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Il Coordinamento è promosso dall’associazione “Geografia di genere”, con il sostegno della rete AltroVe e l’adesione di numerose associazioni e comitati dell’area veneziana.

Il 25 febbraio scorso alcune associazioni cittadine sono state invitate dall’assessore Micelli a una delle illustrazioni del Piano di Assetto Territoriale (Pat) che l’assessore sta proponendo in questo periodo, da lui stesso definita come «intensa fase di presentazione e condivisione con tutta la cittadinanza».

Il Pat ha come finalità quella di stabilire le grandi direttrici strategiche (economiche, sociali, territoriali) che orienteranno nei prossimi anni tutti gli interventi di trasformazione e conservazione dei luoghi, nonché le tutele e i vincoli da applicare alle diverse porzioni di territorio, in relazione alle loro caratteristiche morfologiche, ambientali, paesaggistiche e alle loro qualità storiche e culturali.

Nonostante sia stato affermato che le linee guida che hanno ispirato il nuovo Piano di Assetto

Territoriale tendano a promuovere lo sviluppo sostenibile e a non consumare ulteriormente il suolo, in realtà questo Pat prima di tutto inizia immaginando un’unica grande città che oltre a Venezia si estende a inglobare Treviso e Padova, e il cui centro sembra essere stato fissato nell’area di Tessera, polo attrattivo del nuovo costruito e snodo della mobilità pubblica, a cui confluiscono Tav, Smfr (Sistema Metropolitano Ferroviario Regionale), tram e sublagunare.

Questo disegno avrà un forte impatto sulla vita quotidiana e sulle relazioni sociali dei cittadini: proprio per questo riteniamo che la cittadinanza debba essere informata e interpellata e che il dialogo verta non sull’astrattezza dei progetti, ma sui veri bisogni e sulle aspettative di benessere e di qualità della vita espressi dai cittadini che costituiscono il primo obiettivo di un’amministrazione comunale e sui quali vanno disegnati i piani di sviluppo e di governo del territorio. Le circa cinquanta persone selezionate che hanno partecipato all’incontro avvenuto a porte chiuse, hanno assistito a un brillante monologo di un’ora e mezza, che nelle intenzioni dell’assessorato rappresenta la più ampia condivisione con tutti i «portatori d’interesse».

Il Pat è stato illustrato finora ai rappresentanti degli enti territoriali sovraordinati, ai consiglieri comunali e di municipalità, ai rappresentanti delle associazioni di categoria, ai componenti di alcune associazioni scelte all’interno dell’immensa costellazione del volontariato cittadino: essi non possono rappresentare davvero tutti gli interessati alla trasformazione dell’abitare, della mobilità, della qualità della vita che il piano va a condizionare.

Ci chiediamo in quale momento si interpelleranno e ascolteranno i cittadini. E’ bene chiarire innanzitutto che queste riunioni non si configurano all’interno delle pratiche di democrazia partecipativa: la partecipazione non può essere ridotta a incontri di enunciazione di decisioni già consolidate. L’iter di approvazione del piano prevede che, a seguito dell’adozione da parte del consiglio comunale, si possano presentare osservazioni nei successivi sessanta giorni, ma sappiamo che difficilmente esse verranno tenute nell’adeguata considerazione, soprattutto se vanno a incidere profondamente nell’impianto complessivo della pianificazione così disegnata. Pensiamo che temi così rilevanti richiedano invece un diverso livello di approfondimento e di discussione attraverso il coinvolgimento di tutti i cittadini, a cui devono essere forniti con modalità semplici gli strumenti per conoscere i dati oggettivi e gli obiettivi che si vogliono perseguire, le problematiche a cui si vuol dare soluzione e le strade individuate per farlo.

Un processo partecipativo non si fa proponendo scelte già fatte a cui si può solo assentire o dissentire. Si fa coinvolgendo dall’inizio la cittadinanza attraverso assemblee pubbliche e tavoli di lavoro specifici a partire dai bisogni espressi e dando diritto di intervenire con richieste e proposte, a cui l’Amministrazione dovrebbe rispondere discutendo delle possibili alternative. Governare il territorio con equità e partecipazione ha bisogno di tempo e di ascolto. Se l’amministrazione vorrà intraprendere questa strada potrà contare su molti cittadini disposti a seguirla ed appoggiarla. E troverà in molte associazioni e nel coordinamento «Io decido» dei collaboratori critici ma propositivi e disposti a svolgere un ruolo di attivatori della cittadinanza.

È rivolta fra insegnanti, studenti e sindacati, compresa l’Ugl, per l’attacco lanciato sabato da Silvio Berlusconi contro la scuola pubblica: nella sua pseudo-smentita conferma il concetto sull’«indottrinamento politico e ideologico» che farebbero i docenti. La ministra dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, invece di sentirsi colpita nel suo ruolo, difende il premier. Al punto che il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ne chiede le dimissioni: «Se la Gelmini fosse un vero ministro, invece di arrampicarsi sui vetri per difendere Berlusconi, dovrebbe dimettersi». Perché «la scuola pubblica è nel cuore degli italiani. Da Berlusconi arriva uno schiaffo inaccettabile, non permetteremo che la distrugga». E Dario Franceschini, Pd, da Twitter lancia la proposta di una manifestazione per «difendere la scuola pubblica dagli insulti di Berlusconi»: «Tutti di nuovo in piazza, come le donne il 13 febbraio, senza simboli e bandiere». Il capogruppo Pd accoglie «l’importantissima» disponibilità offerta da Beppe Giulietti per il 12 marzo, allargando la protesta in difesa della Costituzione. La Cgil scuola sciopererà il 25 marzo con i lavoratori pubblici, potrebbe replicare con lo sciopero generale proposto da Susanna Camusso. Anche ItaliaFutura, fondazione di Luca Cordero di Montezemolo, denuncia le «esternazioni in libertà» di Berlusconi «che i cittadini non possono sopportare» e «si attendono che faccia funzionare la scuola, non di demolirne la legittimità».

Mariastella Gelmini rispondendo a Bersani ribadisce il concetto sulla scuola dominata da postsessantottini: «Berlusconi non ha attaccato la scuola pubblica», dice come una scolaretta, «ma ha difeso la libertà di scelta delle famiglie». E rilancia: «La sinistra guarda alla scuola pubblica come a un luogo di indottrinamento ideologico. Bersani si rassegni: la scuola non è proprietà privata della sua parte politica».

La Rete degli studenti denuncia la «cancellazione» dell’istruzione pubblica da parte del governo, «altro che riforma», Gelmini e Tremonti hanno ridotto la scuola «a un cumulo di macerie». Gli insegnanti del Gilda bollano il «comportamento inaccettabile» del premier e ricordano che la situazione è opposta: «La scuola statale è un luogo di confronto pluralistico, mentre legittimamente la scuola privata è di tendenza e trasmette convinzioni religiose, politiche e filosofiche». Insomma, Berlusconi si rilegga «i saggi di Luigi Einaudi, che non era un comunista e difendeva il valore della scuola pubblica statale».

Uniti tutti i sindacati. Secondo Domenico Pantaleo, segretario della Flc-Cgil, «Berlusconi non ha né l'autorità morale né quella etica per parlare di scuola pubblica»; Giovanni Centrella, segretario dell’Ugl, ricorda «le gravi ristrettezze in cui operano i professori e le famiglie stesse». Francesco Scrima, Cisl Scuola, parla di «accuse generiche e strumentali agli insegnanti, a cui si continua a chiedere tanto e a dare troppo poco».

Dure critiche da tutta l’opposizione. Nichi Vendola, nella convention di ieri a Roma, spiega così l’attacco di Berlusconi: «È stata proprio la crisi della scuola pubblica e il trionfo delle sue televisioni ad aver accompagnato l’egemonia culturale di un quindicennio». Demolirla quindi è strategico, secondo il leader di Sel: «A queste classi dirigenti serve opinione pubblica narcotizzata».

