L'amministratore delegato Sergio Marchionne ha annunciato che il gruppo Fiat-Chrysler, una volta che fosse interamente unificato, potrebbe stabilire la propria sede legale negli Stati Uniti. Sarebbe un fatto senza precedenti.
Non si ricorda infatti un altro grande costruttore, di quelli che hanno fatto la storia dell´automobile, che abbia de-localizzato non solo il proprio braccio produttivo, ma anche la propria testa, gli enti che decidono e guidano tutto il resto di un grande gruppo nel mondo. Toyota e Volkswagen, Citroen e Renault, General Motors e Ford producono milioni di auto in paesi terzi, ma il quartiere generale, il cuore della ricerca e sviluppo, il controllo gestionale e finanziario restano ben saldi nel paese d´origine.
Sarebbe un grave smacco per Torino, per il Piemonte e per tutto il Paese se Fiat cambiasse nazionalità. L´Italia resterebbe con una sola grande industria manifatturiera, la Finmeccanica, che per il 40 per cento produce armamenti, non esattamente il tipo di produzione di cui un paese possa andare fiero, anche se permette di realizzare buoni utili.
Questo in un momento in cui l´industria automobilistica è dinanzi a sfide, tipo la mobilità sostenibile, che potrebbero cambiare profondamente la sua struttura produttiva ed i rapporti con altri settori che cominciano seriamente a occuparsi di uno dei maggiori temi da affrontare per evitare il suicidio delle città causa collasso del traffico.
Inutile illudersi in merito a ciò che resterebbe a Torino, nel caso che la testa di Fiat Auto se ne vada a Auburn Hills o a Detroit. Il Centro Ricerche Fiat, da cui sono uscite alcune delle più importanti innovazioni degli ultimi anni, in specie, nel campo dei motori, sarebbe prima o poi destinato a seguirla, insieme con i designer, i tecnici che progettano i sistemi base di un´auto, gli esperti di autoelettronica. Quanto ai fornitori di componenti, potranno sperare di trovare nuovi clienti tra i grandi gruppi europei ed extraeuropei che continueranno a costruire milioni di auto in ambito Unione europea gestendo con mano sicura la produzione dalle loro sedi nazionali.
È un esercizio sgradevole a farsi, ma dinanzi a un evento che potrebbe segnare definitivamente la discesa dell´Italia tra le potenze industriali di serie C, bisogna pure chiedersi chi sono e dove stanno i responsabili della eventuale migrazione di Fiat Auto negli Stati Uniti. Non è nemmeno un´impresa facile, perché se uno immagina di metterli materialmente fianco a fianco per affrontare tutti insieme una approfondita discussione sul caso Fiat, non basterebbe ormai un palasport. Forse per deferenza nei confronti delle grandi figure del passato, come Giovanni e Gianni Agnelli, finora se n´è parlato poco, ma sembra evidente che la fuga della Fiat dall´Italia debba non poco alla famiglia proprietaria. Che all´auto deve tutto, ma che da una decina d´anni mostra chiaramente di considerare la produzione di auto come una palla al piede. Altrimenti non si spiegherebbero i modesti investimenti in ricerca e sviluppo che sono calcolati per addetto, la metà di quelli della Volkswagen; il mancato rinnovo di stabilimenti che sono ormai i più vecchi d´Europa, e il lasciare passare di mano il maggiore designer del continente, Giugiaro, senza alzare letteralmente un dito.
Accanto alla famiglia, sugli spalti del palasport dei responsabili della fuga Fiat dovrebbero esserci gli innumerevoli politici, sindacalisti, sindaci, economisti, commentatori tv che hanno salutato i piani del genere «prendere o lasciare» di Marchionne come folgoranti salti nella modernità delle relazioni industriali. Mentre si rivelano ora un goffo tentativo per recuperare sul fronte strettissimo delle condizioni di lavoro quello che si è perso sulla strada maestra dei nuovi modelli, del rinnovo radicale degli impianti, della ricerca e sviluppo. Ad onta della suddetta folla, un pò di spazio sugli spalti dei responsabili della fuga Fiat si dovrebbe ancora trovare per gli esponenti del governo che nel corso degli anni, non solo negli ultimi mesi hanno dato prova di una inettitudine totale nel concepire e attuare una politica industriale che coinvolga l´auto ma non si limiti ad essa. Come hanno saputo fare sia i maggiori paesi Ue, sia perfino alcuni dei più piccoli.
Se la Fiat diventa americana, ossia se è destinata a operare come il distributore di auto Chrysler in Italia, il problema da affrontare subito è il destino di Mirafiori e delle migliaia di posti di lavoro che vi ruotano attorno.
Certo, è sempre meglio montare delle jeep i cui pezzi principali (la piattaforma e il motore) sono costruiti in America che restare disoccupati. Ma Torino e l´Italia meritano sicuramente di meglio. Farebbe bene sperare, o quantomeno ridurrebbe il tasso collettivo di pessimismo attorno al destino dei lavoratori Fiat, se nel palasport dei responsabili della migrazione all´estero di questa grande azienda qualcuno provasse ancora a fare un tentativo per uscire da questo vicolo cieco prima di dover sottoscrivere la resa definitiva.
Il ministro degli interni della Repubblica di Bunga Bunga ha comunicato ieri che il referendum contro la privatizzazione dell'acqua si terrà il più tardi possibile, ossia domenica 12 giugno. La motivazione è che quel giorno una gran parte delle laboriose popolazioni della Repubblica si troveranno al mare o imbottigliate in coda nei loro grandi Suv e che quindi non potranno raggiungere le urne, facendo così saltare il quorum. L'annuncio costituisce il solito schiaffo in faccia al Presidente della Repubblica che, non consultato, si troverà a firmare un decreto che costerà ai pochi fra i cittadini che pagano le tasse una cifra vicina ai 10 milioni. Tanto si potrebbe risparmiare accorpando il referendum alle consultazioni amministrative, come richiesto dai Comitati promotori. Ma naturalmente si sa che Bunga Bunga è in solide condizioni economiche e quindi quei milioni si possono tranquillamente sprecare (anzi investire) allo scopo nobile di mandare deserte le urne. Del resto, sappiamo bene che il suddetto ministro degli Interni è compagno di partito di un altro brillante esponente della cultura istituzionale della Repubblica di Bunga Bunga, quel Calderoli che ha legato inestricabilmente il proprio volto a quello del porcellum.
Il tentativo di far saltare il quorum del referendum, si sa, ha per scopo quello di difendere il decreto Ronchi nei confronti di qualsiasi tipo di discussione democratica obbligando così, con un fiat dal centro, ogni territorio a spogliarsi senza fiatare dei propri beni comuni, in primis l'acqua, facendo sì che i soliti amici che finanziano le campagne elettorali romane (e non solo) possano lucrare profitti osceni alla faccia del popolo sovrano. Tutto ciò non solo è perfettamente coerente con l'idea di democrazia praticata dalla Lega, ma potrebbe consentire una volta di più di «darla a bere» ai poveri allocchi che sui territori qualche settimana prima del referendum avranno votato per il più potente partito del nord, quello che davvero governa la Repubblica di Bunga Bunga. Si mormora peraltro che la scelta del ministro dell'Interno sia largamente condivisa da diversi brillanti e ambiziosi esponenti del principale partito di finta opposizione della Repubblica di Bunga Bunga i quali, già ricoprendo importanti responsabilità amministrative al nord, fanno a gara con Ronchi nel portarsi avanti nella svendita dei beni comuni, non solo acqua ma anche tram e spazzatura. Ciò costituisce un altro tratto comune fra questi esponenti dell'opposizione, il suddetto ex ministro delle Politiche comunitarie e l'attuale ministro dell'economia e futuro premier della Repubblica, ai quali per onestà e completezza va associato anche l'esponente più prestigioso del partito delle «manette come valore», molto attivo a sua volta nelle piazze di Bunga Bunga. Tutti costoro infatti per mesi si erano improvvisati esperti di diritto comunitario e di diritto costituzionale, straparlandone senza pudore. Poi la Corte Costituzionale li ha invitati ad andare a seguire un corso di diritto europeo. Se lor eccellenze ritenessero di accettare l'invito dovrebbero però fare un po' in fretta, visto che molto presto l'università non ci sarà più, grazie al trattamento riservatole dalla ministra bresciana di Bunga Bunga, avvocatasi in Calabria. Anzi no, potranno frequentare comunque, per ragioni di puro merito, una scuola di eccellenza o magari basterà il Cepu.
Noi, da parte nostra, l'esame di diritto europeo lo abbiamo passato a pieni voti e umilmente lavoriamo per portare a 25 milioni di votanti il nostro milione e mezzo di firme. In fondo il ministro ci ha regalato un po' di tempo. Dato il sistema dei media di Bunga Bunga, possiamo utilizzare solo i banchetti per cercare di spiegare al popolo che il 12 giugno si deve andare a votare rinunciando a qualche ora di tintarella. Il banchetto è uno strumento lento ma ci darà l'opportunità di convincere la gente comune a non votare per chi dice di stare con la democrazia e il popolo mentre sta solo con i saccheggiatori e i ladroni per impedire (slealmente) che i territori decidano a casa loro come governare i propri beni comuni.
Rivoluzione urbanistica con soldi privati. 57 milioni al Comune Ecco il meccanismo messo a punto dal Comune per riutilizzare le aree industriali dismesse
VERONA. Due torri alte 80 metri vi accoglieranno all’uscita dell’autostrada a Verona sud, assieme ad un parcheggio scambiatore con 5000 posti auto. Attorno uffici ma anche abitazioni, negozi, un grande parco e piste ciclabili, perché «non si può pensare all’architettura senza la gente».
E’ la filosofia di Richard Rogers, l’architetto londinese che ha progettato questo recupero nell’area delle ex Officine Adige, 100.700 mq di superfice, grande testimonianza di un passato industriale diventata oggi un bubbone per Verona, che l’ha inglobata nel tessuto urbano ma non sa che farsene.
Sul riutilizzo di quest’area la città s’interroga da anni. Il dibattito, che non è dissimile da quanto avviene altrove, coinvolge anche altre zone industriali dismesse: l’ex manifattura Tabacchi, l’ex consorzio agrario lombardo-veneto, l’area ex Autogerma. La differenza tra Verona ed altre città venete, è che nel capoluogo scaligero la fase delle chiacchiere è finita. Ciò non significa che sia stata breve. Rogers, grande nome dell’architettura mondiale (ha debuttato nel 1963 fondando con Norman Foster il «Team 4» e ha firmato con Renzo Piano il Beaubourg di Parigi, per citare due suoi compagni di viaggio), aveva presentato il suo progetto ancora nel 2003, in un convegno organizzato dal Banco Popolare di Verona. Venerdì scorso quel progetto è uscito dai cassetti, assieme ad altre proposte di ristrutturazione urbana, 42 in tutto, inquadrate in un «Piano degli interventi» approvato dalla giunta Tosi. La presentazione ufficiale è avvenuta in Fiera, con mezza città mobilitata. Il piano, che naturalmente ha già avuto l’ok della Regione (Pat), passa ora all’esame delle circoscrizioni cittadine per approdare in consiglio comunale prima dell’estate. Quello sarà il momento del via ufficiale.
Si stima che il valore complessivo dell’operazione sia di qualche miliardo. «Gli interventi sono ovviamente privati, ogni proprietario sulla sua area - spiega il sindaco Flavio Tosi -. Il Comune provvede al cambio di destinazione d’uso: dal capannone industriale si passa a zona direzionale, residenziale, commerciale. Sul guadagno presunto, il privato paga una parte al Comune. Questa quota va ad aggiungersi agli oneri di urbanizzazione per i parcheggi, il verde e quanto richiesto dalla lottizzazione. Il valore complessivo della quota aggiuntiva, se tutti i 42 progetti andassero in porto, viaggia intorno ai 57 milioni di euro. Questa è la cifra che il Comune introiterà e con la quale provvederà alla completa riorganizzazione e riqualificazione dell’asse centrale di Verona Sud e delle altre vie della zona. Poi c’è una serie di parametri da rispettare, per esempio le altezze hanno possibilità maggiori lungo l’asse di Verona Sud e minori allontanandosi».
Questi indici regolano la cubatura dei nuovi immobili. Con una possibilità di variante: «Se qualche privato vuole realizzare una cubatura maggiore, non rispetto a quello che ha ma rispetto all’indice teorico assegnato - spiega Tosi - deve comprare il volume aggiuntivo dal Comune. Noi abbiamo realmente volumi da vendere: per esempio abbiamo realizzato il parco San Giacomo comprando un’area edificabile e trasformandola in zona verde. Sopra c’erano più di 200.000 metri cubi costruiti. Noi vendiamo quel diritto a costruire»
Strappi e mimose
di Ida Dominijanni
Per quanto tecnica sia la formula, l'aggettivo «irricevibile» con cui Napolitano ha respinto al mittente e rinviato alle camere il decreto sul federalismo ha un suono ben più forte dello strappo procedurale cui si riferisce. Irricevibile è un governo che disprezza il parlamento e prescinde dal Quirinale, irricevibile è una maggioranza di nominati arroccata nel bunker del suo padrone, irricevibile è un capo di governo che usa sistematicamente la scena internazionale per denigrare «la Repubblica giudiziaria commissariata dalle procure», irricevibile è lo stesso capo di governo che su quella stessa scena difende, unico in Occidente, lo zio - anch'esso di sua nomina - della propria favorita, irricevibile è una prassi istituzionale fondata per metodo e sistema sullo scontro fra i poteri dello Stato. Se ne contano almeno nove al calor bianco, in tre anni, fra Palazzo Chigi e il Quirinale, su questioni di procedura e di merito. È un segno, e non l'ultimo, che la situazione è da tempo oltre il livello di guardia.
Perché allora, con le pinze, si tiene ancora? Perché in campo c'è una sola strategia riconoscibile, nei suoi tratti devastati e devastanti: quella di un raìs in pieno delirio di onnipotenza («sono l'unico soggetto universale a essere tanto attaccato», ha detto di sé ieri testualmente il premier) e deciso a resistere, resistere, resistere a tutti costi, nessuno escluso. Senza limiti, perché non ne conosce. Senza vergogna, perché non ne ha. Senza tema di smentite, perché la sua capacità di scambiare il vero col falso è segno non più di manipolazione bensì di negazione della realtà. Intorno a questa maschera, solo una corte di figuranti asserviti che finiscono col restituirle lo scettro anche quando potrebbero sfilarglielo, alla Bossi o alla Maroni per capirci. Dall'altra parte, una strategia felpata, una ricerca di alleanze senza selezione e senza seduzione, una promessa di liberazione senza desiderio. Il risultato è una paralisi che si alimenta di una lacerazione al giorno, una rivelazione all'ora, uno scandalo al minuto, senza che la tela si strappi davvero e mentre chiunque non faccia parte dello zoccolo duro del raìs si chiede: com'è possibile?
È possibile, perché c'è un fantasma lì dietro la scena, che nessuno vuole davvero vedere. Berlusconi lo rimuove, i suoi avversari lo scansano in attesa della foto del peccato o della prova del reato, e tutti quanti pensano di parlare, ancora, di «politica» (federalismo, fisco e quant'altro), come se, per citare Gustavo Zagrebelsky, le notti di Arcore non fossero la notte della Repubblica. Lo sappiamo, i numeri in parlamento sono quelli che sono. Ma la democrazia parlamentare non esclude altre forme dell'azione politica, e non domanda nemmeno che si resti in parlamento a recitare una farsa. Una società stremata da vent'anni di berlusconismo merita qualcosa di più della promessa di una parodia del Cln. O di una raccolta di firme offerta l'8 marzo come un mazzo di mimose dal segretario del Pd «alle nostre donne». Non siamo di nessuno, non amiamo le mimose né tantomeno, per citare stavolta Luisa Muraro, chi conta di usarci come truppe ausiliarie di una politica inefficacace.
Se l'economia ammazza la politica
di Valentino Parlato
In Italia con la politica (è volgare, ma va detto) siamo nella merda. Non ci sono idee e obiettivi politici rilevanti; non ci sono partiti, ma ammucchiate populiste. Matrimoniale e patrimoniale si confondono; l'evasione fiscale si somma all'evasione sessuale. Giornali e settimanali traboccano di scandali e promozioni d'interessi privati. Se scrivo che in Italia siamo alla distruzione della politica, quale ci era stata insegnata dagli antichi greci, credo che tutti saranno d'accordo. Vorrei essere contraddetto.
Ma questo disastro della politica è solo italiano? È solo l'Italia che celebra, affogando nella palude lutulenta, i suoi 150 anni? Non pare che sia così. Anche nel mondo la politica fa vergogna, ma consolarci col ripetere «mal comune mezzo gaudio» sarebbe piuttosto suicida.
Che succede alla politica nel mondo? Le Monde del 1 febbraio scorso pubblica un ampio e utile articolo di Yves-Charles Zarka, filosofo francese di prestigio, che si è occupato degli attuali cambiamenti della nostra esistenza individuale e collettiva e che nel 2010 ha pubblicato La destitution des intellectuels e Repenser la democratie. Il titolo dell'articolo di Zarka è «la politica senza idee». Nel sommario in testa di pagina si legge: «A sinistra come a destra, i partiti compensano il loro vuoto ideologico con un pasticcio (bricolage) intellettuale che stravolge i concetti filosofici, svuotati del loro significato e della loro profondità». E ancora in un riquadro della pagina si legge: «I governanti attuali, accecati dalle loro ambizioni personali e dalle loro rivalità, talvolta, più semplicemente, per la loro ignoranza, non sanno o non sanno più che significato abbia la parola politica». Bene, le cose stanno a questo modo e non solo in Italia, e anche negli Usa di Obama non se la passano meglio. Mi viene da aggiungere che solo in paesi non al livello industriale dell'Occidente (penso alla Tunisia e all'Egitto) le cose vanno un po' meglio. Il disastro della politica nasce dalla modernità? Bella domanda. Certo c'è un antico qualunquismo che ci ripete «la politica è sporca», ma adesso la questione è più seria: perché la politica fa schifo?
Bene. Ma quando c'è una malattia il medico deve trovare le cause. Quali? Bella sfida, vorrei, desidererei che persone più brave di me intervenissero. Spero veramente di essere smentito, ma a stare almeno all'Italia le descrizioni del degrado della politica non mancano, mi viene da dire che sono la narrazione più attuale, ma manca del tutto l'individuazione delle cause. Al massimo - ma forse esagero - c'è la spiegazione con le stagioni, verso la quale anche io inclino, e così ci raccontiamo che, finita la guerra con la Liberazione, gli americani e i partigiani, l'Italia ebbe una stagione di bella politica. Fu così nonostante la guerra fredda. Ricordo in positivo il discorso di De Gasperi al Brancaccio e il mio primo Pci a piazza Verbano.
Ma le cosiddette stagioni sono sempre il risultato di contesti storici. E così dopo la seconda guerra mondiale ci fu in tutto il mondo la vera ripresa dalla crisi del '29, sviluppo dell'industria, novità di prodotti, occupazione, lotte di lavoratori, forza sindacale, grandi e piccole speranze che spingevano ciascuno ad andare oltre il sé. Eravamo individui sociali. È innegabile, tutto il periodo successivo alla seconda guerra, fino agli anni '70, è stato il periodo della bella economia e anche della bella politica. In Europa si avevano governi di impronta socialista, negli Usa non era ancora arrivato Reagan e in Italia il Pci, benché all'opposizione, agiva sulla politica dei governi e otteneva riforme. I partiti non erano clientele carrieristiche.
Tutto questo per dire che all'origine della brutta politica c'è questa grande, epocale crisi economica che è, di conseguenza, crisi sociale e politica. In Italia il Rubygate è la massima espressione di questa crisi. La politica, specie quella che seppure timidamente si dice di sinistra, dovrebbe impegnarsi sul fronte della crisi economica, che fa disoccupazione e assicura successo ai Marchionne e ai Berlusconi. Non credo proprio che sarà il Rubygate a levarcelo di torno.
Certo non basta scrivere di crisi economica in generale. Bisognerebbe individuarne i vari suoi aspetti e soprattutto come, per quali vie, agisce sulla società e sulla politica. È un fatto (arrischio un'ipotesi) che la crisi economica abbia aziendalizzato la politica e non è proprio un caso che Berlusconi, massimamente imprenditore, sia divenuto l'amministratore delegato dell'azienda Italia.
So di essere piuttosto schematico, ma quelli più competenti di me che pensano, che dicono? Aprire una discussione, forse sarebbe utile e me lo auguro.
