Greenreport.it Il decreto con cui è stata approvata la compatibilità ambientale della nuova pista aeroportuale di Firenze è illegittimo. Il TAR ha accolto i ricorsi presentati dalle associazioni e da ben sette comuni, vanificando la palese forzatura operata dai ministri del governo Renzi. (m.b.).
Una riflessione sulla Rockfeller Foundation, che finanzia la mitigazione degli effetti dei cambiamenti climatici: affidarsi ai soldi che provengono da gruppi che devono la loro ricchezza alla produzione e vendita di combustibili fossili, è una buona mossa? Tra volontà di aiuto e pubbliche relazione la linea è labile e il flusso instabile nonostante quanto devoluto in beneficenza è niente rispetto ai ricavi. (i.b)
Il Consiglio di Stato blocca la pessima Variante al Regolamento urbanistico di Firenze che introduce la ristrutturazione edilizia come categoria di intervento sugli immobili notificati, e tante altre nefandezze. Fino alla sentenza i cantieri sugli edifici storici sono congelati. Una sconfitta per il candidato sindaco Nardella ma una vittoria per associazioni e movimenti che l'hanno osteggiata. (a.b)
Fermate le speculazioni sugli edifici monumentali del centro città e delle colline e le vendite di immobili storici di proprietà pubblica. Legittimata l’azione della magistratura.
L’ordinanza cautelare del Consiglio di Stato di ieri blocca la norma urbanistica recentemente varata dal Comune di Firenze, la Variante all’art. 13 delle NTA del Regolamento urbanistico. “La variante è un vero e proprio regalo agli “investitori”, agli immobiliaristi, ai parassiti della rendita. Ed è stata perciò a lungo avversata dall’opposizione, dai movimenti e dalle associazioni, tra le quali Italia Nostra, che ha presentato il ricorso. Di questo siamo soddisfatte”, hanno detto le candidate in consiglio comunale per Potere al Popolo Francesca Conti (capolista) e Ilaria Agostini, docente di urbanistica.
La variante ora sospesa introduce una norma che elimina il vincolo di restauro dagli edifici storici e ne indebolisce drammaticamente la tutela. Il variato art. 13 introduce inoltre la “ristrutturazione edilizia” tra gli interventi ammissibili sul patrimonio edilizio storico notificato ai sensi del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Una categoria troppo ampia, quella della “ristrutturazione edilizia”, che prevede persino la demolizione dell’edificio e la sua ricostruzione in forme diverse da quelle originali.
Per Conti e Agostini “si tratta, perciò, di una variante urbanistica che regala il centro storico all’economia estrattivista del turismo globale; che apre la strada a nuove speculazioni sugli edifici monumentali del centro città e delle colline; che agevola la vendita di immobili storici di proprietà pubblica; e che infine legittima le speculazioni bloccate dal sistema giudiziario”.
Conti e Agostini, attive nel laboratorio politico perUnaltracittà, concludono ricordando come proprio questo tema sia stato al centro della loro azione “ne abbiamo scritto articoli di approfondimento sulle pagine de “La Città invisibile”, un appello internazionale e collaborato alla realizzazione di una trasmissione su Radio Wombat”.
Dietro la facciata niente. Firenze dimentica il restauro
di Ilaria Agostini
L’assalto al patrimonio storico architettonico di Firenze. A chi giova?
di Antonio Fiorentino
Florence 2018: goodbye to the restoration of architectural monuments
del Gruppo urbanistica PUC
Una variante per la degenerazione urbana
Per il malaffare, espansione o rigenerazione, pari sono. Un commento all'ennesima vicenda di tangenti legate all'urbanistica, in Lombardia. (m.b.)
In Lombardia, come in molte parti di questo disastrato paese, si era appena innescato un nutrito dibattito sulla “Rigenerazione Urbana” come alternativa al “Consumo di Suolo”.
Vediamo come si presenta l’iniziativa regionale:
"Da adesso in avanti - ha detto l'assessore regionale al Territorio e Protezione civile, Pietro Foroni - Regione Lombardia inaugura l'epoca della programmazione urbanistica ordinata che ci porterà, grazie a regole chiare e condivise da tutti, ad azzerare da qui al 2050 il consumo di suolo agricolo".
“Con questi provvedimenti – ha commentato il relatore Mauro Piazza (Fi) – Regione Lombardia ha introdotto un sistema di norme finalizzate a perseguire, mediante la pianificazione regionale, provinciale e comunale, le politiche in materia di consumo di suolo e rigenerazione urbana, con l’obiettivo di concretizzare quanto previsto dalla Commissione europea, ossia di giungere entro il 2050 a una occupazione netta di terreno pari a zero”.
“Da sottolineare tra l’altro – ha aggiunto il relatore – la norma del Ptr che, rispondendo a criteri di realismo e tenendo conto delle necessità delle attività produttive, consente una forte spinta alla rigenerazione del suolo urbano, favorendo la trasformazione delle aree dismesse”.
Se la pratica di uno smodato consumo di suolo lascia il posto alla rigenerazione urbana dovremmo essere tutti soddisfatti. O no?
Certo qualche vecchio cultore della pianificazione urbana continua a insistere che dietro l’uno e l’altra permane il medesimo “motore” della valorizzazione edilizia comunemente detta “speculazione”, ma il termine stesso appare desueto al tempo della finanza globalizzata che, almeno nelle forme, ha mandato in soffitta figure come quella del mitico Edoardo Nottola immortalata nel film “Le mani sulla città”. Ma proprio quando l’effluvio di convegni e seminari sembra segnare una nuova frontiera per la politica territoriale (almeno in Lombardia), ecco che la cronaca si incarica di riportarci alla realtà delle cose dove, neanche tanto sommerse, continuano a funzionare le vecchie logiche. Anche le peggiori. L’ennesima inchiesta giudiziaria in corso tra Milano e Varese mette in evidenza, tra gli altri, un sistema di malaffare, che ha il suo epicentro nella gestione di territori e servizi urbani, che nulla ha da invidiare a quelli di un oscuro passato. Facciamocelo raccontare dalla testata on-line locale “Varesenews”.
Il futuro è già cominciato: una satira distopica per leggere una città e il suo governo. A volte la fantasia ci aiuta ad immaginare dove potremmo andare a finire. Bisogna vedere se i fiorentini saranno capace di scongiurare il rischio alle elezioni di fine mese. (i.b.)
Per vincere l’ambìto premio, la città gigliata optò per un progetto molto ambizioso: far arrivare le grandi navi a Firenze. L’idea, che mai Leonardo aveva osato formulare, venne al sindaco: “Firenze è la città che navighiamo”. Si dimostrò lungimirante.
Fu una benedizione anche quella grande buca, detta di Foster. Un progetto infrastrutturale folle, mai compiuto, e certo un inghiottitoio di denaro pubblico che mise in ginocchio le finanze di Roma, quando ancora l’Urbe contava qualcosa. La buca, guarda caso, aveva le dimensioni adatte per ospitare una grande nave.
Anche l’aeroporto fu una benedizione. Da decenni in stallo, il progetto della pista convergente-parallela offriva l’occasione per alimentare la darsena. Il nuovo aeroscalo era infatti a rischio di sommersione. Secondo il masterplan redatto nelle segrete stanze in deroga alle leggi ambientali e a quelle dell’idrodinamica, il Fosso Reale avrebbe dovuto essere deviato in direzione di Prato e, perciò, risalire di quota. Solo tecniche molto sofisticate avrebbero consentito all’acqua del dannato fosso di scorrere in contropendenza (cioè in salita), nella Piana già ricolma di nocività.
I decisori, di necessità fecero virtù. Immaginarono allora di condurre il Fosso Reale verso Firenze, per raggiungere la Foster. Previdero l’adduttore, lo scolmatore, l’allaccio navigabile con il Bisenzio e quindi con l’Arno.
Tutto funzionò. Firenze vinse il bando e nella darsena giunse l’acqua.
Così, ogni anno, cento milioni di croceristi poterono godere della vista della cupola brunelleschiana e della città antica, finalmente liberata degli abitanti. Nei caldi pomeriggi, sui ponti dei transatlantici si gustava il gelato prodotto nelle sale degli Uffizi. La sera si danzava al suono dell’orchestrina Dario&theStakeholders.
Tutto funzionò anche quando il livello del mare cominciò a salire: il turismo era resiliente.
Le acque divagarono. Il mare si insinuò nel fiordo della Gonfolina. Le grandi navi poterono finalmente dimenticare la poco romantica (e molto manifatturiera) rotta Càscina-Santa Croce-Empoli. Colossali navigli pluripontati risalivano ora verso Firenze all’ombra delle scogliere del Malmantile. Alla svolta delle Signe, la vista da cartolina richiamava alla mente gli ultimi istanti della perduta Venezia.
La cupola del Duomo si rifletteva sul grande specchio d’acqua, i flutti ne lambivano i fianchi; sulla lanterna del Battistero, ridotta a boa, riposavano i gabbiani. Di tanto in tanto, il silenzio era rotto dagli idrovolanti che, per solida consuetudine, solcavano il lago in direzione convergente-parallela.
Intervento al Convegno di Rifondazione Comunista «La città ai tempi del neoliberismo» che si è tenuto il 6 Aprile 2019 a Bergamo. Dal caso emblematico di Milano a considerazioni sulla deriva dell'urbanistica nazionale. (i.b.)
«Oggi è l’americanismo indigesto che folleggia in grattacieli.
Perché le forze nuove della città si esprimono in modi così alieni, così sciocchi, così dannosi all’utile?
Anche se animato da volontà di far nuovo, di far grande, ogni signore delle ferriere suole affidare la soluzione dei propri problemi a un suo tecnico, necessariamente ubbidiente alla moda che è nell’aria e alla personalità volitiva del padrone.
Costui ha sempre delle idee, raccolte a Londra, a Parigi, oggi soprattutto in America: costui si gloria non di inventare (la parola è disusata fuor del campo tecnico) ma d’imitare ieri un lord Derby, o un banchiere Laffitte, oggi una Corporation famosa pel suo grattacielo.
...poggiando su questo caposaldo raggiunto col ragionamento e coi calcoli, noi scorgiamo un nuovissimo panorama davanti agli occhi della mente: vediamo il centro mercantile di Milano dover risorgere con edifici relativamente bassi, e la città futura assomigliarsi in questa porzione centrale molto più alla città del Rinascimento che non a quella dello “stupido secolo XIX” che la guerra ha distrutta.
...le case non hanno ragione d’essere più basse di quanto lo fossero ieri (limite generale a m. 24), ma neppure di salire più in alto.»
[Tratto da G. de Finetti, Sulle aree più care case alte o case basse ?, (1945-’46 circa), ora in G. de Finetti, op. cit., 2002, Milano, Costruzione di una città, Hoepli, Milano 2002, p. 395.]
«La mania delle grandi altezze rientra nella mania del «Kolossal», così caratteristico negli sviluppi moderni, nella megalomania moderna.
Non la grande altezza dobbiamo desiderare, nel caso di costruzioni in aree urbane più care, ma la giusta altezza; e questa va determinata mediante esperienze preventive di non ardua istituzione.
Solo così si possono evitare quei wastes in planning che ad esempio hanno portato a costruire a New York l'Empire State Building, che misura più di 300 m. in altezza (…)
La stessa tendenza presiedette nelle nostre città a molte iniziative edilizie che per essere di mole assai minore non mancano di costituire col loro complesso una massa di cattivi investimenti assai gravosi per l'economia italiana e che, last but not least, hanno recato immenso danno, spesso anzi definitivo ed irrevocabile insulto al volto delle nostre città”
[Tratto da G. de Finetti, ibidem, p. 397]
Nelle più o meno grandi trasformazioni urbane attuatesi a Milano dal quindicennio scorso (ex Fiera/Citylife, Porta Nuova District) o in corso di definizione (ex scali ferroviari FS/Sistemi Urbani, ex Piazza d’Armi, ex caserme, ecc.) le quantità edificatorie consentite dal Comune sono state “consensualmente contrattate” in base ad accordi con le proprietà fondiarie determinandoli non su preventivi criteri di congruità urbanistica, ma solo sulle aspettative di rendita delle proprietà in base alla necessità di risanare situazioni debitorie pregresse (Fondazione Fiera, con 250 Milioni di € di debito imprevisto per la costruzione del nuovo polo di Rho-Pero) o alle disponibilità economiche degli investitori finanziari (Intesa San Paolo e Generali a Citylife; Hines-Catella prima e Fondo Sovrano Qatar poi a Porta Nuova) che hanno consentito loro di pagare alle proprietà delle aree una rendita fondiaria doppia di quella corrente per le operazioni immobiliari più usuali (1.800 € per metro quadro di superficie commerciale vendibile contro i 900 €/mq correnti nel 2005 per operazioni immobiliari di media dimensione), con una scommessa speculativa sull’effetto monopolistico atteso sull’orizzonte dei successivi 15-20 anni e che solo operatori finanziari di quella dimensione potevano permettersi di affrontare e anche di rischiare di perdere – come in parte sta accadendo – senza con ciò andare in fallimento.
Oltre tutto, ciò è avvenuto senza nemmeno che il Comune riuscisse ad ottenere una consistente quota di compartecipazione economica agli utili che vi si sarebbero potuti stimare attesi, come alcuni propongono debba essere il criterio di valutazione dell’utilità pubblica di tali scelte[1] .
Quanto a quello di ottenere adeguate risorse nella dotazione di spazi pubblici corrispondenti ad una concezione di moderna città europea la partita si è rivelata altrettanto perdente: solo un terzo delle dotazioni di verde e servizi pubblici promessi nelle previsioni iniziali è stato effettivamente realizzato, perché altrimenti non vi sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati o avrebbero dovuto essere alti il triplo delle già incombenti torri da 200 metri di altezza. Ciò che non è divenuto spazio pubblico ed è stato pagato alla proprietà fondiaria originaria 2.000 €/mq è stato indennizzato al Comune a 300 €/mq, cifra con la quale si può espropriare una stessa quantità di aree da destinare ad uso pubblico solo in estrema periferia. Quel criterio di falsa equipartizione mezzadrile (metà al pubblico, metà al privato) - che come vedremo viene surrettiziamente spacciato come equa divisione delle aree, ma non nella definizione dei pesi insediativi – in questo caso non è stato ritenuto criterio valido affinché il Comune venisse remunerato dall’investitore alla pari della rendita fondiaria: 1.000 € ciascuno!