Antonio Di Pietro insiste più sulla morale: «Sui valori e sull’istruzione Berlusconi non può dare lezioni, se c’è qualcuno che è stato un esempio negativo per i giovani è proprio lui». Anche Rosy Bindi è indignata sul piano morale: «Chi conclude incontri politici inneggiando alle sue indicibili abitudini notturne non è degno di pronunciare la parola famiglia», né di insegnamento, quando alla scuola ha «tagliato risorse, negato dignità agli insegnanti e impoverito i percorsi formativi». Per Italo Bocchino, Fli «sta dalla parte della scuola pubblica» nel solco di Giovanni Gentile e ricorda come alcune privare siano «un diplomificio» o un lasciapassare per figli di ricchi.

Soltanto “sfortunato” il sindaco di Roma Gianni Alemanno? Proprio mentre tenta di lanciare alcune idee di “grandeur” sulla Roma del 2020, finisce nei titoli per le ripetute tragedie degli stupri, dei bimbi rom bruciati in campi abusivi, per altre storie tipiche di una città degradata. O invece sommario, sbrigativo, senza idee? Possibile che il Comune non abbia potuto fare nulla per i disperati dell’ex ambasciata somala ridotta, nella centrale via dei Villini, a lager? E che la sua sola risposta sia, oggi, “li espelliamo tutti”?

Roma, in realtà, è sempre meno amministrata. Prendiamo il caro-taxi avallato con convinzione dal Campidoglio e poi bloccato dal Tar. Né il sindaco Alemanno né i taxisti vogliono affrontare il nodo vero: cioè la riduzione del flusso dei veicoli privati nelle zone centrali e semicentrali (siamo a 1 auto per romano adulto). E’ la sola misura che può rendere più veloci bus e tram e assicurare ai taxi un carico di lavoro oggi insidiato. Aver ritardato alle 23 la ZTL è stato un vantaggio? Sì per i “bottegari” della “movida”, entusiasti sostenitori di Alemanno. No per gli altri: commercianti, residenti, turisti. E per gli stessi taxisti che in tutte le grandi città europee lavorano molto a partire dalle 20-21 (anche per i severi test anti-alcol e altro dei guidatori). Come non capirlo?

Alemanno aveva vinto le elezioni sulla sicurezza. O meglio, sull’insicurezza. Si pensava che avrebbe assunto misure serie, pianificate. Invece ha fatto sgomberare il grande campo del Casilino 900 senza predisporre campi alternativi attrezzati. Risultato? Almeno venti campi “spontanei” senza servizi né sicurezza di sorta. Stesso discorso per la vita notturna di Roma. Si pensava che Comune e Stato avrebbero organizzato meglio la vigilanza nei punti notoriamente più pericolosi. Niente di tutto ciò. Lo Stato perché Tremonti gli ha tolto soldi, uomini, auto funzionanti. Il Comune perché, ridotto alla stessa impotenza, ha preferito straparlare di incrementi fantastici del turismo di massa, di Formula 1 all’Eur (bufala, fin da subito), di Parco tematico della Romanità su 300 ettari di Agro, di altre costose scemenze. Senza far nulla di concreto e avendo una sola idea: niente piani né vincoli, la città è una merce da sfruttare.

E’ risaputo ormai che il livello di sicurezza di un centro urbano dipende anzitutto dal persistere in essa dei residenti e dal controllo sociale da loro operato. Il centro storico di Roma, il più grande e conservato del mondo, contava nel dopoguerra circa 450.000 abitanti. Oggi sono 80-90.000, con rioni nei quali, di sera, le finestre illuminate di una abitazione si contano sulla dita di una mano. Da metropoli a necropoli. Processo reso ineluttabile dal mercato? Allora non scandalizziamoci se una ragazza può venire stuprata nei pressi di piazza di Spagna. Qualcuno osa ancora parlare del recupero a fini residenziali dei centri storici? Eppure il problema dilaga: ci sono città antiche che nell’ultimo decennio si sono svuotate, come la bellissima Viterbo, crollata da 20.000 a meno di 8.000 residenti. Soltanto Genova, che mi risulti, ha realizzato (sindaco Beppe Pericu, assessore Bruno Gabrielli) una politica pluriennale di recupero e restauro fermando, almeno, l’emorragia di abitanti. Si svuotano dunque quartieri dove sono presenti tutti i servizi, primari e secondari, e si assecondano fantastici piani di espansione nelle campagne consumando altro suolo agricolo e altro verde, impegnando soldi pubblici a pioggia, non risolvendo comunque la questione del caro-casa (il “social housing” da noi è a livelli infimi), rendendo ingestibile la città. L’edilizia sembra la sola ricetta italiana, a Milano come a Roma. Lo ha riconfermato lo stesso Tremonti ai pomposi Stati Generali per Roma 2020. C’è qualcosa di più stupidamente vecchio della cura immobiliaristica? Possibile che Roma abbia dimenticato di essere una città che produce, che fa ricerca, che sta nella tecnologia avanzata (e dovrebbe starci ancor di più)? Altro che cemento e asfalto. Ora, per trasformare ancor più Roma antica in un bazar (senza il fascino dell’esotismo), sono in arrivo 237 bancarelle in piazze come San Giovanni, il Velabro, Santa Maria Maggiore, la Pilotta, ecc. Dentro questa fiumana ci sono i prodotti bio, ma c’è pure la peggiore paccottiglia. Per cui Roma antica sarà sempre più mangiatoia continua di surgelati precucinati e bancarella non meno continua. E il superministro Tremonti se la prende coi vincoli architettonici e paesaggistici, con l’urbanistica. Siamo i soli in Europa a straparlare così. In coda a tutti.

In tempo di affittopoli nella Lombardia della privatizzazione al potere succede di tutto. Succede che con poche centinaia di euro ti ritrovi con uno spazioso appartamento in una delle zone più prestigiose di Milano oppure succede che il fu PAT (Pio Albergo Trivulzio) diventi l’acronimo di Parenti Amici e Tangenti. In Lombardia c’è una vasta cittadinanza che tutti i giorni combatte per stare al passo con la dignità e un’altra (nemmeno troppo) sommersa che le regole se le scambia come al tavolo del Monopoli: senza soldi finti però, preferibilmente con i soldi degli altri. Eppure nella Lombardia che rende cavalieri i più furbi oggi c’è un bando che concede il lusso di un esoso e prestigioso scaccomatto all’uguaglianza: 30.000 euro per 9.000 metri quadrati (un canone da periferia del mondo) con ampio giardino e vista mozzafiato, inclusi qualche secolo di storia e fauna e flora a volontà da tenere tra i gioielli di famiglia.

Non importa che quella villa sia il cuore di un parco con duecento anni di storia e che il Piano Regolatore della città di Monza fin dal 1964 reciti “nel Parco nessuna nuova costruzione”: oggi a Monza Villa Reale e il suo Parco sono in bella vista nella bancarella per pochi dell’intoccabile (e illegittimo, per firme) Governatore Roberto Formigoni. A controllare l’operazione c’è il braccio lungo “dell’assessorato al cemento” Infrastrutture Lombarde SPA, la società di matrice ciellina attraverso cui passa tutta la cementificazione lombarda. Antonio Cedernadiceva che “tutta l’Italia va trattata come un parco e alla rigorosa salvaguardia dei valori del suo territorio va rigorosamente subordinata ogni ipotesi di trasformazione e sviluppo: perché non venga definitivamente distrutta l’identità culturale l’integrità fisica del nostro Paese”. Oggi in Lombardia un Parco è come il maiale: non si butta via niente. Come nelle migliori tradizioni padane.

APPELLO AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA PER LA VILLA REALE DI MONZA

Egregio Signor Presidente, la Villa Reale di Monza, insieme al suo Parco, rappresenta un gioiello del periodo neoclassico di valore mondiale. Dopo essere stata abbandonata dai Savoia all’inizio del XX secolo è rimasta per la gran parte inutilizzata fino a oggi, manifestando nel corso del tempo un progressivo degrado solo parzialmente contenuto. All’inizio di questo anno il Consorzio pubblico che la gestisce – composto da Ministero dei Beni culturali, Regione Lombardia, Comune di Monza, Comune di Milano – ha deciso di affidarne la ristrutturazione e la gestione a un soggetto privato, da individuare attraverso un bando di gara indetto in data 17 marzo da Infrastrutture Lombarde, la S.p.A. che presiede alla valorizzazione, la gestione, l’alienazione e la manutenzione del patrimonio immobiliare di Regione Lombardia.

