di gennaio si organizzeranno presidi, iniziative, tende nei centri delle città per coinvolgere la popolazione. Il segretario generale Maurizio Landini si è rivolto a tutti i soggetti, i movimenti, gli intellettuali, gli studenti, i precari che il 16 ottobre hanno manifestato a Roma al fianco della Fiom, per invitarli a partecipare alle proteste. Non è vero che la Fiom è sola. Non è vero che è minoritaria nelle fabbriche, come testimoniano l'aumento degli iscritti e la crescita dei consensi e dei delegati in tutte le aziende in cui si è votato per rinnovare le Rsu (250 nel 2010). Non sarà proprio per questo, per la sua irriducibile adesione a leggi, norme, Costituzione, per il suo rapporto di mandato con chi rappresenta, che è diventata inaccettabile per la Fiat, e via via per una fetta crescente di padronato? Non sarà per questo che non si riesce più a indire un referendum sugli accordi sindacali, con l'eccezione di quelli anticostituzionali imposti da Marchionne?
Maurizio Landini è un signore, oltre che un operaio. Il segretario della Fiom, ai giornalisti che gli chiedono un giudizio sul Pd che non esprime giudizi o ne esprime troppi e opposti, e sull'aspirante sindaco di Torino Piero Fassino che ha detto «se fossi un operaio di Mirafiori voterei sì», non risponde in torinese va' a travaje', barbun. Risponde invece: «Chi dice che voterebbe sì dovrebbe provare a vedere il mondo dal punto di vista di chi lavora alla catena di montaggio, a cui si riducono le pause, si sposta o si toglie la mensa, si impone di lavorare su turni di 10 ore più una di straordinario, gli si toglie il diritto allo sciopero e alla malattia, per portare a casa, se gli va molto bene e non è in cassa integrazione, 1.300 euro al mese». Del resto, se l'opposizione politica italiana avesse provato a vedere il mondo dal punto di vista degli operai, se non avesse cancellato dall'agenda il lavoro e i lavoratori, forse le vicende politiche italiane sarebbero andate diversamente.
A chi difende il metodo Marchionne perché «salva il lavoro», i tanti intervenuti alla riunione del Comitato centrale hanno risposto raccontando quel che l'accordo comporta. Per esempio, non solo è negato a chi non firma il diritto a esercitare fare sinindacato, fino a non poter presentare candidati alle elezioni per le Rsu; nell'accordo separato firmato da Fim, Uilm, Fismic (sindacato giallo, già Sida), persino Ugl (ex sindacato fascista Cisnal) e addirittura il neopromosso soggetto sindacale «Associazione dei capi e quadri», si impedisce agli operai di votare, le Rsu non esistono più. Si ritorna alle Rsa (rappresentanze sindacali d'azienda), con quote pariteche tra i sindacati firmatari che nominano direttamente i loro terminali in fabbrica, 15 a organizzazione. Ma quale cecità ha spinto la Fim a firmare un'oscenità del genere? Qualora la Newco Chrysler-Fiat in futuro volesse liberarsi anche di Fim e Uilm potrebbe farle far fuori dagli altri tre «sindacati». «Si arriverà alla compravendita, con tanti Scilipoti in tuta blu», commenta il responsabile per il settore auto della Fiom, Giorgio Airaudo.
Mentre il gruppo dirigente Fiom votava lo sciopero generale, i compagni di merenda (Fim, Uilm, ecc.) firmavano con la Fiat il nuovo contratto di lavoro per Pomigliano. Val la pena di considerare che il falò dei diritti, da Napoli a Torino, avviene mentre i salari del lavoratori vengono e verranno falcidiati dalla cassa integrazione. A Mirafiori dei nuovi modelli (promessi) legati agli investimenti (promessi ) di 1 miliardo di euro si parlerà tra più di un anno, sempre che la Fiat esisterà ancora. I modelli previsti sono un suv e una jeep, ma i motori verranno da Oltreoceano, là dove le vetture saranno in gran parte commercializzate. È l'automobile a chilometro zero. Anche a Pomigliano il lavoro per costruire la nuova Panda tolta ai polacchi di Tychy inizierà chissà quando nel 2012 (intanto la Fiat minaccia i polacchi che fanno qualche timida resistenza di trasferire la produzione in Serbia). Tra Mirafiori e Pomigliano gli investimenti annunciati ammontano a 1,7 miliardi, a fronte dei 20 promessi. Dei 32 nuovi modelli per l'Italia nel quinquennio già 16 sono volati all'estero, degli altri nulla si sa, perché Marchionne il suo piano è disposto a discuterlo solo con se stesso. Dunque, dietro il falò dei diritti potrebbe nascondersi un gigantesco paccotto. Vaglielo a spiegare a D'Alema, Fassino, Chiamparino: se 11 ore, vi sembran poche...
Sarà uno scontro durissimo quello di Mirafiori, una fabbrica imprevedibile e ingovernabile per tutti, abitata da operai con un'età media di 47 anni, incattiviti, in rotta di collisione con la politica e gran parte dei sindacati, in attesa di una sola cosa: la pensione. Persone consumate dalla fatica e dalle delusioni, stufe, pronte a fischiare quasi chiunque si avvicini alla loro fabbrica perché si sentono abbandonate e tradite. Persone con una dignità, però. L'esito del referendum è tutt'altro che scontato.
SINISTRA PRO-MARCHIONNE
Fassino non è il nostro candidato
di Ugo Mattei
Piero Fassino, se fosse un operaio, voterebbe sì al referendum di Mirafiori. In questo segue Marchionne e i cosiddetti «poteri forti», quella borghesia collinare che da quindici anni gestisce con arroganza e insipienza il Comune di Torino disastrandone le finanze (il supersindaco Chiamparino lascerà un buco di 5 miliardi) e svendendone il territorio per far cassa.
L'ex segretario dei Ds e aspirante primo cittadino per il centrosinistra ha anche affermato la settimana scorsa che, se fosse sindaco di Torino, venderebbe le quote delle partecipate comunali.
CONTINUA|PAGINA3 In questo promette di dar seguito alle alzate di ingegno dell'attuale sindaco che, per eccesso di zelo e ansia da naufragio annunciato, in piena campagna referendaria, cerca di anticipare gli effetti del Decreto Ronchi. Il Comune sta privatizzando tram e spazzatura e trasferendo a Iren (cioè a Genova) per un piatto di lenticchie la Smat, municipalizzata dell'acqua. Le banche hanno lasciato la Mole per la Madonnina. I beni pubblici per il capoluogo ligure. E si fa un gran parlare di continuità con la giunta Chiamparino!
Qualche mese fa mi ha telefonato l'ambasciatore boliviano per chiedermi che stesse succedendo alla sinistra in Italia. Fassino, responsabile esteri del Pd, aveva invitato a rappresentare la Bolivia a un convegno romano del suo partito la figlia di Paz Estenssoro, ex presidente neoliberista di La Paz. All'ambasciatore Elmer che protestava per questo assurdo sgarbo Fassino ha spiegato che Morales, il campione dei beni comuni, è un dittatore. Nemmeno Bush si era spinto a tanto.