Eppure, quando discuto con persone anche con me d’accordo nella valutazione critica delle impostazioni e degli esiti prodottisi o prevedibili, facendo rilevare coi miei calcoli la scorretta o gravemente insufficiente determinazione dei cosiddetti “standard di spazi pubblici” fissati per legge mi capita spesso di sentirmi obiettare che i possibili effetti migliorativi che si sarebbero realizzati con criteri di legittimità e razionalità urbanistica che avrebbero imposto una maggior quantità di aree pubbliche rischiano di essere difficilmente compresi dall’opinione pubblica a fronte del successo di immagine mediaticamente veicolato e alla folta frequentazione – soprattutto giovanile - che gli interventi realizzati riescono ad attrarre con la loro inusuale novità e che .- quindi – tanto vale affidarsi solo ad un discussione sul gradimento della presuntamente “libera” inventività tipologico-progettuale degli edifici. Assistiamo così a interi servizi giornalistici sulla inusuale novità delle torri di Citylife, solo perché fantasiosamente denominate Il Dritto-Isozaki, o Il Torto-Hadid, o Il Gobbo-Libeskind oppure sulle “insule” ispirate da architetture simil crocieristico-navali (Hadid) o vagamente astronautiche (Libeskind), ma che comunque si distanziano assai poco tra loro e giusto perché ci è stato ficcato in mezzo un po’ di verde pubblico a strisce, altrimenti finirebbero direttamente spiaccicate l’una contro l’altra. A Porta Nuova Il Diamantone-Caputo/Kohn/Pedersen/Fox, la Torre Solaria-Studio Arquitetconica, il Verde Verticale-Boeri e quello fallico di Cucinella per Unipol non ha ancora trovato un’intitolazione, solo perché si rischia di cadere nel pecoreccio: tutte incombono su una striscia di percorso pubblico pedonale in cui ci si rapporta solo con pub, temporary stores, shopping centers di piani terra o sotterranei.
Ho avuto il modo di dimostrare planivolumetricamente[2] che in alcune parti dell’area di Porta Nuova il Comune, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto far sì che i 250.000 metri cubi di edificazione impostigli dall’esito sfortunato di un pluridecennale contenzioso giudiziale si sviluppassero con tipologie a volumi compatti ed altezze non superiori ai 35-40 metri, come sono stati realizzati col Markthall di Rotterdam e col nuovo edificio del Ministero delle Finanze francese a Bercy, anziché per lo più con edifici a torre di grande altezza.
Sia nel caso di Citylife che in quello di Porta Nuova si tratta quindi sostanzialmente di attuazioni orfane di qualunque orientamento urbano, insediativo e tipologico riconoscibilmente guidato e voluto dall’ente pubblico, lasciato invece totalmente alla proprietà privata nella possibilità di stabilire liberamente non solo “dove e come” (spazi ad altezza media di interpiano di 3 metri, ciò che massimizza la superficie commerciale vendibile, liberamente adattabile a residenza o uffici secondo l’andamento delle opportunità di mercato), ma anche “quanto” spazio pubblico e soprattutto quanto spazio pubblico per abitante/utente realizzare effettivamente nell’intervento.
In fondo proprio come si è lasciato negli anni ‘50 e ‘60 con le lottizzazioni privatisticamente autoregolate, solo con un po’ più di agio economico e un po’ più di bizzarria nelle finiture dell’immagine degli edifici ![3]
Proverò allora a ripercorrere la storia della legislazione urbanistica in Italia, cercando di dimostrare perché quelle quantità minime di spazi pubblici e di spazi pubblici per abitante/utente (gli “standard”, appunto) che dovrebbero essere garantite per legge in modo indisponibile dalla cedevole volontà del Comune e dalle fantasiose soluzioni dei progettisti loro ispirate dalle aspettative delle proprietà private siano in realtà un elemento necessario anche se non del tutto sufficiente a garantire l’interesse pubblico collettivo degli esiti urbani di tali interventi.
Le norme sugli standard minimi di spazio pubblico e sulle distanze minime degli edifici tra di loro e dai confini di proprietà furono introdotte nel 1967 (pur con grande difficoltà ed aspre polemiche sulla compressione dei diritti alla libertà d’uso delle proprietà, giunte sino a fomentare tentativi di colpo di Stato) con la Legge “Ponte” (così detta perché doveva essere una modifica di emergenza della legge del ’42, in attesa di una riforma organica che non arriverà mai) e il successivo Decreto Ministeriale del 1968.
Essa ribadì l’obbligo per i Comuni di approvare un Piano Regolatore Generale (PRG) prima di qualunque possibilità di intervento da parte dei privati, i quali potevano farlo solo in base alle localizzazioni e alle quantità edificatorie e di spazi pubblici in esso stabilite. Ciò era già previsto nella Legge Urbanistica approvata nell’agosto del 1942 sotto l’impulso dell’architetto-gerarca Alberto Calza Bini, segretario del Sindacato Nazionale Fascista Architetti e fondatore dell’Istituto Nazionale di Urbanistica-INU.
In questa doppia veste, con questa legge egli mirava a due obiettivi: il primo, impedire che l’assetto urbano fosse determinato prevalentemente dalla struttura della proprietà fondiaria esistente, la quale - pur legittimata alla propria valorizzazione economica - a suo avviso non poteva avere la necessaria visione d’insieme, possibile solo col disegno di un assetto urbano complessivo; la seconda, che con l’affidamento degli incarichi dei progetti dei piani regolatori e piani particolareggiati da parte dei Comuni che dovevano approvarli prima della possibilità dell’intervento edificatorio da parte dei privati, si sarebbe offerta alla sua corporazione professionale un’ampia occasione non solo di sviluppo economico, ma anche di affermazione del ruolo culturale e sociale della nascente figura professionale dei progettisti urbani.
Proprio per questo la legge del ‘42 aveva contenuti esclusivamente procedurali (da chi e come vengono approvati i piani urbanistici, quanto durano, ecc.), mentre – con un’impronta tipicamente “corporativa” - la corretta definizione dei contenuti di piani regolatori e piani particolareggiati (quantità edificabili, altezze e distanze degli e tra gli edifici, quantità di spazi pubblici) era lasciata alla manualistica e all’esperienza professionale dei redattori dei piani urbanistici.
La legge ottenne la distratta promulgazione del re Vittorio Emanuele II mentre stava in vacanza nella tenuta di caccia di San Rossore, ponendo così termine ad una resistenza trascinatasi per oltre un trentennio da parte degli esponenti della proprietà fondiaria. L’Italia era già entrata in guerra da due anni e anche se le sorti del conflitto non avevano ancora preso la piega drammatica che si avrà coi bombardamenti alleati sulle città italiane nel 1943, era evidente che non era proprio il momento adatto a preoccuparsi davvero dei possibili vincoli che la legge avrebbe posto alla libertà di investimento immobiliare sulle proprietà fondiarie: chi ne aveva era impegnato ad occuparsi di borsa nera o di come salvarsi la pelle.
Com’è ovvio, col precipitare degli eventi bellici la legge e il suo regolamento di attuazione finirono rapidamente negli scantinati del Ministero dei Lavori Pubblici[4], e quando poi, nell’immediato dopoguerra, con la caduta del Fascismo e il cambio della forma istituzionale dello Stato da Monarchia a Repubblica, si porrà l’impellente necessità di ricostruzione delle città bombardate, essa verrà affrontata con strumenti d’emergenza, incompatibili coi tempi e le complesse procedure di approvazione previste nel 1942; e infine quando anche l’emergenza verrà superata, quella legge — benché vigente — finirà per apparire come l’eco spenta e ormai desueta di un mondo ormai travolto dagli eventi.
Non deve, quindi, sorprendere se, negli Anni Cinquanta e Sessanta, quando la ripresa economica conseguente all’iniziale ricostruzione del Piano Marshall andrà diffondendo anche un nuovo e più duraturo impulso all’attività edilizia, i Comuni si accinsero ad affrontare i problemi posti dalle trasformazioni urbane in corso come se essa non fosse mai esistita, tornando invece a ricorrere ad una prassi ancor più antica e per essi più usualmente abituale: quella delle “convenzioni”, cioè di accordi di natura privatistica presi di volta in volta con chi pressava per poter edificare, pur in assenza di qualunque progetto pubblico complessivo di assetto della città.
Il Comune, cioè, a partire dalla volontà espressa dalla proprietà di edificare una certa area, stipulava con essa un contratto di diritto privato in cui, a fronte dell’impegno del Comune a rilasciare le licenze edilizie per certe volumetrie concordate, essa si impegnava a realizzare le strade di accesso all’area, quelle di distribuzione interna, i marciapiedi, l’illuminazione stradale e, nei rari casi migliori, anche a cedere le aree per costruire qualche opera pubblica e solo talvolta, ma ancor più raramente, contribuendo in qualche modesta misura al loro costo di realizzazione.
Dove e quanto costruire era perciò in prima istanza decisione della proprietà fondiaria (o del suo potenziale acquirente) in base alle proprie risorse economiche, alle proprie capacità tecnico-costruttive (tipicamente in quel periodo: strutture in cemento armato con edifici di 8-15 piani; i grattacieli in cemento armato quali il Pirelli o la Velasca richiedevano la genialità di Nervi o di Danusso. In precedenza la struttura muraria consentiva edifici di 4-6 piani; oggi con l’acciaio su può arrivare facilmente ai 30-40 piani e oltre) e all’aspettativa di collocazione sul mercato degli immobili realizzati. Con quali contropartite in termini di aree e servizi pubblici era affidato, di volta in volta, alla capacità o volontà di contrattazione degli amministratori pubblici del momento: il rapporto fra quantità edificabili ammesse e attrezzature urbane corrispondenti che ne derivava, l’assetto insediativo della città ne era il risultato occasionale.
I Comuni di maggior dimensione che casualmente si trovavano ad avere un Piano Regolatore già in vigore in base alla Legge del 1865, considerandolo un intralcio alla possibilità di stipulare liberamente quegli accordi convenzionali, escogitarono artifici giuridici per poterne aggirare le indicazioni: Milano fu il caso più emblematico con il proverbiale “rito ambrosiano”, che considerava le quantità edificatorie stabilite nelle convenzioni, ma in contrasto col Piano Regolatore vigente, come “licenze in precario”, cioè consentite provvisoriamente in attesa di una futura modifica del Piano e da demolirsi se in seguito non confermate (cosa in pratica ovviamente impossibile, poiché si sarebbe trattato di demolire interi quartieri ormai abitati). I Comuni minori, in genere nell’hinterland metropolitano dei grandi capoluoghi in via di conurbazione sotto la spinta del flusso migratorio, in assenza di Piano Regolatore si regolavano “a vista”.
L’esito fu - ovviamente - caotico soprattutto nei casi compromessi da comportamenti collusivi (che pure, in moltissimi casi, si verificavano) tra Amministrazioni comunali e iniziative fondiario-immobiliari, ma anche in quelli in cui il pubblico provò a mostrarsi più autonomo e virtuoso.
Quando ancora oggi noi vediamo interi quartieri con case troppo alte attorno a strade troppo strette e invase dalle auto parcheggiate in continuità sui bordi, ebbene questo è l’esito di quella prassi prolungatasi per tutti gli Anni ’50 e ’60.
Non bastarono le numerose e ripetute denunce ed inchieste giornalistiche sul degrado diffusosi nell’assetto urbano e territoriale del Paese (in prima fila Antonio Cederna sul settimanale L’Espresso, che denunciò la collusione tra Amministrazione comunale capitolina e immobiliarismo laico e vaticano, col titolo “Capitale corrotta, nazione infetta” e il regista Rosi col suo film “Le mani sulla città”, ambientato nella Napoli di Lauro) a smuovere l’inerzia delle forze politiche di maggioranza del centro-sinistra (DC, PSI, PSDI, PRI) e le resistenze di quelli di destra e del potere economico-immobiliare.
Occorse, invece, che si verificasse un episodio drammatico e clamoroso come la frana di Agrigento nel 1966 (il crollo di 200.000 metri cubi di edifici malamente accatastati sul fianco di una collina franosa, fortunosamente senza vittime, dati i segni premonitori dell’evento), che divenne simbolo dell’esito generalizzato un uso subalterno delle risorse territoriali rispetto allo sviluppo economico durante il “boom” del dopoguerra, perché il Parlamento — dopo la relazione di una Commissione d’inchiesta ministeriale — varasse un provvedimento d’urgenza per porre fine a quella prassi illegittima e subalterna.
L’esperienza degli Anni ’50-’60, con i privati che facevano presentare in Comune progetti redatti da professionisti da essi incaricati, i quali non si peritavano di firmarli senza alcun minimo ritegno su altezze, distanze e dotazione di spazi pubblici indusse a ritenere di poter non fare più affidamento sulla loro autonoma deontologia tecnico-professionale, ma a prevedere per norma di regolamento alcune prescrizioni inderogabili: e siamo così ai famosi “standard” fissati nel 1968, solo un anno dopo la legge, da un Decreto del Ministro dei Lavori Pubblici.
In sostanza esso prescrive una distanza minima di 5 metri dai confini di proprietà (prima di allora vigeva solo la norma del Codice Civile di 1,5 metri dal confine, con la conseguente distanza di 3 metri tra edifici indipendentemente dall’altezza!), una distanza tra gli edifici pari a quella di altezza maggiore con un minimo assoluto di 10 metri tra pareti finestrate e, infine, che coi Piani Regolatori Generali e coi loro Piani Attuativi i progettisti dovessero garantire la realizzazione di almeno 18 mq per abitante di spazi pubblici di quartiere (circa 9 mq di verde e 9 mq di scuole, asili, centri civici, parcheggi, ecc.; ma in ciò è stata prassi lasciar valutare al progettista di piano in base ad opportunità) + altri 15 mq per abitante di parchi territoriali e 2,5 mq per abitante di grandi funzioni urbane (attrezzature per l'istruzione superiore all'obbligo esclusi gli istituti universitari e attrezzature sanitarie ed ospedaliere), indicando anche come dovessero computarsi gli abitanti delle future realizzazioni edilizie: mediamente 1 per locale, inteso come 30 metri quadri di pavimento muri compresi.