"Fiumi battete le mani", ha commentato Padre Zanotelli quando ha saputo che i quesiti referendari contro la privatizzazione dell´acqua erano stati accolti. «Cittadini, battiamo un colpo», mi viene da dire dopo aver osservato per giorni la pressoché totale indifferenza di media e politici su questo tema.
La campagna referendaria è iniziata, ma non ce ne siamo accorti perché siamo insabbiati in questa politica di piccolissimo cabotaggio, che rema a fatica da una notiziola giudiziaria all´altra. Non è un caso se tra i quesiti referendari l´unico che ha avuto dignità di stampa è quello che chiede l´annullamento della legge sul legittimo impedimento.
Ma, come diceva Einstein, non possiamo pensare di risolvere i problemi con la stessa mentalità con cui li abbiamo creati. Abbiamo creduto che il mondo della politica fosse interamente e costantemente al servizio del bene pubblico. Quella politica ha prodotto una norma inaccettabile, che addirittura dimentica alcune leggi fondamentali del tanto amato libero mercato.
Sì, perché nel libero mercato si deve essere liberi di vendere ma anche di comprare. Le due controparti (la domanda e l´offerta) si possono influenzare reciprocamente, stanno in una sorta di rapporto paritario, o per lo meno presunto tale. Se tu alzi troppo i prezzi io non compro, e quando vedrai che nessuno compra allora abbasserai i prezzi. Questo può succedere solo se tu sei libero di vendere e io sono libero di comprare. Ma se tu possiedi qualcosa di indispensabile per la mia stessa esistenza, allora la mia libertà di acquistare non esiste. L´acqua, l´aria, le sementi, la salute, l´educazione, la fertilità dei suoli, la bellezza dei paesaggi, la creatività.... non possono essere assimilate alla categoria delle merci.
Il diritto necessita di nuovi paradigmi per gestire i cosiddetti "beni comuni". Se i beni comuni diventano proprietà di qualcuno, tutti gli altri, ad esclusione di quel "qualcuno" ne avranno un danno, la loro vita sarà in pericolo.
Ora, siamo a questo punto: esiste una norma che rende privatizzabile l´acqua e con quei referendum la possiamo cancellare. Occorre però che vadano a votare almeno la metà più uno degli aventi diritto al voto. Nelle ultime elezioni politiche gli aventi diritto erano circa 47 milioni. Mal contati, occorre che circa 25 milioni di cittadini italiani, si rechino a votare.
Ma prima di tutto questo occorre che siano informati, che sappiano dove informarsi, che si rendano conto che siamo nel bel mezzo di una campagna referendaria fondamentale. A chi affidiamo questo incarico? Quella che ha prodotto la legge sulla privatizzazione? Oppure all´informazione, quella che si lascia trascinare nelle sabbie mobili della politica? Occorre iniziare a far da noi. "Uscirne da soli – diceva don Milani – è l´avarizia. Uscirne insieme è la politica". Ecco, usciamone insieme da questo pantano, e creiamo, in ogni città, un nuovo soggetto politico, che faccia da punto di riferimento per la difesa dei beni comuni e l´informazione che li riguarda. Oggi lavorerà sull´acqua, ma le emergenze non scarseggiano: dalla cementificazione dilagante alle polveri sottili nell´aria alle lapidi fotovoltaiche sui campi fertili, dalle scuole senza carta igienica alle strade piene di immondizia.
La politica dei partiti non ce la fa. Non ha strumenti né energie, in questo momento, culturali o intellettuali, per una simile rivoluzione. Occorre che i cittadini si attivino. Senza bandiere, né raggruppamenti di sigle: non importa a nessuno sapere che berretto abbiamo sulla testa, importa sapere che pensieri abbiamo dentro la testa e che azioni sappiamo produrre. Chiamiamola Azione Popolare, come suggerisce Settis nel suo libro "Paesaggio, costituzione, cemento" (Einaudi), o in qualsiasi altro modo. Ma sbrighiamoci, perché abbiamo bisogno di queste nuove strutture, leggere, puntuali, attente, legate ai municipi, alle parrocchie alle bocciofile, non importa: basta che coagulino persone che agiscano come presidi di cervelli e cuori sui territori, nelle grandi città come nei borghi. Oggi si diano da fare per far sapere a tutti di cosa si sta parlando quando si parla di acqua pubblica, quali valori sono in gioco, quali pericoli sono in agguato. Il comitato promotore dei referendum "Acqua bene comune" ha fatto, finora, i miracoli. Quasi un milione e mezzo di firme raccolte e due quesiti su tre passati è un risultato straordinario. Adesso i territori si mobilitino, fino a quando non avremo la certezza che 25 milioni di italiani sono andati a votare: altrimenti i referendum non saranno validi. Poi, statene certi, quelle strutture non resteranno senza lavoro. Lo dico con un po´ di tristezza, perché in un mondo ideale non dovrebbero avere nulla da fare. Ma siamo nel mondo reale, e c´è tanto lavoro da fare perchè diventi il miglior mondo possibile.
Recensione al volume L’Aquila, Progetto C.A.S.A. - Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili. Un progetto di ricostruzione unico al mondo che ha consentito di dare alloggio a 15.000 persone in soli nove mesi dal terremoto del 6 aprile 2009, a cura di Roberto Turino, Editore IUSS, € 20,00
“Nevicava ma sembrava primavera”. Queste parole dell’ideatore del Progetto C.A.S.E. sintetizzano in modo incisivo l’epopea ingegneristica vissuta nel post-terremoto aquilano dai realizzatori del progetto, un’avventura “eccezionalmente singolare” descritta con grande dettaglio di particolari nel recente libro “L’Aquila- Il Progetto C.A.S.E. - Un progetto unico al mondo che ha consentito di dare alloggio a quindicimila persone in soli nove mesi”.
Il volume, curato da Roberto Turino, è prodotto e pubblicato da Eucentre (il centro di competenza del Dipartimento della Protezione Civile per la ricerca sismica) tramite la sua casa editrice IUSSpress, ed è disponibile nelle librerie Feltrinelli al modico prezzo di 20 euro perché finanziato dai Costruttori ForCASE , cioè dal gruppo di imprese protagoniste della ricostruzione in Abruzzo (altrimenti costerebbe 7-8 volte di più).
Per i nostalgici dell’architettura, dell’ingegneria e dell’urbanistica degli anni ’60, il libro è di sicuro interesse. Al contrario, per coloro che non rimpiangono le sfide di quegli anni infelici (“la diga più alta”, “il ponte più lungo”, “l’impianto più potente”), che tanto hanno contribuito alla devastazione del nostro paese, ai grandi scempi urbanistici e allo sventramento e all’abbandono dei centri storici nonché alla crescita incontrollata di periferie metropolitane, le 500 fotografie, le 200 immagini e i disegni tecnici contenuti nelle 430 pagine di questo volume, sono una doppia ferita culturale e umana.
Il volume, perfettamente rifinito sotto il profilo editoriale, potrebbe essere brevemente liquidato come un eminente esempio di cultura ingegneristica superata dal tempo. Le immagini non lasciano dubbi. La povertà architettonica e l’estetica cimiteriale delle costruzioni, la disarmonia con il contesto, il consumo di territorio, l’eccesso ingiustificato e costosissimo di “sicurezza” , la rovina del paesaggio, le incoerenze urbanistiche balzano agli occhi di chi sfoglia le pagine, e il primo istinto è quello di non proseguire. Un sinistro passato che ritorna e un futuro già contrassegnato non sono sopportabili. Ma, poiché, come recita il testo: ”Questo è un libro di pubblicità. Di pubblicità della capacità italiana di costruire e gestire imprese impossibili” , destinato a girare in Italia e nel mondo, non si può non spendere qualche parola sulla retorica del “miracolismo ingegneristico” che impregna ogni pagina del libro. Miracolismo italiano che, nel Progetto C.A.S.E., avrebbe trovato la sua massima espressione facendo di questo progetto, come recita il sottotitolo “un modello unico al mondo”. Il volume è perciò già oggetto di propaganda in Italia e all’estero per potere vendere (come già fatto ad Haiti) il “modello L’Aquila” (così viene definito!) di ricostruzione dopo le catastrofi.
Il testo è un inno, un canto di vittoria, che va letto in crescendo. L’introduzione di Guido Bertolaso dà il via. Anche se spiazza un po’ il lettore (per ben due fitte pagine vengono elencate le tante critiche che il lettore potrebbe muovere al progetto: altissimi costi, invadenza, compromissione del territorio, ecc.) è evidente però che, nel suo caso, il canto della vittoria è anche e soprattutto un tentativo di “difesa”.
Segue poi la presentazione dell’“idea”, orgogliosamente rivendicata come propria dal direttore di Eucentre Prof. Ing. Gianmichele Calvi, che, in una nota, precisa di avere ricevuto il compenso lordo di 64.800 euro e un rimborso spese di 13.935 euro (pur essendo il motore di “tutto”). Il linguaggio ingegneristico è quello tipico degli anni ’60 (“gli edifici sismicamente più sicuri mai costruiti in Italia”, “mille viaggi di betoniere al giorno”, “il mondo ha ancora bisogno di Costruttori”, ecc.). Il Progetto C.A.S.E. è presentato soprattutto come una “sfida di ingegneria” e di “sfide nella sfida”: sfida della tecnologia e della sicurezza sismica, sfida della logistica, sfida della qualità e della sicurezza, sfida dell’energia e dell’impatto ambientale, ma, soprattutto “sfida della velocità”. “Velocità, velocità, velocità”, così inizia un paragrafo che riporta ancora più indietro negli anni, a Marinetti, ad esempio.
Poi si descrive in dettaglio il “progetto “ (si apprende, per inciso, che il progetto dei giardini è degli architetti di Milano 2); si passa quindi alla “ realizzazione”, ai “cantieri”, alle diverse “tecnologie” impiegate (“che non si conoscevano e che hanno vissuto matrimoni d’amore e di interesse”), e infine ai“risultati”.
Alla magnificenza sulla qualità dei lavori, si aggiungono, per certificare la quantità e la trasparenza, i numeri, spesso a otto-nove cifre che riguardano le ore lavorative, gli importi di gara, il numero dei verbali, le tonnellate di ferro, i metri quadri di casserature , i metri cubi di calcestruzzo, i metri lineari di tubazioni, ecc. ma anche il numero delle tovaglie, dei piatti, delle forbici e delle grattugie… Per non parlare della galassia dei numeri sugli isolatori. Insomma, “una risposta per ogni domanda”, come, per l’appunto, dice Guido Bertolaso nell’introduzione. Certo, i “nemici” potrebbero obiettare che qualche numero è stato dimenticato, per esempio: quanto è costato il Progetto C.A.S.E. prima che il terremoto avvenisse, visto che già si trovava nel surgelatore e che è stato proposto agli amministratori locali solo due giorni dopo?
Poi si descrivono anche “le intenzioni “ e “le persone”. E qui, ci sarebbe da restare commossi di fronte alle parole poetiche usate per indicare la passione per i terremotati, l’entusiasmo di squadra, il timore e il tremore di fronte all’eccezionalità dell’impresa, l’orgoglio, e infine la speranza di raggiungere l’alto traguardo e di avere “la splendida ricompensa di un sorriso e di un grazie da parte di chi aveva perso la propria abitazione e, purtroppo, non di rado anche congiunti o amici a causa del terremoto”.
“Nevicava, ma sembrava primavera”, esclama il Prof. Calvi ricordando i volti sorridenti degli abitanti quando uno degli edifici fu sottoposto alla riproduzione di un possibile evento sismico reale.
Ma come non ricordare anche il triste finale degli schizzi di fango gettati sul Capo del Dipartimento nel febbraio 2010 e che hanno infangato anche l’ideatore e i realizzatori del Progetto C.A.S.E.? Il volume si chiude descrivendo appunto il mesto passaggio “Dall’orgoglio alla vergogna, immeritata”.
Alle tante ragioni espresse partendo da altre ottiche (storica, sociale, urbanistica, economica), o alle tante ragioni che riguardano punti specifici (molto ad esempio ci sarebbe da dire sull’impiego di isolatori, non molto innovativi ma soprattutto molto costosi ed eccedenti in sicurezza per semplici palazzine a tre piani), la ragione più evidente, dalla prospettiva della cultura ingegneristica, è che il Progetto C.A.S.E. rappresenta un vero e proprio ritorno all’indietro. Per chi ha seguito l’evoluzione dell’Ingegneria degli ultimi 50-60 anni, non solo non è un progetto innovativo, ma è un esempio di rivoluzione culturale al negativo. Nasce da un’ideologia del “moderno” e della “dismisura” di 50 anni fa. Usa lo stesso linguaggio ingegneristico di allora, un linguaggio, che, a partire dalla fine degli anni ‘70, è stato superato dal linguaggio dell’”incertezza” e della “complessità”, espressione di un’ingegneria più umile, più responsabile, più attenta alle leggi della natura, alle regole della tutela e della conservazione, a ciò che può dare benessere e felicità a tutti, e cioè paesaggio, monumenti, attività produttive, e tutte le espressioni di una civiltà e di una cultura del territorio. Un ingegneria che non per questo è necessariamente inefficiente, anzi tutt’altro se si pensa che, con le tecnologie di allora, le abitazioni semipermanenti dopo il terremoto del Friuli furono costruite in 15 mesi, cioè solo sei mesi in più che a L’Aquila, senza invece lasciare tracce sul territorio.
Il Progetto C.A.S.E. è un ritorno all’ingegneria che rimuove l’idea di complessità, all’ingegneria violenta, prepotente, aggressiva, senza freni, che vede un nemico nella natura, autorefenziale, che si muove con destrezza violando leggi e regolamenti, è un ritorno all’ingegneria dei miracoli, dei grandi numeri, dell’onnipotenza, che persegue interessi e vantaggi aziendali, incollata al presente, senza memoria, che non conosce il normale scorrere del tempo, che ignora l’interesse collettivo, che esprime energia e vitalità per nascondere la povertà culturale (e naturalmente i sottostanti interessi) e che per apparire al passo coi tempi, usa tutte le parole dell’avversario (“rispetto del territorio”, “ecosostenibilità”, persino “economicità” e “risparmio di suolo”) per svuotarne la carica critica.
Un’ingegneria che è una minaccia per il nostro paese, come appunto questo libro dimostra.
Firenze 28.01.2011
la Repubblica ed. nazionale
Grattacieli e nuovi quartieri scontro sulla Milano del futuro
di Alessia Gallione, Teresa Monestiroli
MILANO - È il libro mastro che dovrà trasformare la Milano dei prossimi vent’anni. Una rivoluzione per l’urbanistica. Che permetterà di cambiare il volto a interi pezzi di città, trasformati in nuovi quartieri per migliaia di abitanti: dagli scali ferroviari dismessi alle centralissime caserme. Fino a zone oggi periferiche come via Stephenson. È lì, su quel triangolo ai confini nord-ovest, che il nuovo Piano di governo del territorio disegna una foresta di 50 grattacieli di uffici: una Défense alla meneghina che, grazie alla vicinanza con il futuro sito dell’Expo, cancellerà capannoni e campi rom.
«Il provvedimento più importante del mandato», per dirla con il sindaco Letizia Moratti. Che il centrodestra è riuscito ad approvare ieri, a pochi mesi dalle elezioni e a dieci giorni dalla scadenza tassativa. Tra la rivolta di associazioni come Libertà e Giustizia e Legambiente, della società civile e del centrosinistra pronto a fare ricorso al Tar contro un provvedimento «illegittimo». Ma che permette già adesso di leggere le vicende di una città, dove i signori del mattone comandano da sempre.
È una cartolina spedita dalla Milano del 2030, quella scritta dal Pgt. Uno strumento atteso da 30 anni, che prevede di far crescere la città fino a 1 milione e 700mila abitanti: quasi mezzo milione in più. Era il 1980 quando venne approvata l’ultima variante al Piano regolatore degli anni Cinquanta. Un’altra epoca. Il Piano di Letizia Moratti e dall’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli promette di aumentare il verde e i trasporti, 30mila case a prezzi calmierati, la tutela dei 42 milioni di metri quadrati del Parco Sud da sempre al centro degli appetiti degli immobiliaristi, Salvatore Ligresti in testa. Per realizzare verde e trasporti servono però 14 miliardi di euro e all’appello ne mancano 9,6.
Ecco il "volto sostenibile" di un Pgt che non dovrebbe «consumare nuovo territorio», ma far crescere Milano recuperando aree degradate come sette scali ferroviari, cinque caserme del demanio, zone del Comune e private. Ma è proprio su quei 7 milioni di metri quadrati messi in gioco, che il Pgt aprirà le porte al cemento. E agli affari. In tutto, soltanto sulle 26 zone destinate a diventare altrettanti nuovi quartieri, caleranno 18 milioni di metri cubi di costruzioni. L’equivalente di 160 grattacieli Pirelli con i suoi 127 metri di altezza. Tra i fasci di binari da smantellare, alcuni sono centralissimi come una fetta della stazione Cadorna, dove si potrà edificare fino a 100mila metri quadrati, o Porta Genova da riconvertire in distretto del design.
All’ex scalo Farini il modello è Manhattan con un Central Park che occupa il 60 per cento dell’area e una selva di grattacieli equivalenti a 19 Pirelli. Ma nel Piano che cancella le destinazioni d’uso in tutta la città e lancia la possibilità di spostare da una parte all’altra di Milano le volumetrie, non tutte le zone sono uguali. In alcune (come a Stephenson) si potrà costruire di più: sarà il Comune a decidere dove. Tra le caserme da riconvertire c’è lo spazio della Perrucchetti, che alternerà case (i Pirelloni sono 27) e spazi sportivi. In periferia, invece, nella zona sud-est di Porto di Mare, traballa il progetto di realizzare una Cittadella della giustizia con tribunale e carcere. Il resto, come sempre, lo faranno gli interessi del mercato e il tempo..
la Repubblica ed. Milano
Grattacieli e nuovi quartieri scontro sulla Milano del futuro
intervista a Vittorio Gregotti, di Maurizio Bono
«No, non sta proprio in piedi, è un grande equivoco a partire dal nome: intanto non è un "piano", perché il suo scopo è proprio ridurre la programmazione al minimo. E tantomeno ha qualcosa a che fare con il "territorio", riguardando solo l’area comunale di Milano, il che è un’assurdità palese in una città piccola e così legata al suo hinterland...». Vittorio Gregotti, architetto di fama internazionale con mezzo secolo di progettazione alle spalle, nell’immediato futuro una città satellite a Shanghai e un saggio su Architettura e postmetropoli per Einaudi, è anche l’ultimo architetto che a Milano ha disegnato e visto vivere un quartiere intero, Bicocca. «Capirà bene, perciò, che non sono di quei teorici del non costruire nulla, costruire è il mio mestiere». Ma il Pgt, che da anni agita il dibattito politico e urbanistico milanese e ha finito per passare col colpo di mano che ha cassato 4700 osservazioni, non gli va giù: «Sono stato al recente incontro di Libertà e Giustizia sul tema e condivido tutte le obiezioni che ho sentito. Ora l’opposizione farà i ricorsi, certo, ma è un uno scempio».
Pensa alle conseguenze? Immagina una Milano peggiore?
«Mah, è impossibile perfino immaginarla nei dettagli, tanto sono strampalate le premesse. Per dire, l’aumento di 400 mila anime quando dagli anni Settanta i residenti fuggono per i prezzi troppo alti in città e niente fa pensare che caleranno inducendoli a tornare. Poi l’idea che ad attirarli sarà un 35 per cento di case costruite da cooperative, quando il problema urgente è la lista di 25mile famiglie in attesa di case popolari, che ovviamente non hanno i soldi per pagare il tipo di "basso costo" previsto dal Pgt. E per finire i servizi, che si tenta di affidare tutti ai privati, e che a partire dai trasporti sono già insufficienti sulla carta».
Insomma, non funzionerà: allora perché tanto allarme?
«Perché il Pgt dovrebbe durare 5 anni e avere effetti fino al 2030, e nel tempo una programmazione è indispensabile. Invece sono riusciti a non prevedere nel Pgt neppure l’Expo: quello andrà per conto suo. Vede, lo sfondo generale è che tutte le città sono in crisi, da Parigi al Cairo a Shanghai, e con loro purtroppo buona parte della cultura urbanistica. La ragione è che è sempre più difficile capire qual è il bene collettivo da perseguire, e ancor di più in Italia dove il disastro della politica dà ben poche linee guida. Ma servono perlomeno ipotesi responsabili che si confrontino con la realtà. Poi si possono cambiare, correggere, ridiscutere. Invece qui di idee non ce n’è. Tranne una».