A fine gennaio sotto la Mole dovrebbero tenersi le primarie di coalizione che a Roma cercano di far saltare sapendo che se Vendola sceglie un buon candidato ci sarà il Pisapia 2. Bisogna lavorare perché la consultazione popolare si tramuti in un referendum per votare anche qui sì come farebbe Fassino a Mirafiori e come speriamo a giugno facciano gli italiani sull'acqua. Sì al rinvio al mittente romano dell'ex segretario dei Ds. Fassino è il solo candidato del centrosinistra con serie probabilità di perdere. Possibile che la sconfitta di Rutelli a Roma non abbia insegnato nulla?
PENSIERO UNICO
Pd, è ora di decidere cosa fare da grandi
Roberto Della Seta
Non è un nuovo fascismo il vero spettro evocato dal diktat di Marchionne su Mirafiori, e ancora di più l'accoglienza osannante che ha ricevuto da tanti autorevoli «riformisti». È un pericolo meno esplicito ma per questo più insidioso, perchè non produce automaticamente anticorpi.
È la riedizione in salsa italiana del pensiero unico, uscito con le ossa rotta da un decennio di contestazioni altermondialiste, e oggi ridotto in pezzi dal tunnel della recessione che ha smentito drammaticamente le «magnifiche sorti e progressive» della globalizzazione. Che il pensiero unico cerchi proprio in Italia una sua rivincita è forse il segno che siamo un paese periferico, marginale, in ritardo sui tempi della storia. O più probabilmente è la prova del provincialismo, della povertà culturale delle nostre classi dirigenti.
Ma cos'è in sostanza il pensiero unico? È l'idea che i problemi della società, quelli economici e non solo, possono essere affrontati in un solo modo razionale, il modo deciso dall'establishment, e che chi si oppone sia un conservatore, un nemico del progresso. Nel caso in questione, il pensiero unico asserisce che la Fiat per restare in Italia ha bisogno che le garanzie, le libertà e le tutele sociali e sindacali delle sue fabbriche vengano ridotte, avvicinate a quelle dei paesi emergenti. I lavoratori e i sindacati dissenzienti non vanno semplicemente ignorati: vanno cancellati. E chi non è d'accordo con la ricetta, chi per esempio sostiene che le difficoltà competitive della Fiat nascono anche e molto dalla bassa qualità dei prodotti, da troppo scarso impegno nell'innovazione (per esempio in quella cosidetta ecologica), non è semplicemente qualcuno che ha un'opinione diversa sul futuro: è uno che il futuro lo rifiuta.
Più in generale - che si parli di lavoro, di immigrazione, di tasse, di ambiente - il pensiero unico applica sempre un analogo criterio. Un criterio a pensarci bene assai poco laico e assai poco liberale: nega che un problema possa essere affrontato seguendo strade diverse, diverse per contenuti sociali e valoriali, ma dotate tutte di una loro razionalità, e invece teorizza che la soluzione ragionevole sia una sola - quella che peraltro mette di meno in discussione l'ordine e i poteri costituiti - che tutte le altre soluzioni siano irrazionali e regressive.
Ora, che il pensiero unico piaccia e faccia comodo alla destra è del tutto sensato. La destra non ha mai sognato né promesso di cambiare il mondo. Ciò che colpisce è che, come si è visto in questi giorni, piaccia moltissimo a numerosi esponenti della sinistra: per esempio a parecchi di quei tipici post-comunisti nostrani che passano gli anni ma continuano a sentirsi perennemente in dovere dimostrarsi redenti da qualunque suggestione ideologica (come se ideologia pessima e tragica di cui sono stati un tempo sostenitori consigli oggi di lasciare da parte persino gli ideali). La verità è che il pensiero unico toglie senso alla politica, che vive del confronto e talvolta del conflitto tra opinioni diversamente razionali, fondate su valori e nozioni del bene e del giusto differenti; ed è la morte della sinistra e del riformismo, che sono fatti per proporre e per cercare di costruire soluzioni più giuste e avanzate ai problemi sociali.
Senza una critica radicale del pensiero unico, non può esserci vero riformismo: e allora non è un caso che l'unica sinistra che in Europa e nel mondo si dimostra capace di crescere nei consensi sia quella ecologista, per sua natura eretica e culturalmente sovversiva e al tempo stesso estranea alle gabbie ideologiche del Novecento, queste sì sepolte dalla storia. Chi sa che non tocchi proprio a Marchionne, suo malgrado, costringere il Pd a decidere davvero cosa vuol essere da grande: se un partito moderato o riformista. La differenza, checchè ne dicano in molti, è notevole, il dibattito di questi giorni sulla vicenda Fiat la fa apparire abissale.
*Parlamentare del Partito democratico
SINISTRA
Le primarie e le alleanze possibili
di Piero di Siena
Non vedo necessariamente una contraddizione tra il fatto che il centrosinistra in senso proprio (per intenderci una coalizione di forze che va da Rifondazione al Pd, passando per Sel e Idv) scelga la propria leadership e l'indirizzo politico generale a cui ispirare la propria azione tramite le primarie e l'esigenza di aprire un confronto con la nuova aggregazione di centrodestra che fa capo a Casini, Rutelli e Fini, al fine di isolare l'attuale maggioranza di governo il cui disegno eversivo e autoritario è ormai sotto gli occhi di tutti.
Solo la pretesa del Pd - perché è la forza più grande - di dare le carte per la partita, tutta aperta, delle future alleanze costituisce un ostacolo a questa prospettiva e rende incompatibili tra loro (come si è visto dopo l'intervista prenatalizia di Bersani) la ricostruzione del centrosinistra e i rapporti con il cosiddetto "terzo polo". Ma i gruppi dirigenti del Pd devono rendersi conto che, nelle condizioni in cui è ridotto il loro partito - ormai diviso su tutto, comprese identità e funzione - è necessario che facciano un passo indietro e ricerchino la legittimazione a essere il perno di ogni possibile coalizione alternativa attraverso un rinnovato pronunciamento democratico dell'elettorato di centrosinistra.
Si facciano dunque il prima possibile le primarie del centrosinistra e poi si apra insieme un confronto con il "terzo polo" che, prima delle alleanze elettorali e della coalizione di governo, abbia per oggetto l'attuazione e la difesa della Costituzione dagli attacchi concentrici di questo governo che cerca di ledere i fondamentali diritti di libertà e di associazione, in mille modi e con mille mezzi, e della parte del padronato che sostiene l'iniziativa di Marchionne di tagliare alla radice ogni forma di relazioni industriali degne di questo nome.
Sarebbe utile che si cercasse un'intesa: su una nuova legge elettorale, ispirata al principio della centralità della rappresentanza rispetto a quello della governabilità, e sulla difesa della libertà d'informazione; sul fatto che di fronte a quello che sta accadendo nel confronto sociale la politica si assuma la responsabilità di definire per legge i criteri della rappresentanza sindacale sui luoghi di lavoro e della validazione dei contratti sottoscritti; sulla rimessa in discussione da parte dell'Italia degli indirizzi attraverso i quali l'Unione europea intende disciplinare il governo dei debiti degli Stati e il complesso delle misure anticrisi. Non c'è bisogno che ci siano le elezioni o si faccia nell'immediato un'alleanza di governo per affrontare almeno i primi due di questi tre obiettivi. Basterebbe una comune azione parlamentare.