Certo erano criteri “empirici” desunti dalla manualistica e da alcuni rari esempi di buona pratica professionale tradotti in norma di legge da un gruppo di giovani volonterosi ed entusiasti funzionari ministeriali (Vezio De Lucia, Fabrizio Giovenale, Giusa Marcialis, Daria Ripa di Meana, Edoardo Salzano, Giulio Tamburini, Maurizio Di Palma, Camillo Nucci, Gianni Nigro) messi al lavoro dal “mitico” Direttore generale dell’ufficio urbanistica del Ministero Lavori Pubblici, Michele Martuscelli.
Inoltre le aree previste ad uso pubblico nei Piani Regolatori dovevano essere cedute gratuitamente dai privati ai Comuni al momento dell’attuazione dei loro Piani di lottizzazione e dietro pagamento dei costi delle opere pubbliche necessarie che vi erano previste (i cosiddetti “oneri di urbanizzazione”), sostituibili in alternativa dalla loro diretta realizzazione da parte privata, come per lo più si fece con le cosiddette opere di urbanizzazione “primaria”, cioè strade, marciapiedi e parcheggi, fognature, pubblica illuminazione, ritenute più facilmente controllabili in base a prescrizioni tecniche. I Comuni, viceversa, preferirono farsi pagare i costi presunti delle urbanizzazioni “secondarie”, cioè scuole materne, elementari e medie, centri civici, parchi, eccetera, per le quali il progetto su incarico dell’ente pubblico avrebbe dovuto maggiormente caratterizzarsi in consonanza agli obiettivi di orientamento politico e sociale delle amministrazioni locali.
Quando talvolta sento lamentare l’eccessiva rigidità normativa di queste prescrizioni non posso che rispondere che al di là dei “numeri” esse hanno tuttavia sicuramente un valore come indicazione almeno di ordine di grandezza e che l’imposizione dall’esterno come norma la categoria professionale se l’è pur ben meritata con una prassi professionale che per tutti gli Anni ’50 e ’60 (ma sempre più spesso la vedo riemergere ancora di nuovo in questi anni di “liberismo” rimontante) che ha scontato la redazione di progetti ben al di sotto di quei minimi almeno quantitativi di decenza che le norme si propongono di tutelare.
Sta di fatto che sulla base di quelle prescrizioni normative tradotte nelle planimetrie e nelle norme tecniche di attuazione dei PRG, i privati erano poi autorizzati a far presentare ai Comuni dai propri progettisti dei piani di lottizzazione, i quali pur rispettandone le prescrizioni quantitative di cessione gratuita degli spazi pubblici, spesso erano più che altro improntati alla tutela e massima valorizzazione della struttura fondiaria pregressa: edifici di maggior dimensione e altezza in proporzione a quella dei lotti, orientamento determinato dalla forma e distanza dei confini, cessione frammentata pro quota degli spazi pubblici prescritti.
Era proprio ciò che l’impostazione della legge del ’42 si proponeva di evitare prevedendo, invece, l’obbligo anche di una seconda fase di conformazione pubblica, quello del Piano Particolareggiato con indicazione dei comparti edificatori e degli andamenti planivolumetrici. In questo modo, il piano di lottizzazione proposto dalle proprietà private successivamente al Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica si riduceva a poco più che un riaccatastamento dei lotti fondiari per adeguarli al disegno di conformazione urbana dei comparti edificatori e del planivolumetrico del Piano Particolareggiato di iniziativa pubblica. Con la Legge Ponte del ’67, invece, il Piano di lottizzazione dei privati direttamente successivo al PRG configura un piano di autonoma effettiva conformazione urbana in cui prevale però la tutela dell’assetto privatistico-fondiario.
Gli esiti spesso farraginosi dal punto di vista dell’esito di conformazione urbana dei Piani di lottizzazione dei privati ha via via portato a considerare irrilevante il miglioramento quantitativo imposto dagli standard minimi di spazi pubblici fissati per norma di legge, anche quando – con leggi urbanistiche regionali tra cui per prima nel 1975 quella della Regione Lombardia[5], seguita poi da quasi tutte le altre – lo standard minimo di spazio pubblico di quartiere previsto a livello nazionale è stato aumentato di circa il 50%, sino a 25-30 mq per abitante.
Oltre tutto, mentre dal 1968 in poi gli standard prescritti per spazi pubblici di quartiere i Comuni sono riusciti a farli attuare, facendoseli cedere gratuitamente nei Piani di lottizzazione via via approvati – anche se, come si è detto, con esiti più o meno buoni dal punto di vista della soddisfacente immagine urbana –, gli standard per i parchi territoriali sono stati, invece, per lo più lasciati disegnati nei Piani Regolatori, senza che venissero tradotti in acquisizioni alla proprietà pubblica, né con espropriazioni, né con cessioni messe a carico degli attuatori di Piani di lottizzazione.
Come sia accaduto è abbastanza intuibile – anche se non giustificabile – perché mentre è ovvio che gli standard “di quartiere” dovessero essere realizzati contestualmente a quella dell’ambito del piano di lottizzazione (salvo piccoli aggiustamenti marginali dell’ordine di frazioni di punti percentuali, se proprio non si fosse riuscito a far tornare la cosiddetta ”ragioneria degli standard”), non è apparso subito altrettanto chiaro che anche gli standard “generali” di PRG dovessero essere anch’essi posti in carico ai piani di lottizzazione o come cessione gratuita diretta se previsti “in situ” dal PRG o come compensazione monetaria per effettuare espropri forzosi altrove o, infine, come cessione di una quota di edificabilità per “perequarli” con la cessione volontaria gratuita da parte delle proprietà dei parchi territoriali previsti altrove dal PRG. Altrimenti, come è accaduto, i Comuni non avrebbero mai potuto farli realizzare autonomamente con espropri da indennizzarsi a carico dei propri magri bilanci.
Il problema sta diventando scottante perché – a seguito di ripetute sentenze nei ricorsi alla Corte Costituzionale succedutesi dal 1968 in poi – le aree sottoposte a vincoli di destinazione ad uso pubblico nel PRG/PGT devono essere acquisite al pubblico entro un determinato termine temporale (che improvvidamente il Parlamento, sempre nel 1968 e sino ad ora, ha fissato nella durata troppo breve 5 anni, per scongiurare ulteriori ricorsi; ma su questo potrebbe anche tornare a decidere diversamente, se solo ce ne fosse volontà e consapevolezza: i vincoli pubblici dei piani urbani di risanamento igienico della legge del 1865 duravano ben 25 anni !) altrimenti il vincolo decade e non è più possibile attribuire loro una nuova destinazione pubblica.
E’ ciò che nel 2014 è accaduto a Milano con l’area dell’ex Trotto S. Siro destinata dal PRG/PGT a verde sportivo pubblico e che – a seguito di un ricorso della proprietà SNAI – è stata trasformata in area privata edificabile, addirittura con una Determina Dirigenziale e all’insaputa dello stesso Consiglio Comunale, il quale avrebbe ben potuto anche optare per una destinazione a verde sportivo privato. Il rischio concreto è che la vicenda possa ripetersi anche per altre ben più vaste aree, quali le attigue piste di galoppo o l’ex Piazza d’Armi o ancora molte altre sparse per l’intera città.
La prima cosa da decidere sarebbe, quindi, se nelle grandi trasformazioni urbane in corso a Milano e che usano gli strumenti “derogatori” al PRG/PGT introdotti dagli Anni ’90 in poi (i Piani di Riqualificazione Urbana o di Riqualificazione Urbana e di Sviluppo Sostenibile del Territorio -PRU o PRUSST, i Programmi Integrati di Interventi-PII, gli Accordi di Programma-AdP) si vogliono far realizzare sia gli standard minimi “di quartiere” (giardini pubblici, parcheggi, scuole, centri civici, ecc.) sia il verde naturalistico-territoriale, oppure confermare l’obiettivo indicato dai precedenti PRG/PGT in cui i parchi territoriali erano indicati doversi realizzare in zone più periferiche e soprattutto sotto forma di penetrazioni radiali (i cosiddetti “raggi verdi”).
Stefano Boeri nell’ambito di una sua visione sui masterplan di indirizzo sul riuso degli ex scali ferroviari ha suggerito di concentrarne qui una parte consistente con la suggestiva denominazione di “Fiume Verde” . Ciò che dobbiamo, però, avere presente è che così quasi certamente dovremo rinunciare ad attuare molte di quelle previsioni del passato non ancora acquisite alla pubblica proprietà, accettando di vederle trasformarsi in aree edificabili.
Inoltre dobbiamo considerare attentamente se le quantità di spazi pubblici realizzabili in queste nuove aree di trasformazione urbane siano sufficientemente adeguate a consentire sia le dotazioni pubbliche “di quartiere” sia quelle di verde naturalistico o “Fiume Verde” che dir si voglia. Infatti, le due tipologie funzionali non sono interscambiabili a piacere né in termini di obblighi normativi, né – soprattutto – in termini di fruizione pratica: se i nuovi abitanti insediabili non avessero sotto mano sufficienti scuole, giardini o campi giochi per i bimbi l’utenza si riverserebbe su quelle spesso già sovraccariche dei quartieri attigui e sarebbe sprezzantemente irrisorio dar loro ad intendere che potrebbero comunque fare jogging nel grande Fiume Verde naturalistico [6].
Spesso per dimostrare l’opportunità dell’approvazione di questi strumenti di “pianificazione contrattata” al di fuori delle regole del PRG/PGT (e c’è da chiedersi se al di là delle innovativamente accattivanti nuove denominazioni non si celi una riedizione 2.0 su più vasta dimensione territoriale e finanziaria delle deprecate “convenzioni non urbanistiche” degli anni ’50 e ’60), si è addotto il criterio ingannevole del 50% dell’area destinata ad uso pubblico, presentata come una sorta di equipartizione mezzadrile. Metà al pubblico, metà al privato: cosa c’è di più equo?
Non è assolutamente così, perché dipende da quanto si vuol lasciare edificare sull’altra metà privata; lo sanno bene gli immobiliaristi che non valutano il valore a cui pagano le aree a metro quadro di suolo, ma a metro quadro di pavimento commerciale vendibile che ci si può realizzare !
Anzi, è possibile dimostrare che con solo il 50% dell’area pubblica, se si vuol davvero poter realizzare lo standard per abitante/utente di legge bisognerebbe sottoutilizzare l’edificabilità del 50% privato, rispetto a quanto sarebbe possibile fare nel rispetto delle norme urbanistiche di legge con la realizzazione del 60-65% ad uso pubblico. A meno che – come spesso capita in questi “fantasiosamente innovativi” strumenti di “pianificazione contrattata” – il 50% pubblico sia ritenuto il massimo insuperabile e, invece, l’edificazione sul 50% residuo sia una variabile senza alcun limite che non siano la disponibilità economico-finanziarie e le tecnico-costruttive della proprietà. Un po’ come – mutatis mutandis – accaduto nelle deprecate “convenzioni” anni ’50 e ’60 e con l’unica novità delle bizzarrie architettonico-progettuali da archistar che fomentano il consumo opulento degli adoratori di facili novità di immagine, trascinati soprattutto dall’esempio di influencer mediatiche/i, rapper, calciatori, starlettes cinetelevisive altre specie del genere.
Infatti a Citylife e Porta Nuova dei 45 mq/abitante di spazi pubblici (25 di verde e servizi di quartiere+20 circa di parco territoriale) previsti e promessi nel programma urbanistico inizialmente approvato, se ne sono riusciti a realizzare solo 15, altrimenti non ci sarebbe stato spazio sufficiente dove collocare gli edifici privati o avrebbero dovuto essere alti il triplo (600 metri e oltre, come a Dubai e negli Emirati Arabi, che però sorgono nel deserto, con temperature esterne di 60°, e non nel centro di una città europea !).[7]
Ma questo forse importa poco a chi il verde vuole e può goderselo privatamente sul terrazzo di casa e non solo all’attico, ma su ciascun piano e pazienza se per mantenerlo occorrono giardinieri-rocciatori! O a chi gli spazi di incontro socializzante se li può permettere nelle palestre e sale musica e spettacolo in-house!
Altrettanto rischia ora di accadere di nuovo sugli ex scali ferroviari di Farini e Romana, dove si concentrerà la maggior parte dell’edificazione prevista, con densità e altezze inevitabilmente molto simili ai due casi precedenti: se si farà Fiume Verde non ci saranno quasi per nulla spazi di quartiere adeguati; per avere sia verde e servizi di quartiere sia Fiume Verde bisognerebbe ridurre a circa la metà la quantità edificatoria prevista, oppure con queste quantità edificatorie, si potrebbe pensare di realizzare sì abbondanti verde e servizi solo di quartiere (25-30 mq abitante come si conviene ad una moderna città europea), ma assegnando “in perequazione” una quota dell’edificabilità a chi farà realizzare il Fiume Verde altrove, dove l’avevano previsto i “raggi verdi” in passato.
Infine occorre considerare che se la quantità edificatoria realizzabile non è determinata in base al rapporto con lo spazio pubblico che si intende opportuno e necessario realizzare (lo standard, appunto), ma viene prefissata “contrattualmente” tra le parti, si possono determinare indici edificatori fondiari molto elevati che impediscono di poter scegliere tra diverse alternative tipologiche di edifici più o meno alti ed obbligano, invece, ad adottare soluzioni a torri molto alte, rispetto a cui le “invenzioni” progettuali di archistar anche molto fantasiosi possono fare ben poco sull’incombenza e la dissonanza dai tessuti edilizi dei quartieri circostanti, sia che i nuovi edifici li si ponga al centro dei nuovi comparti sia, ancor peggio, sui bordi a racchiudere un “cuore verde”, sorprendente tesoro per appassionati cultori di giungle urbane, come testimoniano le stesse “esercitazioni progettuali” delle archistar autocraticamente convocate dalla proprietà degli ex scali ferroviari.
Senza una riflessione consapevole sugli esiti di densità fondiarie incontrollate[8], ci si ritrova nella condizione illustrata dall’immagine qui riportata.
Nella prima riga in alto a sinistra, ogni vicenda urbana che si svolga sulle aree esterne agli edifici si ripercuote quasi immediatamente sulla loro vita interna, nella terza soluzione della seconda riga lo spazio esterno inedificato è totalmente recluso dall’edificato e ciò che vi accade è quasi impermeabile a ciò che accade negli altri spazi inedificati pubblici o privati di aree vicine; nell’ultima soluzione a destra nella terza riga ciò che accade sullo spazio inedificato è quasi completamente non percepito dalla vita interna all’edificio (tranne, forse, che per il piano terra e per quelli più bassi).
