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A scuola, all'università ci spiegavano (e dovevamo farci gli esami) che nello Stato c'erano tre poteri: il legislativo, cioè il parlamento, l'esecutivo, cioè il governo, il giudiziario, cioè la magistratura. Ma nelle nostre università, quelle della Repubblica italiana fondata sul lavoro, continua un bel silenzio sul potere dei soldi. Il quarto potere, che non sta scritto nella Costituzione, ma che c'è e decide.

Oggi Berlusconi è nei guai seri, la stampa internazionale lo indica come un governante impresentabile, ma il presidente del consiglio resiste e non solo al potere giudiziario, l'unico che cerca di metterlo di fronte alle sue responsabilità.

Stando le cose come stanno anche noi del manifesto dovremmo scrivere che Berlusconi sta vincendo. La ribellione dell'antagonista Fini è agli stracci, il potere legislativo è in vendita, oggetto di acquisti, singoli e di gruppo. Sarebbe bello e democratico conoscere il prezzo dei singoli parlamentari. Il povero Fini ne sta facendo le spese. Futuro e Libertà è in vendita e penso che Fini abbia oggi una nostalgia del Msi e anche del fascismo, dove i soldi correvano, ma c'era una dittatura.

I soldi. Pensiamo ai soldi. Pensiamo a un Silvio Berlusconi senza denari: sarebbe già in galera per non so quanti reati. Anzi non sarebbe neppure in Tribunale, sarebbe stato cancellato.

Ma c'è il mercato e il mercato è il luogo delle vendite e degli acquisti e la sua legge è incrollabile: chi può comprare compra e chi non può comprare svende. Il potere legislativo, una volta che i parlamentari sono stati eletti, è anch'esso mercato, come vediamo in queste settimane. Il nostro Cavaliere può comprare le escort e anche gli eletti dal popolo. E se si va al processo, avanzato dal potere giudiziario, il potere dei soldi può comprare anche i testimoni. Qualcuno può pensare che una escort, che abbia detto di aver avuto rapporti con Berlusconi da minorenne, non smentirà in tribunale la precedente affermazione? E il potere giudiziario potrà far altro (a parte allungare i processi) che tenere in debito conto la nuova testimonianza?

Rischio di apparire paleomarxista, ma immaginatevi un po' come andrebbero le cose se Berlusconi fosse povero, o avesse anche un buon stipendio e basta. Provate a immaginare.

Postilla

Come abbiamo già ricordato, nel 1994 Berlusconi era ineleggibile, perchè concessionario dello Stato, secondo una legge vigente. Fu salvato con un "cavillo", mediante una serie di decisioni sostanzialmente bipartisan. Vedi i dettagli nel libro di Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Editori Laterza, 2003, p. 46 e segg

Milano leghista e Roma ladrona sono finalmente unificate sotto il segno del cemento. Poche settimane fa il consiglio comunale di Milano ha infatti approvato il nuovo piano urbanistico della città che prevede un incremento di abitanti di oltre 500 mila unità. Dal 1971 la città conosce un continuo declino demografico: dagli anni '70, quando raggiunge il suo massimo storico superando il milione e 700mila abitanti a oggi in cui ne ha poco più di un milione e trecentomila. Secondo gli «urbanisti» meneghini, Milano dovrebbe dunque ritornare ai livelli del periodo d'oro dell'industria manifatturiera italiana, quando la città non solo richiamava decine di migliaia di operai ma era anche un punto di riferimento per la cultura nazionale.

La perdita della popolazione degli ultimi quaranta anni è stata causata dal declino industriale e dallo sconvolgente aumento dei valori immobiliari degli ultimi venti anni. Una città in declino produttivo in un paese che si dibatte nel medesimo fenomeno (la Fiat a Detroit) richiamerà dunque mezzo milione di abitanti!

La capitale non è stata da meno. Il piano regolatore del «modello Roma» di Veltroni ha regalato agli immobiliaristi 70 milioni di metri cubi di cemento per un aumento stimato di popolazione di 350mila abitanti. Anche Roma è in lento declino demografico dagli anni '70 a causa di un analogo fenomeno di valorizzazione immobiliare che ha respinto fuori del comune 300mila abitanti. Entrambe le città pensano di incrementare la popolazione senza costruire neppure una casa popolare e senza sapere quale tipo di economia le sosterrà: è il mercato, così ripetono, che guida lo sviluppo. Ma se proprio a causa di quel mercato senza regole le città si sono vuotate dei ceti popolari, per chi verranno costruiti i nuovi giganteschi quartieri? È un evidente regalo alla rendita immobiliare, rappresentata dal mondo finanziario e dagli eterni protagonisti del mattone.

Ma le analogie non si fermano qui. A causa della forte espulsione di abitanti, sono centinaia di migliaia i lavoratori che quotidianamente devono raggiungere le due città da un sempre più ipertrofico hinterland. La logica voleva che il nuovo disegno urbano venisse costruito su questa stessa scala metropolitana. Entrambe le città hanno invece disegnato i loro piani nella gelosa difesa dei propri confini: chi sta fuori insomma, si arrangi, nessuna istituzione si farà mai carico del peggioramento delle loro condizioni di vita.

Ancora. Entrambi i piani sono impostati sulla cancellazione delle regole. C'è un pallido quadro di riferimento, è vero, ma volta per volta esso viene violato attraverso trasferimenti di «diritti edificatori» (a Milano, per stare tranquilli, hanno costruito una borsa dei diritti edificatori!), compensazioni urbanistiche e accordi di programma. L'urbanistica come sistema di regole e stata sostituita da un'opaca e continua contrattazione che privilegia la grande proprietà fondiaria.

Anche perché, e veniamo alla quarta analogia, entrambi i comuni affermano di «non avere le risorse economiche per realizzare le nuove urbanizzazioni» e si sono conseguentemente messi nelle mani della speculazione fondiaria. C'è bisogno di una nuova strada? Aumentiamo le cubature. Una scuola? Ancora cemento. Un parco? Un'altra dose aggiuntiva di metri cubi. Eppure le due città continuano a spendere fiumi di soldi in opere inutili. Lo stadio del nuoto di Roma costerà più di un miliardo (sic!) di euro. L'organizzazione dell'Expo del 2015 chissà quanto.

E proprio l'Expo ci porta alla quinta analogia. Il governo delle città è sfuggito ormai di mano alle amministrazioni comunali. Il modello «straordinario» viene sperimentato a Roma nel 2000 dal duo Bertolaso-Balducci, che pochi anni dopo, nel 2009, daranno il meglio di sé nella vicenda dei mondiali di nuoto. Nel frattempo - con consenso bipartisan - veniva costruita la candidatura di Milano all'Expo del 2015. Roma punta infine tutte le sue carte sulle Olimpiadi 2020. I consigli comunali delle due città sono ormai svuotati di funzioni reali e il futuro urbano lo decidono i poteri economici dominanti che in questo modo potranno meglio indirizzare cospicui finanziamenti pubblici verso i quadranti urbani dove hanno interessi.

E mentre continuano a recitare l'allegra pantomima del «non-ci-sono-i-soldi» i due schieramenti politici cancellano le città, le rendono sempre più invivibili. Gli interessi di pochi prevalgono sulle aspettative sociali. E a questo disegno l'urbanistica romana e milanese sono state decisive.

ROMA - Dopo 43 anni, per la Nuova Aurelia c´è un progetto definitivo. Venti giorni e sarà pubblico. Per conoscere il piano finanziario, due miliardi i costi, basterà una settimana. La Società autostrada tirrenica, nata a Grosseto il 21 ottobre 1968 per costruire la Livorno-Civitavecchia, è arrivata a un passo dalla missione. Il progetto, lungo 206 chilometri, è pronto: la Nuova Aurelia correrà lungo la Vecchia Aurelia. Semplice. Il presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, è favorevole. Il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, che è anche sindaco di Orbetello, cittadina strategica, ha ottenuto un "taglio" di venti chilometri attorno all´Argentario e si dice soddisfatto. Di più. Dopo aver temuto chilometri di complanari e gallerie (progetto Lunardi), nuove autostrade nell´entroterra o lungo la costa, ora gli ambientalisti dialoganti si stanno convincendo: meglio limitare i danni e dire "sì" al progetto "in sede". Un intellettuale d´area come Vittorio Emiliani - la Bassa Toscana è piena delle seconde case di intellettuali, giornalisti, politici che alla Nuova Aurelia si sono fieramente opposti per stagioni - ha scritto sul "Tirreno": «L´ultimo progetto ricalca quello già appoggiato da Italia Nostra, Wwf e Lega Ambiente. Consuma poco suolo e paesaggio, costa la metà del disegno del 2008. Con i "no" aprioristici e aristocratici ci si salva (forse) l´anima e però si fanno passare le cose peggiori». La statale Aurelia, che in diversi punti oggi è "una variante" e lascia a margine la storica Aurelia (declassata, in quegli stessi punti, a provinciale), diventerà un´autostrada a pagamento a due corsie per senso di marcia. Si allargherà dagli attuali 14-18,60 metri a 24 metri (eccetto l´area "di rispetto" prima di Orbetello, tra Fonteblanda e Follonica: lì si salirà solo a 18,60 tagliando la corsia d´emergenza). Via gli incroci a raso e le pericolose svolte a sinistra. Saranno migliorati gli attuali 32 svincoli. Tutti gli altri accessi - non più diretti - saranno raccordati attraverso controstrade «che non toglieranno ingressi a residenze, fattorie e aziende», spiega l'amministratore delegato Ruggiero Borgia. Dieci le aree di servizio (la gran parte esistenti) e sette nuove barriere. Serviranno a pagare il pedaggio in uscita. Quanto? Ipotizzando 10-13 centesimi a chilometro, l´intero percorso Civitavecchia-Livorno potrà costare venti euro. Probabili esenzioni parziali per i residenti. Il cantierone della Nuova Aurelia sarà diviso in sei lotti. Il primo, a nord, Rosignano-San Pietro a Palazzi, è già avviato e sarà chiuso entro il 2012. Poi toccherà al Civitavecchia-Tarquinia. Tutto, si annuncia, sarà concluso entro il 2016. «L´abbattimento di case sarà minimo e così l´esproprio di terreni», assicura Borgia, «abbiamo fatto un progetto all´uncinetto, metro per metro».

Postilla

Zunino si riferisce a un articolo di Vittorio Emiliani sul Tirreno. Lo inseriamo qui di seguito, con in calce la precisazione che Emiliani ha inviato al direttore de la Repubblica .

il Tirreno, 16 febbraio 2011

Tirrenica sull'Aurelia. Il male minore

di Vittorio Emiliani



La quarantennale vicenda dell’autostrada della Maremma sembra vicina ad una svolta. Bisogna essere cauti e vedere quale sarà il progetto (e non soltanto il generico tracciato) soprattutto fra Grosseto e Civitavecchia. La linea enunciata dalla concessionaria SAT di una autostrada tutta sulla sede stessa dell’Aurelia rappresenta un indubbio passo avanti. E’ la “filosofia” che presiedeva al solo progetto vero messo sin qui in campo e cioè al progetto Anas di superstrada che sostenemmo: perché evitava le tanto (giustamente) temute complanari; consumava poco suolo e paesaggio (o ne consumava molto di meno); costava circa la metà dell’autostrada SAT-Regione Toscana, ecc. Si obietterà che quella era una superstrada e questa è una autostrada. In realtà nel lessico dell’Unione Europea non esistono superstrade, ma soltanto autostrade, cioè arterie di una determinata larghezza, con un guard-rail largo così, con corsie di emergenza, ecc. Se poi debbano essere a pedaggio o libere, questo è affare dei singoli Stati.

Quindi il progetto che la SAT presenterà a fine mese appare il più vicino per tracciato e impatto paesaggistico-ambientale a quello Anas, un grande volume ricco di dati e di carte, che all’epoca venne presentato – è bene ricordarlo agli smemorati di ogni parte – nella sede nazionale di “Italia Nostra” a Villa Astaldi a Roma, alla presenza del vertice di IN, di Fulco Pratesi presidente del Wwf, degli esponenti di Legambiente e di altre sigle. Da parte di tutti (ripeto: di tutti) vi fu un largo consenso sia pure con alcuni correttivi da introdurre. E a questo dovremmo essere nuovamente. Avendo stornato, con lotte, proposte e proteste, locali e nazionali, alcune minacce gravissime, fra le quali: a) il progetto Lunardi di autostrada a monte con varie gallerie; b) l’autostrada a mare parallela all’Aurelia (ridotta a strada ordinaria), con complanari e caselli devastanti, e alla ferrovia.

A nostro avviso la priorità assoluta dovrebbe essere costituita dal raddoppio e dalla messa in sicurezza dei due tratti, pericolosissimi (come conferma il recente incidente alla Torba, miracolosamente senza vittime), ad una corsia per senso di marcia, in Comune di Capalbio e fra Tarquinia e Civitavecchia. Dove l’Aurelia presenta un tasso di incidentalità doppio rispetto alla media toscana. Il resto dovrebbe venire adeguato – nelle corsie di emergenza e nei troppi ingressi a raso – in base ad un piano certo. Ma la Regione Toscana – dove il presidente Rossi e l’assessore Marson hanno dato precisi segnali di attenzione al paesaggio e all’ambiente, come da anni non succedeva - deve proporre con forza al governo una politica dei trasporti integrata, centrata sulla rivalorizzazione della ferrovia tirrenica (invece negletta), per passeggeri e merci, in funzione dei porti di Livorno e di Piombino, e su quelle autostrade del mare di cui quasi non si parla più (una delle tante follie italiane). Coi “no” aprioristici e aristocratici ci si salva (forse) l’anima e però ci si condanna all’impotenza e si fanno passare le cose peggiori.

La lettera di precisazione

di Vittorio Emiliani



Caro direttore,

nell'articolo uscito oggi su "Repubblica" Corrado Zunino mi fa dire, sbrigativamente, cose che non ho detto. Sul "Tirreno" ho infatti scritto che una decina di anni fa Italia Nostra, Wwf, Legambiente, Comitato per la Bellezza si espressero favorevolmente, con alcuni punti critici da approfondire, sul progetto Anas di una superstrada da Rosignano a Civitavecchia. Che costava la metà del progetto autostradale SAT-Regione, consumava molto meno suolo, riduceva l'impatto paesaggistico, ecc. Ho osservato che il tracciato proposto ora dalla SAT ricalca in buona parte quel progetto e quindi rappresenta un passo avanti, ma che bisogna andarci cauti e verificare bene le cose non sul tracciato bensì sul progetto annunciato come prossimo dalla concessionaria . Quindi non c'è nessun favore preventivo da parte di Wwf, Legambiente (Italia Nostra rimane, a quanto pare, del tutto contraria), Rete Comitati Toscani, Comitato per la Bellezza, ecc. Non firmiamo cambiali in bianco. Proprio per questo abbiamo fatto studiare la cosa da due valide esperte di trasporti come Anna Donati e Maria Rosa Vittadini e renderemo al più presto pubblici i risultati di tali indagini. Sempre attendendo il progetto dettagliato e ribadendo la priorità per la il raddoppio della strada attuale ancora a corsia unica nei due tratti, pericolosissimi, fra Tarquinia e Civitavecchia e in Comune di Capalbio. Grazie dell'ospitalità, cordialmente

Mezzo milione di nuovi abitanti e una volumetria di 35 milioni di metri cubi. Sono numeri da far paura a chiunque abbia buon senso. Sarà il mercato a smentire la pantagruelica tavola imbandita dall’assessore Masseroli. I convitati hanno già la pancia gonfia d’invenduto e di sfitto: una bolla immobiliare che la Regione Lombardia nel 2009 quantifica in 325.000 vani residenziali non occupati per la Provincia di Milano. E che nel capoluogo ambrosiano arriva a oltre il 10 per cento del patrimonio immobiliare.