Si può obiettare che è irrealistico pensare a una convergenza tra centrosinistra e "terzo polo" intorno a obiettivi di siffatta portata. Ma qualcuno dovrebbe anche dire perché non provarci, a meno che non si pensi che contro Berlusconi e il suo disegno politico sia meglio procedere in ordine sparso. La scelta sarebbe tra la permanente divisione delle forze di opposizione di fronte alla svolta di regime in atto, con il rischio di dare all'opinione pubblica l'impressione che l'attuale maggioranza non abbia alternative, e affrettate convergenze dettate dall'insorgere dell'emergenza politica e istituzionale che assumerebbero inevitabilmente, agli occhi di tanti, un profilo trasformistico.
Tutto ciò naturalmente avrebbe bisogno di una sinistra che dalla sua unità riacquisti l'autorevolezza perduta, una sinistra che sappia con generosità nel suo insieme capitalizzare le speranze e le opportunità che l'iniziativa condotta sin qui da Vendola le offre, che si ricomponga attraverso l'apertura di un circolo virtuoso tra sinistra politica e sinistra sociale, come qualche tempo fa hanno sostenuto sul manifesto Paolo Cacciari e Chiara Giunti, e che la manifestazione della Fiom, quella della Cgil, le lotte degli studenti e dei ricercatori universitari hanno dimostrato essere una possibilità concreta. Ci sarebbe bisogno di una sinistra che, contemporaneamente, abbia l'esatta percezione dei rapporti di forza e se ne faccia carico, che non rinunci a condurre le sue battaglie sull'acqua, sul nucleare, nei tanti conflitti suscitati dalla crisi economica in atto, che appoggi la richiesta di sciopero generale che da più parti viene avanzata alla Cgil, ma cerchi anche ciò che è possibile fare con altri per imprimere un diverso indirizzo al corso delle cose e costruire un'alternativa possibile a Berlusconi e alla sua maggioranza. Prima che sia troppo tardi.
Qui, nel sito di Francesco Garibaldo, il documento dell’associazione Lavoro e libertà e l’indicazione per aderire
Podestà mette le mani avanti "Sul Parco Sud decidiamo noi"
di Teresa Monestiroli
La Provincia dà il via libera al Piano di governo del territorio firmato dall’assessore Carlo Masseroli. Ma nel formulare la sua «valutazione di compatibilità» con lo strumento urbanistico già in vigore a livello provinciale, avverte Palazzo Marino che su quasi un quarto del suo territorio (40 chilometri quadrati su 180, cioè l’area del Parco Sud) la competenza spetta a lei. O meglio, al direttivo del Parco Agricolo Sud che, a sua volta, è presieduto dal numero uno di Palazzo Isimbardi, il presidente Guido Podestà.
Quindi, visto che il parco riguarda oltre a Milano anche i comuni di Buccinasco, Opera, San Giuliano, San Donato, Segrate e Peschiera Borromeo, qualsiasi tipo di intervento «rimane nell’ambito delle norme di pianificazione del Parco in vigore». Ben vengano dunque le proposte di Milano per il futuro dell’area verde, ma queste «dovranno essere sviluppate all’interno dei Piani di cintura urbana», documenti ancora in via di definizione che, stando alle parole dell’assessore al Territorio di Palazzo Isimbardi Fabio Altitonante, «saranno conclusi nel 2012».
Sembra un dettaglio, ma è una precisazione che crea più di un problema al Pgt ambrosiano, perché vincola ogni decisione sull’area del parco a un piano di urbanistica di là da venire, in cui la Provincia potrebbe pretendere cambiamenti anche significativi alle regole previste da Masseroli. Rimettendo così in discussione l’indice di edificabilità dell’area verde (fissato a 0,15 metri quadrati su metro quadrato) con obbligo di trasferimento al di fuori del parco. Variazioni, spiegano in Comune, che comunque dovranno ripassare per l’approvazione dai Consigli comunali coinvolti. Quindi, nel caso Podestà dovesse aumentare l’indice assegnato al parco dopo un lungo braccio di ferro nell’aula di Palazzo Marino tra maggioranza e opposizione, la discussione si riaprirebbe di nuovo, questa volta però fra i due enti entrambi governati da una maggioranza di centrodestra. Ipotesi che non sembra preoccupare Masseroli: «È un altro passo avanti nel percorso di definizione del Pgt. È di competenza della Provincia fare le sue osservazioni».
Al di là del Parco Sud, bloccare l’applicazione della perequazione in questa zona fino al via libera ai Piani di cintura urbana significa mettere a rischio l’intero impianto della borsa delle volumetrie, dal momento che uno dei bacini di maggior peso in città è proprio il parco. D’altronde, spiega Podestà, «la delibera va inquadrata proprio nell’ottica della difesa di questo polmone verde che la Grande Milano dovrebbe utilizzare per respirare meglio, senza rinunciare a crescere». Ed è proprio quest’ultima sottolineatura – «senza rinunciare a crescere» – che inquieta chi, come le opposizioni, chiede che non siano ammesse deroghe alla tutela del parco. Il capogruppo del Pd in Provincia Matteo Mauri legge la decisione di ieri della Provincia, che «contiene più vincoli e modifiche che via libera», come «la dimostrazione che continua lo scontro di potere nel centrodestra tra Moratti e Podestà, scontro che aveva avuto il suo apice qualche mese fa e che aveva coinvolto anche Ligresti».
"Il verde è in pericolo costruire nei campi è l’obiettivo di tutti"
intervista a Gianni Beltrame di Stefano Rossi
Architetto Gianni Beltrame, lei è uno dei padri fondatori del Parco Sud, avendo contribuito con il centro studi Pim a progettare l’assetto urbanistico dell’area. La Provincia e il Parco Sud (entrambi presieduti da Guido Podestà) hanno dato l’ok al Pgt del Comune di Milano anche per le aree cittadine incluse nel parco.
«In realtà, il via libera è condizionato al rispetto da parte di Milano degli accordi di programma che la Provincia farà con la Regione e lo stesso Comune sulle aree milanesi del Parco Sud con i cosiddetti Pcu, Piani di cintura urbana. Insomma, la Provincia dice diplomaticamente al Comune: ti ascoltiamo ma decidiamo noi».
Per il Parco Sud è una garanzia?
«No, perché Provincia, Comune e Regione sono intenzionati a smantellare il Parco Sud, costruendo dove la programmazione precedente non lo prevedeva. Un obiettivo non dichiarato ma ciò non toglie che il Pgt sia pensato con questa finalità, tanto che affida l’urbanistica all’iniziativa privata degli immobiliaristi».
Anche nel Parco Sud? Senza che si possa evitare?
«Un ostacolo c’è e non è cosa da niente. La legge regionale 12 sull’urbanistica dice in modo esplicito che sulle aree agricole non si può costruire».
Quante aree sono classificate come agricole nel Parco Sud?