Ciò non legittima, tuttavia, che così si possa collocare sull’area una quantità edificatoria a piacere: se, infatti, l'Indice fondiario è molto elevato e,quindi, le altezze si raddoppiano o triplicano, l'unica soluzione praticabile è obbligatoriamente quella in basso a destra e ciò non certamente per scelta tipologico-progettuale di un pur fantasioso progettista !
Tradotto in chiave odierna: se sugli ex scali FS l'indice edificatorio medio di 0,65 mq/mq si concentra sugli ex scali Farini e Romana sino a raggiungere 0,80-0,90 mq/mq (prossimo a quello di Citylife e Porta Nuova) non solo su quelle aree non si possono realizzare contemporaneamente Fiume Verde e adeguati verde e servizi di quartiere (l'uno impedisce l'altro persino con 0,65 mq/mq, se si vogliono almeno 20 mq/ab. di Fiume Verde/alias parco territoriale-naturalistico + 25-30 mq/ab. di verde-servizi di quartiere, altrimenti i nuovi abitanti si riverseranno sui servizi già scarsi dei quartieri attigui), ma si rendono obbligatori edifici-torre di 150-200 m. di altezza, molto dissonanti da quelle dei contesti attigui, sia che li si collochino al centro o sui bordi delle aree come dimostrano gli "esercizi progettuali" degli archistars convocati da Boeri su impulso della proprietà FS.
Anche a voler ammettere l'opportunità di alcuni Down Town District ad altezze e densità eccezionali (e forse li abbiamo già fatti con Citylife e Porta Nuova, anche se probabilmente nei posti e nei modi sbagliati) avrebbe senso ripetere quel modello insediativo diffusamente per tutto il corpo urbano ?
Come ho dimostrato occore da chi sostiene che, purché una quota almeno paritaria del plusvalore torni al Comune (vedi Roberto Camagni, Il mistero del “contributo straordinario, 5 febbraio 2019, Arcipelago Milano), qualunque modalità e conseguente forma urbana derivante da quantità edificatorie e di spazi pubblici proposti dalla proprietà fondiario-immobiliare vada bene. A Milano è andata così (sia pure per via indiretta) con ex Fiera/Citylife (tutto il volume necessario a ripagare i 250 Milioni di € di debito imprevisto sul nuovo polo di Rho/Pero; se poi l'acquirente ti paga il doppio tanto meglio per la proprietà fondiaria, ma il volume non si ridiscute). E' lo stesso criterio usato a Roma da Marino/Caudo per giustificare la volumetrie su ex Fiera/EUR (180 Milioni di debito gestionale su Nuova Fiera) o la scelta del nuovo stadio della Roma a Tor di Valle: ti dò tutta la volumetria accessoria necessaria a pagare i debiti o le opere viabilistico-ambientali in un'area che di per sè sarebbe inadatta, ma che serve a salvare l'Ente Fiera o Parnasi dal fallimento. Ciò che viene sacrificato alla logica del tornaconto economico-finanziario è una visione di indirizzo pubblico da parte del Comune su localizzazioni, quantità, densità e altezze degli edifici, quantità e ruolo dello spazio e dei servizi pubblici. Insomma, mi pare ci sia un rapporto di reciprocità causa/effetti che mi pare taluni insistano a voler negare o sottovalutare...
Bisogna quindi tornare a mettere in campo la priorità di una visione di indirizzo pubblico delle trasformazioni urbane che si annunciano sempre più diffuse nelle nostre città, in modo che sulla base di congrui rapporti tra densità edificatorie e spazi pubblici sia possibile aprire un confronto con la collettività insediata anche su tipologie e forme degli edifici nei rapporti con gli spazi circostanti pubblici e privati e, a partire da ciò, tornare a mettere in campo una discussione sulla possibilità di accesso e fruizione del bene casa e delle sue dotazioni pubbliche anche per i ceti economicamente esclusi dalle tendenze speculative del mercato immobiliare. Insomma il ritorno in campo (in forme quanto si vuole più incisive e adeguate alle mutate condizioni socio-economiche e ambientali) di una rinnovata concezione di urbanistica pubblica.
Note
[1] Vedi: Roberto Camagni, Il mistero del “contributo straordinario, 5 febbraio 2019, Arcipelago Milano: “gli oneri pagati per prestazioni pubbliche in Italia rappresentano una quota quasi irrisoria delle rendite (fra il 3 e il 5% del valore del costruito, contro il 28-30% della Germania), e gli effetti si vedono bene: le trasformazioni arricchiscono le rendite ma lasciano sul terreno solo briciole per la collettività.”
[2] Cfr. S. Brenna, La Strada Lombarda, Gangemi, 2010, p. 116, Schizzi di studio delle possibilità di realizzare le volumetrie concesse dal Comune di Milano sull’area delle ex Varesine con tipologie compatte a sviluppo orizzontale con riferimento a progetti di G. Canella e di P. Chemetov
[3] Non è ovviamente un comportamento solo “milanese”: avendo frequentato i Laboratori partecipativi sul riuso dell’ex Fiera di Roma all’epoca della Giunta Marino/Caudo (proprio per interesse all’analogia con la vicenda a me ben nota di ex Fiera di Milano), quando proposi che se proprio non si voleva ridurre ragionevolmente l’edificabilità (fissata solo per far fronte al deficit gestionale di 180 Mln di € a Nuova Fiera; come a Milano coi i 250 Mln di debito per le pazzie di Fuksas nella costruzione di Nuova Fiera, per altro ripetute con esito analogo al Centro Congressi Nuvola all’EUR!) li si obbligasse almeno a concentrare volumetrie terziarie in altezza verso la Cristoforo Colombo (larga 80 metri) ed edilizia residenziale bassa verso le case preesistenti di via dell’Accademia, la rappresentante di Caudo mi fermò dicendo che “non si può condizionare così tanto la libertà imprenditiva e progettuale del futuro acquirente”. L’assessore Berdini ne aveva fatto dimezzare l’edificabilità; ora con la Giunta Raggi/Montuori/ M5S si è ventilato un Piano Casa da 1.000 abitanti che avrebbe di nuovo raddoppierebbe la volumetria (se ne è sentito parlare anche nelle intercettazioni di De Vico): chiaramente un espediente (condito con l'uzzolo di assurdi campetti sportivi) per vendere poi il mallopo ad altri, essendo ciò completamente fuori dagli obiettivi istituzionali di Ente Fiera.
[4] Il Regolamento di attuazione della Legge, che, pure in quei drammatici frangenti, il Ministero provvederà ad elaborare tra il settembre del 1942 e il marzo del 1943, finirà in un polveroso scantinato dove, a metà degli Anni Novanta, lo ritroverà un sagace ricercatore. Cfr, P.G. Massaretti, 1 marzo 1943: l’ultima ipotesi di articolato del “Regolamento di attuazione” della legge urbanistica, in URBANISTICA Quaderni (a cura di L. Falco), a. I, n. 6, pp. 94-104, INU, Roma 1995
[5] Sorvolo sul fatto che dal 2002 è stata anche la prima e per ora l'unica regione tornata ai 18 mq/ab. del DM 1444/68, dimostrando così che la Lombardia si pretende più ricca della Baviera, ma non sappia pretendersi altrettanto civilmente europea! Si potrebbe ancora comprendere che 18 mq/ab. fossero ritenuti sufficienti in comuni di qualche sperduta valle prealpina o dell’Oltrepò pavese, ma certo non nella conurbazione da Milano a Brescia e oltre, dove si dovrebbe aspirare a 30-50 mq/abitante di spazi pubblici.
[6] E’ un po’ ciò che rischia di accadere nel piano di riuso dell’ex Falck di Sesto S.G. dove i nuovi abitanti non avranno scuole, giardini e parchi giochi sufficienti, ma in caso di gravi malattie oncologiche o neurologiche avranno l’Istituto Neurologico Besta e l’Istituto Nazionale Tumori proprio dietro casa. Auguri !!!!
[7] Vedi M. Giannattasio, Stefano Boeri: «Vi svelo come ho avuto l'idea del Bosco Verticale».L'archistar che ha rivoluzionato la skyline della zona di Porta Nuova racconta di quando fece il primo disegno, tra i grattacieli di Dubai e sotto il sole cocente del deserto, in La Repubblica/Milan o, 7.3.2019, https://milano.corriere.it/19_marzo_07/ossessione-verdeio-archistreetcoi-piedi-terra-d6a36e08-4110-11e9-8d4c-9b3b6b114344.shtml?fbclid=IwAR0FaVudE-iXB8zCkZNlGj9CEaflted4tVHIaOlgZzqRDg3mZ74uLh5F1Is
[8] Cfr. Luigi Falco, L’indice di edificabilità, UTET,Torino,1999, p. 111:“Può essere utile, a partire dall’Indice di edificabilità fondiaria, e cioè da una definita immagine dell’insediamento residenziale e della sua morfologia (pur con quella approssimazione che è rappresentata dal definire l’immagine attraverso il solo Ief), arrivare all’Indice territoriale e alla quantità complessiva di aree pubbliche connesse a quell’Ief.”, anziché partire da una prefissata ed immotivata fissazione della Sp, ad esempio quando va bene al 50% della St, come oggi spesso è immotivatamente d'uso (a Citylife e Porta Nuova è stato realizzato 1/3 di quanto promesso!).
Storie e cronache esplosive di Pfas e Spannoveneti: un libro inchiesta di Cierre Edizioni su quello che si sta rivelando il più grandeinquinamento dell’acqua nella storia d’Europa. Un disastroambientale che ha contaminato un'area estesa del Veneto con i Pfas, ad opera soprattutto della Miteni, ex colosso industriale nella produzione di materiali idropellenti. (i.b.)
Il romanzo-premonizione dell'urbanista Enzo Scadurra pubblicato da Castelvecchi. Protagonista la Città Eterna, «un organismo in putrefazione dove Crisi Economica ed Epidemia hanno sconvolto ogni cosa [...] Eppure gira voce che da qualche parte in città esista una comunità rinata che, praticando una forma di comunismo primitivo, ha trovato una nuova speranza» (i.b.)
Qui la recensione di Alberto Olivetti da il Manifesto.
Continua senza pudore a Milano la farsa della consultazione dei cittadini sui ‘grandi progetti’ di rigenerazione urbana. (segue)
Che la Giunta Sala abbia molto più a cuore gli accordi con i grandi proprietari di aree e con la finanza immobiliare che l’ascolto dei cittadini è ben noto; che le buone pratiche di coinvolgimento civico non facciano parte della tradizione del nostro paese è altrettanto tristemente noto. Ma in questo caso si sta sfiorando il grottesco: per tempi, modi, assoluta passività dell’amministrazione nella privatizzazione delle più rilevanti, e ultime, risorse territoriali disponibili nella città.
Due articoli pubblicati su arcipelagomilano.org fanno il punto della situazione: un editoriale lucidamente polemico del suo direttore proprio nel merito della partecipazione in salsa milanese e dal divertente sottotitolo “meno gente c’è, più si va via spicci”; e "Città Studi. Una questione ormai sotto traccia", un aggiornamento sul silenzio assordante dell’amministrazione nei confronti delle lettere e delle richieste di ascolto in merito al progetto di deportazione delle Facoltà Scientifiche dell’Università Statale da Città Studi all’area ex Expo da parte di una cittadina in prima linea nel comitato Che ne sarà di Città Studi.
L’insostenibile leggerezza del ruolo dei cittadini nei grandi affari urbanistico/edilizi milanesi è confermata una volta di più, anche se oggi è arrivata la notizia che la Procura Generale ha chiesto la condanna del Sindaco Sala per la vicenda della Piastra EXPO.
Nilo Bianco - Uganda |
Per comprendere la pesante eredità dell'era nucleare e l'impatto nefasto dei prodotti nucleari, di scorie impossibili da smaltire. Eppure le centrali nucleari prosperano, le estrazioni di uranio continuano, e le armi nucleari non sono debellate. Siamo seduti su una bomba atomica. (i.b.)
Qui l'articolo pubblicato sulla rivista Effimera.
Una sintesi degli impegni presi dai Ministri delle Finanze di 26 paesi per affrontare i rischi dei cambiamenti climatici. Non sono misure radicali, e pertanto non mettono in discussione il modo di produzione capitalistico. Ma l'Italia segue l'esempio di Trump e boicotta. Ci vorranno ancora molti «Fridays for Future» per scuotere questo governo sordo e irresponsabile. Il prossimo, a livello nazionale, sarà il 24 maggio a Roma. (i.b.)
Qui l'articolo dal Fatto Quotidiano del 2 maggio 2019.
Firenze Smart City. E’ questa l’idea centrale del programma del Sindaco di Firenze in vista delle prossime elezioni amministrative dove, appunto, l’aggettivo “smart” ricorre per ben 27 volte. Un programma di 119 pagine, in tipico stile renziano.
Firenze Smart City. E’ questa l’idea centrale del programma del Sindaco di Firenze in vista delle prossime elezioni amministrative dove, appunto, l’aggettivo “smart” ricorre per ben 27 volte. Un programma di 119 pagine, in tipico stile renziano, dove la connotazione è, se non tutto, gran parte e ha l’obiettivo di dare un’idea di attualità e di un futuro à la page. Un programma diviso in 52 paragrafi, un mare di parole il cui leitmotiv sono le buone intenzioni: a volte meritevoli ma non tali da suscitare l’entusiasmo dei cittadini i quali preferirebbero scelte precise e programmi attuabili su cui esprimere consenso o dissenso.
Un segnale della pletorica affabulazione del programma nardelliano è la difficoltà che incontrano gli organi della stampa, pur così benevoli verso il Sindaco, a darne una sintesi comprensibile ai lettori: qualche riga o poco più, in cui la principale notizia è l’intenzione di realizzare la linea 5 della tramvia metropolitana, quando la numero 2 è appena entrata in esercizio e la 3 e la 4 sono in fase di progettazione preliminare; e, per ‘par condicio’, l’interramento del traffico veicolare in due piazze lungo i viali di circonvallazione, sotto le quali si trovano i gangli vitali delle infrastrutture progettate nell’800 da Giuseppe Poggi - speriamo che ciò non costituisca, come al solito, una sorpresa a scavi iniziati.