Questo bando di gara permetterà al privato che lo vincerà. Di poter utilizzare le ingenti risorse pubbliche da stanziarsi per un importo di 19 milioni di euro, a fronte di un impegno del vincitore di soli 5 milioni, al fine di ristrutturare il corpo centrale dell’edificio. Di predisporre il progetto esecutivo per la ristrutturazione della stessa, senza adeguate indicazioni da parte del Consorzio proprietario. – Di gestire la Villa Reale per un periodo di ben 30 anni con un canone di affitto di soli 30.000 euro all’anno. Di lasciare la Villa Reale in uso al Consorzio pubblico proprietario per soli 36 giorni all’anno, mentre per tutto il resto dell’anno il privato gestirà il complesso di propria iniziativa. Noi sottoscritti pensiamo che questo bando sia inaccettabile. Perché cederà un monumento di enorme importanza storica e culturale, e le ingenti risorse pubbliche necessarie per ristrutturarlo, senza adeguate garanzie sul futuro del bene, sui suoi utilizzi e sulla sua fruibilità pubblica.

Perché questo bando di gara porterà a una ristrutturazione – e non a un restauro conservativo – della Villa Reale, ristrutturazione rivolta principalmente alla sua valorizzazione economica e non al suo recupero come monumento storico, comportando eventualmente anche profonde modifiche strutturali. Perché questo bando di gara porterà a una gestione della Villa Reale con lo scopo principale di remunerare l’investimento del privato vincitore e non l’utilizzo del monumento come bene pubblico. Pensiamo inoltre che le risorse necessarie al restauro possano essere reperite dagli enti proprietari componenti il Consorzio e a esso affidata la gestione senza un intervento privato il cui oggettivo interesse di trarre profitto dai propri investimenti confligge con le esigenze di tutela del patrimonio artistico nazionale garantite dall’art. 9 della Costituzione. Pensiamo quindi che il bando di gara vada immediatamente ritirato, per individuare una soluzione adeguata, che permetta di restaurare la Villa Reale e di restituirla ai cittadini come museo di se stessa, polo didattico, sede di eventi espositivi di livello internazionale e di alta rappresentanza istituzionale.

Signor Presidente, nel poco tempo che ci separa da decisioni pregiudizievoli dell’integrità e della dignità di un bene tra i più preziosi dell’architettura e dell’arte nazionali, ci rivolgiamo a Lei con fiducia affinché sia fatto ogni sforzo per trovare soluzioni alternative a quella prospettata e la Villa Reale di Monza conservi intatto il proprio patrimonio di ricchezze architettoniche, artistiche e culturali.

TRA GLIADERENTI:Natalia Aspesi Stefano Benni Giulio Cavalli Luigi Ciotti Lella Costa Chiara Cremonesi Enrico Deaglio Elio De Capitani Monica Frassoni Don Andrea Gallo Giovanna Melandri Franco Oppini Giuliano Pisapia Corrado Stajano Oliviero Toscani Walter Veltroni Nichi Vendola

Il Corriere del Mezzogiorno (vedi in calce)ha informato recentemente che il Ministero per i beni e le attività culturali ha dichiarato “bene d’interesse storico-artistico” un cospicuo lembo (7 ettari) di collina, in un’area centrale di Napoli, restato per anni incolto “in attesa di edificazione” nonostante un vincolo paesistico procedimentale e un vincolo a standard decaduto, nel quale la più specifica salvaguardia urbanistica disposta dalla variante di prg del 1998 ha indotto i proprietari a reimpiantare l’antica vigna scomparsa. Abbiamo chiesto a Giovanni Dispoto, che ha seguito la vicenda negli ultimi lustri, di raccontarla (e.)

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Descrizione dell’area



La Vigna s’identifica topograficamente con gran parte del pendio esposto a sud-est che raccorda i margini settentrionali dei quartieri Spagnoli (corso Vittorio Emanuele III) del centro storico, con la certosa di San Martino e castel Sant’Elmo, il complesso monumentale che sorge al culmine della collina del Vomero. L’area è altresì delimitata a Est e a Ovest da due storici percorsi pedonali: i gradoni della Pedamentina e quelli del Petraio. Questi, partendo entrambi da San Martino, si divaricano raggiungendo in basso il Corso Vittorio Emanuele III, il primo in corrispondenza di Montesanto, il secondo in corrispondenza di Cariati, dove si trovano anche il complesso monastico di San Nicola da Tolentino e l’ex complesso monastico di suor Orsola Benincasa, oggi sede universitaria. Adiacenti ai due percorsi, i tracciati rispettivamente della funicolare di Montesanto e della funicolare Centrale che collegano la città bassa e la città alta.

Il Prg del 1972



L’area era individuata nel Prg del 1972 come zona omogenea I1- Parco di particolare valore paesistico ed ambientale- e la sua attuazione era subordinata, come anche l’attuazione del Prg per l’intero territorio cittadino, alla redazione di piani urbanistici esecutivi che non furono mai elaborati. Con la prima giunta Valenzi venne considerata anche la possibilità di procedere all’esproprio dell’area per la realizzazione di un parco pubblico, ricorrendo alla legge 1/78 che avrebbe potuto consentire l’intervento anche in deroga al Prg. Tuttavia una accurata valutazione dei luoghi (un paesaggio di coltivi terrazzati in pieno centro storico che risalendo il ripido pendio culmina con la passeggiata dei monaci della certosa di san Martino) mise in evidenza la difficoltà di conciliare la conservazione dei caratteri paesaggistici, morfologici, agronomici dell’area ed un suo eventuale utilizzo come verde pubblico da standard che all’epoca s’identificava tout court con il cosiddetto “verde attrezzato”, con l’immancabile presenza di cavee, laghetti e verde ornamentale. In altri termini i tempi non apparivano ancora maturi per un progetto anche gestionale, che considerasse la campagna urbana come un bene di pubblico interesse anche ai fini dello standard urbanistico. L’obiettivo dell’amministrazione di realizzare un grande parco urbano fu così indirizzato al bosco esistente sulla collina dei Camaldoli, dove in quegli anni l’abusivismo edilizio minacciava di far sparire la selva di castagno ceduo che la ricopriva. Un progetto esecutivo elaborato dall’amministrazione e approvato all’unanimità dal consiglio comunale ai sensi della legge 1/78, consentì poi alla cassa per il Mezzogiorno di procedere agli espropri e alla realizzazione del parco boschivo dei Camaldoli (137 ha).

Dal punto di vista della tutela dell’area dall’abusivismo, la vigna San Martino, soprattutto per la sua posizione e il fragile equilibrio dei luoghi, appariva correre minori rischi . Vincolata ai sensi della legge 1497/39 con decreto del 22 novembre 1956, risultava appartenere per intero ad una società con sede all’estero.

La variante di salvaguardia e la variante al Prg



Con la variante di salvaguardia approvata il 29.06.1998, l’area viene compresa nella zona omogenea nEa –Area agricola. La perimetrazione dell’area rispetto al Prg del 1972 viene ampliata lungo il bordo meridionale attestandosi sui confini della cortina edificata al piede della collina, lungo il corso Vittorio Emanuele III (convento di San Lucia al Monte).

E’ in questo periodo che avviene l’acquisto del terreno da parte dell’attuale proprietario che reimpianta quasi subito la vigna e torna a coltivare i terrazzamenti prima abbandonati.

Con la variante al Prg approvata nel 2004, l’area viene assoggetttata alla disciplina della zona omogenea Ad – Agricolo in centro storico- e contemporaneamente individuata tra le aree reperite come standard di verde di quartiere.

I tempi sono maturi per conciliare la tutela e la permanenza della campagna urbana e in generale dei valori testimoniali del paesaggio agrario, con il dimensionamento degli standard urbanistici nel nuovo piano regolatore. Questo, anche in considerazione dei nuovi indirizzi comunitari sulla multifunzionalità dell’agricoltura specie in area urbana (agriturismo, attività didattica, vendita diretta dal produttore al consumatore, eccetera), e della possibilità di attuare forme di fruizione dei terreni, coltivati e non, con l’assoggettamento all’uso pubblico attraverso la stipula di convenzioni tra pubblico e privato, ipotizza che l’intero sistema collinare dei terreni ancora liberi, ivi compresa l’area della vigna San Martino, venga perimetrato come parco di interesse regionale (art.1 delle n.t.a.).

