Genova. “Quarantacinque milioni di metri cubi di nuove costruzioni. Il Piano casa della Liguria è come Attila. Per questa regione, per il suo paesaggio, ma anche per il turismo e l’economia sarebbe un colpo fatale. Sta per arrivare una seconda rapallizzazione”: Angelo Bonelli, presidente nazionale della Federazione dei Verdi punta dritto il dito sul piano della Regione che attende l’approvazione definitiva del Consiglio. Annuncia una raccolta di firme. Già, una storia da raccontare. Primo, per l’ambiente, perché secondo gli studi in mano ai Verdi e compiuti da esperti dell’Università La Sapienza di Roma le nuove norme porterebbero circa 45 milioni di nuovi metri cubi di cemento. Una città. Secondo, perché nasce un caso politico nazionale: per i Verdi, il piano della giunta di centrosinistra di Claudio Burlando “è molto peggio di quello sardo di Ugo Cappellacci”.
Nessuna sorpresa, il Pd ligure da anni brilla per le scelte cementificatorie. Ma non basta: a presentare il piano è la vicepresidente, quella Marilyn Fusco che rappresenta in giunta l’Italia dei Valori. Il partito che alle ultime elezioni sui manifesti scriveva a caratteri cubitali: “Ambiente”. Rifondazione e Sel minacciano di non votare il piano degli alleati. Il presidente del Consiglio regionale, Rosario Monteleone (Udc), sospende l’iter di approvazione (per togliere le norme contestate o aggiungerne altre?). Intanto il documento viene “arricchito” per la gioia dei costruttori.
L’ultima aggiunta: chi demolisce un edificio e lo ricostruisce può chiedere il cambio di destinazione d’uso. Paolo Berdini, urbanista, la spiega così: “È il cavallo di troia per trasformare le fabbriche in case. Questo piano è il peggiore d’Italia, la morte dell’urbanistica”. Da più di un anno associazioni e cittadini danno battaglia. Dai frequentatori del blog di Beppe Grillo arrivarono centinaia di messaggi alla Regione. Alla fine sembrava che la Liguria si fosse salvata: gli emendamenti più devastanti, presentati dallo stesso centrosinistra, furono ritirati. C’era stata perfino una dichiarazione di Burlando che aveva fornito rassicurazioni: “Ritengo che sia un provvedimento equilibrato e giusto. Forse chi ha diffuso pubblicamente giudizi negativi preventivi dovrebbe oggi riconoscere che le cose stavano e stanno diversamente”. Si trattava, disse Burlando, “di giudizi affrettati e forse non formulati in buona fede”.
Che cosa dicevano i critici in malafede? Che il Piano Casa della Liguria concedeva ampliamenti volumetrici tra l’altro a edifici condonati e a strutture industriali. Insomma, che si rischiava una devastazione in una regione dove già il 45 per cento del territorio è “consumato” (record italiano). È passato un anno. Soprattutto sono passate le elezioni che Burlando e il centrosinistra temevano di perdere. E così ecco che il piano casa di nuovo cambia volto. Il contenuto: ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni) fino al 35 per cento. Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Insomma, i timori di chi, secondo Burlando, “aveva avanzato giudizi negativi preventivi… e forse non formulati in buona fede” sembrano concretizzarsi. “Si premia chi non ha rispettato le norme urbanistiche, chi ha realizzato abusi”, sostengono i Verdi. Burlando, però, non ha dubbi: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”.
Ma visto quello che è successo in Liguria qualche perplessità è perlomeno legittima: in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fiorani stanno realizzando 174 mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta dal centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (dove sta accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti). Di più: si dice che anche gli edifici alberghieri saranno ammessi ai benefici. “Il Pdl e la Lega volevano altro. Così come le associazioni dei costruttori”, disse un anno fa Burlando. Oggi forse possono dirsi accontentati.
E pensare che il centrosinistra nazionale era insorto contro il Piano Casa Burlando: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato Roberto Della Seta (Pd), accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civati e Debora Serracchiani non erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”. Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di cose che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Di sicuro lui di cemento ne sa parecchio.
«La giurisprudenza di Tar e Consiglio di Stato è tassativa: le osservazioni al Pgt devono essere esaminate non in complessi disomogenei ma una per volta, salvo casi precisi. Un punto fondamentale, che non è stato rispettato. A dimostrazione che questa giunta guarda solo a interessi economici, e ignora quel che viene dal basso».
Giuliano Pisapia, candidato sindaco del centrosinistra. È un atto di forza della giunta la decisione sul voto del Pgt?
«No, è solo un atto di debolezza. Anche l’ultimo piano regolatore, tanti anni fa, fu approvato discutendo ogni singola osservazione. Evidentemente questa maggioranza, che non è tale neanche nei numeri, si impegna a parole ma poi non mantiene nei fatti, il sindaco e Masseroli invitano i cittadini a fare osservazioni e poi le ignorano, consapevoli che, se fossero state esaminate tutte, non ce l’avrebbero fatta».
Perché?
«Perché spesso manca il numero legale. E perché rischiavano di finire in minoranza: la grandissima parte delle osservazioni sono propositive, quindi avrebbero disegnato un Pgt del tutto diverso da uno che prevede l’equivalente di 243 nuovi Pirelloni e uno sviluppo urbanistico tale da inserire dentro Milano una città grande come Genova».
Cosa si può fare, a questo punto? Ricorrere al Tar?
«Di certo la giunta deve fare attenzione: approvare un piano di governo illegittimo è un rischio. E quando si calpestano le regole della democrazia arriva la mobilitazione dei cittadini. Ma oltre ai ricorsi ci sono altre strade».
Lei ha proposto una moratoria per il Pgt.
«È una prima idea. Il Pgt non è passaggio burocratico, ma uno strumento che determina il futuro della città. Ecco perché sarebbe rispettoso nei confronti dei cittadini rinviarne l’approvazione a una futura giunta. Ma ci possono essere già oggi dei punti limitati di convergenza».
Sta aprendo a una soluzione diversa?
«Credo si possano fare degli stralci al Pgt, approvando ora solo quei punti condivisi da tutti, come l’housing sociale, che è anche un tema urgente. Questo vorrebbe dire che non tutto il lavoro fatto è stato inutile. Ovviamente, però, questa possibilità non vale per l’impianto generale del piano, che è in contrasto con la nostra visione».
Lei è ottimista. Crede davvero che la maggioranza potrebbe accogliere la sua proposta?
«La scelta sulla modalità di voto indica una volontà irreversibile. Ma ricordo anche che ci sono 5 referendum ambientali in ballo: non si può adottare un piano di governo del territorio ignorando il risultato di quel voto. E comunque il Pgt, se approvato ora, potrà essere annullato o modificato dalla prossima giunta».
Se non questo Pgt, quale immagina da sindaco di Milano?
«Il nostro terrà conto prima di tutto della città metropolitana, a differenza di questo, che si ferma ai margini di Milano. Bisogna invece considerare i rapporti con chi entra e esce dalla città. Secondo punto: si dovrà rivedere totalmente il meccanismo della perequazione, senza toccare i territori agricoli che invece vanno rafforzati. Lo stesso vale per i parchi urbani e i giardini storici: vanno salvaguardati, limitando al minimo indispensabile la possibilità di costruirvi all’interno».
Un altro pilastro del suo Pgt?
«Si dovrà intervenire sul territorio studiando modalità di riduzione del traffico, di aumento del trasporto pubblico e un sistema di parcheggi nella fascia di accesso alla città. E poi guardiamo a una città moderna, con luoghi di aggregazione per giovani e anziani che questo Pgt non prevede, perché pensato solo per persone ad alto reddito e uffici».
Il Pgt attuale riempie la città di nuovi palazzi. Il vostro?
«Sarà studiato sulle necessità di persone che hanno superato i limiti di reddito delle case popolari, su chi sta migliorando la sua posizione senza potersi permettere le case di lusso immaginate da questi signori, destinate a restare sfitte o invendute».
Chi sta lavorando al vostro progetto di Pgt?
«Un gruppo di lavoro molto robusto - uno di quelli della mia officina - che raccoglie grandissime professionalità del mondo dell’università e del lavoro. Partendo, ovviamente, dai programmi dei quattro candidati alle primarie».
Da sindaco, quanto tempo ci metterà ad approvare un nuovo Pgt?
«In sei mesi ce la possiamo fare. E nel frattempo, a differenza di quanto dice il centrodestra, la città non si fermerà».
postilla
A Milano si confrontano idee alternative di società, di democrazia e, quindi, di città. Per gli amministratori attuali, ascoltare e valutare le proposte dei cittadini è un'inutile perdita di tempo. I pareri che contano sono già stati ascoltati, ed è su quella base che è stato prefigurato il cosiddetto "sviluppo urbanistico" della città. Per questo le richieste di dialogo, pur doverose, resteranno inascoltate. Ci auguriamo che i prossimi amministratori abbiano una visione più inclusiva e solidale del governo del territorio, meno prona agli interessi immobiliari. L'attuale legge urbanistica regionale, criticabile sotto altri aspetti, offrirà loro strumenti e occasioni adeguati per alimentare il dibattito pubblico, prima, durante e dopo il voto consiliare. (m.b.)
Da Anemone a Balducci, in 22 sotto accusa: un patto criminale - Chiuse le indagini: "Per 11 anni hanno truccato il mercato e saccheggiato le risorse pubbliche"
PERUGIA - Per 11 anni, «uno stabile sodalizio a delinquere» ha governato il Sistema dei Grandi appalti pubblici di questo Paese, «pilotandone le scelte», saccheggiandone le risorse, truccando il mercato, umiliando le regole di imparzialità e trasparenza. Per 11 anni, «un´associazione per delinquere ha commesso una serie indeterminata di corruzioni, abusi di ufficio, rivelazioni di segreto d´ufficio, favoreggiamenti, mettendo la funzione dei funzionari pubblici a disposizione di privati imprenditori, tra cui principalmente Diego Anemone e il gruppo di imprese a lui riconducibile». Perché, «di fatto, i funzionari pubblici hanno operato a servizio del privato e consentito che la gestione degli appalti avvenisse in maniera del tutto antieconomica per le casse pubbliche a favore degli imprenditori». E dei loro astronomici «profitti illeciti». In soli quattro anni, dal 2004 al 2009, e per il solo Diego Anemone e il suo occulto socio, il grand commis di Stato ed ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, una somma pari a 75 milioni 523.617, 88 euro.
IL SISTEMA DEI GRANDI APPALTI
Con un provvedimento di 23 pagine di avviso di conclusione indagini, i pubblici ministeri di Perugia Sergio Sottani e Alessia Tavarnesi, chiudono, dopo 11 mesi, il troncone principale dell´indagine ereditata da Firenze sui Grandi Appalti (Mondiali di Nuoto di Roma del 2008, G8 della Maddalena, 150 anni dell´Unità d´Italia). Fotografano cosa di questa storia, oggi, la pubblica accusa dà per accertato. Lasciano in sospeso, separandole, le posizioni di Claudio Scajola (tuttora non indagato) per il mezzanino vista Colosseo, dell´ex ministro Pietro Lunardi e dell´arcivescovo di Napoli Crescenzio Sepe per le vicende di "Propaganda Fide". Annichiliscono quel che resta dell´immagine pubblica dell´ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso per il quale l´accusa di corruzione non solo viene confermata, ma, se possibile, si aggrava, lì dove si arricchisce di una circostanza: «Aver materialmente ricevuto 50 mila euro in contanti dalle mani di Diego Anemone». E ancora: consegnano l´ex procuratore aggiunto di Roma Achille Toro al disonore di aver venduto la sua funzione di magistrato.
Le 23 pagine anticipano la richiesta di rinvio a giudizio di 22 indagati per reati che vanno dall´associazione a delinquere, alla corruzione aggravata in atti di ufficio, al favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione. Tutti nomi già noti alle cronache di questo ultimo anno (i funzionari pubblici Angelo Balducci, Guido Bertolaso, Mauro Della Giovampaola, Fabio De Santis, Claudio Rinaldi. Gli imprenditori Diego Anemone, Ezio Gruttadauria, Bruno Ciolfi. Spicciafaccende come il commercialista Stefano Gazzani e l´architetto Angelo Zampolini. Segretarie e prostitute brasiliane di casa allo "Sporting Village" di Anemone). Tutti, tranne uno: l´ex senatore democristiano transitato nel Pd Francesco Alberto Covello, vicepresidente dell´Istituto per il Credito sportivo, in questa veste accusato di corruzione per aver agevolato (anche se mai erogato) un mutuo di 18 milioni di euro a Diego Anemone.
BERTOLASO, ANEMONE E BALDUCCI
È un presepe della vergogna al centro del quale i pm collocano la triade Bertolaso-Anemone-Balducci. All´ex capo della Protezione Civile, a differenza degli altri due, viene contestata la "sola" corruzione aggravata e non anche l´associazione per delinquere. Ma con argomenti di straordinaria gravità. «Quale responsabile della gestione dei "Grandi Eventi" - si legge - ha compiuto atti contrari ai doveri di ufficio per favorire Diego Anemone nell´aggiudicazione degli appalti del quarto, quinto e sesto lotto dei lavori per il G8 della Maddalena (...) Ha compiuto scelte economicamente svantaggiose per la pubblica amministrazione, consentendo che i costi aumentassero considerevolmente». Peggio, «ha posto stabilmente la propria funzione pubblica a disposizione degli interessi di Diego Anemone», in cambio, per quel che i pm hanno potuto accertare, di «una serata allo "Sporting village" con la prostituta Monica Da Silva Medeiros», di «massaggi (il corsivo è dei pm ndr.) con tale Francesca Muto», dell´affitto «di un appartamento in via Giulia a Roma», di «50 mila euro consegnatigli brevi manu da Anemone il 23 settembre 2008».
Di Balducci e Anemone, molto si sa. I pm, tuttavia, sottolineano una circostanza. Che il «patto a delinquere» stretto tra i due «sin dal 1999», utile a pilotare «gli appalti del G8 della Maddalena, della caserma "Zignani" del Sisde in piazza Zama a Roma, delle opere per i 150 anni d´Italia, per il parco della musica», aveva come cemento «una sorta di società effettiva tra i due, che finanziava investimenti di ingente valore».
«L´ASSERVITO PROCURATORE ACHILLE TORO»
L´ex procuratore aggiunto di Roma Achille Toro è accusato di corruzione in atti giudiziari, corruzione per atti contrari ai doveri di ufficio, rivelazione di segreto di ufficio, favoreggiamento. «Ha asservito le sue funzioni - si legge - agli interessi di Angelo Balducci». «È intervenuto sui pm di Roma Assunta Cocomello e Sergio Colaiocco, inducendoli a compiere atti contrari ai doveri di ufficio». Ha «barattato» i segreti delle indagini di Firenze e Roma sul Sistema degli appalti, con contratti di co.co.co dei figli Camillo (indagato) con il ministero delle Infrastrutture e Stefano con la Protezione Civile.
La politica non è lo spazio né della Verità né della Menzogna. Non deve ospitare un Assoluto da custodire a ogni costo, né un Vuoto radicale di senso, in cui tutto è possibile; né un Bene né un Male. Perché spesso l´uno si rovescia nell´altro.
Un´illustre tradizione che, in età moderna, nasce in parte da Machiavelli e dalla Ragion di Stato, collega la politica al Male e teorizza anche la liceità, per il potente, di mentire; il potere politico è segreto, le sue vie e le sue ragioni sono nascoste al popolo, a cui la vera finalità dell´agire politico - la potenza - non va rivelata; anzi, la si deve schermare, dissimulare, rappresentare falsamente come fosse orientata al Bene. Il potere è opaco, e tale deve rimanere; non può essere indagato né criticato, perché trascende la comprensione della gente comune, dei cittadini.
La modernità politica si è affermata attraverso la lotta illuministica contro gli arcana imperii, contro il combinarsi di segreto, dissimulazione, menzogna, a cui ha opposto la luce della ragione pubblica, capace di indagare e rischiarare quelle tenebre. E ciò è avvenuto in nome della Libertà; che è anche la libertà dei cittadini di non essere ingannati dal potere, e di vivere in uno spazio politico trasparente, pubblico e condiviso.
Ciò non significa che la menzogna non abiti la politica moderna. E non solo perché spesso i politici mentono; ma per il motivo più radicale che anche la politica moderna si è creduta portatrice di Verità - di una Verità di liberazione contro l´antica oppressione - , e che in nome delle sue certezze assolute si è sentita legittimata a ogni comportamento - la menzogna, ma anche ben di più - per difenderle e affermarle: la spietatezza dei totalitarismi novecenteschi ne è testimonianza. Ma anche senza entrare negli inferni totalitari - in cui Verità e Menzogna si rovesciano continuamente l´una nell´altra - la menzogna ha contagiato perfino le democrazie: la politica moderna ha un nucleo di segreto - la difesa dello Stato, la sua potenza - a cui, nonostante sia in contraddizione con la democrazia, non sa rinunciare, anche a costo della menzogna di Stato, della falsa rappresentazione del reale. Lo si è visto nel contesto imperiale degli Usa - che dal Vietnam all´Iraq hanno mentito per giustificare le loro guerre - e anche nel più modesto spazio italiano, in cui la politica degli omissis rispondeva alla medesima logica di salvaguardia, attraverso la menzogna, del presunto Bene superiore dello Stato. La tragedia della politica sta proprio qui: nella dialettica fra segreto del potere e libertà dei cittadini.
L´età contemporanea ci mostra che la Menzogna si sposa alla politica anche nel fabbricare mediaticamente un mondo di favola e nell´elargirlo a platee di cittadini ridotti a spettatori, che non possono esercitare il diritto di critica, di fare domande, di avere risposte; è Menzogna anche l´illusionismo che trasforma il discorso pubblico in una fiction. Ma oggi la cronaca ci rivela un nuovo rapporto fra politica e menzogna; quello delle bugie private, a proposito di reprensibili comportamenti personali, che assumono rilevanza politica proprio perché la politica è stata identificata con un uomo, un corpo, una vicenda personale. Questa privatizzazione della Menzogna, con effetti pubblici, unisce al tragico il farsesco; ma viola ugualmente l´unica Verità a cui la politica democratica possa aspirare: quella che nasce in una comunità politica dal libero confronto di cittadini liberi dall´inganno e dalla manipolazione.
Caro Eddyburg, in autunno il sindaco di Firenze Matteo Renzi ha annunciato l’adozione del nuovo Piano Strutturale della città “a volumi zero”. La scelta è quella di dire basta al consumo di suolo e azzerare le previsioni non attuate del vecchio Piano regolatore. Come si spiega nelle interviste e comunicati stampa, ciò non significa “bloccare la città”, le possibilità di costruire deriveranno dal recupero di volumi esistenti. Attraverso un sistema di “crediti edilizi”, si potranno demolire gli edifici “in difformità rispetto ai contesti urbanistici” (ad esempio capannoni in contesti residenziali) e trasferire i volumi in altre parti della città, con un bonus del 10% di costruito e uno sconto sugli oneri. Quali sono queste altre parti? Le aree dismesse (sembra) in cui sono infatti previsti 9.800 alloggi.
Non conosco la realtà fiorentina e queste poche informazioni mi stuzzicano molte domande. Cosa si intende esattamente per previsioni non attuate? Includere o no anche i piani particolareggiati approvati, ma non attuati può fare la differenza di molti ettari. Quale sarà la destinazione delle aree oggetto di demolizione? Quale è la relazione tra aree dismesse e trasferimento delle volumetrie?
Una cosa però mi sembra chiara: il piano non aggiunge nuove previsioni di espansione e l’intenzione dichiarata è quella di limitare e di gestire quelle pregresse. Questo marca la differenza con molte altre esperienze che hanno tentato di limitare il consumo di suolo, ma sempre facendo salvi i residui dei precedenti piani, ancora considerati un tabù per la paura che si sollevino ricorsi a catena. Credo che il piano di Firenze ci dia una importante occasione per riaffermare che le previsioni urbanistiche non costituiscono automaticamente un “diritto acquisito”, e che per invertire la rotta del consumo di suolo è necessario mettere mano al fardello dei residui ereditato dalla stagione pianificatoria “sviluppista”.
Delle modifiche al Piano strutturale di Firenze apportate dal nuovo sindaco Renzi ci siamo già occupati riportando l’argomentata posizione critica del Comitato dei cittadini di Firenze aderente alla ReTe (“ Il piano strutturale di Firenze: Onestamente indifendibile”). Tenendo conto anche di una intervista della dirigente del settore, Stefania Fanfani (la Repubblica, ed. Firenze, 14 dicembre 2010), possiamo riassumere gli elementi del discorso come segue.
Quando il sindaco afferma di aver cancellato tutte le vecchie previsioni del PRG dice una verità incompleta. Non fa riferimento ad alcune eccezioni: poche previsioni sulle quali il comune ha perso contenziosi (così dice la dirigente) per un totale di 5 ha; altre previsioni derivanti dalla delocalizzazione di edifici incongrui (di cui è nota l'entità, 150.000 mq di SUL, ma non il sito dove le volumetrie potranno essere ricostruite, né la quantità corrispondente di suolo consumato); i piani attuativi già autorizzati dalla precedente sciagurata giunta, il più significativo è quello di Castello (svariate decine di ettari, su cui sono edificabili circa 400.000 mq di SUL), ma ce ne sono molti altri per un totale di 678.000 mq di SUL. Sommando queste tre componenti il suolo consumato potrebbe accrescersi di svariate decine di ettari.