Alcuni dei punti del programma centrano delle questioni reali, come il fatto che la popolazione fiorentina sia molto più anziana della media nazionale e con una bassa natalità o l’impatto negativo del turismo, ma le azioni proposte non colgono gli aspetti strutturali dei problemi, sono superficiali e spesso contraddittorie. Una popolazione anziana avrebbe bisogno di una politica di ricupero e valorizzazione dello spazio pubblico esistente e di costruzione dello spazio pubblico dove questo manca come nelle recenti periferie; che implichi una riduzione del traffico automobilistico e una conseguente pedonalizzazione della città, soprattutto nelle zone dove piazze e strade sono diventate parcheggi di superficie; che non obblighi a spostamenti in macchina per gli acquisti quotidiani; quando, invece le politiche delle amministrazioni – passate e presente – si sono mosse in senso contrario, permettendo e incentivando la trasformazione del centro storico in una vetrina di lusso dove è impossibile trovare un negozio di uso domestico; estendendo l’area pedonale nel quadrilatero magico a scapito delle periferie, penalizzate, oltretutto, dall’occupazione delle strade da parte delle linee della tramvia.
Per incentivare la natalità, nel programma si promette un bonus (di berlusconiana memoria) “fino a 2000 euro”, ma non sono contemplati servizi sociali a favore delle donne o investimenti negli asili nido o orari differenziati. Le criticità del turismo sono circoscritte a quelle provocate dal “mordi e fuggi” nel centro storico, ma si tace sulle pesanti trasformazioni che questo provoca nell’economia e nella società fiorentina. Si riconosce la carenza di case per famiglie bisognose ricordando i 52 milioni di euro stanziati nel 2018 per il Piano Casa, ma tutti gli edifici pubblici dismessi appartenenti al Comune o al demanio pubblico sono destinati, con il Sindaco promotore, a diventare residenze o alberghi di lusso in un business miliardario.
Molto peso viene dato nel programma alla sicurezza e al controllo del territorio come tentativo di risposta alle proteste di residenti e dei comitati che segnalano casi di microcriminalità e lamentano gli schiamazzi notturni della ‘movida’. Il problema esiste, ma è grandemente enfatizzato, e le risposte come “il vigile di quartiere”, “la video sorveglianza”, il “controllo di vicinato”, nonché 450 nuove telecamere, sembrano più che altro iniziative per non farsi scavalcare dal candidato leghista. Un centro storico svuotato di cittadini per forza si presta occupazioni e attività incompatibili o contro l’abitare.
Tuttavia, quello che più colpisce nel programma elettorale è ciò che non c’è. Sono le omissioni dei grandi progetti che dovrebbero cambiare l’assetto della città e che in tutti questi anni sono stati sostenuti tenacemente (anche se con qualche contraddizione) da Nardella: evidentemente gli spin doctor del programma hanno suggerito di tacere o di mettere sotto tono i temi più controversi. Poche parole sul sottoattraversamento della linea dell’alta velocità, minimizzando l’inutile e costosissimo scavo della stazione sotterranea ai Macelli, per l’occasione rinominata di Belfiore (cioè in una posizione più vicina a quella centrale). Forse temendo che qualcuno possa ricordare a Nardella, ora diventato strenuo sostenitore del progetto, le parole pronunciate nel giugno del 2016, testualmente: “questo progetto di alta velocità [...] appare inspiegabile. E' un grande spreco di denaro pubblico. Perché stiamo parlando di un miliardo e mezzo di euro, per risparmiare due minuti. [..] Svuota Santa Maria Novella … Quindi ci sono molti elementi che ci portano a dire che quel progetto è vecchio prima ancora di essere realizzato. […] Insomma è un progetto nato male e che sta andando ancora peggio.”
Nessuna parola sulle pesanti criticità del progetto del nuovo aeroporto, già indicato come il motore di un nuovo rinascimento fiorentino; nessuna consapevolezza che l’aeroporto sia stato pensato per farvi atterrare i voli low cost, gonfiando proprio quel turismo di cui la città non ha bisogno. Ma l’omissione più clamorosa riguarda il quadrante nord-ovest della città dove si dovrebbe concentrare gran parte degli investimenti e dei metri cubi del piano regolatore a volumi zero (un ossimoro). Secondo la Variante al PRG approvata nel 2018, l’attuale Mercato ortofrutticolo dovrebbe trasferirsi nella zona ancora inedificata di Castello; completando la grandiosa impresa di occupare l’unica area verde di collegamento tra Peretola e le colline insediate dalla ville medicee, oltre che con il tappo dell’orribile scuola dei carabinieri, anche con il nuovo Mercafir: cioè con funzioni non accessibili al pubblico e non certo smart.
Tace il programma sul fatto che al posto del Mercato ortofrutticolo dovrebbe sorgere la Cittadella Viola con il nuovo stadio, un grande outlet, di cui nessuno sente il bisogno, oltre al solito mix di direzionale e negozi, un progetto finora sbandierato come il fiore all’occhiello dell’amministrazione Nardella. Con una squadra che va male, i tifosi infuriati, è prudente tacere su un’operazione che non ha alcun senso economico e le cui conseguenze urbanistiche sarebbero disastrose. Meglio, quindi, evitare i temi controversi e spinosi e riempire le pagine del programma di opzioni meno impegnative. I fiorentini potranno così gioire di alcune innovazioni come, la Smart City Control Room, il Biciplan, le politiche di Road Pricing, lo Smart Parking. Insomma un programma che renderà Firenze veramente una Smart City, una città intelligente. O piuttosto, per tutto quello che il Sindaco si propone di fare e quello che omette di fare, una “Smarting City, vale a dire una Città Sofferente?
Un buon numero di persone appartenenti a diverse associazioni si sono impegnate a contattare le esperienze presenti in città, ascoltando percorsi, progetti, pratiche in vista dell’Assemblea. Le staffette sono dunque ascolto e collegamento. Ascoltare è infatti il primo passo necessario per costruire una voce collettiva, dove ognuno possa avere la propria parte. Comitati e associazioni sono stati incontrati, talvolta più volte, in altri casi è bastato poco per intendersi. Oltre all’ascolto sono stati consultati i documenti prodotti e pubblicati in rete dal mondo associativo. Già da questa esplorazione sono emersi priorità e contenuti condivisi che, riportati nell’articolazione interna delle tre aree tematiche generali, aiuteranno l’avvio della discussione del 18 maggio.
Nell’Assemblea il compito che ci attende è quello di lavorare in piccoli gruppi attorno a un tavolo, facendo tesoro della ricchezza e delle idee che già esistono. Ci saranno ovviamente molti tavoli e occorrerà un buona organizzazione. Il metodo scelto per il funzionamento dell’Assemblea è quello, ben sperimentato, del town meeting, che aiuterà il confronto e la raccolta delle idee e permetterà una sintesi efficace. Si partirà dai temi registrati dalle staffette nel lavoro di ascolto e dagli spunti di discussione derivanti dalla ricognizione dei documenti del mondo associativo, organizzati nelle tre tematiche generali prima ricordate. Per ogni tema saranno poste inizialmente alcune domande, con la funzione di avviare il dibattito. La discussione di ogni tavolo, assistita dalla presenza di un “facilitatore” è collegata in rete con un tavolo centrale dove esperti “partecipatori” cureranno la sintesi e la comunicazione in tempo reale a tutti gli altri tavoli. Saranno anche possibili altre forme di interlocuzione: ad esempio attraverso il proprio smartphone si potranno assegnare priorità e preferenze alle opzioni che sembrano promettenti. In ogni caso ampio spazio sarà dedicato ad un tema cruciale, cui tutti tengono molto: come continuare?
Al termine dell’incontro, dopo pochissimo tempo, gli esperti partecipatori renderanno disponibile per tutti una sintesi delle cose dette, con il riconoscimento dei temi risultati più rilevanti e più coinvolgenti e la definizione condivisa del modo di andare avanti con il lavoro di approfondimento e di proposta. In vista di arrivare, a ottobre o novembre, ad una convincente definizione dei caratteri e del funzionamento della città che vogliamo e, insieme, del ruolo dei cittadini nella scelta delle priorità e nella gestione dei beni comuni.
Il manifesto, 23.04.2019. Un regolamento comunale limita a 90 giorni l'affitto turistico delle abitazioni ordinarie. Purtroppo per noi, succede a Madrid e non in Italia. (m.b.)
«Finché i grossi capitali ricorreranno al mattone come strumento speculativo nessuna legge a livello locale sarà abbastanza efficace». Parla Jorge García Castaño, ex assessore comunale per la zona centro e attualmente responsabile economico del governo cittadino di Ahora Madrid, la formazione nata come sigla municipale di Podemos e ora in rotta con il partito di Pablo Iglesias. Castaño è stato uno degli artefici e dei promotori della normativa comunale per la regolamentazione degli appartamenti approvata lo scorso 27 marzo con l’appoggio del Psoe. Un severo giro di vite sul mercato degli affitti turistici, il cui effetto deterrente rischia tuttavia di restare in buona parte sulla carta per le limitate competenze del municipio in materia d’affitti. I due grandi punti deboli del decreto sono l’impossibilità da parte del comune di imporre multe (che invece a Barcellona hanno avuto un forte effetto dissuasorio), le lungaggini dell’iter per la chiusura degli immobili illegali e la difficoltà nell’individuarli senza la collaborazione dei portali di annunci.
Il decreto relegherà nell’illegalità circa il 95% degli appartamenti turistici di Madrid. Regolamentazione o proibizionismo?
Non c’è nessun intento proibizionista: anzi, la normativa consente a chiunque di affittare la propria casa legalmente per 90 giorni all’anno. L’obiettivo, insomma, non è quello di perseguire l’attività sporadica, che rientra nell’ambito dell’economia collaborativa, ma di colpire la speculazione, l’attività lucrativa prolungata e sistematica, che deve essere normata per preservare la disponibilità residenziale, evitare la lievitazione degli affitti e impedire che i grandi capitali si lancino all’assalto del mercato immobiliare.
Perché si è deciso di intervenire?
Perché la pressione turistica è cresciuta esponenzialmente durante i primi due anni di legislatura creando un problema di decoro e di convivenza, ma anche economico e sociodemografico. Un esempio su tutti: il quartiere di Lavapiés, che ha subito un aumento fulminante ed esponenziale del prezzo degli affitti, con conseguente esodo massivo dei residenti.
Perché allora non agire sul prezzo degli affitti e sulla legislazione che li regola?Perché il comune non ha competenza in merito. Le modifiche alla legge sugli affitti competono, a diversi livelli, alla regione (controllata dal Pp, ndr) e al governo centrale: noi potevamo intervenire solo a livello urbanistico per cui abbiamo affrontato il problema sfruttando l’unico spazio di manovra possibile a livello comunale.
Ed è sufficiente?
Nemmeno città come Amsterdam o Berlino, che hanno ottime legislazioni in materia, sono riuscite a estirpare il problema, perché la questione, più che con l’urbanismo o con il turismo in sé, ha a che vedere con la finanza globale. Finché i grossi capitali potranno utilizzare il mattone come un vantaggioso strumento speculativo nessuna legge a livello locale sarà abbastanza efficace. Perché cambi qualcosa è necessaria un’iniziativa coordinata a tutti i livelli, cominciando dall’Unione europea.
Come farete rispettare la legge?
Abbiamo aumentato il numero di ispettori e stipulato accordi con società di analisi di dati per filtrare gli annunci pubblicati sui grandi portali. Recentemente, visto il volume d’affari che muove, anche l’Agenzia delle entrate ha cominciato a sorvegliare attentatamene l’affitto turistico condividendo dati fiscali che possono essere incrociati efficacemente con le altre misure di controllo. L’ideale sarebbe poter disporre di uno strumento legale, magari a livello europeo, che obblighi le piattaforme a condividere i dati con le istituzioni locali, ma finora né la Ue né il governo centrale hanno preso provvedimenti in questo senso.
Avete un filo diretto con Airbnb?Sì, e ovviamente non sono molto contenti di questo giro di vite, anche se, in realtà, colpisce più i grandi proprietari che le piattaforme di intermediazione. Ad ogni modo farebbero bene a collaborare, perché un’entità con un modello di business così legato alle città e alla loro immagine, dovrebbe assumere un impegno a favore del territorio su cui basa i suoi guadagni.
Il rogo della cattedrale di Notre Dame richiama ancora una volta l'attenzione su un problema endemico della nostra società: il valore attribuito al nostro patrimonio culturale e la sua cura. Occorre riconoscere che senza le radici della storia l’albero della civiltà non può sopravvivere e quindi bisogna impiegare risorse per mantenere questo inestimabile patrimonio, sottraendole al bilancio statale per la produzione di armamenti e la retribuzione di eserciti. Cominciamo con il trasferire 20% delle risorse destinate alla guerra alla manutenzione del patrimonio storico e artistico. (e.s.)
Dall'assemblea dei giovani è emersa una completa piattaforma politica e culturale per una radicale trasformazione di una società in fase di avanzata decomposizione in una società nuova e pienamente umana, all'altezza delle sfide che il pianeta deve affrontare. Qui l'articolo. (e.s.)
Ai Magazzini del Sale di Venezia, il 17 aprile si inaugura la mostra sulla turistificazione di Venezia e Barcellona e la resistenza di chi le abita, per riflettere sul modello di turismo dominante che minaccia la sopravvivenza delle due città. La voce narrante è quella dei comitati, movimenti e associazioni che lottano per la difesa dell'ambiente e dei beni comuni. Qui il programma completo (i.b.)
MAREE DI GENTE
La turistificazione di Venezia e Barcellona e la resistenza di chi le abita
17 aprile – 5 maggio 2019
Inaugurazione 17 aprile ore 19
Magazzini del Sale, Dorsoduro 265, Venezia
Maree di gente è una mostra realizzata da Claudia Cavion in collaborazione con S.a.L.E. Docks (Sign And Lyrics Emporium) che indaga l’impatto che l’industria turistica ha su Barcellona e Venezia.
Maree di gente, che sarà visitabile dal 17 aprile fino alla prima settimana di maggio presso i Magazzini del Sale di Venezia, evidenzia le problematiche comuni alle due città patrimoniali e ne affronta sotto vari punti di vista i diversi effetti.