Cioè?
«La "perequazione", funziona così: chi ha diritto a costruire così poco che non gli converrebbe farlo, può renderlo conveniente trasferendo i diritti altrove. Ma i diritti di edificabilità li distribuisce proprio il Pgt, sui terreni "periurbani" in gran parte di proprietà degli immobiliaristi, prima a indice zero. In pratica regala valore: anche senza un mattone sopra quegli indici cominceranno a rendere in finanziamenti bancari. Se da tempo è un sospetto fondato che il Pgt sia soprattutto al servizio della proprietà immobiliare, diventerà certezza. Il vecchio Marx lo definirebbe capitalismo monetario globalizzato».
Torniamo a Milano. Come siamo finiti in questo vicolo cieco?
«Anche l’opposizione ha le sue colpe. Tre anni fa ho avuto una discussione con l’assessore Masseroli e lui, con una certa brutalità che lo contraddistingue, è stato chiaro nel dire che voleva la deregolazione, fino all’eliminazione delle destinazioni d’uso. L’errore dell’opposizione è di non aver mai pensato un anti-piano».
Da dove cominciare? I vecchi piani regolatori, ne avrà fatto esperienza a Bicocca, funzionavano male e a suon di deroghe.
«Eccome. Però erano frutto di un’elaborazione seria, anche di urbanisti di valore. E c’erano buone idee nel nuovo Piano regolatore in discussione a Roma prima del cambio di giunta, ora lettera morta. Alla Bicocca, invece, ho avuto la fortuna di un primo committente, Leopoldo Pirelli, che ha accettato la condizione di non fare un quartiere dormitorio, e l’idea che si potesse solo inserendovi funzioni forti: l’università, che dà buoni risultati, ma anche il teatro, che certo poteva andare meglio. Poi per fortuna altri servizi sono arrivati, con molto ritardo».
Col Pgt sarebbe andata peggio? Certe funzioni sono indicate anche lì, per le aree dismesse.
«E non è affatto scontato che debbano andare proprio lì, e non magari dove servirebbero e mancano. Ma nelle mille pagine del documento ci sono anche contributi interessanti. Solo che restano lì, senza conseguenze, in un canovaccio abbastanza elastico da consentire tutte le eccezioni e non prevedere nessuna regola. La regola vera diventa che ciascuno nell’area assegnata fa il proprio interesse come meglio può: il modello è Citylife, pezzi giustapposti senza criterio, e lì si sa che la gara non l’hanno vinta i grandi architetti, ma i maggiori offerenti».
Corriere della Seraed. nazionale
Il piano di Milano e la scelta sociale
di Ugo Savoia
Ci sono voluti quattro anni per confezionare il vestito che Milano indosserà per decenni. Quarantotto mesi di polemiche e accuse incrociate. Ma alla fine la giunta Moratti è riuscita a portare a casa il Piano di governo del territorio, lo strumento urbanistico che fornirà le linee guida per i prossimi vent’anni: che cosa, quanto e dove si potrà costruire da oggi al 2030. Proprio in quell’anno, secondo le previsioni del piano, la popolazione milanese avrà raggiunto quota un milione e 700 mila.
Va da sé che alla comprensibile soddisfazione della maggioranza — era dal 1980 che la città non si dotava di uno strumento di programmazione urbanistica— fanno da contraltare le durissime critiche delle opposizioni, che parlano apertamente di provvedimento illegittimo, approvato in spregio alle osservazioni dei cittadini, e del rischio che nei prossimi vent’anni Milano venga sommersa da volumetrie equivalenti a quasi duecento grattacieli Pirelli.
In attesa di vedere, già dal futuro più immediato, chi avrà ragione, vale la pena di sottolineare che, rispetto a trent’anni fa, del nuovo piano colpisce soprattutto la flessibilità totale, con l’abbattimento di tutti i vincoli previsti dalla legge precedente, il vero elemento di rottura (e di critica) assieme alla Borsa delle volumetrie, cioè la possibilità per chi possiede un immobile di trasferire in un’altra zona della città i diritti edificatori che gli vengono riconosciuti in quanto proprietario. Una flessibilità che ribalta i principii stessi che dal dopoguerra facevano scuola in campo urbanistico specialmente nelle grandi città: non si può fare (quasi) nulla, poi si vedrà con le varianti. Quindi il nuovo Pgt non proibisce a priori, come succedeva in passato, ma valuta a posteriori l’effettiva esistenza di un interesse per la collettività.
Esistono certamente zone vincolate, ma la filosofia di fondo sembra essere quel «vietato vietare» di tempi lontani, questa volta applicato all’edilizia, e accompagnato, come contrappeso, da consistenti interventi in materia di housing sociale: decine di migliaia di alloggi costruiti nell’ambito dei progetti di riqualificazione di intere aree della città (per esempio gli ex scali ferroviari) messi sul mercato a prezzi si spera vantaggiosi per favorire in particolare i giovani nell’acquisto della prima casa, tassello fondamentale per il «ripopolamento» della città che il provedimento mette in preventivo. Ora si tratta di aspettare, auspicando che la flessibilità non si trasformi in un «liberi tutti» edilizio di cui Milano sicuramente non sentiva il bisogno.
Corriere della Sera ed. Milano
La forma della città
di Alberico Barbiano di Belgiojoso
Il Piano di governo del territorio è stato approvato, anche se con modalità un po’ particolari. Vuole essere innovativo, enunciando flessibilità e trasformabilità: occorre però vedere se adempirà anche al compito, che spetta all’amministrazione comunale, di regolare lo sviluppo della città, e organizzare fra di loro le diverse componenti, fisiche e procedurali. Molte questioni cominciano ora. È stata lasciata molta discrezionalità alla fase di gestione. Milano ha delle caratteristiche di insieme, dei valori e delle risorse; come preservarli e difenderli, e innestare efficacemente su di essi l’innovazione, affinché si generi qualità urbana?
Non basta fare gli urbanisti o gli architetti, occorre ragionare e operare in termini particolari, di progettazione urbana, per individuare le caratteristiche che contano, presenze storiche e paesaggio, ma anche le effettive possibilità di uso della città, le attività e le attrezzature, le centralità e le gravitazioni, i caratteri urbani delle diverse parti, i «riferimenti collettivi» ; che presentano diversi tipi di interesse, non solo visivo, ma anche per la loro storia, per la loro funzione, per l’ «immagine» culturale e il significato che hanno per gli abitanti e per le tante categorie di visitatori che Milano vanta; e occorre saper operare sui «meccanismi urbani» , per scegliere azioni adeguate al risultato che si vuole, e per indirizzare in quel senso gli operatori da cui quel risultato in gran parte dipende.
Molte scelte del Pgt, ed ora della sua gestione, incideranno fortemente sulla realtà della città, e potranno innescare situazioni molto positive, ma potranno distruggerne altre invece importanti. E a Milano si sono già ampiamente espresse idee e aspettative, sui giornali, nei convegni, nella letteratura, sulle funzioni, sui valori urbani, e sui caratteri da adottare come riferimento per i progetti e per i piani; e ciò deve prevalere su quanto può venire fuori dalle sole azioni incrociate degli operatori, dalla semplice utilizzazione di strumenti e indici. Ad esempio, nel campo delle presenze storiche, nel centro e in altre aree di sicuro interesse culturale, il Pgt ha dato delle prescrizioni, ma in altri punti, a certe condizioni, concede deroghe che vanificano quelle indicazioni. Per le prime, è necessaria maggiore determinazione; è inutile conservare se si consentono cambiamenti che modificano l’immagine; non serve alla conservazione e dà costrizioni inutili alla innovazione.
E quelle deroghe costituiscono veri e propri «smontaggi» delle scelte di partenza. Nella gestione andrà il più possibile evitato che una ottusa utilizzazione di quelle procedure (convenzioni, piani attuativi) cancelli quelle strategie. Ciò modificherebbe l’intera previsione, che invece è un sostegno per il Piano generale, ed è stata approvata con le procedure di insieme e deve restare vincolante.
E con la perequazione, che consente ai privati di usare i loro diritti volumetrici in altre aree, ora non prevedibili, e non risultanti da una scelta di insieme, può succedere di contraddire la impostazione del Piano generale. Occorre dire che in certi punti le volumetrie create dalla perequazione non possano andare. Non possiamo rischiare di «disfare» l'immagine della città; dobbiamo anzi decidere come farne una città bella. Raramente i grandi progetti hanno generato la qualità urbana che enunciavano.
Molto di più si può fare conoscendo le diverse realtà, nel centro e nelle periferie, e calibrando su di esse gli interventi. Un processo di Piano si trova comunque a operare su componenti che devono restare più vincolanti, e su altre più libere. Con i piani regolatori tradizionali era più facile controllare criteri e risultati, e le varianti permettevano gli aggiustaggi nel tempo senza perdere il controllo. Con il sistema più «dinamico» del Pgt occorre gestire un sistema complesso, e avere idee più chiare sia sugli obiettivi che sui risultati che si vogliono. Benvenuto il nuovo procedimento, ma attenzione a usare anche gli strumenti più sofisticati che sono necessari per la gestione del tutto; il che è possibile, mentre il «lasciar tutto libero» ha senza dubbio effetti negativi (non tutti prevedibili) sulla città, che peraltro già presenta diversi problemi da risolvere e molte situazioni da migliorare.
Corriere della Sera ed. Milano
Approvato il Pgt: «Decisione storica Milano sarà più verde e attraente»
di Rossella Verga
Dopo trent’anni il vecchio piano regolatore va in pensione e lascia il posto al nuovo piano di governo del territorio che spazza via i vincoli urbanistici in nome di una città «flessibile» . Il documento, che allarga lo sguardo fino alla Milano del 2030, è stato approvato dal consiglio comunale (con i soli voti della maggioranza) dopo un iter lunghissimo e infinite polemiche: 34 i «sì» compreso quello del sindaco, Letizia Moratti, che si è presentata in aula puntuale per l’appello e ha permesso con la sua presenza il raggiungimento del quorum (31 consiglieri) per cominciare la seduta. Il centrosinistra al momento del voto ha lasciato l’aula per protesta e per tutto il consiglio ha esposto sui banchi i cartelli: «Non finisce qui» .
Già la prossima settimana saranno pronti i ricorsi. Due i voti contrari, quello di Barbara Ciabò (Fli) e di Carlo Montalbetti (Api). Mentre il Terzo Polo si è spaccato in tre: accanto al «no» della Ciabò, il voto favorevole di Pasquale Salvatore dell’Udc («Per coerenza con il mandato istituzionale» , ha spiegato) e l’astensione del presidente del consiglio comunale, Manfredi Palmeri. «Non è giusto il percorso intrapreso — ha sostenuto invece la Ciabò— Non si possono prendere in giro i cittadini così: non è etico» . Un applauso ha dato il benvenuto al Pgt davanti all’assessore allo Sviluppo del territorio, Carlo Masseroli, visibilmente commosso.
«E’ finito il tempo di parlare del piano — ha detto — ed è già iniziato il tempo del lavoro per farlo diventare realtà» . Masseroli, che ha citato Bloomberg e Cameron, ha definito il Pgt una «riforma liberale» . Che porterà, ha ricordato, «30 mila alloggi in housing sociale, 22 parchi, servizi diffusi per la città, la circle line, l’agricoltura in città e altro ancora» . L’assessore ha ringraziato anche i 1.200 cittadini che hanno depositato le osservazioni. «Ho detto e ripeto — ha aggiunto — che sono meno dello 0,1 per cento dei residenti di Milano. Non per sminuire il loro lavoro ma per fare i conti fino in fondo con la realtà» . Non è mancato un attacco alle opposizioni che hanno annunciato ricorso: «Trovo che sia un segno di debolezza politica— ha osservato— e sono sicuro che chi dovrà eventualmente giudicare saprà leggere la ragionevolezza del nostro lavoro» .
Il sindaco ha preso la parola in aula solo per ringraziare l’assemblea per il lavoro svolto («anche i consiglieri d’opposizione» , ha precisato), l’assessore, alcuni esponenti di maggioranza, gli uffici e il segretario generale ed è incappata in una piccola gaffe dimenticando il presidente Manfredi, salvo poi riprendere la parola per riparare. Chiusi i lavori ha sottolineato in una conferenza stampa che con il Pgt avremo «una Milano più aperta e più attrattiva» . «Il nuovo piano urbanistico — ha aggiunto — porterà più verde, più servizi e più infrastrutture di trasporto pubblico. Ci darà una città dove vivere bene, in classe A, dove ci saranno più efficienza energetica e bollette meno care» .
E sui ricorsi: «La politica deve dare risposte politiche — si è limitata a dire— e non ricorrere alla magistratura» . Soddisfatto il capogruppo del Pdl, Giulio Gallera, che ha ribadito la legittimità del metodo adottato per la discussione delle osservazioni. «La sorte ha messo sul nostro cammino— ha affermato— l’opportunità di riscrivere le regole di sviluppo della città» . Contenta la Lega: «Grazie a noi dimezzato il cemento e ora Milano riparte» , commenta Matteo Salvini. Per il via libera al provvedimento più importante del mandato, costato all’amministrazione 48 mesi di lavoro, è arrivato a Palazzo Marino lo stato maggiore del Pdl locale: il neocoordinatore regionale, Mario Mantovani, e il segretario cittadino, Luigi Casero.
In tribuna anche alcuni cittadini firmatari delle osservazioni respinte, che hanno commentato il voto con un «Buu» . Plauso invece da Assolombarda: «Grande soddisfazione dei nostri imprenditori per l’approvazione, un passo importante» ha fatto sapere il presidente, Alberto Meomartini. E dopo l’approvazione, il sindaco ha voluto festeggiare con la maggioranza al Bar Zucca, in Galleria: «E’ un momento storico — ha sottolineato — e non potevamo che scegliere un locale storico per il brindisi» .
Il centrosinistra: un atto illegittimo, subito il ricorso
Gli avvocati sono al lavoro e i ricorsi potrebbero essere presentati già la prossima settimana. «Noi abbiamo diritto specifico — spiega Basilio Rizzo, della lista Fo— perché è stata violata la funzione dei consiglieri» . Rizzo spera che si arrivi a un «ricorso unitario» dell’opposizione, ma non sarà così.
Il verde Enrico Fedrighini si chiama subito fuori: «Sfera politica e giudiziaria devono rimanere separate, specie in questo caso— chiarisce— Perché l’errore compiuto, tutto politico, è stato quello di subire tempi dettati da una legge regionale sbagliata» .
Anche Carlo Montalbetti (Api) non firmerà il ricorso. «Credo che questa sia una battaglia politica— concorda— e che debba continuare nella prossima amministrazione con tutte le armi» . Montalbetti immagina che comunque i ricorsi fioccheranno: dagli operatori e dalla società civile» .
Mentre il Pd riconferma che si opporrà, ma sta decidendo in quale sede: «Valuteremo quelle più opportune— precisa il capogruppo, Pierfrancesco Majorino — Stiamo vedendo se è più efficace il Tar, il Capo dello Stato o altro» .
Ricorso sarà, in ogni caso. Nel frattempo, ieri davanti a Palazzo Marino, i capigruppo dell’opposizione hanno consegnato 5 scatole di osservazioni (in tutto 4.765) al candidato sindaco Giuliano Pisapia. «Sono i contributi dei milanesi al Pgt cancellati con un gesto autoritario» , ha ribadito Majorino. «Un atto simbolico ma anche un passaggio di consegne importante— ha aggiunto Pisapia, per il quale quello approvato è un «Pgt scritto sull’acqua» — Questo diventa un impegno della mia candidatura e di quando sarò sindaco di Milano per far sì che il nuovo piano tenga conto delle indicazioni dei cittadini» .
La battaglia contro la decisione della maggioranza di accorpare le osservazioni in 8 gruppi è proseguita in aula. «Trattate con burocratica insofferenza le osservazioni di tanti cittadini — ha accusato Rizzo— E nella modalità siete stati molto male consigliati. Oggi pensate di avercela fatta, ma sapete benissimo che ci sarà un secondo tempo» . «Il centrodestra ha cancellato le osservazioni— ha attaccato Majorino — perché altrimenti non avrebbe avuto la forza numerica e politica per entrare nel merito delle numerose riflessioni giunte da cittadini, associazioni, enti» . Duro anche l’onorevole Pierluigi Mantini, dell’Udc: «Illegittimo il metodo dell’accorpamento forzoso, il Pgt non garantisce i diritti» .
Perché siamo qui? Che cosa abbiamo da dire, da chiedere? Niente e tutto. Niente per ciascuno di noi, tutto per tutti. Non siamo qui nemmeno come appartenenti a questo o quel partito, a questo o quel sindacato, a questa o quella associazione. Ciò che chiediamo, lo chiediamo come cittadini. Chi è qui presente non rappresenta che se stesso. Per questo, il nostro è un incontro altamente politico, come tutte le volte in cui, nei casi straordinari della vita democratica, tacciono le differenze e le appartenenze particolari e parlano le ragioni che accomunano i nudi cittadini, interessati alle sorti non mie o tue, ma comuni a tutti. Non siamo qui, perciò, per sostenere interessi di parte. Ma non siamo affatto contro i partiti. Anzi, ci rivolgiamo a loro, di maggioranza e di opposizione, affinché raccolgano il malessere che sale sempre più forte da un Paese in cui il disgusto cresce nei confronti di chi e di come governa; affinché i cittadini possano rispecchiarsi in chi li rappresenta e sia rinsaldato il rapporto di democrazia tra i primi e i secondi, un rapporto che oggi visibilmente è molto allentato.
Nulla abbiamo da chiedere per noi. Non chiediamo né posti, né danaro. Non siamo sul mercato. È corruzione delle istituzioni l´elargizione di posti in cambio di fedeltà.
è corruzione delle persone l´elargizione di danaro in cambio di sottomissione e servizi. Crediamo nella politica di persone libere, non asservite, mosse dalle proprie idee e non da meschini interessi personali per i quali si sacrifica la dignità al carro del potente che distribuisce vantaggi e protezione. Anzi, chiediamo che cessi questo sistema di corruzione delle coscienze e di avvilimento della democrazia, un sistema che ha invaso la vita pubblica e l´ha squalificata agli occhi dei cittadini, come regime delle clientele. I cittadini che ne sono fuori e vogliono restarne fuori chiedono diritti e non favori, legalità e non connivenze, sicurezza e non protezione. Non accettano doversi legare a nessuno per ottenere quello che è dovuto. Vogliono, in una parola, essere cittadini, non clienti e non ne possono più di vedersi scavalcati, nella politica, negli affari, nelle professioni, nelle Università, nelle gerarchie delle burocrazie pubbliche, a ogni livello, dal dirigente all´usciere, non da chi merita di più, ma da chi gode di maggiori appoggi e tutele.
Chiediamoci, in questo quadro, perché le notti di Arcore – non parlo di reati, perché per ora è un capitolo di ipotesi ancora da verificare – sono esplose come una bomba nel dibattito politico, pur in un Paese non puritano come il nostro, dove in fatto di morale sessuale si è sempre stati molto tolleranti, soprattutto rispetto ai potenti. Dicono che il moralismo deve restare fuori della politica, che ognuno a casa propria deve poter fare quel che gli aggrada (sempre che non violi il codice penale), che il pettegolezzo non deve mescolarsi con gli affari pubblici. È vero, ma non è questo il caso. Se si trattasse soltanto della forza compulsiva e irresistibile del richiamo sessuale nell´età del tramonto della vita, non avremmo nulla da dire. Forse deploreremmo, ma non giudicheremmo per non dover poi essere, eventualmente, noi stessi giudicati. Proveremmo semmai, probabilmente, compassione e magari perfino simpatia per questa prova di senile, fragile e ridicola condizione di umana solitudine. Ma non avremmo nulla da dire dal punto di vista politico.
Ma la verità non si lascia dipingere in questi termini. La domanda non è se piace o no lo stile di vita di una persona ricca e potente che passa le sue notti come sappiamo. Questa potrebbe essere una domanda che mette in campo categorie morali. La domanda, molto semplicemente, è invece: ci piace o no essere governati da quella persona. E questa è una domanda politica.