La semplificazione propagandistica (verrebbe da dire: “pubblicitaria”) dello slogan "volumi zero" è indubbiamente fuorviante, dato che i metri cubi messi in gioco dal nuovo piano - tra ristrutturazioni urbanistiche e nuove costruzioni - ammontano a qualcosa come 4,5 milioni. La dirigente ha infatti riconosciuto che sfruttando tutte le possibilità del piano, la città potrebbe crescere di 70.000 abitanti (+25%).
Ciò detto crediamo che si debbano sottolineare due elementi di riflessione.
(1) Il fatto che il PS cancelli le previsioni residue del PRG senza temere contenziosi: riconosca cioè che i cosiddetti “diritti edificatori” sono una balla. E' un punto a favore dell’attuale amministrazione fiorentina, che testimonia quanto siano pretestuose le scuse accampate da altre amministrazioni (e altri urbanisti di chiarissima fama). Sull'argomento si veda il parere di V. Cerulli Irelli e la nota di E. Salzano.
(2) Le dimensioni della trasformazione urbana sono comunque ingenti; testimoniano l’assoluta inutilità (se non per la proprietà fondiaria) dell'ulteriore espansione. Rimettendo in gioco gli spazi dismessi, sottoutilizzati, degradati è insomma possibile soddisfare la domanda attuale e futura. É su queste aree - parte delle quali di proprietà pubblica - che si gioca il destino dei prossimi anni delle città. Chi comanda? I privati come a Milano? Il pubblico? Con quali prerogative, strumenti e criteri? Le nostre riflessioni alla scuola estiva sono quanto mai attuali.
Viviamo, da ormai quasi un ventennio, nella non-politica. Della politica abbiamo dimenticato la lingua, il prestigio, la vocazione. Dicono che a essa si sono sostituiti altri modi d´esercitare l´autorità: il carisma personale, i sondaggi, il kit di frasi e gesti usati in tv. Ma la spiegazione è insufficiente, perché tutti questi modi non producono autorità e ancor meno autorevolezza. Berlusconi ha potere, non autorevolezza. Non sono le piazze a affievolirla ma alcune istituzioni della Repubblica. Evidentemente non persuase dalle sue ingiunzioni. Le vedono come ingiunzioni non di un rappresentante dello Stato, ma di un boss terribilmente somigliante al dr Mabuse, che nel film di Fritz Lang crea un suo stato nello Stato. Alle varie istituzioni viene intimato di ubbidire tacendo, e già questo è oltraggio alla politica e alla Costituzione.
Specialmente sotto tiro è la magistratura, che incarna il diritto. Un gran numero di magistrati si trova alle prese con un leader-non leader, sospettato di crimini di cui la giustizia indipendente non può non occuparsi. Le sue peripezie sessuali lo hanno minato ulteriormente, essendo forse connesse a reati, e hanno accresciuto la sua inaffidabilità. Questo è il dilemma. Il carisma che ha avuto e ha presso gli elettori non ha prodotto che subalternità o resistenza. Il potere gli dà una parvenza di autorità, ma l´autorevolezza, che è altra cosa, gli manca. Non incarna la legge, il servizio su cui la politica si fonda, perché questi ingredienti non sono per lui primari.
L´autorevolezza del leader è riconosciuta non solo dall´elettore ma dai pari grado e dai poteri chiamati per legge a controbilanciare il suo. Il conflitto tra il Premier e la giustizia non avviene fra due poteri irrispettosi dei propri limiti, come ha detto lunedì il cardinale Bagnasco. Avviene perché il premier indagato non va in tribunale, non accetta l´obbligatorietà dell´azione penale costituzionalmente affidata ai pm (art. 112). I pari grado esigono da chi comanda capacità di comunicare senza di continuo mentire e smentirsi. Esigono un equilibrio psichico che non sfoci in aggressività, in punizioni a tal punto fuori legge che sempre occorre scriverne di nuove.
A questo dovrebbe servire la politica non tirannica: a governare i conflitti nel loro sorgere, a non intimidire. Berlusconi disconosce tali virtù, per il semplice motivo che non sa - non vuol sapere - quel che significhino la politica e il comando. Non il merito e l´autonomia individuale sono stati da lui rafforzati, come tanti italiani s´attendevano, ma l´appartenenza ai giri di potere anti-Stato descritti da Gustavo Zagrebelsky (Repubblica 26-3-10) . Non stupisce la contiguità fra i giri e le associazioni malavitose. Ambedue hanno potere di nuocere o favorire, non autorevolezza.
Anche il carisma non è politica alta. Il primo è personale e labile, la seconda essendo un impasto di regole s´innalza sopra il contingente, non si mimetizza nelle voglie della folla, guarda più lontano. La politica alta è distrutta quando i cittadini dimenticano che solo le istituzioni durano. Lo disse Jean Monnet dopo l´ultima guerra, vedendo i disastri commessi dagli Stati e progettando l´Europa sovranazionale: «Solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge: esse accumulano l´esperienza collettiva, e da questa esperienza, da questa saggezza, gli uomini sottomessi alle stesse regole potranno vedere non già il cambiamento della propria natura, ma la graduale trasformazione del proprio comportamento». Solo l´istituzione ben guidata ha il carisma, il «dono» di operare per il bene comune indipendentemente da chi governa.
In Joseph Conrad, la scoperta delle capacità di comando è il momento in cui il capo della nave oltrepassa la linea d´ombra e apprende il compito come servizio (il compito di portare nave e passeggeri sani e salvi in porto). È scritto in Tifone: «Pareva si fossero spente tutte le luci nascoste del mondo. Jukes istintivamente si rallegrò di avere vicino il Capitano. Ne fu sollevato, come se quell´uomo, con la sola sua comparsa in coperta, si fosse preso sulle spalle il peso maggiore della tempesta. Tale è il prestigio, il privilegio e la gloria del comando. Ma da nessuno al mondo il capitano Mac Whirr avrebbe potuto attendere un simile sollievo. Tale è la solitudine del comando». Berlusconi è rimasto al di qua della linea d´ombra. La prova che dall´adolescenza ci immette nella maturità, non l´ha superata.
Ma il problema non è solo Berlusconi. Al di qua della linea d´ombra è restata l´idea stessa che in Italia ci si fa della politica. La politica non è associata a competenza e disinteresse personale, e chi non entra nelle beghe di quella che in realtà è non-politica, viene chiamato un tecnico o un ingenuo. Non è associata alla verità, ritenuta quasi un attributo pre-politico. È dominio fine a se stesso, e così degenera. Lo Stato funziona se gli ordini vengono eseguiti, ma a condizione che sia custodito il bene comune. Che il potere si nutra di legalità, oltre che della legittimità data dalle urne. Che il privato non prevalga sul pubblico.
La vera corruzione italiana comincia qui: nelle teste, prima che nei portafogli. Non che sia scomparso il politico vero, ma spesso di lui si dice: «È uno straniero in patria». Sono i falsi politici a considerarlo estraneo ai giri, alla loro «patria». L´Italia ha conosciuto la politica alta: quella della destra storica nata dal Risorgimento; quella dei costituenti di destra e sinistra; quella di Luigi Einaudi. In uno scritto del 1956, il secondo Presidente della Repubblica invitò gli italiani a non illudersi: «Nessuno Stato può esistere e durare se non sono saldi i pilastri fondamentali» che sono la difesa, la sicurezza, il diritto, l´ordine pubblico. Senza tali pilastri «gli Stati sono cose fragili, che un colpo di vento fa cadere e frantuma». Al capo politico spetta salvaguardarli, poiché spetterà a lui «dire la parola risolutiva, dare l´ordine necessario».
Difficile dire la parola risolutiva, quando tutto traballa. Quando la linea d´ombra non è riconosciuta e il capo vive o cade nella pre-adolescenza. Uno dei motivi per cui da anni ci arrovelliamo sul potere berlusconiano - è un Regime? un autoritarismo nuovo? - è questa sua incapacità di dire parole credibili. L´ubbidienza al politico, scrive ancora Einaudi, è possibile solo se «gli uomini a cui è affidata l´osservanza della legge non mettono se stessi al di sopra della legge». Se i capi civili «sapranno di essere confortati dal consenso di cittadini, convinti che nessuno Stato dura, che nessuna proprietà, nessuna sicurezza di lavoro, nessuna certezza di avvenire sono pensabili, se tutti non siano decisi ad osservare i principii vigenti del diritto e dell´ordine pubblico».
La sinistra ha scoperto tardi la forza delle istituzioni, dello Stato. Anch´essa ha spesso considerato il sapere tecnico, la legalità, il parlar-vero, come non-politica. Politica era conquista di posti, più che servizio. Non era apprendere la prudenza insegnata nel ‘600 da Baltasar Gracián: la prudenza di chi non si scorda che «c´è chi onora il posto che occupa, e chi invece ne è onorato». Per questo l´opposizione appare vuota, a volte perfino più incompetente di alcuni governanti, non meno indifferente ai meriti, non meno interessata a lottizzare poteri. Lo stesso Veltroni sfugge la politica quando invita a «viaggiare in mare aperto». C´è bisogno di porti, non fittizi. C´è bisogno di capire che non cresceremo più come prima. Che non è straniero in patria chi elogia l´invenzione delle tasse o del Welfare: questo strumento che crea comunità solidali strappandole alla legge del più forte.
È vero, l´Italia ha bisogno di una rivoluzione democratica. Dunque: di una rivalutazione della politica. È la politica che deve vagliare i dirigenti e impedire all´indegno di entrarvi, senz´aspettare la magistratura. Non è solo la sinistra a poter incarnare simile rivoluzione. Possono farla anche le destre, a lungo identificate con Berlusconi. Fini è il primo a riscoprire la politica, e anche la destra storica. C´è una tradizione riformatrice in quella destra, evocata su questo giornale da Eugenio Scalfari nell´88, nello stesso anno in cui denunciò l´ascesa del potere televisivo berlusconiano: la tradizione di Marco Minghetti, di Silvio Spaventa, che esalta la politica come servizio pubblico. Sinistra e destra debbono ritrovarla, come seppero fare dopo il ventennio fascista.
Nel discorso di ieri, atteso dall´Italia con un interesse forse mai avuto prima per le parole di un Presidente della Cei, il cardinal Bagnasco ha disposto le artiglierie, ha caricato i proiettili, ha puntato nella direzione giusta. E ha iniziato a colpire con parole infuocate come non era mai accaduto prima i comportamenti del capo del governo, andando ad affiancare le sue critiche a quelle espresse in precedenza dal Presidente della Repubblica e dal Presidente degli industriali. Quando però è stato il momento di compiere la missione fino alla fine, il cardinale ha rivolto le sue armi altrove. Il risultato, quest´oggi, è che tutti possono dire che sono contenti, persino i sostenitori del governo, per una situazione analoga a quella del dopo-elezioni quando nessuno dice di avere perso. La gerarchia cattolica aveva l´occasione di aiutare gli italiani a fare chiarezza per uscire da una situazione che li rende ridicoli al mondo e peggio ancora a se stessi, ma non è stata capace di portarla avanti fino in fondo, immolandola sull´altare della diplomazia.
Bagnasco ha esordito parlando di "nubi preoccupanti che si addensano sul nostro paese", ha continuato con la "perversione di fondo del concetto di ethos", ha detto che "a vacillare sono i fondamenti stessi di una civiltà", ha proseguito con il "consumismo" e la "cultura della seduzione" da cui scaturiscono una "rappresentazione fasulla dell´esistenza, volta a perseguire un successo basato sull´artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l´ostentazione e il mercimonio di sé" con il risultato di un "disastro antropologico". Quando poi è giunto a toccare la più stretta attualità ha parlato di "debolezza etica" e di "fibrillazione politica e istituzionale", ha ricordato che "si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza", e infine ha ricordato l´art. 54 della Costituzione che sottolinea il dovere per chi governa di misura, sobrietà, disciplina e onore. Insomma un´analisi limpida e forte, a tratti severa, come si conviene al momento drammatico del paese. Ma alla fine è mancato il coraggio di andare fino in fondo nel combattere i mali evocati, ha vinto la diplomazia e ha perso la profezia. Infatti dopo tutte queste analisi all´insegna della chiarezza evangelica, il cardinale ha girato le artigliere dall´altra parte puntandole verso i magistrati milanesi e ha proclamato in perfetto stile curiale, e non senza una sottile sfumatura di ambiguità per l´uso del pronome indefinito: "… mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l´ingente mole di strumenti di indagine", col risultato, per Bagnasco, che così si passa "da una situazione abnorme all´altra". Ovvero: il capo del governo ha torto, ma i magistrati non hanno ragione, esagerano.
Sia chiaro che nessuno si aspettava scomuniche, ma che almeno quello "scatto di coscienza e di responsabilità" che lo stesso cardinale chiede agli italiani fosse mantenuto con coerenza fino in fondo sì. Nel discorso di qualche giorno fa al Corpo diplomatico il Papa ha detto della minaccia costituita da alcuni programmi di educazione sessuale nelle scuole. Senza entrare nel merito, chiedo che cos´è un´ora scolastica di educazione sessuale rispetto alle notizie che ogni giorno entrano nelle case con tutti i sexy-gate che periodicamente ricorrono in questa colossale permanente maleducazione sessuale e antropologica, che ora si chiama Ruby ora in molti altri nomi, ma il cui vero nome è "Legione" come rispose l´indemoniato a Gesù: "Mi chiamo Legione perché siamo in molti" (Vangelo di Marco 5,9). La Chiesa poteva contribuire a far sì che chi vuole godere di questa compagnia lo faccia pure giorno e notte quando e come vuole ma senza coinvolgere la politica e la vita degli italiani, ma non ha avuto il coraggio per andare fino in fondo.
La Chiesa, è noto, ha una lunga storia con il tema prostituzione, ben prima della comparsa di tutte queste signorine nelle ville del capo del governo. Dalle prime pagine della Bibbia alla genealogia di Gesù, dalle parole evangeliche "le prostitute vi passeranno avanti nel regno dei cieli" all´appellativo patristico sulla Chiesa casta meretrix e alle parole di Dante che accusano i papi di "puttaneggiar coi regi", la prostituzione ha sempre accompagnato il cammino del cristianesimo. Nulla di strano, perché ha sempre accompagnato il cammino dell´umanità. Quindi nessuno si aspettava che il cardinal Bagnasco si stracciasse le vesti scandalizzato. Ma tra lo scandalo di un Savonarola e le parole di biasimo in sé giuste rese però innocue dal biasimo riversato sui magistrati per il troppo zelo, c´è una bella differenza.
So bene che vi sono legittimi interessi dell´istituzione Chiesa da salvaguardare come i finanziamenti alle scuole cattoliche, le esenzioni delle tasse per gli edifici ecclesiastici, la battaglia parlamentare sul biotestamento e materie similari. Ed è giusto che il presidente della Cei tenga conto di tutto ciò. Ma vi sono dei momenti nei quali bisogna guardare davvero unicamente al bene comune, momenti nei quali chi sta in alto si ritrova solo, ed è chiamato a responsabilità profetiche e morali senza poter coniugare tutti gli interessi in gioco. Ieri la gerarchia della Chiesa italiana era in questa situazione. Le parole di Bagnasco sono state per molti tratti un buon esempio di cosa significa parlare di politica senza fare ingerenze partitiche, perché la nostra situazione non è più questione di destra o di sinistra ma solo di decenza e di dare un governo vero a un paese che ne ha urgente bisogno. Alla fine però ha ceduto alla diplomazia, ha usato il bilancino che le consente di avere tutti i forni sempre aperti. E così il sale evangelico ha perso ancora un po´ del suo sapore.
DOPO MARGHERA
L'ambizione di un'alternativa
di Luca Casarini e Gianni Rinaldini
Dopo la straordinaria due giorni di Marghera, potremmo lasciarci cullare dalla soddisfazione collettiva che ha invaso i luoghi del meeting e che ha accompagnato ognuno nel viaggio di ritorno verso casa. Non è cosa da niente, di questi tempi, poter essere soddisfatti di una scommessa politica e culturale che per noi si chiama uniticontrolacrisi. Ma indugiare troppo non ci è concesso, sarebbe come premere il tasto della pausa e trasformare un film appena iniziato in una fotografia: bellissima, ma ferma. Sia chiaro, non foss'altro per tutti quelli che si sono dannati per far riuscire l'appuntamento al meglio, la prima cosa è essere contenti di com'è andata. l numero delle persone che sono state «attratte», e non cooptate o obbligate, a partecipare (perché la nostra pratica della democrazia non ha niente a che fare con le pratiche di Marchionne), è un fatto importante. La qualità di questa presenza, espressa non solo attraverso quasi duecento interventi, ma anche e soprattutto in un modo di stare insieme fondato più sulla pazienza che sulle pretese, animato dalla disponibilità e non sul pregiudizio, ha creato il «clima». È opera di tutti quello che è potuto succedere: di un modo di pensarla, prima, questa occasione di incontro, e di come di essa ci si è collettivamente appropriati poi. Se la pratica del comune è innanzitutto esemplarità e non linea o modello, va da sé che Marghera segna una tappa di riferimento fondamentale. La formalità rituale che queste cose si portano dietro, anche se uno non vuole, perché è difficile e complesso trovarsi in tante e tanti e discutere, prendere delle decisioni, essere aperti ma non vaghi, includenti e non ambigui, ha avuto come correttivo la fiducia reciproca.
Un'altra cosa che, come la pazienza, non assume mai la dignità di categoria della politica, restando confinata nel recinto delle cose che si dicono per intendere il contrario. A Marghera no. L'abbiamo tutti voluta usare, la fiducia, in dosi massicce, come precondizione per poterci parlare, di nuovo o per la prima volta. È l'intelligenza collettiva che ci dice di fare così. La situazione che stiamo vivendo impone di mettersi sul serio a costruire una storia nuova, e se non ne sentiamo l'urgenza, o se pensiamo che per farlo basti allargare le nostre biografie di partenza, allora non c'è nulla da fare: non incontreremo mai nessuno in mezzo alla folla, e continueremo a chiederci perché la gente non capisce e le cose non cambino mai. Abbiamo, dopo Marghera, iniziato un percorso di accumulo che deve diventare amplissimo: sensazioni, contatti, scambi, confronti, questioni, obiettivi, linguaggi. Tutto ciò che concorre a costruire un sentire condiviso dove il rapporto tra singolarità e collettivo sia non solo possibile, ma visibile. Come diavolo dovrebbe fare ad esserlo? Non c'è solo il rifiuto condiviso della privatizzazione, ma anche un'evoluzione che arricchisce il concetto di pubblico: il discorso che abbiamo cominciato è immediatamente rivolto dentro di noi, alla soggettività che contribuisce a formarlo, e fuori di noi, a una società intera.
Ha l'ambizione di essere una proposta di alternativa. A Marchionne e alla Gelmini, alla privatizzazione dell'acqua e al nucleare. Alle ingiustizie che costruiscono, tragedia dopo tragedia, la crisi e la rendono, nel suo incedere senza uscita, insopportabile. Ma anche un'alternativa a noi stessi, a come abbiamo fatto e pensato fino ad ora, a come abbiamo subito e ci siamo arresi. Sta in questo il grande interrogativo che ci siamo posti sulla democrazia, che ha attraversato ogni riflessione, ogni dibattito. E sulla politica, che come la crisi, pretenderebbe di risolvere i problemi riproponendo i meccanismi che li hanno generati, invece che tentare di superarli.
La pratica di un comune sociale che vive dentro le modificazioni epocali del lavoro, del suo divenire vita messa al lavoro, del suo essere espropriato di ogni diritto e ogni garanzia, e che vuole definire un comune politico capace di dire di no come a Mirafiori e di dire di sì come per l'acqua bene comune, di tracciare degli obiettivi che disegnino la traiettoria di un'alternativa al capitalismo della crisi e dello sfruttamento, è anche, un'alternativa al modo di rapportarci con la rappresentanza e la sua crisi. Senza delegare niente a nessuno, semplicemente perché la posta in gioco è più alta e più seria. La crisi di questo paese, la delegittimazione delle istituzioni, la crisi della politica, devono diventare l'occasione, anche qui, per costruire una nuova storia, dove il protagonismo sociale delle lotte non sia affidato a chi lo dilapida in cose già viste e già sconfitte.
Ci siamo lasciati con appuntamenti importanti: primo fra tutti il 28 gennaio, a fianco della Fiom. Non diamo per scontato che tutto sia semplice, e inventiamoci, ognuno e tutti insieme, come far sì che ogni piazza, ogni presenza a sostegno di questa battaglia, diventi anche un contributo alla costruzione di un percorso includente. Per far questo ci vuole l'umiltà di chi non ha nulla da insegnare e molto da offrire, di chi ha chiaro che parlare e farsi capire da decine di migliaia di persone in carne e ossa, non è la stessa cosa che discutere tra amici di vecchia data. Ma siamo certi che con questo atteggiamento, anche le fabbriche diverranno luoghi dove gli studenti andranno a fare assemblee, e all'università i delegati operai non saranno come gli ospiti stranieri.
Siamo convinti che di riconversione produttiva in senso ecologico cominceremo a parlare con chi lavora dentro le industrie che inquinano, come di mobilità sostenibile con gli operai dell'auto. Ma niente è facile o già fatto, e tutto dipende da noi, sia che siamo dentro la Fiom o in un centro sociale, sia che militiamo in un'associazione ambientalista o contro il razzismo. Ecco, Marghera è già passata, non abbiamo tempo. Il film riprende e nessuno ha ancora visto il finale. Dovremo scriverlo insieme.