«Secondo la nostra strategia originaria, tutte. Tranne i 61 Comuni inclusi nel perimetro del parco e una ragionevole area limitrofa di espansione. Quando i Comuni del parco lamentano di non potersi sviluppare, drammatizzano in modo scorretto la situazione. Lo spazio per crescere c’è».
La legge regionale 12 è una garanzia sufficiente?
«Poiché aggirarla è impossibile, temo che la modificheranno. Oppure si inventeranno qualcos’altro ma non si arrenderanno».
Nessuno più difende il Parco Sud?
«Carlo Petrini ha capito l’importanza di salvaguardare le ultime aree agricole in ambito metropolitano. Aree uniche, perché non ne restano altre. E storiche. La loro destinazione agricola non fu una nostra invenzione, l’hanno avuta per secoli. Finché non sono saliti al potere i cultori del cemento».
Eppure Comune e Provincia parlano spesso di degrado del Parco Sud.
«Il degrado riguarda aree marginali nel territorio di Milano. È causato scientificamente da grandi proprietari come Ligresti, Cabassi e Paolo Berlusconi. Attraverso contratti agricoli brevi si rende precaria la vita delle aziende, che investono meno».
Il Comune ha sempre assicurato che nel Parco Sud non si costruisce, gli indici edificatori generati nel parco andranno usati in altre aree. L’opposizione si è battuta su questo.
«Il centrosinistra non ha capito che, una volta accettato l’indice di edificabilità, il guaio è fatto. Poi non ha senso cercare di abbassarlo, sulle aree agricole l’indice dev’essere zero. Così i proprietari si rassegnano e l’agricoltura torna a respirare. So bene che l’attribuzione di un indice è alla base dello scambio con cui le aree del Parco Sud vengono cedute al Comune, in cambio della possibilità di edificare altrove. Ma perché il Comune dovrebbe acquisire le aree? Certo non si metterà a fare l’agricoltore, le farà deperire e poi ci costruirà o farà costruire a qualche immobiliarista».
Il poker tra sindaco e presidente
per il grande business del mattone
di Alessia Gallione
Dopo la Regione e il direttivo del Parco Agricolo Sud, anche la Provincia dà il via libera al Piano di governo del territorio di Palazzo Marino. Ma nel farlo, il presidente Guido Podestà ricorda al Comune di Milano che una buona parte del suo territorio – i 40 chilometri quadrati di Parco Sud – sono di sua competenza. E dunque ogni proposta di trasformazione di quest’area verde verrà definita all’interno dei Piani di cintura urbana, scritti il prossimo anno proprio dalla Provincia.
Il primo round l’ha vinto Guido Podestà nella sua duplice veste di presidente della Provincia e del Parco. Sarà lui a distribuire le carte e gli altri giocatori, compreso il Comune, dovranno aspettare i Piani di cintura per capire che cosa si troveranno in mano. Il Pgt, per ora, è soltanto una "proposta". E, anche se diventerà legge per la città, sarà congelato su quei 40 milioni di metri quadrati.
Ma dietro il duplice via libera al Piano di governo del territorio, si è consumato un braccio di ferro tra Comune e Provincia. Con Palazzo Isimbardi che ha provato, attraverso il parere del Parco, a far saltare il banco. Una prima versione, dagli accenti duri, cancellava di fatto le scelte del Pgt sulle aree verdi: sarebbe stato un colpo fatale all’intero strumento urbanistico perché è proprio il progetto di liberare le aree agricole, spostando altrove le volumetrie da costruire, uno dei capisaldi del documento. Per ora, Carlo Masseroli ha passato la mano. Il suo imperativo è un altro: far approvare la sua "creatura" dal Consiglio comunale. Una mediazione, almeno nei toni, è stata trovata. Ma lo scontro è pronto a riesplodere quando si entrerà nel merito delle scelte.
È corso tutto volutamente sottotraccia. Compreso l’incontro in extremis tra Masseroli e Podestà, nel giorno della riunione del direttivo del Parco. Niente a che vedere con i toni da duello aperto scatenati dal caso Ligresti e dalla richiesta di commissariamento ad acta del Comune che, un anno fa, il costruttore presentò in Provincia. Ufficialmente, al centro della guerra urbanistica c’erano tre progetti edilizi fermi da anni. Ma il vero obiettivo dell’ingegnere siciliano sarebbe stato un altro e ben più importante: il Pgt e quello strumento della perequazione che cancella la possibilità di costruire sui suoi terreni all’interno del Parco Sud. Lì, «in fondo a via Ripamonti», anche la scorsa estate Ligresti confessava di sognare «nuovi quartieri completi che devono avere le scuole per i bambini».
È questo che dice (o direbbe) il Piano comunale di quell’area: i proprietari non potranno costruire e i loro diritti volumetrici verranno spostati altrove. Un bacino immenso da cui il Pgt trae 6 milioni di metri quadrati di ipotetici edifici da far calare sulla città. Anche questo meccanismo, però, viene messo in discussione. Quanto sarà l’indice che verrà generato, in pratica, potrà variare. E a decidere come e dove sarà la Provincia. Questa la lettura di Palazzo Isimbardi, che canta vittoria. Nonostante le scelte dovranno trovare d’accordo anche Comune e Regione: un altro round, un altro scontro. Non solo. Tra i probabili punti di frizione anche la proprietà delle aree liberate grazie allo scambio di volumetrie: per il Comune dovrà rimanere in capo a Palazzo Marino; la Provincia tenterà di annetterle al Parco.
Sembrava trovato mesi fa, l’accordo tra Moratti e Podestà sul Pgt. Su tre punti: l’ippodromo – anche la Lega lo pretendeva – doveva essere stralciato dalle aree di trasformazione; nel piano sarebbero dovuti entrare progetti di housing sociale su terreni della Provincia e Palazzo Isimbardi avrebbe dovuto decidere sul Parco Sud. Le prime due condizioni si erano già risolte (anche se ieri un’osservazione della giunta provinciale chiede di garantire la salvaguardia del trotto e della pista Maura). Rimaneva irrisolta la competenza sui 40 milioni di metri quadrati di verde. E la questione è riesplosa adesso: al momento degli "ok" formali, sul traguardo finale.
Ma quale sarà il futuro dell’area? Per capirlo bisognerà attendere i Piani di cintura. Anche se il rischio che si aprano spazi per possibili costruzioni non è escluso. Podestà, adesso, si erge a difensore del polmone verde. Nessun grattacielo, nessun regalo agli immobiliaristi. Ma quelle «soluzioni condivise» che invoca dovrebbero «coniugare ambiente e sviluppo». E, in passato, non ha nascosto la sua filosofia di base: «Il Parco Sud non è un totem. Bisogna che diventi più penetrabile e più fruibile ai cittadini. Deve consentire un respiro fisiologico ai Comuni limitrofi».