La risposta dipende dalla constatazione che tra le mura di residenze principesche, per quanto sappiamo, viene messo in scena, una scena in miniatura, esattamente ciò che avviene sul grande palcoscenico della politica nazionale. Le notti di Arcore assurgono a simbolo facilmente riconoscibile, in versione postribolare, di una realtà più vasta che ci riguarda tutti. È un simbolo che ci mostra in sintesi i caratteri ripugnanti di un certo modo di concepire i rapporti tra le persone, nello scambio tra chi può dare e chi può ottenere. È lo stesso modo che impera e nelle stanze d´una certa villa privata e in certi palazzi del potere. Questo, credo, è ciò che preoccupa da un lato, indigna dall´altro.
Non troviamo forse qui (nella villa) e là (nel Paese), gli stessi ingredienti? Innanzitutto, un´enorme disponibilità discrezionale di mezzi – danaro e posti - per cambiare l´esistenza degli altri attraverso l´elargizione di favori: qui, buste paga in nero, bigiotteria, promozioni in impensabili ruoli politici distribuiti come se fossero proprietà privata; là, finanziamenti, commesse, protezioni, carriere nelle istituzioni costituzionali (la legge elettorale attuale sembra fatta apposta per questo), nell´amministrazione pubblica, nelle aziende controllate. Dall´altra parte, troviamo la disponibilità a offrire se stessi, sapendo che la mano che offre può in qualunque momento ritrarsi o colpirti se vieni meno ai patti. Cambia la materia che sei disposto a dare in riconoscenza al potente: qui, corpi e sesso; là, voti, delibere, pressioni, corruzione. Ma il meccanismo è lo stesso: benefici e protezione in cambio di prove di sottomissione e fedeltà, cioè di prostituzione. Ed è un meccanismo omnipervasivo che supera la distinzione tra pubblico e privato, perché funziona ogni volta che hai qualcosa da offrire che piaccia a chi ha i mezzi per acquisirlo.
Qui e là questo sistema alimenta un mondo contiguo fatto di gente alla ricerca di chi "ci sta" e possa piacere a quello che è stato brillantemente definito "l´utilizzatore finale": lenoni e faccendieri, gli uni per selezionare e reclutare corpi da concorsi di bellezza e luoghi di malaffare e organizzarne il flusso, gli altri per sondare disponibilità e acquisire fedeltà nei luoghi delle istituzioni dove possono essere utili. Analogo, poi, è il rapporto che si instaura tra i partecipanti a questi giri del potere. Poiché la legge uguale per tutti sarebbe incompatibile con un tal modo di concepire il potere, i rapporti di connivenza, molto spesso, anzi quasi sempre, si basano sull´illegalità e, a loro volta, la producono. Tutti cascano così nelle mani l´uno dell´altro e il giro si avviluppa nella reciprocità dei ricatti. Così, chi se ne è messo a capo è destinato, prima o poi, a diventare succubo, a trasformarsi in una vuota maschera che parla, vuole, magari fa la faccia feroce ma in nome altrui, il suo unico interesse riducendosi progressivamente a non essere rovinato dai sodali. A quel punto, è pronto a tutto.
Ritorniamo all´inizio. Non chiediamo nulla per noi ma tutto per tutti. Il "tutto per tutti" è lo stato di diritto e l´uguaglianza di fronte alla legge; il rispetto delle istituzioni e della dignità delle persone, soprattutto quelle più esposte ai soprusi dei prepotenti: le donne, i lavoratori a rischio del posto di lavoro, gli immigrati che noi bolliamo come "clandestini"; la disciplina e l´onore di chi ricopre cariche di governo; l´autonomia della politica dall´ipoteca del denaro e dell´interesse privato nell´uso dei poteri pubblici; l´indipendenza dei poteri di garanzia e controllo; l´equità sociale; la liberazione dall´oppressione delle clientele. Un elenco penoso di doglianze e un vastissimo programma di ricostruzione che è precisamente ciò che sta scritto a chiare lettere e per esteso nella Costituzione: la Costituzione che per questa ragione è diventata segno di divisione tra opposte concezioni della politica.
La richiesta di dimissioni del Presidente del Consiglio non è accanimento contro una persona. Sappiamo bene che la concezione del potere ch´egli rappresenta ha, nella nostra società, radici lontane e profonde, di natura perfino antropologica, e che perciò ha buone possibilità di sopravvivergli in quelli che si preparano a raccoglierne la successione, per il momento in cui si sentiranno pronti ad abbandonarlo. Ma sappiamo anche che, per ora, quel sistema di potere è incarnato, e in modo eminente, proprio da lui. Onde è da lui che occorre incominciare, non per fermarsi a lui ma per guardare oltre, al sistema di potere che l´ha espresso e di cui egli è, finché gli sarà possibile, l´interprete più in vista.
Mubarak lascia sparare la sua polizia sulla folla e l'Onu avvia il ritiro dei suoi funzionari. Non è più tempo di esitare fra le incertezze di Obama spiegate sul manifesto di ieri da Marco d'Eramo e l'«avanti con il popolo egiziano» di Slavoj Zizek. Sto con Zizek. Senza sottovalutare affatto le ragioni di d'Eramo. Non siamo di fronte a scelte tranquille e felici. Da un pezzo una cosiddetta laicità nel Maghreb e nel Medio Oriente è garantita soltanto da regimi dittatoriali. Da un pezzo lasciare libertà di voto può condurre a un'affermazione non solo islamica, ma islamista. Una democrazia in senso proprio, che non è soltanto fare le elezioni ma stabilire un'effettiva divisione dei poteri - esecutivo, legislativo e giudiziario - cioè una sicurezza di uguali diritti di fronte alla legge, non è garantita da nessuno.
E tuttavia non è possibile opporre alla rivolta popolare contro l'autocrazia il pericolo rappresentato da una sua libera espressione. Anche nel voto. Anni fa le elezioni hanno portato in Algeria a una vittoria schiacciante del fronte islamico. Il governo e l'esercito hanno annullato quelle elezioni. Risultato: in Algeria non c'è democrazia, né partiti, né sindacati, né una vera libertà di stampa, né diritti uguali per le donne - tutto devastato. E non basta: le forze del governo hanno sgozzato centinaia di infedeli - infedeli a chi? - nei villaggi. Come regime laico è bizzarro, come democrazia non ve n'è traccia.
In Tunisia è tutt'ora decisivo l'esercito. Conosco un solo esercito che ha portato a una democrazia, quello portoghese del 1974. Speriamo che questo sia il secondo. In Egitto, senza pari più grande, più affamato, più strategico, Mubarak non se ne vuole andare e l'esercito sembrava fino a ieri diviso. La polizia spara per uccidere. Obama, che aveva ammonito Mubarak a non reprimere, che farà adesso? L'Europa si è resa ridicola invitando alla moderazione, «non esagerare, popolo», «non esagerare, Mubarak» come se si trattasse d'un gioco fra ragazzini. Nessuno ha sostenuto sul serio El Baradei, col pretesto che non era abbastanza forte, e tutti temono come la peste i Fratelli Musulmani, quasi che fossero Al Qaeda travestita. Gratta gratta, dove c'è l'islam c'è il terrorismo. Chi di noi ha conosciuto qualcuno dei Fratelli Musulmani sfuggito alla forca o alla galera, sa che non sono affatto simili ai talibani, anche se certamente simpatizzano per Hamas, che neanch'essa è talibana. Ma detesta Israele, e chi sarebbe diverso a Gaza? E qui veniamo al vero dunque.
Più paradossale di ogni altro è l'appoggio che a Mubarak danno unitamente Netanyahu e Abbas. La famosa democrazia israeliana e il popolo che essa stoltamente opprime. Per Israele, Mubarak è l'alleato storico degli Stati Uniti e quindi un amico, del resto ne ha formalmente riconosciuto l'esistenza come stato. Per l'Autorità palestinese è Mubarak che fa da barriera ad Hamas. La debolezza degli oppressori raggiunge quella degli oppressi. Una transizione in Egitto guidata da un uomo come El Baradei, che non è un rivoluzionario ma semplicemente un giusto, non interessa il governo israeliano, perché non consentirebbe a Israele proprio tutto, e neanche all'Autorità palestinese perché non si schiererebbe per principio contro Hamas. Ma, si obietta, se non si fa barriera all'islam Israele sarà distrutta. Non è vero. Quasi tutto il mondo, compresi molti musulmani, è per l'esistenza dello stato di Israele. La sua vera difesa sta nella nostra storia accanto a quella degli ebrei - sta, avrebbe scritto Giaime Pintor, nel sangue d'Europa. E non sbagliamo di bersaglio. Chi ha creato l'islamismo radicale? È stato lo Scià a costruire il carisma di Khomeini. Sono gli Stati Uniti ad armare talebani contro l'Urss, ed è Bush che ha incastrato contro di loro il suo paese in Afghanistan. E ha distrutto Saddam Hussein dopo averlo spedito a dissanguarsi contro l'Iran. È la destra israeliana, oggi Netanyahu e Avigdor, a costruire Hamas. È stata l'inerzia dell'Unione europea.
Errori di questo calibro si scontano. Non aggiungiamo adesso quello di opporci a un sussulto di popolo. È stupefacente che i funzionari dell'Onu lascino l'Egitto in fiamme invece che condannare senza indugio Mubarak e interporsi contro le sue fucilate.
E noi finiamola di prendere per una massa di deficienti coloro che non hanno potere e tentano di ribellarsi. Prima riusciranno a farcela, prima si assumeranno le loro responsabilità. È loro il destino, che lo prendano in mano.
Quel che salta subito all'occhio nelle rivolte di Tunisia e d'Egitto è la massiccia assenza del fondamentalismo islamico: secondo la migliore tradizione laica e democratica la gente si è limitata a rivoltarsi contro un regime oppressivo, la sua corruzione e la sua povertà, chiedendo libertà e speranza economica. La cinica convinzione occidentale secondo cui nei paesi arabi la coscienza genuinamente democratica si limiterebbe a piccole élite liberal, mentre le grandi masse possono essere mobilitate solo dal fondamentalismo religioso o dal nazionalismo si è dimostrata erronea. Il grosso interrogativo è naturalmente: che succederà il giorno dopo? Chi ne uscirà vincitore?
Quando a Tunisi è stato nominato un nuovo governo provvisorio, ad essere esclusi erano gli islamisti e la sinistra più rivoluzionaria. L'autocompiaciuta reazione liberal fu: bene, sono fondamentalmente la stessa cosa, due estremi totalitari - ma davvero le cose sono tanto semplici? Il vero, eterno, antagonismo non è piuttosto tra islamisti e sinistra? Ammesso pure che adesso siano uniti contro il regime, una volta vicini alla vittoria si divideranno, e si scontreranno tra loro in una lotta mortale spesso più feroce di quella contro il nemico comune.
Non abbiamo forse assistito proprio a una lotta del genere dopo le ultime elezioni in Iran? Le centinaia di migliaia di sostenitori di Moussavi lottavano per il sogno popolare che ha puntellato la rivoluzione di Khomeini: libertà e giustizia. Anche se quel sogno era un'utopia, significava la salutare esplosione della creatività politica e sociale, esperimenti di organizzazione e dibattiti tra studenti e gente comune. Quella genuina apertura che aveva liberato forze inaudite di trasformazione sociale, in un momento in cui «tutto sembrava possibile», fu poi completamente soffocata dall'andata al potere dell'establishment islamista.
Anche nel caso di movimenti chiaramente fondamentalisti, dovremmo stare attenti a non confondere la loro componente sociale. I taleban vengono puntualmente presentati come un gruppo fondamentalista islamico che impone la sua legge con la forza - però, quando nella primavera del 2009, s'impadronirono della Valle di Swat in Pakistan, il New York Times scrisse che «avevano organizzato una rivolta di classe sfruttando le fratture profonde presenti nella società tra un piccolo gruppo di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra». Se «approfittando» della situazione contadina, i talebani avevano «lanciato l'allarme su quel rischio in Pakistan, che rimaneva in larga parte feudale», cosa impediva ai liberal in Pakistan così come negli Stati Uniti di «approfittare» di questa causa ed aiutare i contadini senza terra? Il fatto è che in Pakistan le forze feudali sono il «naturale alleato» della democrazia liberal.
La conclusione inevitabile cui dovremo giungere è che l'islamismo estremista è sempre stato l'altra faccia della scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani. Quando l'Afghanistan viene rappresentato come il paese islamico più fondamentalista, chi è che ancora ricorda che, solo 40 anni fa, era un paese dalle forti tradizioni laiche, perfino con un forte partito comunista andato al potere indipendentemente dall'Unione sovietica? Dov'è andata a finire quella tradizione laica?
Ed è importantissimo leggere su tale sfondo quello che sta succedendo oggi a Tunisi e in Egitto (e in Yemen e... forse, speriamo, perfino in Arabia saudita!). Se la situazione si «stabilizzerà» e il vecchio regime potrà sopravvivere con un bel po' di chirurgia estetica, la cosa finirà per sollevare uno tsunami fondamentalista. Perché il nucleo forte dell'eredità liberal possa sopravvivere i liberal hanno bisogno dell'aiuto fraterno della sinistra rivoluzionaria. Per quanto marginalizzata, questa sinistra laica esiste a Tunisi così come in Egitto, dove hanno lasciato sopravvivere alcuni piccoli partiti di sinistra a patto che rimanessero marginali e che non criticassero il governo troppo concretamente (nomi importanti come quelli di Mubarak erano off limits, eccetera). Bisogna rendersi conto che il loro rafforzamento e la loro inclusione nella nuova vita politica nel lungo periodo sono la nostra unica protezione contro il fondamentalismo religioso.
La più vergognosa e pericolosamente opportunistica reazione ai tumulti egiziani è stata quella di Tony Blair come riferito dalla Cnn: il cambiamento è necessario, ma dovrebbe essere un cambiamento stabile. «Cambiamento stabile» in Egitto oggi può significare solo un compromesso con le forze di Mubarak attraverso un blando allargamento della cerchia di governo. È per questo che parlare oggi di transizione pacifica è un'oscenità: schiacciando l'opposizione, Mubarak lo ha reso impossibile. Dopo aver mandato l'esercito contro i ribelli, la scelta è chiara: o un cambiamento cosmetico in cui qualcosa cambia perché tutto possa rimanere uguale, oppure la rottura vera.
Eccoci allora al momento della verità: non si può sostenere, come fu dieci anni fa nel caso dell'Algeria, che permettere vere elezioni libere coincida col consegnare il potere ai fondamentalisti musulmani. Israele s'è tolto la maschera di ipocrisia democratica appoggiando apertamente Mubarak - e sostenendo il tiranno contro cui si batte il popolo ha ridato fiato all'antisemitismo!
Un'altra preoccupazione dei liberal è che non ci sia un potere politico organizzato in grado di sostituirglisi se Mubarak va via: ma certo che non c'è, se n'è occupato personalmente Mubarak riducendo ogni opposizione a un fatto decorativo e marginale e il risultato suona come il titolo di quel romanzo di Agatha Christie: E non ne rimase nessuno (titolo originale di Dieci piccoli indiani, ndr) L'argomento di Mubarak è «o lui, o il caos», ma è un argomento che gli si ritorce contro.
L'ipocrisia dei liberal occidentali è spaventosa: hanno sostenuto pubblicamente la democrazia, e ora che la gente si rivolta contro i tiranni in nome di una libertà laica e della giustizia e non in nome della religione, sono tutti «profondamente preoccupati»... Perché tanta preoccupazione? Perché non invece la gioia per questa occasione di libertà? Oggi più che mai risulta pertinente il vecchio motto di Mao Ze Dong: «Sotto il cielo il caos - la situazione è eccellente».
Ma dove deve andare allora Mubarak? Qui la risposta è chiara: a L'Aia. Se c'è un leader che merita di sedere lì, è lui!
Traduzione di Maria Baiocchi
Perché, nonostante le prove schiaccianti di ripetute e numerose illegalità e turpitudini morali, gli italiani continuano a sostenere Silvio Berlusconi? Questa è la domanda che ci si pone fuori d´Italia. Il New York Times ha aperto uno spazio di dibattito sull´Italia intitolandolo così: "Decadenza e democrazia in Italia". è un titolo che ci ricorda un punto importante: dal punto di vista di una tradizione come quella americana la moralità e la democrazia sono essenziali l´una all´altra. Dalla decadenza morale discende la crisi della democrazia. Il politico che mente, che giura il falso, che dà esempi di vita palesemente immorale, che attacca l´ordinamento costituzionale, vi è non solo messo in stato d´accusa ed espulso dal gioco del potere ma è anche immediatamente colpito dal verdetto inappellabile dell´opinione pubblica.
Il caso Berlusconi sembra fatto apposta per proiettare come in uno specchio rovesciato l´idea di democrazia agli occhi del paese che l´ha creata. Così gli argomenti hanno finito col battere sul tasto della diversità antropologica degli italiani: disposti a perdonare tutte le forme di corruzione, maschilisti e sessisti, portati a discriminare le donne più di ogni altro paese europeo e a consumare immagini di corpi femminili in una misura impensabile altrove. In quel dibattito sono intervenuti anche diversi italiani che hanno provato a rispondere e a fornire giustificazioni. Non hanno avuto un compito facile. E soprattutto non hanno centrato il nodo del rapporto tra moralità e democrazia. Si è andati dal piano politico – la presunta mancanza di alternative – a quello dell´imbonimento dei media asserviti in vario modo al padrone. Argomenti fragili, come ognun vede.
Non siamo in un regime dittatoriale di controllo dell´informazione. E quanto a possibili alternative, ce ne sono anche troppe: il problema è che non riscuotono consensi nella stessa misura del personaggio che fuori d´Italia appare così sconveniente e grottesco. Ma la speranza è dura a morire e c´è chi ha chiesto ai lettori americani di avere pazienza promettendo a breve scadenza una normalizzazione della situazione italiana: così Alexander Stille ha concluso il suo intervento affermando che il pubblico italiano non sopporterà più a lungo il fatto che Berlusconi si occupi dei propri affari trascurando del tutto l´attività di governo. Questo sarebbe secondo lui l´unico "peccato imperdonabile" per gli italiani. Vedremo se la previsione sarà confermata. Ma intanto si è affacciata la questione squisitamente teologica e religiosa del "sin that may not be sorgiven", il "peccato imperdonabile".
Che cosa abbia significato nella cultura puritana questo problema lo abbiamo imparato dalla grande letteratura dell´800. Ma oggi è una domanda molto semplice quella che ci viene proposta dal paese di Melville e di Hawthorne: esiste almeno un peccato imperdonabile per gli italiani? La risposta negativa dei paesi di cultura non cattolica è a questo proposito antica e ben consolidata. Un viaggiatore inglese del ´600 autore di un rapporto sullo stato della religione in Italia che fu postillato da Paolo Sarpi, Edwin Sandys, lo disse molto chiaramente: gli italiani gli sembrarono un popolo civile e accogliente, dotato di eccellenti qualità. Gli piacquero anche alcuni aspetti della loro religione. Ma trovò incomprensibile e del tutto esecrabile la pratica della confessione cattolica: il modo in cui nel segreto del confessionale i comportamenti più immorali e le infrazioni più gravi ai comandamenti cristiani venivano cancellati al prezzo di qualche orazioncella biascicata distrattamente gli sembrò una vera e propria licenza di immoralità, un modo per corrompere in radice la natura di un popolo.
Oggi quei tempi e quelle idee sono lontani ma il problema si ripropone. La questione teologica di allora ci si presenta come qualcosa che riguarda il paese intero e tocca la radice profonda della convivenza democratica e del funzionamento delle istituzioni. è il problema della moralità pubblica come cemento della democrazia, o in altre parole della sostanza morale della democrazia, come questione del rapporto che deve esserci tra il buon ordinamento della società e il patto stretto dal politico con gli elettori: l´impegno ad accettare le regole, quelle del fisco, della giustizia, della libertà d´informazione, incluso l´obbligo a sottostare alla legge come e più di ogni privato cittadino. Ora, che questo problema sia stato ignorato clamorosamente dalla dirigenza della Chiesa cattolica italiana anche nei suoi recenti e imbarazzati pronunciamenti è qualcosa che rinvia ai caratteri profondi della religione italiana e non può essere spiegato soltanto dalla difesa del proprio potere e dalla ricerca dei favori governativi da parte di chi si arroga la funzione di maestro e censore della morale collettiva.