MARGHERA
Il 28 gennaio inizia il viaggio contro la crisi
di Loris Campetti
La cosa più grave di questa stagione non è tanto la crisi globale, di sistema, quanto piuttosto la ricetta scelta dai poteri forti mondiali e dai governi per uscirne fuori. I criteri, e le persone fisiche che guidano il processo di redistribuzione dei poteri, delle regole e della ricchezza sono gli stessi, neoliberisti, che l'hanno provocata. C'è un solo pensiero - per semplicità lo chiamiamo pensiero unico - dietro l'operazione autoritaria che cancella i diritti sociali, del lavoro e di cittadinanza e al tempo stesso riprone un modello di sviluppo energivoro diventato incompatibile con l'ambiente e con la democrazia. Un modello che inquina il territorio (fino a militarizzarlo con il nucleare, a cementificarlo con Tav e ponti improbali, ad armarlo con le basi americane) e l'ambiente con il suo percolato di veleni e di mafie.
Se fosse così, e se la percezione di questo disastro fosse diffusa, sarebbe normale che alla preparazione e alla realizzazione di uno sciopero generale dei lavoratori metalmeccanici a cui si vuole cancellare dignità e soggettività, partecipassero tutti i soggetti e le figure sociali colpite dalla crisi e schiaffeggiate dalle ricette autoritarie neoliberiste. Qualcosa di simile sta realmente avvenendo intorno all'appuntamento di venerdì della Fiom. Ma non è normale bensì straordinario, quasi rivoluzionario, che la Fiom partecipi alle assemblee nelle università con studenti e precari, o che indìca manifestazioni insieme ai comitati che si battono contro le discariche, o propongono diversi consumi, diversa mobilità e la salvaguardia dei beni comuni. Altrettanto straordinario è che una città, Torino o almeno la sua parte migliore, torni in sintonia con i suoi operai e prepari in grande il ringraziamento ai carrozzieri di Mirafiori che con i loro no - e persino con molti sì costretti - hanno difeso la dignità di tutti dai diktat di Marchionne. O che gli studenti romani della Sapienza si organizzino per andare a Cassino a manifestare insieme agli operai della Fiat in sciopero, o quelli partenopei a Pomigliano, o quelli siciliani a Termini Imerese. È straordinario che in tanti centri sociali, da Jesi a Palermo al Nordest, si riuniscano in affollatissime assemblee le vittime della crisi per far crescere la partecipazione alle manifestazioni della Fiom in ogni regione italiana, in ogni luogo della crisi produttiva o democratica.
Certo, non è la prima volta che gli studenti vanno a volantinare davanti alle fabbriche, o che gli operai e i sindacalisti intervengono nelle scuole e nelle università. Ma è la prima volta che questo avviene non per pura solidarietà, sentimento peraltro nobile e da valorizzare come ha precisato Maurizio Landini a Marghera, ma per condizione sociale. La distruzione del lavoro, dei diritti, del sapere, della cultura, della libera informazione, la precarizzazione di massa che impedisce a più di una generazione ormai di progettare il proprio futuro, se da un lato tenta di scatenare una guerra tra poveri, tra generi, tra lavoratori dei nord e dei sud dei mondo, dall'altro lato rende più simili figure diverse colpite allo stesso modo.
Questo piccolo miracolo sostenuto dall'esperienza di Uniti contro la crisi è solo l'inizio di un cammino che potrebbe essere lungo, sicuramente difficile e contraddittorio. A renderlo difficile è il suo pregio: non punta sulla sommatoria di culture esperienze e sigle diverse, non è l'ennesimo, stucchevole intergruppi. Come dicono oggi sul «manifesto» le due persone che più hanno lavorato alla costruzione di questo «caravanserraglio» (luogo di accoglienza di chi migra e dunque cammina), bisogna costruire una cultura, dei linguaggi e delle pratiche nuove comuni. Buon viaggio e buon 28 gennaio.
FRONTE DEL PORTO
Ora Marghera progetta futuro
di Rocco Di Michele
Il «modello Marchionne» mette in movimento anticorpi sociali imprevisti. Prende il via un percorso di unificazione delle lotte: metalmeccanici, centri sociali, No Tav, No dal Molin, precari, ambientalisti... Perché i beni sono «comuni»
Tirare le somme del meeting di Marghera può esser semplice o difficilissimo. Nel primo caso si rischia di perdere il dettaglio, nel secondo il dato unitario. Fortissimo.
Mettere insieme i metalmeccanici della Fiom, i centri sociali, gli abitanti de L'Aquila, i No Dal Molin, i No Tav, gli ambientalisti di lungo corso e i «guerrieri di Chiaiano», era una scommessa quasi azzardata. Ma un passo deciso in avanti, sulla strada del «conoscersi reciprocamente» - anche lasciandosi alle spalle pezzi di «identità», evidentemente non decisivi - è stato fatto. Due giorni di discussione hanno messo in primo piano i molti «no» che ogni soggetto sociale aveva pronunciato nella sua lotta, ricavandone però il senso di diversi «sì» che ora diventano quasi dei punti di programma.
Partendo per forza di cose dalla Fiat e dal «modello Mirafiori», tutti hanno capito che prima di poter dire qualcosa in positivo bisogna opporsi a un modello di produzione che cerca di imporsi come modello di società, di stampo apertamente autoritario. Quel «no», insomma, è «costituente». Detto in altro modo, sulla linea di demarcazione tracciata da Marchionne non c'è spazio per gli equilibrismi: si accetta in blocco o la si rifiuta. «Chi sta con lui è contro di noi», ormai è senso comune.
Quasi l'intera politica italiana non ha perciò più nulla da dire a questo popolo che fa i conti ogni giorno con la crisi: «il nostro è un percorso che non delega più nulla alla politica, vogliamo costruire un'alternativa sociale». E un progetto che sappia fare i conti con la realtà brutale di fronte a tutti. «La risposta del capitale alla crisi è un grande rilancio dello stesso modello che ha portato alla crisi», sintetizza Gianni Rinaldini. Una strada che prevede aumento della disoccupazione e - non è un paradosso - aumento dei carichi di lavoro per chi conserva il posto; generalizzazione della precarietà (a livello europeo, «non è diverso da quel che succede nell'Italia di Berlusconi»), superamento dei diritti universali con operazioni corporative (gli asili o la sanità aziendale, il collocamento privato, scuola e università a misura d'azienda, enti bilaterali impresa-sindacato che gestiscono forme di welfare). Un incubo.
Proprio sul welfare la discussione è stata complessa. Tutti d'accordo che occorre avere l'obiettivo del «reddito di cittadinanza», ma «attenti a dire che va sostituito il welfare lavorista con uno tutto diverso, perché questo lo dicono anche Boeri e Ichino». Argomento direttamente connesso alla lotta alla precarietà e che implica una «politica fiscale», non agevole in un paese dove «i padroni» le tasse quasi non le pagano. Un esempio in positivo viene dall'Ilva di Taranto, dove gli operai «stabili» si sono battuti per l'assunzione degli interinali in scadenza.
Più semplice individuare i «sì» partendo dai «beni comuni», categoria che «ha fatto accendere una lampadina nel cervello di tutti noi». Beni che non sono «cose», tantomeno merci; ma ciò che viene individuato come tale nella «pratica» dei movimenti popolari. L'acqua, certamente, su cui ci sarà necessità di organizzare la partecipazione al referendum «accompagnando la gente a votare». Ma anche il ciclo di rifiuti, che ha scosso un Mezzogiorno dalla «subalternità», senza però innescare derive «leghiste» all'incontrario. Beni che hanno e favoriscono un «linguaggio comune», permettendo di aggregare un mare di iniziative altrimenti diverse, ma che bisogna sapere spiegare in modo comprensibile «alla zia Titina». Beni che sfuggono alla trappola della «legalità formale» (a là Repubblica, insomma), «troppo spesso complice del saccheggio» delle risorse o dell'ambiente. Beni che spingono alla partecipazione perché disegna un modello decentrato, mentre - col nucleare, per esempio - il potere cerca la centralizzazione e la militarizzazione.
La formula non è nuova («agire locale, pensare globale»); è nuova la concretezza con cui viene messa in pratica. Dai beni comuni a «contro la proprietà privata» il passo è davvero breve, e si incarna in due nodi: «giustizia sostanziale» e «democrazia». Ma siccome le idee camminano sulle gambe degli uomini, le «organizzazioni politiche ed istituzionali» di questo percorso sono necessariamente diverse da sindacati e partiti per come li abbiamo conosciuti finora.
Le «cose da fare» sono un collante e un discrimine. C'è ovviamente la partecipazione allo sciopero dei metalmeccanici questo venerdì (giovedì per l'Emilia Romagna). Subito dopo la battaglia referendaria sull'acqua, una legge di iniziativa popolare per L'Aquila; e poi un momento specifico per affrontare i problemi dei migranti, l'idea di un seminario internazionale («euro-mediterraneo, visto quel che che sta montando qui vicino a noi»). Con l'orizzonte a Genova, in luglio, quando in tre diverse giornate - 22, 23 e 24 - «oltre alle manifestazioni, dovremo organizzare altri momenti di approfondimento come questo». Insieme ai tanti altri soggetti che, nel 2001, avevano dato vita a una stagione intensa ma purtroppo breve. Stavolta, però, per costruire una continuità ambiziosa: verso un nuovo modello di sviluppo sociale.
Alle volte anche le denunce giornalistiche servono. Vedi, ad esempio, la campagna che da anni sosteniamo su Repubblica, sia contro le truffe che, grazie agli eccessivi incentivi, si accompagnano al proliferare degli impianti eolici, sia contro la devastazione del paesaggio agricolo in seguito alla messa in opera su troppo vaste estensioni di terreno di pannelli fotovoltaici (nella sola Toscana vi sono richieste in tal senso per 4000 ettari). Ora il governo, sotto impulso di Tremonti, interessato a stringere i cordoni della borsa, ha approfittato del passaggio della legge di recepimento delle direttive europee in materia di fonti energetiche rinnovabili per inserirvi anche una revisione del sistema degli incentivi. Le lobby che si erano già attivate per impedire la riforma dei certificati verdi, si sono subito messe all’opera per mantenere le loro posizioni di privilegio, mentre, avvalendosi dell´anno a disposizione, prima che la nuova legge sia operativa, i loro referenti, mafiosi e no, si apprestano ad una corsa sfrenata alle nuove installazioni per acquisire i diritti vigenti prima che decadano. Per bloccare questa più che probabile scorribanda, le principali associazioni ambientalistiche, con alla testa Italia Nostra, hanno chiesto una moratoria di tutte le autorizzazioni per i nuovi impianti fino a quando la riforma non sarà pienamente operativa.
In questa rubrica, quasi sempre ipercritica verso politici e amministratori, mi sia consentito una volta tanto indicare positivamente l’operato del presidente della Giunta toscana, Enrico Rossi, che già porta a suo vanto dieci anni di assessorato alla Sanità, impiegati per rendere la rete asl la più efficiente d’Italia. Eppure anche qui l’attacco speculativo stava prendendo piede e qualche tempo fa denunciammo che la Maremma, comprese le zone archeologiche di Populonia e Baratti, era minacciata da ampi insediamenti di energia solare. Ora mi è pervenuta una nota informativa di pugno di Enrico Rossi, che annuncia due provvedimenti urgenti a difesa del suolo. Il primo, preso dopo i recenti dissesti idrogeologici e franosi in varie zone della Toscana (Massa Carrara, Lucca, gli argini del Serchio e dell´Ombrone), impone nei territori a rischio, per otto mesi-un anno, il blocco di ogni edificazione per procedere alla loro messa in sicurezza, alla verifica degli strumenti urbanistici e al loro eventuale adeguamento e altrettanto per i piani di protezione civile.
L´altra decisione combina insieme tre fattori fondamentali per lo sviluppo della Toscana: l´incentivazione della produzione di energie alternative, le produzioni agricole di qualità e la tutela del paesaggio. «Abbiamo deciso – mi scrive Rossi – di consentire l´installazione di impianti fotovoltaici sul territorio, ma di evitare le distese di pannelli nelle aree di pregio, come i siti inseriti nella lista del patrimonio mondiale dell´Unesco (tra cui la Val D´Orcia), quelle di notevole interesse culturale, quelle vincolate, le zone all´interno di visuali o panorami la cui immagine è storicizzata, zone contigue a parchi archeologici e culturali, le aree naturali protette, le zone umide e anche aree classificate a rischio idraulico e geomorfologico o interessate da interventi di messa in sicurezza. Paesaggio e agricoltura di qualità sono il biglietto da visita della Toscana nel mondo, una delle maggiori attrattive del turismo nella nostra regione e una delle principali voci dell´export agroalimentare. Incentiviamo l´uso delle energie alternative ma certamente esse debbono essere compatibili con il nostro territorio e le sue produzioni di qualità». Mancano due cose da questi lodevoli impegni di buona volontà: la loro rapida traduzione in legge regionale per renderle esecutive; e un’analoga moratoria, accompagnata da una stretta regolazione per l´eolico visto che anche in Toscana vi sono decine di impianti di enormi dimensioni in attesa della Via (Valutazione d´impatto ambientale).
«Uno Stato parallelo», definisce così Marisa Dalai Emiliani - presidente dell'associazione Bianchi Bandinelli - ciò che di grave è avvenuto nella «gestione del terremoto», a conclusione del convegno "L' Italia non può perdere L' Aquila" (Roma, teatro dei Dioscuri, 19 gennaio). E ricorda come fu imposto, durante la gestione dell'emergenza, «il silenzio stampa a soprintendenti e funzionari». Una gestione autoritaria che ha le sue origini, Marisa Dalai cita l'ex direttore del servizio sismico nazionale Roberto De Marco, in quella legge del 2001 che «ha trasformato i grandi eventi in catastrofi e le catastrofi in grandi eventi». Stato parallelo è un'espressione forte per Marisa Dalai, storica dell'arte "senior" abituata a misurare le parole, con un'esperienza trentennale nella gestione dei terremoti, dal Friuli, dove arrivò come volontaria, all'Irpinia e all'Umbria. Questa volta la sua esperienza, come quella di tutti o quasi coloro che hanno memoria storica e pratica dei terremoti, non è servita, è stata respinta. Il consuntivo è amaro: «Deficit di democrazia, deficit di cultura, deficit di organizzazione istituzionale». E l'impressione è che lo stato parallelo, a quasi due anni dal sisma, continui ad operare. Un'ordinanza, spiega Gianfranco Cerasoli, della Uil del ministero, sancisce la fine dell'emergenza, un decreto di Gianni Chiodi affida gli «interventi di restauro non a chi è deputato per legge, cioè alla soprintendenza, bensì al vice commissario Marchetti che avrebbe dovuto occuparsi della sola messa in sicurezza».
Ma se questa è la diagnosi, quali sono gli effetti pratici nel recupero del patrimonio storico artistico della città? Quale il disegno politico che si nasconde dietro l'emarginazione di 630 funzionari delle soprintendenze abruzzesi, stipendiati per fare ciò che, invece, viene affidato e pagato a consulenti esterni. Uno degli effetti dell'emarginazione degli specialisti funzionari dello Stato potrebbe essere quello che vedete rappresentato nella foto qui sopra: a palazzo Carli Benedetti la ditta dei lavori di messa in sicurezza ha perforato gli affreschi di un portale del 700 facendovi passare i tiranti. «L'attuale ministro Sandro Bondi - dice Marisa Dalai Emiliani - si è rivelato il Grande Liquidatore». La storica dell' arte cita tre fatti dalle conseguenze nefaste: «La riduzione delle risorse del 55% in meno di un decennio, il prepensionamento dei funzionari con maggiore esperienza, l'Istituto centrale di restauro, l'Opificio delle pietre dure, l'istituto di patologia del libro, scuole preziose che non possono più rilasciare il titolo di restauratore».
L'Aquila-Italia, dunque: non si sfugge alla regola dei tagli orizzontali di Tremonti, le cifre le dà Gianfranco Cerasoli: i fondi ordinari e il lotto per l'Abruzzo nel 2010 erano 5.788.000 euro, nel 2011 saranno 2.611.000. Il ministro Bondi aveva promesso l’1% dei fondi Arcus per un decennio ma questa cifra, pari a 25 milioni annui, è scomparsa per lasciare posto alla promessa di 60 milioni in un decennio. Ci dovrebbe essere un tesoretto nascosto, quello di Win for Life. Il decreto istitutivo del gioco destina - è ancora Cerasoli a parlare – 23% alla ricostruzione in Abruzzo. «Ma dove sono i 230,7 milioni su 990 fin qui raccolti?». Eppure, se non si trovano le risorse, «saranno buttati 120 milioni di euro spesi per le opere provisionali, perché a distanza di due anni l'efficacia dei puntellamenti è al 30%». Un discorso a sé va fatto sull' ingente patrimonio ecclesiastico. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando, nel 1976, l'arcivescovo di Udine Alfredo Battisti lanciava lo slogan «prima le case poi le chiese». C'è una lettera dell'agosto scorso dei vescovi dell'Aquila al presidente commissario Chiodi che mette in evidenza come la Chiesa sembra essersi adeguata al sistema delle deroghe introdotto dalle ordinanze della Protezione civile che, come sostiene Vezio De Lucia, è «una violazione legalizzata della legge». I prelati, monsignor Molinari e monsignor D'Ercole, lamentano in effetti l'incertezza delle procedure perché «manca un preciso quadro di riferimento normativo» ma poi, sollecitando i finanziamenti pubblici, chiedono «una disciplina per l'affidamento dei lavori con modalità a tutela della diocesi, ma con apposite deroghe (ad esempio sul codice degli appalti) che consentano una rapida ricostruzione». Recuperare, riaprire il centro storico, non è solo una questione di beni culturali. È anche, dice il sindaco Massimo Cialente, una questione di vita e di morte. «Solo gli aquilani sanno cosa era la nostra vita lì, mentre io mi vedo arrivare decreti e regole da gente che non sa nemmeno dove sono le strade principali: la ricostruzione del centrò storico deve partire subito, altrimenti la vita si sposterà altrove e non tornerà più». Nella classifica del sole 24 ore il sindaco ha guadagnato 8 punti percentuali di consenso e non è temerario pensare che li abbia acquistati lasciando la carica di vice commissario. «Vi svelo un retroscena», dice: «addebitare da parte di organi dello stato tutte le difficoltà a una sola istituzione, alla più debole, aveva una sola ragione, decidere chi avrebbe ricostruito, tenendo fuori il sindaco».
Bentornati in un’ “area protetta” solo sulla carta della Sicilia. Una superstrada di 22 chilometri stritolerà il bosco della Ficuzza e cancellerà una preziosa area archeologica. Padrino e sponsor: Renato Schifani, presidente del Senato e cittadino onorario di Corleone. Il bosco della Ficuzza rischia ora l’estinzione.
Uno degli angoli più suggestivi e incontaminati della Sicilia è minacciato da una strada a scorrimento veloce che lo soffocherà con milioni di metri cubi di asfalto, iniezioni di cemento armato ed inquinamento a cielo aperto. L’Anas vuole l’arteria a scorrimento rapido a tutti i costi; addirittura la pretende il presidente del Senato. Renato Schifani rivela una raggiante confidenza: «Si tratta di un’opera essenziale. Gli ambientalisti hanno perso. E poi non contano niente, tanto la superstrada si farà». Per il cartello degli oppositori, contadini, ecologisti, cittadini è solo «uno scempio inutile e costoso». Un «disastro annunciato» perché l’opera pubblica, si srotola per più di 22 chilometri e prevede 11 viadotti, 12 cavalcavia, 2 ponti, 2 gallerie, svincoli a rotonda.
A conti fatti: oltre un milione di metri cubi di sbancamenti. Ventidue e passa chilometri, spezzettatati furbescamente in 5 lotti che passano per ampi tratti all’interno del bosco, dal 1991 Riserva naturale, interessando anche una Zps e ben due aree Sic.
«Inutile» perché secondo lo studio del Forum “Salviamo Ficuzza”, realizzato con il contributo di docenti universitari dell’ateneo palermitano ed esperti in materia si risparmierebbero solo 8 minuti. «Uno spreco di denaro pubblico» perché solo cinque anni fa l’operazione costava 98 milioni di euro: 12 milioni per ogni minuto risparmiato. La spesa attualmente è lievitata a 300 milioni, ma non si arresta, lievita sempre più. Il bosco della Ficuzza è uno dei più suggestivi dell’isola, sicuramente il più vasto della Sicilia occidentale, dove è presente l’80 per cento delle specie animali, tra uccelli e fauna selvatica. Un polmone verde che non è solo natura ma anche storia e cultura.
Carla Quartarone, ordinario di Urbanistica all’università di Palermo è perentoria: «I siti archeologici sulla Montagna Grande, la reggia di Ficuzza, le chiese, i conventi, le masserie, gli insediamenti rurali sono tutti beni culturali che derivano il loro maggior valore dall’essere immersi discretamente in un ambiente dove prevalgono ancora i segni della natura e quelli antropici aderiscono a questa. Questa superstrada superflua e inopportuna spazzerà via tutto». Secondo l’architetto «il progetto di “ammodernamento” della strada statale 118, è in contraddizione con il Piano regolatore generale del Comune, non soltanto perché tale modifica non è prevista in termini di occupazione di suolo e destinazione d’uso, ma soprattutto perché contraddice la valorizzazione del patrimonio culturale e storico e la salvaguardia del paesaggio agricolo e boschivo, assunti come risorse sulle quali fondare un possibile sviluppo sociale e produttivo del territorio corleonese».