Ma a fare più paura è la mancanza di un progetto che sappia guidare la traduzione di quei numeri in disegno urbano. Si parla nel Pgt della necessità di una «regia pubblica consapevole». Ma il sovvertimento delle regole del buon costruire che il Piano mette in campo rende la prospettiva impraticabile. Manca una task force in grado di gestire gli attori, armonizzandone l’azione nell’interesse pubblico. Ma mancano ancor prima le idee guida. Se poi dovessimo stare alle simulazioni esemplificative, quanto di civile resiste in questa città appare fortemente minacciato.

Il pubblico cura l’albero, il privato ne gode i frutti: questa in sintesi l’impostazione del Pgt. Ma nella città albero e frutto sono inscindibili. Il frutto non è la rendita, bensì le attività, le relazioni, gli edifici e i luoghi. E la qualità dei luoghi è un bene collettivo: dove si assicurano risorse per il vivere, sicurezza, relazioni civili, bellezza. Dove si radicano le vite e si costituiscono le identità. Una Milano devastata dall’assalto immobiliarista è una città che ci degrada tutti. Che ci abitua al brutto. Che ci umilia con l’interesse di pochi che si impone su quello dei più.

Una Défense in via Stephenson? Non hanno insegnato nulla i centri direzionali che la sera diventano deserti e insicuri? Senza contare il resto: la mobilità indotta, i costi elevati di trasporto, il tempo di vita depredato. Ma si sa: spostare folli volumetrie in quel postaccio segregato dalle infrastrutture significa tenere in vita un morto: le torri ligrestiane in fregio alle autostrade che il mercato, tanto venerato, non ha mai degnato di attenzione.

L’attribuzione di diritti volumetrici alle aree agricole? Farà del male alla campagna e alla città. Per secoli l’agricoltura ha dato vita a un paesaggio agrario che suscitava la meraviglia dei visitatori stranieri. L’agricoltura, aggiornata, deve tornare ad essere un lavoro redditizio per chi la pratica; ma deve anche tornare a prendersi cura del paesaggio, ricevendo dalla collettività un sostegno mirato a questo fine. Non c’è alcun bisogno che le aree del Parco Sud diventino di proprietà pubblica. Quei diritti improvvidamente inventati rovesceranno sul corpo urbano un potenziale edificatorio che ha tutte le caratteristiche di un assalto.

Avremo una città disgregata e disarticolata. Quando invece si tratterebbe di rafforzare il policentrismo urbano (un’idea che era già di Leonardo, quanto proponeva di imperniare l’espansione di Milano su 10 fulcri vitali, uno per ogni settore urbano). Punti di forza di un riassetto policentrico potrebbero essere le aree dismesse e gli scali ferroviari. Ma questo comporta la capacità di sospingervi le attività che fanno città e di infondere bellezza ai luoghi. Una regia, appunto.

Nel modo in cui sono state liquidate le 4.765 osservazioni al Pgt c’è tutta la concezione della democrazia di chi oggi governa Milano e il Paese. Si è persa un’occasione preziosa per costruire cittadinanza: per far crescere la coscienza collettiva su quel bene prezioso che è la città.

Giulia Turri, Carmen D'Elia, Orsolina De Cristofaro: ancora tre donne, le tre componenti del collegio che si appresta a giudicarlo, sul viale del tramonto di Silvio Berlusconi. Se non è una nemesi, come scrive Famiglia Cristiana, di sicuro non è un caso. Questi tre nomi non allungano solo l'elenco di giudici e magistrate - Cristina Di Censo, Ilda Boccassini, Anna Maria Fiorillo, Nicoletta Gandus - che a vario titolo hanno avuto a che fare con le vicende giudiziarie del premier; si aggiungono altresì alla lunga sequenza di donne, eccellenti e comuni, famose e sconosciute, nemiche e amiche del Sultano che ne hanno decretato e scritto la fine. Provocando il crollo non della sua immagine, come dice a Oggi Massimo D'Alema, ma del suo populismo seduttivo, incardinato sulla sua certezza di essere, nel rapporto con l'altra metà del cielo e della terra, irresistibile e invincibile. Non è un caso, ed è, lo diciamo per i dirigenti del centrosinistra che ci sono arrivati con un paio d'anni di ritardo e solo di fronte all'evidenza di una piazza, un caso politico.

Due anni di ritardo non sono pochi: decidono la piega di una vicenda. All'ombra della sua riduzione a episodio minore, materia privata e non politica, questione di cui dall'opposizione era meglio tacere che parlare, il cosiddetto sexgate è diventato caso penale. Certezza di prove, rito immediato, un capo di governo in giudizio per un odioso reato sessuale, delizia per l'informazione planetaria. La democrazia italiana precipitata di nuovo nello scontro fra poteri dello Stato, le fanfare berlusconiane di nuovo a intonare il mantra della persecuzione giudiziaria e a invocare il potere dell'Eletto contro l'arbitrio delle procure. La storia della seconda Repubblica finita nello stesso imbuto da cui - a parti diverse: il Cavaliere allora cavalcava Mani pulite - era cominciata.

Tocca dunque di nuovo ribadire. Non c'è nessuna persecuzione giudiziaria. Non c'è possibilità, in una democrazia costituzionale, di usare il principio di legittimità contro il controllo di legalità. Non c'è unto dal popolo che possa governare a prescindere o contro la legge. Non c'è presidente del consiglio che possa prendere a calci la magistratura. Berlusconi dunque vada in processo o si dimetta, meglio ancora: si dimetta e vada in processo. Terza via non si dà, che non sia o la catastrofe costituzionale, o lo stillicidio dell'arroccamento su una maggioranza di parlamentari schiavizzati dal sultano e dipendenti dalle mosse di Ghedini.

Però. Non è una bella giornata per la politica quella in cui un rito immediato decide le sorti di un ventennio. Adesso il Pd chiede dimissioni ed elezioni: è giusto; è obbligatorio; è tardi. Nel Berlusconi-gate tutto era lampante fin dall'inizio, anche senza la prova del reato. Sarebbe bastato, nell'ormai lontana primavera del 2009, prendere sul serio la parola di alcune donne (e le scoperte di molta informazione). Farne un caso politico, senza aspettare che diventasse un caso penale. Combattere sul fronte del consenso, senza aspettare il permesso dei sondaggi o delle sante alleanze. Non da oggi, non è la magistratura che esorbita: è la politica che manca.

Postilla

Già nel 1994 Berlusconi era ineleggibile, perchè concessionario dello Stato, secono una legge vigente. Fu salvato con un "cavillo", con una serie di decisionisostanzialmente bipartisan. Vedi i dettagli nel libro di Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Editori Laterza, 2003, p. 46 e segg

La decisione è contenuta del decreto Mille Proroghe. Lo stop alle ruspe sarebbe valido anche nelle aree vincolate, in una regione attraversata da strumenti di tutela ambientale e piani paesaggistici che interessano il 60% del territorio

Ci riprovano. Stavolta con un emendamento al “mille proroghe”, che ha ottenuto l’ok in commissione parlamentare. L’obiettivo della maggioranza di governo è lo stesso contenuto nel decreto legge della primavera dell’anno scorso, miseramente naufragato in sede di conversione: fermare sino alla fine dell’anno, al 31 dicembre 2011, gli abbattimenti degli immobili abusivi in Campania. E nella sola Campania. Molte le analogie tra oggi ed allora. A cominciare dal primo firmatario del provvedimento, il senatore Pdl Carlo Sarro, avvocato amministrativista che non disdegna la difesa di persone e imprese colpiti da procedimenti di demolizione. Questa volta però lo stop alle ruspe sarebbe valido anche nelle aree vincolate, in una regione attraversata da strumenti di tutela ambientale e piani paesaggistici che interessano il 60% del proprio territorio: le isole, le aree costiere, le colline, le aree di naturale espansione urbanistica per effetto delle nuove esigenze abitative e della crescita demografica. Ma c’è anche un 10% dei comuni campani sprovvisto di piani urbanistici, dunque in ritardo di 68 anni rispetto alle leggi. Cento comuni dispongono solo dei vecchi piani di fabbricazione, cancellati nel 1982. Norme e prassi preistoriche che hanno favorito il proliferare dell’illegalità.

L’emendamento Sarro funzionerebbe da “salvacondotto” per tutti i casi di mattone selvaggio, a prescindere dalla data di realizzazione dell’abuso. Purché si tratti di prima casa, in uso a persona o famiglia che non dispone di altre risorse abitative, che non rappresenti un pericolo per l’incolumità di chi la occupa. Altrimenti le ruspe potrebbero intervenire comunque. L’emendamento però non riapre i termini del condono, ma secondo il senatore Sarro “consentirà alla Regione di avere il tempo necessario per riscrivere i piani paesaggistici”. E quindi di allentare i vincoli. Comunque si guadagna tempo per sperare in un condono vero e proprio.

Nel decennio 1994 – 2003, quello che riguarda l’ultimo condono, sono state registrate nella sola Campania 76.836 opere abusive. E’ un record nazionale. Qui si concentra circa il 20% delle illegalità edilizie tricolori. In pratica, più di un abuso ogni cento abitanti. In Campania sono circa 65.000 i manufatti interessati da una sentenza penale di condanna passata in giudicato, con la sanzione accessoria dell’abbattimento e del ripristino dello stato dei luoghi. Per iniziare ad eseguire le decisioni della magistratura dopo anni di inerzia, dal 2008 la Procura generale di Napoli ha istituito un pool, coordinato da Ugo Riccardi. Il team di toghe si avvale del lavoro prezioso della sezione Ambiente della Procura di Napoli, guidato da Aldo De Chiara. Poche settimane fa scritte minacciose all’indirizzo di De Chiara e del governatore della Campania Stefano Caldoro sono state ritrovate su un auto parcheggiata a pochi metri di distanza dalla casa del papà di Caldoro, sull’isola d’Ischia. Un’isola interessata da 774 sentenze di demolizione, diverse delle quali già eseguite, tra proteste, tafferugli, e migliaia di persone a chiedere un nuovo condono e ‘la salvezza’ delle case abusive.

Secondo il rapporto Ecomafie 2009 di Legambiente, è la provincia di Salerno a collezionare il maggior numero di casi di abusivismo. Sarebbero 93.000 le aree che risultano libere al catasto, e che in realtà sono occupate da case senza licenze e autorizzazioni. La frenesia edilizia contagia principalmente le due costiere, quella amalfitana e quella cilentana. Ma non si scherza nemmeno nell’agro-nocerino-sarnese, dove negli ultimi vent’anni 27.000 persone sono state denunciate per abusi edilizi, praticamente il 10% della popolazione residente.

Giugliano (Na). La città-sversatoio della Campania, soffocata da tonnellate di ecoballe e da rifiuti depositati ovunque, vanta anche altri tipi di statistiche poco tranquillizzanti: 500 immobili sequestrati, tra case e locali commerciali, e 900 ordinanze di demolizione. Nei primi mesi del 2010 qui sono stati eseguiti otto abbattimenti sul litorale.

Castelvolturno (Ce). E’ interessata da 15mila pratiche di condono (dati del 1985) su circa 50mila unità immobiliari lungo la parte centrale del litorale domizio. Nel 1994 se ne sono aggiunte altre 3000. A Villa Literno il piano messo a punto dalla Procura generale prevederebbe 37 abbattimenti, i primi per circa 500 case abusive censite. E nella vicina Casal di Principe, la capitale di Gomorra, il luogo della cattura del boss latitante Antonio Iovine, le case abusive sarebbero circa 1000.

Costiera sorrentina (Na). Nel 2004 gli uffici tecnici dei paesi leader del turismo campano sono stati travolti da circa 3000 istanze di condono, di cui 600 nella sola Massa Lubrense, dove è nato un agguerrito comitato antiruspe, che l’anno scorso organizzò un convegno col senatore Sarro e il sindaco Leone Gargiulo. Per i condoni 1985 e 1994 le pratiche di condono furono in tutto 4260. Nel 2004 a Sorrento sono state presentate 650 istanze (2750 nei due precedenti condoni), 450 a Vico Equense (3600 in precedenza). Sant’Agnello è stata interessata 388 domande (ma ne pendevano già 1500 circa). A Piano di Sorrento i dati sono i seguenti: 630 pratiche nel 2004, 2000 negli anni precedenti. A Meta, infine, 250 nel 2004 e 2500 le istanze precedenti. Nella vicina area stabiese sarebbero circa 300 le demolizioni da eseguire, circa 150 nella sola Castellammare di Stabia. A Gragnano tra gli edifici a rischio abbattimento c’è pure la sopraelevazione di una villa appartenente a un boss di camorra.

Michele Buonomo. Il presidente campano di Legambiente va giù durissimo. “Questo emendamento è indecente, è uno schiaffo alla lotta contro l’abusivismo che, come testimoniano i morti di Sarno e Ischia, mina la sicurezza del territorio e mette a rischio la vita delle persone. E’ la vittoria dei faccendieri alla Cetto Laqualunque”.

Svendita dei beni culturali due indagati al ministero.

Francesco Erbani

La commode di Antoine-Robert Godreaus è sotto sequestro, custodita dai carabinieri. Lo ha deciso il Gip del Tribunale di Roma su richiesta della Procura che indaga sul tentativo di esportare il preziosissimo mobile del Settecento al centro di un tormentato contenzioso fra i proprietari, che vorrebbero trasferirlo all’estero, e chi sostiene che vada vincolato e debba restare in Italia. Nel procedimento figurano tre indagati: il segretario generale del ministero dei Beni culturali, Roberto Cecchi, la direttrice regionale del Lazio, Federica Galloni, e l’avvocato Giovanni Ciarrocca. Il reato: abuso d’ufficio.

È un braccio di ferro che dura da anni e che investe una questione centrale nella tutela dei beni culturali: si possono esportare opere d’arte che, pur essendo in Italia, non sono opera di artisti italiani? E fino a che punto ci si può spingere nel far circolare pezzi pregiati del patrimonio e nel farne commercio? Sul destino della commode (XVIII secolo, appartenuta a Luigi XV, finissimi intarsi, valore stimato 15 milioni) si sono divisi storici dell’arte e una spaccatura si è aperta nel ministero. Ma l’iniziativa della Procura e la decisione del Gip svelano molti retroscena. Da una serie di intercettazioni telefoniche risultano, sostengono gli inquirenti, contatti fra soggetti privati e funzionari pubblici in coincidenza con la decisione, nel 2009, di rimuovere il vincolo sulla commode, un vincolo imposto nel 1986 e che ne impediva l’esportazione.