La voce narrante è quella dei collettivi, dei comitati, e delle associazioni che, lottando attivamente in difesa dell’ambiente e dei beni comuni, vedono nel modello di sviluppo turistico predominate una minaccia alla sopravvivenza delle due città patrimoniali.
Attraverso foto, manifesti, materiale audiovisivo, installazioni interattive ed altri strumenti, cittadini e turisti saranno chiamati a riflettere su come i propri comportamenti e le proprie azioni quotidiane possono incidere sui processi di deterioramento culturale e urbano. Si approfondiranno altresì fenomeni allarmanti come la gentrificazione, la perdita del diritto alla casa, l’impatto delle crociere e delle masse turistiche, la trasformazione delle attività commerciali e la perdita di alcune tradizioni locali. L’obiettivo è quello di favorire una presa di coscienza sui valori del patrimonio a rischio, rafforzare la reazione collettiva di denuncia nonché sollecitare l’intervento delle istituzioni in merito.
La mostra rappresenta inoltre il tentativo di creare, tramite la comparazione dei due casi caratterizzati da processi di turistificazione e impatti simili, una piattaforma di condivisione di opinioni e alternative a livello internazionale.
Eventi collaterali
Giovedì 2 Maggio
Sabato 4 Maggio
S.a.L.E. Docks è uno spazio indipendente per l’arte contemporanea che da sempre vede nelle pratiche artistiche uno strumento di analisi e intervento nella città. La collaborazione con Claudia Cavion nasce dalla volontà di riprendere e sviluppare il progetto di fine master “Maree di gente! Venezia e Barcellona due città patrimoniali a rischio”, che indaga la storia dello sviluppo del modello turistico nelle città suddette e ne raccoglie le varie esperienze di lotta collettiva comune.
Per info e contatti:
Lucida denuncia degli errori compiuti nella ricostruzione dell'Aquila da parte di ex funzionario pubblico della Regione Abruzzo, profondo conoscitore delle vicende e del territorio, nonché attivista dei comitati post-sismici e ambientalisti (e.s./i.b.).
Ma noi come Comitatus aquilanus [2] non ci siamo mai uniformati a questa logica e, ancora oggi, veniamo a proporvi il reale bilancio della ricostruzione con tutte le complesse problematiche aperte. In tal senso non possiamo non partire dall’emergenza e quindi dalla colonizzazione istituzionale, tecnico-programmatica e economico-imprenditoriale che c’è stata imposta dal “duo” Berlusconi/Bertolaso. Ai Sindaci locali è stata lasciata la sola gestione delle macerie e dei puntellamenti. Solo al Sindaco dell’Aquila fu data la carica di Vicecommissario con una competenza diretta, (è bene sottolinearlo), sul Centro Storico.
Di particolare interesse fu a quell’epoca la questione della delimitazione del Cratere: infatti, mentre si cercò di arrivare a “vere e proprie isole amministrative sismiche” come Penna S.Andrea o Cappelle si continuò a tenere fuori centri baricentrici al sisma come Calascio. Tale anomalia fu poi esasperata dal fatto che concretamente alcuni comuni fuori Cratere come Raiano, o addirittura Bolognano, senza essere obbligati a zone rosse e piani preventivi poterono usufruire in tempi molto più brevi di finanziamenti per decine e decine di interventi in centro storico.
L’Aquila fu il territorio maggiormente militarizzato e quindi sottoposto ai disegni della Protezione civile e non fu in grado (o forse non volle) di opporre una visione e scelte più rispondenti alla realtà territoriale e imprenditoriale. La classe politico-istituzionale giocò al ribasso sia sul piano CASE esasperandone (da 1 a 19 nuclei) la devastante dispersione insediativa, sia, sulle scelte pianificatorie e tecnico-procedurali imposte dall’arch. Fontana (zone rosse, comparti, masterplan, ecc.). A questa cultura oppose “operosi geometri mediatori” (ricordiamo che almeno tre in veste di assessori sono stati costretti a dimettersi dalla Magistratura), la Regione e la stessa Università non trovarono che marginali coinvolgimenti e nella creazione di tutte le strutture tecniche di servizio non ci si fece carico di recuperare le tante esperienze locali (COLLABORA, ABRUZZO ENGINEERING, POLIEDRO, ecc.), e , con Fabrizio Barca, si arrivò a costruire due strutture tecnico-istruttorie (una per il comune di L’Aquila e l’altra per il resto del Cratere) con circa 350 tecnici per lo più esterni al Cratere e alla Regione.
Particolarmente eloquente fu in tale fase la vicenda delle macerie nel Comune di L’Aquila: partita che fu “ingigantita” per poi addivenire ad una onerosa quanto dubbia scelta locale. Senza una gara si arrivò a scegliere la cava-buca abusiva (frutto di un mancato ripristino) della ditta ex TEGES che, dopo il contenzioso avviato dai tanti cavatori attivi della zona che si dichiararono disponibili a trattare le macerie, illegittimamente fu confermata dal Commissario nominato dalla Prestigiacomo. Su tale buca, a norma di legge, avremmo potuto ritombare in danno dell’Impresa inadempiente e invece ancora oggi continuiamo a pagare.
Vanno in questa sede responsabilmente ricordati “i bluff programmatici” e “gli oggetti avvelenati” che ci sono stati proposti o offerti per la “cosidetta ripresa”. Tra questi dobbiamo citare: quell’aeroporto con il quale saremmo “tornati a volare”; i due teatrini di Shigeru Ban e Renzo Piano che insieme agli altri tre preesistenti difficilmente saranno gestibili; la centrale a biomasse (impraticabile e senza neanche teleriscaldamento … bloccata dal Comitato Onna-Monticchio); e più di recente la (inutile) metro veloce tra S. Demetrio e Sassa realizzata in danno delle zone irrigue della piana e con qualche mira immobiliare. In tale quadro non bisogna dimenticare il Piano Fontana/Letta per il rilancio turistico della montagna che tentò di riproporre diseconomici impianti scioviari e complementari lottizzazioni (come quelle di Rocca di Mezzo).
Fuorviati dall’inevitabile “zona rossa” abbiamo abbandonato a se stesso il Centro Storico che con la sua struttura direzionale, commerciale, universitaria e scolastica era il vero cuore del Cratere consentendo all’Aquila di svolgere un ruolo trainante in un ambito territoriale ben più ampio. Solo più tardi (3 anni), su spinta dei Comitati e con la manifestazione delle carriole, si addivenne all’ipotesi di concentrare sull’asse centrale l’azione finanziaria. In parallelo e senza nessuna logica programmatica (cioè senza correlarsi al Comune o ai responsabili delle reti tecnologiche) lo stesso Commissario ai BBCC Marchetti avviò il recupero episodico di tanti Palazzi Signorili (circa 80).
Tali scelte si sono dimostrate devastanti: oggi di fatto con i nostri 69.000 abitanti, siamo arrivati (da 62) a circa 100 frazioni, con una periferia urbana rinnovata per il 90% ma senza il cuore istituzionale, direzionale, commerciale e scolastico del Cratere; nessuna delle strutture istituzionali (Regione, Provincia Comune e Università) è, infatti, ancora tornata in centro, la stessa azione programmatica proposta dalla Regione di recente per riportare i commercianti in centro, ha sortito effetti modesti con prospettive di fallimento e chiusura a breve (proprio nei giorni precedenti al decennale c’è stata una specifica manifestazione dei commercianti). Ci ritroviamo un comune ingestibile per il quale è costosissimo garantire servizi minimi di frazione, così come la raccolta di rifiuti e il servizio pubblico di trasporto (le Aziende competenti hanno infatti raddoppiato i disavanzi); e, altrettanto costoso è il trasporto individuale, cresciuto almeno del 40 % (per arrivare dalle disperse frazioni nei posti di lavoro, a scuola o in Centro Storico).
Di particolare gravità è stata la mancata ricostruzione di gran parte del patrimonio ERP più baricentrico alla città con la sottesa intenzione di lasciare gli affittuari agli alloggi del Piano CASE con fitti maggiori e pesanti costi di trasporto. Si tratta di circa 400 alloggi per i quali con una forte mobilitazione nel 2016 si era conquistato un serrato Cronoprogramma per circa 85 Ml ma anche questo a tutt’oggi è rimasto lettera morta. Emblematica in tale quadro è stata la vicenda del quartiere ERP di S. Gregorio dove su 22 alloggi frutto di un più ampio progetto pilota coordinato dalla Facoltà di Ingegneria (di ottima esecuzione ,senza danni ed agibili), si è ricercato lo sgombero per l’esecuzione di un millantato progetto di riqualificazione con una esorbitante spesa di 13 Ml.
Altrettanto grave è la situazione occupazionale che ha visto soffrire di disattenzione l’importante settore agrosilvopastorale oggetto di attenzioni esterne per l’estensione dei pascoli, ma sottovalutato dalla partitocrazia locale; incerta sembra la stessa scelta del polo del riciclo messo su dal PD con la e addirittura, molte piccole imprese edili sono fallite così come sono aumentati i cassintegrati in edilizia.
Va infine sottolineato che con gli interventi edilizi straordinari (4500 CASE, 1200 MAP, 30 MUSP) e soprattutto con le 4500 casette a tempo e in precario rese possibili dalla Delibera Cialente abbiamo consumato circa 500 ha di suolo saturando il mercato edilizio per i prossimi 30 anni con un’inevitabile crollo della rendita fondiaria e dei costi al mq che in periferia sono arrivati a 900 euro e nello stesso Centro Storico sono ormai di 1000/1200 euro. E forse per questo che sia la Giunta Cialente che quella Biondi “in solido” non hanno intenzione di adottare una Variante di assestamento al vecchio PRG per preferire scelte episodiche che nella logica del project financing “ripaghino” la partitocrazia imperante.
Da ultimo dobbiamo denunciare altri due disastrosi effetti del sisma e della dispersione insediativa che vengono a completare il grigio quadro che si è venuto a configurare per L’Aquila e il suo comprensorio. Da un lato, il sisma ha sconnesso e danneggiato le condotte di scarico dei laboratori INFN e della galleria causando interferenze con quelle di derivazione delle acque potabili del Gran Sasso; sono infatti state denunciate presenze di sostanze cancerogene derivanti dai lavaggi di gallerie e laboratori ed è stata aperta un’inchiesta penale. Dall’altro, le circa 2000 casette della piana irrigua con le loro fosse settiche insieme al mal funzionamento dei depuratori, hanno inquinato falda e acque superficiali e, ormai da vari anni, viene riproposto con Ordinanza il divieto di irrigazione a danno di tutta l’economia orticola della piana.
Note
[1] Lunedì 8 aprile 2019 presso il CSV a L'Aquila, il Comitatus aquilanus ha tenuto un seminario per riflettere sulla ricostruzione a 10 anni dal sisma e fare un serio e responsabile bilancio. Hanno partecipato tra gli altri Vezio De Lucia e Paolo Berdini. [ndr]
In occasione del quarantennale del Progetto Fori, riprendiamo dall'archivio di eddyburg un estratto della postfazione al libro di Antonio Cederna "Mussolini urbanista" in cui si ripercorrono la storia, le speranze e il tradimento.
L’urbanistica del ventennio torna d’attualità
"Mussolini urbanista" viene pubblicato in un momento particolare per Roma, nel quale storie passate, cronache del momento e destini della città si intrecciano nuovamente (21). Luogo di incontro è il Foro Romano, la cui sistemazione impressa in epoca fascista con la costruzione della via dei Fori Imperiali (22) è direttamente chiamata in causa allorché, il 21 dicembre del 1978, i giornali riprendono un appello del soprintendente ai beni archeologici, Adriano La Regina, riguardante le «gravissime condizioni» in cui versano i monumenti dell’area archeologica centrale.
L’incipit dell’appello è memorabile: “Una serie di accurati rilievi e controlli sui monumenti del centro di Roma hanno dimostrato che, senza ombra di dubbio, nel giro di pochi decenni, perderemo tutta la documentazione della storia dell’arte romana” (23).
La corrosione dei marmi antichi è la conseguenza diretta dell’inquinamento dell’aria dovuto alle industrie, al riscaldamento delle abitazioni e ai gas di scarico delle automobili. Per capire come si era giunti ad una tale situazione, occorre ricordare che le sistemazioni dell’epoca fascista avevano mutato radicalmente l’assetto dell’intera città. Via dei Fori Imperiali era divenuta nel secondo dopoguerra l’apice di una consistente direttrice d’espansione e l’area dei fori, da periferica qual’era nel 1870, si era venuta a trovare al centro di un nuovo grande quadrante urbano, sempre più soffocato dal traffico e perciò inquinato. Negli anni in questione si calcola che oltre 50.000 veicoli, lo stesso numero di automobili che oggi interessa l’autostrada del Sole nel tratto fra Bologna e Firenze, percorrano quotidianamente via dei Fori Imperiali, aggirando il Colosseo, ridotto a gigantesco spartitraffico (24).
“Via del Mare e via dell’Impero [oggi via dei Fori Imperiali, ndr]... due strade che hanno rovesciato tutto il traffico dei quartieri meridionali di Roma, dai colli e dal mare, su piazza Venezia, allora scambiata per ombelico del mondo e quindi sul corso Umberto (cioè su una strada tracciata venti secoli prima), congestionando tutto il centro di Roma fino alle inverosimili parossistiche condizioni attuali di completa paralisi della circolazione” (25).
Il rammarico per ciò che è accaduto prelude, come d’abitudine, ad un’indicazione sul diverso indirizzo che deve essere impresso alle politiche urbanistiche, nazionali e locali. “È un problema che coinvolge tutta la politica nazionale, stato regioni comuni, purché ci si renda conto che la salvaguardia del nostro patrimonio storico e artistico può essere garantita solo da un governo del territorio, dell’ambiente che sia finalmente nell’interesse pubblico” (27).
Nel concludere l’appello, il soprintendente è altrettanto esplicito: la conservazione dell’area archeologica non richiede una semplice opera di salvaguardia, bensì una più complessa modifica dell’assetto urbano. “Il problema fondamentale non è tanto quello dei fondi per il restauro dei monumenti, perché ciò che costerà enormemente sono gli interventi di riorganizzazione della città” (28).
Torna così d’attualità la proposta, nata nel secolo precedente, di costituire un grande parco archeologico che comprenda l’intera area dei Fori, tra il Campidoglio e il Colosseo e si protenda verso la campagna romana, lungo il tracciato della via Appia (29).