Veti incrociati sono piovuti anche da Soprintendenza e Forestale, che hanno bocciato quattro dei cinque lotti in cui è suddiviso il progetto per incompatibilità ambientali e archeologico-paesistiche. In virtù di tali impedimenti l’Anas ha chiesto e ottenuto (con una serie di prescrizioni), il nulla-osta solo per il terzo lotto, cioè quello esterno alle due aree protette. I lavori sono stati consegnati il 16 luglio 2008 all’associazione temporanea d’imprese Tecnis spa Cogip srl Si.ge.nco spa, di Tremestieri Etneo, in provincia di Catania, per l ìimporto contrattuale di 18.788.207,00 di euro. L’ultimazione era prevista per il 7 novembre 2009. Nel luglio scorso è stato inaugurato il terzo lotto in pompa magna. «Uno spettacolo davvero indecente: ministro, presidente del senato, presidente della provincia, vertici Anas e sindaci tutti insieme appassionatamente per inaugurare meno di sei chilometri di strada. A fronte di un tracciato CorleoneMarineo di circa 30 chilometri, a cui dev’essere aggiunto per completezza il tratto Marineo-Bolognetta, di cui non si parla più riferisce Dino Paternostro su un blog locale Matteoli non sapeva cosa stesse inaugurando. Ha parlato di strada, ma si trattava di un piccolo lotto. Lo stesso vale per il presidente Avanti.
E gli altri quattro lotti? L’Anas (ce l’ha riferito il direttore regionale Ugo Dibbennardo) ancora deve completare i progetti esecutivi. E poi provare ad acquisire i prescritti pareri della Soprintendenza al territorio e ambiente e dell’azienda foreste demaniali. Il sindaco di Marineo, Franco Ribaldo chiede di convocare una conferenza di servizio, per mettere attorno allo stesso tavolo gli enti interessati ad esprimere i pareri sui progetti ancora in corso, per accelerare le procedure». Non nasconde l’entusiasmo Antonino Iannazzo (Pdl) sindaco di Corleone: «Esprimiamo grande soddisfazione Per ora si comincerà a costruire partendo dal centro». E gioisce l’assessore regionale all’ambiente, Giuseppe Sorbello, all’idea di spazzare via pini secolari in ottimo stato vegetativo.
Quest’opera pubblica non è altro che la riesumazione di un discutibile progetto della Democrazia cristiana risalente agli anni ’70, quelli di Lima e del sacco di Palermo: l’ “adeguamento” della statale 118 da Marineo a Corleone. L’Anas rilancia addirittura con un altro progetto nella stessa area: il by pass di Marineo, 7,7 chilometri di viadotti e gallerie che solcano pregevoli aree archeologiche, per un costo di 160 milioni di euro. Per sottrarre l’entroterra palermitano dal temibile «isolamento» l’area che statistiche ufficiali alla mano presenta la maggiore densità stradale dell’isola di cui parlano i fautori, un’alternativa ecosostenibile esiste: una bretella di collegamento tra il Corleonese e la veloce Palermo-Sciacca nel tratto tra Corleone e Roccamena. Solo 15 chilometri di tracciato con un impatto ambientale quasi nullo. Tempo di percorrenza 42 minuti, 8 in meno rispetto al tempo necessario utile a percorrere la superstrada ideata dall’Anas.
Uno stupro ambientale vale pure un Renato al Senato.
"LA STAMPA": CENSURA ISTITUZIONALE
Ecco il retroscena. Tranquilli: è tutto a posto, tutto legalizzato, si fa per dire. L’inchiesta era stata concordata con il caporedattore Guido Tiberga e con il direttore Giulio Anselmi. Non vedrà mai la luce e i due colleghi non forniranno in merito alcuna delucidazione.
Un passo indietro. Apro un’inchiesta su questo scempio annunciato. Volo a Palermo e chiamo il responsabile dell’Anas. Poi il sindaco di Corleone e altri soggetti coinvolti. La notizia di un cronista ficcanaso giunge al presidente del Senato pro tempore. Renato Schifani mi fa telefonare dal suo segretario particolare e mi invita a palazzo Giustiniani in Roma per partecipare alla festa del ventaglio; un discorso di fine anno con annessa abbuffata a spese degli ignari contribuenti (presenti molti parlamentari del cosiddetto centro sinistra). Ci vado. Dopo i convenevoli di rito Schifani in persona appare sorpreso per questo mio specifico interessamento. Espongo i nudi fatti e lui mi consiglia di prendermi una vacanza. Rammento a Schifani che negli anni ‘90 era socio della “Sicula Brokers”con Nino Mandalà e Benny D'Agostino, entrambi condannati in via definitiva per associazione mafiosa. Per la cronaca: Renato Schifani è stato consulente del sindaco di Villabate (in provincia di Palermo) la cui giunta comunale è stata sciolta ben due volte per collusione con la mafia.
Singolare coincidenza: proprio per mafia Schifani Renato è attualmente indagato dalla Procura della Repubblica di Palermo. Insomma, tutto a posto.
Epilogo: Schifani nel febbraio del 2009 compie una visita lampo alla redazione di Torino del quotidiano di casa Fiat. Risultato finale: Anselmi passa a presiedere l’Ansa, mentre la collaborazione professionale dello scrivente viene inesorabilmente troncata, senza nemmeno uno straccio di spiegazione. L’attuale direttore Mario Calabresi finge di cadere dalle nuvole.
Casablanca. Storie dalle città di frontiera
Perché la nostra rete è in condizioni così disastrose? Chi saranno i protagonisti della gara per gestirla? Chi gestisce oggi il sistema idrico nazionale? E quali novità saranno introdotte a fine anno dal Decreto Ronchi? La domanda che in questa fase tutti si fanno è questa: per l´utente è meglio un gestore pubblico o uno privato?
MILANO - Il risiko dell´oro blu si prepara a ridisegnare la mappa dell´acqua italiana. Nei prossimi 12 mesi - salvo stop dal referendum di giugno - un po´ di maxi utility italiane, i grandi costruttori di casa nostra e un´agguerrita pattuglia di colossi stranieri si affronteranno in una partita miliardaria: la riorganizzazione della rete idrica tricolore con un´apertura più decisa ai privati. I vincitori si spartiranno un Bingo da sogno: il ricco (e anticiclico) mercato delle bollette - già cresciute del 65% dal 2002 a fine 2010 - e la gestione dei 64 miliardi di euro di investimenti necessari per rimettere in sesto i 300mila chilometri di tubi che trasportano il prezioso liquido dalle sorgenti fino ai rubinetti di casa nostra. Un colabrodo «non degno di un paese avanzato» - come dice tranchant il Censis - che perde per strada 47 litri ogni 100 immessi in rete, con un danno di 2,5 miliardi l´anno. La strada a livello legislativo è già tracciata: entro dicembre - dice il Decreto Ronchi - gli enti locali dovranno aprire definitivamente ai privati questo mercato. Mantenendo la proprietà dell´acqua ma affidandone a terzi la gestione industriale. C´è solo un ultimo (fondamentale) ostacolo per questa rivoluzione che rischia di avere conseguenze importanti anche per il portafoglio dei consumatori: il referendum di giugno che chiede l´abrogazione del provvedimento, lasciando il servizio idrico nazionale in mano allo Stato. Ma quanta acqua potabile abbiamo in Italia e perché la nostra rete è in condizioni così disastrose? Chi saranno i protagonisti di questa corsa all´oro blu? Ed è vero che con lo sbarco dei privati nei rubinetti di casa pagheremo bollette molto più alte?
UN TESORO DAL CIELO
Giove pluvio ha avuto un occhio di riguardo per il Belpaese. Sull´Italia, certifica Eurostat, cadono in media 296 miliardi di metri cubi l´anno di pioggia (per il 42% al nord) cifra che ci mette al sesto posto nel continente dietro Francia (485), Norvegia (470), Spagna (346) e vicini a Svezia (313) e Germania (307). Al netto dell´evaporazione e dei deflussi abbiamo accesso a 157 miliardi di metri cubi (3mila l´anno per abitante). Un capitale immenso che però - come spesso accade nel nostro paese - non riusciamo a far fruttare visto che in rete pompiamo "solo" 136 metri cubi a testa ogni dodici mesi.
Dove si perde tutto questo ben di Dio che piove dal cielo? In buona parte nei fiumi e sottoterra. «L´Italia non ha gli invasi necessari per conservare questo tesoro per i periodi siccitosi», ripete da anni l´Associazione nazionale bonifiche e irrigazioni (l´agricoltura consuma 20 miliardi di metri cubi l´anno contro i 16 dell´industria e i 5,2 per consumi domestici). I 337mila chilometri di acquedotti tricolori ci danno così accesso solo a un terzo di quanto è disponibile in pozzi e sorgenti. E quando bene siamo riusciti a imbrigliare l´acqua in un tubo, non riusciamo a trasportarla sana e salva a destinazione: di100 litri raccolti alla fonte, al rubinetto ne arrivano solo 53. A Bari, certifica l´Istat, bisogna mettere in rete 206 litri per riuscire a consegnarne 100. A Palermo 188, a Trieste 176. Milano (dove i smarriscono solo 11 litri ogni 100) e Venezia (9) sono mosche bianche in questa liquidissima galassia di sprechi che butta dalle sue falle - calcolano Civicum e Mediobanca - qualcosa come 2,5 miliardi di euro di oro blu ogni anno. In Germania, per dire, la dispersione è di sette litri su 100 (e lì è una cifra che fa scandalo) mentre la media europea è del 13%.
IL QUADRO DI REGOLE
Chi gestisce oggi la rete idrica nazionale? Cosa cambierà con il decreto Ronchi che - salvo successo del referendum - allargherà la presenza dei privati nel settore da fine 2011? Fino a pochi mesi fa il quadro di regole era quello disegnato dalla legge Galli a metà degli anni ‘90. Un´Italia dell´acqua "federale" divisa in 92 Ambiti territoriali ottimali (Ato) pubblici - prima se ne occupavano 8.500 comuni - che dopo aver steso un programma di interventi necessari per migliorare la rete dovevano riaffidare il servizio. Una piccola rivoluzione accompagnata dal passaggio da un sistema tariffario rigido (regolato dal Cipe per tutto il paese) a una tariffa reale media in grado di coprire gli investimenti e un rendimento garantito al gestore (il 7%). Con un tetto di incremento annuo per i prezzi al consumo fissato comunque al 5%. La metamorfosi però va ancora a rilento. A 15 anni dalla riforma, dei 92 Ato - dice il Blue Book 2010 di Utilitatis - solo 72 hanno provveduto ad affidare il servizio. E l´acqua è ancora saldamente in mano pubblica. Ben 34 Ato hanno girato la gestione a realtà controllate al 100% da enti locali. In tredici casi è stata passata a società quotate ma a forte presenza pubblica come le multitutility e in altri dodici ad aziende miste pubblico-privato. Solo 6 Ato - di cui cinque in Sicilia - hanno consegnato le chiavi dei loro acquedotti (ma non la proprietà) interamente ai privati. Cosa cambierà a fine 2011? Il Decreto Ronchi farà decadere tutti gli affidamenti in house, quelli a società interne, a meno che non si apra il capitale per almeno il 40% a un socio privato. Le municipalizzate potranno invece conservare la gestione solo se la quota pubblica del loro capitale scenderà sotto il 40% a giugno 2013 e sotto il 30% a fine 2015.
I NUOVI PADRONI DELL´ORO BLU
Chi sono i protagonisti privati di questo risiko dell´oro blu? L´identikit dei concorrenti ai nastri di partenza è già abbastanza chiaro. Anche perché molti di loro hanno già messo uno zampino nel mercato idrico nazionale e si stanno organizzando da tempo per la grande partita della privatizzazione. A far gola non è soltanto il business dell´acqua in sé. Anzi: «Il tetto al 5% dell´incremento delle tariffe è un limite che spaventa molti potenziali investitori», ammette Adolfo Spaziani, direttore di Federutility. Il boccone più grosso sono gli investimenti necessari per tappare le falle degli acquedotti nazionale: una torta gigantesca da 64,1 miliardi nell´arco dei prossimi 30 anni (compresi interventi su fogne e impianti di depurazione), stima il Blue Book 2011, che fa gola anche ai costruttori. Da dove arriveranno questi soldi? Per il 14%, stima il Censis, da aiuti pubblici a fondo perduto. Per il resto saranno finanziati con le bollette. L´aumento necessario tra il 2010 e il 2020 - calcola Utilitatis - sarebbe del 18%. Soldi. Tanti. Che hanno già attirato diversi pretendenti al business dell´acqua privata. La pattuglia tricolore vede in campo tre big e qualche comprimario. Acea, la municipalizzata romana nel cui capitale sta crescendo rapidamente il gruppo Caltagirone (attivo nelle costruzioni), ha già oggi 8 milioni di utenti in diversi Ato a cavallo tra Lazio, Toscana e Umbria. Non solo. La società capitolina non ha mai nascosto il suo interesse per l´Acquedotto Pugliese (che Nichi Vendola sta cercando di blindare in mano pubblica) e ha iniziato a muovere i suoi primi passi anche verso la Lombardia. L´astro emergente - pronto a sfidare Acea per la leadership tricolore - è la Iren, la utility nata dalla fusione delle municipalizzate di Genova, Torino, Parma, Piacenza e Reggio Emilia e partecipata da IntesaSanpaolo. Opera già in Emilia, Liguria, Piemonte, Sardegna e Sicilia. E ha stretto un´alleanza azionaria di ferro con F2I, il fondo per le infrastrutture di Vito Gamberale, pronto a una scommessa importante sul business dell´acqua. Alla finestra c´è anche la Hera, la utility bolognese, forte nella regione d´origine ma ai nastri di partenza - almeno in apparenza - con piani meno ambiziosi. Mentre A2a e Acegas si muovono per ora solo a livello locale. Chi sono i big stranieri pronti a scalare l´acqua tricolore? Due hanno già scoperto le carte: Suez, il colosso transalpino, in campo a fianco dell´Acea, con cui già lavora in Toscana e Umbria e il rivale francese Veolia, che distribuisce l´acqua nell´Ato di Latina, a Lucca, Pisa, Livorno e nel Levante ligure. Una sbirciatina al dossier Italia l´hanno data gli inglesi di Severn Trent (che ha già messo un piedino in Umbria) e gli spagnoli di Aqualia sbarcati da tempo a Caltanissetta.
IL REBUS PUBBLICO-PRIVATO
Meglio per l´utente un gestore pubblico o privato? La risposta naturalmente non è facile. E l´esperienza degli ultimi anni non aiuta certo a sciogliere il dubbio. Ci sono amministrazioni pubbliche più che efficienti ed economiche - Milano ad esempio spreca poca acqua e ha una delle tariffe più basse d´Europa - e altre con bilanci e acquedotti che fanno acqua in tutti i sensi. I privati hanno spesso prezzi più alti ma in media tendono a garantire più servizi e investimenti. Proviamo a far parlare i pochi dati disponibili. Primo fatto: in assenza di un´authority che regoli il settore nessuno, pubblico o privato, riesce a rispettare gli impegni. Gli investimenti previsti dagli Ato nei loro primi anni di vita sono stati realizzati solo al 56%, dice il Coviri, l´ente che vigila sul settore con pochissimi poteri.
Le realtà a controllo pubblico sono riuscite a mandarne in porto molto meno del 50% («anche perché lo stato taglia gli stanziamenti e loro non riescono a finanziarsi sul mercato o con nuove tasse», sostiene Spaziani). Le Spa miste e le municipalizzate li hanno ridotti "solo" del 13% in base agli studi del Blue Book. «Però da quando nell´acqua operano i privati l´occupazione è scesa del 30% e i consumi sono aumentati della stessa misura», sottolinea Marco Bersani del Forum movimenti per l´acqua pubblica. La legge Galli, per assurdo, ha ingessato il sistema. Fino al 1995, quando pagava tutto Pantalone (alias lo Stato), si spendevano 2 miliardi l´anno per la manutenzione di acquedotti, fogne e depuratori. Oggi siamo fermi a 700 milioni. Roma taglia e i privati, in assenza di meccanismi tariffari premianti, investono con il contagocce.
IL NODO DELLE TARIFFE
I privati fanno pagare di più l´acqua? Questo, naturalmente, è il dato che interessa di più l´utente finale che fino a quando vede l´acqua scorrere dal rubinetto di casa si preoccupa più del suo portafoglio che dei buchi della rete a monte. Anche qui - sul fronte della bolletta - i dati empirici sono per ora pochi. Certo gli affidamenti degli Ato ad aziende miste o private che hanno promesso più investimenti hanno comportato un balzo secco della bolletta. Nel 2002 ogni italiano pagava in media 182 euro l´anno per il servizio idrico. Oggi siamo a 301, il 65% in più. Gli abitanti di Toscana (462 euro di spesa l´anno), Umbria (412), Emilia (383) e Liguria (367) - le regioni dove il processo di privatizzazione è più avanti - sono quelli che scontano prezzi più elevato (i lombardi, per dire, spendono 104 euro). Dei 25 Ato con tariffe al top, 21 sono privati o in gestione mista. «Ma una spiegazione c´è - dice Spaziani - . Lì si investe di più mentre gli Ato a gestione pubblica privilegiano per ovvi motivi di consenso politico la tariffa bassa al servizio efficiente». Ma non sempre è così: «Ad Agrigento c´è la bolletta più alta del paese e l´acqua arriva due volte la settimana e solo in due terzi della città - dice Bersani - . Salvo poi scoprire che il gestore privato Girgenti Acque ne vende un bel po´ a Coca Cola per fare una bevanda gassata». A Latina - dove il Comune è affiancato da Veolia - i costi sono schizzati «tra il 300 e il 3000%» calcola Bersani e 700 famiglie si autoriducono ogni mese la bolletta pagando il giusto (dicono loro) al Comune. A fine 2010 un metro cubo d´acqua costava 1,37 euro (con picchi di 2,28 per l´alta Toscana e di 0,66 a Milano). Nel 2020 saremo a quota 1,63, il 18% in più con punte di +75% per l´area di Lecco (che passa alla tariffa media) e del 67% nell´Ato Bacchiglione gestito da Aps-Acegas. «Ma attenzione - dice Giuseppe Roma della Fondazione Censis - restiamo comunque ben al di sotto di quanto si spende nel resto d´Europa». Un berlinese paga per l´acqua quasi mille euro l´anno, a Bruxelles la bolletta è di 580, a Varsavia 545. A Barcellona, Oslo, Helsinki e San Francisco siamo al doppio dei 200 dollari della capitale italiana. «Purtroppo dobbiamo rassegnarci - spiega Roma - . Il dilemma pubblico-privato è un falso problema: il sistema fa acqua da tutte le parti. Due italiani su dieci non hanno il servizio di fogna, al sud quasi uno su due riceve acqua non depurata. Non importa chi gestirà la rete in futuro. Per far funzionare la rete dobbiamo alzare e non di poco il prezzo. Le tariffe oggi riflettono solo la ricerca di consenso politico». Senz´acqua, in fondo, non si può stare. E - come ricorda Spaziani - per la bolletta idrica spendiamo oggi solo lo 0,8% delle uscite mensili contro il 2% per il telefono, il 5,3% in elettricità e riscaldamento, il 14,9% per i trasporti e lo 0,9% per le sigarette. Per non parlare, dulcis in fundo, del più assurdo dei paradossi: in Italia una famiglia di 4 persone spende in media 340 euro l´anno in acqua minerale. Trentanove in più di quanto stanzia (lamentandosi) per quella che arriva dal rubinetto.
PostillaForse varrà pure la pena di ricordare che per accumulare l’acqua in eccesso alla capacità di consumo basterebbero i vasti depositi sotterranei creati dalla natura. Solo che si rispettassero quegli strumenti di pianificazione, messi a punto nel secolo scorso, con i quali si era deciso che la difesa pianificata delle acque doveva avere la priorità su agni altra decisione di trasformazione, che uguale priorità doveva avere la tutela del paesaggio, e che le decisioni di coinvolgere nuovi territori nella laterizzazione (trasformazione della terra in una repellente crosta di cemento e asfalto) dovevano avere la loro rigorosa premessa in una pianificazione orientata (e limitata) dal soddisfacimento dei fabbisogno socialmente rilevanti. Perciò la battaglia per l’acqua pubblica è strettamente legata alla battaglia contro il consumo di suolo e per una corretta pianificazione del territorio.
Il gasdotto Adriatica toccherà 10 regioni e 3 parchi nazionali. Ed è protesta - L’impianto porterà nel nord del Paese il gas che arriva dall’Algeria e dalla Libia - "Perché non si fa passare quest’opera sulla costa dove ne esiste già un’altra?"
CITTÀ DI CASTELLO (PERUGIA) - Ti parlano della foresta Macchia Buia come se fosse una figlia. «Ci si arriva solo a piedi, non ci sono strade. È bellissima. Ci sono distese di faggi e cerri dove incontri i caprioli, i cervi, il lupo e il gatto selvatico che si credeva estinto… Dicono che ci sia anche la lontra». Ma passerà anche qui, il grande Tubo, e taglierà una fetta di bosco larga 40 metri. Taglierà anche fette dell’Alpe di Luna e del Ranco Spinoso, interromperà fiumi e torrenti, scaverà gallerie nelle montagne. Si chiama «Rete Adriatica», questo grande Tubo, e porterà il gas da Massafra di Taranto fino a Minerbio di Bologna, 687 chilometri percorsi in gran parte sul crinale dell’Appennino, ultima zona quasi intatta d’Italia. Il progetto è della Snam rete gas spa, con la partecipazione della British Gas, presentato nel 2005. Il gasdotto porterà nel nord dell’Italia (poi forse in altri Paesi europei) il gas che arriva dall’Algeria e dalla Libia. «Noi abbiamo saputo di questo gasdotto - raccontano Stefano Luchetti e Aldo e Ferruccio Cucchiarini, dei comitati No Tubo di Città di Castello e Apecchio - leggendo un avviso sull’albo pretorio dei nostri Comuni. Era stato affisso per chiedere agli enti locali il riconoscimento della pubblica utilità dell’opera. Subito non ci siamo preoccupati. In fin dei conti un tubo che passa sotto terra, che male farà? Poi ci siamo informati. Questo tubo ha un diametro di 1,2 metri e va messo in una trincea cinque metri sotto terra. Ma ha bisogno di una servitù di venti metri per parte, insomma di una fetta di territorio di 40 metri. E serviranno, in molte zone montane, anche strade che permettano l’accesso delle ruspe e degli escavatori necessari ai lavori di sbancamento e alla messa in posa del tubo. Il nostro dubbio più grande è questo: perché si fa passare il tubo sul crinale appenninico, così delicato, e non sulla costa adriatica, dove già esiste un altro gasdotto?».