La commode, in Italia dagli anni Sessanta, era stata acquistata da un finanziere libanese, Edmond J. Safra. Nel 1999 Safra venne ucciso a Monaco in misteriose circostanze e il mobile passò a una fondazione con sede nel Liechtenstein. Nel 2006 l’avvocato Ciarrocca si rivolse al ministero per conto della proprietà chiedendo di togliere il vincolo. La vicenda si ingarbuglia. Il Comitato tecnico-scientifico del ministero si riunisce per due volte nel 2009. Una prima emette parere contrario all’eliminazione del vincolo. Ma un mese dopo cambia opinione. La Procura ha accertato che a entrambe le riunioni è presente, oltre a Cecchi, l’avvocato Ciarrocca, sebbene il suo nome non figuri nel verbale e violando una prassi consolidata. A ottobre del 2009, contro il parere dell’ufficio legislativo, Cecchi rimuove il vincolo. La commode, però, resta bloccata: la direttrice dell’Ufficio esportazione del ministero, Sandra Gatti, blocca il trasferimento e chiede che venga reintrodotto il vincolo.

L’inchiesta non è conclusa. Secondo indiscrezioni, sembra più grave la posizione della Galloni, che pur sollecitata a imporre il vincolo, non lo ha fatto, di quella di Cecchi, la cui decisione, si sostiene, può rientrare nella sua discrezionalità. La commode è comunque sotto sequestro e la Procura ha ancora tempo per far luce su tutta la vicenda.

Il dovere di tutelare i nostri capolavori

Salvatore Settis

Nel naufragio della tutela a cui assistiamo, le incaute esportazioni di oggetti d’arte con lo specioso argomento che non furono prodotti da artisti italiani sono un capitolo non marginale. Il Codice (2004), come già la legge Bottai del 1939, inserisce fra i beni culturali vincolabili «le cose mobili e immobili che presentano interesse artistico particolarmente importante» di proprietà privata. È una norma che si fonda sui caratteri intrinseci delle opere da tutelare, a prescindere dalla razza o dal sangue di chi le ha prodotte: un Mantegna e un van Dyck sono protetti secondo un identico livello di tutela.

Secondo qualche improvvisato "esperto", un’opera di artista straniero non farebbe parte del patrimonio artistico italiano (in particolare se è stata in Italia "da poco tempo"), e sarebbe esportabile e commerciabile secondo la normativa vigente sulla circolazione dei beni nel territorio dell’Unione Europea. Ma nessuna norma lega la validità del vincolo all’etnia degli artisti né ai tempi di permanenza in Italia. Ancor più incauto è il richiamo alla libera circolazione dei beni in Europa. Essa non si applica alle opere d’arte, che secondo le convenzioni Unidroit e Unesco possono circolare solo in conformità alla legislazione del Paese in cui si trovano. La circolazione dei beni di pertinenza italiana, anzi, non può includere il patrimonio artistico senza violare l´art. 9 della Costituzione.

I tentativi di togliere il vincolo alle opere di artisti stranieri possono avere una sola ragione: "aprire un varco" nelle maglie della tutela. Se prevalesse la logica del "va’ fuori d’Italia, va’ fuori o stranier", continuerebbe l’emorragia di preziosi arazzi di manifattura fiamminga, ma spesso con committenza italiana. Di questa pulizia etnica resterebbero vittime i van Dyck di Genova, i Rubens di Mantova e di Roma, l´Innocenzo X o il Francesco I d´Este di Velázquez, perfino i disegni di Borromini, ticinese di nascita. Ma l’arte non ha patria, o meglio ha per patria la tutela. Contro l´interessato provincialismo di chi vuol ridurre la storia dell’arte entro le strettoie di etnie in conflitto, riaffermare le ragioni della tutela è una battaglia di civiltà. Fa parte della lotta per la legalità costituzionale che sta impegnando il Paese.

Lungo i trentadue km di percorso e attraverso i sei svincoli automatizzati viaggeranno settantamila veicoli al giorno. Non arriveranno invece, almeno per ora, le due fermate della metropolitana promesse, la «verde» a Vimercate e la «gialla» a Paullo. Al via il progetto definitivo della Tangenziale Esterna Milano (Tem), una delle «tre sorelle» (insieme con la Brebemi e la Pedemontana) incaricata di riportare il territorio lombardo a livelli quantomeno europei in fatto di autostrade e viabilità. Entro la fine di quest’anno l’avvio dei lavori, entro l’estate il via libera del Cipe.

Fine cantieri in calendario invece per il fatidico 2015. «Un’opera fondamentale» , secondo l’assessore ai Trasporti della Lombardia Raffaele Cattaneo. «Che permetterà di drenare le arterie ostruite della tangenziali milanesi che ormai, nelle tratte più cariche, sopportano un traffico pari a circa 160.000 veicoli al giorno» . Millesettecento milioni di euro d’investimento (tutti in project financing, a carico cioè dei privati), per attraversare (pagando un pedaggio ancora da definire) 34 comuni e tre province. E nel 2013 — assicura l’assessore— aprirà il primo spezzone, quello a ridosso dell’intersezione con la Brebemi.

Soddisfatto anche il governatore Roberto Formigoni: «Entro il termine di questa legislatura contiamo di completare il grande piano infrastrutturale della Lombardia, colmando il gap con gli altri territori europei» . Niente metropolitane, invece. I milleduecento milioni (60%dal governo, 40%dal territorio) necessari per prolungare le due linee fino all’arco della futura tangenziale non sono mai arrivati. Dice Matteo Mauri, capogruppo del Pd in Provincia: «La soluzione della questione traffico e smog deve passare per forza dal potenziamento del trasporto pubblico dell’intera area metropolitana. Per questa ragione i prolungamenti delle attuali linee metropolitane sono essenziali. Il governo però deve fare la sua parte perché ai comuni, già dissanguati dai tagli imposti da Tremonti, non si possono chiedere sforzi impossibili» .

Il presidente della Provincia Guido Podestà guarda invece già oltre. A ovest. «L’obiettivo è di raddoppiare anche il tracciato dell’altra tangenziale e di chiudere a sud l’anello» . E le metropolitane? Per Palazzo Isimbardi la soluzione c’è e si chiama tassa di scopo: «Un pedaggio minimo — spiega Podestà — sulle tangenziali già esistenti da riservare unicamente ai prolungamenti delle linee all’esterno del capoluogo» . «Ci volete asfaltare il futuro!» . Cartelli, slogan e tanti fischi nel presidio ambientalista di ieri mattina davanti al Pirellone. Per Legambiente, Tem farà rima con smog. Dice Damiano Di Simine, presidente lombardo dell’associazione: «Le istituzioni, a parole, invocano misure strutturali contro l’inquinamento e le polveri sottili, mentre con i fatti vogliono costruire una nuova autostrada che sacrificherà almeno 600 ettari di agricoltura nel Parco Sud di Milano» .

postilla

Fosse solo lo smog il problema, almeno saremmo in una logica, diciamo, di “perequazione” al ribasso fra il soffocato egoista capoluogo e la regione metropolitana già mica tanto felix. E invece il previsto evaporare delle linee di trasporto pubblico così fortemente richieste dal territorio indica la solita, troglodita e squallida strategia di sviluppo urbanistico a sprawl che imperversa. Pare già di vederli quelli di cricche e cricchette ben immanicate, che tracciano le linee di qualche capannonata sull’orizzonte degli svincoli o delle ineluttabili bretelle e bretelline.

Per chi si prende la briga anche solo di dare un’occhiata alle tavole sul sito TEEM salta ad esempio all’occhio una miriade di occasioni apparentemente perse, via via buttate nelle trattative puntuali di un’opera nata fuori dal territorio e da qualunque logica di piano, per quelli che storicamente “sanno pianificarsi benissimo da soli”. Le linee di trasporto pubblico, come ha capito ad esempio anche l’amministrazione Obama, devono crescere di pari passo con strategie coordinate di insediamenti, dette Transit-Oriented-Development (TOD) ovvero tanto per iniziare nodi di densificazione locale in grado di sfruttare le sinergie fra investimento immobliare e massima accessibilità intermodale. E qui? Nulla, neppure dove la metropolitana già esiste salvo qualche piccolo modesto e scoordinato “ambito di trasformazione” dei PgT comunali. Macroscopico il vuoto di idee attorno allo svincolo di Gessate/Gorgonzola, dove parrebbero esserci tutti i presupposti per una cosa del genere, e pure importante. Niente da fare, quel posto assomiglierà semmai a uno dei futuri desolati svincoli dell’Autostrada della Lomellina: qualche gatto morto, le auto che vanno troppo forte ma si sa .. è il progresso! Che vergogna (f.b.)

È tempo di liberarsi dello spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte della stessa opposizione. È questa l´indicazione (la lezione?) che viene dai molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del "risveglio della società civile" o di qualche partito "a vocazione maggioritaria". Non sono fiammate destinate a spegnersi, esasperazioni d´un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non sono frammenti di società, grumi di interesse. È un movimento costante che accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare un senso. È l´opposto delle maggioranze "silenziose" che si consegnano, passive, in mani altrui.

Donne, lavoratori, studenti, mondo della cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il suo fondamento nell´accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere critico. Dignità d´ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente.

Proprio da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l´hanno promossa, le donne che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella cultura, dove l´intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica. È qui la radice dello straordinario successo di domenica, della consapevolezza d´essere di fronte ad una opportunità che non poteva essere perduta e che ha spinto tanti uomini ad essere presenti e tante donne a non cedere alla tentazione di rifiutarli, perché non s´era di fronte ad una generica "solidarietà" o alla pretesa di impadronirsi della parola altrui.

Chi è rimasto prigioniero di se stesso, delle proprie ossessioni, è il Presidente dal consiglio, al quale era offerta una straordinaria opportunità per rimanere silenzioso, una volta tanto rispettoso degli altri. E invece altro non ha saputo trovare che le parole logore della polemica aggressiva, testimonianza eloquente della sua incapacità di comprendere i fenomeni sociali fuori di una rozza logica del potere. La vera faziosità è quella sua e di chi lo circonda, privi come sono di qualsiasi strumento culturale e quindi sempre più votati al rifiuto d´ogni dimensione argomentativa. Dignità, per loro, è parola senza senso, parte d´una lingua che sono incapaci di parlare.

Nelle diverse manifestazioni, invece, si coglie la sintonia con le dinamiche che segnano questi anni. Le grandi ricerche di Luis Dumont ci hanno aiutato nel cogliere il passaggio dall´homo hierarchicus all´homo aequalis. Ma nei tempi recenti quel cammino si è allungato, ha visto comparire i tratti l´homo dignus, e proprio la dignità segna sempre più esplicitamente l´inizio del millennio, costituisce il punto d´avvio, il fondamento di costituzioni e carte dei diritti. Sul terreno dei principi questo è il vero lascito del costituzionalismo dell´ultima fase. Se la "rivoluzione dell´eguaglianza" era stato il connotato della modernità, la "rivoluzione della dignità" segna un tempo nuovo, è figlia del Novecento tragico, apre l´era della "costituzionalizzazione" della persona e dei nuovi rapporti che la legano all´innovazione scientifica e tecnologica.

"Per vivere – ci ha ricordato Primo Levi – occorre un´identità, ossia una dignità". Solo da qui, dalla radice dell´umanità, può riprendere il cammino dei diritti. E proprio la forza unificante della dignità ci allontana da una costruzione dell´identità oppositiva, escludente, violenta, che ha giustamente spinto Francesco Remotti a scrivere contro quell´"ossessione identitaria" che non solo nel nostro paese sta avvelenando la convivenza civile. La dignità sociale, quella di cui ci parla l´articolo 3 della Costituzione, è invece costruzione di legami sociali, è anche la dignità dell´altro, dunque qualcosa che unifica e non divide, e che così produce rispetto e eguaglianza.

Le manifestazioni di questi tempi, e quella di domenica con evidenza particolare, rivendicano il diritto a "un´esistenza libera e dignitosa". Sono le parole che leggiamo nell´articolo 36 della Costituzione che descrivono una condizione umana e sottolineano il nesso che lega inscindibilmente libertà e dignità. Più avanti, quando l´articolo 41 esclude che l´iniziativa economica privata possa svolgersi in contrasto con sicurezza, libertà e dignità umana, di nuovo questi due principi appaiono inscindibili, e si può comprendere, allora, quale lacerazione provocherebbe nel tessuto costituzionale la minacciata riforma di quell´articolo, un vero "sbrego", come amava definire le sue idee di riforma costituzionale la franchezza cinica di Gianfranco Miglio. Intorno alla dignità, dunque, si delinea un nuovo rapporto tra principi, che vede la dignità dialogare con inedita efficacia con libertà e eguaglianza. Questa, peraltro, è la via segnata dalla Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea. Qui, dopo aver sottolineato nel Preambolo che l´Unione "pone la persona al centro della sua azione", la Carta si apre con una affermazione inequivocabile: "La dignità umana è inviolabile".

Proprio questo quadro di principi costituisce il contesto all´interno del quale i diversi movimenti si sono concretamente mossi, individuando così quella che deve essere considerata la vera agenda politica, la piattaforma comune delle forze di opposizione. Diritti delle persone, lavoro, conoscenza non si presentano come astrazioni. Ciascuna di quelle parole rinvia non solo a bisogni concreti, ma individua ormai pure forze davvero " politiche", che si presentano con evidenza sempre maggiore come soggetti attivi perché quei bisogni possano essere soddisfatti.

Viene così rovesciato le schema dell´antipolitica, e si pone il problema della capacità dei diversi gruppi di opposizione di trovare legami veri con questa realtà. I segnali venuti finora sono deboli, troppo spesso sopraffatti dalle eterne logiche oligarchiche, dagli egoismi identitari di ciascun partito o gruppo politico. Si lamenta che ai problemi reali non si dia il giusto risalto. Ma chi è responsabile di tutto questo? Non quelli che con quei problemi si sono identificati, sì che oggi la responsabilità di farli entrare nel modo corretto nell´agenda politica ufficiale dipende dalla capacità dei partiti di trovare il giusto rapporto con i movimenti presenti nella società, di essere per loro interlocutori credibili.

Torna così la questione iniziale, perché proprio questo è il cammino da seguire per abbandonare ogni spirito minoritario e ridare vigore ad una vera politica di opposizione. Le manifestazioni di questi mesi, infatti, dovrebbero essere valutate partendo anche da un dato che tutte le analisi serie sottolineano continuamente, e cioè che Berlusconi non ha il consenso della maggioranza degli italiani, non avendo mai superato il 37%. Il bagno di realtà di domenica, che ne accompagna tanti altri, dovrebbe indurre a volgere lo sguardo verso la vera maggioranza, perché solo così un vero cambiamento è possibile.

