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L'azienda ferma eccezionalmente la produzione e organizza le sue assemblee per indottrinare i lavoratori e convincerli a votare a favore dell'accordo separato. Davanti ai cancelli di Mirafiori la tensione è alta tra gli operai

Lo chiamavano l'uomo dei miracoli, quello che aveva salvato la Fiat, il manager con il golfino che parlava americano e usava le buone maniere con i sindacati, quello che «il costo del lavoro incide per il 6-7% sul costo globale di un'automobile, la crisi non dipende certo dagli operai». Miracoli non ne ha fatti però, la quota Fiat è precipitata in Italia e in Europa, nuovi modelli (come gli investimenti) non se ne vedono all'orizzonte, figuriamoci se tra 18 mesi triplicherà la produzione in Italia. Adesso però, dopo aver detto di voler conquistare il cuore delle sue «maestranze» gliel'ha strappato, chiedendo tutto in cambio di niente. Un solo miracolo è riuscito a fare Marchionne: ha riportato indietro le lancette dell'orologio. Ai tempi di Valletta e della caccia alla Fiom e ai comunisti. Invece, alla porta 2 di Mirafiori sembrerebbe di essere tornati agli anni Settanta, se non fosse che i pullman e i tram che continuano a vomitare operai e operaie delle periferie sono nuovi fiammanti, persino la vecchia baracca dei panini a fianco del dormitorio per i senza fissa dimora è nuova di zecca: però, come allora, si affollano ai cancelli centinaia di operai, sindacalisti, giornalisti, le più impensabili sigle politiche della costellazione di sinistra, persino volantini con Marx, Lenin e Mao. Megafoni che urlano «non vendetevi al padrone, difendete la vostra dignità» e gli operai che rispondono «meno mele che ce lo dite voi». Studenti delle Università torinesi, Palazzo Nuovo e Palazzo Campana che portano solidarietà: «Se passa il progetto Marchionne lo pagheremo anche noi».

C'è Nichi Vendola che non riesce a parlare con gli operai del primo turno che entrano e con quelli del secondo che escono perché una barriera umana - si fa per dire - di giornalisti lo avvolge tra gomitate ai fianchi e telecamerate in testa. A ogni angolo gruppetti di operai litigano sul voto da dare al diktat Fiat. «Io sono dei Cobas ma voto sì perché devo pur campare», dice un'operaia cinquantenne a un suo compagno della Fiom, e lo insulta perché «neanche della Fiom ci si può fidare perché sta nella Cgil e la Cgil ha venduto l'anima e vuole firmare». Un vecchio amico sindacalista mi spiega che prima di aderire ai Cobas questa donna «era del Sida», il sindacato giallo che adesso si chiama Fismic. Il segretario generale del Fismic, Di Maulo, è circondato da un gruppo di operai che gli dicono perentoriamente «facci vedere la tua busta paga, la nostra eccola, 900 euro». Negli anni Settanta avrebbero risolto con un solo aggettivo, che qua e là ritorna: «Venduti».

Poveri operai di Mirafiori, età media vicina ai cinquant'anni, fatica e malattie e sconfitte sulle spalle, lasciati soli da quasi tutti. Ora escono a fatica, si fanno spazio nella calca, evitano le telecamere oppure ci si ficcano dentro per dire «No, perché non do tutto in cambio di niente», oppure «Sì perché ho il mutuo e due figli piccoli, se quello se ne va in Canada a brindare io che faccio? Però questo accordo fa schifo». Il segretario locale della Fim Claudio Chiarle, che domenica aveva detto «abbiamo firmato per salvare gli investimenti ma l'accordo è brutto», dopo essere stato messo in mezzo dai colleghi complici e dai superiori ora diffonde una nota in cui «l'accordo è ottimo». Un delegato della Uilm: «Con il no se ne va via la Fiat». Interviene un operaio giovane: «Sì, va a festeggiare in Canada. Voglio vederli a chiudere Mirafiori, ci vogliono solo ricattare con la pistola alla tempia». E allora quello della Uilm si arrampica sui vetri, riesce anche a spiegare che Marchione «è stato frainteso, tutta colpa della Fiom». Un gruppo di facinorosi del Fismic di fronte a Vendola sventola fotocopie del Giornale che titola «Vendola in Puglia è come Marchionne». Il gruppo viene buttato fuori al grido antico «il potere dev'essere operaio».

Chi esce racconta l'ultima di Marchionne: «Preoccupato dalle assemblee della Fiom che racconta l'accordo per filo e per segno ha fatto convocare le assemblee dai suoi capi. Spiegano che è cambiato e quello distribuito dalla Fiom è vecchio. Peccato sia identico al testo pubblicato sul sito del Sole 24 ore». Siamo a questo, la Fiat che si sostituisce ai sindacati complici e convoca le assemblee. «Dove non riescono a farle perché non vogliono essere sputtanati da noi della Fiom prendono gli operai uno a uno per indottrinarli: o votate sì o la Fiat va all'estero». In verniciatura, ci racconta un'operaia appena uscita, «i team leader e i capi Ute stanno facendo i sondaggi, chiedono a tutti tranne a noi - dice un delegato Fiom - per chi voteremo e trascrivono nome e cognome». «È uno schifo. Ieri hanno fermato una linea alle 20,30 in verniciatura - racconta Mercurio - e per un'ora e un quarto hanno fatti i comizi per votare sì. Neanche quando è morto Gianni Agnelli avevano fermato le linee».

Dall'interno della fabbrica si vede avanzare un corteo verso i cancelli, davanti c'è uno striscione rosso con scritto «Sono un operaio e voto no», un messaggio all'aspirante sindaco di Torino Piero Fassino che aveva declamato urbi et orbi «se fossi un operaio voterei sì». Sono quelli del Comitato per il no al referendum, li accoglie all'uscita una mezza ovazione, applausi e qualche lacrimuccia. È l'orgoglio operaio, di operai incazzati con il mondo ma sostanzialmente con la politica, gente che non ne può più e sa che «l'unica speranza è la pensione». Un giovane carrozziere del montaggio riesce ad arrivare a qualche metro dal Vendola assediato dai media e gli urla contro il centrosinistra. Un'altra operaia da un angolo spiega che «il Pd fa un'opposizione pessima e se andasse al governo farebbe un governo pessimo. Se non tornerà a occuparsi del lavoro la sinistra si scioglierà come neve al sole».

Rabbia, tanta. Ci sono volti noti ai cancelli. C'è anche il vecchio sindaco Diego Novelli che si dice incredulo, e fa i paragoni con i tempi duri, quelli di Valletta. Ci sono operai pensionati, precari, studenti. Torino torna a parlare e a parlarsi, ai cancelli, nei tram, nei negozi. Con la rabbia di chi si chiede dove sia finita la famiglia Agnelli, anch'essa dissolta al sole in mille rivoletti rinsecchiti e neanche troppo trasparenti: «Marchionne non è il padrone, i padroni dove sono? Possono permettersi la fuga dalla città che hanno spremuto per più di un secolo?». Nina, delegata Fiom, si dice ottimista: «Dentro si discute, i capi sono nervosi perché temono l'esito del voto, e invitano a non andare alle assemblee della Fiom di domani (oggi, ndr) ma alle loro». «Al montaggio c'è un buon clima per noi - è la volta di un promotore del Comitato per il no - in verniciatura è più dura». Previsioni non se ne fanno, chi annuncia che voterà sì per il mutuo, i figli, la paura, è più incazzato di chi voterà no. E chi vota no, oltre a essere incazzato con la sinistra, ha una certezza: «Mettere la firma sotto questa porcheria sarebbe un insulto a noi che ci battiamo in fabbrica nelle condizioni che vedi. Diglielo alla Camusso». Bentornati a Mirafiori.

Oggi le assemblee della Fiom, poi il voto. Chissà se anche a Mirafiori, come ha già fatto la Fiat a Pomigliano e come fanno da sempre mafia e camorra, i capi chiederanno agli operai di autocertificarsi il voto con il telefonino.

CONVEGNO

Marchionne unisce quel che era diviso

Intellettuali e sindacati di base

C'è tanta gente al convegno alla Sala Valdese organizzato da Forum Diritti/Lavoro e Unione Sindacale di Base (Usb). Ennesima dimostrazione dell'attenzione che la città riserva alla Fiat e ai suoi lavoratori, poi tutti in piazza per la fiaccolata.

Angelo D'Orsi fa un'incursione storica. Parte dal 1920, dallo «sciopero delle lancette». Gli operai si opponevano all'applicazione dell'ora legale. Le lotte portano all'occupazione delle fabbriche e ai consigli di fabbrica. Alla Fita Brevetti, per protesta, vennero portate indietro di un'ora le lancette di tutti gli orologi dello stabilimento. La dirigenza dell'azienda rispose licenziando. «Mi sembra - dice D'Orsi - che oggi come allora gli operai sono costretti a accettare la lotta sul terreno dell'avversario. È chiaro che la lotta degli anni '20 aveva anche un valore simbolico: chi comanda in fabbrica?»

La stessa domanda è implicita oggi. D'Orsi ricorda che Gramsci notava «la solitudine in cui erano stati lasciati gli operai, che dopo lo sciopero delle lancette, sempre nel '20 avevano occupato le fabbriche. Quando rientrarono al lavoro - aggiunge D'Orsi - Gramsci chiede che non vengano insultati perché sono uomini, sconfitti nel corpo ma non nell'animo». Oggi la situazione è inversa. «I lavoratori di Mirafiori non sono soli. C'è una reazione corale in città che non si vedeva da anni, forse dagli anni '70». E se la marcia dei 40 mila del 1980 era la marcia della maggioranza silenziosa, oggi, trent'anni dopo «la maggioranza silenziosa siamo noi. Maggioranza, ne sono certo. Silenziosa, perché ci hanno costretti al silenzio, ci hanno tappato la bocca, ma un po' ci siamo autoconfinati al silenzio».

D'Orsi sottolinea come ci si dimentichi spesso del fatto che il lavoro significa fatica fisica, muscoli rattrappiti, pause a comando, pipì collettive. Il nuovo contratto è un «ricatto. E credo, anche leggendo di progetti di produzione di Suv e jeep a Torino previsti nel piano industriale, che Marchionne abbia già abbandonato Torino».

Franco Turigliatto, di Sinistra Critica, sottolinea che il ricatto Marchionne «funzionerebbe molto meno se alcune forze si opponessero con determinazione. Penso a quel centrosinistra in cui tanti dicono che voterebbero sì, ma anche ad altri che voterebbero no, ma se avessero famiglia voterebbero sì. E allora, che messaggio passa? comunque un voto per il sì».

Dalla USB viene la proposta per il dopo referendum. «Noi ci impegniamo perché vinca il no, - sottolinea Paolo Leonardi - per il dopo pensiamo alla creazione di un Osservatorio permanente che utilizzi i saperi per tenere sotto mira quello che questo accordo produrrà se dovesse prevalere il sì».

All' on. Giorgio Napolitano

Presidente della Repubblica

Signor Presidente,

non credo di mettere in causa l'esercizio del Suo mandato al di sopra delle parti politiche e sociali, chiedendoLe, da semplice cittadina che ha avuto, anche se solo per età, il privilegio di seguire il lavoro dei costituenti, di voler intervenire con un richiamo al paese su quel che la Costituzione prescrive in tema di diritti sindacali. Gli articoli 39 e 40 infatti non sono, come può constatare anche una non giurista, principi ottativi che testimoniano di un indiscutibile spirito dei costituenti ma cui, per mancanza delle articolazioni successive, un cittadino non si può appellarsi per veder riconosciuto un suo diritto. Sono del tutto inequivoci e la loro attuazione è stata regolamentata dalle leggi.

Ora, ferma restando la libertà di opinione dell'attuale amministratore delegato della Fiat che si propone di mutare le relazioni industriali del paese, è legittimo che egli decida della libertà sindacale nella sua azienda contro il dettato costituzionale? Non credo. L'art. 39 della Costituzione più chiaro di così non potrebbe essere: l'organizzazione sindacale è libera e nessuna legge la può impedire salvo l'obbligo per i sindacati di essere registrati. Una volta registrato un sindacato ha personalità giuridica e rappresenta i suoi iscritti ed è in grado di stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alla categoria alla quale il contratto si riferisce.

Non sono in grado di sapere se sia ammissibile che una azienda privata possa obbligare i dipendenti a un referendum che, se proposto su scala nazionale, la Corte Costituzionale non ammetterebbe. Ma mi permetto di chiederLe se giovi al clima politico che Lei auspica che nella maggiore azienda italiana si indica un referendum fra lavoratori su un «accordo» con la proprietà che preveda la sospensione di alcuni diritti sindacali di fondo, come quello di sciopero garantito dall'art. 40 e dalle successivi leggi di attuazione. E se anche si considera che tale referendum possa essere tenuto, è legittimo che in quell'accordo si dichiari che il sindacato che non lo avesse firmato sarà interdetto di ogni attività nell'azienda? So che alcuni sindacati si appellano al non particolarmente trasparente art.19 dello Statuto dei lavoratori, per negare tale diritto a un sindacato che senza osteggiare il referendum dichiara di non approvarne l'oggetto, ma la loro interpretazione è quanto meno assai discutibile.

Sarebbe prezioso che Lei, la cui imparzialità nei confronti delle diverse parti sociali nessuno può negare, intervenisse su questo aspetto decisivo dei diritti indisponibili del cittadino, richiamando tutti allo spirito e alla lettera della nostra legge fondamentale. Se la possibilità di agire d'un sindacato, fra l'altro ad oggi il più fortemente rappresentativo, è messa in causa nella maggiore azienda italiana, cade uno dei diritti fondamentali che distinguono una democrazia da una dittatura. Per questo esso sta a cuore ad ognuna e ognuno di noi, e sono certa che Lei condivide questa preoccupazione.

Voglia scusare l'irritualità di questo mio rivolgersi alla Sua persona, e, in attesa d'un suo cenno, La ringrazio fin d'ora per l'ascolto.

Un presidente del Consiglio che trova naturale legittimare il proposito di Marchionne – cioè il dirottamento all´estero degli investimenti produttivi Fiat in caso di bocciatura dell´accordo di Mirafiori - si assume una responsabilità che oltrepassa il mero infortunio verbale.

Conferma che l´economia nazionale si ritrova a fronteggiare disarmata, sguarnita della minima tutela politica, la contesa globale. Siamo di fronte alla resa vergognosa di un governo già rivelatosi incapace di pretendere da Marchionne, com´era suo dovere, le informazioni puntuali sul suo fantomatico piano industriale senza le quali mai Obama avrebbe concesso il via libera all´operazione Chrysler negli Usa. Le stesse garanzie in assenza delle quali la cancelliera tedesca Merkel pochi mesi fa stoppò l´intesa tra Fiat e Opel. Così si comportano delle istituzioni pubbliche rispettabili. Con l´aggravante che Berlusconi si genuflette di fronte all´azzardo della più grande industria del suo paese, incurante del danno arrecato agli interessi nazionali. Perché qui non è più in gioco soltanto, e non sarebbe poco, la tutela del posto di lavoro di migliaia di lavoratori, ma l´intera struttura produttiva di una economia il cui destino resta legato all´industria manifatturiera. Rispetto alla quale, il premier-tycoon si conferma geneticamente estraneo.

Di fronte all´enormità di questo misfatto antinazionale, sarebbe ingenuo sovraccaricare di significati politici o ideologici il voto che i 5.500 dipendenti di Mirafiori sono chiamati a esprimere a partire da stanotte. Un partito operaio non può certo esistere nell´Italia del 2011. Nessuno più fingerà di credere, come nel passato, alla natura di per sé rivoluzionaria di una classe sociale che liberandosi dallo sfruttamento adempierebbe a una finalità di giustizia universale. Stremati, anziani e impoveriti, i lavoratori torinesi vengono chiamati a sancire nient´altro che una deroga alle normative vigenti così evidentemente peggiorativa dello status quo che neppure la Confindustria può vidimarla; almeno fin tanto che l´associazione degli imprenditori continuerà a dichiarare valido il contratto nazionale da lei stipulato con i sindacati

Timida, anacronistica e imbarazzata pareva dunque, ieri, la presenza ai cancelli di Mirafiori di un leader della sinistra come Vendola: perché riesce difficile perfino a lui chiedere ai dipendenti Fiat di votare no al referendum-ultimatum, di fronte a un amministratore delegato che si è detto pronto a "brindare", oltreoceano, a Detroit, in caso di bocciatura del suo diktat.

Non a caso prima della sortita di Berlusconi, e in assenza di un´effettiva libertà di scelta, era ammutolito lo stesso Partito democratico, i cui massimi dirigenti ancora ieri si dichiaravano "né con Marchionne, né con la Fiom" (cosa vuol dire?). Rescisso il loro giovanile vincolo esistenziale con il mondo del lavoro, caduta l´illusione della classe rivoluzionaria motore del progresso, questi dirigenti non seppero promuovere neanche quando governavano il paese forme alternative di tutela del lavoro dipendente; come la cogestione aziendale alla tedesca o l´azionariato dei dipendenti all´americana. Col bel risultato che oggi neppure il sindacalismo classista residuale praticato dalla Fiom Cgil è in grado di strappare garanzie progettuali e contropartite efficaci ai sacrifici richiesti dalla Fiat, pena il dirottamento all´estero degli investimenti.

Non può più esistere un partito operaio, ma fatica a sopravvivere anche un partito degli industriali, nell´Italia a crescita zero. Lo rivela clamorosamente la bandiera bianca alzata da Berlusconi.

Così gli operai di Mirafiori si ritrovano completamente disarmati, sollecitati a cedere diritti in cambio di una promessa di lavoro incerto e a basso reddito. Sarà, la loro, domani, una drammatica somma di scelte individuali. Mentre l´establishment del paese si crogiola in miopi calcoli di convenienza: assecondare la prepotenza di Marchionne nella speranza magari di assestare un colpo definitivo alla resistenza di una Cgil isolata? Elevando addirittura il manager italo-canadese a tardivo battistrada di una inesistente rivoluzione liberale mai neppure intrapresa dal berlusconismo?

Se Marchionne avesse abbinato la denuncia delle nostre relazioni sindacali antiquate a un effettivo rilancio dell´impresa automobilistica in Italia, anziché lamentare ingratitudine per l´"osceno" trattamento ricevuto, come se la Fiat non usufruisse tuttora di milioni di ore di cassa integrazione, forse oggi le sue richieste risulterebbero più credibili. Ma dopo aver risanato i bilanci Fiat grazie al sostegno decisivo delle nostre banche, trascorsi ormai sei anni e mezzo dal suo insediamento al Lingotto, è giunto il tempo di valutarne l´operato non solo come audace finanziere, bensì come capitano d´industria.

Quali nuove quote di mercato ha conquistato? Quali nuove vetture, all´altezza di competere con quelle della concorrenza, annovera nel suo glorioso curriculum? I suoi predecessori Valletta e Romiti sbaragliarono anch´essi la resistenza sindacale, nel 1955 e nel 1980, ma con la Seicento e la Uno poi incrementarono le vendite. Marchionne invece si è rivelato abilissimo nel sostituire gli aiuti di Stato americani agli incentivi nostrani, ha fatto schizzare in Borsa i titoli Fiat per la gioia degli azionisti e di sé medesimo, ma nel frattempo ha sguarnito la produzione intestandosi un crollo delle vendite senza precedenti. Oggi la Fiat detiene solo una quota del 6,7% del mercato europeo, un record negativo, mentre le case automobilistiche rivali stanno crescendo. Sarà forse colpa di Landini e della Fiom se in pochi anni siamo passati da novecentomila vetture prodotte in Italia a meno di seicentomila? Risultano forse ingovernabili le fabbriche in cui langue la produzione? Davvero qualcuno crede che la fabbricazione della Panda a Pomigliano e il solo montaggio di una Jeep Chrysler a Mirafiori porteranno al raddoppio (e più) delle vetture prodotte in Italia, come genericamente promesso in un piano che nessuno, tanto meno Berlusconi, ha verificato?

I sindacalisti firmatari degli accordi di Pomigliano e di Mirafiori fanno notare che sono molti, in Italia, gli operai già oggi costretti a lavorare in condizioni più gravose di quelle che hanno strappato a Marchionne. È vero, anche se la prevista esclusione del maggior sindacato metalmeccanico, la Fiom Cgil, dalla rappresentanza aziendale di questi due stabilimenti, costituisce un vulnus democratico pericoloso. E, soprattutto, il ripiegamento in un´azienda come la Fiat prelude a un peggioramento generalizzato. Per questo oggi risulta così tormentosa la scelta cui sono chiamati, uno ad uno, i dipendenti di Mirafiori. In coscienza, nessuno tra i fortunati (ma anche fra i disoccupati e i precari) che restano fuori dai cancelli può giocare con un sì o con un no al posto loro.