In ordine a tale scelta del Prg, la regione Campania con legge regionale 17 del 7 ottobre 2003 e successivamente con decreto di giunta regionale n. 853 del 16 giugno 2004, ha provveduto all’istituzione del parco metropolitano delle colline di Napoli che comprende nel suo perimetro anche la Vigna San Martino.

La stesura definitiva del Prg e l’istituzione del parco regionale ha dato, rispetto alla variante di salvaguardia, ulteriori e definitive certezze all’iniziativa del privato circa la coerenza esistente tra la strumentazione urbanistica vigente e le attività che l’imprenditore intende svolgere nella sua proprietà. Il recente vincolo dell’area, in quanto “Bene di interesse storico e artistico” da parte del ministero competente è, a ben vedere, il coronamento di un costante e coerente percorso di pianificazione urbanistica svoltosi nell’arco degli ultimi quaranta anni.

Con l´irrevocabile responso emesso dal Giurì per l´autodisciplina pubblicitaria, su ricorso dei senatori Francesco Ferrante e Roberto della Seta (Pd), il bombardamento mediatico a favore del nucleare per il momento è stato interrotto. Ispirata dal presidente del Consiglio per persuadere e convertire gli italiani a questa scelta, come se si trattasse di un detersivo, di una bibita o di una crema miracolosa, la campagna a colpi di spot è stata sovvenzionata dal "Forum nucleare italiano", organizzazione ufficialmente non profit di cui però i soci fondatori sono l´Edf e l´Enel, cioè i due soggetti maggiormente interessati al business atomico: dalla vigilia di Natale all´Epifania, oltre 400 passaggi televisivi, per un costo di circa 6 milioni di euro.

"Pubblicità ingannevole", ha sentenziato ora senza mezzi termini il Giurì. E così l´aveva già definita anche Antonio Di Pietro in un esposto all´Autorità sulle Comunicazioni, seguito a ruota da un altro parlamentare dell´Idv, Elio Lannutti, che ha presentato una raffica di interrogazioni al Senato.

Lo spot pubblicitario ha messo in scena una partita a scacchi collettiva. Bianco e nero, una mossa dietro l´altra, la partita procedeva tra domande e risposte in un contrappunto di tesi e antitesi. Ma in realtà, come ha stabilito il Giurì nella sua motivazione, lo spot sull´atomo «mira a ingannare e confondere chi lo riceve, contrabbandando come neutrali e sociali i suoi contenuti squisitamente di parte».

Contro questa offensiva mediatica e in vista del referendum sul ritorno al nucleare programmato dal governo in carica, secondo quanto scrive Gianni Silvestrini - direttore scientifico di Kyoto Club - nell´introduzione al libro di Mattioli e Scalia citato all´inizio, «occorre dunque preparare un´accurata azione di controinformazione che consenta ai cittadini di avere elementi adeguati a contrastare la vasta campagna già annunciata dal governo per spiegare come il nucleare sia sicuro e poco costoso». E un primo strumento - forse meno suggestivo di una campagna pubblicitaria, ma certamente più documentato e razionale - può essere proprio il volume pubblicato dai due padri dell´ambientalismo scientifico italiano. Un compendio di informazioni, dati, grafici e tabelle che sgombra il tavolo da tanti luoghi comuni, slogan e falsi ideologici.

Rinviando alla consultazione del libro chi fosse interessato ad approfondire l´argomento, con l´aiuto degli stessi autori proviamo a riassumere qui alcune questioni fondamentali. Lo sviluppo dell´energia nucleare può giovare a combattere l´inquinamento e quindi il riscaldamento del pianeta, contribuendo così a regolare il clima? «Se un impegno straordinario portasse al raddoppio delle centrali, la riduzione delle emissioni di CO2 non supererebbe il 5%».

È vero che, dopo l´incidente di Chernobyl, l´Italia è stato l´unico paese dell´Occidente industrializzato a bloccare il nucleare? «A seguito di Chernobyl, il nucleare viene bloccato in tutti i paesi dell´Ocse: non si procederà a nessun nuovo ordinativo di reattori - proprio come già si era verificato negli Usa, dove a partire dal 1978 non era stata commissionata nessuna nuova installazione e un centinaio di progetti erano stati accantonati».

L´energia nucleare è pulita? Il ciclo del combustibile nucleare, sostengono in sintesi Mattioli e Scalia, comporta lavorazioni a rischio salute. Né vanno trascurati gli effetti biologici e i danni sanitari connessi alle radiazioni. Viene citato poi uno studio di "Environmental Health", in cui si parla di alti valori delle leucemie infantili derivanti da radionuclidi e di «dosi derivanti dalle emissioni di radiazioni dai reattori su embrioni e feti nelle donne gravide».

Quanto costa il kWh (chilowattora) nucleare? «Nella composizione del costo del kWh nucleare alcune componenti sono decisamente opache, altre neanche definibili: esso potrà anche risultare meno costoso, ma non c´è dubbio che si tratta di un prezzo politico dell´energia». E ancora: «L´insistenza su questo tasto sembra intesa a voler mettere in ombra il vero problema economico del nucleare: il finanziamento degli elevati capitali richiesti dagli investimenti e i tempi molto lunghi - oltre vent´anni - per il ritorno dei capitali investiti».

Qual è, dunque, il futuro dell´energia nucleare? «Oggi l´energia nucleare copre meno del 6% del fabbisogno mondiale di energia primaria e del 15% della produzione di energia elettrica». «Di fatto, come per la fusione nucleare, la prospettiva dei reattori di quarta generazione di anno in anno si allontana nel tempo e ora se ne prevede la realizzazione e commercializzazione non prima del 2030-2040».

Che fare, allora? Quali sono le alternative a disposizione? «Non ci possiamo oggi aspettare dalla fissione nucleare la risposta alle scelte urgenti che siamo chiamati a effettuare in tema di energia e sconvolgimento climatico». «Per l´Italia non si tratta dunque di scegliere tra la prospettiva del governo e i sogni degli ecologisti, ma di scegliere tra i reattori e la strategia che ha scelto l´Europa»: e cioè, entro il 2020, 20% di riduzione della CO2; 20% di risparmio sui consumi finali; e, sui consumi restanti, 20% di fonti pulite e rinnovabili, come l´energia solare e quella eolica.

Legambiente, Wwf Italia, Rete dei comitati per la difesa del territorio, Comitato per la bellezza e Comitato terra di Maremma hanno condiviso, sottoscritto e presentato (Rispescia, 25 febbraio 2011) il documento che segue

Vale la pena riprendere il discorso sul corridoio tirrenico perché ci troviamo ad uno snodo interessante del processo di decisione: uno snodo dal quale possono prendere avvio aperture positive o, al contrario, ulteriori peggioramenti di un progetto già molto discutibile e discusso.

I fatti sono noti. Nel dicembre 2008 il Cipe ha approvato il progetto preliminare dell’autostrada Tirrenica con un tracciato di 200 km completamente in variante posizionato tra 50 e 100 metri dall’attuale Strada Statale Aurelia, la quale a sua volta veniva riportata per intero a due corsie, con a lato una pista ciclabile sui tratti oggi a quattro corsie. Abbiamo contestato fortemente questo progetto perché determinava un elevato consumo di suolo, un forte impatto paesaggistico in un territorio ancora integro, perché buttava a mare le risorse pubbliche investite fino ad oggi per adeguare l’Aurelia, ed aumentava le corsie a disposizione dei veicoli creando ulteriore traffico ed inquinamento.

Solo la Regione Lazio contestò quel progetto SAT, chiedendo il rifacimento della tratta laziale, con un progetto che utilizzasse ed ampliasse la Strada Statale Aurelia, soluzione che fu accolta dal CIPE nell’approvazione del dicembre 2008.