Ma è dal punto di vista della sopravvivenza della democrazia italiana che quello che ci viene proposto da Berlusconi in questo tardo autunno dell´ "egoarca" appare come un patto scellerato: si tratterebbe di affrontare i problemi del paese lasciando cadere come irrilevanti i capi d´accusa dei tanti reati che pendono sulla testa del premier. Se anche fosse vero che accettando questo patto i problemi di un paese ridotto nelle condizioni che ognuno vede sarebbero risolti, la questione è quella della natura del regime che noi italiani ci troveremmo ad avere inventato. E qui torna utile la domanda che fu posta da Benedetto Croce a proposito della natura del fascismo: rivoluzione o rivelazione, trasformazione violenta e radicale dell´assetto politico del paese o disvelamento di una verità profonda, di carenze antiche e radicali, tali da rendere il paese Italia diverso da tutti gli altri. Oggi, al termine – speriamo, infine – di un´avventura individuale e collettiva che consegna una fetta consistente di storia del Paese alla figura di Berlusconi, gli italiani tutti e non solo la classe politica, sono giudicati nel mondo per ciò che hanno accettato e premiato con le loro scelte e di cui continuano a non volersi liberare. Come nel rapporto tra personaggio e ritratto descritto da Oscar Wilde ne "Il ritratto di Dorian Gray", oggi il nostro Paese e la qualità morale della nostra convivenza civile sono diventati il ritratto rivelatore della verità nascosta del personaggio Berlusconi: brutti, vecchi, laidi, corrotti. Così li giudica l´opinione pubblica democratica dei paesi civili.
Una delle numerose balle mediatiche che circolano nel nostro Paese è che i grandi musei del mondo sono imprese che fanno un sacco di soldi. E che siamo soltanto noi italiani a non saper sfruttare questa miniera d’oro dei tanti (qualcuno già dice troppi) musei, non sappiamo bene se 4.100 o un po’ di meno. Il primo esempio che viene citato di museo-macchina-da-soldi è il Louvre. Bisognerebbe allora leggersi i bilanci del mega-museo parigino. Uno dei più recenti ci dice che, nonostante gli 8 e più milioni di visitatori, i proventi della biglietteria sono risultati pari a 40,6 milioni di euro e che le “risorse proprie” del più grande museo del mondo sono state pari a 72,7 milioni di euro. Comprese sponsorizzazioni e donazioni (13,2 milioni). Ma a quanto sono ammontate le spese generali? A poco meno di 190 milioni. Difatti le sovvenzioni ricevute dallo Stato sfiorano i 110 milioni. Certo, dal 18-20 per cento di risorse proprie di una quindicina di anni fa si è saliti al 38 circa. Ma siamo lontanissimi dal guadagnare anche un solo centesimo. Di passaggio conviene sottolineare che al Louvre il personale pesa per un 44 per cento circa del bilancio.
Per altri grandi musei ho dati del 2001. Allora le sovvenzioni pubbliche andavano dal 60 al 77 per cento per il Rijkmuseum di Amsterdam, per il Prado, per il Museo Reale di Bruxelles, per l’Arken danese e così via. Casi a parte British Museum e National Gallery di Londra che, come è noto, sono “a offerta” ed hanno entrate proprie molto basse, escluse sponsorizzazioni e donazioni. Pure a parte c’è il caso dei Musei Vaticani, ma non mi risulta che sin qui, su quei bilanci, ci siano state indagini approfondite. Si sa che, su 3 milioni circa di visitatori, il 95 per cento paga un ticket mediamente più caro di quello dei nostri musei o delle nostre aree archeologiche dove la metà circa degli ingressi sono gratuiti (e riguardano studiosi, studenti, scolaresche, anziani, ecc.). Del resto, la cultura è o non è un servizio?
Ma v’è chi ritiene che anche con Verdi e con Rossini si “possa mangiare”, nel senso che si possono guadagnare dei bei denari. Illusione. Sembra già un vero e proprio miracolo laico che sotto la gestione di Gianni Borgna e di Carlo Fuortes, col propellente principale delle stagioni di Santa Cecilia, Musica per Roma, che gestisce il Parco della Musica, abbia raggiunto quote insperate di autofinanziamento, sul 66-67 per cento. Ma, puntualmente, il sindaco Alemanno si è intromesso congedando un competente come Borgna (che vi si dedicava a tempo pieno) per metterci il presidente degli industriali romani nonché presidente della Manifatture Sigaro Toscano SpA, partner di Egon Zender e di altro ancora, Aurelio Regina. E già il responsabile Cultura del Pdl, Federico Mollicone, attacca l’economista Carlo Fuortes amministratore delegato di Musica per Roma: un altro siluramento in vista per ragioni squisitamente politiche?
Ma torniamo a Verdi, cioè al teatro d’opera. Per dire che in nessun Paese di tradizione musicale lo Stato e gli enti regionali e locali si disinteressano della partita. Certo nessuno raggiunge i livelli del Teatro Costanzi di Roma dove, a fronte di una produzione limitata, i dipendenti risultavano aumentati (con gli aggiunti di Caracalla), mentre rimaneva modestissimo il livello delle entrate proprie. Però all’Opera Bastille di Parigi e all’Opera di Berlino le sovvenzioni pubbliche stanno sul 60-65 per cento e a Vienna salgono ancora. Del resto, è sempre stato così: ai tempi di Rossini e di Verdi l’intervento statale era determinante nei territori governati dall’Imperial Regio Governo, mentre Gioacchino Murat aveva importato a Napoli la casa da gioco (nel foyer del San Carlo) per finanziare anche così l’impresa teatrale. Insomma, gestiamo meglio l’intero apparato museale e teatral-musicale, risparmiamo, ma non illudiamoci di guadagnare “un mucchio di soldi”. Dati internazionali alla mano, è una balla clamorosa e deviante. Dovunque la cultura è considerata, questo sì, un buonissimo investimento: per quanto dà ad un Paese in termini di creatività e per l’indotto turistico che provoca. Formidabile se si è bravi e soprattutto non si strangola la cultura.
Ancora non sappiamo quale sarà l´esito delle rivoluzioni arabe, in Tunisia ma soprattutto in Egitto. E se davvero sfoceranno in democrazie costituzionali. Ma fin da ora quel che sta accadendo costringe gli occidentali a guardare da vicino questa regione, cosa che non hanno mai fatto sul serio né dopo l´ultima guerra mondiale, né dopo la decolonizzazione, né quando il Medio Oriente ha cessato di essere un luogo quasi astratto di accaparramento e di scontro fra Urss e democrazie liberali.
Questo sguardo da vicino giunge terribilmente tardi, e sono le popolazioni stesse a trasformare il luogo da astratto in concreto: sono quelle piazze arabe i cui cuori e le cui menti si volevano conquistare, dopo l´11 settembre, con il ferro e il fuoco, esportando democrazia come fosse un foglio appiccicato da fuori sui popoli. Guardarli da vicino significa non solo provare a decifrare i loro tumulti, ma cominciare da noi: da una rivoluzione nelle nostre teste, nelle nostre parole, nei dizionari di luoghi comuni ereditati dall´epoca coloniale e all´origine di politiche contraddittorie, sostenitrici di autocrazie che erano amiche nostre ma non dei loro popoli. Le guerre da noi lanciate hanno rigonfiato in questi paesi la corruzione, l´immobilità, lo sfruttamento della persona. I tumulti sono partiti da alcuni suicidi. A differenza del kamikaze, il suicida colpisce se stesso, non l´altro. È un inizio del tutto nuovo.
Il primo luogo comune nei nostri dizionari è la suddivisione amici moderati-nemici radicali. È la gara per l´accaparramento che continua, come nella guerra fredda, con la differenza che il discrimine è il rapporto con America - e Israele - e la lotta al terrorismo. Gli amici non sono necessariamente i filo-occidentali, e ancor meno chi vuole le basi Usa. Una persona come Omar Suleiman, il capo dei servizi segreti nominato vicepresidente e indicato come possibile successore di Mubarak a noi «amico», è conosciuto in Egitto come torturatore, complice delle deportazioni (extraordinary rendition) di sospetti di terrorismo nei paesi dove la tortura è normale (in Italia, collaborò con la Cia per la deportazione in Egitto di Abu Omar, nel 2003).
Tutti gli attributi cui ricorriamo (moderati, fautori di nostri valori) franano d´un colpo come accade alle bugie. I regimi a Tunisi o al Cairo, o quelli giordano e saudita, non diventano moderati per il mero fatto che avversano l´Islam radicale e non Israele. Prima o poi, se si è democratici come si pretende, deve entrare nel calcolo il favore che gli autocrati godono presso i popoli, e questo è mancato. È un atteggiamento coloniale che gli arabi non accettano più. Non è da escludere che le prime mosse dei nuovi regimi, democratici o no, non saranno filo-americane ma anticoloniali.
Il secondo luogo comune concerne l´Islam. Lo stereotipo dice: l´Islam è da sempre incompatibile con la democrazia, e saranno gli estremisti a prevalere. Anche qui, l´ignoranza si mescola a conveniente malafede: l´anti-islamismo è la colla che ha legato l´Ovest a regimi esecrati dai popoli. Non è in nome di Allah che gli egiziani hanno riempito le piazze, ieri, e che anche i giordani manifestano. Sono spinti, spesso, dal primordiale bisogno di pane quotidiano. Dai tempi delle guerre contadine nel ´500 e dalla rivoluzione francese sappiamo che il pane implica una profonda idea di pace. Oggi implica una domanda possente di democrazia, di legalità, di giustizia sociale. L´Islam radicale, compresi i Fratelli musulmani, ha organizzazioni più capillari - assistenza ai poveri, ai disastrati - ma anche se si metteranno alla testa dalle rivoluzione non ne sono i veri iniziatori e lo sanno.
Inoltre, siamo di fronte a un falso storico. Primo, perché il 75 per cento dell´Islam ha democrazie elettive, dall´Indonesia alla Turchia. Secondo, perché molti paesi hanno sperimentato la democrazia, senza riuscirci. L´interventismo occidentale ha più volte congelato tali esperimenti. Un esempio: il complotto anglo-americano del ´51-53 per eliminare il premier Mossadeq pur di salvare, sconsideratamente, l´amico scià di Persia.
Ma lo stereotipo cruciale riguarda Israele, e non stupisce che l´inquietudine maggiore si condensi qui. I movimenti arabi dovrebbero esser accolti con speranza da quella che viene chiamata la sola democrazia in Medio Oriente: è come li saluta un editoriale di Haaretz. Ma una rivoluzione mentale ancora non c´è, e per questo i timori si diffondono e sono anche fondati. La democrazia araba non gioca obbligatoriamente a favore di Netanyahu, ed è fonte di gravi pericoli se nulla cambia nella politica israeliana. In un mondo arabo assetato di libertà si vedranno più da vicino i difetti di una democrazia certo più avanzata - Israele ha una stampa libera, una giustizia indipendente - ma che occupando da 44 anni la Palestina controlla milioni di cittadini non democraticamente: declassandoli, assediandoli a Gaza, recludendoli in Cisgiordania.
Israele non cessa di essere uno Stato minacciato mortalmente, e la perdita dell´Egitto sarebbe un cataclisma. Ma anche qui l´autoesame s´impone. Gli arabi stanno abbandonando il vittimismo per entrare nell´età del potere su di sé: dalla cospirazione alla costruzione, dall´umiliazione all´azione, scrive Roger Cohen sul New York Times del 31 gennaio. La stessa emancipazione dovrà avvenire nelle teste israeliane. Il cataclisma può aiutare gli ex colonizzatori occidentali come Israele a ripensare il passato. Israele nasce nel 1948 come uno Stato etnico, nel momento in cui le democrazie europee scoprivano le catastrofi causate dagli Stati troppo omogenei fuorusciti dagli imperi asburgico e ottomano. Pur scappando dalla Shoah, gli ebrei non giunsero in Palestina come un «popolo senza terra in una terra senza popolo» (la definizione fu dello scrittore Zangwill, nel 1901). Piano piano, Israele ha dovuto vedere il desiderio palestinese di tornare nelle città da cui furono cacciati, e di costruirsi uno Stato. Ma grande è la fatica di guardare. Ancora il 30 agosto 2002, il capo di stato maggiore Moshe Yaalon dichiarava: «Bisogna fare in modo che i palestinesi capiscano nei più profondi anfratti della loro coscienza che sono un popolo sconfitto». Convinto dell´immaturità araba, Israele ha potuto negare la realtà, dire che non esistevano interlocutori palestinesi con cui fare la pace. Anche per lui sta giungendo l´ora in cui dal vittimismo tocca passare all´esercizio del potere non solo sugli altri, ma su di sé.
La democrazia araba è desiderata ormai anche da Obama. Ma più essa avanza, più cresceranno le spinte su Israele perché cessi l´occupazione dei territori, perché le colonie siano smantellate. Chiunque guardi la mappa della Palestina (il sito è Facts on the Ground - American for peace now)» vedrà una terra talmente costellata di colonie che nessuno Stato, tantomeno democratico, è concepibile.
Israele ha tutte le ragioni di preferire Suleiman a El Baradei al Cairo: perché la democrazia araba sconvolge ovunque le comodità dello status quo. È travolto lo status quo in America: Obama sarà costretto a riesumare il tema dell´occupazione. Il rischio, per Israele, è che la rivolta lambisca i palestinesi. Già si è visto quel che produce il voto democratico quando c´è stasi: vincono Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano. La democrazia può indurre i palestinesi a rinunciare a uno Stato separato; a chiedere uno Stato binazionale, senza omogeneità etnico-religiose: tutto questo, in nome della democrazia e del principio, sacralizzato proprio in America, dell´one man-one vote, «ogni uomo un voto». Un principio che in uno Stato binazionale darebbe agli arabi la maggioranza, in poco tempo. Sarà difficilissimo per Israele, a quel punto, restare immobile, guadagnar tempo, e evitare che l´America non appoggi un principio che è indiscutibile in democrazia.
Costruire la città su se stessa senza consumare suolo - pilastro del Piano di governo del territorio - significa riempire i (pochi) buchi della città consolidata e riqualificare le aree dismesse e spesso abbandonate al degrado. Aree che un giorno potrebbero ospitare 18 milioni di metri cubi di costruito su 6 milioni di metri quadrati di superficie, pari a 144 nuovi Pirelloni: 26 quartieri ex novo che offriranno alloggi a 100mila persone, oltre a 5 milioni di metri quadrati di verde, nuovi servizi e infrastrutture.
Sono i cosiddetti "ambiti di trasformazione urbana": fazzoletti di terra più o meno grandi e sparpagliati per la città dove l´amministrazione ha deciso di concentrare la maggior parte delle volumetrie che il nuovo piano regolatore produrrà. Sette scali ferroviari chiusi di proprietà delle Ferrovie, cinque caserme del demanio e alcune zone di proprietà comunale (Porto di Mare) o privata (via Stephenson) che da anni aspettano un piano di riqualificazione. Una grande opportunità di rinascita per la città, ma anche un possibile business per chi ha fatto del mattone la gallina dalle uova d´oro. Perché oltre all´housing sociale obbligatorio (di media il 35 per cento del costruito dovrà essere destinato a residenza a prezzi calmierati) e alla percentuale di verde stabilita dal Comune, gli immobiliaristi potranno realizzare interi nuovi quartieri. Come? Impossibile dirlo oggi perché il Pgt fissa solo le quantità.
L’assunto che l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli sbandiera come la grande rivoluzione di Milano è infatti quello della flessibilità o, per dirla con le sue parole, delle «poche regole, ma chiare». Un principio che se per l’amministrazione è il punto di forza del nuovo piano per qualcuno è il suo punto debole. Perché per assicurarsi uno sviluppo equilibrato della città, dicono in molti, c’è bisogno di una regia che governi le trasformazioni, mentre la flessibilità su cui si costruisce l’intero Pgt rischia di diventare una resa alle esigenze del mercato. Ma vediamo, nello specifico, quali saranno i grandi cambiamenti in città che, se le procedure burocratiche non dovessero subire altri intoppi, potrebbero iniziare a concretizzarsi tra il 2020 e il 2025.
[IN CENTRO]
Tre sono gli ambiti di trasformazione che insistono all’interno della cerchia dei Bastioni: la caserma di via Mascheroni dove dovrebbe trasferirsi l’Accademia delle Belle Arti di Brera, una fetta di binari dismessi della stazione Cadorna, dove si potrà edificare fino a 100mila metri quadrati di superficie, e il carcere di San Vittore. Arenato il progetto della Cittadella della giustizia, che prevedeva il trasferimento a Porto di Mare del carcere e degli uffici del Tribunale, è difficile che San Vittore venga spostato. Ma se così fosse, nell’area di 65 mila metri quadrati dovrà nascere un parco di circa 13 mila metri.
[A NORD]
Uno degli ambiti di trasformazione più grandi di Milano è quello che comprende l’ex scalo Farini - qui si potranno costruire fino a un massimo di 650mila metri quadrati (di cui il 20 per cento di housing sociale) e sorgerà un grande parco grande il 65 per cento della superficie totale - e la Bovisa con il progetto del parco scientifico dedicato all’università e alla ricerca in attesa di realizzazione da anni. Sempre a Nord però potrebbero vedere nuove destinazioni d’uso le gallerie abbandonate della stazione Centrale tra via Sammartini e via Ferrante Aporti, le caserme di via Montello e via Messina, l’area di via Litta Modigliani e l’ex scalo di Greco.
[A OVEST]
Sulla direttiva che porta all’Expo - zona che fra qualche anno diventerà strategica - sono due gli ambiti di trasformazione che potrebbero cambiare il volto della periferia. Uno è via Stephenson, dove la maggior parte dei terreni è di proprietà di Salvatore Ligresti. Qui Masseroli ha immaginato una Défense in stile meneghino, con un indice di volumetria a 2,7 (il più alto di tutto il piano) per fare di questo luogo, oggi scollegato da tutto, un quartiere d’affari con 50 grattacieli. L’altro è Cascina Merlata, un’area di oltre un milione di metri quadrati che un domani potrebbe essere ben collegata al centro da una rete di infrastrutture che ne alzerebbero improvvisamente il valore di mercato.
[A SUD-EST]
Al di là dei terreni del Parco Sud su cui sarà vietato costruire ma che produrranno volumetrie da trasferire altrove, la zona a Sud comprende quattro scali ferroviari da ripensare (San Cristoforo, Romana, Rogoredo e Porta Genova) e l’area di Porto di Mare che conta un milione e 200 mila metri quadrati su cui potranno spuntare altri edifici. La parte Est invece vede due importanti ambiti di trasformazione di interesse pubblico: il Forlanini e Cascina Monluè, entrambi con un indice di edificabilità pari a 1.
«Revisionisti!» . L’accusa cala come una mannaia sulla storia della gloriosa Italia Nostra, fondata (tra gli altri) da Giorgio Bassani, Elena Croce, Umberto Zanotti Bianco, Desideria Pasolini dall’Onda in un mattino romano del 1951, a un passo da piazza di Spagna. La denuncia parte da Vezio de Lucia, urbanista, autore di un centinaio di saggi sulla storia e la gestione del territorio italiano, rimosso nel 1990 dal ministro dei Lavori pubblici dc Giovanni Prandini dall’incarico di direttore generale dell’Urbanistica per la sua allergia a ogni compromesso con i privati. E, fino alle dimissioni di pochi giorni fa, consigliere nazionale di Italia Nostra. Giorni fa Goffredo Fofi, sull’Unità, ha parlato di crisi strutturale e ideologica dell’associazione.
Tutto comincia dall’ormai famoso libro Electa su Antonio Cederna (ispiratore delle storiche campagne dell’associazione) voluto dal Consiglio lombardo presieduto da Luigi Santambrogio, e ritirato dopo le dure critiche della famiglia Cederna e in seguito all’appello di prestigiosi intellettuali (Alberto Asor Rosa, Pier Luigi Cervellati, Giulia Maria Crespi, Vittorio Emiliani) che constatavano un «tradimento del pensiero» cederniano. Dice De Lucia, che ha chiesto senza successo le dimissioni di Santambrogio: «Attenzione. Quel libro non può essere interpretato come un semplice incidente di percorso, ma rappresenta un segnale di tendenza. C’è una forte corrente revisionistica rispetto alle posizioni storiche che giustificano l’esistenza stessa di Italia Nostra: ovvero il fondare la cultura del recupero, proprio grazie a Cederna, sul concetto di centro storico come "monumento complessivo"e agendo su di esso come un tutt’uno, il vedere l’urbanistica come appartenente alla sfera del potere pubblico e quindi non della mano privata» .