DECISIONI IN TEMA DI AMMISSIBILITÀ DEI QUESITI REFERENDARI

La Corte costituzionale, in data 12 gennaio 2011, ha deliberato in ordine all’ammissibilità delle seguenti richieste di referendum abrogativo:

n. 149 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 1) “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Abrogazione”: ammissibile

n. 150 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 2) “Servizio idrico integrato. Forme di gestione e procedure di affidamento in materia di risorse idriche. Abrogazione”: inammissibile

n. 151 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 3) “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito. Abrogazione parziale di norma”:ammissibile

n. 152 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 4) “Norme limitatrici della gestione pubblica del servizio idrico. Abrogazione parziale”: inammissibile

n. 153 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 5) “Nuove centrali per la produzione di energia nucleare. Abrogazione parziale di norme”: ammissibile

n. 154 Reg. Ref. (richiesta di referendum n. 6) “Abrogazione della legge 7 aprile 2010, n.51 in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale”:ammissibile

Le sentenze saranno depositate entro i termini previsti dalla legge.

dal Palazzo della Consulta, 12 gennaio 2011

Le stragi dei cristiani in una cattedrale di Baghdad e nella chiesa copta Al-Qaddissin a Alessandria d´Egitto sono segni non equivocabili, che qualcosa di grave sta succedendo in terre musulmane: la lenta e brutale estromissione dei cristiani, anche i più refrattari al proselitismo, i più inseriti nel luogo che abitano, non molto diversa dalla cacciata degli ebrei dai paesi arabi dopo il ´48. Non importa, qui, chiedersi come mai quella cacciata scosse l´Europa meno dell´odierna oppressione di cristiani. Forse perché la martirologia cristiana ha riti consolanti antichi. Forse cominciamo appena a comprendere la catastrofe che fu la fine dell´impero asburgico, il nazionalismo identitario e le persecuzioni delle minoranze che essa generò dopo la prima guerra mondiale. Mentre ancora non comprendiamo, sino in fondo, i disastri nati dalla caduta dell´impero ottomano: che produsse nazionalismi etnici e religiosi e fu occasione, per i colonizzatori, di ridisegnare frontiere a vanvera, di usare i popoli dividendoli o accostandoli senza criterio. È uno dei motivi per cui quel continente ha Stati spesso falliti. L´ossificazione di vecchi confini impedisce di ricostruire le istituzioni, l´imperio della legge.

Ma la divisione più grave è quella che colpisce i cuori, che nelle religioni del Libro sono la sede non dei sentimenti ma della mente, del raziocinio. Tanto più essenziale è divenuto capire l´Islam: perché è ormai la seconda religione in occidente. Perché il soffrire dei cristiani nei Paesi musulmani assume proporzioni calamitose. Perché col tempo non cresce negli uni e negli altri l´unica dote che salvi: il sapere, il conoscersi reciproco. Questo degrado s´è esteso quando l´Islam è entrato, brutale, nella vita d´Occidente dopo l´11 settembre 2001.

Fu allora che molti, ansiosi di compiacersi più che di sapere, corsero a cercar lumi in saggi che descrivevano, in particolare, la disfatta dell´Islam (i libri di Bernard Lewis, di Samuel Huntington, lo stesso testo ben più antico dell´imperatore Paleologo citato nel 2006 a Ratisbona da Benedetto XVI). I più ispirati erano forse quelli che si chinavano su letteratura o testi originali: si pensi, in Italia, all´erudizione di Pietro Citati, o alla sapienza indagata da Sabino Chialà, monaco di Bose, o alla precisione con cui è stato riproposto il Corano, nel 2010 per Mondadori, dal curatore Alberto Ventura e dalla traduttrice Ida Zilio-Grandi.

Ma per scrutare un grande monoteismo è al testo base che urge tornare: al Corano, anche se tante sono le prescrizioni che vengono abrogate man mano che il Libro si snoda, provocando perenni conflitti d´interpretazione. Dobbiamo cominciare seriamente a leggerlo noi e forse anche i musulmani, che a volte lo dimenticano come i cristiani o gli ebrei sovente dimenticano i propri Libri.

Usiamo pensare, ad esempio, che nell´Islam non esistano la misericordia, la pietà, l´aiuto agli ultimi, il perdono. Non è vero, soprattutto quando in questione è la giustizia uguale per tutti. Certo, una separazione fra legge di Dio e leggi laiche è ardua nell´Islam, ma costantemente, nel Corano, la giustizia è definita «la cosa più prossima alla pietà». Nella sura 4:135 si intima: «Agite con ferma giustizia quando testimoniate davanti a Dio, anche se è contro voi stessi o contro i vostri genitori o contro i vostri parenti, siano essi poveri o ricchi, agli uni e agli altri Dio è più vicino di voi, dunque non seguite le passioni che vi fanno errare dalla rettitudine». Dio ordina di non seguire neppure l´impulso opposto, odiando gli avversari: «L´odio che nutrite contro un popolo miscredente non vi induca a essere ingiusti». Uccidere in assenza di premesse (la presenza di un assassino, un corruttore della terra) «è come uccidere l´intera umanità». Incolpevoli, nei preganti di Baghdad e Alessandria è stata uccisa, secondo la sura 5:32, l´intera umanità.

Anche se col passare dei secoli si dilatò nell´Islam la diffidenza verso ebrei e cristiani (non a causa della fede delle genti del Libro, non per l´aderenza alle loro Scritture, giudicate antesignane del Corano), il rispetto è grande perché il Dio è unico (Allah è traduzione del nome di Dio, tendiamo a scordarlo). L´accusa, risentita, non è di adempiere le Scritture, tutte e tre sacre, ma di adulterarle e credersi figli di Dio «più degli altri uomini» (5:18). Rigettate sono le idolatrie, le passioni incontrollate. L´uso della ragione (nel Corano discernimento, perspicacia) è intenso nell´Islam.

Illuminanti a questo proposito i detti islamici di Gesù, raccolti da Chialà per l´edizione Lorenzo Valla (2009). Vorremmo citarne qualcuno. «Inguaribile è lo stupido, come sabbia dalla quale niente germoglia». Gesù ammette di aver guarito il lebbroso e il cieco nato: invece «ho curato lo stupido, ma mi ha spossato» (362). E prima ancora, nel detto 303: «Non mi è stato impossibile riportare in vita i morti, ma mi è stato impossibile guarire lo stupido». Rumi racconta che Gesù fuggiva a gambe levate, se incontrava uno stupido. Stupido perché del tutto privo di discernimento, di giustizia, è il massacro dei cristiani d´Iraq e Egitto. Tanti morti, e Cristo dipinto imbrattato di sangue a Alessandria: con quale risultato? Con quale giardino radioso in vista, per il giorno in cui morte ti coglie? Gli stessi musulmani alessandrini sono sgomenti, e si offrono di presidiare loro le chiese.

Il Corano è contrario agli anatemi, alle scomuniche: il giudizio di miscredenza viene solo da Dio. La gentilezza ha uno spazio ampio nel Libro, così come vasto spazio è dedicato alle donne, che hanno meno diritti ma sono pur sempre soggetti giuridici («Può darsi che voi disprezziate qualcosa in cui Dio ha posto un bene grande», sura 4:19). Quanto agli anatemi, la sura 2:256 è chiara: «Non c´è costrizione nella fede». Nella storia dell´Islam non potrebbero esistere conversioni forzate.

Che cosa guida allora, se non stupidità, ignoranza, e una vendetta ripetutamente scoraggiata dal Libro, la mano degli assassini o la mente degli indifferenti musulmani che sì malamente accolgono le condanne di Benedetto XVI, considerandole empie interferenze? Sembra guidarli l´incapacità radicale di mettere faccia a faccia fede e ragione, non a discapito l´una dell´altra. Un grande poeta dell´XI secolo, Abu L-Ala Al-Ma´arri, divideva la terra in «due sorti di persone: quelle che hanno la ragione senza religione, e quelle che hanno la religione e mancano di ragione».

Mille anni sono passati da allora, e ancor più dalla stesura del Corano: terzo grandioso tentativo monoteista di ingentilire la storta e cupa umanità. L´ultimo decennio di violenze, invece di stordire ancor più le menti, può esser l´occasione di tentare una memoria meno ostruita, un sapere meno trasandato. Dieci anni sono poco per iniziare a capire, e ognuno deve fare lo sforzo partendo da sé, perché le memorie comuni sono spesso una truffa, come accade in Italia attorno alla Resistenza. È un compito alto, difficile: per noi e anche per i musulmani. Nessuno è sconfitto, se si rimette a pensare.

Il Corano non pretende cose impossibili dall´uomo («è una religione facile», diceva Muhammad), ma è severo quando parla di giustizia, pietà, ragione. Il sincretismo, oltre a non essere auspicato, è impossibile perché troppe sono le soperchierie che gli uni hanno fatto agli altri. Anche in religione, come in politica, dovrebbe esserci quella riconciliazione che memore del passato costruisca un futuro diverso. Gli arabi e persiani fra loro, gli arabi e gli ebrei in guerra continua, non hanno ancora prodotto (se si escludono, agli esordi dello Stato d´Israele, figure come Hannah Arendt o Judah Magnes), persone capaci di condividere un futuro storico, una federazione laica di etnie e religioni diverse, evitando i tranelli minimalisti della memoria condivisa.

Gli avevano dato un nome altisonante: «Operazione Vesuvia». L’obiettivo? Ambizioso: convincere ad andar via i campani residenti nella «zona rossa», la zona a rischio più vicina al Vesuvio. La giunta Bassolino, nel novembre 2003, con l’articolo 5 della legge regionale pose il vincolo di inedificabilità su 250 chilometri quadrati di territorio. La notte del 21 dicembre scorso, però, il Consiglio regionale della Campania ha inserito senza grande clamore all’interno del nuovo Piano casa una modifica al vincolo di inedificabilità: si potranno ristrutturare gli immobili esistenti «anche mediante demolizione e ricostruzione in altro sito, in coerenza con le previsioni urbanistiche vigenti, a condizione che almeno il 50%della volumetria originaria dell’immobile sia destinata ad uso diverso dalla residenza».

Detto in parole povere, anche edifici fatiscenti o finora usati come ufficio potranno diventare al 50%nuove abitazioni, aumentando di fatto il numero di persone che potrà andare a vivere nella zona a rischio. L’emendamento, prima firmataria la consigliera regionale di Somma Vesuviana Paola Raia (Pdl), si basa sul fatto che «gli immobili esistenti» da ristrutturare non debbano essere esclusivamente abitazioni. Una prospettiva che fa a cazzotti con lo spirito del 2003, anche se c’è da dire che il bonus di 30 mila euro proposto alle famiglie che abbandonavano la zona a rischio, negli anni si è rivelato un flop: solo 106 nuclei accettarono, e di questi molte solo fittiziamente poiché lasciarono la casa ad altri.

«Ma comunque ci provammo— riflette oggi l’ex assessore all’Urbanistica Marco Di Lello, coordinatore nazionale psi e promotore del «Progetto Vesuvia» —. Sancimmo il principio che in una zona a rischio eruzione non si può costruire. Ma vedo che si continua a governare pensando più al consenso che al bene comune: grave destinare anche solo il 50%della ristrutturazione ad abitazione». Una zona, per intenderci, dove l’ultima eruzione è stata nel 1944 (ben descritta nella sua forza distruttiva nel libro Naples ’ 44 di Norman Lewis). Ma che secondo il vulcanologo Franco Barberi «è quella a più alto rischio vulcanico nel mondo considerando l’abnorme concentrazione edilizia spintasi a poche centinaia di metri dal cratere» . Secondo Legambiente nei 18 comuni a rischio, nella zona rossa, vivono circa 600 mila persone, ed esistono 45 mila costruzioni abusive, di cui 5 mila dentro il Parco del Vesuvio.

Ma nonostante questo nell’aprile 2009 il sindaco di San Sebastiano al Vesuvio, Giuseppe Capasso, chiese all’allora governatore Bassolino un «patto speciale» per i Comuni dell’area protetta, in modo da consentire di applicare anche nella zona rossa il Piano casa berlusconiano. Ora l’introduzione di questa modifica alla legge regionale del 2003 apre nuove «possibilità» a chi finora mal sopportava il vincolo di inedificabilità. Anche se l’assessore regionale all’Urbanistica Edoardo Cosenza, interpellato, esclude che attraverso questo emendamento si possa aprire un nuovo varco all’edificabilità nella zona a rischio: «Lo spirito dell’emendamento presentato dalla maggioranza era di ridurre dal 100%di uso abitativo al 50%di uso abitativo. Ma se l’emendamento, come sembra, non è chiaro e si espone a diverse interpretazioni, mi impegno a chiarirlo nel regolamento attuativo. Perché lo prometto: neanche un cittadino in più dovrà entrare nella zona rossa».

Quell'incontro non s'ha da fare, gridavano forte le minoranze del Pd dinanzi all'inopinato annuncio di uno scambio di idee tra Bersani e Landini. Dopo che l'incontro c'è stato, senza peraltro aver partorito alcun piano particolarmente sovversivo rispetto all'ordine sociale costituito, avranno tirato un gran sospiro di sollievo. Allarme rientrato nessun biennio rosso alle porte. E dire che qualcuno tra i più zelanti modernizzatori nel Pd era arrivato a invocare persino il congresso anticipato per reagire prontamente all'oltraggio di un inutile dialogo con le arcaiche e ormai in via di estinzione tute blu. Le ragioni teoriche di tanto nervosismo intorno alla questione Fiom sono ben rintracciabili in un lungo articolo di Veltroni apparso giovedì scorso sul quotidiano della Fiat.

Il pezzo intende portare un esplicito e non episodico sostegno al «diritto-dovere» di rispondere sì alle richieste di «modernizzazione delle relazioni sindacali» avanzate da Marchionne. Verrebbe da dire: con lo stesso intuito che lo indusse a fiutare prima di ogni altro le grandi virtù politiche di Calearo e a portarlo in parlamento, ora l'ex leader del Pd celebra sul giornale di casa le belle qualità dell'amministratore Fiat. Ma la penna ispirata di Veltroni in questa occasione vuole fondare una scelta di campo definitiva e guarda al tempo lungo toccando anche la linguistica, la storia, l'etica, il diritto sindacale. E quindi va presa sul serio.

Il presente per Veltroni si divide in due. Da una parte c'è «la chiarezza e la durezza» degli innovatori alla Marchionne che con ostinazione e lungimiranza portano sempre avanti il mondo e dall'altra ci sono solo le sconce prove di «ordinario conservatorismo» esibite da parte di chi si oppone allo splendido e spesso incompreso nuovo che avanza. Perciò, al cospetto del prometeico agire di un manager della provvidenza, il Veltroni linguista suggerisce di bandire le cattive parole «difesa», «opposizione» (proprie del «minoritarismo» straccione) e di adottare un sobrio vocabolario con una sola frase chiave ben impressa: «non difendere ma cambiare».

E la formula magica diventa la pietra filosofale per spiegare l'intera storia delle relazioni sindacali perché Veltroni trova forti analogie tra l'accordo siglato tra il «giovanissimo»» (aveva 42 anni) Bruno Buozzi e Agnelli nel 1923 e quanto accade oggi a Mirafiori. Proponendo di recuperare anche per l'oggi lo spirito di quel bel tempo andato, quando il padrone e il sindacalista stringevano patti leali ed erano entrambi moderni (però allora in gestazione era la contrattazione collettiva oggi invece il suo smantellamento), l'ex leader del Pd vede negli eventi del 1923 «una rivoluzione nelle relazioni sindacali di allora».

A che serve rammentare che nel 1923 c'era già il fascismo e che proprio a Torino, nel dicembre del 1922, gli squadristi avevano appena assalito la camera del lavoro e l'Ordine nuovo e che in strada giacevano i corpi ancora caldi di 22 militanti uccisi? Però almeno una cosa andrebbe rimarcata. Uno dei firmatari dell'accordo, il «giovanissimo» Buozzi per l'appunto, solo dopo pochi mesi sarà costretto all'esilio. Al vecchio Agnelli, che proprio nel 1923 fu nominato senatore del regno, andò invece molto meglio: forse perché seppe cambiare senza difendere. La contrattazione collettiva fu del tutto svilita.

Buozzi, che a resistere ci ha sempre provato in mezza Europa, ci ha rimesso anche la pelle cadendo sotto il fuoco tedesco in una strada di Roma. Ma forse il sindacalista non aveva ben capito i sublimi precetti della ragion pratica veltroniana. Qualcuno minaccia i tuoi diritti, calpesta sfacciatamente i tuoi interessi, schiaccia le tue libertà? Tranquillo, non devi difenderti e lottare. Così finisci solo per essere un maledetto conservatore. Devi (farti) cambiare ma senza resistere. Così sarai moderno.

L'etica di Veltroni non spiega però perché se Marchionne non ci sta e parte all'offensiva viene ammirato per la «chiarezza e durezza» del suo fare e se invece Landini prova ad alzare la voce diventa un insopportabile reazionario che, con l'attaccamento al ferro vecchio della contrattazione collettiva, agita «l principale fattore che tiene lontane le grandi multinazionali». Strane anche loro queste grandi multinazionali, però. Perché non fanno, come suggerisce la buona ragion pratica di Veltroni, e cioè non rinunciano ad adottare un punto di vista difensivo (dei loro interessi) e accettano di cambiare?

Attratto dalla data magica del 1923, assunta come spartiacque del '900 sindacale, Veltroni inquadra le relazioni sociali all'insegna di una formula incantata: tra lavoro e capitale deve esserci un «comune destino». Qui il proverbiale buonismo (tutti sono nella stessa barca e cerchino perciò di collaborare per tirare innanzi) diventa qualcosa di più impegnativo. La metafora della impresa come «comunità» e persino come «destino» rimanda infatti alle esperienze autoritarie. Nella dottrina giuridica fascista il rapporto contrattuale venne superato nell'obbligo di fedeltà alla comunità di fabbrica.

Proprio il conflitto aperto tra l'essere (la persona che lavora) e l'avere (il denaro dell'impresa), rompendo ogni pretesa di «comunità», ha invece costruito la civiltà giuridica del '900. Ma le lancette dell'orologio della storia di Veltroni sono ferme al 1923 e al comune destino che lega lavoro e impresa, Agnelli e Buozzi. E però anche il «giovanissimo» Buozzi che combinò nella sua vita? Non partecipò anche lui «riformista» alle occupazioni delle fabbriche del 1920 rifiutando l'idea che tra lavoro e capitale ci fosse «un comune destino» che bandiva ogni conflitto per i diritti?

C'è un signore con la borsetta che gira il mondo cercando di vendere la sua merce a prezzo fisso. Non è un mercante arabo, nessuna trattativa è prevista: se vi va è così, altrimenti tanti saluti. Il liberismo nella globalizzazione non è un suq, la crisi e la concorrenza non perdonano e il '900 è morto e sepolto con i suoi lacci e diritti. Il nostro mercante si chiama Sergio Marchionne, parla americano e detesta i dialetti, che sia sabaudo o partenopeo. È più capace nel vendere promesse in cambio di cieca obbedienza che non automobili. Nessuno le vuole, è merce vecchiotta. Ma lui giura che rinnoverà e triplicherà la produzione, darà lavoro a tutti, tanto lavoro. 10 ore al dì anzi 11, pause ridotte, mensa solo se c'è tempo, sciopero nisba, neanche un'influenza. È scritto sul contratto: se voti sì ti riassumo, investo per il futuro tuo e della fabbrica, sennò riparto con la mia valigetta e qualche pezzente più pezzente di te in qualche stato più pezzente di quello italiano lo troverò di sicuro.

Ecco il referendum con cui il 13 e il 14 Marchionne chiederà a 5.300 operai delle Carrozzerie di Mirafiori di prendere o lasciare: il 51% di sì farà vivere la fabbrica, il no la chiuderà. Che c'è di nuovo rispetto a Pomigliano? Una raffinatezza: i sindacati che non hanno firmato l'accordo non avranno più accesso alle linee di montaggio. Nessun delegato, del resto, neanche quelli dei sindacati complici, potrà essere eletto dai lavoratori, saranno nominati d'ufficio dagli stati maggiore.

Ci sono tre reazioni al diktat. La prima, maggioritaria in politica, al governo, tra i sindacati e gli imprenditori, batte le mani e minaccia gli operai: che aspettate a piegare quella schiena? Non vorrete perdere investimenti e lavoro per un principio ammuffito? Guai a voi se farete fuggire all'estero la Fiat. La seconda reazione è quella della Fiom, che si oppone ai ricatti e informa gli operai di quel che stanno per votare, indicendo assemblee e distribuendo a tutti il testo dell'accordo. Così potranno decidere con cognizione di causa se il gioco vale la loro dignità. Ci sono diritti non vendibili scritti in leggi, contratti, nello Statuto e nella Costituzione e gli accordi o sono frutto di contrattazione o non esistono. La Fiom non riconosce la validità del referendum-truffa. Poi c'è una terza reazione, uguale alla seconda ma con un finale diverso: noi siamo contrari, ma se il ricatto vincesse la Fiom dovrà riconoscere il risultato, adeguarsi e apporre la propria firma per non essere espulsa dalla fabbrica. È il punto di vista della maggioranza del gruppo dirigente Cgil.

Non sempre il pragmatismo riduce i danni. La forza accumulata dalla Fiom si fonda sull'ascolto dei lavoratori, sulla condivisione, sulla rappresentanza democratica. È tutta da dimostrare la possibilità che la Fiat possa cancellare il sindacato più rappresentativo, mentre è prevedibile che una rinuncia della Fiom a difendere la dignità della sua gente spezzerebbe quel legame straordinario e un'aspettativa che va crescendo ben oltre le fabbriche. In questa settimana, ancora una volta a Torino, si gioca una partita che riguarda la democrazia italiana.

Le parole, i toni, l’argomentare sono di fastidio di fronte alla critica, alla discussione pubblica che pure è il sale della democrazia. Pare evidente che Sergio Marchionne voglia mostrare la regola della forza. Ha ribadito che suo, e soltanto suo, è il potere di vita o di morte su Mirafiori. Una spada gettata su una bilancia già sospetta d’essere alterata. È così eccessivo questo atteggiamento che viene quasi il sospetto che l’amministratore delegato della Fiat voglia favorire il "no" al referendum, per essere finalmente libero di muoversi in un mondo globale dove tutti gli aprono le porte e gli offrono braccia a qualsiasi prezzo. Un referendum, peraltro, che egli stesso svuota del suo significato proprio, visto che ne rifiuta pregiudizialmente uno dei possibili risultati. Lo sappiamo da sempre che è facile volgere a proprio vantaggio una guerra tra poveri. Per sfuggire a un impoverimento che attanaglia un numero crescente di persone, vi è sempre qualcuno che accetta di vendere la sua forza lavoro riducendo garanzie e diritti. È questo il dono del realismo del Terzo Millennio, dove l’efficienza economica cancella ogni altro valore?