Di conseguenza la concessionaria SAT ha dovuto presentare un nuovo progetto del lotto 6A tra Tarquinia e Civitavecchia di circa 14 km, con una nuova procedura di Valutazione di Impatto Ambientale che è stata pubblicata ed avviata nell’estate 2010 e di cui si attende il parere da parte del Ministero per l’Ambiente.

Le caratteristiche del progetto definitivo recentemente presentato nel tratto laziale sono assai diverse da quelle del progetto preliminare del 2008 e approssimano in buona misura, tranne l’introduzione del pedaggio, a quelle del progetto ANAS del 2000:

- è cambiato il posizionamento territoriale, che passa dal tracciato distante dall’Aurelia a un tracciato pressoché totalmente sovrapposto all’attuale Aurelia;

- è cambiato il sistema di pedaggiamento, che passa da un sistema chiuso di esazione a svincolo ad un sistema misto di esazione a barriere intercalate da entrate/uscite regolate con il sistema free flow multilane. Un sistema che consente il passaggio dei veicoli in velocità, il pagamento differito del pedaggio e la selezione tra traffico pagante e traffico non pagante;

- e sono cambiate le stime di traffico: la nuova configurazione porterebbe ad una diminuzione del traffico atteso di circa il 40% rispetto a quello riportato nel Piano Economico Finanziario del 2008.

Questo calo dei dati di traffico futuri danno ragione alle obiezioni degli ambientalisti sulle stime gonfiate del progetto 2008, che tra crescita del traffico tendenziale e capacità della nuova autostrada di attrarre traffico dall’autostrada A1, arrivava a ben 52.000 veicoli/giorno nel 2030 sulla nuova Autostrada della Maremma. Un calo del 40% stimato adesso nel nuovo progetto definitivo significa arrivare a circa 31.000 veicoli/giorno nel 2030, sostanzialmente la crescita che si avrebbe sull’Aurelia, secondo le simulazioni di SAT, anche in assenza di qualsiasi intervento di adeguamento.

Va anche detto che più in generale la crescita del traffico è molto legata all’andamento dell’economia e del PIL e quindi ogni previsione deve fare i conti con l’andamento futuro dell’economia reale: anche passare dai 18.000 veicoli al giorno di oggi alla stima per 31.000 veicoli/giorno nel 2030 è comunque una stima assai ottimistica e di piena ripresa economica che al momento risulta invece altamente incerta. E senza calcolare le incertezze che gravano sul prezzo e la fine del petrolio.

Al di là della questione del pedaggio (che oggi ANAS propone su molte strade statali) c’è da chiedersi come mai nel 2005, quando venne presentato il progetto poi approvato nel 2008, l’adeguamento in sede dell’Aurelia del progetto del 2000 fosse stato ritenuto inaccettabile a causa dell’impossibilità di rispettare le nuove norme tecniche per la costruzione di strade e autostrade ed ora divenga improvvisamente possibile. Se si poteva fare, chi pagherà i dieci anni che sono stati persi? A leggere i termini con cui lo studio commenta il confronto tra l’alternativa del 2005 e l’alternativa di oggi emerge chiara la miseria progettuale di allora. Il progetto del 2005 si collocava “a metà tra la SS1 Aurelia e la ferrovia Roma – Pisa – Livorno, creando una frattura nel territorio e interferendo con moltissime attività locali e vincoli di tipo archeologico, naturalistico e paesaggistico”. Quello di oggi “ annulla la maggior parte delle problematiche ambientali connesse al progetto precedente del 2005”.

Meglio tardi che mai viene proprio da dire, e nello stesso SIA viene indicato che anche per il resto del tracciato in corso di progettazione, quindi per tutto il tratto tra Civitavecchia e Rosignano, verrà realizzato “come adeguamento dell’attuale Aurelia” abbandonando quindi il progetto approvato nel 2008.

Le ragioni addotte dalla concessionaria SAT per tale profondo cambiamento si richiamano alle prescrizioni del CIPE sia sul piano ambientale che sul piano economico finanziario, nonché alla difficile situazione economica ed alla necessità di ridurre i costi dell’intervento. Ma è evidente che la SAT ha cambiato atteggiamento perché è stato smascherato il suo tentativo si scaricare sulla collettività i costi dell’investimento (alla fine della concessione) e quindi non gli è stato consentito di realizzare profitti e speculazioni spacciandolo per “autofinanziamento”.

In questo quadro di inedita prudenza finanziaria lo studio di impatto dei 14 km tra Civitavecchia e Tarquinia si spinge a promettere che tutto il tracciato da Rosignano a Civitavecchia verrà rivisto in base agli stessi principi.

Riteniamo positivo il fatto di intervenire sull’adeguamento dell’Aurelia, così da non introdurre un nuovo elemento di sfascio del territorio, ed in buona sostanza è quello che come ambientalisti abbiamo sempre chiesto in alternativa all’Autostrada della Maremma, interna o costiera che fosse. Ma proprio perché si sta andando nella giusta direzione come per il nuovo tracciato presentato del lotto 6A tra Tarquinia e Civitavecchia, riteniamo si debbano fare ancora altri passi in avanti verso il miglioramento del futuro progetto Rosignano–Civitavecchia in corso di progettazione che suscita, a nostro avviso, più di una preoccupazione.

A partire dal tratto Ansedonia-Fonteblanda che, secondo le prime intenzioni della SAT riportate dai giornali, si sarebbe trattato non più del pessimo tracciato interno in arte in galleria del 2008, bensì un nuovo tracciato a “ridosso” del massiccio di Orbetello. Tracciato che ha suscitato una forte preoccupazione nella popolazione del luogo e che rischiava davvero di avere un impatto paesaggistico inaccettabile.

Sembrerebbe che queste proteste siano state recentemente e giustamente ascoltate se alla fine di gennaio 2011, Ruggiero Borgia, Amministratore Delegato di SAT, ha annunciato sui giornali una ulteriore svolta con un tracciato interamente sulla sede dell’Aurelia anche nel tratto orbetellano. E di tracciato interamente in sede ha parlato anche SAT anticipando ai giornali a metà febbraio 2011 come sarà la Tirrenica.

Certo se la pretesa è quella di mettere semplicisticamente “una grande autostrada” su di una strada statale, di sicuro non potrà funzionare, mentre quello che serve è un adeguamento e riqualificazione sull’Aurelia, per renderla una strada sicura ed omogenea, inserita al meglio nel territorio.

Resta da vedere quindi quale sarà davvero il progetto definitivo che verrà presentato, con quali caratteristiche e con quale tracciato, di cui valuteremo gli impatti, l’utilità collettiva e come risolverà i problemi di viabilità locale dei territori maremmani. Ma di sicuro non è invocando il ritorno al progetto devastante del 2008 come si fa oggi da più parti, che avremo fatto passi in avanti verso la tutela del territorio, del paesaggio, delle attività e delle popolazioni della Maremma.

Un’altra preoccupazione riguarda lo “spezzettamento” del progetto definitivo, che solleva un’importante questione di metodo. Ciascuna tratta è sottoposta separatamente alla procedura di Valutazione di Impatto Ambientale: prima i 4 km tratta Rosignano-S. Pietro in Palazzi, poi i 14 km del tratto Civitavecchia-Tarquinia, poi in futuro, forse entro i primi mesi del 2011, la presentazione del tratto Tarquinia-S.Pietro in Palazzi. Ai fini della Valutazione di Impatto Ambientale (da rifare sul progetto definitivo visti i rilevanti cambiamenti di tracciato rispetto al preliminare, così come prescritto dalla Legge Obiettivo) un tale frazionamento, evidentemente motivato dal solo desiderio di poter dire di aver iniziato l’opera, condiziona la valutazione dei tratti successivi al fatto compiuto dei tratti precedenti ed è esplicitamente vietato dalle direttive europee e dalle norme italiane dal momento che impedisce la valutazione della compatibilità ambientale dell’opera nel suo complesso.

In secondo luogo questo modo di procedere lascia senza risposte una serie di interrogativi che sono invece di fondamentale importanza per valutare le proposte di intervento. Tre sono, in sintesi, le questioni principali, ovviamente tra loro fortemente interrelate: il problema della fattibilità economico-finanziaria, il problema del ruolo territoriale dell’infrastruttura e il problema dell’impatto ambientale.