In effetti, il progetto iniziale prevedeva il raddoppio sulla costa, come avvenuto per l’altro gasdotto sulla costa tirrenica. Poi la Snam ha annunciato di avere riscontrato «insuperabili criticità» su quel percorso - come scrivono i Comitati di protesta in un esposto presentato alla Commissione europea - e ha deciso di deviare il grande tubo sull’Appennino. Ma qui i problemi si aggravano. «Il gasdotto - dice Stefania Pezzopane, assessore al Comune dell’Aquila - segue infatti la faglia del nostro terremoto ed entra poi in Umbria, sulla faglia del terremoto del settembre 1997. Noi abbiamo saputo in ritardo di questo progetto. La richiesta è arrivata infatti al Comune dell’Aquila il giorno 8 aprile 2009, due giorni dopo il grande sisma, quando ancora si cercavano i morti e i feriti. Avremmo dovuto dare risposta scritta entro trenta giorni, altrimenti il silenzio sarebbe stato interpretato come assenso. Ma in quei giorni il Comune nemmeno aveva una sede. Appena ripreso fiato, dopo i mesi della disperazione, l’anno scorso come presidente della Provincia ho firmato il ricorso alla Comunità europea. Adesso anche il Comune ha preso la stessa decisione, così come la provincia di Pesaro, quella di Perugia, i Comuni di Gubbio, Città di Castello e tante associazioni ambientaliste come Wwf e Italia nostra». In zona fortemente sismica è anche la prevista centrale di decompressione di Sulmona. «Occuperà un’area - dice Mario Pizzola, del comitato Cittadini per l’ambiente - di 12 ettari, vicino a zone abitate, e sarà un brutto biglietto da visita per chi entra nel parco della Maiella. Noi abbiamo già raccolto 1.300 firme per denunce individuali alla Comunità europea. È assurdo aggiungere rischi in un territorio come il nostro che già dovrebbe essere messo in sicurezza».
Nel documento inviato all’Europa si dice che il gasdotto ha ricevuto autorizzazioni parziali, e in alcuni casi scadute, per ognuna delle cinque tratte in cui è stato suddiviso, ma che manca una Vas, valutazione ambientale strategica che studi il progetto nel suo insieme. Si insiste sul fatto che il percorso attuale tocca i parchi nazionali della Maiella, dei monti Sibillini e del Gran Sasso - qui oltre ai lupi vivono anche gli orsi - oltre al parco regionale del Velino - Silente e 21 fra siti d’interesse comunitari e zone a protezione speciale, dal lago di Capaciotti ai boschi di Pietralunga. Luoghi come Macchia Buia o Alpe di Luna che rischiano di essere falciati, come un prato, dal grande Tubo.
Ogni fase della vita di una nazione contiene in sé una rivelazione, nel bene come nel male, e i giorni che stiamo vivendo sembrano farci cogliere la progressiva "scomparsa della vergogna".
Dopo aver progressivamente smarrito la capacità di indignarci – che implica codici di riferimento e vincoli collettivi – stiamo forse per compiere un altro passo. "Stiamo sprofondando in una nuova era", diceva negli anni Ottanta un personaggio di Altan, ed è forte la sensazione che stia accadendo anche oggi: ce lo suggeriscono non solo le intercettazioni pubblicate ma anche alcuni commenti ad esse. Quasi a giustificazione del premier e delle sue amiche, è stato scritto ad esempio (e non su un blog del Partito della Libertà) che in fondo "il mondo è pieno di ragazze che si concedono al professore per goderne l´indulgenza all´esame o al capo ufficio per fare carriera". è lecito chiedersi, mi sembra, che Paese siamo diventati. Si pensi poi alla privacy che viene strenuamente invocata a difesa del Cavaliere: dimenticando costantemente che essa è stata messa immediatamente fuori causa dalla telefonata del Premier alla questura di Milano, dal suo contenuto e dalle sue modalità (oltre che dalla immediata comparsa sulla scena di una eletta alla Regione Lombardia, che era stata inserita d´autorità nella lista blindata del cattolicissimo governatore Formigoni).
Si avverte davvero l´urgenza che la classe dirigente nel suo insieme pronunci quel "sermone della decenza", quel pronunciamento solenne sui limiti invalicabili che Barbara Spinelli ha invocato ieri benissimo su queste pagine. Purtroppo quel pronunciamento non sembra imminente e in questi giorni hanno tenuto campo invece non pochi "sermoni dell´indecenza".
È inevitabile ripensare ai primi anni Novanta e al crollo della "prima repubblica". Quel crollo fu accelerato e non frenato dal tentativo parlamentare di salvare Bettino Craxi e dal vasto sussulto di indignazione collettiva che esso suscitò: in caso di "assoluzione parlamentare" del Cavaliere – con una ulteriore dichiarazione di guerra alla giustizia e alla magistratura – sembra difficile prevedere oggi qualcosa di simile a quella mobilitazione. Anche su essa però occorre riflettere molto criticamente, perché anche gli abbagli e le semplificazioni di allora possono aiutarci a capire. Fu un grave errore considerare quel sussulto nel suo insieme solo un segno di diffusa sensibilità civile e non cogliervi anche alcuni degli umori peggiori dell´antipolitica: senza l´agire di essi non comprenderemmo perché quella fase si sia conclusa con il trionfo di Silvio Berlusconi e di Umberto Bossi. Fu un devastante autoinganno attribuire ogni colpa al ceto politico, contrapponendogli una virtuosa società civile: come se non fosse stata attraversata anch´essa da quella profonda mutazione antropologica che Pier Paolo Pasolini aveva colto. E non è possibile rimuovere che corpose espressioni della "società civile" che si era modellata negli anni Ottanta furono immesse realmente nelle istituzioni dalla Lega e da Forza Italia, con gli effetti che abbiamo sotto gli occhi. C´è naturalmente da chiedersi perché altre, ben diverse e positive parti di "società civile" siano state largamente ignorate dalle forze politiche che si contrapponevano a Berlusconi e a Bossi, ma giova restare al cuore del problema.
Si ripetè in realtà vent´anni fa l´errore che Massimo D´Azeglio coglieva alle origini del nostro Stato: "Hanno voluto fare un´Italia nuova e loro rimanere gli italiani vecchi di prima (…) pensano a poter riformare l´Italia e nessuno si accorge che per riuscirci bisogna che gli italiani riformino se stessi" (la frase, come si vede, è molto più illuminante di quella che gli viene abitualmente attribuita). Non va dunque mitizzata la reazione della società italiana dei primi anni Novanta alla crisi della politica, ma all´interno di essa vi fu anche sussulto civico, vi fu anche l´idea di una diversa etica pubblica, vi furono anche umori e passioni civili. Essi riemersero poi ancora negli anni successivi, diedero spesso vigore e anima a un centrosinistra che dimostrò presto la propria inadeguatezza sia al governo che all´opposizione. Indubbiamente l´assenza di una reale prospettiva di cambiamento ha contribuito poi potentemente al diffondersi di disincanto e di rassegnazione, di sensi diffusi di impotenza, di ripiegamenti nel silenzio (e talora di nuovi, sconsolati conformismi). Ha reso progressivamente più deboli quelle diverse e disperse parti della società che non volevano rinunciare a un futuro differente. Più ancora, non volevano rinunciare al futuro. Sarebbe però di nuovo un errore cercare le colpe solo nella politica senza interrogarsi più a fondo sui processi profondi che hanno attraversato in questi anni la società italiana. Nel vivo delle più ampie mobilitazioni civili vi erano stati spesso, ad esempio, quei "ceti medi riflessivi" su cui ha richiamato l´attenzione Paul Ginsborg: la storia di questi anni è però anche la storia del loro progressivo isolamento culturale e sociale, non solo politico. è anche la storia dell´affermarsi di forme moderne di incultura se non di "plebeismo" – per dirla con Carlo Donolo – nello stesso "cuore ansioso dei ceti medi", sempre più incapaci di svolgere ruoli di "incivilimento". Ma ancor più a fondo dovremmo spingere lo sguardo per cogliere lo spessore del baratro che abbiamo scavato, a partire dalla dissipazione quasi irreversibile dei beni pubblici o dalla distruzione delle risorse e – più ancora – delle speranze delle generazioni più giovani.
A sconsolanti riflessioni rimanda del resto anche il clima in cui sono stentatamente iniziate le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell´Unità, ed è impietoso il raffronto con l´Italia del primo centenario. In quel 1961 non vi era solo l´entusiasmo per il "miracolo economico": assieme alle condizioni materiali quell´Italia stava migliorando sensibilmente anche il proprio orizzonte di libertà. Stava mettendo mano all´attuazione reale di una Costituzione che era stata "congelata" negli anni della guerra fredda, stava rimuovendo pesanti residui del fascismo e dando voce a sensibilità sin lì inedite. Più in generale, si stava presentando anche sullo scenario internazionale come una realtà nuova, e si leggono oggi con emozione le parole che John Fitzgerald Kennedy pronunciò al Dipartimento di Stato proprio in occasione del nostro centenario. In quel discorso il Presidente degli Stati Uniti giudicava l´Italia "l´esperienza più incoraggiante del dopoguerra" e vedeva al tempo stesso "nella tradizione di Mazzini, Cavour e Garibaldi, come di Lincoln e di Washington" il riferimento possibile per un "nuovo Risorgimento" internazionale (le parole sono sempre di Kennedy). Non saranno molti i capi di Stato che si rivolgeranno a noi con accenti simili nelle celebrazioni in corso, ma quelle lontane parole di Kennedy smentiscono drasticamente chi ci dice con desolante rassegnazione che "siamo sempre stati così". E ci dicono che potremmo ricostruire anche oggi un futuro diverso: difficilissimo, quasi impensabile, ma disperatamente necessario.
Nei quartieri blindati
di Jenner Meletti
Sembra lontano, il mondo degli altri. È là in fondo, oltre il muro di cinta, oltre la nebbia. Questo è «un luogo magico e nascosto», un rifugio scelto da chi vuole «cambiare vita e proteggere i propri figli». Piazza del Duomo è appena a quindici chilometri, ma sembra in un altro continente. «Qui ci sono sicurezza assoluta, tranquillità, silenzio», dice Stefano Fierro, che cura la vendita di 146 case e appartamenti in questa cascina Vione, gated community - ovvero comunità chiusa da cancelli - sulla strada che porta a Pavia. «Ci sarà vigilanza armata, ci saranno telecamere sul muro di cinta e sensori elettronici antintrusione. Potranno entrare solo i residenti e gli ospiti dei residenti, dopo l’identificazione».
Stanno nascendo anche in Italia, le città blindate. Vione aprirà il Primo Maggio, con la consegna delle chiavi di casa (elettroniche) a medici, avvocati, manager, impresari… Età compresa fra i 35 ed i 50 anni, tutti con famiglia, quasi tutti con bambini. Spenderanno almeno 4.200 euro al metro quadro per appartamenti che vanno dagli 80 ai 250-300 metri quadri.
Dovranno poi pagare forti spese «condominiali» per vigilanti, giardinieri, custodi. Le vendite vanno bene perché «Vione - è scritto nel sito che propone l’investimento - non è solo un luogo ma un modo di pensare e di vivere». Le promesse sono impegnative. «Si potrà, come una volta, vivere tranquilli lasciando aperta la porta di casa». «Potrai passeggiare come faresti a Portofino o Capri, ma senza il turismo».
Certo, il panorama non è lo stesso. Attorno ci sono le risaie che offrono nebbia in inverno e zanzare in estate. «Ci saranno zanzariere ovunque. Il "panorama" sarà dentro la cascina stessa, perché stiamo ristrutturando edifici secolari, che sono tutelati dalla Soprintendenza ai Beni culturali, e lo facciamo con ogni cura. Questa "grangia", che è un borgo fortificato, era abitata già nel 1300 dai monaci cistercensi. Oltre a quelli privati, ci sarà anche un grande giardino storico, del ‘700». Pollai, stalle e case dei braccianti sono già diventati appartamenti di lusso, appena meno prestigiosi di quelli ricavati nella villa padronale. Chi arriva qui - lo ha ripetuto cento volte prima di firmare il rogito - ha chiesto prima di tutto la sicurezza e ha avuto risposte esaurienti.
Non saranno tenuti lontano solo ladri o rapinatori ma anche gli «indesiderati». «In città - annuncia la pubblicità della cascina - ci sono traffico, inquinamento, aggressività, violenza e soprattutto troppe persone con origini e abitudini diverse». Qui non rischi di trovarti accanto il migrante che cucina con aglio e zenzero. «Verranno ad abitare qui persone con background culturale e lavorativo comune, ci sarà quel buon vicinato ormai perduto in città». L’asticella del reddito è posta ben in alto: chi vuole mettersi sopra il capo un tetto con antiche travi a vista deve infatti ripagare un investimento di almeno 60 milioni di euro per un «condominio» di circa 500 abitanti.
Un mulino diventerà una sala per mostre e convegni del Comune di Basiglio, ci sarà pure un ristorante con le stelle, ma chi li frequenterà non potrà entrare nella gated community. La strada provinciale che passava qui accanto è stata spostata: il rumore delle auto - il residente si infila in garage sotterranei poi si presenta a piedi davanti ai guardiani - non deve ricordare che fuori esiste una vita meno patinata. «Per quanto possa essere stata dura la tua giornata, quando sarai a casa nessuno ti disturberà e il resto del mondo resterà fuori dalla tua vita».
Cascina Vione, con le sue mura antiche, è a un tiro di schioppo da Milano 3, con centinaia di palazzine, parchi e una City di uffici e banche. Tanti altri quartieri, come l’Olgiata a Roma, sono stati costruiti come pezzi autonomi di città. «Insediamenti come questo, e soprattutto come Milano 2 - dice Agostino Petrillo, docente di Sociologia urbana al Politecnico milanese - più che gated communities sono definiti neighdourhood, ovvero quartieri, zone di vicinato. Sono piccole enclave urbane, non vere città indipendenti. Ce ne sono anche a Londra, ad esempio nella zona dei Docks. Sono "blindate" solo in certe ore, alla sera, e non c’è dunque un’auto segregazione completa. Milano 2, inoltre, più che come città chiusa nasce come città giardino e da un punto di vista architettonico è una piccola utopia. La sicurezza non è al primo posto, come nelle gated communities. Voleva essere una città modello, per famiglie, quadri, dirigenti. Ma la piccola utopia non si è realizzata. Le famiglie con figli sono oggi sempre meno presenti, e gli appartamenti sono occupati soprattutto da professionisti che lavorano in città e hanno trasformato Milano 2 in una città dormitorio. Gli spazi comuni, come i prati e i parchi, restano spesso deserti».
Fabrizio Rossitto, architetto, nella sua tesi di laurea ha raccontato le nascenti gated communities milanesi. «In particolare - dice - ho analizzato la Viscontina di Buccinasco. Settanta famiglie, di ceto medio alto, in 29 ville singole, 10 ville bi - familiari, 20 abitazioni a schiera. Quasi tutte le famiglie hanno figli, ci sono anche anziani ma non giovani coppie e tantomeno single. C’è una portineria con custode e telecamere di sorveglianza. In caso di visite, l’inquilino ospitante deve recarsi all’ingresso per ricevere e permettere di entrare all’ospite. I confini sono ben segnati da muri di cinta alti tre metri oppure da una fitta siepe di rovi. Si vive nello stesso spazio protetto ma non c’è vita comune: non vengono mai organizzate ricorrenze o festeggiamenti. Caratteristiche principali sono la tranquillità e la cura del verde: non a caso è stato girato qui uno spot del Mulino bianco della Barilla».
L’ex studente ha analizzato anche un altro complesso di Buccinasco, il Rovido. «Qui ci sono 380 famiglie, anche con giovani e single. Più che una gated community questo è un "vicinato difeso", con cancelli elettrici e telecamere e tanti cartelli. "Stop. Proprietà privata. Non sostare e non passare". "Area video - sorvegliata". C’è chi ha installato telecamere - a volte finte - anche davanti alla propria porta. Ma la voglia di sicurezza a volte è a doppio taglio. Anche un malvivente può cercare in un "vicinato difeso" il rifugio ideale. E proprio al Rovido è stato arrestato un latitante della ‘ndrangheta calabrese».
Una notizia, questa, che non meraviglia certo il professor Agostino Petrillo. «Negli Stati Uniti, dove le gated communities e gli insediamenti protetti ospitano oggi un americano su otto, si è scoperto che la criminalità all’interno di queste comunità con cancello non è diversa da quella che c’è fuori. Negli Usa le gated sono vere e proprie città costruite dalla metà degli anni ‘80 in poi. Con la crisi dell’agricoltura, ad esempio, sono stati abbandonati gli aranceti attorno a Los Angeles e in quelle grandissime aree vuote sono state costruite le città protette. A favorire questi nuovi insediamenti è stata, negli anni ‘90, anche la possibilità di poter lavorare a casa, con il computer.
Ma anche quelle comunità sono in declino, perché ci si è accorti che vivere con persone "uguali" a te è rassicurante ma anche noioso. E con la crisi si è capito che le città offrono più occasioni di lavoro. In Italia questi spazi ampi non ci sono, l’urbanizzazione è già altissima. Ma i nuovi progetti raccontano che anche da noi sta avanzando la voglia di cercare un’isola, un rifugio. C’è un’idea di salvezza personale che non passa più da una dimensione collettiva urbana. A spingere sono l’insicurezza e la paura, che sono il marketing di queste città blindate».
Alla cascina Vione c’è una chiesa, dedicata a San Bernardo. Anche questa è di proprietà dei nuovi abitanti. «È ancora consacrata. Si potranno celebrare matrimoni e battesimi. Pagando il servizio, magari si potrà chiamare un sacerdote la notte di Natale. Sarà bellissimo».
La Fortezza America ha moltiplicato solitudini
di Vittorio Zucconi
È la rivincita del ghetto sul sogno della città aperta, la vendetta della segregazione autoinflitta su chi aveva creduto nella speranza della comunità umana. Dal 1989, quando fu lanciata con enorme successo di vendite la prima edizione superesclusiva per milionari a Laguna Beach in California, la "gated community", il quartiere fortezza che si autorinchiude dietro mura, "gate", cancellate, sbarre, "rent-a-cop", i poliziotti a noleggio, si è riprodotta in migliaia di esemplari attraverso tutti gli Stati Uniti.
Ce ne sono per anziani e per coppie con bambini, per bianchi ricchi e inconfessabilmente ancora segregazionisti come per non bianchi che vogliono la rassicurazione della propria omogeneità e identità culturale. Ma il risultato è il patto con il diavolo che due urbanisti californiani, Ed Blakeley della Università della South California e Mary Snyder di Berkley hanno definito in una ricerca del 1997, «la nuova Fortezza America».
In cambio della - spesso falsa, dicono le statistiche - sensazione di sicurezza e di protezione, sta nascendo una nazione di tetri villaggi neo medioevali, di "castella" chiusi in loro stessi, angosciati dall’assedio di tartari là fuori. Sono soprattutto diffuse negli Stati del Sud, Georgia, Lousiana, Alabama, Texas, in un segnale indiretto ma assai indicativo di un rigurgito della voglia di "apartheid" tradito da nomi che spesso portano dentro la parola "plantation", la piantagione di cotone dello zio Tom. Ma ormai non mancano in nessun territorio, da Nord e a Sud, particolarmente in quella Florida, alla quale approdano gli anziani, per rinchiudersi fra loro nel loro tramonto.
Possono essere stupende, con vialetti alberati, praticelli curati da manicuristi dell’erba, piscina, campi di tennis, guardia medica 24/7 e l’obbligatorio golf, o molto più modeste, senza altre "amenities", senza speciali attrazioni che non siano le mura di recinzione attorno al villaggio e l’annoiatissimo poliziotto privato che dovrebbe controllare la "gate", il cancello.
L’epidemia di queste nuove, e insieme antichissime, forme di separazione dal resto della comunità urbana, dove oggi vive il 5% della popolazione americana, 15 milioni di persone, l’equivalente di una New York con le mura attorno, coincide con il panico da criminalità che ebbe negli anni ‘80 il suo picco. La risposta che gli autoghettizzati invariabilmente danno è infatti la paura del crimine, l’ansia di sentirsi al sicuro, il bisogno di omogeneità sociale, spesso razziale.
«Lo facciamo perché i nostri bambini possano crescere tranquilli» rispondono le famiglie. «Non vogliamo più tremare quando attraversiamo la strada come a New York, Chicago o Detroit» dicono gli anziani. E nei ghetti per vecchi, non ci sono bambini. Nipoti possono venire a trovare i nonni, ma poi, via, proibiti. Troppa vita, troppa vitalità nel ghetto dei quasi morti.