Se vogliamo analizzare più in profondo le dinamiche in corso, ci accorgiamo che qualcosa accomuna la vicenda Fiat e quella che riguarda WikiLeaks. Si tratta del modo in cui il potere si sta redistribuendo nel mondo globale, chi lo esercita, chi può controllarlo. E questa novità non si coglie con i soli strumenti tradizionali, riferendosi solo al sistema delle relazioni industriali, alla tutela del segreto di Stato. Bisogna partire dalle logiche alle quali si rifanno i nuovi padroni del mondo, che non si sentono titolari di un potere controllabile e, invece, si muovono ritenendosi investiti di un potere sciolto da ogni vincolo.

Se questo è il tratto comune, divergono gli effetti di questo potere generato dal contesto globale. Nel caso della Fiat, lo sciogliersi del potere dai vincoli esterni, per il dilatarsi dell’attività d’impresa nei più diversi luoghi del mondo, ne produce un accentramento in mani sempre più ristrette. Nel caso WikiLeaks, il superamento delle barriere alla diffusione delle notizie determina il dilatarsi del numero dei soggetti titolari del potere fondato sulla conoscenza, che può essere esercitato al fine di controllare chi finora si era ritenuto intoccabile. Questi diversi effetti hanno origine nella diversità del potere esercitato: fondato sulla logica economica, da una parte; finalizzato all’espansione dei diritti, dall’altro.

La novità della situazione attuale è determinata dal fatto che, nella dimensione globale, si riduce o addirittura si dissolve la sovranità degli Stati nazionali, che è stata, e in molti casi ancora rimane, strumento per garantire il governo di processi complessi e assicurare un equilibrio tra i poteri in campo. Nel vuoto lasciato dai soggetti nazionali, e nell’assenza di soggetti pubblici che possano prenderne il posto, si insediano soggetti privati che divengono, insieme, legislatori e governanti, controllori e controllati. Dobbiamo rassegnarci alla supremazia della logica di mercato che produce una sorta di invincibile diritto naturale? O vi sono altre strade da percorrere?

L’Europa può fornirci qualche indicazione. Nel 1999, avviando la fase che avrebbe portato alla proclamazione della Carta dei diritti fondamentali, il Consiglio europeo affermava esplicitamente che il riconoscimento di quei diritti era indispensabile per far sì che l’Unione acquistasse piena "legittimità". Il mercato, le libertà economiche che l’accompagnano, la moneta unica non venivano ritenuti sufficienti per sostenere una costruzione difficile, e sempre a rischio, qual è quella europea. Il passaggio dall’"Europa dei mercati" all’"Europa dei diritti" diviene così condizione necessaria perché l’Unione possa raggiungere piena legittimazione democratica. Questo modello è stato poi assunto oltre lo spazio europeo, tanto che al rifiuto radicale della globalizzazione, sintetizzato dallo slogan "No Global", si è sostituita una linea diversa, che parla appunto di globalizzazione attraverso i diritti e non soltanto attraverso il mercato. Queste non sono formule più o meno felici. Sono l’espressione di una esigenza di democrazia che ben possiamo far risalire all’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: "La società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è stabilita la separazione dei poteri, non ha Costituzione". Il potere dev’essere diviso, non concentrato. I diritti fondamentali devono essere sempre garantiti.

Questa storia è alla fine? Nel mondo del lavoro, in troppi casi, non v’è più negoziazione "all’ombra della legge". Anzi non v’è più negoziazione, perché sempre più spesso si chiede a sindacati e lavoratori di prendere o lasciare un testo predisposto unilateralmente dalla parte più forte. Contratto collettivo e sindacato, i due strumenti che dall’800 hanno cercato di colmare il dislivello di potere tra datore di lavoro e lavoratori, vengono variamente svuotati. La soggettività del lavoratore si perde, e con essa la dignità del lavoro. Se l’efficienza è l’unica bussola, rischiamo di tornare alla "gestione industriale degli uomini". E la retribuzione non è più ciò che deve assicurare al lavoratore e alla sua famiglia "una esistenza libera e dignitosa", come vuole l’articolo 36 della Costituzione, ma il prezzo minimo che si spunta sul mercato per vendere un lavoro di nuovo ridotto a pura merce. Dall’esistenza libera e dignitosa si tende a passare ad una sorta di "grado zero" dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del "salario minimo biologico", del "minimo vitale".

Di questi problemi, e del cambiamento d’epoca che rivelano, non ci si può liberare con una mossa infastidita, dando del "conservatore" a chi li ricorda. Chi ragiona così, ha già deciso di arrendersi, di consegnarsi prigioniero a una lettura del mondo globale che non sa usare categorie diverse da quelle dell’economia. Lo sguardo può e deve spingersi oltre, nella direzione indicata all’inizio ricordando la vicenda di WikiLeaks, che ci parla dell’opposto, di una globalizzazione che produce nuovi diritti e nuovi soggetti che l’incarnano. E’ questo il terreno dov’è possibile cercare e costruire quegli equilibri e quei controlli senza i quali la stessa democrazia si perde. Redistribuzione dei poteri e non solo concentrazione, riconoscimento di diritti e non procedure autoritarie. Proprio perché un governo globale del mondo non appartiene alle ipotesi realistiche, e comunque non può essere concepito come la proiezione planetaria della sovranità nazionale, è l’esistenza di una molteplicità di soggetti dotati di diritti che può garantire il mantenimento di pesi e contrappesi, come già accade in molte situazioni. In tutto questo cogliamo un intreccio tra vecchio e nuovo, tra continuità e mutamento. Mentre si manifestano soggetti nuovi, capaci di dar voce ai diritti, non si può pensare che i soggetti storici rappresentino solo il passato, e dunque possano essere abbandonati. E’ vero il contrario. Proprio perché si sta giocando una partita difficile, è indispensabile salvaguardare tutte le forze disponibili. Tornando, ad esempio, alla specifica situazione italiana, questo vuol dire che non sarebbe ragionevole una linea che, pur giustificata appunto con il riferimento ai diritti, porti all’emarginazione, o addirittura alla scomparsa, di parti significative del sindacato.

Siamo alle comiche finali, come direbbe il suo ex capo, Gianfranco Fini. L´ultima trovata di Gianni Alemanno, sindaco per caso della capitale, sarebbe quella di chiamare come vice Guido Bertolaso, il Capitan Terremoto appena pensionato dalla Protezione civile.

Un colpo di teatro che dovrebbe risollevare l´immagine dell´amministrazione capitolina, in caduta libera. Il sondaggio annuale del Sole 24 Ore indica Alemanno fra i sindaci meno amati d´Italia, soltanto un´incollatura davanti ai casi disperati del palermitano Cammarata e della napoletana Russo Iervolino.

Con tutte le perplessità che evoca la figura di Bertolaso, si tratterebbe in ogni caso di un passo avanti. Indietro, del resto, era difficile compierne. Da tre anni i romani assistono al bizzarro esperimento di una grande capitale dell´umanità governata da una curva di ultras della politica. Un pugno di ex camerati del Fronte della Gioventù romano, più parenti e amici, proiettati da un destino crudele (e dall´imbecillità degli avversari politici) verso una missione impossibile. Governare una città che ha la popolazione e il bilancio di un piccolo stato europeo, e la storia di molti messi insieme. Per qualche tempo i romani, anche chi non l´aveva votato, ha sperato che Alemanno e i suoi potessero farcela. Così come si tifa allo stadio per una squadra di terza categoria giunta in finale. Ma ora il fallimento è conclamato e perfino ammesso.

Gianni Alemanno è stato per tre anni il sindaco marziano di Roma, senza un rapporto vero con la città. Distante, impaziente, forse persino deluso da una vittoria insperata che gli ha negato una più comoda poltrona di ministro, alle prese con problemi troppo più grandi di lui. Circondato per giunta da una compagnia di fedelissimi, pronti a sfoderare il pugnale per difenderlo, magari in cambio di un posto per il cognato o la prozia, ma del tutto inadeguati a compiti di governo. Ha svolto il compito di malavoglia, eccitato soltanto dalla possibilità di fare ogni tanto annunci d´ispirazione marinettiana, come la demolizione di Tor Bella Monaca, l´abbattimento delle opere di Meyer o il gran premio di Formula Uno all´Eur. E dire che s´era guadagnato il voto con la critica alla "politica spettacolo di Veltroni". Prima della cultura, dei festival, dei concertoni e concertini, diceva Alemanno, bisogna pensare alle buche nelle strade, alla criminalità, all´economica cittadina. La cultura infatti è quasi azzerata, ma non così le buche e i buchi in bilancio. I romani, tolleranti ma non fessi, se ne sono accorti e gli indici di popolarità sono crollati. Al disastro finale ha pensato la rapinosa compagnia dei collaboratori, con una serie di scandali all´insegna del "tengo famiglia".

Ora il marziano sindaco pensa di rimontare affiancandosi un marziano vice, ancora più bravo a fare annunci mirabolanti in televisione. Si tratta comunque, già dal nome, dell´ammissione di uno stato d´emergenza. Se fallisce anche la mossa Bertolaso, si può provare col mago Silvan e Harry Potter. Oppure dimettersi e fare posto a uno del mestiere. Tanto una poltrona da ministro ad Alemanno non gliela toglie nessuno. E al governo l´incompetenza non è un problema.

Cultura>Turismo>Immobiliarismo>Affari

Ciò che sta accadendo al Lido di Venezia è l’illustrazione di un modello di uso del territorio e di sviamento dei poteri tipico dell’Italia d’oggi. É caratterizzato da un connubio tra cultura e affari del quale il turismo e l’immobiliarismo costituiscono il cemento. É promosso e sostenuto da uno schieramento politico bipartisan, nel quale il pro-motore è nel centrosinistra veneziano.

Il connubio tra cultura e affari non è nuovo a Venezia. Ma diventa uno strumento di governo alla fine del secolo breve. Risale agli anni novanta, quando nella prima giunta Cacciari (1993-1997) divenne assessore alla cultura e al turismo Gianfranco Mossetto, docente di scienza delle finanze a Ca’ Foscari, più tardi (2003) fondatore, e da allora presidente, della società di gestione finanziaria EstCapital «attiva nella gestione dei fondi immobiliari e nei servizi connessi alle attività immobiliari»[1].

Di Mossetto si ricorda ancora una battuta-shock: «Quanto rende al metro quadro un museo?». Pose questa domanda, appena insediato, ai suoi collaboratori, che ancora la ricordano.

«Che i musei potessero, anzi dovessero rendere, all'epoca, era ancora un'idea da pionieri. Che in prospettiva, poi, la città si sarebbe dovuta vendere pezzi del suo patrimonio, sembrava una fantasia. Nessuno, poi, avrebbe potuto immaginare che a gestire queste operazioni sarebbe stato proprio Mossetto»[2].

La vicenda in corso oggi al Lido di Venezia testimonia efficacemente come quel connubio, oltre a costituire un potente agente della degradazione del paesaggio e della vivibilità, sia promosso e praticato da larghe intese tra le forze politiche degli “opposti” poli: espressione fattuale di un pensiero unico che domina ormai larghe porzioni dell’Italia. Su questa vicenda è utile soffermarsi perché il modello svela, nell’isola cantata da Tomas Mann e Luchino Visconti, tutto il suo potenziale distruttivo, ad opera di protagonisti spesso insospettabili.

Il primo e il secondo protocollo d’intesa

Non so quando il progetto culturale e immobiliare per il Lido venne concepito, sebbene le vicende recenti, se si avrà la pazienza di seguirne il racconto, lasciano comprendere chi ne siano i concettori. Esso riguarda una serie di operazioni immobiliari che trasformeranno radicalmente l’assetto dell’isola del Lido indipendentemente dagli strumenti di pianificazione e dalle regole della democrazia.

Il Lido di Venezia è una lingua di terra, lunga 12 km, che separa (con l’isola di Pellestrina e la penisola del Cavallino) la Laguna dell’Adriatico. É un quartiere di Venezia, dove abitano circa 16mila residenti, cui si aggiunge una consistente popolazione fluttuante sia durante l’estate che nei periodi degli eventi speciali (tra i quali il festival del cinema). Le due aree strettamente collegate da un’operazione immobiliare pubblico/private sono nella parte centrale, e distano tra loro un paio di chilometri: il vasto compendio dell’ex Ospedale al Mare, a nord-est del Gran Viale, e il complesso Palazzo del cinema-Casino, a sud-ovest. Ma sono interessati al progetto anche il Forte Malamocco, un complesso a circa 6 km a nord-est dal Gran Viale, un’area collocata lungo quest’ultimo e la grande viabilità dell’area centrale.

É nel 2006-2007 che il progetto turistico-immobiliare entra negli atti amministrativi delle istituzioni coinvolte. L’anno precedente la Biennale e il Comune avevano concluso un concorso internazionale per la progettazione del Nuovo palazzo del cinema[3].

Nel 2006 il governo Prodi definisce il contenuto degli interventi per il 150° anniversario dello stato italiano e vi inserisce il Palazzo del cinema di Venezia. Nello stesso anno (12 gennaio) il Comune, la Regione e l’Ulss12 veneziana firmano un protocollo d’intesa che definisce il destino dell’ex Ospedale al mare. L’Ulss vuole dismettere l’ospedale sia per finanziare il nuovo ospedale di Mestre sia per assicurare «il reperimento delle risorse necessarie per garantire il mantenimento quantitativo del servizio sanitario prestato alla cittadinanza del Lido e di Pellestrina in un quadro di crescente livello qualitativo». Il Comune, per conto suo, è interessato alla «valorizzazione dell’area» e garantirà che la sua destinazione, «ferma restando l’attenzione per la residenzialità, si inquadri in un più ampio progetto di valorizzazione culturale, ricettiva e turistica del Lido e di Pellestrina», poiché «la valorizzazione dell’area rappresenta un’occasione per il rilancio della vocazione culturale, turistico-ricettiva del Lido anche quale volano per lo sviluppo economico dell’isola»[4].

Nel protocollo la “valorizzazione” dell’area, che sarà promossa dal Comune con un’apposita variante di Prg, è esplicitamente legata alla realizzazione del Nuovo palazzo del cinema e dei convegni, anche mediante la destinazione a tale opera dei contributi di concessione e degli oneri di urbanizzazione che il comune otterrà dalle edificazioni sull’ex area ospedaliera. L’Ulss, cui è affidata la realizzazione del Nuovo palazzo del cinema, «procederà mediante un’unica procedura concorsuale volta ad individuare un soggetto imprenditoriale che, in un contesto unitario, possa acquisire la proprietà dell’ex ospedale al mare, per attuarvi le iniziative immobiliari consentite, […] a progettare e realizzare il Nuovo palazzo del cinema».

In altre parole, si vende il complesso dell’Ospedale al mare, previa modifica delle destinazioni urbanistiche, per poter realizzare un nuovo Palazzo del cinema “più bello e più grande che prìa”.

I comitati per la difesa della sanità pubblica si mobilitano contro la vendita del complesso dell’Ospedale al mare. Questo è stato chiuso definitivamente nel 2003, ma è rimasto in funzione il padiglione Rossi (Monoblocco), utilizzato per le attività socio-sanitarie distrettuali e un punto di Primo intervento, strutture ritenute una risorsa importante non solo per gli abitanti dell’isola ma per l’intera collettività, data la presenza di attrezzature sanitarie legate alla riabilitazione e alla talassoterapia. I comitati denunciano in particolare le anomalie della procedura e alcuni vizi relativi alla liquidazione di un patrimonio ottenuto da donazioni vincolate all’uso sanitario. Né i comitati si sentono garantiti da una serie di frasi contenute nell’intesa, nelle quali si proclama la finalizzazione dell’accordo anche al miglioramento del sistema sanitario.

Intanto il Comune si rende parte attiva nella realizzazione del Nuovo palazzo del cinema. Nel febbraio 2009, si abbatte la pineta (132 alberi sani) antistante il Palazzo del cinema, «sotto la quale hanno passeggiato attori e registi, oltre a intere generazioni di lidensi che, d'inverno, hanno imparato ad andare in bicicletta»[5]. I comitati e le associazioni sono colti di sorpresa; da poco era stata costituito un coordinamento tra i comitati e le associazioni ambientaliste che costituirà l’unica opposizione al progetto: un osso duro per i nuovi padroni del Lido. Si organizza ugualmente una protesta popolare, nel corso della quale vengono raccolte 2.600 firma contro l’abbattimento della pineta[6].

Nell’agosto 2006, in attuazione dell’intesa di gennaio, l’Ulss emette un avviso pubblico[7] col quale dichiara di voler alienare il compendio immobiliare dell’ ex Ospedale al mare del Lido «sottoscrivendo apposito contratto di compravendita […] con un soggetto, munito di idonei requisiti di capacità economico-finanziaria e organizzativo-gestionale, al quale verrà richiesto» di progettare, eseguire il 1° lotto del Nuovo palazzo del cinema, ed eventualmente gestirlo per un massimo di anni 20. Si presentano sette offerte, tra cui le maggiori imprese italiane del ramo[8].

L’anno si chiude con la costituzione, da parte del governo Prodi, di una commissione interistituzionale per la realizzazione del nuovo palazzo del cinema e con l’impegno del Ministero per i beni e le attività culturali (ministro è Rutelli) di contribuire con 20 milioni di € al finanziamento.

I comitati segnalano e denunciano l’anomalia amministrativa: dopo la nuova decisione del governo il vecchio protocollo d’intesa non vale più. Occorre perciò rinegoziare il protocollo d’intesa, ciò che avviene nel maggio 2007. Rispetto al precedente protocollo viene introdotta una modifica significativa. Non soltanto i sottoscrittori s’impegnano a ricorrere «agli strumenti di semplificazione dell’attività amministrativa e di snellimento dei procedimenti» e di «rimuovere ogni ostacolo procedurale in ogni fase procedimentale di decisione e controllo», ma il Ministero «si impegna a promuovere la nomina di un commissario straordinario preposto alla realizzazione in fase attuativa di tutti gli interventi oggetto del presente accordo»[9].

L’apporto dello stato non è solo nel contributo finanziario, ma anche nella fornitura dello strumento che gioverà a sfuggire regole che rallentino il fare, o ne impediscano alcuni modi: il commissario straordinario.

Le ordinanze di Berlusconi

Il disegno - tracciato dal sindaco Cacciari e dal presidente della regione Galan, e arricchito dal ministro Rutelli - riparte presto. Presidente del Consiglio dei ministri è di nuovo Berlusconi. Appena può il premier si adopera per attuare le intese raggiunte a Venezia. Il 23 novembre 2008 il Comitato interministeriale per le manifestazioni del 150° anniversario dell’Italia approva definitivamente gli interventi delle infrastrutture da realizzare in 9 città, tra le quali è confermato il Nuovo palazzo del cinema di Venezia, presentato come progetto innovativo per un sistema integrato convegnistico e cinematografico.

Intanto il comune conclude la formazione di una variante di PRG per il Lido, approvata il 15 settembre 2008. Ma poco dopo il Berlusconi emana una raffica di ordinanze, sempre in conformità alle intese promosse dal comune, le quali peraltro scavalcano completamente le procedure ordinarie che lo stesso comune aveva avviato, a partire dal PRG.

Nel marzo 2009 il dott. Vincenzo Spaziante, funzionario della Protezione civile, è nominato Commissario delegato alla realizzazione del Nuovo palazzo del cinema e dei congressi di Venezia[10]. Poteri pieni, anzi, pienissimi e molto estesi. Con successive ordinanze del luglio 2009 e del marzo 2010 si stabilisce (sempre in esplicita attuazione del famoso protocollo bipartisan) che il mini-Bertolaso non solo provvede al Nuovo palazzo del cinema e dei congressi, ma «assume le iniziative e adotta i provvedimenti occorrenti per la realizzazione di ogni altro intervento nella medesima isola del Lido [parole successivamente modificate con la seconda ordinanza in “allo sviluppo dell’isola del Lido”] territorialmente, urbanisticamente, ambientalmente o funzionalmente correlato, anche su proposta di soggetti privati». La decisione del commissario è subordinata solo all’approvazione da parte di una Conferenza di servizi presieduta da un funzionario della Regione «cui sono chiamate a partecipare tutte le amministrazioni coinvolte»[11].

In aprile una nuova ordinanza precisa ulteriormente i poteri del Commissario e i limiti della partecipazione dei soggetti alla Conferenza di servizi. Il Commissario

«è altresì autorizzato a procedere, in nome e per conto del Comune di Venezia, all’espletamento di procedure selettive accelerate finalizzate alla dismissione e rifunzionalizzazione dell’Ospedale al mare ubicato nel territorio del medesimo Comune e alla acquisizione dei conseguenti proventi per la realizzazione del Nuovo palazzo del cinema e dei congressi di Venezia».

Egli può indire

«apposite conferenze di servizi, convocandole con almeno sette giorni di preavviso. Qualora alla conferenza di servizi il rappresentante di un’amministrazione invitata sia risultato assente, o, comunque, non dotato di adeguato potere di rappresentanza, la conferenza delibera prescindendo da tali elementi. Il dissenso manifestato in sede di conferenza dei servizi deve essere motivato e recare, a pena di non ammissibilità, le specifiche indicazioni ritenute necessarie ai fini dell’assenso. In caso di motivato dissenso espresso da un’amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico- territoriale, del patrimonio storico-artistico od alla tutela della salute dei cittadini, la determinazione è subordinata, in deroga all’articolo 14, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche ed integrazioni, ad apposita delibera del Consiglio dei Ministri da assumere entro sette giorni dalla richiesta».