Questioni di fattibilità economico-finanziaria

La fattibilità economico-finanziaria dell’opera è estremamente importante perché la storia ci ha insegnato che piani finanziari del tutto campati per aria hanno dato luogo a grandi deficit nei bilanci delle concessionarie, ma nessuna concessionaria insolvente è mai fallita e il ripiano dei debiti è stato ottenuto grazie alla devoluzione di rilevanti risorse pubbliche, sottratte ad altri più importanti impieghi di interesse collettivo.

Sussistono ad oggi forti dubbi circa la possibilità della concessionaria di ripagarsi con le entrate da pedaggio. In occasione della stipula della Convenzione unica firmata da SAT ed ANAS l’11 marzo 2009 , avevamo sottolineato tutte le criticità già allora evidenti: il traffico era troppo scarso (per quanto fosse “gonfiato” come oggi SAT riconosce) per giustificare la realizzazione di un’autostrada e per ripagare con le sole tariffe un investimento da 3,8 miliardi di euro, nonostante la proroga dal 2028 al 2046 della concessione, a cui ha dato il proprio assenso anche l’Unione Europea bocciando purtroppo il ricorso delle nostre associazioni ambientaliste.

I fatti si sono prontamente incaricati di confermare la ragionevolezza delle nostre critiche. Oggi SAT stima il traffico di un buon 40% inferiore a quello contemplato nella Convenzione già firmata nel 2009. Per di più la delibera CIPE che doveva ratificare la convenzione ANAS-SAT verificando che non avesse effetti negativi sul bilancio dello Stato, ha opportunamente bocciato il “valore di subentro” di 3,5 miliardi di euro che lo Stato avrebbe dovuto corrispondere alla concessionaria a fine concessione (praticamente l’intero costo di costruzione), stabilendo invece che tale valore deve essere “pressoché nullo”.

Altri elementi di costo non hanno invece ancora trovato alcuna esplicitazione e sarà opportuno che vengano chiariti: quanto dovrà corrispondere la concessionaria all’ANAS per l’uso della strada statale Aurelia già portata a 4 corsie con risorse interamente pubbliche e che quindi non potrà essere ceduta gratuitamente ad una concessionaria privata? E ancora, cosa accadrà delle risorse (172 miliardi di lire) elargite nel 2000 a SAT come forma di compensazione dallo Stato a motivo della sospensione della realizzazione dell’autostrada decisa nel 1999? Ora che l’opera è ripartita queste somme verranno restituite?

Sono tutti legittimi quesiti, che dovranno trovare una risposta nella nuova Convenzione ed allegato Piano economico e finanziario che la concessionaria presenterà nei prossimi mesi, così come richiesto dalla delibera Cipe del 22 luglio 2010 pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 7 ottobre 2010.

In questo quadro oggi SAT parla di un progetto da ridimensionare e ha annunciato un progetto che deve costare complessivamente circa 2,2 miliardi di euro. Anche questo costo a nostro avviso è molto rilevante e sulla base delle esperienze italiane di infrastrutture in autofinanziamento (come ad esempio la BreBeMi tra Brescia e Milano) sembra molto difficile che possa ripagarsi con le sole entrate da pedaggio. In sostanza la fattibilità finanziaria complessiva dell’opera presenta aspetti, allo stato delle cose, ancora di grandissima incertezza.

Questioni di ruolo territoriale dell’infrastruttura

Occorre dunque attendere il nuovo Piano economico e finanziario e la nuova convenzione per capire come si prevede che l’opera possa ripagarsi, ma fin d’ora sembra necessario avanzare le questioni relative al secondo irrisolto problema: ovvero il ruolo territoriale dell’infrastruttura, che proprio dal piano finanziario dipende in larga misura.

Infatti nel Piano finanziario dovrà essere chiarita non solo l’entità degli introiti, ovvero il livello delle tariffe e le loro dinamiche nel tempo, ma anche la ripartizione tra traffico pagante e traffico non pagante, la tariffazione del traffico di lunga percorrenza e del traffico locale, il trattamento del traffico portato in loco sottraendolo ad altre infrastrutture. A quali condizioni e per quanto tempo gli utenti locali saranno esonerati in tutto o in parte dal pagamento dei pedaggi? Ne deriverà un peggioramento funzionale e un aggravamento del costo della mobilità locale? In quale misura l’adozione del sistema di pedaggiamento free flow eviterà complanari e ulteriori aggiunte di viabilità e in quale misura l’autostrada sarà connessa alla viabilità ordinaria? Si tratta ovviamente di un problema centralissimo dal momento che si consegnerebbe alla concessionaria l’intero sistema di relazioni territoriali stratificato intorno all’Aurelia.

E ancora: quale struttura tariffaria sarà adottata e come terrà conto di quella politica di trasferimento modale verso la ferrovia che tutti i documenti programmatici comunitari, nazionali e regionali di politica dei trasporti non perdono occasione di riaffermare?

In questo contesto non possono che destare una forte preoccupazione due fatti attuali. Da una parte il taglio dei servizi di trasporto ferroviario lungo la ferrovia tirrenica ventilato (e in parte già attuato) da Trenitalia per il traffico di lunga percorrenza considerato poco conveniente, su di una direttrice già oggi debole, con scarsi servizi veloci (due Eurostar al giorno) e nessun servizio mirato in estate quando aumenta moltissimo la domanda di turismo in Maremma . Dall’altra gli effetti dovuti ai tagli del trasporto regionale e locale ferroviario e stradale (e/o robusti incrementi tariffari) che si faranno sentire nel 2011 a causa della manovra Tremonti; tagli contro cui si sono impegnati anche i sindaci e gli amministratori locali della provincia di Grosseto.

E’ chiaro che se si tagliano i treni e gli autobus, se non si sostiene il trasporto via mare delle merci e non si investe sulla portualità (come succede anche a Livorno dove il porto è addirittura commissariato dal Ministro Matteoli che non ha accettato le proposte degli Enti locali per la Presidenza), tutto il traffico resterà e crescerà sulla strada alimentando non solo inquinamento, rumore e congestione ma anche la “fame” di nuove strade ed autostrade. E’ evidente dunque che per noi il ruolo del corridoio tirrenico deve essere accompagnato da un potenziamento del trasporto ferroviario e marittimo, per offrire diverse e valide integrazioni ed alternative agli utenti ed al trasporto delle merci.

Come dicevamo quindi la struttura tariffaria è un elemento determinante per definire concretamente il ruolo territoriale dell’infrastruttura, questione che i progetti presentati lasciano del tutto al margine. E’ appena il caso di osservare che un progetto di autostrada che punta ad utilizzare l’Aurelia solo “per risparmiare” sui costi appare inadeguato fin dall’impostazione.

Il riconoscimento, sempre più evidente, della non fattibilità di una nuova autostrada in variante, quale era il progetto preliminare del 2008, dovrebbe invece portare ad una reale modifica, di significato oltre che di geometria, del progetto di ammodernamento dell’infrastruttura esistente, con un progetto di potenziamento e riqualificazione sull’Aurelia.

Una infrastruttura che sarebbe assurda e controproducente se finalizzata ad attrarre in un territorio delicatissimo e meraviglioso nuovo traffico di transito di merci e passeggeri tra il nord ed il sud del Paese, ma che può invece divenire interessante da molti punti di vista se serve a risolvere i problemi di mobilità di chi vive e lavora in quel territorio, se supporta in modo adeguato la qualità dei luoghi i flussi turistici destinati alla Maremma, se collega quei territori con il resto del mondo senza distruggere le preziose (e ormai rare) risorse paesistiche su cui si fonda la capacità locale di benessere economico e sociale.

Un tale progetto dovrebbe essere calibrato sulle reali esigenze dei territori interessati ed essere frutto di politiche di trasporto decise in accordo tra Stato, Regioni ed enti locali piuttosto che dalle concessionarie autostradali. Sarebbe il caso che SAT ed ANAS rendessero noti i dati di traffico dell’attuale SS Aurelia, con una indagine accurata, capace di chiarire quali siano le percorrenze medie, quali gli itinerari verso le aree interne e la costa che utilizzano almeno in parte l’Aurelia, quali le entrate ed uscite maggiormente utilizzate, quali i traffici di transito e le ragioni d’utilizzo. Così da avere reali elementi di conoscenza per poter decidere in modo condiviso sia il miglior adeguamento dell’infrastruttura sia coerenti politiche di pedaggio.