Ma si può restaurare il Colosseo senza i restauratori? Il plauso per l’accordo fra Diego Della Valle, il ministero dei Beni culturali e il Comune di Roma che rimetterà in sesto il monumento, cela il profondo malcontento dell’Ari, l’associazione che raggruppa i principali restauratori italiani. Che denuncia: gli interventi sull’Anfiteatro Flavio saranno appannaggio di grandi e medie imprese edili e non di chi il restauro ha studiato e sperimentato in tanti anni.

L’Ari si è rivolto al Tar del Lazio per una vicenda analoga, il lavoro sul tempio di Antonino e Faustina nel Foro romano, ma il ricorso è stato rigettato e ora si aspetta la sentenza del Consiglio di Stato. Ai giudici i restauratori chiedono di annullare i bandi di gara emessi da Roberto Cecchi, segretario generale del ministero ma anche commissario straordinario per l’area archeologica romana.

Il punto è delicatissimo e le scelte sul Colosseo, temono i restauratori, rischiano di diffondere una pratica che di fatto li esclude dagli interventi su un patrimonio architettonico che va dall’antichità classica agli edifici novecenteschi. Un altro duro colpo a una categoria in fortissima sofferenza e per la quale l’Italia ha menato vanto nei decenni scorsi. E che proprio a Roma, dove questa sofferenza è più acuta, ha dato ottime prove negli interventi degli anni Ottanta sulle colonne Traiana e Antonina, per esempio. Ma il clima ora sta cambiando in peggio.

Per quattro anni l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, fondato da Cesare Brandi nel 1938, è rimasto senza scuola, e da lì non sono usciti diplomati. I fondi a disposizione sono diminuiti drasticamente. E un anno fa è arrivato anche lo sfratto dalla storica sede di via San Francesco di Paola a Roma.

«Dei 7 milioni di euro, sui 25 totali, destinati ai lavori per i prospetti del Colosseo solo meno di un decimo verrà eseguito da restauratori», sostengono all´Ari. Ma allora chi pulirà le superfici decorate del monumento? «Nel bando emesso nell’agosto scorso per la ricerca degli sponsor si legge che più di nove decimi del lavoro sulle decorazioni verrà realizzato da operai edili, non qualificati come restauratori. E lo stesso accadrà per le parti interne dell’edificio».

Secondo i restauratori esistono una serie di interventi su un monumento che vanno certamente affidati a imprese edili, in particolare tutti quelli che incidono sulla struttura o che investono la statica dell’edificio. Ma per le decorazioni esterne, i capitelli e le trabeazioni, per esempio, è necessaria l’esperienza di chi ha specificamente studiato come si rimuove accuratamente il terriccio o il guano, come si puliscono incrostazioni o concrezioni con acqua demineralizzata, come si strappa la vegetazione o come si fanno impacchi per togliere il calcare dai marmi.

Questi lavori sono previsti per il Colosseo, ma, così com’è accaduto per il tempio di Antonino e Faustina, sono assegnati quasi esclusivamente alle imprese edili. Sono considerate operazioni generiche, anche se, aggiungono all’Ari, i costi indicati sono quelli ricavati dal prezziario della stessa Ari. Quindi lo Stato non risparmia niente, scansa soltanto gli specialisti e si affida a manodopera più generica. Mettendo in ginocchio una categoria già molto penalizzata. Soldi ce ne sono sempre meno, ma quei pochi che vanno per restauri sfuggono alle ditte di restauratori: stando ai dati dell´Osservatorio sui lavori pubblici, su 644 restauri compiuti nel 2009 appena 26 li hanno realizzati in prevalenza i restauratori, 618 le imprese edili. I restauratori si sono anche rivolti ai tre istituti di formazione, l’Iscr, l’Opificio per le pietre dure di Firenze e la Scuola di Venaria Reale. Sui quei banchi hanno imparato metodologie e pratiche di lavoro e ci tenevano a sapere se questo genere di interventi è proprio dei restauratori o se lo possono attuare anche operai edili. Gisella Capponi, direttrice dell’Iscr, non ha voluto esprimere valutazioni perché è in corso un giudizio amministrativo, ha detto.

L’Opificio fiorentino non ha neanche risposto, mentre la direttrice di Venaria, Lidia Rissotto, ha scritto un articolo in cui si chiede, per paradosso, se valga la pena «inseguire l’alta formazione del restauratore» e se ha senso far nascere l’elenco ufficiale dei restauratori se si deve poi sostenere che il Colosseo non è decorato e quindi può essere affidato alle cure di personale edile non specializzato.

È sempre un buon segno quando nelle manifestazioni delle donne ci sono molti uomini. Sarà una svolta se dal palco delle cento città si ascolteranno le parole dei maschi, loro sì umiliati dalle convulsioni del bungabunga. Sarebbe una rivoluzione se in questa giornata di mobilitazione civile, i politici della sinistra ammettessero pubblicamente sia la loro insipienza di fronte all'altro sesso, sia l'uso strumentale della rabbia femminile contro l'indecente presidente del consiglio.

Le donne non hanno mai smesso di parlare, anche quando la cultura e la politica della sinistra non avevano voglia di ascoltarle, né capivano la rivoluzione di quel pifferaio che raccontava la storia del supermercato in cui tutti sarebbero stati liberi consumatori di sogni gentilmente confezionati dalla televisione. La sconfitta culturale annunciava quella politica, prenderne atto significa non mettere a Berlusconi la maschera dell'alieno e non considerare la piazza di oggi una rosa senza spine.

Quel che si discute da due anni, dal caso-Noemi al caso-Ruby, non è il privato di un eccentrico presidente del consiglio, ma la sostanza culturale di una politica che inventa la donna-tangente e ostenta l'esibizione del mercato tra sesso e potere fino a farne una bussola per la selezione della classe dirigente e di governo. Il centro della scena è occupato dalla relazione incresciosa tra le escort e il capo del governo, ma nel retropalco agisce la relazione pericolosa tra uomini e donne nella vita quotidiana, dentro le mura domestiche così amorevolmente minacciose o nei luoghi di lavoro dove le gerarchie e i salari già bastano a descrivere discriminazione sessuale e handicap sociale.

Berlusconi è un pessimo esempio di maschio italiano, ma molti, e trasversalmente, lo invidiano e lo imitano. Gli uomini hanno scritto sul manifesto in che cosa sentono di assomigliare all'anziano che paga le minorenni, un esercizio intellettuale adeguato al bisogno di uscire dal berlusconismo senza paternalismi, né vecchie bandiere.

Non si tratta di mettere sul podio chi usa la faccia anziché il fondoschiena, chi lavora dentro e fuori casa anziché sulla strada o nei prive del miliardario. Riposino in pace le mutande di Ferrara che contro il corpo delle donne ha ingaggiato una crociata, e stia tranquillo il solidale Bersani che applaude alle piazze di oggi pesandole sulla bilancia della battaglia elettorale di domani: non ci sono vittime da salvare, né eroine da esaltare. Le donne italiane, sia quelle che considerano la mente una zona erogena, sia quelle che ritengono di essere sedute sulla propria fortuna sono tutte di robusta costituzione democratica. Nonostante vivano in un paese umiliato e depresso lo hanno sempre riscattato dalle folate reazionarie con ricostituenti laici e liberatori. Scegliendo il divorzio quando il partito comunista lo temeva, affermando il loro esclusivo diritto alla scelta della maternità quando la Dc voleva mortificarlo. E ora scendendo in piazza, nelle piccole e grandi città, per urlare il loro dies irae contro il predatore di Arcore che ha scambiato le donne per esemplari di una selvaggina in dotazione alla sua tirannide.

"Chiediamo insieme le dimissioni di Berlusconi". Con questo slogan le donne rompono il silenzio. E lo fanno in massa a Milano come a New York. Invitano gli uomini a schierarsi con loro, perché tutte e tutti sono stanchi dei continui attacchi alla Costituzione, alla giustizia, alla libera informazione e alla dignità delle donne e degli uomini. Stanchi degli abusi, dell´illegalità, del servilismo che contraddistinguono questa maggioranza. Soprattutto, le donne che manifestano dissipano ogni dubbio sull´insidiosa distinzione tra "donne reprobe" e "donne serie" che è stata da più parti ripetuta in queste settimane di protesta contro gli abusi contestati al premier. Questa distinzione è sbagliata. È il segno di una reale impotenza della cultura dell´opposizione etico-politica al regime del sultanato. È figlia dei paradossi che hanno segnato il successo egemonico di Berlusconi, costruito a partire dagli anni ´70 su un´interpretazione estrema, ma non opposta, della cultura individualista nell´età dei diritti. Mettere in moto una contestazione politica efficace quando l´oggetto è l´uso dei diritti è difficile ed insidioso. Su questa difficoltà e su questa insidia riposa tanto il successo di Berlusconi quanto la debolezza dell´opposizione. Vediamo di mettere in luce due di questi paradossi, quello legato alla morale trasgressiva e quello legato alla libertà.

Per tradizione, la cultura dell´opposizione di sinistra è stata cultura della trasgressione. Lo è stata per necessità, poiché la lotta per i diritti demolisce i sistemi gerarchici di potere. Lo è stata per il carattere peculiare della libertà, che alimenta il pensiero critico rispetto all´opinione dominante sui costumi e sui valori. In questo senso la cultura d´opposizione è stata ed è trasgressiva. In aggiunta, vi è l´aspetto generazionale poiché i movimenti per i diritti civili sono anche portatori di svecchiamento culturale e politico. E poi, questi movimenti si traducono in richiesta di eguaglianza di rispetto e quindi riscrivono i ruoli famigliari e sociali: giovani e donne sono stati e sono alleati naturali nelle lotte per la libertà. Negli anni del dopoguerra alla cultura morale dell´anti-autoritarismo è corrisposto un modello di vita libero e trasgressivo: le relazioni sentimentali e sessuali nel mondo variegato della sinistra, istituzionale o di movimento, erano tutto fuorchè tradizionali. La libertá sessuale non è stata soltanto una conseguenza possibile di diritti conclamati, ma prima ancora un modo di vivere l´intimitá con l´altro e con la sessualitá. Insomma, la cultura di chi ha lottato per i diritti civili è stata una cultura della trasgressione e dell´opposizione insieme.

Il paradosso dell´Italia di oggi è che il premier occupa lo spazio della trasgressione, costringendo l´opposizione nel ruolo impossibile del conservatorismo. Ecco perché la distinzione tra donne brave e donne reprobe è segno di un atteggiamento che incarta e sconvolge la nostra cultura liberale e democratica. Si tratta di una distinzione che non dovremmo fare, non soltanto per non cadere nella trappola tesa dal premier. C´è una ragione ulteriore: difendere i diritti, volere i diritti significa necessariamente credere che ciascuno sia autonomo e responsabile delle proprie scelte, piacevoli o spiacevoli che siano, e che di quelle scelte non debba rendere conto a nessuno, se non alla legge se e quando viola i diritti altrui (qui sta la vera ragione della critica ai comportamenti del premier). Ora, che una persona risponda o no alla propria coscienza è un fatto che alla cultura dei diritti non interessa direttamente, anche se i liberali si augurano che ciascuno sia in grado di avere una coscienza individuale che faccia da sentinella (e magari impostano la vita famigliare ed educativa perché questa coscienza venga formata). Dopo di che, come ciascuno o ciascuna di noi usa quei diritti di libertá sono fatti che non riguardano nessuno. E se l´opinione pubblica critica i nostri comportamenti e le nostre abitudini sessuali, noi siamo legittimati a reagire con una contro-opinione.

Ma la distinzione tra donne reprobe e donne brave scompagina proprio questa cultura dei diritti poiché sembra dire che le donne devono essere rispettate nella misura in cui esse usano "bene" i loro diritti. Ovviamente, questo discorso non riguarda le minori: poiché la responsabilità giuridica è una componente essenziale del godimento dei diritti ed è legata all´età adulta stabilita dalla legge. Ma nel caso di persone adulte, di donne adulte, l´uso che esse fanno della loro vita non è un fatto che può diventare oggetto di critica da parte dell´opinione pubblica e politica. La cultura dei diritti non ha nulla a che fare con la gogna nè con la distinzione tra donne brave e donne reprobe.

I paradossi che questo presidente del Consiglio provoca sono quindi dei più spinosi, perché la sua mania (che è un problema serissimo, non perché disturba la morale ordinaria, ma per l´alta funzione che egli esercita) è il frutto estremo del rovesciamento del giudizio pubblico in giudizio privato. Il paradosso è che il trasgressivismo malato di chi ci governa induce i critici a flirtare con la tentazione di discriminare le donne in ragione dei loro comportamenti. Le centinaia di giovani donne che hanno preso regali e soldi dal presidente non sono il bersaglio: non si devono mettere alcune donne contro altre, anche perché è proprio questo l´esito studiato della politica del leader.

È certo difficile che si crei empatia tra le donne che lavorano e le donne che mettono il loro corpo a servizio; ma la sorgente della difficoltà va individuata con correttezza. La nostra attenzione critica dovrebbe essere rivolta non alle donne per la loro condotta, ma alle politiche dei governi che la destra ha in questi anni messo in moto con l´obiettivo esplicito di indebolire i diritti associati al lavoro e di dissociare infine il lavoro dalla dignità per identificarlo con un pugno di soldi a qualunque costo o addirittura con il dono (e questo non vale solo per le donne che vanno ad Arcore come la vicenda Fiat insegna). Questa dequalificazione estrema del valore delle persone deve offendere e fare reagire. Essa è il vero problema, in quanto abbassa le aspettative delle donne e degli uomini e, quel che è peggio, confonde il giudizio sulle responsabilità e le colpe. L´obiettivo critico non sono le donne giovani e belle che frequentano le case del premier. L´obietto è il premier, la sua illegalità e le politiche sociali del suo governo. L´obiettivo è il messaggio che trasmette da decenni ogni giorno. A tutto questo bisogna reagire, insieme, e dire basta.

Non abbiamo il petrolio, noi. Non abbiamo il gas, non abbiamo l'oro, non abbiamo i diamanti, non abbiamo le terre rare, non abbiamo le sconfinate distese di campi di grano del Canada o i pascoli della pampa argentina. Abbiamo una sola, grande, persino immeritata ricchezza: la bellezza dei nostri paesaggi, la bellezza dei nostri siti archeologici, la bellezza dei nostri borghi medievali, la bellezza delle nostre residenze patrizie, la bellezza dei nostri musei, la bellezza delle nostre città d'arte.

E ce ne vantiamo. Ce ne vantiamo sempre. Fino a fare addirittura la parte dei «ganassa» («Abbiamo il 40% dei capolavori planetari!», «No, il 50%!», «No, il 60%!») giocando a chi la spara più grossa. Primato che, per quanto ne sappiamo, spetta all'unica «rossa» che piace al Cavaliere, la ministra del Turismo Michela Vittoria Brambilla. Che nel portale in cinese con il logo «Ministro del Turismo» lancia un messaggio al popolo dell'Impero di mezzo e sostiene non solo che «le grandi marche di moda sono italiane» e «tutti i tifosi del mondo seguono il campionato di serie A italiano» ma anche che l'Italia «possiede il 70% del patrimonio culturale mondiale». Bum! E il Machu Picchu, i templi di Angkor, le piramidi, Santa Sofia e il Topkapi a Istanbul, il Prado, San Pietroburgo, la Torre di Londra, la cittadella di Atene, i castelli della Loira, Granada, la città proibita di Pechino, il Louvre, la thailandese Sukothai, il Taj Mahal, il Cremlino, l'esercito di terracotta di Xi'an, Petra, Sana'a e tutto il resto del pianeta? Si spartiscono gli avanzi.