E, naturalmente, «le determinazioni della conferenza di servizi costituiscono, ove occorra, variante alle previsioni dei vigenti strumenti urbanistici»[12].

Altre deroghe sono consentite da ulteriori ordinanze, accettate, se non richieste, dal Sindaco.

É abolito il parere della Commissione per la salvaguardia di Venezia, che è stata istituita dalla legge speciale per venezia del 1973, quindi non può essere scavalcata dai “normali” poteri del Commissario straordinari. Ma dieci suoi membri hanno sollevato questioni sulla legittimità degli atti del Commissario eccedenti l’ambito del Nuovo palazzo del cinema e dell’Ospedale al mare[13]. Ecco allora provvida l’ordinanza del 15 settembre, che consente al Commissario di bypassare la Salvaguardia, cui evidentemente partecipano soggetti non condizionabili [14].

E si arriva a derogare dallo Statuto comunale su un punto di grande rilevanza democratica: un’ordinanza del luglio 2009 stabilisce che il Commissario può derogare all’articolo 21 dello statuto comunale, il quale prescrive che

«la partecipazione del Sindaco o di un suo delegato alle conferenze di servizi, agli accordi di programma o ad altri istituti o sedi dove debba esercitare competenze del Consiglio o della Giunta presuppone un mandato vincolante dell'organo collegiale competente che fissa gli indirizzi dell'amministrazione con riserva di ratifica da parte della stessa»[15].

Sulla base di questi poteri, conferiti dagli ukase del premier avallati – anzi, provocati – dal Sindaco, il progetto di “valorizzazione” turistico-immobiliare prosegue a piene vele. Scrive La Nuova Venezia: «la nuova urbanistica del Lido sembra di fatto commissariata e, nel nome del nuovo Palacinema, si procede spediti con progetti che nulla con esso hanno a che fare»[16].

Un attore di rilievo: EstCapital

EstCapital era stata costituita nel 2003, proprietari Gianfranco Mossetto e Federico Tosato. Si trasforma in EstCapital Group nel 2007. Acquisisce in quegli anni i due maggiori alberghi del Lido (l’Excelsior e il Des Bains), il lungomare che li collega e il Forte di Malamocco.

Quest’ultimo, realizzato dagli austriaci alla metà del xIX secolo, è tutelato da vincoli monumentali e paesaggistici. Il Piano d‘area della Laguna (Palav, efficace ai sensi della legge Galasso) stabilisce che «sono consentiti esclusivamente interventi di manutenzione e restauro e devono essere mantenuti i caratteri significativi del contesto storico-paesistico connesso». EstCapital chiede l’approvazione di un progetto che prevede la realizzazione di 32 ville, ciascuna dotata di garage, un albergo, piscina e altre attrezzature turistiche. Mossetto supera le iniziali resistenze della sovrintendente ai beni architettonici e paesaggistici di Venezia. Come informa la stampa la sovrintendente Renata Codello dice si all’intervento, il quale rientra così nel “pacchetto” di quelli sottoposti alla sola valutazione derogatoria della Conferenza di servizi, «Grazie ai poteri in deroga affidati al commissario di governo per il Palacinema Vincenzo Spaziante, si spazia ora in altre direzioni nell’autorizzare progetti sull’isola»[17]

Le associazioni ambientalistiche protestano sottolineando come

«verrebbero occupati, complessivamente, oltre 20mila mq di un sito tutelato sacrificando i depositi di munizioni, la casamatta, la vecchia cisterna, la cappella e, temiamo, anche numerose specie arboree di pregio paesaggistico come olmi, lecci, gelsi bianchi e pioppi neri.
Il progetto è stato purtroppo approvato, di massima, nell’ambito di una Conferenza di Servizi, con (incredibilmente) l’autorizzazione anche della stessa Soprintendenza competente. Tale Conferenza si Servizi avrebbe il potere (altro incredibilmente) di superare il voto della Commissione per la Salvaguardia, istituita ai sensi della Legge Speciale di Venezia, che ha chiesto invano il proprio coinvolgimento, in quanto la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha attribuito al Commissario straordinario Vincenzo Spaziante (Protezione Civile), nominato per la realizzazione del nuovo Palazzo del Cinema, anche il potere (ugualmente incredibile) di realizzare vari interventi per la “valorizzazione” del Lido»[18]

Nel maggio 2009 il Commissario era arrivato a Venezia. All’indomani del suo arrivo Gianfranco Mossetto rendeva esplicito il suo disegno. Scrive la Nuova Venezia, sintetizzando un’intervista:

«Rifare interamente la viabilità del Lido, valorizzando anche sotto il profilo turistico, in cambio del via libera alle ristrutturazioni di Excelsior e Des Bains, ma anche alla realizzazione degli altri interventi previsti sull’isola dall’Estcapital di Gianfranco Mossetto, che si candida anche a gestire il polo congressuale legato al nuovo Palacinema e conferma l’interesse a partecipare alla gara per l’acquisto dell’area dell’ex Ospedale al Mare. E’ questo lo scambio con il Comune e le altre autorità messo sul tappeto dall’economista già assessore al Turismo e alla Cultura e che l’estensione dei poteri al commissario di governo Vincenzo Spaziante potrebbe ulteriormente accelerare»[19].

Oltre alle proprietà già acquisite Mossetto s’impegna a rifare tutta la viabilità della parte più prestigiosa del Lido, a riorganizzare gli stabilimenti balneari e, naturalmente, a partecipare all’operazioni immobiliare e gestionale del Nuovo palazzo del cinema e dei congressi e dell’ex Ospedale al mare.

Commenta il direttore generale della Ulss12: «il progetto di Mossetto e di EstCapital per il Lido mi sembra intelligente e interessante in un’ottica di capitalismo turistico, con aspetti anche di interesse pubblico, ma segna la resa completa del Comune, che affida il futuro dell’isola ai privati».

Il pacchetto di progetti d’interesse della EstCapital e del commissario straordinario viene discusso alla conferenza di servizi alla fine del settembre 2009. Essa approva tutto: gli alberghi Des Bains ed Excelsior, il Forte Malamocco, nonché i criteri generali del bando di gara per l’assegnazione del complesso dell’ex Ospedale al mare.

Il Commissario straordinario, anche in nome e per conto del Comune, pubblica il 5 ottobre 2009 il bando di gara al quale, entro il termine del 16 novembre (poi prorogato di una settimana), gli interessati sono invitati a presentare le offerte. Alla scadenza è presente la sola offerta, quella della cordata costituita da EstCapital, Mantovani corredata da tutti i documenti richiesti, compresi i progetti preliminari. Questi vengono esaminati e approvati dalla Conferenza di servizi e di conseguenza nel dicembre 2009 Spaziante, in quanto commissario straordinario e in quanto rappresentante («per conto») del Comune, e il dott. Federico Tosato, vicepresidente della EstCapital, firmano la “promessa di vendita” mediante la quale il compendio dell’ex ospedale al mare diventerà di proprietà di EstCapital.

L’appetito vien mangiando. Da poco è stato firmato l’accordo ed ecco la prima grana: il nodo della Favorita.

«La cosiddetta Area 2 del progetto dell’area dell’ex Ospedale al Mare si stende per circa 19 mila metri quadrati e comprende verde pubblico e attrezzature sportive (campi da tennis e da calcio, strutture del Cral) comprese tra via Marco Polo e via dell’Ospizio Marino. La delibera già votata nel settembre del 2008 dal Consiglio comunale per il Parco della Favorita, all’interno dell’accordo di programma per la riqualificazione del Lido prevedeva per gli oltre 13 mila metri quadrati dell’area la destinazione a «verde sportivo» e un’altezza massima per due edifici da recuperare, tra i 10 e 12 metri. Ma la Favorita è entrata invece successivamente nella piena disponibilità edificatoria di EstCapital per ospitare tre torri e una trentina di ville, aumentando notevolmente le volumetrie iniziali»[20].

Tenta la mediazione il nuovo sindaco Giorgio Orsoni (che in campagna elettorale si era dichiarato contro la prassi dei commissari straordinari) e ottiene qualcosina. Del resto, anche l’Ente per la sicurezza del volo - vista la vicinanza con l’aeroporto Nicelli - ha chiesto una limitazione delle altezze degli edifici. Si deve rinviare la stipula del rogito tra Comune e EstCapital. Questa chiede di recuperare altrove ciò che deve cedere alla Favorita: il Comune dia via libera ad un eventuale abbattimento del Monoblocco (l’unico elemento ospedaliero che si era deciso di mantenere) e consenta la realizzazione di una darsena a San Nicolò.

Ma ecco un’altra grana: si scopre che nell’area dell’ex ospedale c’è un giacimento di rifiuti tossici.

«Si è scoperto che l’ospedale è più inquinato di Marghera, dice un addetto ai lavori. Costi della bonifica, circa 10 milioni che le imprese non intendono pagare. Se non pagano, il rogito slitta e si blocca tutto. Il Comune non può incassare i soldi per il Palazzo del Cinema e i 40 milioni di euro che ha già messo in bilancio. Dunque, si chiude per bancarotta e arriva il commissario. Una situazione drammatica. Chi ha venduto un terreno senza farci le analisi? Chi lo ha acquistato senza sincerarsi che fosse a posto? E, ancora: chi ha messo in piedi un progetto da centinaia di milioni di euro senza le garanzie appropriate? Materia di inchieste e approfondimenti futuri»[21].

Aspettando che qualcuno apra un’inchiesta EstCapital rilancia l’amo, e il Comune abbocca: agli operatori sarà concesso anche di realizzare una grande darsena e di utilizzare il presidio sanitario rimasto, nonostante le assicurazioni proclmate dal sindaco Cacciari pochi mesi prima:

«La situazione si sblocca, dicono in sostanza le imprese, se arriva il via libera ai due “progetti aggiuntivi”. La grande darsena in mare, attaccata al molo sud del Lido, davanti alla spiaggia libera di San Nicolò. Occorre scavare e realizzare un porticciolo. Un grande business. Che andrebbe unito al “cambio d’uso” del Monoblocco. Il Comune aveva rassicurato i comitati che quell’edificio sarebbe rimasto a uso sanitario. Ma nel mezzo di nuova residenza, hotel, piscine un centro sanitario potrebbe stonare. Meglio spostarlo altrove e trasformare anche il Monoblocco in appartamenti per turisti. Secondo business»[22].

L’affare s’ingrossa

Proseguono le proteste del coordinamento delle associazioni e dei comitati del Lido. Redigono un elenco in stile Saviano-Fazio, ispirato ai valori di «legalità, democrazia, rispetto delle regole e salvaguardia del proprio territorio».

L’elenco, presentato il 1 dicembre 2010 nella sede della Municipalità, alla presenza del Sindaco e del Commissario, è un volantino in cui si elencano i costi e i benefici dell’operazione Ospedale al Mare-Palazzo del Cinema:

«130 piante d’alto fusto già abbattute nel parco vincolato dell’ex Casinò; la svendita delle aree dell’Ospedale al Mare, l’abbattimento del Monoblocco, il cui restauro era costato 5,6 milioni di euro; la perdita della piscina per talassoterapia, della radiologia, del day surgery; la cementificazione della Favorita; l’aumento esponenziale nel traffico e dei nuovi edifici nell’isola; la distruzione di una parte dell’area Sic della spiaggia di San Nicolò con la realizzazione di una megadarsena privata da 1750 posti. E infine la limitazione della volontà popolare, espressa con oltre 8 mila firme».

Quali i benefici? si chiedono comitati. Eccoli:

«Una sala cinematografica da 2500 posti, la cui utilità per il rilancio della Mostra del Cinema è stata pubblicamente messa in dubbio anche da addetti ai lavori, tra cui il docente Adriano Donaggio, per anni capo Ufficio stampa della Biennale, e il rettore del’Iuav Amerigo Restucci, del Cda Biennale».

A questo bilancio, del tutto negativo, dovrebbero seguire decisioni drastiche. E il coordinamento dei comitati e delle associazioni chiede il ritiro del bando di gara per la vendita dell’Ospedale, la conferma della presenza delle funzioni sanitarie al Monoblocco e la tutela dell’ambiente del Lido. E le dimissioni del commissario straordinario Vincenzo Spaziante per «palese inadempienza del mandato: del nuovo palazzo del Cinema che doveva essere pronto nel marzo 2011 ed invece ad oggi c’è solo una grande fosso».

Mentre la Giunta Orsoni si affanna a chiudere la trattativa per poter incassare qualcosa dal mercimonio che è stato fatto dalla Giunta Cacciari (e che, in omaggio alla continuità amministrativa e politica, e ai soldi, non ha voluto tentar di cancellare) ecco che qualcun altro prova ad approfittare dello strumento messo in opera per aggirare regole, istituzioni, trasparenza e democrazia: il Commissario straordinario. Non c’entra affatto con la trasformazione dell’Ospedale al mare e con la realizzazione del Nuovo palazzo del cinema, ma è un tassello (insieme alle proprietà della società di Mossetto: agli alberghi Excelsior e Des Bains, la strada lungomare, il Forte Malamocco) del progetto immobiliarista che qualcuno ha disegnato per il Lido di Venezia: anche i proprietari del Parco delle Rose, un vasto complesso immobiliare nella parte centrale del Lido, vogliono che, in deroga ai piani comunali, la loro succulenta proprietà venga trattata dalla Conferenza di servizi gestita dal Commissario.

Si tratta di una vasta area lungo il Gran Viale, oggi occupata da una grande area verde dove insistno una pizzeria e una sala Giochi circa 4 mila metri cubi di edifici. Secondo la stampa locale «i vecchi edifici saranno tutti demoliti, gli alberi di alto fusto tagliati perché ritenuti di scarso pregio e in parte malati. La cubatura sarà quasi sestuplicata». L’intenzione dei progettisti e del promotore immobiliare è quello di «costruire una sorta di “magnete urbano” che oggi al Lido manca, al posto del “vuoto urbano” rappresentato dall’area nello stato attuale. I grandi tetti sporgenti avranno la funzione di calamitare appunto l’attenzione di chi sbarca a Santa Maria Elisabetta, la costruzione a H con i due grandi fabbricati e la torre centrale quella di permettere comunque il passaggio e la fruizione pubblica». Una «scommessa» secondo il proprietario. «Una speculazione immobiliare secondo i comitati che chiedono quale sarà il vantaggio dell’isola derivante da questa operazione» [23].

L’anno si chiude con un’operazione in extremis. La gara pubblica è andata deserta. Il contratto viene stipulato con negoziazione privata, preceduto dall’approvazione di tutti i progetti (è rinviato solo il Parco delle rose) da parte della conferenza di servizi: atto di garanzia per l’acquirente cui la stipula del rogito era subordinata. Voci trionfanti raccontano che così “si è salvato il bilancio comunale”: si potrà procedere all’inutile spesa del Nuovo palazzo del cinema.

Il rettore dell’Iuav, Amerigo Restucci, era da tempo esplicitamente critico delle iniziative lidensi. Come membro del consiglio d’amministrazione della Biennale aveva a suo tempo sostenuto che il megaprogetto del Nuovo palazzo del cinema e dei congressi era inutile, che con una spesa molto minore era possibile utilizzare gli edifici esistenti[24]. Ma tant’è: quando dietro la grandeur dell’immagine ci sono grandi affari l’ innovazione è irresistibile. Per realizzare un’opera inutile si promuove il degrado dell’ ambiente lidense e si calpesta la democrazia. É pieno d’amarezza l’augurio di capodanno di Restucci:

«Purtroppo dalle notizie che appaiono sulla stampa odierna a proposito del completo stravolgimento di una delle zone più interessanti, oltre che cariche di valori storici e ambientali come il Lido di Venezia, scaturisce un senso di amarezza e di sfiducia in un futuro segnato da regole e rispettoso di quanto a tutt’oggi, a fatica, si è salvaguardato»[25].

Il Lido nel progetto per Venezia

una conclusione

Il Lido è solo un tassello in un progetto territoriale e sociale che interessa l’intero territorio comunale. Le tracce di questo progetto affondano in decenni passati: più precisamente, nei lontani anni Ottanta del secolo scorso, quando uno dei più lucidi protagonisti della vita politica veneziana, l’intramontato Gianni De Michelis, lanciò la sua proposta di realizzare a Venezia l’Esposizione universale del 2000. Il progetto fu bloccato. Non esistevano allora i comitati, le associazioni avevano forse meno peso, ma la società civile era più reattiva e la politica più responsabile. Alcuni elementi di quel progetto li ritroviamo oggi, come ne ritroviamo l’anima.

Questa è indubbiamente nell’intreccio cultura-turismo. Una cultura, più precisamente, intesa come tema, od occasione, di grandi eventi che richiamassero cospicue quantità di visitatori avvalendosi dell’ elevate qualità, e della universale rinomanza, della città serenissima: anzi, sfruttandole a piene mani. Componenti importanti di quel progetto erano l’utilizzazione espositiva (cioè il versante mercantile della cultura) dell’Arsenale e la trasformazione dell’area di Tessera, tra l’aeroporto e la Laguna in un “magnete” capace di animare, catalizzare, connettere i grandi flussi che provenivano (e sempre più copiosi sarebbero provenuti) dal mondo con la città sorica (e lì, in una prospettiva non tanto lontana, il suo Lido).

L’Arsenale era in mano pubblica, le aree di Tessera no (e neppure gran parte di quelle del Lido). Non a caso quindi l’area di Tessera è rimasta nel gioco, ha acquistato un peso crescente, ha provocato un consistente mercato di aree agricole, ed è stata alla fine benedetta da un accordo pubblico-privato assolutamente bipartisan: l’accordo stipulato tra Galan, presidente berlusconiano della Regione, Cacciari, sindaco di centrosinistra della città, e il proprietario della società aeroportuale. L’accordo ha dato luogo a una variante di PRG surrettizia, rimasta a giacere tra comune e regione per quattro anni, in attesa che si raggiugesse l’accordo patrimoniale e funzionale.

Ai tempi della proposta demichelisiana dell’Expo la connessione infrastrutturale tra Tessera e l’Arsenale non era ancora definita, né, a maggior ragione, quella per il Lido. Ma ecco che negli anni Novanta, con un rigurgito di ottocentesco slancio tecnologico, un gruppo promotore propone la realizzazione di una metropolitana, infilata sotto la Laguna, diretta prima a raggiungere la città storica e poi, in progress, il Lido.

Il disegno non è ancora completo. Per renderlo ancora più accattivante per gli “investitori” (cioè per i gruppo che, grazie ai decisori pubblici, vede aumentare da cento a mille il valore dei terreni acquistati) qualcuno decide che la grande infrastruttura ferroviaria che collegherà Lisbona a Kiev nel tratto italiano deve toccare Tessera. Non tutti sono d’accordo. Tra i critici qualche rappresentante della Regione, adesso divenuta leghista, che vorrebbe che la TAV toccasse anche qualche altra località…balneare. Comunque, come scrive un esperto, allo stato degli atti

«delle tre alternative di tracciato - affiancamento alla linea storica, il cosiddetto quadruplicamento, unanimemente scartato; l'affiancamento alla A4, la soluzione ideale da Torino a Verona per compattare il corridoio infrastrutturale - la scelta cade invece sulle terre basse e molli delle bonifiche orientali. Soluzione più lunga, più lenta e più costosa»[26].

Molte altre tessere compongono il mosaico che minaccia di stringere Venezia sempre più in un cappio di cemento, ferro e asfalto, governato dagli affari. Bisognerà raccontarlo e denunciarlo in tutti i suoi aspetti. Alcuni già abbastanza noti all’opinione pubblica veneziana e nazionale (come il MoSE, il degrado pubblicitario dei monumenti, la dismissione dell’edilizia pubblica), altri meno.

La discussione del Piano di assetto territoriale consentirà di valutare in un unico quadro tutto ciò che si prepara. Ma la vicenda del Lido, se da un lato rivela la pervasività e la forza dei poteri che spingono a trasformare la cultura in cemento, dimostra anche che queste trasformazioni possono essere contrastate solo se cresce la protesta che parte dalle condizioni di vita determinate da quelle trasformazioni. E questa può crescere se – oltre a rendere sempre più ampia la consapevolezza delle conseguenze delle scelte territoriali – si saprà dimostrare che un altro Lido, e un’altra Venezia, sono possibili.

Venezia, 8 gennaio 2011

[1] http://www.estcapital.it/

[2] Roberta Brunetti, “L'ex assessore con la passione per il risiko degli immobili”, il Gazzettino, 24 novembre 2009

[3] Il 1° settembre 2005 era stato proclamato vincitore uno dei dieci gruppi partecipanti, quello costituito dallo studio genovese “5+1” e Rudy Ricciotti”

[4] Protocollo d’intesa ecc. 12 gennaio 2006. Firmato dal presidente dalla Regione Veneto Galan, dal sindaco di Venezia Cacciari, dall’amministratore dell’Ulss12 Padoan.

[5] Luca Ferrari, Ore 7,45, giù il primo albero, Corriere del Veneto, 13 febbraio 2009

[6] Il Coordinamento delle Associazioni Ambientaliste del Lido di Venezia (“Per un altro Lido”) era nato nel settembre 2008 proprio per contrastarel'abbattimento della pineta del Casinò. Di esso fanno parte Associazione Murazzi, Associazione Rocchetta, Associazione il Villaggio, Associazione vegetariana, Italia Nostra Venezia, Codacons Veneto, Lipo Venezia, Estuario nostro, Pax in acqua.

[7] Avviso indicativo per la richiesta di soggetti interessati all’acquisto dell’area Ospedale al mare.