E sarebbe anche il caso, trattando di traffico ed intermodalità, di ragionare a livello regionale e locale sull’incremento dell’uso del treno, dei bus e della bicicletta come modalità concrete di accesso e spostamento in Maremma, con parcheggi di interscambio alle stazioni, con un sistema di reti e strade ciclabili sicuro, e magari anche un sistema di trasporto pubblico efficiente, tipo Metro del Mare, per spostamenti lungo la costa tra i principali punti di attrazione turistica.

Tutti interventi e misure che hanno concrete connessioni con il progetto di ristrutturazione stradale e ne condizionano la natura, i caratteri fisici e funzionali e la desiderabilità per gli abitanti e le attività insediate. E’ una partita che non può evidentemente essere affidata ai soli calcoli della Concessionaria circa i propri equilibri finanziari, ma deve essere riportata alla sua sede naturale di dialettica e concertazione con Comuni, Provincie e Regione con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Il pedaggio è dunque un problema centralissimo per la definizione del ruolo territoriale dell’infrastruttura e dovrà essere oggetto di discussione pubblica. Ma fin d’ora si possono avanzare i criteri di fondo: sarà necessario stabilire tariffe elevate per il traffico di passeggeri e merci di lunga percorrenza in transito mentre occorrerà invece un pedaggio alleggerito per gli spostamenti di area provinciale, che fanno poche decine di km. Occorrerà infine consentire entrate ed uscite gratuite per gli spostamenti quotidiani di breve raggio. La tendenza, evidente anche in altri analoghi progetti, pare oggi quella ad esonerare i residenti per un certo periodo, cinque anni per esempio, ma si tratta di una condizione inaccettabile, che serve solo a rinviare il problema.

Questioni di impatto sull’ambiente e sul paesaggio

L’insieme delle condizioni vecchie e nuove che ruotano intorno alla questione dell’autostrada tirrenica rendono del tutto evidente la necessità di modificare il Progetto Preliminare del 2008 sotto il profilo dell’impostazione concettuale prima ancora che delle soluzioni geometriche: occorre un progetto che serva ai territori attraversati e faccia dell’inserimento ambientale, della valenza paesaggistica, della riqualificazione i suoi elementi essenziali. In sostanza serve un progetto di adeguamento in sede sull’Aurelia, perchè rimane, in ogni caso, non condivisibile la scelta di promuovere la realizzazione di una grande autostrada secondo gli standard tecnici ordinari come di sicuro faceva il progetto del 2008. Infatti, una simile infrastruttura, sarebbe indiscutibilmente connessa ad un modello gestionale che punta a “maggior traffico uguale maggiori introiti”.

Certamente aver abbandonato il progetto preliminare del 2008 per puntare su di un tracciato sull’Aurelia, va verso questa direzione migliorativa ma occorre attendere la concreta presentazione del promesso progetto di adeguamento in sede dell’Aurelia tra Tarquinia e S. Pietro in Palazzi per poter esprimere un giudizio definitivo. Ma è possibile esprimere fin d’ora una forte preoccupazione per i problemi ambientali: in primo luogo l’inquinamento dell’aria, le emissioni di gas serra ed il rumore.

Secondo il progetto del lotto tra Tarquinia e Civitavecchia, la trasformazione in autostrada porta a risparmiare tempo (da 70 a 115 km/ora) e su questa base si costruisce la valutazione dei benefici. Ma proprio la maggiore velocità porta a peggiorare il clima acustico, così che saranno necessarie barriere per proteggere gli abitati dal rumore. Il pessimo effetto dei tunnel di barriere fonoassorbenti, l’impatto sul paesaggio per coloro che le vedono da fuori e anche sulla qualità del percorso per coloro che le vedono dall’autostrada è davvero uno dei problemi più delicati sul quale il nuovo progetto dovrà impegnarsi. E ancora l’aumento di velocità peggiora non solo il consumo energetico dovuto al traffico, ma anche le emissioni soprattutto per quanto riguarda le polveri fini. Mentre il risparmio di tempo dovuta alla velocità viene monetizzato ed entra a far a far parte del bilancio di fattibilità dell’autostrada, l’inquinamento, il rumore e il peggioramento della qualità ambientale dei luoghi dovuti alla stessa velocità non entrano nel bilancio della concessionaria.

Una stima prudente delle emissioni in atmosfera, atteso l’aumento del traffico secondo le ultime elaborazioni di SAT (31 mila autoveicoli/giorno al 2030 rispetto ai 18.000 attuali) comporterà per la sola tratta Civitavecchia - Livorno un aumento delle emissioni stimabile tra 120.000 e 300.000 ton/anno di CO2, a seconda delle diverse tipologie di veicoli, delle percorrenze medie e della crescita del traffico. Non va dimenticato che questa crescita di emissioni di gas serra, andrebbe viceversa ridimensionata anche rispetto ai dati attuali, secondo gli accordi internazionali ed il protocollo di Kyoto. Come verranno dunque compensati o mitigati questi impatti? Al momento, sembra non esistere alcuna volontà al riguardo da parte della SAT, che punta al massimo profitto e a far ricadere sulla collettività gli oneri ambientali.

Riuscirà il nuovo progetto a fare davvero i conti con questi problemi e ad attrezzare l’infrastruttura per regolare quantità e velocità del traffico in modo da rispettare le soglie di qualità ambientale garantite dalle norme a tutti i cittadini?

Infine la questione del paesaggio, che è assai rilevante in questi luoghi, dove il preteso “ritardo” costituisce oggi un vantaggio competitivo di straordinaria rilevanza per costruire un modello di sviluppo basato proprio sulla qualità delle risorse paesaggistiche, territoriali ed ambientali. Le mitigazioni esemplificate nella tratta Tarquinia Civitavecchia, che consistono nel mascheramento dell’infrastruttura con striminziti filari di alberi, non appaiono in grado di migliorare granché l’inserimento paesaggistico. La progettazione del paesaggio intorno alla strada, come molti esempi francesi o olandesi ampiamente dimostrano, offre invece possibilità straordinarie di inserimento paesaggistico dell’infrastruttura a bilancio positivo. Anzi in alcune parti deve diventare una riqualificazione secondo le caratteristiche storiche, ambientali e paesaggistiche dei luoghi, intervenendo sulle situazioni più degradate che già oggi si sono posizionate qua e là in modo disordinato lungo l’Aurelia, con capannoni, luoghi commerciali ed attività artigianali.

Ma certo occorre disporre di spazio, concordare con i proprietari di quello spazio le sistemazioni necessarie, operare e manutenere anche fuori dallo stretto sedime dell’infrastruttura. Tutte cose che costano e chiedono un atteggiamento del tutto nuovo da parte delle concessionarie di “stile italiano”.

Sarebbe interessante cogliere le aperture pur presenti nel nuovo atteggiamento SAT per rilanciare la sfida: è capace la concessionaria di realizzare una infrastruttura realmente innovativa? Un itinerario integrato pienamente con il sistema del trasporto pubblico e della viabilità locale, non penalizzante per la mobilità quotidiana degli abitanti, attrezzato con tutte le tecnologie telematiche per la sicurezza, il segnalamento, l’esazione automatica del pedaggio? Ma anche progettato per essere un reale contributo alla qualità del paesaggio, per ricucire e arricchire la rete ecologica, per “dosare” traffico e velocità in relazione alla sensibilità degli ambienti e delle circostanze, per offrire una inedita gamma di servizi agli utenti e anche ai territori attraversati?

In sostanza una strada fortemente innovativa, destinata ad assomigliare pochissimo ad una tradizionale autostrada, su cui non sarebbe neppure difficile, in luoghi di questa bellezza e preziosità, far confluire risorse comunitarie di progettazione e sperimentazione da costruire con la partecipazione delle collettività locali. Si può fare? A nostro parere ne varrebbe la pena.