Un'intervista di Marcello di Falco all'allora ministro del Turismo Egidio Ariosto sul Giornale ci ricorda che nel maggio 1979 l'Italia era «il secondo Paese del mondo per attrezzatura ricettiva, il primo per presenze estere, il primo per incassi turistici, il primo per saldo valutario». Tre decenni più tardi siamo scivolati al quinto posto. E la classifica per la «competitività» turistica, che tiene conto di tante cose che richiamano, scoraggiano o irritano i visitatori (non aiutano ad esempio le notizie su «1 spaghetto aragosta: 366 euro» al ristorante La Scogliera alla Maddalena) ci vede addirittura al ventottesimo posto.

Certo, è verissimo che abbiamo la fortuna di avere ereditato dai nostri nonni più siti Unesco di tutti. Ne abbiamo 45 contro 42 della Spagna, 40 della Cina, 35 della Francia, 33 della Germania, 28 del Regno Unito, 21 degli Stati Uniti. Ma questa è un'aggravante, che inchioda i nostri governanti, del passato e del presente, alle loro responsabilità. Al loro fallimento. Spiega infatti un dossier del dicembre 2010 di Pwc (Pricewaterhouse Coopers, la più grossa società di analisi del mondo per volume d'affari) che lo sfruttamento turistico dei nostri siti Unesco è nettamente inferiore a quello degli altri. Fatta 100 l'Italia, la Cina sta a 270, la Francia a 190, la Germania a 184, il Regno Unito a 180, il Brasile e la Spagna a 130. Umiliante.

E suicida. Non abbiamo molte altre carte da giocare. Ce lo dicono i dati del Fondo monetario internazionale e il confronto con le nuove grandi potenze. Dal 1994 a oggi, in quella che per noi è stata la Seconda Repubblica, mentre il nostro Pil cresceva di 1,9 volte in valuta corrente, inflazione compresa, quello brasiliano si moltiplicava per 3,6 volte, quello indiano per 4,9 volte, quello cinese addirittura di 11,5 volte (...).

Alla fine di gennaio del 2011 Giampaolo Visetti scriveva sulla Repubblica che «sarà il turista cinese ad alimentare la crescita dei viaggi a lungo raggio ed entro il 2015 diventerà il padrone assoluto dei pacchetti organizzati e dello shopping di lusso in Europa. Il rapporto annuale dell'Accademia cinese del turismo prevede che nell'anno in corso trascorreranno le ferie all'estero 57 milioni di cinesi (...) e il Piano turistico nazionale calcola che entro il 2015 si recheranno all'estero tra i 100 e i 130 milioni di persone, arrivando a spendere oltre 110 miliardi di euro» (...).

Peccato che non ci capiscano. L'Italia, agli occhi di Pechino, rappresenta un incomprensibile caso a sé. Dieci anni fa era la meta preferita dei pionieri dei viaggi in Europa. I cinesi amano il mito dello «stile di vita», il clima mediterraneo, la passata potenza imperiale e culturale, la moda e il lusso, la natura, la varietà gastronomica che esalta la qualità dei vini. «Eravate il punto di partenza ideale» dice Zhu Shanzhong, vicecapo dell'Ufficio nazionale del turismo cinese «per un tour europeo. Poi ci avete un pochino trascurati». Al punto che «la promozione turistica dell'Italia in Cina è inferiore a quella dei Paesi Bassi». Una follia.

Ma per capire la fondatezza dell'accusa basta farsi un giro sul portale turistico aperto dal governo italiano in cinese, www.yidalinihao.com. Costato un occhio della testa e messo su con una sciatteria suicida che grida vendetta. Per cominciare, le quattro grandi foto di copertina che riassumono l'Italia mostrano una Ferrari, una moto Ducati, un pezzo di parmigiano e un prosciutto di Parma. In mezzo: Bologna. Con tanto di freccette sulla mappa che ricordano la sua centralità rispetto a Roma, Milano, Venezia e Firenze. Oddio: hanno sbagliato capitale? No, come ha scoperto il Fatto Quotidiano, è solo un copia-incolla dal sito cinese della Regione Emilia-Romagna aimiliyaluomaniehuanyingni.com (...).

Ma ancora più stupefacenti sono i video che illustrano le nostre venti regioni. Dove non solo non c'è un testo in cinese (forse costava troppo: i milioni di euro erano finiti...) ma ogni filmato è accompagnato da un sottofondo musicale. Clicchiamo il Veneto? Ecco il ponte di Rialto, le gondole, il Canal Grande, le maschere, i vetrai di Murano... E la musica? Sarà di Antonio Vivaldi o Baldassarre Galuppi, Tomaso Albinoni o Benedetto Marcello, Pier Francesco Cavalli o Giuseppe Tartini? Sono talmente tanti i grandi compositori veneziani del passato... Macché: la Carmen del francese Georges Bizet rivista dal russo Alfred Schnittke! La musica dell'Umbria? Del polacco Fryderyk Chopin. Quella della Campania? Del norvegese Edvard Grieg. Quella del Lazio? Dell'austriaco Wolfgang Amadeus Mozart. Quella dell'Abruzzo? Dell'inglese Edward Elgar. E via così: tutti ma proprio tutti i video che dovrebbero far conoscere l'Italia ai cinesi, fatta eccezione per quello della Basilicata dove la colonna sonora è del toscano Luigi Boccherini, sono accompagnati dalle note di musicisti stranieri. Amatissimi, ma stranieri (...).

Il guaio è che da molto tempo immaginiamo che tutto ci sia dovuto. Che gli stranieri, per mangiar bene, bere bene, dormire bene, fare dei bei bagni e vedere delle belle città, non abbiano altra scelta che venire qui, da noi. Che cortesemente acconsentiamo a intascare i loro soldi, quanti più è possibile, concedendo loro qualche spizzico del dolce vivere italiano. Peggio: siamo convinti che questi nostri tesori siano lì, in cassaforte. Destinati a risplendere per l'eternità senza avere alcun bisogno di protezione. Di cura. Di amore. Non è così (...).

Spiega uno studio dell'Associazione europea cementieri che l'Austria nel 2004 ha prodotto 4 milioni di tonnellate di cemento, il Benelux 11, la Gran Bretagna 12, la Francia 21 e mezzo, la Germania 33 e mezzo, la Scandinavia meno di 36 e noi 46,05, battuti di un soffio solo dalla Spagna. Solo che la Spagna ha 90,6 abitanti per chilometro quadrato, noi 199,3: più del doppio. Insomma, di territorio ne abbiamo già consumato troppo (...).

Pochi mesi prima di morire, rispondendo a un lettore che gli chiedeva aiuto per salvare la riviera ligure, Indro Montanelli maledì sul Corriere questo nostro Paese che tanto aveva amato. E scrisse che le ruspe sono sempre in agguato per «dare sfogo all'unica vera vocazione di questo nostro popolo di cialtroni che non vedono di là dal proprio naso: l'autodistruzione» (...).

Diamo qualche flash sullo spreco. Le gallerie della Tate Britain hanno «fatturato» nell'ultimo anno fiscale 76,2 milioni di euro, poco meno degli 82 milioni entrati nelle casse con i biglietti di tutti i musei e i siti archeologici statali italiani messi insieme. Il merchandising ha reso nel 2009 al Metropolitan Museum quasi 43 milioni di euro, ben oltre gli incassi analoghi di tutti i musei e i siti archeologici della penisola, fermi a 39,7. Ristorante, parcheggio e auditorium dello stesso museo newyorkese hanno prodotto ricavi per 19,7 milioni di euro, tre in più di tutte le entrate di Pompei, il nostro gioiello archeologico. Dove i «servizi aggiuntivi» sono stati pari a 46 centesimi per visitatore: un ottavo che agli Uffizi, un quindicesimo che alla Tate, un ventisettesimo che al Metropolitan, un quarantesimo che al MoMa, il Museum of Modern Art. Un disastro. Per non dire di come custodiamo le nostre ricchezze (...).

Dice l'Ufficio delle Nazioni unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine di Vienna che quello delle opere d'arte trafugate è il terzo business mondiale del crimine dopo i traffici di droga e di armi. Eppure tra i 69.000 detenuti nelle carceri italiane all'inizio del 2011 neanche uno era in cella per avere scavato una tomba etrusca, rubato un quadro o trattato la vendita di un vaso antico a un ricettatore straniero. Se sei ricercato per «tentato furto di una mucca», come capitò all'albanese Florian Placu, puoi restare sei mesi a San Vittore. Se cerchi di vendere all'estero la statua di Caligola non vai in carcere. Se poi trovi certi giudici, puoi perfino tenerti la merce.

È successo ad Angelo Silvestri, un sub laziale denunciato per essersi «impossessato di beni culturali appartenenti allo Stato». Aveva trovato, guardandosi bene dall'avvertire la soprintendenza, 28 pezzi tra i quali varie anfore antiche e un set di preziosissimi strumenti chirurgici romani con tanto di astuccio, perfettamente integri. Il pubblico ministero chiese una condanna ridicola: sei mesi e 2500 euro di multa. «Esagerato!», pensò il giudice di Latina Luigi Carta. E il 3 maggio 2004 assolse l'imputato perché «di anfore, piatti di terracotta, crateri e vasi, manufatti di vario genere, sono pieni i nostri mari» (...).

C'è poi da stupirsi se i musei stranieri, davanti alla nostra richiesta che venga restituito questo o quel pezzo ricettato, che magari loro con amore custodiscono e con amore offrono in visione a milioni di visitatori, fanno resistenza pensando che quel pezzo finirà anonimamente nel mucchio delle tante ricchezze abbandonate in qualche museo di periferia?

È GUERRA contro lo Stato. Non si può diversamente interpretare l´impressionante escalation di cui ieri Berlusconi si è reso protagonista, alzando il livello dello scontro fino a un punto di non ritorno. Che questa sia per lui, con ogni evidenza, la partita finale è chiaro da espressioni estreme come «golpe morale contro di me», come «inchieste degne della Ddr», come «l´ultimo giudice è il popolo». Così, ancora una volta, Berlusconi afferma la propria superiorità carismatica e populistica contro l´ordinamento, contro le leggi. Il Princeps legibus solutus nella sua versione contemporanea gioca il popolo contro lo Stato. Il suo popolo, naturalmente: una potente astrazione, confezionata dal suo potere mediatico, una sua proprietà patrimoniale che non ha nulla a che fare col popolo di una moderna democrazia. Che non è massa ma cittadinanza, che non è visceralità prepolitica ma appartenenza consapevole a un destino comune in una rigorosa forma istituzionale

Del resto, «fare causa allo Stato» è stata un´altra recentissima manifestazione del furore di Berlusconi. C´è in essa un significato tecnico: per i magistrati, la responsabilità civile è indiretta, e chi è da loro ingiustamente danneggiato viene in realtà risarcito non dai singoli responsabili ma dallo Stato. Norma che l´attuale governo vuole modificare, con ovvii intenti intimidatori. Ma che intanto è vigente. Ad essa, in quanto perseguitato, Berlusconi si potrà appellare, come ogni cittadino.

Ma c´è anche un significato simbolico. Da questo punto di vista, non si tratta solo di una strategia processuale, ma, ancora una volta, di una esplicita dichiarazione di guerra contro il vero nemico politico e culturale di Berlusconi: lo Stato. Non questo o quel potere o ordine, non i magistrati comunisti, non i partiti avversari. No. Il nemico è lo Stato in quanto tale, in quanto organizzazione di potere sovrano e rappresentativo, impersonale, fondato sull´uguaglianza davanti e alla legge e internamente articolato attraverso equilibri e limitazioni che hanno lo scopo di evitare il predominio di un potere o di una funzione sulle altre. Il prodotto sofisticato, forte e fragile, di alcuni secoli di sviluppo politico europeo, e del sapere di filosofi e giuristi.

La partita adesso è chiara: un uomo contro lo Stato, un potere personale contro il potere impersonale, la rappresentanza per incorporazione contro la rappresentanza per elezione, il destino di uno contro il destino di un Paese, il dominio contro la legalità. È una guerra civile simbolica, spirituale e morale, che l´Uno - e i suoi numerosi fedeli e seguaci, interessati o estasiati o rassegnati che siano, ma che in ogni caso hanno scritto quel nome sulle loro bandiere - combatte contro i Molti; che un presente desideroso di futuro (sempre più precario) combatte contro la tradizione storica e la legittimità democratica del nostro Paese. È la guerra di un tipo umano contro l´altro: della superba individualità, sprezzante di regole e persone, chiusa in una solitudine affollata di cortigiani e di scaltri profittatori, contro il rispetto delle regole, contro l´interazione nello spazio pubblico condiviso, contro la cittadinanza, contro la decenza come attributo minimo delle relazioni umane e politiche. La guerra dei proclami e delle arringhe furibonde contro i ragionamenti, contro gli argomenti.

È una guerra asimmetrica, in cui c´è chi attacca e chi fa solo il proprio dovere - e per questo è nemico, è eversivo - ; in cui c´è chi ha dalla propria parte il potere - ogni potere: quello politico, quello economico, quello mediatico - , e chi ha solo la legge e un´idea di politica: un´idea che non è un´opinione che ne vale un´altra, perché è quell´idea di uomo, di società, di Stato che è scritta nella Costituzione. Ma è asimmetrica anche perché è dichiarata solo da una parte, che si finge vittima e così può attaccare senza freno l´idea stessa che esista un ordine civile, ovvero che non tutta la collettività sia al servizio di una singola volontà di potenza, sia disponibile per un potere senza limiti. Che esistano ragioni - non metafisiche ma legali, non misteriose ma costituzionali - che trascendono l´individuo. È difficile restare neutrali in questa guerra, cavarsela con un colpo al cerchio e uno alla botte, o con le distinzioni fra pubblico e privato, che sono negate proprio da chi dovrebbe beneficiarne: da Berlusconi, che per primo rifiuta di rispondere da privato davanti alla giustizia e dà alle proprie vicende una ovvia e macroscopica dimensione pubblica.

L´effetto distruttivo di questa guerra è sotto gli occhi di tutti: dal vertice del potere esecutivo giunge un messaggio di rivolta contro lo Stato, una rivendicazione di rabbiosa eccezionalità che si oppone alla normalità istituzionale. Tutto il ribellismo italico, faticosamente arginato dalla nostra recente storia democratica, viene così legittimato; tutto il disprezzo per la legge che alberga nel cuore di tanti italiani trova giustificazione, trionfa platealmente da uno dei più alti seggi della Repubblica; tutto il "particolare" si vendica finalmente dell´universale. Vite intere di insegnanti e di genitori spese a trasmettere ai giovani virtù umane e civiche sono vanificate da questo autorevolissimo e visibilissimo esempio di anarchia istituzionale, da questo aperto rifiuto del potere comune, in nome del potere personale. Da questa guerra civile simbolica non uscirà che un futuro di rovine; tranne che qualche "azionista", qualche "puritano", qualche "giacobino", non riesca a trovare il cuore degli italiani, a spingerli ad avere pietà di se stessi, a convincerli che possono avere davanti a sé un avvenire più degno.