E dove sarebbe la crisi? «Crisi e decadenza... È in quello che l’ex sindaco Pietro Bucalossi chiamava il "rito ambrosiano". Cioè il contrattare, il negoziare con i privati che rappresenta il male dell’urbanistica milanese. Ho constatato che la maggioranza del Consiglio è su questa linea al punto da manifestare disponibilità a rivedere posizioni consolidate e acquisite. Io ne ho tratto le inevitabili conseguenze. E ho salutato» . Clima tesissimo. Anche nei simboli. Desideria Pasolini dall’Onda è l’ultima fondatrice ancora in vita da quel lontano 1951 ed è stata anche presidente del sodalizio. In molti si aspettavano una sua acclamazione a presidente onorario. Invece niente. L’acclamazione è arrivata invece dal Comitato per la bellezza di Vittorio Emiliani, ex di Italia Nostra da dieci anni, che così commenta: «Un nostro omaggio ammirato a una rara capacità di combattere. La mancata acclamazione a Italia Nostra? Ahimè, un triste segno dei tempi».
Chi non si dimette ma rimane in consiglio su posizioni critiche («La battaglia va condotta dall’interno» ) è Maria Pia Guermandi, archeologa, docente all’Istituto Beni culturali della Regione Emilia Romagna: «C’è un silenzio assordante in area milanese... Mi riferisco al Piano di governo del territorio, ai milioni di metri cubi che minacciano quel territorio, a ciò che avverrà fino all’Expo 2015. Mi sembra, purtroppo, profondamente cambiato anche l’atteggiamento sul parcheggio milanese a Sant’Ambrogio. Per anni e anni le presidenze nazionali lo avevano avversato molto duramente, adesso l’aria mi sembra sensibilmente cambiata» . Revisionismo, Guermandi? «Italia Nostra gestisce da anni il meraviglioso Bosco in città a Milano: convenzione col Comune da cui trae congrui proventi. Ora le convenzioni, per decisione della giunta Moratti, possono essere ridiscusse. Quindi l’associazione subisce un ricatto sotto traccia. Di qui il silenzio: meglio farebbe l’associazione a disimpegnarsi, a ritrovare piena libertà d’azione» .
E come reagiscono i vertici? La parola ad Alessandra Mottola Molfino, già direttore centrale della cultura al Comune di Milano, artefice della rinascita del Museo Poldi Pezzoli, presidente di Italia Nostra dal settembre 2009: «Ma quale revisionismo... Parlano le nostre battaglie, i nostri successi, le nostre campagne come quella sui "paesaggi sensibili", le cento cause che abbiamo in Italia per le devastazioni del paesaggio e che gli avvocati a noi vicini ci seguono gratuitamente. Parlano le minacce che io stessa ho ricevuto dal sindaco di Savona dopo le battaglie sulle coste...» .
Il caso di Milano, presidente? Quel «silenzio assordante» e quel «contrattare» ? «Risponderemo nei fatti oggi stesso, mercoledì 2 febbraio, alle 18.30 a Milano allo Spazio Krizia in via Manin 21. Abbiamo aderito all’appello di Libertà e Giustizia per ridiscutere il Piano di governo del territorio: 35 milioni di metri cubi in arrivo!» . L’appello è stato firmato anche da Gae Aulenti, Umberto Eco, Rosellina Archinto, Giulia Maria Crespi, Ilaria Borletti Buitoni. In quanto al merito, presidente? «Il Pgt è stato contestato e smontato pezzo per pezzo dalle osservazioni di Marco Parini, presidente della nostra sezione di Milano. Ci batteremo, eccome se ci batteremo, contro questo insensato aumento di metri cubi» .
Ma la convenzione per il Bosco in città non vi lega le mani? «È una delle eccellenze in campo nazionale, un autentico modello, abbiamo quest’affidamento da trent’anni e non abbiamo mai risparmiato critiche a nessuna amministrazione. E continueremo così» . Mottola Molfino tace per un momento: «Forse qualcuno ci vorrebbe più schierati da una parte... Forse hanno dato fastidio le campagne contro la giunta Vendola in Puglia per il massacro del Salento a colpi di campi eolici e fotovoltaici, poi ci hanno dato ragione... Ma noi a Italia Nostra abbiamo una lunga tradizione di polemiche interne. Siamo democratici. Le critiche, anche intestine, non ci spaventano...» .
Postilla
«Siamo democratici. Le critiche, anche intestine, non ci spaventano». Sono lieto di questa dichiarazione della presidente pro-tempore di Italia nostra, ben diversa della lettera personale che mi aveva inviato rimproverandomi di dar conto su eddyburg alle critiche degli eredi e di un vasto gruppo di amici di Antonio Cederna. La discussione che si è aperta nel gruppo dirigente di Italia riguarda la maggiore o minore coerenza con le proprie radici ideali che una prestigiosa istituzione culturale deve rispettare, e le modalità che è tenuta a seguire se quella coerenza vuole dismettere. E’ positivo che il dibattito si sia aperto, che sia uscito dalle stanze dell’associazione, e sono orgoglioso che i due vicedirettori di questo sito ne siano tra i protagonisti. Ma non è una discussione che possa riguardare solo l’associazione. Lo testimonia con grande efficacia Goffredo Fofi nell’articolo su l’Unità. Perciò su eddyburg continueremo a seguirne e documentarne lo sviluppo, come abbiamo fatto fin dall’inizio. (e)
Al voto! Al voto! Massimo D'Alema ci ripensa, manda in soffitta il governo di unità nazionale e lancia, su Repubblica, il coniglio elettorale mentre sui giornali vortica la girandola dei meccanismi istituzionali per aprire le urne antiberlusconiane. Anche a dispetto di Berlusconi medesimo, per nulla intenzionato a lasciare palazzo Chigi. Nello stesso momento il presidente del consiglio recapita una lettera al Corriere della Sera per proporre al segretario del Pd di «agire insieme in parlamento per discutere un grande piano bipartisan per la crescita economica», a partire dall'abrogazione dell'articoli 41 della Costituzione, cioè eliminando dalla Carta ogni vincolo di responsabilità sociale dell'impresa così da rendere "costituzionale" quel che Marchionne ha già messo in pratica alla Fiat. Non che nel Pd non ci siano orecchie sensibili, ma non ancora prevalenti, e comunque il no immediato di Bersani è bastato a cancellare l'offerta firmata da Berlusconi, scritta chissà da chi.
Più verosimilmente a stabilire se e quando andare al voto lo deciderà la Lega, magari giovedì prossimo, se non otterrà il via libera al federalismo comunale. Lo ha ripetuto il ministro dell'interno Maroni (uno che alle elezioni ci può portare davvero). Al punto da sostenere che «teoricamente il presidente della repubblica potrebbe essere costretto a esercitare le sue prerogative», anche senza le dimissioni del capo del governo. Ipotesi del terzo tipo, ma l'accesa discussione tra i costituzionalisti, sulla praticabilità di elezioni indette dal capo dello stato contro il parere del capo del governo, misura l'avvitamento della crisi dopo lo scandalo della prostituzione di stato.
Berlusconi e D'Alema farebbero meglio a occuparsi di quel che gli compete, l'uno del governo del paese (se ci riesce, eventualità piuttosto improbabile) e l'altro di una strategia dell'opposizione parlamentare (diversa dall'autogol delle sfiducie mancate). In realtà Berlusconi è troppo impegnato a difendersi dalla magistratura e il partito di D'Alema ad allestire i gazebo per le firme contro il capo del governo, senza mai trovare il tempo («se non ora quando?») di spiegare agli elettori come sia stato possibile al berlusconismo riuscire nell'impresa di cambiare i connotati al paese con la sinistra più forte d'Europa.
Se la profferta berlusconiana a Bersani è solo una trovata disperata e un po' ridicola, la falange elettorale di D'Alema è il classico ballon d'essai sparato nell'asfittico perimetro del Palazzo per sondarne l'effetto. Che è sempre lo stesso: un sì dell'alleato prediletto (Casini), un no dei due partiti di opposizione (Di Pietro e Vendola) con i quali invece sarebbe ora di discutere come organizzare un menu alternativo.
La riesumazione dalemiana di volti e culture della prima repubblica, svuotata persino della difesa della Costituzione, non riempirà le urne. Oltretutto senza neppure lo straccio di un nome da spendere per frenare la valanga astensionista. Anzi, lavorando sodo per demolire l'unico leader in campo nella sinistra. Perché è vero che la leadership non sarà il primo dei problemi, ma chi sarebbe allora il nostro ElBaradei?
la Repubblica
Pgt, la rivolta della società civile "La giunta uccide la partecipazione"
di Franco Vanni
Hanno passato mesi a studiare proposte per migliorare il piano del governo del territorio. E ora che la maggioranza di centrodestra a Palazzo Marino ne ha fatto carta straccia con un voto del consiglio comunale, si ribellano. Architetti ed economisti, associazioni e sociologi - in due parole, la società civile - condannano il colpo di spugna della giunta Moratti: «È un’offesa alla democrazia e consente il varo di un Pgt che avrà effetti disastrosi», dicono.
Forse non ci avevano creduto, ma sperato sì. E ora che il gioco è chiaro si arrabbiano. Le associazioni, gli architetti, i sociologi e gli economisti che avevano presentato osservazioni al Pgt, dopo avere saputo che non saranno nemmeno prese in considerazione, si ribellano. Un riassunto del sentimento della società civile - all’indomani del voto con cui la maggioranza in consiglio comunale ha accorpato le 4.765 richieste di modifica al Pgt in otto gruppi da votare entro il 14 febbraio, impedendone la discussione - lo dà l’economista Marco Vitale: «Quello della giunta Moratti è un atto di violenza e ignoranza che uccide la partecipazione in una città che ne avrebbe bisogno - dice - . Passerà un Pgt pensato per favorire alcuni costruttori ma fatto così male che nemmeno loro ne trarranno vantaggio».
Lunedì scorso Repubblica Milano ha pubblicato l’appello di Libertà e Giustizia, che chiedeva al sindaco di inserire nel Pgt «impegni sulla mobilità sostenibile, sulla lotta all’inquinamento, sull’intangibilità del Parco Sud, e la disponibilità di spazi di integrazione sociale». Di fronte al netto rifiuto dell’amministrazione a collaborare, ora prevalgono sconforto e rabbia. Fra i firmatari dell’appello c’è don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità Nuova: «L’urbanistica è un tema di cruciale - dice - Milano ha bisogno di case in affitto a prezzi accessibili e di una maggiore vivibilità. Rifiutandosi di ascoltare, la giunta perde una grande occasione». Altra firmataria è l’architetto Gae Aulenti, che sbotta: «Quello della maggioranza è stato un gesto tremendo, raggruppare le proposte significa buttarle via, e non è perdonabile».
Chi si è visto cancellare il lavoro di mesi fatto per studiare proposte costruttive al piano del territorio, si prepara ora alla battaglia legale. «È ovvio che sul Pgt si abbatterà una valanga di ricorsi al Tar - prevede Damiano di Simine, presidente lombardo di Legambiente - questo non sarà il Pgt della città, ma di un assessore. Ed è probabile che alla città non piaccia». Fra le associazioni che hanno lavorato per migliorare, a loro vedere, il Pgt c’è la onlus Italia Nostra. «Il nostro è un esempio di come sono andate le cose - dice la vicepresidente Nadia Volpi - conoscendo la situazione del Bosco in Città abbiamo fatto osservazioni relative a quell’area. Le hanno buttate via e si ritrovano ora un progetto in cui, per dire, nemmeno figurano canali e corsi d’acqua». Stesso stupore dimostra Eugenio Galli, presidente di Ciclobby, altro sottoscrittore dell’appello di Libertà e Giustizia. «Il tema della ciclabilità è del tutto assente dal Pgt - lamenta - eppure il Comune due anni fa ha sottoscritto la Carta di Bruxelles, che prevede impegni per trasformare Milano in una città amica delle due ruote.
Noi lo abbiamo fatto presente, ma con un atto antidemocratico la maggioranza ha fatto piazza pulita del nostro contributo come di tutti gli altri».
Sulla poca democraticità del procedimento scelto da Palazzo Marino incentra la sua critica Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fai: «Ci sono confronti che sono una perdita di tempo per le amministrazioni, ma questo non era il caso - dice - le proposte di miglioramento del Pgt venivano da enti qualificati, e l’ascolto in questi casi è un dovere». È meno diplomatica l’editrice Rosellina Archinto: «Quello della maggioranza è un atteggiamento vergognoso e dittatoriale e il risultato è un piano regolatore che non risolve i problemi di Milano».
la Repubblica
Il futuro di Milano appeso a un aggettivo (e al verdetto del Tar)
di Alessia Gallione
«Omogeneo: dal greco homogenés, della stessa famiglia, razza. Aggettivo: dello stesso genere, specie, natura». Bisogna partire da qui, dalla definizione che lo Zingarelli dà del termine finito al centro dell’ultima battaglia sull’urbanistica, per capire come il Pgt potrebbe crollare al primo ricorso presentato al Tar. Perché nello scontro sul Pgt tutto ha assunto un peso. Anche le parole. Anche quell’aggettivo, che centrodestra e centrosinistra – sentenze dei Tribunali amministrativi e del Consiglio di Stato alla mano – leggono in modo opposto per giudicare la legittimità del voto delle 4.765 osservazioni dei cittadini e dei 2.748 emendamenti dell’opposizione in soli otto temi. Gruppi "omogenei", appunto, per la maggioranza. Che considera il termine come il lasciapassare per approvare entro il 14 febbraio il proprio Piano del territorio. Una forzatura per il centrosinistra, per cui possono essere discusse insieme solo le richieste di modifica di «identico contenuto».
Bisogna partire dal dizionario e dall’ultima scena. Consiglio comunale, venerdì pomeriggio: è con un colpo di mano che, dopo settimane di discussione, la maggioranza decide. Le osservazioni saranno raggruppate in otto temi: ambiti di trasformazione urbana (1.539 osservazioni), perequazione (1.366), housing sociale (71), servizi (606), infrastrutture e mobilità (573), risparmio energetico (65), verde (320), varie (225). Per ogni gruppo le votazioni saranno tre: una sulle richieste accolte, una su quelle parzialmente accolte, l’ultima sulle respinte. Sempre seguendo questa suddivisione, ma con un solo voto, verranno trattati gli emendamenti. Un documento blindato, insomma. Che non potrà più essere modificato. E soprattutto un accorpamento che per il centrosinistra i giudici amministrativi potrebbero considerare illegittimo. Ecco perché.
A regolamentare l’iter è la legge regionale del 2005, che ha segnato il passaggio dai vecchi Piani regolatori ai Piani di governo del territorio. Dice che è il consiglio comunale a decidere sulle osservazioni «apportando agli atti del Pgt le modifiche conseguenti». Sono fissati anche termini precisi e per Milano e la "creatura" dell’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli la deadline è il 14 febbraio. Questo diritto-dovere dell’aula è garantito con le maxi votazioni? È qui che entra in gioco il termine "omogeneo". Proprio per non discutere ore e ore su osservazioni fotocopia, il consiglio di Stato nel 2008 ha ammesso la possibilità di fare accorpamenti.
Paradossalmente, questa stessa sentenza viene usata dal centrodestra e dal centrosinistra per puntellare i rispettivi ragionamenti. Vale la pena leggere il passaggio: «È legittimo il provvedimento con il quale il Comune, in sede di esame delle osservazioni proposte dai privati... raggruppa tutte quelle che presentano un carattere omogeneo, atteso che risponde al principio di economia procedimentale esaminare congiuntamente le osservazioni che, in ragione del loro identico contenuto, possono essere valutate in un unico contesto e definite con una identica motivazione, evitando il defatigante esame ripetitivo di medesime istanze».
È lo stesso consiglio di Stato, quindi, che chiarisce cosa sia omogeneo: le osservazioni con un «identico contenuto». È l’arma vincente che il centrosinistra pensa di avere in mano. Un esempio. Il primo gruppo tratta gli "ambiti di trasformazione": sono i nuovi quartieri, dagli scali ferroviari alle ex caserme, su cui Milano dovrà espandersi. Per il centrodestra va bene che tutte le osservazioni siano raggruppate così. Per il centrosinistra bisognerebbe non solo trattare separatamente le singole zone (scalo Farini, Porta Romana...), ma accorpare quelle che, in una zona, chiedono provvedimenti simili: aumentare il verde, far salire le costruzioni, aggiungere un asilo...
A conforto di questa tesi, portano altre sentenze. A cominciare da quella del Tar che ha considerato illegittima la votazione in blocco delle osservazioni del Comune di Buccinasco. Sostenendo anche come strumenti urbanistici così complessi «richiedono un esame analitico dei singoli punti in cui si esprime il disegno pianificatorio».
Per presentare ricorso bisognerà aspettare che l’aula voti. Ma intanto lo scontro è politico. Basilio Rizzo della lista Fo lancia una proposta: «Perché non si chiede un parere preventivo di chiarimento al Tar o al consiglio di Stato?». Per Milly Moratti: «Questa amministrazione ha chiesto partecipazione e ora ne fa carta straccia. Dobbiamo qualcosa alla gente».
il Fatto quotidiano
La Madunina ricoperta di cemento
di Ferruccio Sansa
Sarà ricordato come il Piano di San Valentino. Al Piano di Governo del Territorio (Pgt) sono appese le sorti della giunta di Letizia Moratti che per sperare in una rielezione deve farlo approvare entro il 14 febbraio. Anche a costo di raccogliere le 4.765 osservazioni dei cittadini (sostenute da 2.748 emendamenti dell’opposizione) in otto grandi gruppi. Un blitz. Così in Consiglio Comunale le osservazioni saranno votate a botte di mille per volta. Soltanto il 7 per cento sono state recepite dalla Giunta. Non c’era altra strada.
“Il tempo stringe e il consiglio ormai è un fantasma. Sembra il Parlamento, svuotato di ogni funzione”, racconta Basilio Rizzo (professore e consigliere della lista per Dario Fo). Spiega: “Manca continuamente il numero legale e gli assenti sono proprio nella maggioranza. Ma il centrodestra è diviso e chi dispone di un voto lo fa valere caro. Ci sono consiglieri ricomparsi in aula dopo aver ottenuto poltrone nelle municipalizzate”, accusa Rizzo. Già, le elezioni comunali, i posti in Consiglio sono ridotti da 60 a 48, l’arma di molti consiglieri per la poltrona è questo voto. L’Expo annaspa, la città ogni giorno si guadagna nuovi record di inquinamento e il sindaco Moratti deve per forza sventolare almeno una bandiera.
“È il provvedimento più importante di questi cinque anni”, ha detto Letizia Moratti. L’ansia di approvare il documento potrebbe, però, essere un boomerang. Della “borghesia milanese” è difficile trovare tracce dopo il ciclone Berlusconi, ma la società civile si ribella, Libertà e Giustizia lancia un appello. Tra i firmatari Gae Aulenti, Umberto Eco, don Gino Rigoldi. E Milly Moratti, consigliera comunale dell’opposizione, che della cognata sindaco non condivide molto. L’appello svela l’osso della questione: il Pgt disegna la mappa urbanistica di Milano, ma anche quelladel potere economico. “Il Pgt permetterà 35 milioni di metri cubi di nuove costruzioni, come 341 Pirelloni”, racconta Michele Sacerdoti, ambientalista candidato alle primarie del centrosinistra. Aggiunge: “Saranno realizzate abitazioni per 400mila nuovi abitanti, ma secondo lo stesso Comune la città fino al 2030 crescerà di 60mila”.
Milly Moratti non usa giri di parole: “Il Pgt segue un mosaico di richieste dei potenti”. Non è d’accordo Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica: “Il concetto di destinazioni d’uso era superato. Lo abbiamo sostituito con poche regole essenziali che favoriscono lo sviluppo della città pubblica”.
Ecco le parole chiave del Pgt: destinazioni d’uso, cooperative e perequazione. La prima rivoluzione, appunto, è quella di cancellare le destinazioni d’uso. Un modo per “favorire lo sviluppo senza ingessarlo”, come dice Masseroli. Oppure il rischio di un far west urbanistico? Rizzo segnala un pericolo: “La scomparsa delle aree produttive, perché tutti preferiscono puntare sulle case”. Anche se restano vuote. Poi c’è la fetta per le cooperative. È certo un caso che l’assessore all’Urbanistica del Comune, Carlo Masseroli, sia un ciellino come il predecessore, Maurizio Lupi (oggi vicepresidente della Camera). Ma che vantaggio avranno le cooperative? Sacerdoti non ha dubbi: “Si dice che il 35 per cento delle costruzioni sono destinate al social housing, ma solo il 5 per cento diventeranno vere case popolari (una quota conquistata dopo una battaglia dell’opposizione, ndr).