[8] Acquamarcia di Caltagirone, Torso, Sacaim, Gemmo, CCC di Ravenna, Astaldi, Mantovani, Maltauro, Condotte, Condotte d’acqua ecc.

[9] Protocollo d’intesa ecc., 9 maggio 2007. Firmato da Rutelli, Galan, Cacciari, Padoan.

[10] Ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n°3746/2009

[11] Ordinanze del presidente del consiglio dei ministri n° 3791/2009 e n°3856/2010

[12] Ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n°3759/2009.

[13] Cfr. Enrico Tantucci, “Lido, Salvaguardia contro Spaziante”, La Nuova Venezia, 25 settembre 2009.

[14] Ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n°3807/2009.

[15] Ordinanza del presidente del consiglio dei ministri n°3792/2009

[16] Enrico Tantucci, “Forte Malamocco: c’è il via libera”, La Nuova Venezia, 4 settembre 2009

[17] ibidem.

[18] Le denuncia è stata firmata dalle seguenti associazioni: LIPU Venezia, Estuario Nostro, Italia Nostra Venezia, Pax in Aqua, Associazione per la difesa dei Murazzi, Associazione Rocchetta e dintorni, Associazione Vegetariana, Comitato per la Revisione della Viabilità del Lido, Ecoistituto del Veneto Alex Langer, Amico Albero, Associazione Il Villaggio, Venezia Civiltà Anfibia, Codacons Veneto, Legambiente Venezia. É stata bubblicata dal sito web PatrimonioSOS ne, novembre 2009.

[19] Enrico Tantucci, “Mossetto propone lo scambio«Ditemi di si e rifarò il Lido», La Nuova Venezia, 13 maggio 2009.

[20] Enrico Tantucci, “L’Ospedale al Mare in Procura”, La Nuova Venezia,

[21] Alberto Vitucci, “La darsena in cambio della bonifica”, La Nuova Venezia, 6 agosto 2010

[22] Ibidem

[23]Alberto Vitucci, “Lido di Venezia. Parco delle rose, ecco il progetto”, La Nuova Venezia, 29 dicembre 2010.

[24]Lorenzo Mayer, “Restucci: Il Palacinema? Non serve proprio a nulla”, il Gazzettino, 15 settembre 2009.

[25] Amerigo Restucci, “L’augurio: I piani per il Lido siano discussi con tutti”, La Nuova Venezia, 31 dicembre 2010

[26] Franco Migliorini, “Europa a Passarella”, Il Corriere del Veneto, 14 ottobre 2010.

Prima uno, poi un altro, poi un altro ancora. Da Morgano a Valdobbiadene, da Godega di Sant'Urbano a Conegliano e quindi nel capoluogo, a Treviso. Altri, si dice, verranno. Sono contadini, proprietari di terreni che i Comuni vogliono rendere edificabili per farci villette e capannoni industriali. Ma loro si oppongono e insistono perché restino agricoli. Ci perdono tanto: il cambio di destinazione può valere dalle cinque alle dieci volte il prezzo di partenza. Non è come una decina d'anni fa, quando questo lembo di Veneto fu seminato di cemento e un'edificabilità faceva crescere anche di cento volte il prezzo agricolo. Ma è pur sempre la rinuncia a un bel gruzzolo.

Eppure non demordono. La famiglia Favaro di Morgano e la famiglia Caldato di Treviso coltivano la terra che coltivavano i nonni e chiedono di continuare o anche solo di tosare il quadrato verde che sta davanti a casa, di curare gli scolmatoi, di pulire le rogge e di non vederlo diventare lo svincolo di un distretto industriale. Nel frattempo il Comune gli impone di pagare l'Ici come se avessero già costruito. Ma dalla loro parte sono schierati il Fai e Italia Nostra e li assiste Francesco Vallerani, geografo dell'Università di Venezia.

I Favaro e i Caldato sono mosche bianche in questa provincia. Stando ai calcoli di Tiziano Tempesta dell'Università di Padova, nei piani regolatori dei 95 comuni del trevigiano sono conteggiate 1077 aree produttive, dieci per comune, la gran parte inferiori a 5 ettari e disseminate a caso nel territorio. Molti, però, sono i capannoni sfitti (il 20 per cento in tutto il Veneto) e molte le aree già lottizzate sulle quali non si costruisce. Una, grande 15 mila metri quadri, è quasi al confine della proprietà dei Favaro. E lungo la provinciale che porta dai Caldato c'è un filare di stabilimenti vuoti. Ma nonostante questo, le concessioni di edificabilità fioccano quasi per inerzia. Chiunque può se le accaparra. Non tutti, perché il trevigiano è il territorio con il più alto numero di comitati in difesa del paesaggio, benedetti da Andrea Zanzotto che vigila dalla sua casa di Pieve di Soligo.

I Favaro hanno 4 ettari di terreno a Morgano. Coltivano mais. Ma la loro specialità è un vivaio di piante autoctone - aceri, querce, olmi, platani - allevate in un piccolo bosco che ripropone un brandello di paesaggio veneto. Chi le compra le lascia crescere lì e poi le porta via con l'intera zolla dopo tre o quattro anni. L'amministrazione comunale ha deciso che Morgano deve ingrandirsi con un'area industriale di 90 mila metri quadri in una zona paludosa, circondata da corsi d'acqua e che, sovrastata di cemento, rischia di finire sotto, come durante l'alluvione di due mesi fa. Siamo nel Parco del fiume Sile, in un sito protetto dalla Comunità europea. In questi 90 mila metri quadri ci sono i 40 mila dei Favaro. "A noi bastano i soldi che guadagniamo facendo gli agricoltori. Qui il cemento si mangia la terra, ma non porta più ricchezza", dice uno dei fratelli Favaro, "se avessimo l'edificabilità e vendessimo non ci darebbero soldi, ma un appartamentino in una villetta a schiera". Ora la decisione rimbalza fra Comune e Regione. Ma se l'edificabilità fosse imposta, i Favaro andranno in tribunale.

Più piccolo - 18 mila metri quadri - il terreno dei Caldato, alle porte di Treviso. Ma molto antica la storia che Pietro, con il fratello Roberto e la sorella Enrichetta, ha ricostruito fin dal Seicento e che attesta la loro proprietà dai primi dell'Ottocento. Ci sono una vigna, un orto e tanto prato. Ma il Comune di Treviso vorrebbe farne area industriale, squarciando il terreno con una strada che sfocia in una rotonda. E ai Caldato chiede di pagare l'Ici dal 2003, quando fu approvata la variante al piano regolatore: quasi 60 mila euro. "Della ricchezza che altri inseguono non sappiamo che farcene", dice Pietro. Ora con il Comune è in corso una trattativa. È intervenuto il sindaco. "Rischiamo di perdere la nostra terra e la nostra libertà. Ma ancora preserviamo il nostro modo di pensare e di vivere. I soldi? Non possiamo portarceli dietro quando saremo morti".

(fortunatamente i contadini veneti non sono i soli)

Raddoppiano i "no" per gli interventi in aree vincolate. A un anno dall'entrata in vigore del nuovo procedimento di autorizzazione, introdotto a inizio 2010 con le modifiche al codice dei beni culturali, la difesa del paesaggio si fa più stringente. E’ quanto emerge dal monitoraggio su dodici soprintendenze (un terzo del totale) che hanno risposto alle domande che il Sole 24 Ore ha inviato a tutte le 33 sedi presenti sul territorio nazionale. Dati che consentono di fare un bilancio, seppure parziale, dei primi dodici mesi con il nuovo regime. E che trovano riscontro nelle dichiarazioni di altri cinque soprintendenti (Venezia, Napoli, Milano, Brescia e Sardegna) non in grado di fornire numeri precisi, ma concordi nel registrare l'impennata dei pareri negativi. Più difficile, invece, valutare la portata dell'autorizzazione semplificata, partita lo scorso settembre e che riguarda lo snellimento delle procedure per 39 interventi "minori".

Sul versante dell'autorizzazione ordinaria, il ministero registra un recepimento graduale, senza particolari scossoni. «In un anno - spiega Paolo Carpentieri, capo dell'ufficio legislativo dei Beni culturali - non sono arrivate dalle soprintendenze significative richieste di pareri. Non siamo, in altre parole, stati sommersi dalle domande e dai dubbi, fenomeno che. invece si verifica quando l'applicazione di una novità si rivela complicata». Il dato da rilevare è, dunque,. soprattutto quelle delle "bocciature", passate - se si confrontano gli annullamenti di legittimità espressi nel 2009 con i pareri negativi vincolanti del 2010 - da 432 a 876. La crescita più rilevante si è registrata a Firenze, Pistoia e Prato, dove lo stop è arrivato per 223 volte contro le 42 dell'anno precedente (anche se nel 2009 le richieste esaminate. sono state inferiori). Fa eccezione il Piemonte, dove il numero di bocciature nelle due sedi regionali è ridotto, in quanto si è scelto - precisano dagli uffici - di operare soprattutto per «correggere gli interventi». A confermare il restringimento delle maglie sulla tutela del paesaggio sono anche i soprintendenti che, in mancanza di rilevazioni dettagliate, non hanno dubbi sull'aumento dei pareri negativi. Gli stop, ad esempio, sarebbero addirittura lievitati di dieci volte in Sardegna. «I vecchi annullamenti colpivano il 2% delle richieste. Ora i pareri contrari sono il 20-25%», afferma Gabriele Tola, alla guida dei due uffici sardi. A Sassari-Nuoro, in particolare, la situazione è stata critica soprattutto sul fronte dei tempi per le risposte (passati da 45 a 60 giorni): «Sono solo due gli architetti a occuparsene e così si finisce per andare oltre i termini per la metà delle 7mila pratiche che riceviamo ogni anno».

Alla soprintendenza di Venezia e Laguna il territorio da controllare è di certo meno esteso, ma è quasi tutto sotto vincolo. Qui, spiega Renata Codello, a capo della sede lagunare, «i "no" erano già intorno al 7%; con le nuove procedure schizzano al 15-17 per cento». A Venezia, per far fronte alla stretta sui tempi si è fatto leva sull'informatizzazione, con un software in grado di "allertare" i funzionari sulle pratiche in scadenza. «Con il nuovo regime l'attività è aumentata a dismisura», afferma Alberto Artioli, soprintendente di Milano e di altre otto province lombarde, che ammette: «Ci siamo salvati solo grazie all'entrata in servizio da aprile di cinque nuovi architetti». A Parma, invece, rimarcano come per i progetti a scarso impatto paesaggistico si lascino spesso trascorrere i termini perché il parere comporta un impegno non trascurabile. Secondo Andrea Alberti, soprintendente di Brescia, Cremona e Mantova, il nuovo procedimento ha permesso con più facilità di «fornire indicazioni prescrittive».

Altro discorso va fatto per l'autorizzazione semplificata, a regime dallo scorso 10 settembre. I primi tre mesi hanno fatto registrare un tiepido ricorso alla nuova procedura (il 2,8% dei fascicoli delle soprintendenze monitorate hanno chiesto la procedura accelerata). C'è, però, da aggiungere che il tempo trascorso non consente una valutazione approfondita del nuovo regime. I primi giudizi, tuttavia, non sono particolarmente positivi. Per le soprintendenze piemontesi lo snellimento non è così evidente per quanto riguarda la documentazione da produrre, mentre a Firenze si punta il dito sui tempi troppo stretti. Sulla stessa linea Stefano Gizzi, soprintendente di Napoli: «È proibitivo rispettare il termine ridotto a 25 giorni». L'opera di semplificazione, comunque, dovrebbe conoscere un secondo capitolo. La commissione insediata presso il ministero dei Beni culturali e che ha prodotto il primo decreto di snellimento, ha continuato a lavorare con l'obiettivo di semplificare altri aspetti della procedura ordinaria. In particolare, si tratta di chiarire alcuni passaggi, ridurre i termini al di sotto dei 100 giorni non solo per i casi di lieve entità e tagliare anche i documenti da presentare per ottenere il nullaosta. I1 testo della commissione è stato sottoposto alle regioni, che a inizio dicembre hanno prodotto un loro elaborato, che ora dovrà essere discusso con i Beni culturali. Situazione politica permettendo.

LA NUOVA PROCEDURA.

L'autorizzazione paesaggistica ha debuttato il 1 gennaio 2010, rendendo operative le modifiche al codice dei beni culturali (Dlgs. 42/2004, articolo 146). La procedura prevede che l’autorizzazione per gli interventi in aree vincolate venga rilasciata entro 105. giorni (più 15 giorni nel caso in cui si ricorra alla conferenza dei servizi). La soprintendenza dive dare il parere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti (contro i 60 previsti dal vecchio procedimento). Il parere, che fino al 2009 veniva dato sul progetto già approvato dall'ente delegato (di solito i comuni) e poteva fare leva solo su un potere di annullamento per vizi di, legittimità degli atti, è ora diventato di merito, preventivo e vincolante.

NULLAOSTA SEMPLIFICATO

L'autorizzazione paesaggistica semplificata (Dpr 139/2010) è entrata in vigore il 10 settembre 2010: L'obiettivo è snellire e accelerare le procedure per il rilascio dei nullaosta nel caso di 39 interventi ritenuti di lieve entità. L'autorizzazione deve, infatti, essere rilasciata entro 60 giorni invece dei 105 previsti dal procedimento ordinario. Tra le opere minori figurano, tra l'altro, piccoli ampliamenti, demolizioni e ricostruzioni a parità di volume e sagoma e 1'installazione di pannelli solari, termici e fotovoltaici. Il parere della soprintendenza, da rilasciare entro 25 giorni, è vincolante ma non obbligatorio.

Notizie sinistre dalla Sardegna, La giunta Cappellacci ha deciso di costituire un tavolo coordinamento tecnico-scientifico il quale (riprendiamo una nota dal sito della Regione) “affiancando le strutture regionali, ha lo scopo di agevolare il raccordo con i territori per la programmazione di azioni di valorizzazione del paesaggio e parteciperà alla definizione di obiettivi e azioni strategiche in tema di riconoscimento e valorizzazione del paesaggio sardo”.

Due volte la parola “valorizzazione” in una breve sintesi. E sappiamo che cosa significa “valorizzazione” per il pensiero corrente della destra (e ahimè non solo della destra) oggi in Italia. Significa accrescere il valore venale di qualcosa, preferibilmente un bene comune. Quindi, se si parla di territorio e di paesaggio, significa trasformarlo da terreno naturale in lottizzazioni, ville e villette, cemento e asfalto. Significa distruggere natura e paesaggio, bellezza. Significa trasformare beni, patrimoni collettivi costruiti in millenni di collaborazione tra uomo e natura in pezzi ulteriori di quella “repellente crosta di cemento e asfalto” il cui estendersi, come diceva Antonio Cederna, distrugge giorno per giorno il Belpaese.

Il tavolo di coordinamento tecnico-scientifico, precisa la nota della Giunta, “ha lo scopo di agevolare il raccordo con i territori”. Sappiamo bene anche che cosa significa questo termine, “territori”, nel glossario di Cappellacci e dei suoi collaboratori. Significa raccordarsi (e soprattutto accordarsi) con quei sindaci che sono stati per decenni gli agenti dello sfruttamento immobiliare delle coste dell’isola. Quei sindaci che hanno visto come fumo negli occhi gli atti significativi che la Giunta Soru ha elaborato per proteggere (finalmente!) quel che resta della bellezza della costa della Sardegna. Quei sindaci che sono stati gli agenti di collegamento tra gli immobiliaristi del Continente, sbarcati per colonizzare le coste sarde, e i “territori” che erano stati loro affidati.

Leggendo il comunicato della Giunta appare chiaramente che il compito assegnato al Tavolo di coordinamento tecnico-scientifico è quello di dare una copertura culturale allo smantellamento del piano paesaggistico regionale elaborato, sotto la guida di Renato Soru, dalla Regione e del Ministero dei beni culturali: uno degli esempi migliori (per vastissimo riconoscimento internazionale) di pianificazione attenta del paesaggio e di messa in valore (non di “valorizzazione”) delle sue qualità naturali e storiche. Quelle qualità – giova ricordarlo con allarme – che sono oggi minacciate a Capo Malfatano e a Tuvixeddu, per l’azione di quelle stesse forze che aspettano con ansia la sostituzione del PPR con un piano finalmente “sviluppista”.

Trasformare i beni comuni in merci, distruggere i patrimoni di tutti – risorse per oggi e per domani – per l’arricchimento di pochi sono gli obiettivi dei “poteri forti” che sembrano oggi vincenti. Leggo nel comunicato della Giunta che al Tavolo, evocato per aiutare a raggiungere questi obiettivi, parteciperebbero anche le Università di Cagliari e Sassari. La cosa mi sembra difficilmente attendibile, ed è probabilmente frutto di un equivoco; le procedure attraverso le quali passa la collaborazione delle università con istituti ad esse esterni sono trasparenti, e avrebbero certamente provocato nelle università un dibattito del quale l’opinione pubblica sarebbe venuta a conoscenza.

N ella rassicurante convivialità familiare natalizia spesso ho pensato a L'Aquila e ai suoi abitanti ormai in diaspora continua. Leggo, infatti, che molti degli occupanti nei Map (ossia i Moduli abitativi provvisori) sono stati trasferiti in altre strutture, mi auguravo per un riavvicinamento familiare ma non è così; è ancora in corso una sorta di «assestamento», «assegnamento» e «designazione» di alloggi.

Assieme al panorama familiare e amicale, è cambiato anche il modo di riunirsi, incontrarsi fare conoscenza. Sparsi in una area vasta che comprende vari Comuni lontani tra loro, gli esuli del terremoto stanno cambiando il loro modo di vivere, dimentichi delle strade che si incrociavano e si aprivano ai saluti e a nuovi incontri. Le strade de L'Aquila! Attorno agli attuali Map, zero punti di aggregazione vera. Dunque, in giro, si odono appuntamenti dati a "l'Aquilone".

L'Aquilone non è fatto di carta e non si libra nel cielo abruzzese. È un centro commerciale che (ecco il nome, purtroppo) sorge fuori dalla città. Costruito una decina di anni fa, ora vive il suo massimo splendore; questo è il nuovo percorso dello «struscio» e della «conversazione». Il giorno del terremoto gli abruzzesi e gli aquilani hanno perso tutto ed hanno anche perso quella forma di socializzazione che rappresentava l'ultimo grado di umanità e di affetti. Ora tutto viene mescolato, in una povertà spirituale e sociale immensa, in un sali-scendi di scale mobili e splendenti vetrine, market e svendite.

La manifestazione Cercalibro si è svolta presso un centro commerciale a Coppito (e bisogna ringraziarlo). Fra qualche anno il fenomeno verrà studiato soprattutto per come la sconsideratezza di una pseudo ricostruzione abbia potuto trasformare antropologicamente una intera popolazione. Eppure il sindaco Massimo Cialente e la presidente della Provincia Stefania Pezzopane, nel 2009 riuscirono a far rivivere la città con belle iniziative natalizie e a costo zero grazie a numerosi sponsor. L'Aquila del Natale appena concluso è una città fantasma ben filmata su YouTube. Il video testimonia che L'Aquila deve restare al centro dei servizi di informazione.

La vicenda Fiat Mirafiori ha un´intrinseca complessità: rinvia a questioni in materia di lavoro, come la legge – o un accordo tra le parti sociali – sulla rappresentanza sindacale. Rinvia a considerazioni tattiche sull´opportunità di firme più o meno tecniche, sull´esigenza – di cui un sindacato può farsi carico – di restare in fabbrica anche a prezzo di sottoscrivere un accordo svantaggioso; e rinvia anche a temi di politica industriale, come le responsabilità dell´azienda nelle difficoltà della Fiat. Ma non vi è dubbio che il nucleo di problemi più scottante è quello che verte sul rapporto fra politica (democratica) ed economia. E da questo punto di vista tutti sanno che siamo arrivati a un cambio di orizzonte, a una trasformazione di paradigma; che cioè il caso Fiat è oggi il baricentro su cui convergono le linee di tensione, di crisi o di evoluzione, del sistema-Italia.

Lo sa il governo, che saluta con favore l´isolamento della Fiom, gli scontri dentro la Cgil, l´imbarazzo del Pd, le ammaccature subite dalla stessa Confindustria; che per bocca del ministro del Lavoro, ex socialista, si compiace della drastica riduzione del controllo sociale sull´impresa – cioè del venir meno della strategia della concertazione inaugurata da Ciampi nel 1993 – ; che plaude alla sconfitta delle ideologie, in quanto foriera della modernizzazione del Paese; che propone un´immagine di sé che non è neppure quella del comitato d´affari della borghesia, ma dell´esecutore dei desiderata di un manager.

Lo sanno gli sconfitti, cioè i sindacati, che vedono il proprio ruolo ridotto ad accettare (alcuni) o a rifiutare (altri) linee strategiche e operative elaborate unilateralmente dall´azienda. Che subiscono cioè la trasformazione della dialettica – di una situazione in cui gli attori sono due – in plebiscito, dove la volontà che conta è solo quella di chi pone le domande, e mette la controparte nella posizione subalterna di prendere o lasciare.