«Farò causa allo Stato», sarebbe questa la reazione di Berlusconi alla richiesta di rito abbreviato presentata dalla Procura di Milano. Vista la nota propensione a raccontar barzellette del nostro Presidente del Consiglio si può pensare che si sia trattato solo di una malriuscita battuta di spirito.

Se, invece, si dovesse prendere sul serio l'affermazione riportata dalle agenzie di stampa, essa apparirebbe sintomatica di una concezione premoderna dei rapporti tra poteri, estranea alla nostra cultura democratica e costituzionale, lontana dalla realtà dello Stato contemporaneo e dall'evoluzione che, dai tempi di Montesquieu, ha portato a conformare lo Stato come un'entità divisa.

Una barzelletta se s'immagina il «Capo» del governo che fa causa a se medesimo, chiedendo magari al «suo» ministro della giustizia il risarcimento per i danni subiti dal tentativo di svolgere i processi che lo vedono coinvolto. Vedere accanto la vignetta-copertina di Vauro, certamente illuminante più di ogni discorso su una simile schizofrenia dissociativa.

A noi non rimane che prendere sul serio quanto è stato detto. La dichiarazione è grave e inquietante perché tende a negare ogni autonomia ai poteri dello Stato, a quello giudiziario in particolare. Se si ha un minimo di rispetto per la divisione dei poteri (carattere fondativo della civiltà costituzionale moderna) si dovrebbe sapere che compete ai giudici l'esercizio della giurisdizione nei confronti di ogni soggetto di diritto, di ogni persona. La minaccia di «far causa» perché il giudice svolge le sue indagini ha come scopo quello di negare l'autonomia e l'indipendenza del potere, mira a delegittimare l'ordine della magistratura nel suo complesso.

Nulla può valere a giustificare le affermazioni del premier, neppure le sue eventuali ragioni «processuali». Non si può escludere allo stato, infatti, che la Procura di Milano stia interpretando male le regole processuali, né si può escludere che in sede dibattimentale le ragioni della difesa prevalgano su quelle dell'accusa, venendosi così a dimostrare la non perseguibilità penale per le imputazioni mosse. Ma ciò dovrebbe indurre Berlusconi a partecipare al processo che lo vede indagato, non a minacciarne un altro «eguale e contrario».

Deve essere chiaro che la Procura sta esercitando le sue funzioni d'indagine nel rispetto delle regole processuali. Ha presentato, infatti al Gip la richiesta di rito immediato ai sensi degli art. 453 e segg. del Codice di procedura penale. Spetterà ora al Giudice verificare la sussistenza dei presupposti.

Ci sono alcuni profili giuridici che dovranno essere valutati con attenzione e pacatezza: quelli concernenti la possibilità di procedere per via breve, oltre che per il reato di concussione, anche con riferimento all'accusa di sfruttamento della prostituzione minorile; quello riguardante la competenza della procura milanese; quello relativo al carattere comune ovvero funzionale del reato di concussione posto in essere - secondo l'accusa - dal Presidente del Consiglio. Questioni delicate, che si dovrebbero sviluppare secondo la normale dialettica processuale, nel contraddittorio delle parti, in base a quanto stabilisce la legge.

Ma chi ha mai detto che è facile fare i processi? Anche le accuse dovranno essere provate. In fondo proprio a questo servono i processi. Sono le «sante inquisizioni» i riti d'indagine che non servono a nulla, avendo sin dall'inizio già formulato una condanna. Per fortuna il medioevo giuridico è alle nostre spalle, sebbene il Presidente Berlusconi non sembra essersene accorto. Noi, che siamo sempre stati garantisti, con tutti e in ogni caso, non indietreggiamo: è nel processo che si provano le accuse e può farsi valere l'innocenza di ciascun indagato.

Per cortesia Cavaliere, si faccia processare. Dimostri, se può, in quella sede la sua innocenza, almeno la non rilevanza penale dei suoi comportamenti privati: l'onore del paese ne verrebbe sollevato. Se è convinto che la procura di Milano non abbia «né la competenza territoriale né quella funzionale» faccia come tutti: lo dica al giudice che dovrà valutare l'operato della procura, eserciti i suoi diritti di difesa. Ma non fugga dal processo, non è più il tempo antico del «diritto sovrano». E poi, signor Presidente se lo faccia dire: se proprio non crede alla giustizia perché vuol far causa allo Stato?

Il 17 marzo 1861 si riunì a Torino il primo Parlamento e venne proclamato il Regno d´Italia. Era nata la nazione come realtà politica. Fino ad allora l´Italia era stata solo una espressione geografica. Per ricordare quella data faremo festa il prossimo 17 marzo. La faremo davvero?

La data si avvicina e le voci critiche, dubbiose, ironiche si moltiplicano. Oggi la possibilità, il pericolo che la festa venga cancellata si sono fatti tangibili. Su di un´opinione pubblica frastornata, in un paese diviso profondamente da disuguaglianze di beni, di consumi e di diritti, dove le diversità che consideravamo la ricchezza e l´originalità dell´Italia oggi appaiono improvvisamente come cesure insanabili, cala l´ombra del dubbio: un dubbio che investe la festa come simbolo e che nel simbolo ferisce in modo grave il dato reale. Perché se muoiono i simboli l´entità che essi rappresentano comincia a cessare di esistere: la morte del simbolo nella coscienza comune significherebbe che l´Italia che apparentemente continuerebbe a esistere sarebbe un fantasma privo di vita.

Ma vediamo gli argomenti. Perché questa festa non s´ha da fare? Qualcuno la mette sul serio: l´economia nazionale è così grama che non tollera il rischio del lavoro perduto. E come spesso accade l´argomento dell´economia ha dato una maschera seria a chi non la possedeva. È bastato che la presidente della Confindustria, Emma Marcegaglia, persona seria e che sa farsi ascoltare con rispetto, parlasse del danno rappresentato dalla perdita di otto ore di produzione, perché chi non aveva avuto fino ad allora il coraggio di andare al di là delle battutine e delle alzate di spalla si mettesse alla sua ombra per insidiare più decisamente l´evento festivo e provare a cancellarlo del tutto. Si sono levate voci ostili dalle regioni dove comandano parti politiche che si desolidarizzano dalla responsabilità della nazione pur attingendo alle sue risorse e si inventano appartenenze e identità patrie di pura fantasia. Hanno parlato coloro che concepiscono la politica come arte dell´alzare muri divisori e si inventano religioni del sole delle Alpi e del fiume Po mentre baciano sacre pantofole prelatizie.

Non con loro vale la pena di parlare. Limitiamoci all´argomento "serio" della Marcegaglia. Davvero – si chiedeva Giorgio Ruffolo su questo giornale – in questi 150 anni della nostra storia non ci siamo guadagnati nemmeno otto ore per festeggiare la nostra unità nazionale? Perché il fatto singolare è che non stiamo progettando l´introduzione di una nuova festa nel calendario civile: quella del 17 marzo 2011 non sarebbe l´equivalente italiano del 14 luglio francese o del 4 luglio americano. Sarebbe un "una tantum", da ripetere magari solo quanto i 150 saranno diventati 200 o 300. Un ricordo del passato, un impegno per il futuro: un momento comune e pubblicamente riconosciuto per sostare e prendere atto di un accadimento storico che ci riguarda tutti in quanto italiani, non in quanto legati a questo o a quel partito, a questa o a quella ideologia, fede religiosa o identità etnica.

Quella mattina del 17 marzo gli italiani non si alzeranno per andare al loro solito posto di lavoro – quelli che ne hanno uno – o a cercare lavoro – quelli che non ne hanno, che sono tanti, soprattutto fra i giovani. Dovranno pensare tutti almeno per un attimo che quel giorno è diverso e saranno portati a soffermarsi su quel pensiero. Scopriranno che quel giorno è la loro festa: di tutti loro in quanto italiani, perché in Italia sono nati, vi abitano, vivono e lavorano. Per questo la festa deve esserci. La dobbiamo alle generazioni passate e a quelle future. E deve essere pubblicamente dichiarata e rispettata.

Non ascolteremo chi vuole convincerci a sostituire il fatto pubblico con un fatto privato o un pensiero individuale, a riporre il senso dell´appartenenza e l´impegno ad affrontarne i problemi del paese nascondendo quel pensiero nel dominio segreto delle intenzioni, trasformandolo chi vuole in voto da formulare "in interiore homine". Sarebbe uno schiaffo al paese e in primo luogo a chi degnamente lo rappresenta nel mondo e si è impegnato a tutelarne i diritti e a farne osservare i doveri. Perciò quel pensiero il 17 di marzo del 2011 lo dovremo dedicare in particolare ad alcuni nomi: quello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quelli dei suoi predecessori, in modo particolare Carlo Azeglio Ciampi.

Il futuro delle aree ex Falck è condensato in un plastico vista mare. Ieri Renzo Piano nel suo studio affacciato sulla spiaggia di Vesima, riviera genovese, ha illustrato il progetto appena depositato nel Comune di Sesto San Giovanni, presente il sindaco Giorgio Oldrini e l’immobiliarista Davide Bizzi, promotore del megainvestimento. «Trasparenza, trasparenza» ripete l’architetto, come tema dominante di un progetto che— se l’iter amministrativo andrà avanti — impegnerà i protagonisti per dodici anni. Trasparenza «nel fare, perché in questa operazione non ci sono segreti e zone opache» dice Piano e anche in senso molto letterale perché il progetto prevede un grande impiego di vetro (e di acciaio in onore alla memoria dei luoghi).

Trasparenti saranno — per i primi quattro piani— le dodici torri (alte fra i 70 e gli 80 metri, a sezione quadrata di 25 metri per lato) di residenza libera, raggruppate intorno al serbatoio dell’acqua e non più diffuse nell’area, tanto trasparenti da prevedere negli appartamenti anche un «giardino d’inverno» . Trasparente sarà in parte la stazione ferroviaria a ponte che scavalcherà i binari e che dovrebbe essere il primo cantiere aperto. «Abbiamo raggiunto l’accordo con le Ferrovie— dice Bizzi — anche se la firma formale non c’è ancora: noi acquistiamo le aree Fs pagandole in parte con la costruzione della nuova stazione che consegneremo chiavi in mano» .

Tempi previsti: cantieri aperti nel 2012, primo lotto in consegna il 2015, «in tempo per l’Expo» borbotta il sindaco. Il primo lotto comprende la stazione, residenze convenzionate nelle immediate vicinanze, il mercato coperto nell’area Omec, quattro torri, tutto seguendo una diagonale che porta all’edificio del T5, infine le residenze convenzionate e interventi di urbanizzazione nella zona di San Giorgio. Il tutto, fra residenze di diversa tipologia, servizi e spazi commerciali, per 300 mila metri quadri, circa un terzo del piano completo. Piano generale che si distribuisce così: il 60 per cento residenze (600 mila mq), 100 mila mq attività produttive (indicativamente nel T5, nel settore dell'energia), 33 mila mq ricettivi (un albergo), 116 mila mq commercio e servizi, un plesso scolastico e una piscina nell’area laminatoio, una biblioteca nella torre fumi, un campus in stile universitario nel Bliss, mentre per il T3 si pensa a un uso flessibile dedicato all’arte e alla musica, ma non a un museo che implica costi fissi di gestione.

Intorno, un parco pubblico: «piantare alberi, lo sapete— dice Piano — è la mia passione» . E aggiunge con appena una punta di polemica «quando me lo lasciano fare» Quali alberi scegliere, per caratterizzare quest’area? «I lambri o gelsi» suggerisce il sindaco. Botanici esperti sono già al lavoro. «Vorrei — dice Piano —. che il più presto possibile l’area fosse almeno in parte visitabile, aperta alla gente» . Bisogna procedere alle bonifiche, Brizzi accenna a una prossima gara di mercato per affidare i lavori. Quanto agli edifici di archeologia industriale, spiega l’architetto, «non si possono umiliare costruendoci sopra, inglobandoli: l’idea è invece esaltare al massimo le strutture e quegli spazi, quasi mitici, e lavorare al loro interno» . Su tutto una visione d’insieme: «Questa — dice Piano — non è periferia, questa è nuova urbanità, la periferia è una questione psicologica più che fisica: qui siamo a sei chilometri dal Duomo» .

Mercoledì 2 febbraio 2011 il consiglio comunale di Moncrivello ha respinto la richiesta circa l’apertura di una cava di ghiaia e sabbia in località Cascina Bruciata. Il progetto aveva già ottenuto l’approvazione della Provincia di Vercelli e della Regione Piemonte. Ma l’ultima parola spetta al Comune: e il consiglio comunale ha detto no approvando un'apposita delibera. Nella quale si afferma la vocazione agricola e turistica di Moncrivello: una vocazione da recuperare, incentivare e rafforzare. Una vocazione che l’apertura di una cava indebolirebbe. Moncrivello si aggiunge così ad altri Comuni della zona, i cui cittadini e i cui amministratori sono diventati sempre più consapevoli dei tanti danni prodotti dalla coltivazione delle cave e dall’apertura di discariche.

In alcuni casi i consigli comunali hanno già ufficialmente espresso la loro contrarietà. Ad esempio, recentemente il consiglio comunale di Saluggia ha respinto il progetto di apertura di una cava in località Molino. Santhià non ha più rinnovato l’autorizzazione a cavare alla società Green Cave. Tronzano ha rifiutato il riempimento di una discarica. La conferenza dei servizi della Provincia di Vercelli ha rifiutato l’estensione dei codici di conferimento per i rifiuti provenienti dalla ex Sisas di Pioltello- Rodano.

Sono molte, e ben note, le buone ragioni per impedire l’apertura di nuove cave o per non autorizzare il proseguimento della coltivazione di cave già esistenti.

1) Quasi sempre l’attività di cava, nonostante le rassicurazioni, finisce per intaccare le falde acquifere. In condizioni normali l’acqua di varia provenienza che arriva sui nostri campi è, in misura più o meno grande, inquinata: ad esempio, l’acqua di irrigazione trascina con sé gli antiparassitarie e i concimi chimici; quella piovana porta a terra i veleni presenti nell’aria, e così via. Ma lo strato superficiale del terreno fortunatamente esercita una funzione di filtro: trattiene le impurità o le distrugge attraverso l’azione dei microrganismi, e lascia discendere verso le falde un’acqua relativamente sana. Quando però un’impresa comincia l’attività di cava, per prima cosa asporta proprio quei primi metri di terreno filtrante: per conseguenza, quando il buco è stato scavato, l’acqua si raccoglie non purificata sul fondo della cava e, raggiunta la falda, la inquina.