Combattiva ancora oggi, con sulle spalle il «peso meraviglioso» di oltre mezzo secolo di appelli e battaglie in nome della cultura e in difesa del paesaggio, sempre più aggredito, nei decenni, da asfalto, cemento, speculazioni, condoni. Sos continui per il Bel Paese, i suoi, cominciati ancor prima di quel 1955, anno di nascita ufficiale di Italia Nostra, associazione che lei fondò insieme con gli amici di una vita Elena Croce, Umberto Zanotti Bianco, Giorgio Bassani, Pietro Paolo Trompeo e Hubert Howard, marito di Lelia Caetani. Ai quali si aggiunsero fin da subito Antonio Cederna e tanti altri tra letterati, archeologi, critici d'arte, artisti, urbanisti. Tutti diversi per generazione, stili di vita e idee politiche (liberali, liberalsocialisti, azionisti, monarchici, di sinistra): Ma tutti accumunati da una sorta di aristocrazia dei pensiero e nel nome di una battaglia di civiltà che ai tempi nessuno conduceva.
«Si trattava di ribellarsi agli sventramenti che nel dopoguerra continuavano come e più di prima, si trattava di salvare i centri storici dalla cosiddetta ricostruzione selvaggia, si trattava, ad esempio a Roma, di battersi contro l'ennesimo scempio annunciato, un'arteria parallela al Corso a partire da piazza di Spagna. E si trattava di salvare l'Appia Antica, che senza il nostro impegno sarebbe oggi uno stradone cementificato come tanti altri». A parlare è una delle cofondatrici di Italia Nostra, ultima sopravvissuta tra i protagonisti di quel lontano pomeriggio del 29 ottobre '55. La prima associazione ambientalista e di tutela in Italia nacque proprio in casa sua, piazza Cairoli, nel palazzo di famiglia dove ancora oggi vive la contessa Desideria Pasolini dall'Onda, casato nobile dal XIII secolo. Desideria, classe 1920, una miniera di ricordi e una vita spesa in prima linea in difesa del patrimonio artistico e delle bellezze naturali, accoglie ancora adesso il visitatore nella biblioteca del Palazzo, sugli stessi divani rivestiti in velluto cilestrino dove sedettero Bassani, Croce (anche don Benedetto era di casa, Elena, sua figlia, abitava al piano di sotto) e tanti altri protagonisti tra Otto e Novecento: «Vede, lei è seduto proprio dove si metteva sempre Cederna, amico meraviglioso, strambo e geniale. Bassani invece usava quell'altra poltrona». Sprizzante energia, lucidissima, impegnata con l'ennesimo lavoro (in queste ore sta preparando una conferenza proprio sulle origini di Italia Nostra) l'indomita Desideria — nei cui discorsi ricorrono senza enfasi bellissime parole quali intellettuale, impegno, etica, tutela — è stata pochi giorni fa insignita della presidenza onoraria del «Comitato perla bellezza» presieduto da Vittorio Emiliani, altro amico e sodale di battaglie in nome della Cultura.
Nella motivazione anche un breve profilo biografico di Donna Desideria, che pur in sintesi racconta l'eccezionale esistenza di questa nobile signora (aristocrazia di studi e pensiero, prima che di sangue) che fu allieva di Pietro Toesca e Cesare Brandi, studiosa di letteratura inglese, traduttrice di Stevenson e della Woolf. Da Italia Nostra, di cui la Pasolini fu presidente, è polemicamente uscita in seguito alla vendita della villa di via Porpora ai Paioli, lasciata in eredità all'associazione, per farne la sede nazionale, da Maria Luisa Astaldi, scrittrice e moglie di Sante, industriale e fondatore del gruppo (ferrovie, acquedotti) che ancora porta il suo nome: «Ribadisco, quella vendita fu un grave errore. Si trattava di un bene morale e culturale. Problemi di bilancio si potevano risolvere con un mutuo o affittando l'immobile». Che quella non fosse una casa qualunque c'è d'altronde una lunga storia a testimoniarlo. In quelle stanze passarono tanti grandi nomi del Novecento, artisti, letterati, architetti, principi del giornalismo: De Chirico, Savinio, Praz, lo stesso Bassani, Levi, Campigli, Argan, la famiglia Cecchi, Palma Bucarelli, Paolo Monelli... Ché gli Astaldi, è noto, furono anche mecenati: «Maria Luisa — ricorda Desideria — fu una delle prime a finanziare l'associazione». Ma prima di lei a sostenere il gruppo fu il leggendario banchiere-mecenate Raffaele Mattioli: «Ogni tanto ci portava a cena in trattoria. La prima volta lo contattai io chiedendo un appuntamento. Speravo in un piccolo contributo, invece firmò un assegno da tre milioni».
La brillante conversazione con Desideria scivola via tra pensieri sull'integrità dei centri storici come unicum («Fummo i primi a porre il problema), auspici per il futuro («Che la scuola torni a formare l'amore per la conoscenza») e i mille ricordi di una vita degna di una biografia: le ascendenze del casato (sua madre è una Borghese, Desideria tra i suoi avi conta il Cardinal Scipione e Paolina Bonaparte), gli incontri del suo bisnonno nella villa di Montericco con Minghetti, Ricasoli, Capponi, un'altra bisnonna, Antonietta Bassi, aristocratica milanese autrice di una raccolta sull'architettura sparita, Croce che la spinge a riscrivere parte della tesi («Aveva ragione lui») e sé stessa bimba in quei martedì quand'era ospite fisso in casa Pascarella: «Sì, una vita bellissima. Stanca? Per niente. Ho lo stesso spirito ribelle di quand'ero giovane. Paesaggio, periferie, giardini, c'è ancora tanto fare. E il vento che soffia oggi non è dei migliori».
La nomina
In questi giorni il Comitato per la Bellezza, al quale aderiscono le principali associazioni ambientaliste e dedite alla tutela, ha deciso unanimemente di attribuire a Desideria Pasolini dall'Onda, componente del Comitato stesso, la presidenza onoraria. Una attribuzione che avviene in spirito di amicizia, si legge nel comunicato, “riconoscendo all'indomita Desideria di condurre una battaglia, più che cinquantennale e senza sosta, per la tutela del paesaggio, con particolare attenzione a quello agrario (che considera quasi una sua "fissazione'), e del patrimonio storico-artistico della Nazione”. Si tratta «di una piccola cosa., ha commentato il presidente Vittorio Emiliani, che però tutti noi attribuiamo con grande piacere e calore a Desideria Pasolini.
Due edifici di cinque piani più due piani interrati con supermercato e garage. Una torre centrale con grande tetto spiovente, una piazzetta e 3 mila metri quadrati di verde pubblico. Ecco il nuovo Parco delle Rose.
La parte centrale del Gran Viale che oggi ospita pizzeria, sala Giochi e una grande area verde con dentro edifici per circa 4 mila metri cubi è destinata a cambiare completamente volto. Appartamenti e palazzine come al Lido non sono per nulla tipiche. I vecchi edifici saranno tutti demoliti, gli alberi di alto fusto tagliati perché ritenuti di scarso pregio e in parte malati. La cubatura sarà quasi sestuplicata (dagli attuali 4.40 metri cubi ai 23.00 del nuovo progetto). Un’altra parte dell’isola che si trasforma.