Le comunità con l’immaginario ponte levatoio, spesso autosufficienti, con generatori elettrici autonomi, scorte di alimentari e farmacia esclusive, microbus elettrici e servizi propri di raccolta dei rifiuti sono la degenerazione finale della fuga dalla città maledetta che cominciò nel 1951.
Nacquero allora i sobborghi pianificati, le Levittown, sviluppate dal costruttore Levitt in Pennsylvania, con le casette identiche, le famiglie identiche, le automobili identiche, le donne vestite e truccate tutte come le «Stepford Wives», le mogli clonate e disperate, e il senso di un Eden da mezze calzette pendolari dove tutti si conoscevano, non c’erano "colored" e nessuno chiudeva la porta di casa a chiave.
Dai sobborghi, anche per il costo dei terreni, la fuga si estese agli "exurbia" ancora più lontani e isolati dalla infetta metropoli, ma nessun luogo è mai abbastanza lontano dalla paura. Da qui, l’idea di creare queste Disneyland per l’introversione urbana, e proprio Disney, in Florida, ha creato il villaggio dei sogni, tra il parco divertimenti e il ghetto, che non è rimasto immune dal collasso immobiliare del 2008 e si è svuotato. Neppure l’illusione della sicurezza si è realizzata, al contrario. La certezza di sapere che oltre quelle mura comunque mai più alte di 180 centimetri - il massimo consentito dalla legge - ci sono soldi, ha funzionato spesso da calamita, secondo la vecchia legge del celebre gangster Willie Sutton che spiegava di «rapinare le banche perché lì ci sono i soldi». E se niente di materiale sarà rubato, la condanna di queste comunità chiuse, di questi ghetti volontari, è già inflitta: la loro desolata solitudine.
postilla
Niente da fare: è colpa nostra se nel terzo millennio fa ancora notizia, e con tanta ingenuità giornalistica da scoperta dell’acqua calda, l’idea del quartiere recintato. Perché è ovvio, il modello c’è, anche da noi, e da tempo, ed è chi si occupa più continuativamente di città e territorio ad avere la colpa di non comunicare a sufficienza, o farlo con eccessi di puzza sotto il naso, o col solito linguaggio compiaciutamente iniziatico che scoraggia chiunque alla terza riga.
Quando su queste pagine si parlava di Cascina Vione la gated community era evocata soprattutto per modo di dire: sia per motivi di dimensioni (è, appunto, una cascina, non una città: c’è una bella differenza), sia perché quel rifugio per paranoici antiurbani evocava soprattutto una specie di neo-idiotismo da vita rustica, giusto di fianco all’altro modellino di subliminale rincoglionimento suburbano: Milano 3.
Sono decenni, che in Italia in qualche modo – più aderente al modello originale – il quartiere recintato ha messo radici, e basterebbe ad esempio dare un’occhiata a tanti piani di cosiddetta “riqualificazione urbana integrata” (ovvero di iniziativa privata) recenti per vederne tutti i presupposti spaziali e organizzativi. Qualche cancelletto in più, telecamere, vigilanza, altro non sono che complementi di scelte condominiali a una struttura già solidamente definita e piazzata sul mercato. E se la sociofagia da un tanto al chilo, come per tante altre cose, “scopre” la gated community con Vione e annuncia al mondo la tetra novella: fatti suoi.
Noi dovremmo invece guardare in casa nostra, e capire dove abbiamo sbagliato: perché qualcosa non torna. Quando facevo le medie, nei lontani anni ’60, due miei compagni di scuola abitavano al Villaggio Brugherio, che anche senza le ispirate pagine del mancato laureato in sociologia era e resta un quartiere recintato, che si propone e vende in quanto tale. Anche le cittadelle anni ’70, da Milano 2 a San Felice e via dicendo, ricalcano il medesimo modello, e si mettono sul mercato proprio enfatizzandolo.
Comunque, speriamo che almeno questa sia la volta buona: ce le abbiamo, e proviamo a non tenercele più, invece di lanciare strali a vanvera (f.b.)
Dovrebbe esser ormai chiaro a tutti, anche a chi vorrebbe parlar d´altro e tapparsi le orecchie, anche a chi non vede l´enormità della vergogna che colpisce una delle massime cariche dello Stato, che una cosa è ormai del tutto improponibile: che il presidente del Consiglio resti dov´è senza neppure presentarsi al Tribunale, e che addirittura pretenda di candidarsi in future elezioni come premier. Molti lo pensano da tempo, da quando per evitare condanne il capo di Fininvest considerò la politica come un sotterfugio. Non un piano nobile dove si sale ma uno scantinato in cui si «scende», si traffica, ci si acquatta meglio.
La stessa ascesa al Colle resta, nei suoi sogni, una discesa in sotterranei sempre più inviolabili. Molti sono convinti che i suoi rapporti con la malavita, la stretta complicità con chi in due gradi di giudizio è stato condannato per concorso in associazione mafiosa (Dell´Utri), il contatto con un uomo – Mangano – che si faceva chiamare stalliere ed era il ricattatore distaccato da Cosa Nostra a Arcore – erano già motivi sufficienti per precludergli un luogo, il comando politico, che si suppone occupato da chi ha avuto una vita rispettosa della legge.
Ma adesso l´impegno a fermare quest´uomo infinitamente ricattabile perché incapace di controllare la sua sessualità deve esser esplicitamente preso dai responsabili politici tutti, dalla classe dirigente in senso lato, e non solo detto a mezza voce. È una specie di sermone che deve essere pronunciato, solenne come i giuramenti che costellano la vita dei popoli. Un sermone che non deleghi per l´ennesima volta il giudizio morale e civile alla magistratura. Che pur rispettando la presunzione d´innocenza, certifichi l´esistenza di un ceto politico determinato a considerare l´evidenza dello scandalo e a trarne le conseguenze prima ancora che i tribunali si pronuncino. Ci sono reati complessi da districare, per i giudici. Questo non vieta, anzi impone alla politica di delimitare in piena autonomia la dignità o non dignità dei potenti.
Non è più solo questione del conflitto di interessi, che grazie alla legge del 1957 avrebbe sin dall´inizio potuto vietare l´accesso a responsabilità politiche di un titolare di pubbliche concessioni (specie televisive). Chi è sospettato d´aver pagato prostitute o ragazze minorenni, d´aver indotto – sfruttando il proprio potere – un pubblico ufficiale a fare cose illecite, chi è talmente impaurito dall´arresto di Ruby dal presentarla in questura come nipote di Mubarak, chi ha avuto rapporti con mafiosi e corrotto testimoni o giudici, deve trovare chiuse le porte della politica, anche se i Tribunali ancora tacciono o se vi son state prescrizioni. Attorno a lui deve essere eretto una sorta di alto muro, che impersoni la legge, la riluttanza interiore d´un popolo a farsi rappresentare da un individuo dal losco passato e dal losco presente. Tra Berlusconi e la politica questo muro non è stato mai eretto, nemmeno dall´opposizione quando governava. Se non ora, quando?
È così da millenni, nella nostra civiltà: una società ha anticorpi che espellono le cellule malate, o non li ha e decade. L´ostracismo fu un prodotto della democrazia ateniese, nel VI secolo a.C. Eraclito scrive: «Combattere a difesa della legge è necessario, per il popolo, proprio come a difesa delle mura». Berlusconi non avrebbe dovuto divenire premier, e non perché si disprezzi il popolo che lo ha eletto: non avrebbe dovuto neanche potersi candidare. Comunque, oggi, non può restare o tornare in luoghi del comando che hanno una loro sacralità: non può, se la coerenza non è una quisquilia, nemmeno presentarsi come patrono del proprio successore. Non è un monarca che va in pensione.
Gli italiani più restii a vedere lo sanno, altrimenti non avrebbero acclamato in simultanea, da 16 anni, Berlusconi e tre capi dello Stato. È segno che in un angolo della coscienza, sognano quel decalogo che nelle parole di Thomas Mann «altro non è che la quintessenza dell´umana decenza»: il non rubare, il non pronunciare il nome di Dio invano, il non dire il falso, il non sbandierare valori senza rispettarli, il non adulterare ciò che è chiaro e puro confondendolo con il torbido e l´impuro. È come se i padri costituenti avessero presentito tutto questo, vietando plebisciti di capi di governo o di Stato: come se condividessero la diffidenza di Piero Calamandrei per l´inclinazione italiana alla «putrefazione morale, all´indifferenza, alla sistematica vigliaccheria».
La responsabilità del sermone è dunque per intero nelle mani dei parlamentari, liberi per legge da vincolo di mandato. Così come è in mano ai contro-poteri che costituzionalmente limitano il dominio d´uno solo (parlamento, magistratura, stampa). Contro-poteri su cui la sovranità popolare non ha il primato, se è vero che essa viene «esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art 1).
Già una volta, nella «chiamata di correo» di Craxi, i politici caddero nel baratro, degradando se stessi. Fu il buco nero di Tangentopoli, e spiega come mai ancora abitiamo un girone dantesco fatto di menzogna e omertosi sortilegi. Il buco nero sono le parole di Craxi in Parlamento, il 3 luglio ´92: «Nessun partito è in grado di scagliare la prima pietra. (...) Ciò che bisogna dire, e che tutti del resto sanno, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale.(...) Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia (...) criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest´aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi, i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro».
Difficile dimenticare il silenzio che seguì: nessun deputato si alzò, e ancor oggi la nostra storia stenta a non essere storia criminale. Ancor oggi si vorrebbe sapere perché i deputati che si ritenevano onesti rimasero appiccicati alla poltrona. Craxi pagò appropriatamente, perché le sentenze erano passate in giudicato e la legge è legge, ma pagò per molti: anche per Berlusconi, che con il suo aiuto costruì il proprio apparato di persuasione televisiva e profittò del crollo della Prima Repubblica sostituendola con un suo privato giro di corrotti e corruttori.
I deputati rischiano di restar seduti anche oggi, come allora: per schiavitù volontaria, o peggio. Il sermone oggi necessario deve essere un impegno a che simili ignominie non si ripetano. Proprio perché il conflitto d´interessi è sorpassato, e siamo di fronte a un conflitto fra decenza e oscenità, fra servizio dello Stato e servizio dei propri comodi, fra libertinaggio innocente e libertinaggio commisto a reati. Da molto tempo, c´è chi ha smesso di parlare di Palazzo Chigi: preferisce parlare di palazzo Grazioli come sede dell´esecutivo, e fa bene. Che si salvi, almeno, l´aura associata ai luoghi italiani del potere.
Domenica scorsa, Berlusconi ha fatto dichiarazioni singolari, oltre che ridicole. Definendo gravissima, inaccettabile, illegale, l´intromissione dei magistrati nella vita degli italiani ha detto: «Perché quello che i cittadini di una libera democrazia fanno nelle mura domestiche riguarda solo loro. Questo è un principio valido per tutti, e deve valere per tutti. Anche per me». L´uguaglianza fra cittadini equivale per lui alla libertà di fare quel che si vuole, in casa: anche un reato, magari. Non riguarda certo l´uguaglianza di fronte alla legge. L´antinomia stride, e offende. Siamo ben lontani dall´ingiunzione di Eraclito, se tutto diventa lecito nelle mura domestiche, e non appena succede qualcosa di criminoso l´uguaglianza cessa d´un colpo, e comincia l´età dei porci di Orwell, in cui tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.
Nel 1980 la marcia contro gli operai organizzata dalla Fiat servì per imporre una ristrutturazione produttiva senza precedenti. Decine di migliaia di lavoratori furono costretti a lasciare la fabbrica. Da quel momento i rapporti sociali iniziarono a mutare rapidamente e sempre a favore dell'impresa. Ma l'azienda, che pure aveva imposto inflessibilmente il suo primato, non ebbe la tentazione di chiudere la fabbrica al sindacato sconfitto.
Anche in quegli anni di duro scontro, esisteva un patto di reciproco rispetto delle regole di convivenza democratica. Oggi non è più così. L'intollerabile arroganza di Marchionne serve proprio a mettere in chiaro che quell'epoca è finita. Si torna agli istinti peggiori del capitalismo di rapina e nessuno si aspetti sconti, tanto la sinistra è stata (temporaneamente) messa a tacere.
Se questo salto di paradigma viene osservato attraverso le città, si vede che la lacerazione di quel patto è stata compiuta da oltre un decennio. Un solo esempio. Nelle città del welfare si era obbligati a garantire le aree per il verde e i servizi: era scontato che pur in un quadro di ferrea gerarchia sociale c'era comunque il riconoscimento che la città è il luogo di tutti. È il luogo pubblico per eccellenza. È il luogo della democrazia.
Oggi il quadro è distrutto. Alcuni esempi: la cancellazione di ogni regola urbana, la vendita del patrimonio pubblico, l'espulsione dei ceti popolari (a Milano e Roma i pendolari percorrono 50 chilometri senza adeguati servizi di trasporto). Nella città del neoliberismo non si ha nulla in comune: i servizi pubblici vengono chiusi uno dopo l'altro perché «non ci sono soldi». Valgono solo i rapporti economici. E come l'economia di rapina di questi anni, anche le città mostrano una crisi profonda perché le condizioni di vita quotidiana sono drasticamente peggiorate.
Se l'analisi è corretta, non possiamo attardarci a richiedere il ripristino di regole formali, ridateci i piani urbanistici e la partecipazione, ad esempio. Se vogliamo salvarci dalla follia del fallimento del liberismo dobbiamo saper delineare una prospettiva di uscita. E siccome abbiamo ancora importanti presidi in molte amministrazioni che operano in favore del bene comune e più in generale dobbiamo avere l'ambizione di proporre una reale alternativa alla cultura liberista, provo a delineare, in vista del seminario degli amici del manifesto del 22 gennaio, alcune linee di azione che coniugano insieme difesa del territorio e la costruzione delle basi per lo sviluppo di un'economia solidale.
In primo luogo dobbiamo cancellare ogni possibilità di consumare altro suolo agricolo. Le nostre città si sono molto più estese di quanto sia la popolazione che le occupa. Occorre dunque chiudere questa fase storica della vita delle nostre città e praticare solo il recupero e la riqualificazione. Non è forse vero che Detroit ha avviato un piano di demolizioni di parti di città che dopo la grande crisi sono in pieno degrado? E se ci dicono ogni giorno che non ci sono i soldi per nulla, neppure per i trasporti, come è pensabile continuare a dilatare le città?
Nel Veneto che va sott'acqua alla prima pioggia, la banda del capitale finanziario che si è impadronita del nostro territorio propone oggi di urbanizzare altre migliaia di ettari di campagna per creare inutili cattedrali del deserto. Hanno fin qui avuto consenso perché hanno saputo far credere (grazie all'immenso potere mediatico) che dietro quelle speculazioni c'erano posti di lavoro. Non era vero ed è in atto un diffuso ripensamento critico di larghe masse di cittadini, di giovani in particolare. Sarebbe dunque colpevole perdere questa occasione per costruire una nostra offensiva utilizzando le individualità presenti in Parlamento ma anche la forma della proposta di iniziativa popolare.
Fermata questa follia (solo italiana) che immobilizza, come afferma Salvatore Settis, una ricchezza gigantesca, occorre dare concretezza alla nostra proposta. Della riconversione produttiva in senso ambientale hanno parlato in molti, ad iniziare da Guido Viale. Mi fermo quindi al settore agricolo. Il grande patrimonio di terre di uso civico, possono ad esempio essere affidate a cooperative di giovani a canoni garantiti dalle Regioni: e se qualcuno dirà che è statalismo basta ricordare il fiume di soldi pubblici che vanno alle imprese "amiche" ad iniziare dalla Fiat. Eppoi, sempre a livello locale laddove è possibile (e nell'Appennino sempre meno abitato si potrebbe fare agevolmente) gli enti locali potrebbero fare una intelligente politica di acquisizione di territori abbandonati. Con pochi soldi, quelli ad esempio risparmiati nel non dover più correre appresso alle continue espansioni urbane, si possono acquistare centinaia di ettari e restituirli all'agricoltura.
Lavoro anche questo, mica solo il loro. E se poi i comuni iniziassero a privilegiare la filiera alimentare "corta" attrezzando luoghi di mercato per i prodotti del circondario, ne guadagneremmo anche in salute non dovendo acquistare più le "monocolture" del cartello della grande distribuzione.
E anche le esperienze importanti fin qui concretizzate, penso alla Città dell'altra economia di Roma, devono essere alimentate da una visione urbana alternativa, non marginalizzate, ma poste al centro delle politiche urbane. Le città sono nate dal mercato. Possiamo provare a riconvertirle verso forme sostenibili. Loro sono fermi all'ottocento di Marchionne. Se non ora quando?
Ogni giorno l´Emilia-Romagna consuma una quantità di suolo pari a dodici volte Piazza Maggiore - Dal 1950 abbiamo perso il 40 per cento della superficie libera del Paese. La Liguria si è dimezzata - Anche il diffondersi delle energie alternative corre il pericolo di alimentare la speculazione e fare danni all´ambiente - In Veneto le aree urbanizzate sono cresciute in 60 anni del 324 per cento ma la popolazione solo del 32
I dati certi su cui fare affidamento sono pochi, non sempre concordanti per via dei diversi metodi di misurazione utilizzati, ma tutti ci parlano in maniera univoca di un consumo impressionante del territorio italiano. Stiamo compromettendo per sempre un bene comune, perché anche la proprietà privata del terreno non dà automaticamente diritto di poterlo distruggere e sottrarlo così alle generazioni future. Circa due anni fa su queste pagine riportavamo che l´equivalente della superficie di Lazio e Abruzzo messi insieme, più di 3 milioni di ettari liberi da costruzioni e infrastrutture, era sparita in soli 15 anni, dal 1990 al 2005. Dal 1950 abbiamo perso il 40% della superficie libera, con picchi regionali che ci parlano, secondo i dati del Centro di Ricerca sul Consumo di Suolo, di una Liguria ridotta della metà, di una Lombardia che ha visto ogni giorno, dal 1999 al 2007, costruire un´area equivalente sei volte a Piazza Duomo a Milano. E non finisce qui: in Emilia Romagna dal 1976 al 2003 ogni giorno si è consumato suolo per una quantità di dodici volte piazza Maggiore a Bologna; in Friuli Venezia Giulia dal 1980 al 2000 tre Piazze Unità d´Italia a Trieste al giorno. E la maggior parte di questi terreni erano destinati all´agricoltura. Per tornare ai dati complessivi, dal 1990 al 2005 si sono superati i due milioni di ettari di terreni agricoli morti o coperti di cemento.
Come si vede, le cifre disponibili non tengono conto degli ultimi anni, ma è sufficiente viaggiare un po´ per l´Italia e prendere atto delle iniziative di questo Governo (il Piano Casa, per esempio) e delle amministrazioni locali per rendersene conto: sembra che non ci sia territorio, Comune, Provincia o Regione che non sia alle prese con una selvaggia e incontrollata occupazione del suolo libero. Purtroppo, nonostante il paesaggio sia un diritto costituzionale (unico caso in Europa) garantito dall´articolo 9, la legislazione in materia è in gran parte affidata a Regioni ed Enti locali, con il risultato che si creano grande confusione, infiniti dibattiti, nonché ampi margini di azione per gli speculatori. Per esempio la recente legge regionale approvata in Toscana che vieta l´installazione d´impianti fotovoltaici a terra sembra valida, ma è già contestata da alcune forze politiche. In Piemonte è stata invece approvata una legge analoga, ma meno efficace, suscitando forti perplessità dal "Movimento Stop al Consumo del Territorio". In realtà, in barba alle linee guida nazionali per gli impianti fotovoltaici - quelli mangia-agricoltura - essi continuano a spuntare come funghi alla stregua dei centri commerciali e delle shopville, di aree residenziali in campagna, di nuovi quartieri periferici, di un abusivismo che ha devastato interi territori del nostro Meridione anche grazie a condoni edilizi scellerati.
Ci sono esempi clamorosi: Il Veneto, che dal 1950 ha fatto crescere la sua superficie urbanizzata del 324% mentre la sua popolazione è cresciuta nello stesso periodo solo per il 32%, non ha imparato nulla dall´alluvione che l´ha colpito a fine novembre. Un paio di settimane dopo, mentre ancora si faceva la conta dei danni, il Consiglio Regionale ha approvato una leggina che consente di ampliare gli edifici su terreni agricoli fino a 800 metri cubi, l´equivalente di tre alloggi di 90 metri quadri.
Guardandoci attorno ci sentiamo assediati: il cemento avanza, la terra fa gola a potentati edilizi, che nonostante siano sempre più oggetto d´importanti inchieste giornalistiche, e in alcuni casi anche giudiziarie, non mollano l´osso e sembrano passare indenni qualsiasi ostacolo, in un´indifferenza che non si sa più se sia colpevole, disinformata o semplicemente frutto di un´impotenza sconsolata. Del resto, costruire fa crescere il Pil, ma a che prezzo. Fa davvero male: l´Italia è piena di ferite violente e i cittadini finiscono con il diventare complici se non s´impegnano nel dire no quotidianamente, nel piccolo, a livello locale. Questa è una battaglia di tutti, nessuno escluso.