2) il transito degli autocarri, che si protrae spesso per decenni, produce inquinamento, aumento del traffico, pericolo nelle nostre strade;

3) una cava non ripristinata degrada il paesaggio che prima conservava la sua dignità o la sua bellezza

4) anche solo per queste ragioni i terreni e gli edifici della zona perdono valore: tutto il paese ci perde;

5) quando un Comune consente l’apertura di una cava si sa dove si comincia ma non si sa come va a finire. Generalmente il Comune, attraverso una convenzione con l’impresa cavatrice, permette l’apertura di una cava solo di modeste dimensioni e solo per pochi anni. Ritiene così di mettersi al sicuro e di limitare i danni. Ma quando si insedia in un posto, una società cavatrice raramente “molla l’osso”. L’esperienza insegna che spesso, alla scadenza della convenzione, l’impresa riesce ad ottenere il rinnovo. Spesso ottiene anche l’autorizzazione ad allargare e ad approfondire la cava. Gradualmente, paesi un tempo di fiorente agricoltura diventano “terre di cave”: tutti ci perdiamo;

6) in genere la convenzione tra il Comune e la società cavatrice impone che la società medesima, una volta scaduta l’autorizzazione, ripristini le precedenti condizioni del territorio. Anche in questo caso l’esperienza insegna che spesso le società riescono a sottrarsi all’impegno. Il “buco” rimane lì, magari per anni, finché un’altra società, oppure la stessa, chiede il permesso di trasformarla in una discarica. Che porta nuovo inquinamento del terreno, delle acque e dell’aria, e per conseguenza ancora danni alla salute. Così intere zone agricole e sane diventano depositi di veleni. Tutti ci perdiamo in salute.

7) ma anche se il Comune riesce miracolosamente ad ottenere dall’impresa il ripristino dei terreni, anche se riesce fortunatamente ad imporle di ricoprire la cava con terra agricola buona e adatta, va ricordato che un terreno ripristinato con terra da riporto impiega anni prima di riacquistare la sua fertilità.

8) C’è inoltre un altro danno prodotto dalle cave che talvolta viene sottovalutato. La perdita di fertili terreni agricoli, trasformati in aree inquinate di cave e discariche, costituisce un grave pericolo economico per il nostro futuro. Le previsioni di autorevoli istituzioni internazionali sempre più spesso lanciano l’allarme: corriamo il rischio di sprofondare in una crisi agricola mondiale, che significa una crisi alimentare. Aumentano i consumi in grandi paesi emergenti come la Cina, e la produzione agricola mondiale non riesce a soddisfare la domanda. I prezzi sono destinati ad aumentare. Salirà anche il prezzo della pasta, della frutta e della verdura che acquistiamo quotidianamente facendo la spesa. Per questo occorre preservare accuratamente i terreni agricoli che ci restano e favorire l’agricoltura. Continuare a distruggere terreni agricoli pregiudica il futuro dei nostri figli. L’allarme più recente è stato lanciato dalla FAO. Ma ormai da anni, anche nel nostro paese, associazioni come Slow Food di Carlo Petrini, e le stesse associazioni dei coltivatori, lanciano il medesimo appello: salviamo i terreni agricoli che ci sono rimasti.

Si tratta di un discorso importante per le nostre zone, del Vercellese e del Biellese, che sono tradizionalmente aree agricole. Comuni come Moncrivello sono stati per secoli produttori del grano e della vite: questo paese ha addirittura un vino con etichetta importante, il passito erbaluce. A partire dal XIX secolo, dopo la costruzione del Canale Cavour e dei successivi, a queste antiche coltivazioni si sono aggiunti in molti Comuni la meliga, la frutta, gli ortaggi, e nella Bassa, il riso. Poi, negli ultimi decenni, lentamente l’agricoltura è stata via via espropriata. Ma ora, di fronte ad un incerto futuro economico, è un delitto continuare a distruggere i nostri campi. Questi campi sono la nostra ricchezza. Una ricchezza che abbiamo qui a portata di mano. Domani i nostri figli potranno coltivarli senza lasciare i loro paesi, senza andare a cercare altrove un incerto lavoro.

Anche per quest’ultima ragione bisogna dire basta alle cave indiscriminate. Certo il discorso non finisce qui, e dovrà venire ripreso e ampliato. Qualcuno potrebbe infatti obiettare che le cave da qualche parte bisogna pur farle. Noi rispondiamo che vi sono paesi in Europa, come la Germania, che cercano di rallentare l’apertura di nuove cave: incentivano il riuso dei materiali da demolizione, alzando contemporaneamente le tariffe ai cavatori, che in Italia sono basse.

Ma forse la domanda decisiva, che tutti dobbiamo farci, è ancora un’altra: è veramente necessario aprire continuamente nuove cave? L’Italia è un paese piccolo e montagnoso, e le terre pianeggianti sono poche. Ma in pochi decenni questi terre sono state riempite di case, capannoni, strade, autostrade, viadotti, svincoli, rotonde, e così via. Fino ad un certo punto tutto ciò ha voluto dire ricchezza e benessere per tutti. Ma ora forse si è andati oltre. In soli quindici anni, tra il 1990 e il 2005. una superficie grande come il Lazio e l’Abruzzo messi insieme è stata – circa 3 milioni di ettari – è stata coperta da una costruzioni e infrastrutture. Dobbiamo proseguire così? O non sarebbe saggio fermarci? Le fila di capannoni vuoti al posto di una sana agricoltura ci danno una prima risposta.

L´unica cosa su cui vale la pena ragionare, nell´attacco furibondo di Giuliano Ferrara a Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" di sabato scorso a Milano, non sono gli insulti – di tipo addirittura fisico, antropologico – e nemmeno la rabbia evidente per il successo di quell´appuntamento pubblico che chiedeva le dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l´ossessione permanente ed ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell´"azionismo torinese", come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un´aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione condizionante".

Eppure la storia breve del Partito d´Azione è una storia di fallimenti, che nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di quell´avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati com´erano vissuti, in case piene di libri più che di potere. Ma l´idea dev´essere davvero formidabile se ha attraversato sessant´anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell´intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d´elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti.

È un´ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa nell´Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico: tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul "Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la testimonianza di una vita per quell´errore iniziale, in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più.

Oggi, Zagrebelsky, e si capisce benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla prevalenza dell´interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un´Italia che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando ritorna la cifra intellettuale dell´azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell´impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel ´47, ecco l´allarme ideologico. Parte l´invettiva contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo.

Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a spettatore delegante, ma liberato dall´impaccio di regole e leggi. Un´Italia dove il peggio non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un´Italia in cui tutti sono uguali nei vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il sentimento dell´abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l´elogio del malandrino, in cui l´avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione".

Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell´azionismo residuale e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest´epoca, attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica per sessant´anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée, concessa dagli alleati.

Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l´antifascismo (Vittorio Foa diceva che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l´azionismo era il crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l´anticomunismo.

Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e perché non scelgono l´anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi, questo liberalismo di sinistra rifiuta l´equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un´altra equidistanza, "abominevole": quella tra fascismo e antifascismo.

Ce n´è abbastanza per capire. Debole e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un´Italia di minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che nell´Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata "miserabile". Guglielmo Giannini, d´altra parte, sull´"Uomo Qualunque" derideva gli azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia, dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro", che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono "la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti".

Dai palazzinari ai grattacielari: l' evoluzione della specie si compie a Milano con il Piano di Governo del Territorio (PGT) della giunta di Letizia Moratti, che secondo l' apocalittica ma non peregrina previsione del sociologo Guido Martinotti trasformerà l' ex capitale morale nella brechtiana città di Mahagonny, un luogo dove tutto è permesso grazie al denaro. In questo caso l' obiettivo è di moltiplicare il denaro e salvare così i bilanci di alcuni immobiliaristi, in testa il solito Salvatore Ligresti, e dei banchieri che lautamente li hanno finanziati. Un sistema che finché dura si autoalimenta. La specie del palazzinaro prospera a Roma negli anni Settanta e viene esportata a Milano nientemeno che da Silvio Berlusconi il quale, da par suo, delle palazzine non si accontenta e costruisce intere città satellite. Altri tempi. Ora è tempo di "densificazione". Archiviata la palazzina, il nuovo mantra è il grattacielo. Oltre a quelli appena costruiti, tra cui svetta il nuovo Pirellone che celebra per l' eternità il potere del presidente Roberto Formigoni, e quelli di prossima edificazione a City Life nell' area dell' ex Fiera. Con il nuovo PGT in fase di approvazione in una maratona in consiglio comunale prima dello scioglimento, si edificheranno 35 milioni di metri cubi: masceranno circa 100 nuove torri, o addirittura, come valuta l' ambientalista Michele Sacerdoti, 341 Pirelloni; 24 quartieri disegnano la nuova mappa urbanistica, ma soprattutto quella del potere finanziario, cui la politica è sottomessa.

Tra i protagonisti, come sempre fin dai tempi di Craxi e della Milano da bere, spicca Ligresti che, oberato da 2,2 miliardi di debiti, invece di portare i libri in tribunale, sarà salvato da una parolina magica del Piano: "Perequazione". Il meccanismo è semplice. Prendiamo l' area vincolata del Parco sud: le si attribuiscono indici di edificabilità, ma per salvare il verde Ligresti non potrà costruirvi. Per salvare lui, invece, i diritti volumetrici voleranno da una parte all' altra della città e atterreranno in centro, valorizzando altre aree ligrestiane. Milano ha perso nel corso degli anni quasi mezzo milione di abitanti e l' assessore all' Urbanistica ciellino Carlo Masseroli con questo PGT vuole finalmente "ridensificarla". Al punto che Milly Moratti, consigliera di opposizione e cognata di Letizia, calcola che il tasso di densità potrebbe crescere da 7 a 12 mila abitanti per chilometro quadrato. Potrebbe, perché in realtà decine di migliaia di metri quadrati sono desolatamente vuoti e difficilmente le cubature in arrivo nei prossimi anni troveranno nuove anime per occuparle. Quella che va sotto il nome di edilizia sociale, infatti, è in gran parte edilizia convenzionata, cioè a prezzi di mercato solo leggermente scontati. A chi servono case? Ai giovani, ai bassi redditi e agli immigrati, che non si vede come a quei prezzi potranno "densificare" Milano, come Masseroli pretende. Più probabile l' incubo di una Mahagonny desertificata. Ma Letizia Moratti, con un piano che di fatto non impedisce nulla e consente tutto, fa felici i banchieri e la nuova stirpe dei grattacielari, quella che veramente comanda a Milano.

Taglio netto ai termini per i procedimenti amministrativi riguardanti i beni culturali. Dalla dichiarazione di interesse al via libera alla realizzazione di interventi pesanti sugli immobili vincolati, fino all'approvazione in via sostitutiva dei piani paesaggistici. A essere stati ridotti, in alcuni casi anche dimezzati, sono i tempi di conclusione delle procedure superiori ai 90 giorni che non siano stati già esplicitamente fissati da leggi specifiche (si veda la tabella a fianco). Su questa materia è infatti intervenuto il Dpcm 231/2010, pubblicato in «Gazzetta Ufficiale» a inizio gennaio, sostituendo i vecchi termini (stabiliti in gran parte da un regolamento del 1994) con quelli nuovi, che non possono comunque superare i 180 giorni. Una misura richiesta dalla legge n. 69 del 2009 (articolo 7) sullo sviluppo economico e la semplificazione, con l'obiettivo di alleggerire il peso della burocrazia per chi si rivolge alla pubblica amministrazione per chiedere un documento, un certificato o un'autorizzazione. Una delle riduzioni più accentuate riguarda i tempi per la dichiarazione di interesse culturale che, nel caso degli immobili, deve essere ora rilasciata in 120 giorni rispetto ai 210 di prima. Il margine si riduce di tre mesi per ordinare la reintegrazione di un immobile tutelato che abbia subito interventi lesivi (da 270 a 180 giorni) o per imporre il pagamento dell'indennità in caso di danni (da 220 a 180). Portato a quattro mesi (due in meno), inoltre, il termine per decidere sulla realizzazione di lavori conservativi.

L'OK Al LAVORI

Discorso a parte per l'autorizzazione all'esecuzione di interventi sugli immobili vincolati. In caso di demolizione, rimozione o spostamento, infatti, il testo appena varato stabilisce il nuovo termine per il rilascio dell'atto in 180 giorni, rispetto ai 210 previsti dal regolamento del 1994, che includeva però anche la modificazione e il restauro degli edifici (ma non lo spostamento). Lavori, questi ultimi, che ricadono invece nella definizione dell'articolo 21, comma 4, del codice dei beni culturali (Dlgs 42/2004) e che devono quindi ottenere il via libera da parte delle Soprintendenze entro 120 giorni (articolo 22). Il nuovo regolamento, quindi, in questo caso non fa che riprendere il termine fissato dal codice.

I PIANI PAESISTICI

Per alcune tipologie di opere riguardanti gli immobili, inoltre, i termini sono stati fissati per la prima volta. Si tratta, ad esempio, dei 180 giorni entro i quali il ministero dei Beni culturali può approvare in via sostitutiva i piani paesaggistici sottoposti a verifica e adeguamento al Digs 42/2004 (il codice Urbani), in presenza o meno di un accordo ad hoc tra Ministero e Regione. Tempi di rilascio fissati anche per la concessione di contributi in conto capitale o in conto interessi per le spese relative a interventi conservativi: 180 giorni nel primo caso, 120 nel secondo. Rilevante anche il nuovo termine, stabilito in quattro mesi, per il via libera alla concessione in uso o locazione di immobili pubblici di interesse culturale per la valorizzazione e utilizzazione anche a fini economici: una scadenza che può interessare da vicino la realizzazione di opere in project financing.

LE CONSEGUENZE

L'impatto del nuovo regolamento "taglia-tempi" potrebbe mettere in difficoltà Soprintendenze e direzioni regionali, che dovranno fare i conti con termini più stringenti. «In molti dei casi considerati — minimizzano tuttavia dall'ufficio legislativo del ministero dei Beni culturali — i nuovi termini vengono già rispettati nei fatti». In caso di mancata risposta da parte delle amministrazioni, va detto, non scatta tuttavia il silenzio-assenso, ma il cosiddetto "silenzio-inadempimento" da parte dell'ufficio competente, contro il quale è possibile ricorrere davanti al giudice amministrativo (che può anche decidere per un risarcimento, in caso di danni provocati dall'inerzia della pubblica amministrazione). Si attende a giorni, intanto, fanno sapere ancora dal Mibac, la pubblicazione in «Gazzetta Ufficiale» del secondo decreto (Dpcm) sulla riduzione dei termini, quello riguardante i procedimenti da 31 a 90 giorni, nel quale ricade, ad esempio, il rilascio del parere vincolante sulle domande di autorizzazione paesaggistica in sanatoria.