Rispetto all’originaria ideazione, il «parco archeologico più grande e più importante del mondo» (30) acquista necessariamente un significato più ampio: elemento di attrazione per turisti e visitatori da tutto il mondo, museo di se stesso, possibile luogo di incontro per i romani, area verde di incommensurabile valore per una città priva delle dotazioni minime, elemento unificante il centro storico, la periferia e la campagna circostante. Gli interventi principali riguardano:
“- lo smantellamento graduale dell’ex via dell’Impero e quindi l’esplorazione archeologica per riportare in luce le antiche piazze imperiali, creare il parco unitario Fori Imperiali-Foro Romano, ampliando il centro storico e arricchendo Roma e i romani di un incomparabile spazio per la cultura, la contemplazione, il riposo, per tacere del contributo che lo scavo stratigrafico darà alla conoscenza della storia della città;
- il riassetto ambientale della zona tra il Colosseo e le mura aureliane [...];
- la creazione del gran parco dell’Appia Antica, prosecuzione extra-moenia del parco archeologico centrale”. (31)
Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali (32) e di parte delle strade circostanti il Colosseo mette in discussione l’assetto viario a scala urbana, sollecitando un deciso decentramento delle funzioni attrattrici di traffico, dal centro storico verso il settore est della città, in un’area appositamente dedicata dal piano regolatore (33). La portata del problema e i termini della sfida travalicano di gran lunga l’archeologia e la conservazione dei beni culturali e richiedono un ripensamento complessivo e una forte azione di governo della città.
Alla guida del governo cittadino, per la prima volta nel dopoguerra, c’è un’amministrazione di sinistra, guidata da Giulio Carlo Argan, storico dell’arte. Argan, e ancor più il suo successore Luigi Petroselli, funzionario del partito comunista, percepiscono la possibilità di mutare il volto della capitale attraverso il progetto Fori. Roma si può affrancare dalla sua immagine degradata, al centro come in periferia, per proporsi al mondo ed essere vissuta dai propri cittadini in modo completamente diverso, realizzando così una sintesi tra la sua connotazione popolare e il rango di metropoli internazionale cui essa aspira. Nei giudizi di alcuni dei protagonisti delle vicende di allora, si coglie l’ampio respiro delle proposte.
Così si esprime Antonio Cederna: “Col grande parco da piazza Venezia all’Appia antica, la cultura, l’archeologia diventano determinanti per l’immagine di Roma: l’urbanistica moderna riscopre la funzione strategica dei vuoti, degli spazi liberi dell’ambiente paesistico” (34).
Così l’urbanista Italo Insolera: “Il progetto Fori propone una sintesi ambiziosa quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo circonda: l’antico non vi è più inteso come “monumento” né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare” (35).
Così il soprintendente Adriano La Regina: “Il grande parco archeologico compreso entro il perimetro delle Mura aureliane di fatto esiste già... e occorre solamente organizzarlo diversamente. Occorre in primo luogo sottrarlo alla sua condizione di spazio utilizzato per l’attraversamento veicolare e, in alcuni ambiti, come riserva di esclusivo interesse turistico. [...] Si dovranno nuovamente rendere agibili gli spazi già in antico destinati all’uso pubblico: le piazze quali luoghi di sosta e di attraversamento, le strade come viabilità ordinaria pedonale”(36).
Così l’assessore alla cultura Renato Nicolini: “Tutto al contrario di quello che credono i superficiali e i dogmatici, la difesa attiva del patrimonio storico e dell’identità culturale di una città, può coincidere con la sua affermazione come metropoli. [...] Questo è, secondo me, il senso vero del progetto Fori, almeno nella forma che aveva assunto per la giunta Petroselli. Al centro di Roma, proprio a rendere evidente la trasformazione della città, da città burocratico-industriale in qualcosa d’altro, città di servizi, metropoli postindustriale, non ci debbono più essere i ministeri, ma il grande parco archeologico che partendo dall’Appia Antica arriva fino al Campidoglio” (37).
Il sindaco Luigi Petroselli è colui che più di tutti coglie l’importanza della posta in gioco e comprende «la ricerca e la possibilità di conquista e di riconquista di una nuova identità cittadina e insieme [...] di unificazione della città intorno a nuovi valori» (38).
2. Dalla discussione all’abbandono della proposta
Per quanto ampia, l’adesione di urbanisti, archeologici, storici dell’arte, architetti e altri uomini di cultura non si rivela tuttavia sufficiente per costruire il necessario consenso attorno alla proposta (39).
Mentre il degrado dei monumenti aveva acceso lo sdegno di tutti e favorito un altrettanto unanime consenso sulla necessità di intervenire urgentemente, né il progetto di sistemazione dell’area archeologica, né tanto meno l’idea di trasformazione della città ad esso legata vengono compresi appieno e condivisi. Al contrario, un lungo e acceso dibattito accompagna l’elaborazione dei progetti.
Lo smantellamento della via dei Fori Imperiali, perno dell’operazione, diventa ben presto il punto attorno al quale si coagula il dissenso. Nonostante il successo della chiusura domenicale al traffico, avvenuta per la prima volta il 1° febbraio 1981, il dibattito sul destino della strada aperta da Mussolini prende una piega indesiderata: la demolizione è ritenuta un provvedimento troppo radicale, inessenziale al recupero dei monumenti e foriero di conseguenze indesiderabili sul traffico e sulla vita quotidiana della città (40).
Comincia ad insinuarsi l’idea che la rimozione della strada nasconda una sorta di rivalsa o di accanimento nei confronti di quanto realizzato sotto il fascismo42. Il quotidiano «Il Tempo» lancia una campagna di forte opposizione, dando risalto alle polemiche sollevate da alcuni studiosi che si richiamano al Gruppo dei Romanisti (43).
Non è solo la diatriba ideologica ad alimentare il dissenso. Altrettanto decisivi sono il mancato appoggio del mondo della cultura e il sostanziale disinteresse della politica nazionale. L’acme del dibattito si raggiunge nei primi mesi del 1981, in concomitanza con alcune iniziative di grande significato prese dall’amministrazione comunale che fanno presagire un’accelerazione degli eventi in favore della costituzione del parco e della rimozione di via dei Fori imperiali: nel dicembre del 1980 si dà inizio allo smantellamento di via della Consolazione e si approva la chiusura parziale di piazza del Colosseo; nel febbraio, come detto, comincia la chiusura domenicale di via dei Fori Imperiali. Diversi archeologi, storici dell’arte, architetti e giornalisti esprimono le proprie perplessità (46).
La nuova amministrazione guidata da Ugo Vetere si muove inizialmente in sostanziale continuità con la giunta precedente, ma gradualmente si fa strada l’idea che sia preferibile ricondurre il progetto Fori nell’alveo strettamente conservativo assicurando, grazie ai finanziamenti statali, gli interventi di manutenzione del patrimonio archeologico e rimandando tutte le altre operazioni ad un tempo successivo che non verrà mai. Le proposte della Soprintendenza e del Comune divergono progressivamente: il percorso congiunto si conclude con il Progetto per la valorizzazione dell’area dei Fori imperiali e dei Mercati Traianei, elaborato nell’ambito del Coordinamento settore archeologico, presentato pubblicamente dal sindaco Ugo Vetere il 12 gennaio 1983 (49).
La Soprintendenza prosegue lo sviluppo dell’idea iniziale. Incarica un gruppo di esperti coordinati da Leonardo Benevolo di elaborare una proposta definitiva. Benevolo si avvale della collaborazione dei funzionari della Soprintendenza, coordinati da Francesco Scoppola, nonché di progettisti di eccezionale valore: lo studio Gregotti per la parte più strettamente architettonica, Guglielmo Zambrini per la parte trasportistica, Ippolito Pizzetti per il verde. Cederna e Insolera sono esplicitamente ringraziati da Benevolo per la «lunga consuetudine di lavoro comune». Contestualmente Italia Nostra promuove la redazione di una proposta di Piano per il Parco dell’Appia Antica, curata da Vittoria Calzolari. Le due proposte vengono presentate al pubblico ma rimangono prive del necessario sostegno amministrativo e urbanistico: per la loro realizzazione infatti devono essere finanziati e coordinati interventi statali e comunali, raccordando tra loro politiche dei trasporti e pianificazione urbanistica (50).
L’amministrazione comunale, impegnata su un numero impressionante di fronti (lavori pubblici, periferie abusive, case popolari, completamento della metropolitana), prende tempo. Si consolida la posizione di quanti negano che la trasformazione dell’area archeologica centrale sia l’indispensabile premessa per una riqualificazione complessiva della città. L’assessore al centro storico Aymonino ritiene che la «complessità culturale e le difficoltà di gestione» del «più importante problema di scienza urbana che si sia presentato in Italia dal dopoguerra» rendono indispensabile un tempo lungo (51).
3. Gli sviluppi successivi
Nei vent’anni che separano il 2006 dagli avvenimenti sopra ricordati, nessun amministratore ripropone il progetto Fori al centro della politica urbanistica comunale. Non lo fanno i sindaci delle giunte a guida democristiana (Signorello, Giubilo) e socialista (Carraro), né quelli di centro-sinistra (Rutelli e Veltroni, attualmente in carica). Con il passare del tempo si consolida la convinzione che «l’utopia di una renovatio urbis»54 basata sul progetto Fori sia destinata a rimanere tale, per le troppe resistenze che essa incontra e per l’impegno, economico e amministrativo, che essa richiede. Non è un caso isolato: a Roma come in tutto il resto d’Italia, con rare eccezioni, si registra il “progressivo appannarsi di ogni «progetto per la città»: inteso questo non come disegno redatto a tavolino o sommatoria di singoli progetti, ma come idea generale capace di assommare le singole volontà e mobilitare al meglio le varie spinte particolaristiche, come insieme di norme comportamentali fissate per assicurare un migliore uso dell’aggregato urbano e sole capaci di dare contenuto al concetto stesso di convivenza”(55).
È in questa prospettiva che la Soprintendenza ripresenta, nel 2005, una nuova proposta di sistemazione, affidata all’architetto Massimiliano Fuksas. Diversamente dal passato, non si prevede l’eliminazione della via dei Fori Imperiali, tuttora presente e utilizzata dalle auto, sebbene crescano di anno in anno le limitazioni alla circolazione a causa dell’inquinamento atmosferico (59). Come aveva ipotizzato anche Cederna, gli scavi sono potuti proseguire per anni senza creare alcun problema, e questo ragionevole compromesso avrebbe lasciato aperta ogni soluzione, se il Ministero per i beni e le attività culturali, il 20 dicembre 2001, non avesse apposto un vincolo di tutela all’insieme delle sistemazioni viarie operate durante il fascismo tra piazza Venezia e le mura aureliane, riconoscendovi un valore culturale. Quali ragioni hanno portato a conferire al simbolo della «maccheronica romanità» un valore storico, al pari di molte altre realizzazioni della prima metà del Novecento che certamente lo possiedono, considerandolo come un elemento intangibile da restaurare e curare con attenzione? Certamente hanno avuto un peso coloro che riconoscono un valore all’insieme delle opere realizzate nel ventennio, giudicate il tentativo di conferire a Roma «il volto di una capitale»: capitale laica per Giorgio Ciucci, politica, morale e culturale (sic!) per Vittorio Vidotto (60). Un’importanza non secondaria deve essere anche attribuita al fatto che, sebbene nata come «macabra scenografia», via dei Fori Imperiali si è trasformata nel dopoguerra in un importante teatro di manifestazioni pacifiche e democratiche (61). Probabilmente, più di ogni altra cosa, ha prevalso un certo spirito di conciliazione con il passato, lasciando in secondo piano le considerazioni urbanistiche, una volta di più incomprese o ritenute inessenziali (62).
La conclusione di questa vicenda lascia un velo di amarezza. La politica e la cultura non hanno compreso il messaggio contenuto in Mussolini urbanista. È stato abbandonato progressivamente, senza nemmeno un esplicito rifiuto, il progetto che più di ogni altro poteva trasformare il volto della capitale attraverso la pianificazione urbanistica in modo esemplare per il resto della nazione. Tuttavia, se è vero che «non c’è futuro senza memoria del passato» e «nulla di peggio dell’assuefazione agli errori commessi», i moniti e i ragionamenti, i sarcasmi e le proposte di Cederna continuano ad essere un riferimento, tanto attuale quanto indispensabile.
Il Fatto quotidiano, 8 aprile 2019. Manca la città ed è inevitabile che sia così, date le premesse. Ma se la memoria si facesse cultura e la cultura comunità, L'Aquila potrebbe dare l’ennesima, memorabile lezione di futuro. (m.b.)
“Tutto sommato è stata data una casa a tutti (…), però a noi manca la città, manca tanto la città”. Le parole, pacate e lucidissime, della consigliera comunale Carla Cimoroni dicono quel che c’è da dire su L’Aquila, a dieci anni dal terremoto. Non sono giorni facili, questi, per gli aquilani. Gli anniversari, e questo su tutti, sono pugnalate, separate da intervalli di silenzio e disinteresse nazionali lunghi un anno. E poi intorno al 6 aprile ecco l’assedio di giornalisti e tv, magari in cerca di “storie forti”, come si è sentita chiedere Antonietta Centofanti, guida morale (di spessore umano e lucidità politica straordinari) dell’associazione dei familiari delle vittime, che non cessa di lottare per la verità e la giustizia. In questi giorni sanguinano copiosamente ferite mai chiuse, e si riaccendono i sensi di colpa di quei decisori aquilani che – messi dalle spalle al muro dal cinismo irresponsabile di Berlusconi, Letta, Bertolaso – alla fine dissero sì alle New Town di cemento, che oggi sono a loro volta sfollate per un quinto a causa dei balconi che crollano, e del deperimento di quelle povere strutture mangia suolo.