“Un buon 20 per cento sarà affidato alle cooperative – bianche e rosse – che magari venderanno a prezzi ridotti, ma comunque a famiglie con un reddito fino a ottantamila euro l’anno”. Il grande regalo alle cooperative, secondo i critici, è nel “Piano dei servizi”: scuole, strutture sanitarie, tanto per dire. Sostiene Sacerdoti: “Il documento si apre con una citazione di don Giussani. Ma il Comune rinuncia ai nuovi servizi che passeranno ai privati”. Alle cooperative dove la Compagnia delle Opere la fa da padrone. Ma la parolina magica del Pgt è “perequazione”. In soldoni: si prende un'area vincolata come il Parco Sud (l’ultimo polmone verde di Milano) e le si attribuiscono indici di edificabilità. Poi si proclamadi voler salvare il verde trasferendo il diritto a costruire nella città che già scoppia.
“Qui non si tratta soltanto di un'operazione immobiliare, ma anche finanziaria, che rimette in piedi i bilanci”, racconta Milly Moratti. Aggiunge: “I diritti di edificazione potranno iscriversi in un’agenzia che favorisce l’incontro tra venditori e compratori, una specie di borsa”. La vera partita del Pgt e del potere è, però, quella meno nota ai cittadini. Il Piano può garantire a Moratti il gradimento della Milano che conta davvero. Imprenditori e banche che investono miliardi nel mattone sono poi gli stessi che siedono nel cda dei principali quotidiani cittadini. Gente che è meglio avere dalla tua parte, come Salvatore Ligresti. Scorrendo i nomi nelle sue società si trova mezza famiglia di Ignazio La Russa che a Roma è ministro della Difesa, ma che a Milano conta davvero. Nel cda di FondiariaSai si trova suo fratello Vincenzo, che siede anche nell’Immobiliare Lombarda. Il figlio di Ignazio, Geronimo, è nel cda della stessa Premafin nel posto del nonno Antonino. Non sono dettagli: il partito di La Russa ha un ruolo importante negli enti pubblici che approvano i progetti delle società di Ligresti.
“Con il nuovo Pgt – sostiene Milly Moratti – la densità degli abitanti passerà da 7mila a 12mila per chilometro quadrato”. Ma a Milano l’orizzonte è già oggi segnato da gru alte centinaia di metri. La Madonnina e il Pirellone sono dei nani se confrontati con i nuovi grattacieli. Alla vecchia Fiera, che secondo l’allora sindaco Gabriele Albertini doveva diventare “il Central Park di Milano”, ecco invece arrivare le tre immense torri di City Life. E non importa se pare difficile trovare chi comprerà.
È soltanto il primo progetto di una lunga serie: l’Expo, poi il megainsediamento di Santa Giulia, impantanato per le note vicissitudini del gruppo Zunino, e ancora Porta Garibaldi, la sede della Regione realizzata a memoria dell’era Formigoni.
Per non parlare del Pir di Salvatore Ligresti (che realizza anche City Life), della nuova sede del Comune, del progetto per l’Isola, fino alle Varesine. Decine di nuovi edifici, milioni di metri cubi, griffati da grandi progettisti: Hadid, Libeskind, Isozaki, Pei, Cobb e lo studio Kohn, Fox e Pedersen.
Costruire, costruire, costruire. Ecco la parola d’ordine oggi a Milano. Perfino, come ha appurato la Procura, se si realizzano interi quartieri su discariche non bonificate. Poi negli asili costruiti sui depositi di mercurio e cloroetilene intanto ci vanno i bambini.
Il forcone contro il mattone L’agricoltore si oppone a don Salvatore
Andrea contro Salvatore. Per capire il grande intreccio del mattone a Milano si può partire da questa storia semplice. Perché Salvatore altri non è che Ligresti, signore del cemento milanese e proprietario della cascina Campazzo dove Andrea Falappi fa l’agricoltore. Da anni Ligresti cerca di sfrattare Falappi per poter recuperare la sua terra e magari costruire. Ma Andrea resiste al Campazzo, difendendosi a colpi di carte bollate, coinvolge centinaia di cittadini. Però è dura: “Non si può vivere così, è un incubo, sempre con la minaccia dello sfratto che ti pende sopra la testa. Questa vita da precari ti consuma”, racconta Andrea. Non è il solo: decine di agricoltori rischiano come lui di dover lasciare la loro cascina a Ligresti.
È la storia incredibile del Parco Sud. Un luogo che pochi conoscono: cascine, campi, filari di pioppi, bestiame, aironi che arrivano a sfiorare i condomini. Una macchia ancora verde di 46.300 ettari sulla mappa grigia della Lombardia. Proprio per questo gli imprenditori immobiliari ci hanno puntato gli occhi addosso. Primofra tutti proprio Ligresti, che di mercato immobiliare ne capisce. E qui spunta il paradosso: il maggiore proprietario agricolo della zona è proprio lui. No, il re del mattone non si è convertito al grano. Ma allora perché? “Ligresti ha cominciato a comprare da anni. Sperava che i vincoli, come spesso accade in Italia, cadessero”, spiega Renato Aquilani, presidente dell’associazione per il Parco Sud.
Adesso arriva la grande occasione: il Pgt della giunta Moratti. E quella parolina magica: perequazione. Il Piano prevede infatti di attribuire un indice di edificabilità al Parco naturale (proprio così). D’un colpo i terreni di Ligresti vedono aumentare esponenzialmente il loro valore. Poi, assicurano in Comune, non si costruirà: i diritti così acquisiti verranno trasferiti in città. Tra cittadini e associazioni, però, molti sono convinti che questo sia soltanto il primo passo verso la resa del Parco Sud al cemento. Intanto Falappi resiste. Ogni anno arriva l’ufficiale giudiziario e se ne torna a casa sconfitto. Ma Ligresti è un uomo che sa aspettare.
Le notizie che giungono in questi giorni attraverso la stampa confermano che la città sta precipitando molto velocemente e in modo quasi scientifico verso trasformazioni che ne rovineranno per decenni a venire la bellezza, la straordinaria unicità, la poesia del vivere e dell’abitare. Sta tutto, o quasi tutto, scritto nel Piano per l’Assetto del Territorio, il famoso PAT che il sindaco Orsoni ha messo a punto e intende far approvare e implementare quanto prima. Intanto ne vengono gettate le basi attraverso incontri, accordi, compra-vendite, in qualche caso delibere.
La settimana scorsa si è avuta notizia che il Consiglio dei ministri ha approvato la proposta di Legge speciale per Venezia del ministro Brunetta. Una legge fatta da un economista, che vede nello sviluppo economico il principale traguardo da raggiungere anche a scapito dell’ambiente, della qualità della vita, della natura stessa del luogo da proteggere.
Intanto il sindaco Orsoni ha raggiunto un primo accordo con Enrico Marchi, direttore della Save: mettendo fine a esitazioni e ambiguità, si andrà avanti con la realizzazione del Quadrante di Tessera, con le costruzioni di natura ricettiva e residenziale (un milione di metri cubi di edifici privati, 15 chilometri quadrati di cemento), con il parcheggio per 28.000 automobili e con il tratto di sublagunare tra Tessera e le Fondamente Nuove. Ciò significa ridurre una parte del territorio mestrino a dormitorio per turisti di poche ore e intasare oltre ogni dire Calle del Fumo e le callette attigue. Significa anche dare il via al primo tratto di un progetto molto più ambizioso: è di pochi giorni fa la notizia che la Camera di Commercio sta premendo vigorosamente perché si attui l’altro tratto di sublagunare, quello a cui tiene veramente: il tratto Jesolo-Cavallino-Lido-Pellestrina-Chioggia, che permetterà agli alberghi del litorale di funzionare tutto l’anno come dormitorio, ancora una volta, per turisti diretti a Venezia. Solo ad essere molto ingenui si può pensare che la sublagunare non finisca per prendere proprio quella forma.
La stampa ha anche annunciato che la Vtp (Venezia terminal passeggeri) ha deliberato di investire 17 milioni di euro per la costruzione di nuove banchine portuali destinate alle grandi navi da crociera. Il porto ne potrà ospitare ben otto contemporaneamente, con un numero di passeggeri variante tra i 1.500 e i 3.000 ciascuna. Altre 15-20 mila persone al giorno. E quelli, dove li metteremo?
La EstCapital diretta, com’è noto, dall’ex assessore Mossetto ha siglato gli acquisti del Lido. Ancora zona ricettiva al posto dell’Ospedale al Mare, e darsena per 1.500 imbarcazioni a San Nicolò. Altre costruzioni al Forte di Malamocco. L’opposizione degli abitanti del Lido, ottomila firme su ventimila abitanti, è stata ignorata.
L’associazione degli industriali e l’Autorità portuale diretta dall’ex sindaco Paolo Costa si stanno disputando le zone (da bonificare) dell’ex area industriale di Marghera. L’insediamento di attività produttive in quella zona sembra assolutamente desiderabile, e potrebbe anzi segnare la vera rinascita economica del veneziano, come Italia Nostra auspica da tempo. Ma si faranno le cose con capacità di programmazione e con un piano fondato sul rispetto per l’ambiente e la residenzialità per i lavoratori? Non sembra proprio, se il sindaco Orsoni ha già dichiarato che il Comune assegnerà gli spazi direttamente e scegliendo tra i candidati caso per caso. Non dunque una programmazione, un polo tecnologico o innovativo. Intanto i quasi cento ettari della Montefibre sono già stati acquistati dall’Autorità portuale e diverranno parcheggio per i milioni di container che si spera di attrarre nel porto offshore da costruire con la benedizione (e con i fondi) della Legge speciale di Brunetta.
Sviluppo economico? Può darsi. Ma anche i capannoni del trevigiano sono sviluppo economico, e ora si capisce quanto meglio sarebbe stato programmarli in centri organizzati, senza distruggere un paesaggio che era stato quello di Giorgione e di Cima. Venezia può e deve rinascere, ma con queste premesse: preservare l’integrità dell’ambiente, la qualità della vita degli abitanti e il godimento anche estetico di abitanti e turisti.
Si può fare? Sì, facilmente. Basta pianificare uno sviluppo ordinato per Marghera e ridurre i flussi turistici. Basta negare ogni permesso di costruire altre attrezzature per un turismo che è già non solo abbondante, ma eccessivo. Non lo dice Italia Nostra; lo dice Piero Marzotto, presidente dell’Ente Italiano per il Turismo: Venezia, ha detto, è iper-spremuta. Il promotore del turismo italiano ha detto, lui in persona, che abbiamo già troppo turismo. Intanto la stampa continua ad annunciare che nuove strutture stanno sorgendo, nuovi milioni di turisti stanno arrivando.
«Allora! This is the Foro». I due turisti californiani sorridono dell'inglese approssimativo della guida, che si rivolge con la stessa disinvoltura a un'altra coppia spagnola. «Erto es el centro de la città.. Andrea il tesserino di riconoscimento non ce l'ha. «No no, lo tengo, è sotto il giubbino: fa freddo. Non vede che neve sul Vesuvio? Ma sono autorizzato, glielo giuro». Il siparietto va in scena a Pompei, a tre mesi dal crollo della Casa dei gladiatori. Lo scandalo finito sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo è passato senza insegnare nulla. «Gli abusivi? Certo che ci sono. Non è cambiato nulla qui, tre mesi sono pochi. Dovete avere pazienza, voi giornalisti, chiosa un guardiano. Nel sito archeologico la piazza degli Scavi è quasi deserta. Ci sono più cani randagi che visitatori. Già, nonostante il progetto "Cave Canem" e i 100 mila euro versati dall'ex commissario Marcello Fiori per contrastare il randagismo, i quadrupedi continuano a scorrazzare tra le case. Intanto il numero delle domus aperte all'accesso dei turisti dal giorno della distruzione della Schola Armaturarum è diminuito. La domus di Pansa e quella della Fontana Piccola sono state chiuse al pubblico a "scopo precauzionale", mentre quella dei Casti Amanti e quella di Polibio - che era stata attrezzata con schermi al plasma ed effetti speciali, grazie a un progetto multimediale da un milione di euro - sono aperte solo sabato e domenica per mancanza di risorse: per pagare gli straordinari dei custodi non c'è un euro. Il cancelletto è chiuso, la catena blindata e il catenaccio anti-scasso non lasciano molte speranze ai turisti. Ai californiani non resta altro che fotografare, 50 metri più in là, le pietre della Schola. Sono ancora lì, sotto il tendone bianco che copre il mucchio. La foto non è solo l'immagine dell'immobilismo di un Paese, ma pure l'istantanea del fallimento della gestione commissariale voluta da Silvio Berlusconi e dal ministro Sandro Bondi: 80 milioni di euro impegnati in progetti spesso inutili. Le spese denunciate a novembre da "L'espresso" sono ora finite dentro alcuni fascicoli della procura della Repubblica di Torre Annunziata, che indaga su presunte uscite "allegre". Anche la Corte dei conti ci ha buttato l'occhio. Al lavoro ci sono i finanzieri della città campana, guidati dal colonnello Fabrizio Giaccone, che stanno spulciando tutta la documentazione acquisita in queste settimane. Delibere, consulenze, spese di rappresentanza, appalti, mandanti di pagamento. Tutto viene passato al setaccio. Da una parte gli investigatori, dall'altra gli uffici della Soprintendenza, al cui vertice si è appena insediata Teresa Elena Cinquantaquattro. Anche le operazioni degli ultimi due giorni di gestione di Fiori sono sotto la lente d'ingrandimento: in 48 ore sono stati impegnati 15 milioni di euro, cioè il 20 per cento dell'intera dotazione. Ben 54 voci di spesa al ritmo di 5.200 euro al minuto. In questa valanga finale di contratti, ci sono i 3 milioni 164 mila euro destinati alla Wind per la progettazione e la realizzazione di una serie di servizi, come il sito Web di PompeiViva, curiosamente consegnato appena una settimana dopo la stipula del contratto. Una sorta di miracolo multimediale. Un episodio singolare, come quello che riguarda l'appalto per il nuovo sistema di videosorveglianza. Originariamente i lavori sarebbero dovuti essere effettuati dalla Elsag Datamat, società del gruppo Finmeccanica coinvolta in un'inchiesta della procura di Napoli. Nei fascicoli rimasti in soprintendenza c'è ancora traccia di una bozza di incarico (datata 3 febbraio 2010) e di un piano di fattibilità approntato dall'azienda. Ma alla fine Fiori cambia idea, e decide di stipulare quegli appalti con la Wind. Nulla di strano se non fosse che, ancora oggi, i consulenti esterni che seguono quei progetti sono dipendenti incaricati proprio dalla Elsag. Mentre vengono piazzate telecamere, Pompei continua a sgretolarsi. Dal ministero, occupato da 90 giorni nella strenua difesa della poltrona di Bondi, non si annunciano aiuti. Secondo gli studi degli esperti, per mettere in sicurezza il sito archeologico più celebre del pianeta servirebbero 270 milioni di euro, ma finora non è stato messo sul tavolo nemmeno un centesimo. Gli altri muri crollati dopo la Schola restano a terra, il terrapieno sopra via dell'Abbondanza continua a franare, nel tunnel sotto gli spalti dell'Anfiteatro c'è ancora una discarica. Se il governo è immobile, Pompei punta allora sugli industriali partenopei. Che non hanno promesso miracoli (non metteranno mano ai portafogli), ma hanno annunciato progetti per attrarre investitori dall'estero, magari arabi, sulla falsariga di quel che sta accadendo a Roma, dove Diego Della Valle investirà milioni per il restauro del Colosseo. Tra loro c'è pure Aurelio De Laurentiis. «Guardi va bene tutto», afferma la guida infreddolita, «basta che il prossimo cinepanettone non s'intitoli "Natale a Pompei", perché qui non c'è niente da ridere».
Goffredo Fofi su l'Unità ha denunciato -parlando della crisi della storica associazione ambientalista- il rischio per tutti noi di abituarci all'idea della bruttezza e dell'imbecillità. L'associazione è in crisi come si sa da tempo; i in più d'un caso se ne sono occupate anche le cronache suscitando sorpresa e amarezza in chi conosce il ruolo importante da essa giocato - come Fofi ricorda -, ad esempio, sulla legge 394 sulle aree naturali, la difesa delle coste, il Parco del Delta del Po, quello dell'Appia antica a Roma e in tante altre battaglie. Crisi che amareggia ancor più perché mai come in questo momento le politiche ambientali e non solo nel nostro paese appaiono decisive se vogliamo uscire da una crisi in cui danni ambientali ed economici appaiono strettamente intrecciati. Un intreccio che richiede da parte delle istituzioni un governo del territorio in cui sia superata ogni separazione. Una novità questa a cui non hanno saputo far fronte adeguatamente neppure forze politiche come i verdi che dell'ambiente avevano pur fatto la loro bandiera.
E che presenta innegabili e inedite novità anche per l'associazionismo ambientalista che non sempre se l'è cavata e se la cava bene nel rapporto con il sistema istituzionale. Sistema che a sua volta -specie in questo momento- mostra grandissime difficoltà e pesanti colpe nell'avviare finalmente un politica non più all'insegna della bruttezza e dell'imbecillità. Chi ha visto la puntata di Presa Diretta di Iacona dedicata alla bella politica e a Vassallo il sindaco di Pollica assassinato sarà rimasto probabilmente sorpreso del fatto che lui al pari del sindaco di Isola Capo Rizzuto non abbiano trovato sempre e non trovino sempre neppure nella propria parte politica il sostegno che ci sarebbe dovuti aspettare.
E non colpisce meno il fatto che in quei territori (ma la cosa non riguarda solo il Cilento o il sud) molti comuni abbiano strumenti di governo del territorio fermi agli anni sessanta-settanta. Ed è ancora più sorprendente che di questa situazione per la quale il titolo V della Costituzione dal 2001 prevedeva una vera riforma, nessuno o quasi parla né in parlamento né fuori malgrado le chiacchiere sul federalismo.
Eppure quando parliamo - tanto per fare due esempi non a caso - di bacini idrografici e di parchi parliamo si strumenti e soggetti istituzionali preposti alla gestione di aspetti decisivi della pianificazione del territorio che poi però non trovi neppure citati in un documento recente di Italia Nostra in cui si denunciano le non poche malefatte ambientali. Ecco, istituzioni e associazionismo ambientalista se non riusciranno - ognuno facendo la sua parte - a sintonizzarsi adeguatamente a questa novità difficilmente riusciranno ad evitare altre Pompei.
L´Italia è un paese surreale, per raccontare il quale non ci sono più parole. Un paese rovesciato, dove tutto funziona esattamente all´opposto di come le cose funzionano in un paese democratico.
Non è necessario appellarsi agli ideali della democrazia. E´ sufficiente comparare il nostro paese con altri paesi reali per vedere la folle assurdità nella quale la nostra società è immersa.
In quale altro paese del mondo occidentale succede che un capo di governo sta aggrappato al suo ruolo per poter sfuggire alla giustizia?
In quale altro il presidente del Consiglio si fa latore di un messaggio distruttivo come quello di cercare di essere eletti per poter restare impuniti?
In quale altro paese democratico l´intero staff di legulei, avvocati e mediatori del presidente del Consiglio siedono in Parlamento, non per rappresentare gli italiani (un oggetto di nessun interesse) ma per prendersi cura quotidianamente degli interessi del loro cliente, il quale é anche il loro padrone?
In quale altro paese moderno un leader politico eletto, e che per questo dipende dalla legge come ciascuno di noi, si fa calunniatore della legge e dei suoi magistrati e tiene consiglio con i suoi uomini alla maniera di un Don Rodrigo per escogitare le bugie migliori per raggirare la legge?
Quale altro leader nel mondo occidentale usa le tribune internazionali per gettare discredito sulle istituzioni del suo paese, per stracciare le norme che non rispondono ai suoi immediati e più diretti interessi?
In quale altro paese i cittadini devono prendere continuamente le distanze dal governo che rappresenta la loro nazione ogni qualvolta si trovano a dover spiegare l´allucinante assurdità di un leader che usa il potere politico per coprire quel che fa in privato?
In generale succede proprio il contrario: chi ricopre incarichi pubblici é chiamato a rendere conto anche della vita privata se desta sospetti di illecito - del resto, la pratica del rendere conto serve proprio a fugare i dubbi, a ristabilire la legittimità.
Ma in Italia avviene il contrario: la legittimità è propagandata ma mai appoggiata su certezze.