Lo sa il vincitore, Marchionne, che ha fatto passare tutte le proprie richieste. Per prima, l´interpretazione della globalizzazione come di una forza cieca e inesorabile, di una svolta del senso della storia, che non può essere gestita ma solo assecondata, e solo nella direzione che l´azienda ritiene più conveniente per sé; accanto a questa, l´annuncio di una nuova epoca delle relazioni tra capitale e lavoro, non più conflittuali ma obbligatoriamente cooperative – e non nel senso della cogestione, ma di una collaborazione asimmetrica, in cui la forza lavoro rinuncia alla propria soggettività politica in cambio dell´impiego, e di qualche ipotetico aumento in busta paga - ; infine, la più aperta e provocatoria, ovvero la pretesa di mano libera, da parte dell´impresa, nel perseguire le proprie strategie: "la Fiat non può essere condizionata". Accordi e contratti vengono lacerati; l´iniziativa è di una sola parte, di un uomo solo. Il blitz della Decisione, la potenza dell´Incondizionato, spezzano la trama dei rapporti reciproci, dei conflitti e delle mediazioni, l´intreccio delle relazioni tra soggetti diversi, portatori di interessi diversi, in una società complessa. Da oggi il mondo è più semplice: il dispositivo intrinsecamente autoritario della decisione e del plebiscito sostituisce la trattativa, le regole condivise. La salvezza della Fiat è la legge suprema: per la Fiat, per i sindacati, per l´Italia.

Che dietro questo decisionismo ci siano le difficoltà di un´azienda è evidente; ma che quelle che sono debolezze su scala globale vengano rovesciate in potenza unilaterale su scala interna, è una mossa di micidiale efficacia e novità. Significa che il ruolo della politica – per ovvia corresponsabilità del governo – non è più quello di dare forma ed equilibrio a una complessità, di gestire le contingenze e le crisi con riguardo alla molteplicità degli attori in gioco, ma quello di certificare ex post l´esito della legge del più forte; che gli interessi generali del Paese coincidono a priori con quelli della Fiat; che la sovranità – che la Costituzione attribuisce al popolo – si sposta verso chi è capace di impugnare vittoriosamente la decisione; che, almeno tendenzialmente, la Repubblica viene a essere fondata non sul lavoro, ma sul profitto e sullo sviluppo, che è appunto il lavoro visto dall´azienda, privato della centralità dell´uomo.

È davvero, questo, un passaggio epocale; è il momento in cui nel tessuto della nostra democrazia, che finora si è auto-interpretata, nonostante tutto, come liberale e sociale, fa irruzione la globalizzazione, che si propone come l´aperto predominio delle logiche economiche sulle logiche politiche democratiche. Si sta perdendo, insomma, più o meno da parte di tutti, l´occasione per rilanciare la politica come governo democratico della società, e si prende la strada di un ‘realismo´ scivoloso: legittimare l´esistente come necessario, inchinarsi al presunto spirito del tempo, qualunque cosa ciò significhi, mentre si rinuncia allo sforzo critico di stare nel proprio tempo nel modo migliore.

La storia del Ponte sullo Stretto di Messina, 3.300 metri, il più lungo del mondo, è anche quella dell’opera più costosa e foriera di spreco di soldi pubblici mai messa in cantiere. Con un preventivo iniziale di 6,3 miliardi di euro, già lievitato a 8, dimostra quanto possa arrivare a costare ai cittadini la propaganda. La società Stretto di Messina Spa (Sdm) è stata fondata nel 1981, ma i costi partono dal 1971 quando una legge definì il ponte “di interesse nazionale” e venne istituito un concorso internazionale di idee. In dieci anni sono stati macinati 373 milioni di lire.

Dalla costituzione della Sdm Spa a oggi si sono spesi altri 420 milioni di euro (900 miliardi di lire). Somma che, se consideriamo l’inflazione, non rende il senso del flusso di denaro pubblico. A cui si deve aggiungere la cifra fin qui pagata al contraente generale Eurolink (associazione di imprese, capofila Impregilo), che non ci è dato conoscere perché alla nostra domanda non è seguita alcuna risposta. Impregilo, presieduta da Massimo Ponzellini, presidente della Banca Popolare di Milano (voluto da Tremonti, ex prodiano ora bossiano), domina il mercato delle Grandi Opere (inceneritori, autostrade), sta nell’Alta Velocità, ma non solo. Grazie al suo assetto societario - che vede gruppi imprenditoriali finanziari con le mani sull’editoria, da Benetton a Gavio a Ligresti - gode di un consenso trasversale alle maggioranze che di volta in volta sostengono i vari governi. La realizzazione del Ponte, se mai si farà, avverrà con prestiti erogati dalle banche, garantiti dallo Stato.

Le autostrade siciliane e calabresi in rovina



L’opera, assicura il governo Berlusconi, verrà inaugurata nel 2016. Per ora è una vera macchina mangiasoldi che a distanza di oltre 20 anni non ha prodotto nulla. La sola opera collaterale è lo spostamento della ferrovia a Cannitello (non ancora terminato), progetto che nasce indipendentemente dalla realizzazione del Ponte anche se viene spacciato come collegato. Fiumi di denaro mentre mancano le risorse per affrontare le penose condizioni in cui versano strade e autostrade calabresi e siciliane, tanto da indurre i sindaci dell'area ionica a minacciare le dimissioni in massa per lo stato di abbandono della SS 106. Nonostante le proteste del movimento No Ponte e degli stessi amministratori, che chiedono l'ammodernamento e la messa in sicurezza della SS 106, dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria (ristrutturazione iniziata nel ‘98), il potenziamento delle linee ferrate, il governo continua a rilanciare il Superponte con sempre nuovi annunci. Il tutto in assenza di un progetto esecutivo. E questo accade contro ogni studio serio finora realizzato. Nel 2001 una ricerca commissionata dal governo di centrosinistra ha stabilito che la metà delle persone che attraversano lo Stretto sono pendolari. E l’80% dichiara che non usufruirà del ponte. I camion usano sempre più le navi e la tendenza del traffico automobilistico (dati forniti dall’Autorità portuale) è in diminuzione.

Le metropolitane del mare che non ci sono



Ma nonostante questo, il Ponte sullo Stretto viene finanziato su previsioni di crescita del traffico, non avallate da alcuno studio scientifico, che oscilla tra il 10% e il 30%, entro il 2012: il piano di rientro finanziario infatti si basa sul numero di veicoli che lo attraverseranno. Ma la soluzione per risolvere un traffico che è solo locale - in quanto quello su grande distanza si è già spostato sugli aerei (dall’85 al 2005 vi è stato un incremento del 3000%) - sarebbe realizzare una metropolitana del mare, una serie di barche-bus per collegare 24 ore su 24 Villa San Giovanni a Messina. Basti pensare che nel 1992 la Sicilia era collegata al Nord da 12 treni a lunga percorrenza: oggi ce ne sono appena due. In barba a quel che ripete Berlusconi nel salotto di Bruno Vespa, i cittadini siciliani, per sentirsi più italiani, non hanno bisogno del Ponte, bensì di vie di collegamento più moderne ed efficienti di quelle che oggi li costringono a impiegare 10 ore per andare da Napoli a Catania.

La società Stretto di Messina. Costituita nel 1981, ha dapprima sede a Roma al n.19 della centralissima via Po, 3600 metri quadrati su quattro piani, attico, seminterrato e giardino, costo 75 mila euro al mese di affitto incassato dalla srl Fosso del Ciuccio, immobiliare della Cisl. Poi arriva Prodi, che chiude i rubinetti di questo spreco inaudito di soldi pubblici, non finanziando l’opera. Ma la società non viene chiusa: cambia soltanto sede, trasferita in via Marsala. Sede più piccola (1200 metri quadrati), ma più costosa al metro quadro (600mila euro l’anno - 50mila euro al mese). L’Anas (azionista di maggioranza con l’82%) la affitta da Grandi Stazioni di cui è azionista Sintonia (gruppo Benetton), che controlla Atlantia, cioè Autostrade per l’Italia, che a sua volta detiene attraverso Igli un terzo di Impregilo (la capofila di Eurolink, cioè dell’associazione di imprese che comprende la giapponese Ishikawajima, la spagnola Sacyr ecc…), per poi subaffittarla a Sdm. Il canone - come ci fa notare l’ufficio stampa - comprende per fortuna le utenze elettriche, la gestione degli impianti, dei servizi di portineria, di guardia e di pulizia. Quarantanove dipendenti, di cui solo otto distaccati dall’Anas e da società controllate e quattro collaboratori con contratti a progetto.

Ma nel 2008, quando cade il governo Prodi e torna Berlusconi, il Ponte riciccia in cima all’agenda politica: si riaprono i contratti e viene fissata l’inaugurazione per il 2016. Commissario straordinario: Pietro Ciucci, già presidente della Sdm e contemporaneamente presidente dell’Anas, nominato da Prodi e riconfermato da Berlusconi. Ciucci, il cui compenso sfiora il milione di euro, svolge il ruolo di controllore e controllato, in pratica controlla se stesso

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Dal 1981 al 31 dicembre 2009 la Società Stretto di Messina è costata 173 milioni di euro in investimenti per la ricerca, studi di fattibilità, progettazione di massima e preliminare, nonché avvio e conclusione di quattro gare internazionali. Sono previsti ulteriori investimenti per circa 110 milioni per il progetto definitivo - da non confondere con quello esecutivo - più volte annunciato ma che nessuno ha ancora visto. A cui si aggiungono altri oneri di progettazione per opere collaterali affidate a grandi archistar internazionali come Liberschind (il progettista delle Due Torri). Basti pensare che è stato speso oltre 1 milione e 600 mila euro in pubblicità per partecipare a fiere, mostre e convegni vari. Addirittura il logo dello Stretto di Messina ha sponsorizzato iniziative religiose come la beatificazione di padre Annibale di Francia.

Il movimento No Ponte: “un progettificio

Ci sarebbe piaciuto anche sapere quanto ha incassato a oggi il contraente generale Eurolink. Ma, alla faccia della legge sulla trasparenza, ci siamo dovuti accontentare del silenzio, visto che la nostra richiesta via e-mail non ha avuto alcuna risposta e il sito web è in perenne stato di manutenzione-allestimento. Ma qualche notizia certa c’è. Tipo questa: alla Rocksoil dell’ex ministro delle Infrastrutture, Pietro Lunardi, oggi deputato del Pdl, sono stati affidati consistenti incarichi di progettazione per la parte geologica e geotecnica delle fondazioni. Lunardi intona il consueto ritornello: “Ho ceduto le quote societarie della Roksoil ai miei familiari e questi subappalti sono stati ottenuti quando non avevo più incarichi di governo”.

Il movimento No Ponte definisce l’operazione Stretto di Messina “un progettificio”, composto da “nomi altisonanti e da cui sono stati allontanati consulenti e tecnici che realmente conoscono il territorio e i problemi che esso può comportare. Questioni legate alla non edificabilità, di tipo sismico, idrogeologico e di funzionalità realizzativa, senza contare quelli legati all'impatto ambientale e territoriale. A cui si aggiunge un dato allarmante: per realizzare il Ponte Akashiin Giappone, il più lungo finora esistente, che non prevede, a differenza di quello sullo Stretto, il transito dei treni, sono stati impiegati dieci anni; per il nostro invece se ne prevedono solo sei, e siamo in Italia. Non solo: il nostro ponte è progettato per resistere a un terremoto di 7.2 della scala Richter (il terribile terremoto di Messina del 1908 fu del 7.1). Come dire, se abbiamo capito bene, che a 7.3 il ponte crollerebbe. Allegria.

Il collegamento non c’è, ma le spese continuano



Una storia senza fine con costi da capogiro quella che riguarda la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, che con 3.300 metri, sarebbe dovuto diventare il più lungo del mondo. Rispetto al preventivo iniziale i costi sono già lievitati da 6,3 miliardi di euro a 8 miliardi di euro. Solo dal 1971, quando venne bandito il concorso internazionale di idee, al 1981 quando venne costituita la Società Stretto di Messina, sono stati spesi 373 milioni. Dal 1981 ad oggi sono stati spesi 420 milioni di euro (900 miliardi di lire) approssimazione fatta per difetto. Basti pensare che è stato speso oltre 1 milione e 600 mila euro in pubblicità per partecipare a fiere, mostre e convegni. Addirittura il logo dello Stretto di Messina ha sponsorizzato iniziative religiose come la beatificazione di padre Annibale di Francia. Sono previsti ulteriori investimenti per oltre 110 milioni di euro per il progetto definitivo.

Scioglimento fallito.



Di Pietro disse: chiudere costa mezzo miliardo - Un’occasione per sciogliere la società Stretto di Messina la ebbe il governo Prodi nel 2007, con un emendamento al decreto fiscale collegato alla manovra finanziaria. L'emendamento, a firma dei Verdi, prevedeva la soppressione della società, al cui posto doveva essere costituita un’Agenzia per lo sviluppo logistico nell'area dello Stretto di Messina. Eliminata la società sarebbero venuti meno anche i contratti da essa stipulati: con Impregilo, l'americana Parsons advisor ingegneristico. L’emendamento fu bocciato grazie anche ai voti dell’Idv di Di Pietro, che all’epoca era ministro delle Infrastrutture. Di Pietro spiegò la sua scelta sostenendo che lo scioglimento della società sarebbe costato 500 milioni di euro in termini di penali e ricorsi. Un costo superiore ai 34 milioni di euro annui per il mantenimento della società.

Promesse B.: pronto a dicembre (scorso)

Per raccattare la fiducia in Parlamento, lo scorso fine settembre, Silvio Berlusconi promise che il progetto esecutivo del ponte sullo Stretto di Messina sarebbe stato pronto entro dicembre. L’annuncio del presidente del Consiglio, tra i cinque punti di governo, suscitò risate tra i deputati dell’opposizione che, proprio pochi giorni prima, avevano visto dirottare i fondi per la Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada che aspetta di essere completata da decenni, verso altre esigenze dello Stato. Disse Mauro Libè (Udc) in quei giorni: “Il problema del dirottamento dei fondi destinati all'ammodernamento dell'autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria, al di là degli spot e delle dichiarazioni di intenti, esiste oggettivamente. E il Cipe, su indicazione dello stesso governo, continua con i trasferimenti di risorse, come se si trattasse di un pozzo senza fondo da cui attingere liberamente”.

La Repubblica, 5 gennaio 2011

BATTISTI E LA FRANCIA

L´IGNORANZA MILITANTE

di Barbara Spinelli

La lettera più difficile, più scabrosa, Bernard-Henri Lévy avrebbe dovuta scriverla non al Presidente Lula ma, informandosi sulla storia italiana, al Presidente Napolitano. Non mi consta l´abbia fatto. Il gesto più difficile e scabroso sarebbe stato quello di visitare, oltre a Cesare Battisti, le sue vittime. Non mi consta abbia fatto neanche questo. Né che abbiano fatto cose simili Philippe Sollers, Daniel Pennac, Fred Vargas, e i tanti francesi che guardano all´Italia come a un paese di scimmie, privo di magistrati dignitosi: bellissimo e incivilissimo, diceva Stendhal.

I francesi in questione sono esteti e assai selettivi: contro la mafia o la cultura dell´illegalità dilatata da Berlusconi, mai alzano la voce.

Usiamo la parola scabroso perché letteralmente deriva da scavare, cercare sotto la superficie. Con le sue dichiarazioni giubilanti e la lettera a Lula, Lévy pensa d´aver pensato, chiude il ragionamento in un boccale come una pietanza che si riscalda di tanto in tanto. Non ha preso neppure una pala, per smuovere la terra alla maniera in cui Rilke, meditando il buio, «ascolta come la notte s´inconca e s´incava». Danza sulla superficie, imbocca le vie più facili presumendole anticonformiste. Crede di cantare fuori da un coro. Azioni del genere screditano gesti compiuti da lui e altri: in Bosnia, Cecenia, Ruanda. L´accostamento del volto di Sakineh a quello di Battisti, sul suo sito, è empietà. Mostra un´incapacità radicale a comprendere il male inflitto all´innocente. Non è il vero sofferente che interessa, quando il fascino esercitato da un assassino è così trascinante, compiaciuto. André Glucksmann, vicino a Lévy, non ha mai cantato in questo coro.

Battisti non è neppure un terrorista, per chi lo sostiene. Lévy lo chiama un «ancien enragé divenuto scrittore». Gli enragés (letteralmente: «gli arrabbiati») furono i più estremisti nella Rivoluzione francese. Philippe Sollers lo battezza «eroe rivoluzionario». Altri, citando Céline, confutano i verdetti emessi contro «un uomo senza importanza collettiva, un semplice individuo», come se la giustizia concernesse altro che l´individuo. Il solo esser divenuto scrittore lo trasfigura, l´assolve. Lo tramuta in intellò, come se il titolo bastasse per issarlo all´altezza di Zola e di chi, tra il 1895 e il 1906, difese il capitano Dreyfus.

Il fatto, sempre che i fatti contino, è che Battisti non è solo un intellò. Fu un criminale comune fino a quando per comodità si mascherò da rivoluzionario, aderendo ai Pac (Proletari Armati per il Comunismo). Scappato dal carcere, fu condannato in contumacia per aver ucciso tre uomini e concorso a un quarto omicidio, fra il ´78 e il ´79, e nei tre gradi di giudizio fu assistito da avvocati da lui istruiti. Nell´81 era fuggito a Parigi profittando della dottrina Mitterrand, abiettamente travisata. In realtà il Presidente fu chiaro, quando l´espose il 22 febbraio e il 20 aprile ´85: l´asilo offerto escludeva tassativamente «chi si era macchiato di crimini di sangue» o di «complicità evidente in vicende di sangue», e riguardava i fiancheggiatori dissociati dal terrorismo.

Gli intellettuali mobilitatisi per Battisti si immaginano eredi non solo dei dreyfusardi ma dei moralistes francesi vissuti fra il ´500 e il ´700. I moralisti non facevano la morale ma descrivevano la storta natura dell´uomo, a cominciare dalla propria, con impietosa ironia. Penso a Montaigne, La Rochefoucauld, Pascal, Vauvenargues, Chamfort. Nei pretesi loro eredi non è mancato questo sguardo spietato e anticonformista, quando hanno fustigato il proprio esser comunisti: i «nuovi filosofi» hanno capito Solženicyn assai prima degli italiani, dei tedeschi. Ma uno strabismo singolare li affligge: ben più arduo, se non impossibile, è approfondire ancor più l´esame di sé. Quando maneggiano il concetto di rivoluzionario o di intellettuale, l´acume diminuisce. Aver ghigliottinato un re è motivo immutato d´orgoglio, che li rende superiori a ogni europeo.

Anche l´universalismo, di cui i francesi si vantano, li rende ciechi ai propri limiti, incapaci di apprendere. Il loro contributo all´unione europea è un impasto di universalismo decorativo e nazionalismo effettivo. Ci sono princìpi a tal punto sacralizzati da ossificarsi e perire come stelle che per noi brillano nonostante siano morte da tempo. Molte dispute intellettuali avvengono tra francesi. Non parlano all´Europa né al mondo, verso i quali l´ignoranza è spesso abissale.

È l´ignoranza militante che provai a descrivere il 14 marzo 2004 su Le Monde, in una lettera aperta su Battisti agli amici francesi, ma si sa che le parole informative non servono quando non si vuol sapere e si vive nel performativo (basta che io dica una cosa e la cosa è, anche se contraddetta dai fatti). Quel che si vuol ignorare è come funziona la giustizia in Italia, la sua indipendenza ben più solida che in Francia, la lotta che i magistrati conducono contro la mafia, la corruzione, la politica ridotta a lucro privato. È un´ignoranza non ingenua ma attivisticamente coltivata. Ebbe forme analoghe anche nel ´68: un ´68 che i francesi, più saggi, hanno saputo frenare prima che degenerasse in terrorismo. Essendosi tuttavia fermati in tempo, nulla sanno dei suoi baratri, del valore della legalità. Non a caso parlano lo stesso linguaggio di tanti marxisti finiti con Berlusconi. Lo spirito libertario del ´68, lo hanno stravolto facendosi libertini. Il disprezzo delle istituzioni, della Costituzione, della magistratura, accomuna perversamente tanti intellettuali francesi e Berlusconi: stessi attacchi ai giudici e ai «teoremi giudiziari», stesso istinto a parlare di Battisti come di un accusato o un capro espiatorio e non di un condannato. Non stupisce che qualche mese fa Berlusconi abbia confidato a un ministro: «Battisti è un personaggio orribile, e non capisco perché dovremmo fare i salti di gioia alla prospettiva di doverlo mantenere noi per anni nelle nostre galere».

Rivolgendosi agli italiani, Lévy ci invita a «voltare la pagina degli anni di piombo», o almeno a pensarli «senza passione, con equità, evitando la terribile logica del capro espiatorio». È una solfa che gli italiani conoscono: meglio voltar le pagine del fascismo, delle stragi, di Mani Pulite, dell´omicidio di Falcone, Borsellino, delle loro eroiche scorte. Ma le pagine si voltano ricordando e facendo giustizia (la clemenza viene dopo i verdetti), altrimenti restano lì, infezione letale. Oppure le si gira e basta, come fanno gli scemi o gli arruolati dell´Ignoranza, due categorie così affini. Persino Gesù faticava, con gli stupidi. C´è un suo detto islamico, citato da Sabino Chialà, che confessa: «Gli storpi li ho guariti, i ciechi pure. Con gli stupidi non sono riuscito» (I detti islamici di Gesù, Mondadori). Di ignoranza militante e ebete non abbiamo bisogno che venga da fuori: ne abbiamo già tanta in casa. L´amalgama creatosi fra terrorismo, mafia, corruzione, sprezzo della magistratura: non è una vecchia pagina da voltare. È il presente limaccioso che viviamo.

Tutte queste vicende i francesi non le capiscono. Pur avendo compiuto la rivoluzione e chiamato ogni uomo allo stesso modo – citoyen – lo spirito di casta è tenace. Se sei un intellettuale hai speciali immunità, anche se hai ammazzato tua moglie come il filosofo Althusser. Già Tocqueville trovava intollerabile la mistura francese tra politici e letterati.