Il progetto definitivo sarà approvato con i poteri straordinari del commissario Vincenzo Spaziante il 30 dicembre. «Che c’entra questo progetto privato con l’interesse pubblico e l’Ospedale al Mare?» chiedono i comitati. Secondo l’imprenditore calabrese Antonio Di Martino si tratta della «valorizzazione» di una parte degradata del Gran Viale. E il commissario Spaziante, calabrese pure lui, nominato dal governo tre anni fa per seguire i progetti del nuovo palazzo del Cinema in vista del 150esimo dell’Unità d’Italia, ha inserito la proposta tra quelle da approvare giovedì. Il progetto elaborato dallo studio Folin con studio a San Marco (architetti Fabrizio Folin e Eleonora Bonotto) e da Open Lab (architetti Deferrard, Pivetta e geometra Lorenzi) è stato commissionato dallì’immobiliare Adm, con sede in via Gioacchino Murat 46 a Lamezia Terme. L’intervento viene definito «riqualificazione urbanistica e residenziale dell’area Parco delle Rose», tra il Gran Viale Santa Maria Elisabetta e viale Zara.
Secondo gli architetti si deve costruire una sorta di «magnete urbano» che oggi al Lido manca, al posto del «vuoto urbano» rappresentato dall’area nello stato attuale. I grandi tetti sporgenti avranno la funzione di calamitare appunto l’attenzione di chi sbarca a Santa Maria Elisabetta, la costruzione a H con i due grandi fabbricati e la torre centrale quella di permettere comunque il passaggio e la fruizione pubblica. Una «scommessa» secondo Di Martino. «Una speculazione immobiliare» secondo i comitati che chiedono quale sarà il vantaggio dell’isola derivante da questa operazione. Gli elaborati sono stati presentati in Comune, Soprintendenza e all’Ufficio del commissario. Verranno valutati nelle prossime ore e portati all’approvazione nella seduta di giovedì.
Nelle immagini dell’«acqua granda» tornata prepotente per Natale, che stanno facendo il giro del mondo, si vede sempre e solo la piscina di piazza San Marco. Mai Musile o Bovolenta. Per certi versi è logico. Musile e Bovolenta non le conoscono nel mondo. Eppure il nuovo incubo dell’alluvione sta colpendo al cuore soprattutto la terraferma. Quella veneziana, quella veneta, quella nordestina. E sta facendo molti più danni, danni seri, danni veri, di quanti non ne faccia nella città che fu dei dogi. Al punto da far pensare che una nuova Legge Speciale, ammesso che serva, sia più necessaria per il Veneto, e per l’intero Nordest, che per la città Serenissima.
Colpa dell’abbandono in cui è stato colpevolmente lasciato da decenni il territorio. Della mancanza della più elementare manutenzione ordinaria. Dell’assenza di interventi sui fiumi e sui canali, sugli argini e sulle rive, nei fossi e nelle rogge, nel sottosuolo e sulle montagne. Colpa della scriteriata cementificazione di ogni metro quadro disponibile in nome della più brutale avidità. Colpa della dissennata costruzione di casette, villette, villaggetti, fabbrichette, capannoni e ipermercati dappertutto, anche in zone considerate a rischio, lungo le sponde e sotto gli argini, dove un minimo di buon senso avrebbe consigliato quantomeno prudenza.
Gli alluvionati dell’entroterra pagano così lustri di dissesto e di voracità dei loro governanti, ma anche loro proprie. E non è un fenomeno nuovo. Anzi si può dire, come per il ritorno dell’«acqua granda», che si tratti di una recidiva.
Quarantaquattro anni fa, al tempo dell’alluvione di Venezia del 4 novembre 1966, proprio quello spettro che oggi si riaffaccia minaccioso, quando la devastazione del territorio era solo iniziata e non ancora come oggi compiuta, successe esattamente la stessa cosa. Rimase sottotraccia nell’opinione pubblica, sconvolta ed emozionata dal dramma di città d’arte famose come Venezia e come Firenze, ma successe. E il bilancio reale, non quello mediatico, fu molto più devastante nelle città, nei paesi e nelle campagne dell’entroterra, che tra le antiche e preziose pietre di Venezia.
Il capoluogo lagunare ebbe 14 mila alluvionati, mille senzatetto, 4 morti e 40 miliardi di danni calcolati nelle vecchie lire dell’epoca. Delle quattro vittime va detto che nessuna di loro perì travolta dalle onde dell’«acqua granda». Morirono per infarto o per essere scivolati dalle scale. Nelle Tre Venezie, invece, come veniva chiamato a quel tempo il Nordest, i morti furono 78, e quasi tutti portati via dalle acque infuriate. I sinistrati furono 180 mila, i senzatetto 3 mila, i miliardi di danni 400. Venti volte le vittime e dieci volte gli alluvionati e i danni di Venezia. Si parlò molto meno del disastro della terraferma. Ma tra il Veneto, il Friuli-Venezia Giulia e il Trentino-Alto Adige i comuni colpiti dall’alluvione furono 429. Ma il mondo guardò solo alla bella Venezia e alla romantica Firenze. Solo per loro si mosse la solidarietà internazionale, solo per loro si attivarono i governi, solo per loro si pensò di stanziare dei fondi.
Del dramma di quelle campagne allagate e annegate non si occupò nessuno. Non importava a nessuno di Musile o Bovolenta. Non se ne occuparono e non se ne sono più occupati, nei quarantaquattro anni che sono passati da quel giorno, se non per devastarle e per riempirle di cemento. Ora non è la natura che si ribella, e diventa all’improvviso cattiva. Non c’è alcuna fatalità in tutto questo. E’ che bastano quattro gocce di pioggia per ferire a morte una terra che è diventata fragile, perché violentata e abbandonata indifesa. Con il rischio che, adesso che torna inquietante quell’incubo, i danni di una nuova, eventuale alluvione, siano molto più devastanti di allora.
Per incarico della Fondazione Rodolfo Debenedetti un gruppo di economisti di alto livello internazionale, coordinati da Tito Boeri, Antonio Merlo e Andrea Prat, hanno costruito, come spiega in un suo commento Lucrezia Reichlin, docente della London Business School, «una ricchissima banca dati basata sui curricula dei parlamentari eletti tra il 1948 e il 2008. Si tratta di una banca dati non solo unica, ma elaborata in modo approfondito e sofisticato: un primo importante passo per una valutazione quantitativa del profilo dei legislatori italiani». Il saggio ( Classe dirigente. L´intreccio tra business e politica, autori vari, pag 149, Università Bocconi Ed.) dedica la sua prima parte al profilo dei parlamentari (i soli di cui daremo conto), mentre la seconda si concentra sui manager. Più di un punto incrocia, peraltro, i due filoni. Scopriamo, ad esempio, che un terzo dei manager incontra politici o esponenti dell´amministrazione pubblica almeno una volta la settimana.
È probabile trattarsi di persone che perseguono gli interessi aziendali, attraverso la loro posizione politica. Un conflitto di interessi che assume dimensioni macroscopiche quando verifichiamo un dato senza precedenti: tra i parlamentari eletti alle ultime politiche (2008) sono i manager a far la parte del leone (un deputato su quattro). Se si osservano da vicino le carriere dei deputati, dalla prima Legislatura (1948) alla XV (2006), vediamo che i neoparlamentari provenienti dal settore legale sono passati dal 33,9 al 10,6%, tra i manager dal 6,1 al 18,2, i sindacalisti, che nelle prime Legislature avevano toccato l´11, dal 1970 in poi sono crollati intorno al 3%. Anche il dato sull´istruzione è inaspettato: se nella Prima Repubblica la percentuale dei parlamentari laureati era dell´80,5, nella Seconda è scesa al 68,5. Un terzo degli eletti non ha quindi neppure uno straccio di laurea.