Ora si sono aggiunte le multinazionali che producono impianti per energia rinnovabile, insieme a imprenditori che non hanno mai avuto a cuore l´ambiente e, fiutato il profitto, si sono messi dall´oggi al domani a impiantare fotovoltaico su terra fertile, ovunque capita: sono riusciti a trasformare la speranza, il sogno di un´energia pulita anche da noi nell´ennesimo modo di lucrare a danno della Terra. Anche del fotovoltaico su suoli agricoli abbiamo già scritto su queste pagine, prendendo come spunto la delicatissima situazione in Puglia. I pannelli fotovoltaici a terra inaridiscono completamente i suoli in poco tempo, provocano il soil sealing, cioè l´impermeabilizzazione dei terreni, ed è profondamente stupido dedicargli immense distese di terreni coltivabili in nome di lauti incentivi, quando si potrebbero installare su capannoni, aree industriali dismesse o in funzione, cave abbandonate, lungo le autostrade. La Germania, che è veramente avanti anni luce rispetto al resto d´Europa sulle energie rinnovabili, per esempio non concede incentivi a chi mette a terra pannelli fotovoltaici, da sempre. Dell´eolico selvaggio, sovradimensionato, sovente in odore di mafia e sprecone, se siete lettori medi di quotidiani e spettatori fedeli di Report su Rai Tre già saprete: non passa settimana che se ne parli su qualche testata, soprattutto locale, perché qualche comitato di cittadini insorge. È sufficiente spulciare su internet il sito del movimento "Stop al Consumo del Territorio", tra i più attivi, e subito salta agli occhi l´elenco delle comunità locali che si stanno ribellando, in ogni Regione, per i più disparati motivi.
Intendiamoci, questo non è un articolo contro il fotovoltaico o l´eolico: è contro il loro uso scellerato e speculativo. Il solito modo di rovinare le cose, tipicamente italiano. Anche perché l´obiettivo del 20% di energie rinnovabili entro il 2020 si può raggiungere benissimo senza fare danni, e noi siamo per raggiungerlo ed eventualmente superarlo. Questo vuole essere un grido di dolore contro il consumo di territorio e di suolo agricolo in tutte le sue forme, la più grande catastrofe ambientale e culturale cui l´Italia abbia assistito, inerme, negli ultimi decenni. Perché se la terra agricola sparisce il disastro è alimentare, idrogeologico, ambientale, paesaggistico. E´ come indebitarsi a vita e indebitare i propri figli e nipoti per comprarsi un televisore più grosso: niente di più stupido.
Il problema poi s´incastra alla perfezione con la crisi generale che sta vivendo l´agricoltura da un po´ di anni, visto che tutti i suoi settori sono in sofferenza. Sono recenti i dati dell´Eurostat che danno ulteriore conferma del trend: "I redditi pro-capite degli agricoltori nel 2010 sono diminuiti del 3,3% e sono del 17% circa inferiori a quelli di cinque anni fa". Così è più facile convincere gli agricoltori demotivati a cedere le armi, e i propri terreni, per speculazioni edilizie o legate alle energie rinnovabili. Ricordiamoci che difendendo l´agricoltura non difendiamo un bel (o rude) mondo antico, ma difendiamo il nostro Paese, le nostre possibilità di fare comunità a livello locale, un futuro che possa ancora sperare di contemplare reale benessere e tanta bellezza.
Per questo è giunto il momento di dire basta, perché rendiamoci conto che siamo arrivati a un punto di non ritorno: vorrei proporre, e sperare che venga emanata, una moratoria nazionale contro il consumo di suolo libero. Non un blocco totale dell´edilizia, che può benissimo orientarsi verso edifici vuoti o abbandonati, nella ristrutturazione di edifici lasciati a se stessi o nella demolizione dei fatiscenti per far posto a nuovi. Serve qualcosa di forte, una raccolta di firme, una ferma dichiarazione che arresti per sempre la scomparsa di suoli agricoli nel nostro Paese, le costruzioni brutte e inutili, i centri commerciali che ci sviliscono come uomini e donne, riducendoci a consumatori-automi, soli e abbruttiti.
Una moratoria che poi, se si uscirà dalla tremenda situazione politica attuale, dovrebbero rendere ufficiale congiuntamente il Ministero dell´Agricoltura, quello dell´Ambiente e anche quello dei Beni Culturali, perché il nostro territorio è il primo bene culturale di questa Nazione che sta per compiere 150 anni. Sono sicuro che le tante organizzazioni che lavorano in questa direzione, come la mia Slow Food, o per esempio la già citata rete di Stop al Consumo del Territorio, il Fondo Ambientale Italiano, le associazioni ambientaliste, quelle di categoria degli agricoltori e le miriadi di comitati civici sparsi ovunque saranno tutti d´accordo e disposti a unire le forze. È il momento di fare una campagna comune, di presidiare il territorio in maniera capillare a livello locale, di amplificare l´urlo di milioni d´italiani che sono stufi di vedersi distruggere paesaggi e luoghi del cuore, un´ulteriore forma di vessazione, tra le tante che subiamo, anche su ciò che è gratis e non ha prezzo: la bellezza. Perché guardatevi attorno: c´è in ogni luogo, soprattutto nelle cose piccole che stanno sotto i nostri occhi. È una forma di poesia disponibile ovunque, che non dobbiamo farci togliere, che merita devozione e rispetto, che ci salva l´anima, tutti i giorni.
L'onore di Cipputi
di Rossana Rossanda
Hanno votato tutti i salariati, ieri a Mirafiori, sull'accordo proposto dall'amministratore delegato Marchionne. Tutti, una percentuale che nessuna elezione politica si sogna. E sono stati soltanto il 54% i sì e il 46% i no, un rifiuto ancora più massiccio di quello di Pomigliano. Quasi un lavoratore su due ha respinto quell'accordo capestro, calato dall'alto con prepotenza, ed esige una trattativa vera.
Per capire il rischio e la sfida di chi ha detto no, bisogna sapere a che razza di ricatto - questa è la parola esatta - si costringevano i lavoratori: o approvare la volontà di Marchionne al buio, perché non esiste un piano industriale, non si sa se ci siano i soldi, vanno buttati a mare tutti i diritti precedenti e al confino il solo sindacato che si è permesso di non firmare, la Fiom, o ci si mette contro un padrone che, dichiarando la novità ed extraterritorialità di diritto della joint venture Chrysler Fiat, si considera sciolto da tutte le regole e pronto ad andare a qualsiasi rappresaglia. L'operaia che è andata a dire a Landini «io devo votare sì, perché ho due bambini e un mutuo in corso, ma voi della Fiom per favore andate avanti» dà il quadro esatto della libertà del salariato. E davanti a quale Golem si è levato chi ha detto no. Tanto più nell'epoca che Marchionne, identificandosi con il figlio di Dio, ha definito «dopo Cristo», la sua.
Si vedrà che farà adesso, con la metà dei dipendenti che gli ha fatto quel che in Francia chiamano le bras d'honneur e la sottoscritta non sa come si dica in Italia, ma sa come si fa; perché alla provocazione c'è un limite, o almeno c'era. Nulla ci garantisce, né ci garantirebbe anche se avesse votato «sì» l'80 per cento delle maestranze, che Marchionne sia interessato a tenere la Fiat, a farla produrre quattro volte quanto produce ora, a presentare quali modelli e se li venderà in un mercato europeo stagnante, nel quale la Fiat stagna più degli altri. Se avesse intelligenza industriale, o soltanto buon senso, riaprirebbe un tavolo di discussione, scoprirebbe le sue carte, affronterebbe il da farsi con chi lo dovrà fare. Questo gli hanno mandato a dire i lavoratori di Pomigliano e quelli di Mirafiori.
Da soli, solo loro. Perché la famiglia Agnelli, già così amata dalla capitale sabauda da aver pianto in un corteo interminabile sulle spoglie dell'ultimo della dinastia che aveva qualche interesse produttivo, l'avvocato, non ha fatto parola. In questo frangente si è data forse dispersa, non si vede, non si sente, pensa alla finanza.
Né ha fatto parola il governo del nostro scassato paese, che pure, quale che ne fosse il colore, ha innaffiato la Fiat di miliardi, ma si lascia soffiare l'ultimo gioiello in nome della vera modernità, che consiste nel sapere che non si tratta di difendere né un proprio patrimonio produttivo, né i propri lavoratori - quando mai, sarebbe protezionismo, da lasciare soltanto agli Usa, alla Francia e alla Germania che si prestano a raccogliere le ossa dell'ex Europa. A noi sta soltanto competere con i salari dell'Europa dell'Est, dell'India e possibilmente della pericolosa Cina.
Tutti i soloni della stampa italiana hanno perciò felicitato Marchionne che, sia pur ingloriosamente e sul filo di lana, è passato. La sinistra poi è stata incomparabile. Quella politica e le confederazioni sindacali. Aveva dalla sua parte storica, che è poi la sua sola ragione di esistere, una Costituzione che difende come poche i diritti sociali in regime capitalista. Gli imponeva - gli impone - quel che chiamano il modello renano, un compromesso non a mani basse, keynesiano, fra capitale e società, che garantisce in termini ineludibili la libertà sindacale. Fin troppo se le confederazioni sono riuscite fra loro, attraverso qualche articolo da azzeccagarbugli dello statuto dei lavoratori, a impegolarsi in accordi mirati a far fuori i disturbatori, tipo i fatali Cobas, per cui oggi nessuno osa attaccarsi all'articolo 39, che - ripeto - più chiaro non potrebbe essere. La Cgil ha strillato un po' ma avrebbe preferito che la Fiom mettesse una «firma tecnica» a quel capolavoro suicida. Quanto ai partiti non c'è che da piangere. D'Alema, che sarebbe dotato di lumi, Fassino, Chiamparino, Ichino, il Pd tutto hanno dichiarato che se fossero stati loro al posto degli operai Fiat - situazione dalla quale sono ben lontani - avrebbero votato sì senza batter ciglio. Diamine, non c'erano intanto 3.500 euro da prendere? Ma che vuole la Fiom, per la quale è stato coniato lo squisito ossimoro di estremisti conservatori?
Molto basso è l'onore d'Italia, scriveva un certo Slataper. Da ieri lo è un po' meno. Salutiamo con rispetto, noi che non riusciamo a fare granché, quel 46% di Cipputi che a Torino, dopo Pomigliano, permette di dire che non proprio tutto il paese è nella merda.
TORINO
Voto di libertà, un altro accordo ora è possibile
di Loris Campetti
Le luci rimangono accese a Mirafiori. Questa volta è andata diversamente dall'autunno '80, non ci sono lacrime di disperazione, nessuno grida al tradimento perché c'è un sindacato vero, sia pure solo uno, al fianco di chi si è giocato la partita più difficile sulle linee di montaggio. Domani o quando la cassa integrazione darà una tregua i carrozzieri varcheranno di nuovo i cancelli di Mirafiori, passeranno il tesserino a quello che una volta si chiamava «l'imparziale» perché fermava per i controlli chi voleva, supereranno i tornelli, indosseranno la tuta e si collocheranno alla catena nel luogo e con la mansione che verrà loro assegnata.
In tanti, la maggioranza al montaggio, lo faranno a testa alta per aver retto l'urto terribile contro un padrone delle ferriere globalizzato che voleva tutto da loro, corpo e anima, e invece dovrà accontentarsi di un eventuale acquisto che non potrà che essere contrattato della forza lavoro. L'anima è salva, i diritti si possono difendere collettivamente. Il corpo è piegato dalla fatica, come prima.
Questo dice l'applauso che alle 22 scatta alla porta 2, in una notte storica che finirà solo all'alba con il risultato sul voto del diktat di Sergio Marchionne. Lui, il monarca amato a destra e a sinistra che parla di modernità fasulla e ingiusta, sta nel suo ufficio al Lingotto, anche lui aspetta per sapere quanti chili di dignità operaia avrà strappato, quanto sarà riuscito a lacerare lavoratori e sindacati, e più pomposamente quanto avrà cambiato l'Italia. I numeri sono bugiardi, hanno vinto i perdenti e chi dice di aver vinto ha perso la scommessa e la dignità. Mentre la notte scorre alla porta 2 il clima cambia, i dati delle urne al montaggio confermano che non è iniziato un secondo autunno operaio davanti a questi cancelli. Per raggiungere il 54% dei sì, la Fiat che con il suo esercito di ascari sindacali partiva dal 71%, ha dovuto cammellare alle urne le sue truppe scelte, cioè le peggiori: capi, capetti e quadri, yesmen usi a obbedir tacendo che hanno fatto la differenza, insieme ad altri ascari in tuta operaia: i «pipistrelli» della notte, ruffiani della gerarchia ripagati con la regalia del turno notturno che porta in tasca trenta denari in più. Quattrocento quarantuno yesmen hanno votato in massa, tranne una ventina di eroi, per il grande capo e così ha fatto il 70% dei pipistrelli. Numeri prevedibili, e previsti dal vostro cronista, che avrebbero potuto essere anche più impietosi.
Qualcuno ai cancelli piange, ma di commozione quando si accumulano i dati dei vari seggi che spiegano una metafora sociale: chi è vincolato alla catena di montaggio, ripete tutti i minuti, le ore, i giorni, gli anni della sua vita lo stesso movimento, si ammala di tendiniti e tunnel carpale, ha urlato il suo no a chi lo vuole non solo vincolato, subordinato, ma schiavo. Poi, via via che l'innovazione tecnologica riduce la quantità di lavoro vivo necessario a unità di prodotto, via via che la durata delle mansioni (la «battuta» in gergo operaio) si allunga, si sopportano un po' di più i soprusi fino a viverli come regalo, di notte o in camice invece che in tuta. I «vaselina» che manipolano il personale non si sono mai sognati di disobbedire in vita loro, a forza di far abbassare la testa e la schiena ai sottoposti non riescono più a drizzare le loro, di teste e schiene. Eccola l'analisi sociale del voto di Mirafiori, parla di quelle condizioni materiali su cui si può passare con le scarpe chiodate per i Chiamparini, i Fassini, i Bersani. E dire che qualcuno si era indignato quando, sia pure in modo più elegante di quanto noi si scriva, il segretario della Fiom Maurizio Landini aveva consigliato loro di fare una capatina alla catena di montaggio e poi darsi una regolata.
Chi è stato per giorni ai cancelli di Mirafiori queste cose le sa, tutti conoscevano la differenza tra lavorare in linea, in lastratura, in verniciatura, di giorno o di notte, in giacchetta e sapevano che quelle differenze avrebbero trovato un riscontro nel voto. Sapevano che il sì con la pistola puntata alla tempia avrebbe vinto di poco, non si sono fatti ingannare dal voto strepitoso dei montatori. Speravano orgogliosamente che i no fossero almeno un punto sopra i no di Pomigliano, in una sana competizione territoriale della dignità operaia. Albeggia quando i numeri confermano le speranze, si applaude e ci si abbraccia. In città, la città dell'auto ferita da un trentennio di ideologia anti-operaia, uno striscione portato dagli amici delle tute blu e della Fiom (l'associazione Terra del fuoco) scende dalla Mole antonelliana per ringraziare i 2.325 no degli eroi di Mirafiori. Ma bisogna ringraziare, finalmente, anche la città, che non si è nascosta in casa, non ha fatto il tifo per i ricchi prepotenti, si è ricordata che ogni cittadino ha un padre che ha passato la vita a Mirafiori, un figlio che fa l'interprete precario per la Fiat, un nonno licenziato da Valletta o Romiti, o lavora nell'indotto dell'auto, in uno show room, in una «piola» davanti alla fabbrica. Questa volta Torino, la sua parte migliore troppo a lungo silente, ha detto che la Fiat ha esagerato, Marchionne se ne potrebbe anche andare in Canada o a Detroit, si chiede dove si siano imboscati rampolli e nipotini di primo, secondo e terzo letto degli Agnelli: nascosti, o fuggiti come i Savoia nel '43. Torino democratica, invece, ha rimesso i piedi fuori casa perché ci si può piegare fino a un certo punto, un po' di dignità ci vuole, concetto che qui si traduce con «ciuc ma dignitous».
Pietro dai cancelli non s'è mai mosso in questi giorni di fuoco, se non per correre in piazza Statuto per la fiaccolata di mercoledì scorso. Il compagno Pietro, una vita alle presse di Mirafiori, libero da diversi anni; quando se ne andò dalla fabbrica scrisse una lettera di dimissioni all'avvocato Agnelli e per conoscenza al manifesto: «Ho scelto questa data simbolica, il 25 aprile, per riprendermi la mia libertà». Ora fa il creativo, «organico» al movimento operaio. È lui che aveva disegnato il Marx dei 35 giorni, è suo il disegno delle mani operaie che aprono le sbarre con cui è scritto l'acronimo Fiat. Ascolta i risultati del voto trasmessi alla porta 2, si ricorda la vergogna dell'80 «quando ci si piegò ai capi in marcia senza rispondere». I suoi occhi dicono che questa volta è diverso, un'altra storia può cominciare.
La paura del voto sì, strappato alla coscienza; l'orgoglio e la dignità del voto no, con la Fiom, un voto di rispetto per sé e per i figli, una speranza accesa sul futuro. Anche sul nostro di futuro. Per fare che? Per rovesciare quel contratto fasullo e scriverne un altro, con il confronto tra uguali e non tra servi e padrone. È l'alba di un nuovo giorno, il clima è incerto ma la nebbia s'è un po' diradata, la nottata è passata e le luci non si sono spente a Mirafiori. Noi del manifesto stiamo con questo operai, noi stiamo con la Fiom. Le ultime notti le abbiamo passate fisicamente e metaforicamente alla porta 2. Non in un ufficio all'ultimo piano del Lingotto come ha fatto, forse solo metaforicamente, la politica della vergogna.
La vera sfida di Mirafiori comincia adesso. Sapremo solo a notte fonda l´esito del referendum . Ma quando il nuovo paradigma della modernità impone una riscrittura così radicale del patto tra Capitale e Lavoro, rifondandolo sullo scambio disuguale e asimmetrico tra un salario e il nulla, l´esito sembra scontato.
«Vinceranno i sì, anche se in molti avrebbero preferito votare no», era la previsione della vigilia. I primi voti scrutinati danno un risultato diverso, con i sì e i no in bilico intorno al 50%. Già questo sarebbe un risultato clamoroso, che potrebbe far saltare tutti gli scenari. Con la sua consueta, lapidaria schiettezza, l´amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne aveva spiegato la sua linea: se prevalgono i sì andiamo avanti con l´investimento e diamo una scossa all´Italia, se prevalgono i no ce ne torniamo a festeggiare a Detroit e ce ne andiamo a fare auto in Canada. Una posizione «win-win»: io vinco comunque. La realtà è assai più complessa. In attesa di capire l´esito della consultazione, qualcosa si può dire subito. Su due punti fondamentali: i contenuti dell´accordo e sulle prospettive che si aprono.
1) Sui contenuti dell´accordo. È diseguale lo scambio sui diritti (ammesso che su questo terreno, nonostante la dura legge della globalizzazione, qualcosa si possa e si debba scambiare nelle democrazie occidentali). Ma si potrebbe dire: hai ceduto sul diritto individuale allo sciopero, hai ceduto sul «mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d´azienda», hai ceduto sui «diritti di costituzione e di assemblea delle rappresentanze sindacali aziendali». Ma in cambio hai ottenuto la versione italiana della Mitbestimmung, cioè la co-gestione conquistata da decenni dai sindacati tedeschi della Ig-Metall, presenti nei consigli di sorveglianza della Volkswagen, oppure la partecipazione all´azionariato ottenuta dai sindacati americani dell´Uaw, presenti nei consigli di amministrazione con il 63% della Chrysler. E invece non è così.
È diseguale lo scambio sulle retribuzioni (ammesso che siano vere le cifre scritte dall´azienda sull´accordo separato). Si potrebbe dire: hai ceduto sulle pause ridotte, hai ceduto sui turni, hai ceduto sulle indennità di malattia. Ma in cambio hai ottenuto l´allineamento del tuo salario medio annuo (23 mila euro in Italia) a quello dei tuoi colleghi tedeschi (42 mila euro in Germania). E invece non è così. La tua pausa ridotta vale 18 centesimi l´ora, cioè un euro al giorno, cioè 32 due euro al mese, lordi e persino esclusi dal calcolo del Tfr. Il tuo straordinario possibile, 120 ore all´anno, è a discrezione dell´azienda, vale teoricamente 3.600 euro di aumento futuro, ma sconta una contraddizione attuale: l´accordo prevede «la cassa integrazione straordinaria, per crisi aziendale... per tutto il personale a partire dal 14 febbraio per la durata di un anno». Come potrai fare lo straordinario, se starai in Cig per tutto il 2011?
2) Sulle prospettive future. Resta il sospetto che fossero vere le affermazioni sfuggite a Marchionne a «Che tempo che fa», il 24 ottobre: «Senza l´Italia la Fiat potrebbe fare molto di più...». Produrre auto in Italia, per la Fiat, è un problema che neanche l´accordo su Mirafiori può risolvere. Al supermanager italo-svizzero-canadese, apolide e multipolare, il Belpaese non conviene. Per due ragioni di fondo.
Non c´è convenienza «politica». Lo dicono i fatti. Finora il salvataggio e il rilancio della Fiat sono avvenuti sulla base di uno schema collaudato con gli Stati: io costruisco, salvo o rilancio le fabbriche, tu mi paghi. È avvenuto in una prima fase in Italia, finchè sono andati avanti gli ecoincentivi. È accaduto in Messico, dove il Lingotto ha ottenuto un prestito statale da 500 milioni per rifare l´impianto di Toluca. È accaduto in Serbia, dove per l´impianto di Kragujevic il gruppo incassa un contributo statale di 10 mila euro per ogni assunzione. È accaduto in America, dove l´operazione Chrysler è passata attraverso il «bailout» pubblico da 17 miliardi di dollari. E sta accadendo in tutti gli altri Paesi dove la Fiat vuole essere presente, dal Canada al Brasile, dall´Argentina alla Polonia.