Fa parte dell´astrattezza letteraria (la più obbrobriosa forse) considerare gli ex terroristi come sconfitti, vinti dalla storia. Sconfitto è chi esce battuto essendo stato un combattente, regolare o guerrigliero, o un vero enragé. Gli si deve rispetto: con lui si ricostruirà un ordine. Gli anni di piombo non sono stati una guerra civile. Sono stati una storia criminale, come gran parte della storia italiana.

il manifesto, 6 gennaio 2022

IL CASO BATTISTI E GLI ANNI '70

Una storia per nulla criminale

di Marco Bascetta

Da giorni la politica e i media italiani stanno conferendo al "caso Battisti" un peso fuori misura. Sarebbero in gioco l'orgoglio nazionale, l'idea stessa di giustizia, la sensibilità di un intero popolo. L'immagine dell'Italia nel mondo. Indignazione ed esercizi retorici si susseguono frenetici, accuratamente evitando il piano del ragionamento. Cerchiamo allora di esaminare con qualche ordine gli aspetti più rilevanti della faccenda, estraendoli dal pentolone dell'ideologia e della propaganda in cui sono stati messi a bollire. A cominciare dal ruggito del topo emesso dalla diplomazia italiana. La quale, se dobbiamo dar credito ai La Russa e ai Frattini, sarebbe rimasta ferma ai tempi di Elena, Paride e Menelao, laddove intorno a un singolo caso si scatenava addirittura lo "scontro di civiltà". Come mai nessuno si è mai sognato di impartire alla Francia di Mitterrand o di Chirac (strapiena di esuli e fuoriusciti) lezioni di diritto e di democrazia, di minacciare boicottaggi e oscure "conseguenze" come oggi si è fatto con il Brasile di Lula? Forse perché si continua a considerare quel grande paese una realtà del "terzo mondo" cui insegnare le buone maniere? Berlusconi, cui non difetta un certo realismo, si è affrettato ad assicurare che il rapporto tra Italia e Brasile non sarà in nessun modo compromesso da questa vicenda. Chi fa affari non è incline all'autolesionismo. CONTINUA | PAGINA 6

E forse si rende anche ragionevolmente conto che l'insistenza, i giudizi irriverenti e le accanite pressioni esercitate sul governo e sulla giustizia di Brasilia avranno un effetto controproducente rispetto allo stesso scopo che esse si propongono: l'estradizione di Cesare Battisti.

Al di là del caso specifico, sbandierare l'inappuntabilità del sistema penale italiano (le cui carceri, per esempio, sono state oggetto di severi giudizi da parte di organismi internazionali) e dei processi celebrati durante e a ridosso degli anni di piombo in un clima assolutamente emergenziale, è frutto della più sfacciata malafede e di una visione nazionaltrionfalista della storia e della realtà del nostro paese. Così come non si può sorvolare sulla mancata ratifica da parte italiana di importanti trattati internazionali che riguardano diritti e garanzie in ambito penale (ne ha riferito accuratamente Mauro Palma qualche giorno fa su queste stesse pagine) e che recano invece la firma del Brasile. Qui non si tratta dell' infatuazione degli intellettuali francesi, con cui polemizza Barbara Spinelli sulla Repubblica di ieri, ma di puntuali argomentazioni tecniche e giuridiche.

La Spinelli conclude quello stesso articolo, confermandone così il vero intento, con la seguente affermazione: «Gli anni di piombo non sono stati una guerra civile. Sono stati una storia criminale». Non sono stati né l'una né l'altra cosa, come invece pensavano, su fronti opposti, le Br e la politica del compromesso storico che in nome della versione "storia criminale" decise di sacrificare Aldo Moro.

Sono stati anni di stragi oscure (su cui la nostra inappuntabile magistratura non ha mai fatto luce) e di altissima tensione sociale, di conflittualità diffusa, spesso intrecciata, è vero, con pratiche e comportamenti decisamente criminali in una matassa che non sempre è possibile districare. E nella quale, innocente o colpevole che sia, Battisti è rimasto impigliato. Da molti decenni quella stagione si è conclusa e quella matassa si è disfatta. Qualcuno vi è rimasto strangolato, qualcun altro è sgusciato tra le sue maglie, ma quel contesto, quei moventi, quei sentimenti feroci o disperati che fossero, si sono completamente estinti. Di certo le tre funzioni che uno stato democratico dovrebbe attribuire alla pena detentiva (impedire la reiterazione del reato, rieducare, fungere da deterrente) nella lunga distanza che ci separa dagli "anni di piombo" da un pezzo non sono più operative. Resta la questione della Giustizia o del "sentimento di giustizia", ma è una questione ben più grande e importante di quanto un caso singolo possa incarnare, che la cattura o la latitanza di un colpevole appena sfiora. E che ben poco ha a che vedere, soprattutto, con la grancassa propagandistica e la criminalizzazione indiscriminata di un intero pezzo di storia italiana che intorno all'estradizione di Battisti sono state montate. Della quale, fatta eccezione per i parenti delle vittime (il cui dolore però non è in alcun ordinamento un criterio giuridico), non credo importi molto a nessuno, una volta sventolata a sufficienza la bandiera della legge, dell'ordine e dell'orgoglio nazionale.

La prima legge speciale per Venezia ebbe una storia. La storia della nuova legge speciale, ammesso che serva, rischia di diventare una farsa. Quella volta, quando impiegarono sette anni, dal 1966 al 1973, per fare la prima legge speciale, servì tanto tempo perché il lavoro da fare per stenderne il testo fu titanico. Interminabili riunioni a ogni livello, incontri e scontri, polemiche e baruffe, trattative e mediazioni. Il risultato fu un compromesso. Ma dignitoso. Quella legge, comunque la si giudichi, fu costruita con l’apporto positivo di tutte le forze politiche, con il consenso dei tre maggiori partiti di allora di maggioranza e di opposizione, la Dc, il Psi, il Pci, e con un grande lavoro di squadra dei parlamentari veneziani. Sarà che a quell’epoca erano all’opera, nei vari schieramenti, intelligenze tali da far impallidire i molti sprovveduti di oggidì, fatto sta che di questi tempi sembra proprio impossibile si possa ripetere, intorno alla nuova legge, un percorso virtuoso come quello di allora.

Il grande dibattito pubblico di quarant’anni fa si è ridotto a un chiacchiericcio da osteria. Nei casi migliori, da salotto. La gran parte dei veneziani sembra indifferente quando non anche rassegnata. Comunque sempre incazzata. Con tutti. E le proposte che vengono fuori, pure lodevoli nelle intenzioni, sembrano più iniziative isolate, partorite da conventicole ristrette, orfane di un vero confronto cittadino. E nessun accordo politico si intravede all’orizzonte. Anche perché non è obiettivamente facile dialogare con questa maggioranza di governo.

Così accade che un ministrino fantuttone si scrive la sua leggina da solo, un compitino modesto che non accontenta nessuno. Un altro partito di governo tenta di farsi la sua chiedendo consigli al popolo di Internet. E il maggiore partito di opposizione non solo non riesce a predisporre un testo alternativo condiviso, ma si mette a litigare con alcuni dei suoi che almeno ci hanno provato, e una leggina, buona o cattiva, per conto loro l’hanno scritta. Poi un altro gruppetto di parlamentari dello stesso partito si scrive la sua di leggina. E altri, nella gran confusione mentale, faranno lo stesso.

Si capisce, da queste incoraggianti premesse, che sarà molto problematico, quasi chimerico, il varo di una nuova legge speciale, anche qualunque. Sempre ammesso, come si diceva, che una nuova legge speciale sia davvero utile. Ammesso, e non concesso, che sia stata davvero utile la prima, quella che definiva il caso-Venezia «di preminente interesse nazionale», e che fissava due obiettivi strategici: la salvaguardia fisica dal pericolo di nuove alluvioni, e la rivitalizzazione del tessuto socio-economico della città. Il primo obiettivo non è stato ancora raggiunto, il secondo è fallito. Peggio: al posto della «rivitalizzazione» è subentrata la «devitalizzazione».

Chissà di quale bacchetta magica avrà bisogno la nuova legge speciale per fare meglio della prima. Ma forse bastano i soldi. Forse conta più avere i soldi che raggiungere degli obiettivi. Dove vadano poi a finire, i soldi, e per fare che cosa, è un altro discorso. Intanto dateci i soldi, chiedono tutti, dateci leggi e poteri speciali.

Una legge speciale la chiede anche Firenze, lei non l’aveva avuta dopo l’alluvione, poverina, adesso gliel’ha promessa anche il premier. E i soldini speciali li ha chiesti e ottenuti anche Roma, perché è Capitale, s’intende. Ma ne avrà bisogno anche Milano, che ha l’Expo, Napoli che ha i rifiuti, Torino che ha la Fiat, Bologna che ha i tortellini e Palermo che ha il mare. Nessuno, da Nord a Sud, vuole rinunciare alla sua pretesa di essere «speciale». Come non vogliono rinunciarci le regioni a statuto speciale, anche se sarebbe il tempo di chiedersi se hanno ancora un senso, invece di incoraggiare le spinte di quei paesi e città, adesso anche intere province, che per nobili motivi economici chiedono di traslocare dalle regioni «normali» a quelle «speciali». Non sarebbe male finirla con queste specialità più presunte che vere. False, in buona parte. False come le «specialità veneziane» fabbricate a Taiwan che si vendono sui banchetti della città che fu Serenissima.

Forse sarebbe meglio concentrarsi nel fare vecchie cose «normali» anziché sognare nuove leggi speciali. Anche perché l’unica «specialità» rimasta a Venezia sono quei ventidue milioni di girovaghi che ingrassano osti e locandiere.

Già lo hanno promosso sul campo come l'uomo dell'anno. Eppure Marchionne ha solo recuperato un'idea vecchia, quella del puro e semplice ritorno alla percezione del plusvalore assoluto (prolungamento del tempo di lavoro, maggiore sfruttamento). L'amministratore delegato viene santificato proprio perché intende rinunciare al terreno più avanzato di competizione (la percezione di plusvalore relativo grazie all'impiego di sapere, all'uso dell'innovazione tecnica, all'ampliamento del capitale costante) scelto dal capitale nel '900 e recupera la abbagliante pretesa di comprimere i costi del lavoro ogni volta che le cose vanno male all'impresa.

Più che una strategia accorta in grado di ridare fiato a un'azienda che rotola in grande affanno nei mercati globali, si vede solo una pigra e costosa ossessione ideologica (dare comunque addosso al lavoro) che di sicuro non porterà molto lontano lo stabilimento torinese nel recupero di posizioni nelle vendite. Non è con il ripristino della sussunzione formale del lavoro al capitale (inasprimento del potere disciplinare, limitazioni della rappresentanza) che si assicura il ritrovamento di margini di profitto da parte di un'azienda malandata. Con l'accantonamento miope della tendenza storica verso la sussunzione reale del lavoro al capitale (con più diritti, consumi e consenso) si intraprende solo una soluzione regressiva e in definitiva di corto respiro: il ricatto di una non scelta tra chiusura e rinuncia a tutele.

Il problema colossale della Fiat peraltro non sembra affatto essere quello di produrre poco a causa di una elevata conflittualità ma semmai quello di piazzare molto poco di quanto sfornato con una certa facilità dagli stabilimenti dispersi in mezzo mondo. Si registra oggi per la Fiat un impressionante 26 per cento in meno nelle immatricolazioni rispetto allo scorso anno. Il costo del lavoro e la cancellazione dei diritti c'entrano ben poco quali ostacoli per inserirsi nel gioco globale se il nodo autentico del marchio torinese è quello non riuscire a vendere bene il suo prodotto. Anche per la Fiat si tratta di uscire da una classica crisi di sovrapproduzione che contrae la domanda e la propensione al consumo una volta che del tutto esauriti appaiono i ritrovati magici delle carte di credito, ed esangui si rivelano i palliativi delle furberie finanziarie. E invece di rispondere a questo tema (come garantire al lavoro un margine più ampio di consumo) si cercano delle inutili scappatoie.

Il problema odierno del capitalismo, e quindi di riflesso della Fiat, è di avere dinanzi una forza lavoro troppo impoverita per potersi permettere il lusso di acquistare macchine costose (un'auto di media cilindrata costa quanto un salario annuale di un lavoratore; a un giovane precario una utilitaria spreme almeno due anni di lavoro) e non affatto satolla per i diritti eccessivi che l'hanno resa pigra e soddisfatta. La domanda interna, drogata negli anni più recenti con il facile accesso al credito al consumo che suppliva alla perdita drastica di potere di acquisto reale dei salari, non cresce (non può), e le macchine restano del tutto invendute negli autosaloni. Chi in questi anni ha vinto - la piccola impresa, il commercio, il lavoro autonomo - non compra utilitarie, orienta su altri marchi e beni posizionali le proprie scelte di consumo.

La grande stampa plaude unanime alle mosse di Marchionne e alimenta la credenza che dalla sua profonda crisi strategica la Fiat uscirà solo se gli operai staranno in fabbrica con qualche pausa in meno, con diritti affievoliti e magari trattenendo i bisogni fisiologici nell'arco della giornata. Tanto rumore per nulla. Le decantate idee nuove del novello uomo dell'anno non rivelano alcuna cultura dell'innovazione in grado di ridare linfa a una grande azienda inginocchiata. La cura Marchionne è, per la ripresa di competitività, un'aspirina ridicola dinanzi a una malattia mortale. Di rilevante essa ha solo il truce volto politico di chi propone lo scambio indecente tra (pochi) investimenti e (residui) diritti.

Non ci vuole molto a conquistare i gradi di campione della modernizzazione in questo neocapitalismo che ha un volto antico. Troppo antico per non provocare sciagure. Marchionne piace al pensiero unico di oggi non perché in effetti sia un geniale manager dell'innovazione di processo e di prodotto, ma perché è un politico maldestro che stuzzica gli appetiti inconfessabili del capitalismo d'ogni tempo: abolire i diritti e però non tollerare alcun conflitto nella società e nella fabbrica. Se riuscirà a fare questo, cioè a ridurre il lavoratore a pura corporeità che vende le sue energie fisiche a un prezzo sempre inferiore senza però trovare alcun intralcio nella resistenza della forza lavoro organizzata, il manager con il maglione blu altro che uomo dell'anno, sarebbe l'uomo della provvidenza che dispensa miracoli mai riusciti a nessun capitano d'industria. Purtroppo non è così, non si ha pace su una polveriera. Il disagio di ceti senza più speranza diventa una cieca rivolta e non grande conflitto, impossibile quando il lavoro non trova più i suoi referenti politici.

Quella che si ostinano a chiamare sfida estrema all'insegna della modernità in realtà è solo una banale ricetta che suggerisce di lavorare per più tempo, con meno diritti. La grande impresa, con la ricetta Marchionne, cessa di essere un luogo di relativo rispetto del ruolo del sindacato per inseguire il modello sociale arcaico imposto dai padroncini con i loro migranti spremuti e acquistati a buon mercato. Il manager con il maglione blu, che in un solo giorno guadagna quanto incassa un suo operaio in due anni di lavoro, non inventa nulla, copia i rudi padroncini che tengono i sindacati al di fuori dei loro oscuri capannoni. Per questo piace. E' il simbolo della grande impresa che, a corto di idee e di strategie efficaci, viene inghiottita dallo spirito selvaggio del piccolo padrone.

C'è scarsa creatività e audacia in tutto ciò. La porzione di capitale che in questi anni ha scrutato con una qualche diffidenza il poco elegante berlusconismo, sotto la regia di Marchionne, sta ricollocandosi ed è destinata a confluire nel blocco sociale della democrazia populista che ha schiantato le capacità innovative della società italiana. Condividono il declassamento definitivo dell'Italia a paese semi periferico destinato a bassi salari e a una scarna civiltà del diritto nel lavoro. Grande impresa, finanza e microcapitalismo stanno imponendo un nuovo modello di società a diritti impoveriti. Dev'essere così ovunque. Nelle fabbriche come negli uffici pubblici, nei laboratori artigiani come nelle scuole, nei capannoni del micro capitalismo territoriale come nelle università e nei centri di ricerca. L'innovazione significa precarietà, discesa (drammatica per i più giovani) dei salari ai livelli minimi della mera riproduzione fisica della forza lavoro. Ma l'Italia è già da anni agli ultimi posti al mondo per i salari, oltre c'è solo il precipizio.

Il miraggio cinese che attira l'amministratore delegato della Fiat è una follia improponibile. Con i salari di Pechino ci vorrebbero più di 30 anni di lavoro per comprare una punto. Il progetto Marchionne è in realtà una propaganda ideologica, non una terapia d'urto in grado di portare l'azienda fuori della sua crisi strutturale. Con il suo populismo padronale incasserà un successo politico ma non imprimerà alcuna svolta alle relazioni industriali. E per questo l'uomo dell'anno è per intero nel declino, non è una alternativa alla triste decadenza italiana. Marchionne insomma non è un grande manager consapevole dei ferrei imperativi del tempo globale, è piuttosto un piccolo ideologo politico che insegue i mulini a vento dell'umiliazione del lavoro e delle sue rappresentanze. Di crescita neanche a parlarne.

Poniamo il caso che all’alba di una giornata grigia qualche ignoto malfattore apra i collettori di collegamento di tre cisterne di un deposito in una ex raffineria a Villasanta, nei pressi di Monza. Poniamo il caso che circa 10 milioni di litri di gasolio e di olio combustibile fuoriescano e che una parte finisca nel Lambro, fiume fraterno di tutti i lombardi e già dal 1987 definito “zona ad alto rischio ambientale”. E, ancora, supponiamo che questi olii inquinanti arrivino al Po, il più grande fiume italiano, patrimonio ambientale, economico, culturale senza paragoni possibili. A questo punto si pongono alcune questioni: chi deve intervenire, chi decide, chi governa il fiume prima e dopo? Questa volta i disastri originati in Brianza sono stati contenuti, la marea nera si è fermata all’isola Serafini, tra Piacenza e Cremona. Anche Bertolaso, senza massaggiatrice, ha fatto la sua figura in tv.

Ma il problema rimane. Per semplificare il caso si può usare una battuta del presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani: «Il Po se ne frega del federalismo e delle nostre alchimie amministrative». La questione centrale per il nostro amato fiume, posta anche in un bel convegno del pd svoltosi a Mantova nei giorni scorsi con l’intervento di Pierluigi Bersani, è quella della governance, come si direbbe in azienda, o più semplicemente della gestione del potere sul fiume. Il governo del Po è qualche cosa di assai complicato e delicato. Per alcuni numeri. Il Po è il più grande bacino idrografico con un’estensione di 70mila chilometri quadrati e un’area di pianura di 46mila chilometri quadrati. Il bacino del fiume interessa otto regioni italiane. Ci sono 16 milioni di abitanti direttamente interessati alla vita di questo maestoso corso d’acqua che alimenta il 37% dell’industria nazionale e il 47% dei posti di lavoro. Gli allevamenti di bestiame sono di 4milioni di bovini e circa5 milioni di suini, tre sole regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna) coprono il 55% dell’intero patrimonio zootecnico nazionale.

In più il Po è la nostra storia, la cultura, la letteratura, il cinema, la vita di milioni di cittadini. Zavattini e Bertolucci, Soldati e Brera e tanti altri a cantare questo fiume che potrebbe essere il protagonista, se fossimo capaci e rispettosi, di un formidabile progetto di sviluppo di green economy. La Direttiva europea sulle acque (2000/60) ha dato un’indicazione chiara ai governi nazionali in tema di qualità delle acque, di conservazione, di partecipazione dei cittadini, prevedendo inoltre la nascita del “distretto idrografico” come strumento di governo dei fiumi. Ma, naturalmente, noi siamo in ritardo. Alessandro Bratti, originario di Ferrara, parlamentare pd nella commissione Ambiente della Camera spiega: «Il governo unitario del Po è indispensabile. La visione e la governance condivise possono stare solo in un soggetto che oggi è l’Autorità di bacino e domani sarà l’Autorità di distretto, sede di cooperazione tra stato e regioni. Il ritardo del governo nell’applicazione della direttiva e nella nascita dei distretti pesa nelle difficoltà di gestione delle politiche ambientali sul bacino padano e su tutto il territorio».

A proposito di padani. Vi ricordate Umberto Bossi che raccoglie con l’ampolla l’acqua sorgente del Po e il giorno dopo la versa a Venezia mentre le bandiere verdi garriscono al vento? Bene, al netto di questa sceneggiata, la Lega, che dovrebbe avere a cuore più di altri le sorti del fiume padano, è una delle responsabili dei grandi pasticci che si combinano in nome, e alle spalle, del Po. Nel 2007, proprio sulla base della Direttiva europea, il governo Prodi decise di stanziare 180 milioni di euro per sostenere il progetto «Valle del fiume Po», nato dal basso, dalle amministrazioni locali e di cui oggi si fa interprete il presidente della provincia di Parma, Vincenzo Bernazzoli: «Il nostro piano prevedeva la realizzazione di interventi per la sicurezza, per la valorizzazione naturalistica, turistico-ambientale del fiume che sono un importante contributo all’economia, soprattutto in una fase difficile ». Niente grandi opere e follie berlusconiane, ma interventi razionali, rispettosi dell’ambiente. Ma caduto Prodi e ritornato Berlusconi con i sodali leghisti i soldi sono scomparsi. Che fine hanno fatto i 180 milioni? Conil voto della Lega sono finiti nel calderone dei fondi anti-crisi e hanno finanziato pure una società in dissesto del comune di Palermo, poi fallita.