Tagli ai tempi. I Sovrintendenti: serve personale

Sole 24 ore Edilizia e Territorio 07/2/2011

Le Soprintendenze fanno i conti con la stretta ai tempi sul rilascio di pareri e autorizzazioni. Il regolamento 231 è una ulteriore richiesta di accelerazione sullo svolgimento delle istruttorie da parte degli uffici periferici del Mibac incaricati di tutelare i beni culturali sul territorio nazionale. Un tassello che si aggiunge, tra l'altro, alla riduzione dei termini per esprimersi sui nullaosta paesaggistici (scattato a inizio 2010), in attesa del decreto (in arrivo) sulle procedure di durata inferiore ai tre mesi. «Ben venga la riduzione dei termini, che va incontro alle esigenze di privati e imprese, ma per farlo ci vogliono persone e mezzi a sufficienza, che invece non abbiamo». A dirlo è Paola Grifoni, soprintendente di Bologna, Modena e Reggio Emilia, che aggiunge: «Le procedure più complesse sono quelle che riguardano proprio il via libera agli interventi sugli immobili vincolati, perché necessitano di studi approfonditi e relazioni dettagliate, non facili da concludere in 120 giorni. Senza considerare l'assillo rappresentato dalle autorizzazioni paesaggistiche». La modifica che può pesare di più, afferma invece Andrea Alberti, alla guida della sede di Brescia, Verona e Mantova, «è il procedimento di dichiarazione di interesse, che passa per gli immobili da 210 a 120 giorni. Un taglio considerevole visto che si tratta del procedimento con cui si definiscono i vincoli, con tutta la documentazione necessaria, le osservazioni da valutare. Insomma, farlo con tre mesi in meno è più difficile. Invece le autorizzazioni per interventi sugli immobili vincolati, già si chiudono in 120 giorni». I problemi non sono legati tanto alle riduzioni dei termini recentemente introdotte, spiega Gianfranco D'Alò, architetto coordinatore della Soprintendenza dell'Abruzzo, «ma ad alcune tipologie di procedimenti che ingolfano gli uffici, togliendo tempo alle altre attività. È il caso delle richieste preventive di esistenza vincoli per la realizzazione di impianti per le energie rinnovabili, soprattutto parchi eolici e pannelli fotovoltaici, che richiedono ricerche molto articolate». Una situazione, quella abruzzese, aggravata dal fatto che «metà dei professionisti in organico sono distaccati presso la struttura commissariale per il post-terremoto». Un caso a parte, infine, è quello di Venezia e laguna, dove la soprintendente, Renata Codello, taglia corto: «La nostra struttura risponde sempre nei termini e continuerà a farlo. Le tipologie di interventi per i quali sono stati ridotti i tempi non sono particolarmente rilevanti. La demolizione di un immobile vincolato, ad esempio, è un caso talmente raro da essere irrilevante in un territorio come quello lagunare. E in ogni caso — precisa Codello — a Venezia c'è la legge speciale che già impone tempi più stretti con l'intervento della Commissione di salvaguardia».

ROMA- Tutti gli alberi, anche quelli secolari che si trovano entro sei metri dalle strade extraurbane, sono fuorilegge. È, questo, l'innovativo principio giuridico di sicurezza stradale stabilito dalla Cassazione nella sentenza di condanna per omicidio colposo al capo cantoniere dell'Anas di Foligno, Bruno Bruni. Secondo la Corte suprema, l'uomo avrebbe dovuto provvedere a mettere in sicurezza ("predisponendo un idoneo guardrail nel tratto di strada dove si trovava la pianta"), la statale "centrale umbra" orlata da una fila di alberi secolari, bellissimi da vedere, ma pericolosissimi per gli automobilisti. Se l'avesse fatto, Michela Crucianelli non si sarebbe schiantata a bordo della sua vettura contro uno di quei platani-killer. E non sarebbe morta.

L'articolo 26 del regolamento che dà attuazione al codice della strada entrato in vigore il primo gennaio del 1993 aveva vietato la presenza di alberi entro una distanza minima di sei metri. Pareva, però, che quella norma non fosse retroattiva, ovvero che non fosse riferita agli alberi preesistenti, ma solo a quelli piantati da quel momento in poi. Ci sono voluti 17 anni affinché la Cassazione dirimesse questo equivoco, decidendo una volta per tutte che il divieto vale per tutto il patrimonio arboreo che orla le strade extraurbane, sia quello precedente il '93, sia quello successivo.

La sentenza che ha condannato a un anno e sei mesi il cantoniere dell'Anas di Foligno costituisce ora unpunto di riferimento sia per tutti i tribunali e le procure d'Italia. Sia per gli enti proprietari delle statali extraurbani, in particolare l'Anas e le Province che d'ora in avanti dovranno stanziare ingenti investimenti per mettere in sicurezza le strade alberate. L'avvocato civilista Sandra Gracis è la prima ad essersi ispirata alla sentenza della Suprema corte per riaprire una vecchia causa. "Tutti i parenti di automobilisti morti avvenuti nell'ultimo decennio contro un albero - spiega il legale - possono ora fare una causa civile per ottenere un indennizzo". "Ho subito citato l'Anas - aggiunge l'avvocato Gracis - per la morte di Tommaso Rossi, schiantatosi l'11 giugno del 1996 (allora aveva 28 anni) contro un platano della statale "Pontebbana" fra Treviso e Conegliano. Una strada del Trevigiano sulla quale sono morti contro gli alberi decine di automobilisti". In tutta Italia ci sono migliaia di chilometri di strade extraurbane che hanno sul ciglio alberi killer. L'Aci, da alcuni anni, ha deciso di non proseguire più nel censimento degli incidenti stradali contro gli alberi. Ma le vittime restano ogni anno centinaia.

L'ultima, una ragazza di 17 anni, Claudia Martignago, schiantatasi contro una pianta sabato notte sulla statale che porta a Maser, in provincia di Treviso. "Non è giusto - commenta Gian Marco Sardi, della Società Italiana di Psicologia della Sicurezza Viaria - dare la colpa agli alberi. L'incidente è sempre la risultate dell'interazione di tre fattori: uomo, veicolo ed ambiente. Per aumentare realmente il livello di sicurezza e diminuire il numero di incidenti, morti e feriti è necessario intervenire al massimo e in modo concertato su tutti e tre i fattori. Quindi anche con la messa in sicurezza di guardrail, alberi, ma anche pali della luce, non percepiti come pericolosi, ma strutturalmente più rischiosi di altre situazioni".

postilla

Ci si mette anche il Codice della Strada, e in qualche modo c’era da aspettarselo, da un prodotto DOC certificato della cultura auto-centrica del ‘900. Però fa un certo effetto tornare di peso, e col peso soverchiante della Legge, a certe discussioni che avevo orecchiato nei primi anni ’60, quando qualche bel tomo discettava mi pare dei filari di Bolgheri come di fosche muraglie che ci impedivano di guardare al futuro.

Visto che nel caso specifico si parla di territorio non ancora devastato dalla piaga dello sprawl , che qualche architetto speranzoso di incarichi continua a declinare con vezzeggiativo di città diffusa, vediamo cosa potrebbe succedere adeguandosi davvero alla sentenza della Cassazione sul patrimonio arboreo delle strade extraurbane. Atto primo, e trattenete il fiato amanti del paesaggio italiano: via tutti gli alberi che non stanno alla distanza prescritta, ma proprio tutti tutti tutti (chiunque qui può avere un terrificante flash proustiano di scorci, migliaia di scorci, massacrati).

L’alternativa, se in qualche caso esiste, è pure peggio, ovvero per tutelare l’albero o l’alberatura si fa la variante stradale, e si può immaginare la classica sensibilità media dei progettisti e cantieri al rapporto col paesaggio. Ma siamo solo all’antipasto, e le prime avvisaglie del futuro chi le vuole vedere le ha già viste in abbondanza in certe realizzazioni rurali o suburbane recenti, dove seguendo i crismi della Corte Suprema (chissà perché anche qui si usa il termine all’americana) si va ovunque “predisponendo un idoneo guardrail”. Questo idoneo guardrail, un po’ come il suo analogo margine cementizio New Jersey , concepito a suo tempo per un uso sporadico, sfruttato troppo e male diventa una vera piaga per il territorio e il paesaggio, oltre che in fondo anche per la decantata sicurezza.

Solo per fare un esempio (appunto molto evidente là dove si sono realizzate queste belle pensate) la segregazione auto-centrica della strada extraurbana rende i tracciati simili a una caricatura autostradale, e pure senza altri relativi pregi, come l’ampiezza delle fasce di rispetto o gli interventi di landscape . Il che non solo apre la via alle più volte minacciate privatizzazioni e applicazioni di pedaggi, ma sostiene una precisa forma insediativa a sprawl auto-centrico, con corsie, svincoli, accessi controllati, lottizzazioni monofunzionali a cul-de-sac che instaurano in grande stile con l’arteria principale un rapporto assai simile a quello che oggi hanno con l’autostrada le fasce di servizi dedicati, o con le superstrade i centri commerciali e parchi a uffici.

Ed è solo un esempio, ce ne sarebbero altri.

È questo che si vuole, per il territorio italiano? Oppure qualcuno ha qualcosa da dire alla nostrana Corte Suprema, o a quei mona che hanno votato magari senza accorgersene un Codice della Strada simile? (f.b.)

Il sindaco Michele Orlando del Pd, lo aveva promesso firmando l’ordinanza che «vietava ai suoi concittadini di morire» : per ovviare alle ganasce del patto di stabilità, l’ampliamento del cimitero del paese alle porte di Brescia doveva essere dato «in concessione» ai privati. E così è stato. Questa mattina, infatti, Orlando firmerà la cessione dell’area edificabile «a loculi» alla Cogeme, multiutility di Linea Group che si occupa prevalentemente di servizi energetici ed ambientali.

Spiega il sindaco: «I vincoli di bilancio imposti dal Patto di stabilità ci hanno impedito di ampliare il camposanto. La soluzione, quindi, era una sola: affidare la struttura a un privato individuato grazie a un appalto pubblico. Il fatto che la gara sia stata vinta da una società che vede tra i soci 70 comuni del bresciano è una garanzia» . L'appello di Orlando al presidente della Repubblica e al ministro Tremonti era partito con raccomandata all’inizio dello scorso anno.

Il sindaco chiedeva di poter «disobbedire » al patto di stabilità e utilizzare i soldi accantonati (circa 200mila euro) per rendere agibili 100 nuovi loculi. Senza aver ottenuto risposta dal governo né dal Colle, all’inizio dell’agosto scorso Orlando era corso ai ripari con un'ordinanza che «vietava» di morire.

Chiosa il Presidente di Cogeme, Gianluca Delbarba: «Credo che la nostra partecipazione alla gara di Roncadelle (comune che non è socio Cogeme) e la relativa disponibilità a sostenere investimenti nei cimiteri siano una ulteriore dimostrazione di quanto sia attiva la società, che non dimentica mai i bisogni del territorio e cerca di soddisfarli» . Cogeme costruirà i nuovi loculi a sue spese, mettendoli poi sul mercato e gestendoli per almeno 30 anni. Ma guai a parlare di «business del caro estinto» : i prezzi saranno calmierati e non potranno superare le tariffe imposte dal comune.

postilla

Tutto come da copione si potrebbe dire, se non fosse per un particolare, magari ininfluente: il comune di Roncadelle il popolo italiano lo scambia facilmente con quello di Brescia. Non guardando in faccia il sindaco, s’intende, ma più concretamente attraversando la conurbazione bresciana sulla Tangenziale SS11 o sulla parallela Autostrada: a destra se state andando a Kiev, a sinistra se siete diretti al sole di Lisbona. Di Roncadelle, proprio da quell’osservatorio privilegiato Lisbona-Kiev, si può godere lo spettacolo imponente delle decine e decine di ettari di territorio comunale trasformato in una piattaforma a corsie varie, parcheggi, svincoli di collegamento, schiere implacabili di scatoloni sormontati da altrettanto implacabili insegne, che luccicano nella notte padana manco fosse sempre Natale. Sarebbe interessante, risalendo via via nei decenni, andare a leggere l’evoluzione progressiva di questa piattaforma spaziale, e soprattutto elencarne le varie motivazioni di “sviluppo socioeconomico locale” addotte dagli amministratori che di volta in volta hanno concesso a operatori privati l’unica risorsa di cui un Comune può disporre, il territorio. Per finire, come ineffabile ci racconta oggi il fatalista articolo del Corriere, allo smaltimento cadaveri e dolori in multi utility, che fa sempre internazionale, efficiente, luminoso futuro. Ci toccherà magari leggere, fra qualche anno, della privatizzazione di qualcos’altro? Che so, dei matrimoni (con tariffa a discrezione dell’operatore), o dei giardinetti, con accesso riservato ai possessori di “green card”? Mah! (f.b.)

Una primavera anticipata e proprio a Milano, nella roccaforte del potere. Nonostante le anticipazioni della vigilia lasciassero intuire il rilievo politico e la forte partecipazione all'appuntamento, la realtà ha superato ogni aspettativa. Migliaia e migliaia di persone hanno risposto all'appello di Libertà e Giustizia con la forza contagiosa di un'energia che rompe gli argini.

Il PalaSharp gremito e la fiumana rimasta all'esterno ravvivano la situazione delle api di Zygmunt Bauman, «espressione di un intenso traffico sociale che intreccia relazioni tra diversi, associazioni di cittadini che chiedono risposte, gruppi con una spiccata soggettività e identità sociale». Come era già successo qualche settimana fa a Marghera, quando un altro alveare produceva i suoi frutti. Anche lì migliaia di persone, nei grandi spazi del Rivolta, hanno connesso esperienze e storie diverse. Operai, studenti, ambientalisti insieme chiamati dal movimento «Uniti contro la crisi». Anche lì la Fiom di Landini e gli intellettuali (da Marco Revelli a Guido Viale) hanno cercato e trovato il filo di un pensiero e di una pratica che, come ha detto Zagrebelsky ieri, «non chiede niente per ciascuno perché chiede tutto per tutti». Le api italiane sono al lavoro da tempo e nella straordinaria assemblea di Milano hanno depositato il miele di un'opposizione larga e profonda, radicata e consapevole. Diritti civili e diritti sociali, interpretati dalle voci autorevoli dell'intellettualità e del sindacato, si ritrovano e si riconoscono. Dicono che la costruzione della democrazia deve cucire nuove bandiere.

Dal Rivolta a Milano, un'altra mappa dei desideri viene disegnata da chi ha saputo resistere alle armate di un potere che ha corrotto l'etica e l'estetica della convivenza civile. Perché oggi l'Italia non è solo sfigurata dalla corruzione che si fa valore, dalle donne trattate come tangenti del potere, non è solo spaccata tra nord e sud, tra salario e profitto, ma è divisa tra chi sa e chi non sa, è ferita dall'ignoranza che l'ammutolisce con la bomba mediatica. Al punto che non ci sarà da stupirsi se l'eco della manifestazione di Milano sarà più forte all'estero che in Italia.

Colpire questo infrangibile muro di cristallo che spezza in due il paese è in cima alla lista degli obiettivi dell'opposizione sociale e culturale.

Eppure, nonostante la camicia di forza di una propaganda pubblicitaria asfissiante, formidabili anticorpi resistono e fanno rete. La farsa della cricca al potere, l'arroganza dei Berlusconi e dei Marchionne, dovranno fare i conti con chi ha l'intenzione e la convinzione di non concedergli repliche.

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