Fu una decisione difficile, sfociata in un errore terribile: perché condannò la città storica, e separò le pietre monumentali dal popolo che dava senso e futuro a quelle pietre. E perché estese fino 4350 ettari la superficie (già prima enorme: 3000 ettari) insediativa dove vivono i 69.439 aquilani. La mappa, elaborata per l’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli da Andrea Giura Longo e Monica Cerulli (e presentata in questi giorni all’Aquila) dimostra che siamo così arrivati a 16 abitanti per ettaro: una densità “incompatibile con una decente condizione urbana” (commenta l’urbanista Vezio De Lucia), basti pensare che l’Aquila è ora la città italiana con più automobili pro capite, con conseguenze devastanti sulla qualità della vita. Paradosso nel paradosso, questa nuova dispersione ha oscurato quella storica: in quasi tutte le frazioni antiche dell’Aquila le case rimangono ancora a terra, e dove si ricostruisce il patrimonio pubblico lo si fa molto peggio che in centro: Italia Nostra denuncia il rischio di perdere i connotati storici di un luogo cruciale come Santo Stefano di Sessanio a causa di restauri inadeguati.
E, d’altra parte, non avendo ricostruito il centro storico per settori, avendo lasciato drammaticamente indietro la ricostruzione della città pubblica e non avendovi riportato le funzioni pubbliche e i servizi (sono aperti a tutt’oggi 60 negozi sui 1000 di dieci anni fa) si capisce che cosa vuol dire che, se ora ci sono le case (molte in vendita), “manca la città”. Non è che l’Aquila di prima fosse un paradiso: ma il punto è questo, il terremoto ha funzionato da acceleratore e amplificatore delle dinamiche che colpiscono tutte le città storiche italiane: spopolamento, gentrificazione (riduzione a quartieri monoclasse sociale, cioè nella città dei ricchi), trasformazione in quinte monumentali per turisti, messa a reddito con centri commerciali e improbabili parcheggi sotterranei fatti per pura speculazione.
Più in generale, andare all’Aquila vuol dire capire l’Italia. Il dato secondo me più sconvolgente del bilancio di questi dieci anni è che tra tutto quello che si è ricostruito non ci sia nemmeno una – dico una sola – scuola pubblica. Si studia ancora nelle strutture di emergenza, e bambini di dieci anni non sanno cosa sia entrare in una scuola che sia una ‘casa’ di tutti: se qualche storico del futuro si chiederà quale posto occupava la funzione della scuola nel progetto politico, e nella stessa coscienza di sé, degli italiani dei primi decenni del XXI secolo, ebbene troverà la sua sconfortante risposta all’Aquila.
Ma gli aquilani hanno una tenacia e una capacità di costruire il futuro che, proprio per il valore universale dei loro problemi, può essere di ispirazione per tutto il resto d’Italia. Le parole citate in apertura si trovano montate in un grande manifesto esposto insieme a moltissimo altro materiale documentario al presidio “Fatti di memoria”, che 24 associazioni hanno voluto tenere aperto in centro in occasione del decennale. È un modo efficace per dire che i cittadini dell’Aquila vorrebbero un centro permanente in cui costruire il futuro attraverso la memoria del passato: “Lo vorremmo così: un ‘museo della città’, un archivio-laboratorio dedicato alle 309 vittime, vitale per la comunità e attrattivo per chi è di passaggio. La vorremmo così la città della memoria e della conoscenza, prestigiosa nel mondo, inclusiva e accessibile per tutte e tutti. Perché la memoria è un ingranaggio collettivo: solo se la memoria dei sopravvissuti si fa cultura per le generazioni a venire, una comunità ha la possibilità di rinnovarsi”. Nel 2013 si era progettato un centro come questo, si sarebbe dovuto chiamare Ter.R.A, ma tutto si fermò.
Oggi quell’idea rinasce in Territori Aperti, un “Centro di documentazione, formazione e ricerca per la ricostruzione e la ripresa dei territori colpiti da calamità naturali” che sarà realizzato dall’Università dell’Aquila grazie ad un finanziamento di Cgil, Cisl e Uil. Un’ottima notizia: ma non basterà che sia fatto per i cittadini. Dovrà nascere con i cittadini, perché c’è davvero bisogno di partecipare e costruire un luogo dove storia, memoria collettiva e capacità di riscatto riescano a far rinascere una comunità.
Se sarà così, L’Aquila avrà dato a tutta l’Italia l’ennesima, memorabile lezione di futuro.
Per non perpetuare la logica emergenziale, in nome della quale tutto è consentito, serve una strategia lungimirante di contenimento del rischio sismico, all’altezza di un paese scientificamente avanzato. Su eddyburg abbiamo dato conto di una proposta autorevole che speriamo sia raccolta da chi ha a cuore l'interesse generale. (m.b)
6-7 Aprile a Venezia, Seminario dell'Università popolare di Attac Italia. Al centro della prima giornata due problemi centrali di venezia: l'appropriazione privata della rendita e la turistificazione. Nella seconda giornata si parlerà di come la città possa diventare una ricchezza collettiva. Qui il programma completo. (i.b.)
Venezia, 6/7 aprile 2019
Sala San Lorenzo, Castello 5065/I
sabato 6 aprile 2019
Beni comuni urbani per la comunità o per la rendita finanziaria?
Città di chi la abita o vetrina mordi e fuggi?
ore 14.30 – 18.00
L'ideologia della sicurezza e del decoro - Roberto Guaglianone
Turistizzazione e diritto all'abitare - Caterina Borrelli
Crocierismo e città - Giuseppe Tattara
Qui non si abita in infradito: i filtri di classe alla città - Giancarlo Ghigi
Piattaforme Internet e rendita urbana - Gerardo Marletto
Di chi è la città? - Paolo Berdini
domenica 7 aprile 2019
La riappropriazione della finanza locale - Marco Bersani
Quota d'iscrizione: 10 euro (il ricavato serve unicamente a coprire le spese di realizzazione)
Per informazioni: Francesco Penzo francesco.penzo@gmail.com, recapito cell. 392 670 3023
L'architettura tende ad essere una materializzazione dell'ordine dominante, che usa lo spazio costruito per controllare e inculcare le sue regole, comportamenti e idee, attraverso la complicità (conscia o inconscia) dei progettisti che si conformano ai canoni, icone e strategie spaziali dei potenti.
In questo articolo sono bene sintetizzati alcuni principi per affrontare in maniera lungimirante ed equa la questione del surriscaldamento globale e delle sue conseguenze. Cambiare si può, ma occorre una volontà politica che invece continua a sostenere gli interessi del mercato, dei poteri economici del profitto basato sullo sfruttamento ambientale e del lavoro. Questo mese abbiamo visto, con due manifestazioni nazionali - quella del 15 marzo e del 23 marzo - come movimenti studenteschi ed ambientalisti di giovani e meno giovani siano preparati a rivendicare una giustizia ambientale necessaria per dare futuro alle prossime generazioni. (i.b.)
I giovani di tutto il mondo si stanno muovendo. Il sorprendente intervento della giovane Greta Thunberg a Davos, sedicenne svedese piombata nel salotto buono dei pescecani della finanza mondiale, ha scosso le coscienze di centinaia di migliaia di giovani in Europa, chiedendo che si faccia qualcosa adesso per il loro e il nostro futuro.
L'obbiettivo posto attraverso il rapporto dell'IPCC (il tavolo scientifico intergovernativo dell'Onu sui cambiamenti climatici) alla comunità internazionale parla chiaro: occorre interrompere subito le emissioni di gas serra in particolare CO2 e metano, più Cfc e biossido d'azoto, pena una catastrofe ambientale di proporzioni tali da mettere in discussione non solo la fine della civiltà umana, ma la stessa sopravvivenza della vita sulla terra.
Se le emissioni attuali rimarranno nell'atmosfera questo produrrà dei cambiamenti climatici strutturali, riducendo terre fertili, foreste, modificando le coste e sommergendo grandi città.
Le dispendiose e penose conferenze internazionali come L'Accordo di Parigi del 2015 e l'incontro di Katowice del dicembre scorso sono stati piuttosto deboli nella determinazione e nelle decisioni sulla riduzione delle emissioni, lasciando alla buona volontà dei governi sia gli obbiettivi che il controllo delle tabelle di marcia. L'ostacolo principale sono ovviamente l'uso dei combustibili fossili, non solo il petrolio, ma anche metano e lignite per produrre energia elettrica e trasporti. Ormai sappiamo che le fonti di energia rinnovabile potrebbero essere la soluzione solo se gli ingenti investimenti in infrastrutture iniziassero a modificare la mobilità, ma anche il modo di produrre in agricoltura e industria.
Purtroppo le grandi corporation finanziarie hanno già rinunciato al "tutto elettrico" : lo dicono le conclusioni del rapporto presentato nell'aprile 2018 dalla JPMorgan, che si chiama “Pascal's Weger”, la scommessa di Pascal, ovvero se volete credere di poter fermare il cambiamento climatico potrebbe essere come credere in Dio, razionalmente non è possibile dimostrarne l'esistenza, ma aiuta a vivere pensare che sia possibile cambiare il nostro modello di produzione. Le corporations finanziarie mondiali punteranno solo sulla creazione di barriere di diversi metri di altezza intorno a New York, Calcutta, Los Angeles e altre grandi città costiere, contro l'innalzamento del livello del mare e per proteggere le infrastrutture. Una lunga gettata di cemento sulle coste, enormi Mose, che non è difficile immaginare inefficaci di fronte a uragani sempre più violenti e ad un innalzamento degli oceani inarrestabile.
Di fronte a questa sensazione di inadeguatezza della politica e della finanza internazionale stiamo assistendo invece ad una presa in carico delle responsabilità solamente da parte delle nuove generazioni: le manifestazioni belghe, ma anche quelle francesi, nei primi giorni di febbraio 2019 organizzate da una coalizione piuttosto giovane #generationclimatic (che si stanno diffondendo anche in Italia) hanno posto attenzione alla questione ambientale e alla decarbonizzazione dell'economia, con alcuni spunti originali.
Intanto far pagare ai ricchi i costi della transizione. Troppo vicina è la scottatura del popolo francese, che di fronte alla Carbon Tax di Macron sui carburanti diesel, ha rotto gli argini ed è scoppiata nella rivolta dei Gilets jaunes.
Per questo un documento belga, scritto a ridosso delle manifestazioni popolari dal Partie du Travail de Belgique, pone degli obbiettivi chiari. Riduzione del 60% di emissioni entro il 2030 (l'UE chiede agli stati membri una riduzione del 32%).
Costituire un solo ministero per clima, trasporti, energia, una banca per gli investimenti climatici finanziata con tasse sui grandi patrimoni e le aziende più inquinanti (centrali a carbone, cementifici e acciaierie). L'abolizione dell' ETS ovvero dei certificati "verdi". Il loro fallimento a livello europeo certifica in realtà l'impossibilità del sistema capitalistico di trasformarsi e preoccuparsi dell'interesse collettivo. La ricerca del profitto, ma anche l'aumento del prodotto interno lordo, sono incompatibili con l'ambiente e la sopravvivenza della civiltà umana.
Per questo occorre tornare ad una pianificazione forzata, che tenga conto anche della produzione locale e del controllo da parte dei municipi, delle comunità e delle cooperative: le energie alternative strutturalmente si prestano molto più facilmente all'auto consumo locale e al km0.
Meno convincenti sono le "soluzioni tecnologiche". Ogni proposta che va in quella direzione (riconversione dei trasporti col vettore idrogeno oppure mobilità tutta elettrica, piante OGM che catturano CO2, reti intelligenti, materiali riciclabili per l'isolamento termico in bio-edilizia, e recentemente la fusione nucleare) in se non sono idee sbagliate, ma non tengono conto della complessità intrinseca dei sistemi umani e naturali e delle ripercussioni che centralità produttiva e gigantismo tecnologico possono rivelarsi un boomerang, se isolate dai contesti locali.
Poi esiste la complessità della società umana: un esempio sono le auto a metano. Potenzialmente meno climalteranti, ad un costo al chilometrico più basso, si sono rivelate più climalteranti proprio perché vengono usate di più, proprio perché più ecologiche e perché hanno ricevuto incentivi cospicui producendo un numero di chilometri di percorrenza maggiore degli altri modelli. Stessa cosa avverrà, quando qualcuno ci spiegherà dove finiranno le batterie, con le auto elettriche, oppure se consideriamo il bilancio energetico complessivo dell'impronta ecologica nell'uso dei server che mettono in rete computer e telefonini. Il raffreddamento delle centrali di server ha superato il consumo di energia mondiale per autotrazione. La "Green economy", ovvero la tecnologia verde, nasconde bene i suoi problemi.
Proprio i rapporti scientifici sui gas serra ci raccontano che il bando di produzioni nocive in realtà ha spostato macchinari in Asia o America latina dove le leggi ambientali sono meno rigorose, rendendo difficile ridurre l'emissione climalterante a livello globale : recente il caso del Cfc, i gas killer dell'ozono, che nel 2010 hanno ricominciato a crescere .
Non possiamo fare niente allora? non possiamo salvarci dai cambiamenti climatici se dobbiamo combattere anche un modello di sviluppo che con grandi sofferenze ci ha portato fin qui? Oppure dobbiamo abbandonare tutto e gettarsi nel panico più assoluto?
Stime parlano di migrazioni di 1 miliardo e mezzo di persone che fuggiranno nei prossimi 100 anni dalla siccità, dalla fame e dalla sete, dai paesi più poveri e popolosi ai paesi del Nord Europa e Canada. La " rottura metabolica" tra uomo e natura raccontata da Marx e prodotta dal capitalismo e dall'industrialismo, dalla crescita e dal produttivismo, sta producendo un conto salato, che nessuno vuole pagare, meno che mai i giovani che erediteranno questa terra.
Essi chiedono invece alla politica di cambiare strada adesso, prima che sia troppo tardi, chiedono che la politica si trasformi in una grande operazione di soccorso, una protezione civile globale che agisca per mitigare da subito i bisogni immediati delle popolazioni che verranno colpite e che contemporaneamente porti avanti operazioni di riduzione forzata delle emissioni climalteranti, abbandonando le grandi opere inutili e grandi impianti a carbone : tra i primi 10 impianti industriali più inquinanti in Europa ci sono le centrali a carbone, di cui 7 tedesche, due polacche e una estone, ma l'undicesima è italiana, Torrevaldalica nord di Civitavecchia.
Per questo tutti i movimenti che si battono contro le grandi opere e per un cambiamento delle politiche energetiche ha lanciato un appuntamento il 23 Marzo a Roma, contro le Grandi Opere e i Cambiamenti climatici: iniziamo da qui. Iniziamo a chiudere.
Questo articolo é in uscita sulla rivista Grandevetro, trimestrale di immagini, politica e cultura.