Mail peggio per il Po deve ancora venire, considerata la visione leghista. La destra, la Lega e in particolare la regione Lombardia hanno in mente un piano di «bacinizzazione», una brutta parola che in realtà significa lo sfruttamento industriale delle acque per la produzione di energia con la costruzione di quattro centrali e il coinvolgimento di ingenti capitali privati. «Il piano della Lombardia è pericoloso» spiega Stella Bianchi, responsabile ambiente della segreteria nazionale pd, «si tratta di quattro traverse da realizzare tra Cremona e la foce del Mincio con l’avvio di altrettante centrali idroelettriche, un progetto molto costoso, previsto per l’Expo 2015, quindi con il rischio di procedure veloci e semplificate, che si basa sullo sfruttamento intensivo e contrasta con la necessità di governare unitariamente, di rispettare il Po, il suo equilibrio, di prevenire l’avanzamento del cuneo salino».

In questo contesto, mentre i problemi di inquinamento, di variazioni climatiche, di alghe sono all’ordine del giorno, la difesa del fiume appare, com’è accaduto nella storia, legata ai suoi cittadini. Giuseppe Gavioli, 75 anni, già amministratore, ex assessore dell’Emilia Romagna, è una memoria storica del fiume. Gli italiani amano il Po? Risponde: «Quelli che lo vivono lo amano moltissimo perchè il fiume lega la gente, la spinge a stare insieme, a creare una comunità solidale. Quelli che stanno lontano, invece, lo sfruttano, come gli inquinatori di Milano»

Se le vacanze sono fatte per guardarsi intorno, anche quest’anno chi ha percorso o in su o in giù l’Italia non può che aver tratto sconsolanti conclusioni. La devastazione del territorio continua e si è ormai spinta a un livello tale da farmi pensare che essa sarà ricordata anche tra molti secoli come il documento più buio della realtà italiana di questo dopoguerra. Per sempre, di generazione in generazione, il nostro paesaggio è stato abbellito dalle mani dell’uomo per decadere in modo forse inesorabile nelle ultime due generazioni.

Non solo le periferie sono quasi ovunque in uno stato avvilente, ma tutte le nostre pianure, la fascia pedemontana delle Alpi e degli Appennini e migliaia di chilometri delle nostre coste hanno perso la loro identità e la possibilità di offrire condizioni di vita decente ai loro abitanti.

Non parliamo della crescita inarrestabile delle aree industriali che continuano ad espandersi nonostante il grande numero di capannoni mai utilizzati o abbandonati a causa della crisi o delle mutate caratteristiche delle strutture produttive. Non parliamo nemmeno del danno all’agricoltura per effetto di un’urbanizzazione che non tiene in minimo conto le vocazioni del suolo.

L’azione combinata di speculazione e incultura, rafforzata ed esaltata dalla forza del bulldozer, stanno veramente ferendo a morte l’Italia. Ci vorranno secoli per rimediare, ammesso che sia possibile.

Debbo tuttavia constatare che, nonostante tutto questo sia pienamente conosciuto e riconosciuto, sono state progressivamente create le condizioni per cui le amministrazioni locali sono sempre più costrette, da una legislazione incoerente, a sostenere i propri bilanci con i proventi degli oneri di urbanizzazione, aumentando ancora la devastazione del territorio.

Sono cioè gli stessi comuni che, in molti casi, sono obbligati a reperire una parte sostanziosa delle proprie entrate attraverso una politica di urbanizzazione forzata e molto spesso inutile. Per tenere aperto l’asilo nido sono costretti a moltiplicare le concessioni edilizie.

Da tempo si sente la necessità di cambiare strada e di adottare leggi per fermare questo processo devastante. Tuttavia, come spesso avviene in questi casi, l’interesse politico di breve periodo finisce col prevalere rispetto al bene presente e futuro dell’Italia. L’ultimo grande esempio di questa schizofrenia fra interessi del Paese e obiettivi a breve termine della classe politica è il ben noto caso dell’abolizione dell’Ici su tutte le prime case.

Sappiamo che il togliere una tassa trova sempre il favore degli elettori, soprattutto quando si tratta di un’imposta su un bene così caro ed essenziale come la casa.

Tutti però sanno altrettanto bene che questa imposta (da cui possono essere facilmente esentati i più bisognosi) è in tutto il mondo lo strumento per reperire le risorse necessarie a fornire i beni e i servizi che servono a rendere vivibile una città e quindi anche a conservare nel tempo il valore della casa. In termini concreti essa, più che una tassa, è il contributo necessario per mantenere nel futuro il valore della casa.

A questo si aggiunge il fatto che il tributo da pagare sui beni immobili è ovunque nel mondo lo strumento principale per la necessaria autonomia degli enti locali. Per usare un gergo ora di moda è ovunque la base del federalismo fiscale.

Assume quindi un aspetto quasi grottesco vedere che, mentre il Paese naviga in un dibattito astratto e senza fine sul federalismo, si sostituisce l’imposta che di tutte è più legata al territorio con un parziale e incompleto trasferimento di risorse dallo Stato centrale. Il che significa togliere autonomia ai comuni e, ovviamente, aumentare altre imposte, meno visibili ma più pesanti per il futuro economico e sociale dell’Italia.

Per non parlare del modo con cui i trasferimenti in pratica avvengono, premiando i comuni con i deficit maggiori e punendo coloro che avevano attuato una politica più saggia.

Non voglio a questo punto soffermarmi su aspetti troppo tecnici del problema ma ritornare alla constatazione precedente che, attuando una politica attenta alle esigenze di lungo periodo del Paese, si perdono le elezioni mentre, con una politica sbagliata ma demagogica, le elezioni si vincono.

Il che, tradotto in linguaggio popolare, significherebbe che la democrazia si preserva solo facendo porcherie o, comunque, andando contro il sano sviluppo della nostra comunità.

Questo processo è stato negli ultimi tempi accelerato dal crescente ruolo dei sondaggi di opinione. Essi infatti sono per definizione più attenti alle emozioni del momento che non all’analisi degli interessi futuri di tutti noi. La politica del territorio è solo un esempio. Esso può essere facilmente esteso a tutti i settori della nostra realtà politica e sociale.

Da queste constatazioni non traggo elementi di disperazione per la nostra democrazia perché il sistema democratico, con tutti i limiti elencati in precedenza, è l’unico capace di correggersi e di cambiare. A condizione che il cittadino venga posto di fronte a scelte alternative organiche e coerenti. La presente crisi economica e la diffusa percezione del livello di deterioramento raggiunto dal nostro Paese rendono le orecchie, i cuori e perfino i portafogli degli elettori molto più attenti ad ascoltare ed accogliere nuove proposte. Esse debbono però essere organiche e credibili. Ma soprattutto occorre che siano forti e coraggiose proprio perché, al punto in cui siamo arrivati, debbono essere in grado di scomporre e ricomporre l’elettorato in modo comprensibile e coerente.

È chiaro che in democrazia questo pesante compito spetta soprattutto al partito di opposizione. Per questo motivo gli italiani si aspettano dai leaders del partito democratico non tanto delle proposte e dei programmi per vincere il congresso ma per risolvere i problemi secolari dell’Italia.

P.S. A proposito di riflessioni estive, passeggiando in bicicletta per l’Appennino tosco-emiliano, ho ancora una volta visivamente constatato la differenza tra il buon governo e il cattivo governo. Nonostante siano passati centocinquant’anni dall’unità d’Italia e siano stati cambiati i confini regionali, è ancor’oggi possibile leggere i confini di allora dalla natura del bosco. Alto, ordinato e rigoglioso il bosco toscano del granduca. Soprattutto ceduo e selvatico il bosco emiliano dello stato pontificio. Anche gli effetti del buon governo durano nei secoli.

L’ITALIA SVENTRATA E SVENDUTA

Duecento metri di verde distrutti ogni minuto

di Giuseppe Salvaggiulo

Lo spettacolo è agghiacciante e non si dimentica: un’intera montagna sventrata. Si apre ogni giorno davanti agli occhi degli automobilisti che percorrono l’Autostrada del Sole, all’altezza del casello Caserta Nord. È l’immagine di un paese che deturpa il suo paesaggio, disseminandolo di migliaia cave, e soprattutto lo svende, concedendo concessioni a canoni irrisori, se non gratis. Oltre al danno ambientale, quello economico. Per la prima volta fotografato da un dossier di Legambiente, che quantifica in 500 milioni di euro i quattrini che Stato e Regioni rinunciano a incassare «regalando» il territorio.

Di cave si parla pochissimo, in Italia. Eppure si tratta di un settore che muove 5 miliardi di euro per il solo indotto creato dagli inerti usati nell’edilizia. E suscita appetiti non solo imprenditoriali, ma anche criminali. Le cave attive su tutto il territorio sono poco meno di 6 mila, circa 10 mila quelle dismesse. In tutto, dunque, si arriva a 16 mila: una media di due cave per ogni Comune.

E continuano ad aumentare. Il motivo è semplice: attivare una cava richiede una semplice autorizzazione e costa poco. «I canoni di concessione - scrive Legambiente - risultano a dir poco scandalosi. In media, infatti, nelle regioni si paga il 4 per cento del prezzo di vendita degli inerti. Ancor più assurda è la situazione delle regioni dove si cava addirittura gratis, come in Valle d’Aosta, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna».

Le amministrazioni pubbliche incassano ogni anno dai canoni di concessione la miseria di 53 milioni di euro, a fronte di ricavi per le imprese di 1,7 miliardi di euro. Se l’Italia applicasse le regole della Gran Bretagna, per esempio, incasserebbe ogni anno 567 milioni di euro. Mezzo miliardo in più.

Ma l’Italia non è la Gran Bretagna. E nemmeno la Francia, la Germania e un po’ tutta l’Europa, che segue un’altra strada: incentivare il riciclo dei materiali degli edifici demoliti per ridurre l’impatto sul territorio di cave e discariche. Per farlo basta imporre limiti e canoni più robusti ai cavatori e rendere più costoso lo smaltimento dei rifiuti inerti in discarica. A quel punto le imprese scoprono che conviene riciclare e lo fanno.

La Danimarca ci lavora da vent’anni e oggi vanta il record del 90 per cento di materiale edilizio riciclato. Olanda e Belgio sono all’80 per cento. La Gran Bretagna ha svoltato sette anni fa e oggi ricicla il 50 per cento. La Svezia ha triplicato il canone sulle cave negli ultimi dieci anni. La Repubblica Ceca ha aggiunto un’imposta calcolata sul territorio occupato, in funzione del danno ambientale.

Noi no. Noi non ci pensiamo nemmeno: incentiviamo con canoni bassi sia le cave che le discariche, riciclando meno del 10 per cento. Doppio danno ambientale, doppio spreco economico. «A Roma si sta scavando per la nuova linea della metropolitana, ma tutto quel materiale finisce in discarica», spiega Edoardo Zanchini di Legambiente, autore della ricerca. Solo la Valle d’Aosta ha cominciato a sperimentare la via europea.

Che questi temi interessino poco alla politica, è dimostrato dal fatto che la normativa nazionale di riferimento risale al 1927, in pieno regime fascista. Mezzo secolo dopo quel regio decreto, i poteri furono trasferiti alle Regioni. E infatti oggi il ministero dell’Ambiente fa sapere che la responsabilità è tutta loro.

Il bilancio è sconfortante: un censimento ufficiale delle cave non esiste. In nove regioni non esistono i piani per stabilire dove scavare e dove no. I dati sono aggiornati con fatica e mancano i controlli sulle estrazioni effettive (necessari per calcolare i canoni da pagare). La Calabria, in trent’anni, non è riuscita ad approvare una legge, legittimando l’anarchia dei Comune.

Il fatto che le regioni meno virtuose siano quelle meridionali non è un caso. «Il controllo delle organizzazioni mafiose è totale», sostiene Zanchini. In Campania, dove un piano ancora non c’è, la quantità di materiale estratto legalmente è tra le più basse d’Italia, perché la camorra fa da sé. Solo nelle province di Napoli e Caserta, si stimano più di mille cave abusive. I boss prima le aprono e poi, quando non servono più, le riempiono di rifiuti.

MICHELANGELO NON C’ENTRA L’ECOMAFIA SÌ

di Mario Tozzi

L’Italia è uno dei Paesi europei più sforacchiato dalle cave, primo strumento della devastazione ambientale. Non solo è molto facile aprirne di nuove, ma nessuno si preoccupa di ripristinarle una volta finita la coltivazione. In altri Paesi si usa obbligare chi vuole aprire una cava a lasciare in fideiussione il denaro sufficiente per poterla ripristinare, qui spesso prima della fine della concessione le cave vengono abbandonate: lo scempio ambientale resta e nessuno può porre riparo.

Si cava soprattutto per il cemento ma anche per la polvere del marmo. È il caso delle Alpi Apuane, uno dei luoghi più incontaminati e straordinari d’Italia, sforacchiato da quasi 300 cave che non servono più a produrre i marmi monumentali della Pietà di Michelangelo o dei romani antichi, ma solo polvere di marmo usata come sbiancante o additivo, dunque non più per un uso monumentale.

Una nuova cava significa strade, camion, inquinamento atmosferico, polveri sottili, rumore. Inoltre spesso la cava è il primo passo dell’ecomafia dei rifiuti: se ne apre una abusiva, ci si fa cemento. Nel buco si interrano i rifiuti tossici speciali. Sopra, una volta ricoperto con la terra, ci si fanno i pomodori.

La legislazione è carente e non comporta obblighi ambientali. Servirebbero nuove norme uguali per tutto il territorio, ricordando che i giacimenti minerari e le rocce sono patrimonio della nazione.

LA GIORNATA DEI PARCHI

Ecco chi ci guadagna nell’Italia sventrata e svenduta.Il campus

«Le aree protette sono un’importante realtà che nel nostro Paese ha permesso la conservazione della natura nell’undici per cento del territorio». In occasione della Giornata europea dei parchi che si celebra oggi, il Wwf festeggerà in Abruzzo ospitando, in collaborazione con la Croce Rossa, i ragazzi delle tendopoli dell’Aquila. Molte oasi del Wwf in questi giorni sono diventate luogo d’accoglienza per chi ha subito il terremoto, come a Penne, trasformata in campus per gli studenti di Scienze ambientali.

Scempio continuo

Per il Wwf i parchi «sono sia un presidio contro le aggressioni del cemento (in Italia si consumano 200 mq di territorio al minuto) sia una garanzia per le generazioni future». Ma soprattutto «in assenza di un piano nazionale sulla Biodiversità, le aree protette rappresentano il solo presidio per la tutela della diversità biologica, come chiesto dalle convenzioni internazionali».

L'icona nel sommario è tratta dal blog caiazzorinasce, e rappresenta una manifestazione che contrasta insieme i due sfruttamenti del territorio

Saliva la mota giovedì dalle caditoie - così si chiamano i tubi - e dai tombini non solo alla Stazione Tiburtina, ma anche a piazza Ungheria, dove i pariolini, quando non piove, gustano i migliori arancini di riso di Roma. E mentre la capitale andava sott’acqua, otturata dalle foglie lasciate marcire e dai sampietrini divelti in uno scenario fognario degno di Lagos, Nigeria, Heinz Beck, superchef della «Pergola», il miglior ristorante d’Italia arrampicato sulla cima di Monte Mario, sfornava a Napoli le sue «opere» per la «meglio borghesia» partenopea. Accolta in via Cristoforo Colombo da un elegante guardiaporta in livrea color nocciola, tra fontane verticali, camini nereggianti, pianoforti rosseggianti, e armature da samurai, opera dello studio Kenzo Tange.

È l’inaugurazione, se vogliamo di gusto un po’ kitsch, dell’Hotel Romeo, cinque stelle lusso, 12 piani, 83 camere, 17 suite con pareti di cristallo e piscina a sfioro sul tetto. L’hotel non è dedicato a Romeo, il mitico gatto del Colosseo, ma alla volpe di Posillipo, dove essa abita in un palazzo di sei piani con prato degradante verso il mare, pur se lievemente infastidita da un piccolo decreto di sequestro per abuso edilizio e una violazione dei sigilli.

Al secolo, la volpe è Alfredo Romeo, 55 anni, titolare della Global Service, che gestisce il patrimonio immobiliare del comune di Napoli e tanti altri patrimoni pubblici a Roma, Milano, Firenze, Venezia, per conto dell’Inps, dell’Inpdai, dei ministeri dell’Economia, dell’Interno, della Difesa, persino per il Consiglio di Stato e per il Quirinale. Un patrimonio amministrato di almeno 48 miliardi di euro, sulla cui redditività la Corte dei Conti - non c’è voce in Italia più inutile - ha espresso fiere critiche.

Primo contribuente di Napoli, Romeo ha il sogno di gestire intere città, compresi i cimiteri, dove il flusso di clienti è inarrestabile. Ha cominciato dalle strade, in testa quelle di Roma, coperte giovedì scorso da tonnellate di mota maleodorante che ha otturato per un giorno i milioni di buche su cui quotidianamente si sfrangono le centinaia di migliaia di centaurini in motorino della Capitale. Conquistò a suo tempo, con le amministrazioni di centrosinistra, insieme a Francesco Gaetano Caltagirone, senza il quale a Roma e a Napoli non si muoveva foglia, un appalto di 64 milioni l’anno per nove anni per la manutenzione delle strade romane. Totale 576 milioni per 800 chilometri, cioè 80 mila euro a chilometro ogni anno, contro i 5 mila e cinquecento euro a chilometro che per lo stesso lavoro spende il comune di Bologna, con risultati che difficilmente possono risultare peggiori rispetto a quelli dei tombini che scoppiano alle prime piogge. Utili in tre anni della volpe di Posillipo: 75 milioni su un fatturato di 130. Che poteva fare il nuovo sindaco di Roma Gianni Alemanno, che pure non sembra affatto eccellere nella gestione quotidiana di una metropoli come Roma, se non disdire il contratto con il re partenopeo delle buche, prima ancora che gli elementi complottassero contro la mancata ma salatissima manutenzione? «Magnanapoli»: si chiama così l’inchiesta che scuote, tra le tante, palazzo San Giacomo e che - guarda un po’ - ha al centro Alfredo Romeo, con l’appalto da 400 milioni per la strade partenopee, che, pur senza mai essere andato in gara, è lo scandalo presunto che ha reso negli ultimi giorni invivibile un clima già torbido, come se incombesse il giudizio universale, dopo il suicidio di Giorgio Nugnes e le dimissioni dell’assessore al Bilancio Enrico Cardillo.

Sono passati giusto quindici anni, ma forse qualcuno ancora ricorda chi è quell’Alfredo Romeo che oggi inaugura il suo albergo argenteo a cinque stelle lusso con una cena di Beck nella sala denominata «Il Comandante», in onore di Achille Lauro, che di quel palazzo e di Napoli tutta fu padrone prima che ne prendessero possesso la «Corrente del Golfo» e l’«Intepartitico», secondo la definizione dell’ex assessore democristiano Diego Tesorone. Cioè la cupola politico-affaristica trasversale, destra-sinistra, che oggi sembra essersi riprodotta, secondo il collaudato schema di allora.

Proprio Romeo, l’uomo dei lussi di Kenzo Tange, il Creso di Posillipo cui nessun politico sa dire di no, è il passato che ritorna. Correva il 1993, l’era di Mani Pulite, quando il giovane avvocato immobiliarista, oggi ricchissimo padrone bipartisan delle città, raccontò tutto ai magistrati: «I politici mi saltavano addosso come cavallette, volevano soldi, io sono una vittima, non un complice», narrava quasi piangente a quelli che volevano ingabbiarlo. Straordinario il racconto dell’incontro della presunta «vittima» con Elio Vito, che gli fu presentato dall’assessore democristiano al patrimonio Vincenzo De Michele.

Vito era noto come «Mister Centomila Preferenze» e - per sua ammissione - fu il collettore democristiano della Tangentopoli napoletana. Da una tangente del 2 per cento, per la quale alzava l’indice e il medio di fronte all’interlocutore che doveva pagare, riusciva a salire per un qualsiasi appalto fino al 7 e mezzo per cento, o, nei casi peggiori per lui e per i partiti della Cupola, al cinque. Proprio mentre a Milano Antonio Di Pietro ingabbiava i primi di Mani Pulite. Si è beccato due anni e sei mesi Romeo, ma poi è andato prescritto in Cassazione e, con pazienza e abilità, è diventato il perno del nuovo accordo politico-affaristico trasversale che governa Napoli con buona pace di Rosetta Iervolino e di Antonio Bassolino. Ha domato costosamente le cavallette di tutte le parti, se non con le mazzette, che forse non usano più, con i subappalti alle ditte collegate alla politica.

«Inerzia, inefficienza, inadeguatezza», scandisce il cardinale di Napoli Crescenzio Sepe, senza mai pronunciare la parola «corruzione», che a Napoli sembra unire oggi pezzi di destra e di sinistra sugli appalti e sugli affari, come ai tempi antichi della Cupola, della Corrente del Golfo e di Tangentopoli. Le nuove leve, in questo cupo clima di vigilia e in attesa del diluvio universale, sono pronte, anche se alquanto stagionate. Claudio Velardi, ex Richelieu di Massimo D’Alema, oggi assessore straparlante al Turismo di Bassolino e consulente ben pagato di Romeo, annuncia una lista civica, chiedendo che Veltroni e D’Alema stesso «si tolgano di mezzo». Italo Bocchino, Renzo Lusetti e anche Nello Formisano - destra, sinistra, dipietrismo - chissà se son tutti lì come nell’«Interpartitico» di tanti anni fa a celebrare i fasti dell’«Hotel Romeo», o se l’hanno archiviato. Romeo in persona, che la sa lunga, inaugura la sala del «Comandante». Quale Comandante? Ma Achille Lauro, l’armatore che della politica napoletana fu il padrone per lustri interi, scambiando pacchi di pasta e mezze suole di scarpe agli elettori. In fondo, a parte le piscine e le pareti di cristallo, che cos’è cambiato a Napoli con l’«Hotel Romeo», cinque stelle super, e anche a Roma, con i tombini vomitanti, rispetto a sessant’anni fa?

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