Nel mondo i governi stanno spendendo soldi per salvare l´auto, e tra i principali stakeholder del settore ci sono proprio gli Stati. Obama ha speso 60 miliardi di dollari per le Chrysler, Ford e Gm. Sarkozy ha speso 7 miliardi per Psa-Renault. La Merkel ha speso 3 miliardi per la Opel. In Italia gli aiuti pubblici sono finiti nel 2004. Per la Fiat, dunque, lo Stato non è un interlocutore. E non lo è il governo, che non ha un euro da spendere e un «titolo» per intervenire. Ecco perché Marchionne può andarsene, se crede e quando crede, con la «benedizione» di Berlusconi, che in due anni (di cui quasi uno da ministro dello Sviluppo ad interim) non ha trovato il tempo per convocare almeno una riunione sul caso Fiat.
Non c´è convenienza economica. Lo dicono i numeri. La Fiat produce all´incirca 2,1 milioni di automobili l´anno. Circa 730 mila sono in Brasile, dove lavorano 9.100 dipendenti: ogni operaio sforna 77,6 automobili. Circa 600 mila in Polonia, dove lavorano 6.100 dipendenti: 100 auto per ogni operaio. In Italia 22.080 operai producono meno di 650 mila auto: 29,4 auto per dipendente. Il tasso medio di utilizzo degli impianti, da noi, oscilla tra il 30 e il 40%, con punte bassissime a Cassino (24%) e a Pomigliano (14%), contro una media dell´80% negli impianti dei costruttori franco-tedeschi. Su queste basi, in teoria, si fonderebbero gli accordi separati a Pomigliano e Mirafiori: bisogna lavorare di più, per schiodare l´Italia dallo scandaloso 118esimo posto (su 139) nella classifica Ocse sull´efficienza del lavoro.
Ma qui c´è il grande rebus e il grande limite della Dottrina Marchionne. Il grande rebus: riportare il coefficiente di utilizzo degli impianti a livelli competitivi è un impegno colossale: può bastare il «modello» di accordo sottoscritto da Fim, Uilm, Fismic e Ugl il 23 dicembre scorso? Nessuno, realisticamente, lo può credere. Non può bastare la rimodulazione dei turni su quattro diverse tipologie. Non può bastare la riduzione di 10 minuti delle pause giornaliere infra-turno. Non possono bastare le 120 ore annue di «lavoro straordinario produttivo». Non può bastare il disincentivo all´assenteismo basato sul mancato pagamento del primo giorno di malattia collegata a periodi pre o post festivi. Non può bastare nemmeno la «nuova metrica del lavoro» imposta dal famigerato metodo «Ergo-Uas», la scomposizione post-taylorista dell´ora di lavoro di ogni operaio in 100 mila unità di «tempo micronizzato» e la previsione pseudo-orwelliana di 350 operazioni effettuate dal singolo operaio in 72 secondi ciascuna.
Il problema della produttività non si risolve così, senza una strategia sull´innovazione di prodotto. Produrre di più per fare che cosa? Questo è il grande limite della Dottrina Marchionne. Se con un colpo di bacchetta magica il «ceo» riuscisse a far lavorare gli impianti italiani a ritmi di produttività tedeschi o americani, e se per magia ogni operaio di Mirafiori o di Pomigliano sfornasse 100 automobili all´anno come il «collega» serbo, la Fiat non saprebbe che farne. Le vetture prodotte in più resterebbero invendute nei piazzali. La Fiat non è in affanno perché la sua offerta, sul piano dei volumi, non riesce a soddisfare la domanda. Non è in affanno per ragioni di quantità, ma di qualità. È in difficoltà perché non ha nuovi modelli, soprattutto nella gamma alta e nel segmento a più elevato contenuto ecologico e tecnologico. E perché i modelli che ha soffrono sempre di più la concorrenza straniera. Nel 2010 il calo delle immatricolazioni Fiat (meno 16,7%) è il doppio della media del mercato (-9,2). E la quota di mercato si è ridotta al 30% (era 32,7 nel 2009).
Sulla carta, il rilancio di Mirafiori dovrebbe servire a colmare queste lacune. Con la produzione di «automobili e Suv di classe superiore per i marchi Jeep e Alfa Romeo». Con la possibilità di «produrre fino a più di mille auto al giorno per un totale di 250-280 mila vetture l´anno». Con l´investimento promesso che «supera il miliardo di euro, suddiviso tra Fiat e Chrysler». Questo è l´impegno del Lingotto, affidato al comunicato stampa accluso all´intesa e sottoscritto dai sindacati firmatari. Non c´è nulla, nel testo dell´accordo, che ne garantisca il rispetto. E non c´è nulla, nel misterioso piano «Fabbrica Italia» da 20 miliardi, che apra uno scenario industriale plausibile sui prossimi dieci anni. Si tratta allora di aggrapparsi disperatamente a quello che si ha, qui ed ora. E per il futuro, affidarsi a Marchionne. Una «scommessa» giocata su una «promessa». Il rischio è altissimo. Se fallisce, perdono tutti. Perdono i sindacati e la politica. Ma perde anche la Fiat. E perde anche Marchionne, anche se se ne torna a brindare a Detroit.
m.gianninirepubblica.it
Un centro commerciale (un altro?) nella campagna lombarda. Sorgerà sulle rive del Naviglio, a Borgarello, paese a nord di Pavia, non distante dalla Certosa. La Regione guidata da Roberto Formigoni ha dato l’ok al progetto. Il fatto in sé non meriterebbe neppure due righe in cronaca: nella miriade di centri commerciali che spuntano come funghi al Nord, è come dare notizia di un cane che morde un uomo. Ma attorno a questo morso banale, ci sono anche uomini che mordono cani: dunque forse vale la pena di raccontarlo, lo strano caso del centro commerciale sulla riva del Naviglio pavese.
Intanto è curioso che la Regione abbia dato il via libera al progetto, visto che il suo “Piano territoriale regionale d’area Navigli lombardi” sostiene che bisogna valorizzare e preservarele aree ancora libere nei pressi di quei corsi d’acqua (una fascia di 100 metri dalle sponde, di 500 in presenza di aree agricole, ricorda Renato Bertoglio, responsabile locale di Legambiente). E cosa c’è di meglio di un bel centro commerciale di 240 mila metri quadrati, per valorizzare le aree agricole di Borgarello?
Ancor più strano è il fatto che, dopo dieci anni di tentativi, a condurre in porto l’operazione sia un commissario prefettizio, che dovrebbe limitarsi a gestire l’ordinaria amministrazione: sì, nel municipio di Borgarello decide il commissario Michele Basilicata, perché il sindaco, Giovanni Valdes (Pdl), è in galera. Già buono sponsor dell’affare, oggi Valdes non se ne può più occupare: ha lasciato il municipio di Borgarello per una più scomoda cella del carcere di Opera.
Arrestato nel luglio scorso, nel corso della grande operazione antimafia che ha decapitato la ’Ndrangheta in Lombardia, è accusato di turbativa d’asta: avrebbe truccato la gara per vendere un terreno davanti al suo municipio, finito a una società, la Pfp, riconducibile, secondo il pm Ilda Boccassini, a Carlo Chiriaco, uomo d’affari che ha ammesso di essere affascinato dai boss calabresi che gli ronzavano attorno. A Valdes, uomo di Cl, consigliere della Compagnia delle opere, il giudice ha rifiutato la scarcerazione a causa della“disinvoltura con cui il sindaco di Borgarello ha messo a disposizione di Chiriaco e dei suoi sodali la funzione pubblica svolta”. Ha fatto carte false,“con collusioni e mezzi fraudolenti”, per far vincere la gara all’amico degli amici.
Non sappiamo se ha usato la stessa“disinvoltura”anche nelle pratiche sul centro commerciale, ma certo in questi casi sarebbe bene usare il massimo della prudenza. Invece: avanti tutta. Strada spianata alla società Progetto commerciale srl di Costantino Serughetti. Malgrado il commissariamento del Comune e le perplessità dei partiti. Ufficialmente la Lega è contraria e così pure il Pd. Ma poi i capataz locali della politica sono, chissà perché, tutti favorevoli (a parte Rifondazione). Compresi i sindaci Pd dei paesi vicini, Certosa e Giussago.
E sapete, ultima chicca, chi è il progettista del centro? L’ex dirigente dell’ufficio tecnico del Comune di Borgarello, Giuseppe Masia, prima ha lavorato al piano del territorio e alla valutazione ambientale strategica. Ha detto sì, nel nome dell’interesse generale. Poi si è alzato dalla sua poltrona pubblica e si è seduto dall’altra parte del tavolo. Salto della quaglia in bassa padana.
Così su queste pagine si apriva - parecchi anni fa - la telenovela del Centro Commerciale Borgarello con quello che poi si è trasformato nel primo capitolo del libro I Nuovi Territori del Commercio (f.b.)
Sono tornati a parlare, firmano appelli e ci mettono la faccia. Dopo anni di latitanza, c’è un timido segnale: la cultura tornerà accanto al lavoro?
All’ingresso della Sala Valdese di corso Vittorio Emanuele avanza solitaria ed elegante la figura di Gianni Vattimo, filosofo temerario capace di studiare con Hans-Georg Gadamer e Luigi Pareyson e di attraversare con leggerezza ma senza rinunciare allo scontro e alla polemica la politica italiana, dai radicali al pd, fermandosi, per ora, ad Antonio Di Pietro. Caro professore, come la mettiamo con gli intellettuali, Torino e la Fiat? Cosa avete combinato? «Non va così male, come si potrebbe pensare perchè quelli che hanno ancora la forza di parlare qualche cosa giusta l’hanno detta, si sono schierati per il no all’accordo di Mirafiori, hanno difeso i diritti degli operai. Il mio rammarico è la politica, quella dei partiti e degli amministratori, e anche il sindacato. Dopo la vittoria del sì cosa facciamo, che lotte pensa di mettere in campo la Cgil? Il diritto di sciopero è un diritto individuale sancito dalla Costituzione, possiamo iniziare da qui, ma dobbiamo pensare ad autorganizzarci, a trovare nuovi sbocchi». Ci sono i partiti per questo? «Ma quali partiti vuol trovare... Il sindaco Chiamparino e il suo possibile successore Fassino si sono schierati apertamente con Marchionne, comprende il disastro in cui viviamo? Non siamo qui per divertirci».
Se c’è una città dove l’impresa, la fabbrica, il lavoro, la condizione operaia hanno alimentato cultura e professioni, politica e sindacato, questa è Torino. Qui è nata l’industria dell’auto, questa è la città di Antonio Gramsci, del capitale e dei comunisti, questa è la company town per eccellenza dove alla fine degli anni Settanta ancora 130mila cittadini vivevano stretti alla Fiat. Se in altri tempi fosse comparso Sergio Marchionne con le sue proposte sapete cosa sarebbe successo? Il Pci avrebbe organizzato una conferenza operaia chiamando le più belle teste della politica, dell’economia, del sindacato e delle imprese a discutere di Fabbrica Italia. Sui grandi giornali, anche su quelli della Fiat, si sarebbero aperti dibattiti senza fronzoli. Il ministro del Lavoro, magari un democristiano duro e testone come Carlo Donat Cattin, avrebbe chiamato sindacati e impresa attorno a un tavolo per evitare dolorose fratture. Il parlamento avrebbe raccolto le sollecitazioni dell’impresa e del lavoro.
Oggi non è rimasto quasi più nulla di tutto questo patrimonio, ogni soggetto gioca per sè e quello che risulta devastante, anche se pochi ne comprendono la tragica portata per la nostra democrazia, è la distruzione progressiva dei corpi intermedi di rappresentanza sociale, dal delegato di fabbrica fino al sindacato confederale. Anche gli intellettuali, di ogni origine e vocazione, hanno smarrito negli ultimi anni il loro ruolo di ricerca, di proposta, rifugiandosi in comodi incarichi accademici o mettendo la propria scienza al servizio della tv in cambio di pubblici riconoscimenti e generose retribuzioni. Diceva un grande torinese come Norberto Nobbio che «il compito dell’intellettuale è di seminare il dubbio e non di raccogliere certezze ». Allora di fronte al caso Fiat c’è da chiedersi se gli intellettuali abbiano almeno diffuso qualche dubbio sulle dimensioni del cambiamento indotto da Marchionne.
Angelo D’Orsi, professore di Storia del pensiero politico all’Università di Torino, ha un’idea chiara: «La risposta degli intellettuali è stata debole, ma qualcosa si sta muovendo, vedo un fermento che apre a nuove speranze. Il caso Fiat ha provocato reazioni, certo ancora insufficienti maforse, dopo vent’anni di silenzio, è venuta l’ora in cui l’intellettuale ritrova la forza per denunciare la menzogna e cercare la verità. A questo servono gli intellettuali». E oggi dove sta la verità? Risponde D’Orsi: «Io la vedo nella classe subalterna che non è più solo la classe operaia, Ma è il giovane precario, è il migrante costretto in schiavitù, è l’insegnante offeso, il lavoratore colpito nella sua dignità. Dopo Rosarno, Pomigliano, oggi Mirafiori l’intellettuale non può più tacere. A Torino ci sono fermenti positivi, dobbiamo rimetterci in moto, scendere in campo».
Che cosa si è mosso, allora, a Torino? Cosa stanno facendo gli intellettuali su cui ha ironizzato il sindaco Chiamparino dichiarando ieri alla Stampa che «hanno firmato contro il parcheggio di piazza san Carlo, oggi l’angolo più bello di Torino»? Marco Revelli, sociologo e docente universitario, ha lanciato un appello di solidarietà con gli operai e contro le condizioni imposte da Marchionne. Racconta: «All’inizio eravamo 19 docenti universitari, poi le firme sono aumentate, abbiamo passato le 50 con altri docenti, architetti, avvocati, insegnanti di liceo. Mi hanno chiamato persone che non sentivo da anni, che non apparivano in pubblico da molto tempo ma che in questa occasione ci tenevano a metterci la faccia, a far sapere che loro non condividono quanto sta succedendo. Un po’ mi ha sorpreso questa presenza perchè vuol dire che sotto la superficie opaca della città c’è una speranza e questa speranza viene da persone che si sono salvate perchè sono state lontane dalla politica e dalle istituzioni, non sono state contaminate».
La Fiat continua a influenzare la città, le sue scelte, ma in altri tempi avrebbe mostrato ben altra potenza, una capacità di creare consenso, anche culturale, che avrebbe accompagnato il suo disegno imprenditoriale. Questo cambiamento, forse, dipende dal fatto che oggi l’impresa ha un solo leader, Marchionne, abile e duro ma pur sempre un dipendente, mentre gli eredi della famiglia Agnelli stanno nelle retrovie e non si ricorda un intervento di John Elkann che possa far pensare all’abilità e al carisma del nonno Gianni. «Ma la Fiat è ancora uno dei pochi soggetti con un’influenza forte, riempie un cratere vuoto, mentre gli eredi della sinistra condividono le scelte di Marchionne che ha una concezione servile del lavoro» aggiunge amaro Revelli, interrogandosi sul futuro: «L’acronimo Fiat è stato distrutto: non c’è più fabbrica, non è più italiana, fa poche automobili e a Torino ha una presenza sempre più modesta». Però ci sono gli operai. «Sono l’unico pezzo di storia che ci rimane, questa non è fiction è la realtà».
Cosa manca, allora? L’economia globale non ci lascia scampo, dobbiamo stendere il tappeto rosso davanti a Marchionne e star zitti? La risposta finale la lasciamo a Rocco Larizza, ex operaio Fiat, già responsabile del pci a Mirafiori, poi parlamentare e segretario della federazione torinese dei ds:«Io voterei no al piano Marchionne, conosco la vita e la sofferenza degli operai. Si può trattare sui turni, sull’organizzazione, ma non sulla libertà e la democrazia. Quello che ci manca è un’elaborazione, una proposta capace di confrontarsi con i cambiamenti del capitalismo. Ci servirebbe uno come Bruno Trentin».
Ieri abbiamo partecipato, con la nostra memoria e i nostri argomenti, ad un alto momento di democrazia. Il referendum ha riacquistato la sua forza originaria, quella voluta dai nostri Costituenti, è uscito dal cul de sac dei tecnicismi e dei limiti giurisprudenziali in cui era stato condotto a partire dei primi anni del 2000. La Corte costituzionale, dietro istanza di circa un milione e mezzo di cittadini, pronti a divenire 30 milioni per dire no a quel processo di privatizzazione selvaggio voluto dal decreto Ronchi, ha dichiarato ammissibile il referendum promosso dai comitati contro il saccheggio dei beni comuni e la dismissione della proprietà pubblica. Ha dichiarato ammissibile il quesito che espunge il profitto dalla gestione del servizio idrico. Insomma uno stop a quel progetto affaristico e letale di contaminazione pubblico-privato che già aveva interessato le varie mafie locali (passando dall'acqua, ai trasporti ai rifiuti), troppo spesso collettori di voti e consensi elettorali.
Il tema dei beni comuni è entrato per la prima volta nel dibattito processuale dinanzi alla Corte, agganciato al tema dei servizi pubblici ed alla tutela dei diritti fondamentali: si è aperta dunque nel nostro Paese una nuova stagione di democrazia. I cittadini si sono riappropriati del diritto di esprimersi sui beni comuni, sui beni di loro appartenenza, su quei beni che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali, nonché al libero sviluppo della persona e sono informati al principio e alla salvaguardia intergenerazionale. Si è ridato significato e dignità all'art. 1 della Costituzione, ovvero al principio che assegna al popolo la sovranità, in una stagione di tragedia della democrazia rappresentativa. ipartire dunque dalla campagna referendaria, ma non soltanto per raggiungere il quorum di voti necessario per la validità del referendum, ma anche per dare inizio ad una grande battaglia per la difesa dei beni comuni. Ripartire dalla campagna referendaria per aprire una stagione di lotta sul tema dei diritti violati: lavoro, università, migranti, ambiente.
Il "popolo dell'acqua" che a questo punto potrà incidere sulle politiche pubbliche del nostro Paese, e che dovrà pretendere la moratoria di tutti i processi di privatizzazione in corso, dovrà dunque essere pronto a manifestare tutta la sua indignazione e voglia di partecipazione contro tutti i soprusi e le angherie sempre più espressione di una società feudale e post-moderna. Da ieri c'è un nuovo soggetto politico con il quale il desolante sistema dei partiti parlamentare ed extra-parlamentare dovrà finalmente fare i conti.
Gli autori hanno rappresentato il Comitato per il no davanti alla Corte Costituzionale
E pensare che ce l'aveva messa tutta per far disputare il gran premio di Formula 1 all'Eur. Il sindaco Alemanno con i suoi collaboratori avevano addirittura commissionato attraverso l'Ente Eur un sondaggio utile a dimostrare che gli abitanti erano favorevoli alla manifestazione. Le domande erano di rara scientificità, tipo: «L'intervento permetterà di riqualificare l'area delle Tre Fontane e di renderla sicura, visto che oggi è abbandonata. Lei è favorevole?». Oppure: «Il Gran premio porterà moltissimi posti di lavoro. Lei è favorevole alla F1 in questa prospettiva occupazionale?»
Ora che Bernie Ecclestone ha notificato che in Italia si disputa già la gara di Monza e che è impossibile organizzare due gran premi nella stessa nazione, come la mettiamo? Il conto del sondaggio e di tutta la mole dei progetti che sono stati fin qui redatti lo paghiamo noi attraverso il bilancio dell'Ente Eur e del comune oppure lo giriamo a Maurizio Flammini? Sembra secondario, ma è il tema centrale della vita pubblica italiana in questo difficile momento. Le amministrazioni locali e le municipalizzate gravano comunque sui bilanci pubblici, anche se vengono gestite come impenetrabili feudi da un sistema politico impazzito. Pochi giorni fa, durante lo scandalo di Parentopoli. su queste colonne è stato Marco Bersani a porre la questione in termini efficaci: è ora di finirla con l'uso privatistico di aziende che lavorano solo per sottrarre beni pubblici ai cittadini.
Ce l'aveva messa tutta, il sindaco, perché se fosse andata in porto, la vicenda Formula 1 avrebbe perfezionato una macchina perfetta di svendita delle città. Amministratori comunali affermavano che tutta la macchina economica del Gran premio si reggeva sulla speculazione edilizia. Il privato imprenditore non metteva una lira - una storia sempre uguale - doveva soltanto avere in regalo terreni pubblici su cui costruire edifici privati da vendere successivamente. Insomma, il sindaco voleva privare l'Eur e Roma di terreni pubblici, privatizzarli e riempirli di cemento. Dopo il "modello Roma" di Veltroni basato sulla deroga urbanistica, dopo il sistema della cricca delle piscine dei mondiali di nuoto del 2009, Roma continua ad essere il luogo di sperimentazione dei peggiori mostri. Ora, per fortuna questa macchina si è inceppata. Ma continuerà nei tanti esempi di questi anni, ad iniziare dal «recupero di Tor Bella Monaca», non a caso reso pubblico dal sindaco a Cortina InConTra sponsorizzata dall'Acea, cioè con i nostri soldi.
Questa bruciante sconfitta servirà solo se l'opposizione compirà fino in fondo una esplicita critica al modello accettato in questi anni. La Formula 1 è solo la punta dell'iceberg di un sistema insostenibile che ha unificato tutte le amministrazioni pubbliche, di qualsiasi colore. E di fronte al fallimento è chiaro che da questa spirale che rischia di far sparire al città pubblica si esce soltanto con un nuovo modello di economia, ad iniziare dalla vita delle nostre città. Basta con il cemento e vogliamo decidere sui nostri soldi sono gli obiettivi iniziali.