Il saggio dedica un´ampia disamina alle retribuzioni dei parlamentari italiani paragonandole a quelle statunitensi: in Italia le indennità vere e proprie (senza contare quelle aggiuntive) misurate in termini reali (euro del 2005) sono aumentate da 10.712 euro nel 1948, a 137.691 euro nel 2006, pari a un aumento medio del 9,9%annuo e un incremento totale del 1.185,4%; negli Usa, dove non ci sono indennità aggiuntive, la retribuzione lorda è cresciuta da 101.297 dollari nel 1948 a 160.038 dollari all´anno nel 2006, con un aumento del 58%, ovvero l´1,5% annuo. Paragonando l´introito dei parlamentari a quello delle altre categorie italiane si calcola che il reddito medio dei manager tra il 1985 e il 2004 è aumentato del 69%, con un tasso annuo del 2,9; quello complessivo dei parlamentari è aumentato del 96,7 a un ritmo annuale del 3,8.
Nel 2004 lo stipendio parlamentare medio (146,533+56.335 da altre voci) risultava nel totale 1,8% superiore al reddito reale medio di un manager (113,087 euro). Non posso dilungarmi ancora. Sottolineo solo quanto si afferma nelle conclusioni: «Il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica ha determinato un pauroso peggioramento qualitativo dei politici. Questo declino va di pari passo con il drammatico abbassamento del livello medio di istruzione. Infine all´aumentato reddito parlamentare peggiora la qualità media degli individui che entrano in politica. Il forte incremento del reddito parlamentare (quattro volte quello medio di un manager privato) ha contribuito al declino della qualità degli eletti». Abbozzo una riflessione: il prevalere, tramite Forza Italia, della presenza manageriale e della ricchezza all´interno delle Camere spiega la degenerazione della cultura politica italiana: sul consenso prevale il comando, un sistema di equilibri e di suddivisione istituzionale dei ruoli (magistratura, Consulta, Quirinale) appare un non senso per chi considera il capo azienda naturale detentore del potere. In questo quadro la conquista di una maggioranza funziona se segue le regole di un´Opa: chi la vuole si dia da fare per acquistare il controllo azionario. E come, se non con i soldi?
Una riforma che se attuata sottrarrà risorse soprattutto al Sud con un drammatico calo dei servizi a disposizione dei cittadini. È quanto emerge da uno studio del Pd sugli effetti del federalismo fiscale.
Volenti o nolenti, il concetto di federalismo fiscale si è ormai instillato nella vita, politica ed economica, del nostro Paese. Ma il cavallo di battaglia fin troppo esibito dalla Lega è stato fin qui oggetto di troppo poche attenzioni, se è vero che rischia di disarcionare proprio parte di quei soggetti che nella retorica del Carroccio dovrebbero beneficiarne. È la chiara conclusione a cui arriva uno studio del partito democratico, che vede proprio i Comuni correre il rischio di una stangata con il nuovo fisco previsto nel federalismo fiscale.
MERIDIONE A PICCO
Secondo l’indagine del Pd, messa a punto dal senatore Marco Stradiotto, i municipi con il passaggio dai trasferimenti statali all'autonomia delle imposte perderebbero complessivamente 445 milioni di risorse l'anno da destinare ai servizi.
La proiezione è fatta utilizzando dati della Copaff, ovvero la Commissione paritetica sul federalismo fiscale che lavora al ministero del Tesoro, e dimostra che l'Aquila, ma anche Napoli come molti Comuni del Meridione perderebbero consistenti fette di entrate (fino a oltre il 60%) con il nuovo fisco. Va meglio, e qui i conti della Lega tornano, ai municipi del Nord o a quelli come Olbia con un alto tasso di seconde case, avvantaggiati dalla base immobiliare delle nuove imposte.
In particolare, la perdita di risorse per i servizi a disposizione dei capoluoghi di provincia è quantificata in 445,455041 milioni di euro. Un dato che emerge mettendo a confronto i trasferimenti relativi al 2010 e il totale del gettito dalle imposte devolute in base al decreto attuativo del federalismo sul fisco comunale (tassa di registro e tasse ipotecarie, l'Irpef sul reddito da fabbricati e il presunto introito che dovrebbe venire dalla cedolare secca sugli affitti). Tra i 92 comuni presi in esame 52 otterrebbero benefici dalla proposta di riforma e 40 ne verrebbero penalizzati.
IL CASO L’AQUILA
Come detto, un taglio drastico delle risorse risulta per il comune dell' Aquila (-66%) che perderebbe più di 26 milioni. Infatti, se il nuovo fisco previsto nel federalismo municipale andrà in vigore il capoluogo abruzzese incasserà soltanto 13,706 milioni di tasse a fronte dei 40 milioni di trasferimenti avuti nel 2010. Ragionando pro capite, si tratta di -360 euro all’anno per abitante poiché gli aquilani pagherebbero 188 euro, mentre attualmente per ognuno di loro vengono dati al Comune 548 euro.
Sulla stessa linea negativa c’è Napoli (-61%) che in virtù della popolazione molto maggiore ci rimetterebbe quasi 400 milioni, il differenziale che emerge dall’ipotetica autonomia impositiva, con incassi pari a252milioni, ed i trasferimenti incamerati nel 2010, 645 milioni. Più ridotto, invece, il gap negativo per Roma,un -10%equivalente ad una perdita di 129 milioni.
Fra i Comuni del Centronord ci sono, di contro, da segnalare i vistosi incrementi di Imperia (+122%), Parma (+105%); Padova (+76%) e Siena (+68%).
Ecco alcuni motivi per cui non ci sentiamo di difendere il Piano Strutturale adottato il 13 dicembre scorso dal Consiglio Comunale
La sbandierata ma disattesa promessa di un piano "a volumi zero". Nella realtà il Piano Strutturale adottato "sdogana" per i prossimi 15 anni 4 milioni e mezzo di mc. di volumi privati su una superficie municipale di poco più di 100 Kmq. Infatti le superfici autorizzate non ancora realizzate, ma riconfermate dal PS, sono pari a 678.000 mq., mentre il nuovo impegno di suolo dovuto al residuo del PRG equivale a 92.100 mq. A queste dobbiamo aggiungere l'incremento di carico urbanistico rappresentato dai 713.000 mq. di superfici da recupero (comprensive dei contenitori di particolare valore) di cui ben 530.150 mq. sono costituiti da residenze, 59.300 mq. da insediamenti industriali e artigianali, 57.380 mq. da funzioni commerciali di media grandezza, 26.100 mq. da turistico-ricettivo, e 40.070 mq. da direzionale. Avremo pertanto un totale di 1.483.100 mq. di superfici che moltiplicate ottimisticamente per un'altezza di 3 m. raggiungono l'imponente cifra di 4.452.000 mc.