Nell´era Berlusconi chi ha un incarico pubblico può meglio nascondere quel che fa senza lasciare ai cittadini la possibilità di sapere, di rendersi conto dei fatti, di fugare se necessario i dubbi, di giudicare con correttezza.
Dopo aver proclamato di voler andare dai giudici per chiarire ogni dubbio sulle accuse di prostituzione di minori e concussione, il premier ha clamorosamente rovesciato la sua strategia: non solo non vuole presentarsi ma ha messo in scena una straordinaria campagna contro le istituzioni. In questo modo rinsalda la sua legittimità a spese della legittimità dello Stato.
Nell´Italia di oggi tutto é rovesciato.
In quale altro paese succede che il leader del governo offende pubblicamente giornalisti e cittadine, mostrando disprezzo per una parte del paese senza subire alcuna effettiva conseguenza?
La tolleranza finora dimostrata nel nostro paese per questo leader é il segno di un´impotenza che preoccupa e non ci fa onore. Chi ci offende non può essere degno di governarci.
E che cosa dire del suo alleato più fedele, la Lega?
La Lega Nord nacque qualche decennio fa al grido "Roma ladrona" ma non si é fatta alcun scrupolo a servirsi di quella Roma per rafforzare il suo peso nelle regioni dove miete consensi e governare l´Italia unita allo scopo di disunirla.
In quale altro paese un movimento federalista e quasi secessionista vive all´ombra della politica nazionale e addirittura vuole imporre una legge istitutiva del federalismo che straccia l´autonomia dei comuni, asservisce i governi delle città al governo di Roma in una maniera che è degna di un centralismo napoleonico?
In quale altro paese, una minoranza ha così tanto potere da decide come l´identità politica della nazione debba essere?
C´è, in effetti, un accordo fondamentale e non solo strumentale fra la Lega e Berlusconi, poiché entrambi sono dispregiatori del bene generale, cioè dell´Italia e degli italiani come nazione, nel nome dei loro interessi parziali: quelli di un impero economico privato e quelli di un´area geografica.
Rovesciando tutte le norme, l´Italia é l´unica democrazia costituzionale nella quale la minoranza governa esplicitamente e nel disprezzo ostentato della legge e delle istituzioni.
Il calo della vendita di automobili nel mondo occidentale non è contingente ma la crisi di un sistema maturo, che dopo un grande successo, con 35 milioni di veicoli in circolazione solo in Italia e il 65,5% di cittadini che la usa ogni giorno, mostra i suoi limiti. Limiti della crescita si direbbe, con la necessità di puntare sulla mobilità sostenibile con idee e progetti per la riconversione del sistema produttivo dell’automobile e del sistema di trasporti basato sul tutto strada.
C’è consapevolezza che la riconversione non è semplice né rapida perché i numeri sono impressionanti: il sistema «auto» dalla costruzione alla vendita e manutenzione impiega in Italia circa 1.000.000 persone, nel settore dell’autotrasporto lavorano 330.000 addetti (dati Eurostat) ed il sistema di prelievo fiscale del sistema auto ( veicoli, carburanti, multe) porta nelle casse dello stato ogni anno 81 miliardi, circa il 20% delle entrate totali.
Gli occupati nei servizi di trasporto
Ma altri dati del sistema trasporti italiano indicano comunque opportunità e numeri utili da cui partire in modo realistico: nel settore del trasporto pubblico e privato su strada (inclusi i taxi) lavorano 150.000 addetti, nel trasporto ferroviario nazionale e locale sono impiegate altre 110.000 unità, il sistema portuale nel suo complesso impiega 100.000 addetti e circa 25.000 muovono il sistema di trasporto marittimo, ben 45.000 addetti lavorano nelle agenzie di viaggio e come operatori turistici. In totale sono circa 430.000 gli addetti nei servizi di trasporto «sostenibili» rispetto al complesso dei servizi di trasporto pari a 968.491 addetti in Italia. (dati Eurostat 2006)
Colpisce che confrontando i dati italiani con la Germania, è che su di un totale di 1.317.000 addetti nei servizi di trasporto, lavorano nell’autotrasporto il 23,4% (309.000) e ben il 22, 2% (292.500) sono impiegati nel trasporto pubblico e privato su strada, in pratica il doppio dell’Italia, dove lavorano nel trasporto collettivo solo il 15,4% e nell’autotrasporto il 34%. Già da questo confronto con il paese che è la locomotiva d’Europa, possiamo trarre suggerimenti su cosa dovremmo fare anche in Italia: aumentare i servizi di trasporti ai passeggeri e ridimensionare il trasporto di merci su strada con l’intermodalità della gomma con ferro e mare. Già oggi una stima prudente di esperti del settore indica che il personale direttamente impegnato per la produzione dell’intermodalità terrestre è dell’ordine di 4.000/5.000 persone e sono questi i settori innovativi da far crescere.
Peccato che in questo momento in Italia la strada intrapresa sia esattamente opposta. Il governo ha tagliato le risorse per il trasporto collettivo su ferro (circa 20%) e le Regioni alle prese con i tagli della manovra Tremonti stanno ridimensionando gli autobus. Insomma nessun piano di efficienza serio che riduca i costi, innovi i servizi e rilanci il settore. Allo stesso modo una forte innovazione è richiesta nei servizi di trasporto delle persone a domanda individuale dato che solo una parte di spostamenti può essere risolta a costi accessibili con il trasporto collettivo. Sarebbe preferibile non vendere automobili in proprietà ma offrire servizi di trasporto in auto, come car sharing, autonoleggio «facile», taxi collettivo e noleggio con conducente.
Nel trasporto merci le cose non vanno meglio, con il trasporto ferroviario in caduta libera ed il sistema portuale in frenata . Poche le briciole destinate all’ecobonus per il trasporto combinato, ma ben 400 milioni anche per il 2011 in aiuti all’autotrasporto su strada. Insomma la solita strategia: grande sostegno all’autotrasporto (ben 5 miliardi in dieci anni) e quasi nulla a tutto il resto.
La produzione dei veicoli e gli investimenti per infrastrutture
Per la produzione dei veicoli sono oggi impiegati 130.000 addetti complessivi producono autovetture mentre la produzione degli autobus ne occupa circa 10.000, quello del
ferroviario e tramviario circa 15.000, infine le due ruote ( moto, ciclomotori e bicicletta) occupano circa 13.500 addetti. Se vogliamo parlare di riconversione, da un lato dobbiamo indurre un ridimensionamento del sistema auto, che comunque manterrà sempre una quota significativa di produzione, sia per il mercato sostitutivo e sia per l’innovazione di prodotto e di servizi, con un’auto a basse emissioni, sicura, riciclabile, ad energia rinnovabile. Un veicolo che ancora non c’è e che richiede un progetto di ricerca pubblico/privato credibile, che coinvolga centri di ricerca, università, intelligenze, legato direttamente alla soluzione del problema dei carburanti dopo la fine del petrolio.
L’altra strategia essenziale nel settore industriale è puntare all’aumento della produzione di autobus, di treni, tram, tutti segmenti produttivi che oggi sono in forte sofferenza sia perché mancano investimenti pubblici per l’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo e sia perché questo alimenta la debolezza delle nostre imprese nella concorrenza globale. Nessun investimento significativo sta arrivando nel settore del trasporto ferroviario metropolitano e regionale, anzi per coprire i buchi del taglio al servizio ferroviario pendolare il governo ha dirottato le scarse risorse (460 milioni) destinate ai treni e quindi ormai del necessario piano per i 1.000 nuovi treni per i pendolari del costo di 6 miliardi (come il Ponte sullo Stretto!) ormai è rimasto ben poco.
Anche il settore autobus vive una crisi molto seria perché si è smesso di investire nell’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo su strada. Il governo non investe, le aziende non hanno risorse per i nuovi veicoli ed è stata abbondata la strategia di anni passati che aveva abbassato l’età media del parco autobus: adesso siamo a 9,3 anni di media contro i 7 anni della media europea.
Anche la vendita delle due ruote, cicli e motocicli sta vivendo una crisi evidente, con una piccola ripresa della bicicletta a seguito degli incentivi assicurati dal governo nel 2009, nonostante che vi sia molto interesse e disponibilità da parte dei cittadini verso queste modalità sostenibili. L’ Ancma stima che in Italia siano circa 90.000 le persone impiegate nella commercializzazione, riparazione ed accessori di prodotti legati alla bicicletta, moto e scooter: si tratta di numeri significativi.
Infine anche nel campo degli investimenti serve riorientare la spesa dalle grandi opere inutili e dalla costruzione di nuove autostrade programmate verso le reti per la mobilità su ferro urbana e regionale, il vero buco nero del nostro sistema di trasporti. E questo è anche un modo per dare occupazione per opere utili nel settore delle costruzioni. Manca di nuovo il governo, che d’intesa con le regioni e le città metropolitane individui una spesa costante e duratura per queste grandi opere strategiche.
I costi della riconversione
Non sfugge a nessuno che la principale obiezione che verrà alla riconversione del sistema «tutto auto», è la necessità di ingenti risorse pubbliche e private per poter camminare, un problema molto serio.
Una parte della spesa deve essere riconvertita da sussidi perversi che vengono dati adesso a sistemi da disincentivare come l’autotrasporto e le grandi opere inutili per destinarla a trasporto combinato ed infrastrutture ferroviarie urbane. In alcuni settori innovativi legati a nuovi servizi di trasporto dovrà essere incoraggiata e sostenuta l’iniziativa privata. Le aziende di trasporti pubblici su gomma e ferro dovranno fare la loro parte per l’efficienza dei costi perché è impensabile aumentare i servizi aumentando i debiti.
La ricerca scientifica per veicoli innovativi e sui carburanti puliti e rinnovabili dovrebbe far parte di un filone di ricerca pubblica, così come gli investimenti per autobus e treni dovrebbero far parte di un progetto industriale promosso dal governo. Se si innesta un circolo virtuoso anche la spesa delle famiglie che oggi destinano 90 miliardi ogni anno per l’uso dell’automobile potrà essere riconvertita verso servizi di trasporto alternativo, aumentandone la redditività. Insomma sarà dura ma si può e si deve fare.
Colpisce che il piano Marchionne di rilancio di Mirafiori punti a costruire Suv per il mercato americano, con componenti che provengono dagli Usa assemblati a Torino, che tornano per essere rifiniti e pronti per la vendita nel mercato americano. Un sistema insostenibile di globalizzazione dei trasporti che scarica sulla collettività i suoi effetti negativi.
Uno dei compiti più urgenti di cui i pochi che si preoccupano della possibile, necessaria, indispensabile rinascita di una sinistra decente – una sinistra il cui sfacelo è in questi giorni di primarie del tutto evidente, né i nuovi dirigenti sembrano rendersene adeguatamente conto anche perché tanti di loro a questo sfacelo hanno abbondantemente contribuito e non sembra abbiano nessuna intenzione, da Torino a Napoli, di tirarsi da parte – sarebbe quello di ridar dignità a chi si occupa della cosa pubblica non solo da politico e da amministratore (ceti e professioni di cui non ci si fida più) ma da cittadino, nell’antico significato che dava alla parola citoyen la Rivoluzione francese. Da cittadino che insieme ad altri cittadini costituisce gruppi, fonda cooperative, dà vita a iniziative di protesta e di proposta, e afferma o nega a seconda del caso.
La dizione “società civile” è molto bella, ma si giustifica oggi soltanto se chi se ne fa carico impara ad annoverare tra le forme del suo intervento quello della “disobbedienza civile”. Sono convinto che l’eccessiva remissività della società civile nei confronti della politica, e in sostanza la delega ai politici delle proprie battaglie, sia una delle maggiori cause, se non la maggiore, del declino del nostro paese, e che essa sia stata favorita dai politici, che hanno continuato a sottomettere corrompere castrare per ragioni di mera rivalità tutto ciò che si muove al di fuori del loro controllo. E penso soprattutto alla tradizione politica del Pci e dei suoi eredi. Non è il caso però di dimenticare le responsabilità che le organizzazioni della società civile hanno avuto nel loro stesso declino, a volte per timidezza, più spesso per opportunismo.
Come sempre succede – e proprio per questo ogni nuova organizzazione o associazione dovrebbe tenerlo nel debito conto – alla fase “eroica” iniziale subentra nella storia di ogni iniziativa importante la fase del consolidamento e della burocratizzazione. Del compromesso. Tra le associazioni di società civile di più lunga storia, si è parlato spesso in questi giorni di Italia nostra, che venne fondata per “proteggere i beni culturali e ambientali” del nostro paese nel lontano 1955 da alcuni italiani di valore tra i quali Umberto Zanotti Bianco (un grande personaggio nella storia del volontariato e non solo, dirigente per tanti anni della Associazione per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia oggi un po’ fiacca), Trompeo, Bassani, Elena Croce eccetera, e che ha avuto in Antonio Cederna la sua colonna e, credo, il più attivo e migliore dei suoi rappresentanti. Si devono all’associazione Italia nostra, con sedi in molte città italiane, tanti risultati importanti, per esempio la legge 394 sulle aree naturali, la difesa delle coste, il parco del Delta del Po, quello dell’Appia antica a Roma eccetera, tante battaglie talora vinte e talora perse e più spesso vinte (o perse) a metà o per più della metà...
Ma pian piano, e poi velocemente con la morte di Cederna, anche Italia nostra ha finito per perdere la sua fisionomia e la sua autonomia, come ha dimostrato di recente uno scandalo milanese (la pubblicazione con il nome di Cederna di testi manipolati da una dirigenza, diciamo così, filo-palazzinara, le dimissioni di un probo e acuto urbanista come Vezio De Lucia e di tanti altri, le esplicite divisioni interne che sembrano preludere a qualche scissione e alla nascita di nuove organizzazioni).
In passato, Italia nostra è stata accusata a torto da certa sinistra di essere troppo borghese e un tantino snob, e in questo c’era qualcosa di vero, ma quella sinistra, tutta proiettata sulle tematiche dello sviluppo, aveva anche il torto di una grande insensibilità “ecologica”, di considerare con molta sufficienza le lotte per la difesa dell’ambiente e del patrimonio artistico. Che si sono invece rivelate centrali, fondamentali. Chiedersi se Italia nostra supererà la crisi che sta attraversando, è chiedersi se sarà in grado l’Italia di superare la crisi che sta attraversando, ma questo dipende anche dai singoli, da ciascuno di noi. In un saggio recente e importante, Salvatore Settis ricostruisce e analizza il disastro ambientale legandolo strettamente al degrado civile (Paesaggio Costituzione Cemento, Einaudi), e si chiede come si sia potuto arrivare a tanto, e come si dovrebbe cercare di rimediare alla luce dei dettami della Costituzione.
Dipende da noi, egli dice, da ciascun cittadino. Si spera che all’interno di Italia nostra vincano i “nostri” e non i politici, e tantomeno i distruttori dell’ambiente e della bellezza stessa del paese, con tutti i loro complici; si spera che Italia nostra possa diventare un punto di riferimento attivo per gli indignati e gli esasperati, ma insistendo sull’attivo, sulla concretezza delle buone proposte, e anche delle risposte al malaffare alla corruzione alla distruzione; si spera che possa riorganizzarsi, e organizzare risposte adeguate alla vastità e profondità del disastro ambientale che questi ultimi trent’anni hanno enormemente accresciuto, facendo berlusconianamente del Bel Paese un paese isterico e imbecille, e sempre più brutto.
«La giurisprudenza di Tar e Consiglio di Stato è tassativa: le osservazioni al Pgt devono essere esaminate non in complessi disomogenei ma una per volta, salvo casi precisi. Un punto fondamentale, che non è stato rispettato. A dimostrazione che questa giunta guarda solo a interessi economici, e ignora quel che viene dal basso».
Giuliano Pisapia, candidato sindaco del centrosinistra. È un atto di forza della giunta la decisione sul voto del Pgt?
«No, è solo un atto di debolezza. Anche l’ultimo piano regolatore, tanti anni fa, fu approvato discutendo ogni singola osservazione. Evidentemente questa maggioranza, che non è tale neanche nei numeri, si impegna a parole ma poi non mantiene nei fatti, il sindaco e Masseroli invitano i cittadini a fare osservazioni e poi le ignorano, consapevoli che, se fossero state esaminate tutte, non ce l’avrebbero fatta».
Perché?
«Perché spesso manca il numero legale. E perché rischiavano di finire in minoranza: la grandissima parte delle osservazioni sono propositive, quindi avrebbero disegnato un Pgt del tutto diverso da uno che prevede l’equivalente di 243 nuovi Pirelloni e uno sviluppo urbanistico tale da inserire dentro Milano una città grande come Genova».
Cosa si può fare, a questo punto? Ricorrere al Tar?
«Di certo la giunta deve fare attenzione: approvare un piano di governo illegittimo è un rischio. E quando si calpestano le regole della democrazia arriva la mobilitazione dei cittadini. Ma oltre ai ricorsi ci sono altre strade».
Lei ha proposto una moratoria per il Pgt.
«È una prima idea. Il Pgt non è passaggio burocratico, ma uno strumento che determina il futuro della città. Ecco perché sarebbe rispettoso nei confronti dei cittadini rinviarne l’approvazione a una futura giunta. Ma ci possono essere già oggi dei punti limitati di convergenza».
Sta aprendo a una soluzione diversa?
«Credo si possano fare degli stralci al Pgt, approvando ora solo quei punti condivisi da tutti, come l’housing sociale, che è anche un tema urgente. Questo vorrebbe dire che non tutto il lavoro fatto è stato inutile. Ovviamente, però, questa possibilità non vale per l’impianto generale del piano, che è in contrasto con la nostra visione».
Lei è ottimista. Crede davvero che la maggioranza potrebbe accogliere la sua proposta?
«La scelta sulla modalità di voto indica una volontà irreversibile. Ma ricordo anche che ci sono 5 referendum ambientali in ballo: non si può adottare un piano di governo del territorio ignorando il risultato di quel voto. E comunque il Pgt, se approvato ora, potrà essere annullato o modificato dalla prossima giunta».
Se non questo Pgt, quale immagina da sindaco di Milano?
«Il nostro terrà conto prima di tutto della città metropolitana, a differenza di questo, che si ferma ai margini di Milano. Bisogna invece considerare i rapporti con chi entra e esce dalla città. Secondo punto: si dovrà rivedere totalmente il meccanismo della perequazione, senza toccare i territori agricoli che invece vanno rafforzati. Lo stesso vale per i parchi urbani e i giardini storici: vanno salvaguardati, limitando al minimo indispensabile la possibilità di costruirvi all’interno».
Un altro pilastro del suo Pgt?
«Si dovrà intervenire sul territorio studiando modalità di riduzione del traffico, di aumento del trasporto pubblico e un sistema di parcheggi nella fascia di accesso alla città. E poi guardiamo a una città moderna, con luoghi di aggregazione per giovani e anziani che questo Pgt non prevede, perché pensato solo per persone ad alto reddito e uffici».
Il Pgt attuale riempie la città di nuovi palazzi. Il vostro?
«Sarà studiato sulle necessità di persone che hanno superato i limiti di reddito delle case popolari, su chi sta migliorando la sua posizione senza potersi permettere le case di lusso immaginate da questi signori, destinate a restare sfitte o invendute».
Chi sta lavorando al vostro progetto di Pgt?
«Un gruppo di lavoro molto robusto - uno di quelli della mia officina - che raccoglie grandissime professionalità del mondo dell’università e del lavoro. Partendo, ovviamente, dai programmi dei quattro candidati alle primarie».
Da sindaco, quanto tempo ci metterà ad approvare un nuovo Pgt?
«In sei mesi ce la possiamo fare. E nel frattempo, a differenza di quanto dice il centrodestra, la città non si fermerà».
postilla
A Milano si confrontano idee alternative di società, di democrazia e, quindi, di città. Per gli amministratori attuali, ascoltare e valutare le proposte dei cittadini è un'inutile perdita di tempo. I pareri che contano sono già stati ascoltati, ed è su quella base che è stato prefigurato il cosiddetto "sviluppo urbanistico" della città. Per questo le richieste di dialogo, pur doverose, resteranno inascoltate. Ci auguriamo che i prossimi amministratori abbiano una visione più inclusiva e solidale del governo del territorio, meno prona agli interessi immobiliari. L'attuale legge urbanistica regionale, criticabile sotto altri aspetti, offrirà loro strumenti e occasioni adeguati per alimentare il dibattito pubblico, prima, durante e dopo il voto consiliare. (m.b.)