Non si dimentichino inoltre:
- le enormi superfici pubbliche della Scuola Marescialli di Castello quasi completate;
- i 150.000 mq. di trasferimento per perequazione di edifici cosiddetti incongrui, (ma quali sono? Volumi abusivi, condonati o meno, oppure anche le recenti edificazioni autorizzate nelle corti?) col connesso premio volumetrico;
- i 200.000 mq di edifici incongrui analoghi non ancora collocati ma in odor di variante;
- il "social housing" (caserme dismesse, completamento dell'edificato e nuovo consumo di suolo);
- il completamento di alcune aree sportive in delicate aree di frangia che incrementeranno ulteriormente quelle cifre.
Le colline e il centro storico indifesi
Il Piano Strutturale appena adottato, dopo aver reso gratuito omaggio ad alcuni principi di sostenibilità energetica e ambientale, è presentato come il primo piano in Italia a volumi zero e senza consumo di nuovo suolo; in realtà consente gli incrementi volumetrici di cui sopra e il consumo di nuovo suolo mediante l'attacco alla collina, sottraendo i borghi storici collinari dalle aree a piena tutela, e conferma, senza alcun ripensamento, tutte le volumetrie di Ligresti nella Piana di Castello, mette parcheggi interrati attira-traffico sotto una decina di piazze storiche e prevede sconsideratamente 6 Km di tunnel tranviari sotto il Centro storico, senza infine negarsi un passante stradale sotterraneo da Varlungo a Careggi/Novoli immaginato "fuori Piano".
La mobilità:
un'incredibile e velleitaria macedonia di tutto quello che si potrebbe fare, senza indicazioni di priorità, scelte strategiche generali e indicazioni di tempi e risorse per la loro attuazione
Il Piano Strutturale accoglie, nonostante la guerriglia verbale del sindaco Renzi contro Ferrovie dello Stato, tutto il pacchetto Alta velocità, compresa la contestata e abusiva stazione Foster, regalando a Moretti la piena disponibilità delle "sue" aree ferroviarie.
Qui si doveva giocare l'ultima battaglia per adeguare il sistema della mobilità (il quinto per dimensione in Italia, la cui fragilità è stata catastroficamente dimostrata dalla recente nevicata) di cui si parla molto nelle relazioni di Piano. In un'area metropolitana asfissiata dalle polveri fini, da sempre al vertice italiano per indice di motorizzazione auto e moto e nella quale il ruolo del trasporto pubblico è andato progressivamente declinando con il decentramento della popolazione e con l'abbassamento del livello di servizio, la mancata salvaguardia del "canale ferroviario" (escluso dal quadro delle "invarianti") rende le considerazioni sulla creazione del Servizio ferroviario metropolitano prive di fondamento. Soprattutto se si perde l'occasione dell'AV per attrezzare importanti nodi, come le stazioni di Campo di Marte e di Rifredi, per l'utilizzo metropolitano della rete ferroviaria, per la riorganizzazione della mobilità cittadina e per la definitiva messa in sicurezza del passaggio in superficie del traffico.
Il Piano strutturale appena adottato riconferma i progetti delle linee 2 e 3 della tranvia contro i quali i cittadini si erano espressi con un referendum nel 2008, e ne prevede anche i prolungamenti; annuncia infine la creazione di tre nuove linee (per un totale di sei), due delle quali su sede ferroviaria.
Il Piano prevede anche la privatizzazione di importanti aree pubbliche come il Meccanotessile, la Mercafir, il deposito Ataf di viale dei Mille e l'istituto dei Ciechi, oltre a premi, regalie e aumenti di superfici edificabili per i privati.
La "perequazione":
ovvero come si consuma nuovo suolo rinunciando alla pianificazione del territorio
Con la perequazione che dà luogo al "credito edilizio" il PS intende favorire il trasferimento, ad esempio, del volume di un capannone abbandonato dal centro ad una zona periferica, demolendolo poi per ricavarci uno spazio pubblico, una piazza o un giardino.
Il criterio perequativo originariamente era utilizzato per garantire ai proprietari presenti all'interno di uno stesso comparto o di un "zona territoriale omogenea" pari opportunità ed equiparazione di diritti/doveri; ora viene diffuso su tutto il territorio comunale facendo sì che volumi "incongrui", sottratti da un tessuto già troppo denso, "atterrino" in altre aree producendo erosione di aree verdi, agricole o collinari, invasione di zone paesaggisticamente sensibili, generando in parole povere consumo di nuovo suolo ed espansione dell'edificato.
Ma soprattutto, compiendo uno strappo fra standard urbanistico (da individuare là dove viene demolito il volume incongruo) e nuova edificazione (nella nuova area dove si depositano le volumetrie relative all'edificio demolito), aggravaquella indifferenza alla localizzazione (e quel primato della rendita immobiliare) che è la vera tomba della pianificazione.
Si opera così anche una coartazione sul singolo abitante come titolare di un diritto a quella dotazione di superficie pubblica da utilizzare nel quotidiano in un rapporto di vicinanza con la residenza (verde, parcheggio, scuola, centro sociale, chiesa, ecc.). Il passaggio dalle convenzioni tra Comune e privati al "Registro dei crediti edilizi" rende assai problematica e incerta qualsiasi gestione di questo tipo di pianificazione.
Limitatissime le concessioni fatte dalla superblindata maggioranza di Palazzo Vecchio ai 166 emendamenti, circostanziati e propositivi, presentati dai vari gruppi durante la discussione nel Consiglio comunale. A conferma di una sottrazione della materia urbanistica, non solo alla democrazia partecipativa (mai veramente attuata e comunque subito conclusa tre mesi fa con il retorico appuntamento dei "100 luoghi"), ma anche a quelle stesse assemblee elettive tanto invocate da molti amministratori toscani contro i comitati e l'associazionismo ambientalista – che sono ormai gli unici depositari, insieme a pochissimi tecnici e consiglieri, della competenza e della consapevolezza necessaria per un governo trasparente e sostenibile del territorio.
Nonostante la disponibilità al dialogo fornita durante il dibattito in commissione e in Consiglio comunale dai gruppi di opposizione (e il voto favorevole del consigliere di opposizione Valdo Spini) il Partito Democratico ha fatto quadrato, come doveva, attorno alla rete di interessi economici che entrano in gioco in un iter di Piano. Materia troppo seria evidentemente per lasciarla in mano a semplici consiglieri o peggio a cittadini perbene e tecnici competenti.
Per tutti questi motivi siamo convinti che in Consiglio comunale l'unica scelta possibile fosse quella di un voto contrario. Crediamo però anche che si debbano utilizzare i sessanta giorni di legge per tradurre in osservazioni le nostre proposte e, in questo senso, invitiamo l'Amministrazione ad attivare un vero dibattito pubblico con i cittadini, considerato che, nella fase di adozione, il processo partecipativo è risultato estremamente compresso e carente quando non ridotto alla dimensione di sondaggio di opinione o, peggio ancora, di spot pubblicitario.
Postato da ReTe dei comitati su "News dei Comitati" il 21/12/2010