Un secolo fa gli avvenimenti di Tripoli occupavano, come oggi, le prime pagine dei giornali. La storia non si ripete mai, dicono suoi autorevoli cultori. Questo non esclude somiglianze tra avvenimenti distanti decenni o secoli, che si verificano in contesti politici e sociali che non si assomigliano affatto. Così gli anniversari fanno a volte scherzi, di sapore sinistro. Cent´anni or sono, nel 1911, il 3 ottobre, unità della marina italiana sbarcavano nella capitale libica, seguite il 12 da più consistenti reparti dell´esercito. Nelle ore precedenti i cannoni della flotta al largo avevano bombardato l´As-saraya al-amra, il Forte Rosso, dal quale ancora oggi si può dominare la città affacciata sul mare. Ed altre bombe erano cadute sul forte di Bengasi, in Cirenaica.

Così il Regno d´Italia, mentre a Roma governava il liberale Giovanni Giolitti, metteva in atto la dichiarazione di guerra fatta quattro giorni prima all´Impero ottomano che occupava quella sponda del Mediterraneo. E proprio come accade nel 2011, l´opinione pubblica internazionale condannò allora le atrocità commesse nella città appena conquistata. Nelle capitali dei grandi imperi coloniali (non certo senza macchia nei loro ampi possedimenti africano o asiatici), a Londra e a Parigi, ma anche a New York, si moltiplicarono le manifestazioni contro il bagno di sangue. Di cui l´Italia era colpevole.

Tripoli aveva a quei tempi trentamila abitanti ed era la principale città di un vasto paese ricco di deserti bellissimi e popolato da meno di un milione di uomini e donne dispersi lungo la costa. Giolitti, uomo politico «punto fantasioso e retore», secondo Benedetto Croce, aveva voluto quella conquista coloniale, sempre per Croce, come un padre che si avvede che la figliola, cioè l´Italia, è ormai innamorata e provvede a darle dopo le debite informazioni e con le debite cautele, lo sposo che il suo cuore ha scelto. Insomma Giolitti dà agli italiani quel che vogliono.

Lui alla Libia ci pensava da tempo, anche se l´impresa non lo entusiasmava. Il momento sembrava però propizio e non rinviabile. Anche problemi di politica interna lo spingevano ad agire. Voleva promuovere importanti riforme politiche e sociali, in particolare l´estensione del suffragio universale e l´introduzione dell´assicurazione obbligatoria sulla vita, bene accette ai socialisti, che voleva conquistare. Si può persino azzardare che molti libici hanno perduto la vita per permettere a molti italiani, spesso analfabeti, di conquistare il diritto al voto. La guerra avrebbe soddisfatto conservatori, nazionalisti e cattolici, e quindi attenuato la loro opposizione alle riforme. Ed anche quelle di importanti settori economici. Tra i pretesti esibiti nel dichiarare la guerra alla Turchia c´erano i provvedimenti ottomani contro le numerose succursali del Banco di Roma presenti in Libia.

La conquista della Libia è per i militari una rivincita poco più di un decennio dopo la disfatta di Adua, in Abissinia, e le precedenti deludenti prove nelle guerre del Risorgimento. E´ l´acquisizione di una colonia di popolamento per l´emigrazione italiana, che in quegli anni è al massimo ed è fonte di frustrazione nazionale. Offre inoltre l´impressione di alzarsi al rango di francesi, inglesi e spagnoli, che si distendono sulla costa africana senza che in nessun tratto sorga la bandiera italiana. Francia e Germania si sono appena contese il Marocco. Persino Antonio Labriola, socialista e marxista (ma promotore della grandezza d´Italia e della prosperità e arricchimento della sua borghesia, sottolinea ancora Croce) fin dall´inizio del secolo esortava all´occupazione di Tripoli. Lo considerava un buon affare. Ottant´anni prima Karl Marx aveva accolto con soddisfazione la conquista francese dell´Algeria. Come poi Labriola, Marx pensava che con l´arrivo degli europei sarebbero sorte fabbriche, e con le fabbriche si sarebbe formata una classe operaia, indispensabile per fare la rivoluzione.

In realtà le debite informazioni e le altrettanto debite cautele non erano state sufficienti. E l´impresa libica si rivelò subito più complicata del previsto. Anzitutto la popolazione, al contrario delle previsioni, non accolse gli italiani come liberatori. A Sciara Sciat (il 23 ottobre 1911), un sobborgo di Tripoli, reparti dell´esercito italiano caddero in un´imboscata tesa da ufficiali turchi e gruppi di partigiani tripolini, e furono annientati. Tre giorni dopo, in un´altra località, sempre in prossimità della capitale, a El-Messri, seicento soldati italiani colti di sorpresa furono uccisi. La reazione fu severa. La città fu messa a ferro e fuoco e (secondo lo storico Nicola Labanca), forse mille ottocento, sui trenta mila abitanti di Tripoli, furono fucilati o impiccati per rappresaglia. E migliaia di tripolini furono arrestati e deportati in Italia. Ci sono voluti anni, e una lunga sanguinosa repressione, prima che la Tripolitania, e soprattutto la Cirenaica e il Fezzan potessero accogliere migliaia di coloni italiani.

Le tracce italiane sono ben visibili nella Tripoli d´oggi. Negli anni in cui fu governatore dal 1921 al 1925, Giuseppe Volpi (diventato conte di Misurata, località in cui promosse un´operazione militare contro i ribelli arabi) ha compiuto i primi grandi lavori destinati a lasciare un´impronta coloniale italiana in Libia. Ha restaurato la cittadella, senza rispettarne troppo le forme originali, ha costruito grandi edifici tra le case modeste: il palazzo di giustizia, la Banca d´Italia, la cattedrale, la moschea di Sidi Hamuda, il Grand Hotel Municipal, il vicariato apostolico.

L´altro governatore che ha dato a Tripoli un carattere italiano, «littorio», secondo i canoni dell´architettura fascista, è stato Italo Balbo. Dal 1934 al 1940 (anno in cui mori precipitando con l´aereo colpito «per sbaglio dall´antiaerea italiana, mentre sorvolava Tobruk) il gerarca ferrarese portò ingegneri e architetti dalla sua città emiliana affinché erigessero edifici e tracciassero strade. Balbo era contrario all´alleanza con i tedeschi e non voleva la guerra, anche perché sapeva che la Libia era un fronte indifendibile.

Con lui si intensificò, e fu ampiamente propagandato, l´insediamento di coloni italiani, del quale il veneziano Volpi aveva gettato le basi, con criteri imprenditoriali. La vicenda dei coloni in Libia fu un´iniziativa alla quale il fascismo dette toni spettacolari. Il deserto trasformato in orti e in campi di grano diventò ben presto un teatro di guerra seminato di mine e di tombe. Il petrolio che giaceva in profondità sotto gli ortaggi, orgoglio dei coloni, cominciò a sgorgare quando il fascismo era già defunto. E la Libia non era più una colonia italiana. Non era più la « quarta sponda» di Mussolini.

Sconfitto l´esercito italo-tedesco di von Rommel, dal 1943 Tripoli è passata sotto l´amministrazione britannica. E otto anni dopo è diventata capitale della Libia indipendente. Con un monarca. Re Idris. Il quale era il nipote di Sayyid Muhammad bin Ali al-Senussi, fondatore della confraternita dei Senussi. Come emiro della Cirenaica, con Bengasi capitale, Idris è venuto a patti con gli italiani, ma quando il regio esercito coloniale si è mosso dalla costa e ha cominciato ad occupare, dopo il 1920, i territori dell´interno, Idris si è rifugiato in Egitto, da dove ha ispirato la guerriglia contro gli invasori. Si è poi schierato con gli inglesi, durante la Seconda guerra mondiale, ed è ritornato a Bengasi con loro. Promosso anche emiro della Tripolitania, quando la Libia unificata è diventata indipendente lui, Idris, ne è diventato il sovrano.

Un sovrano debole, indeciso, che ha stentato a mantenere il ritmo di un paese ormai con una popolazione in rapido, travolgente aumento (oggi conta almeno sette milione di abitanti), e diventato, grazie al petrolio, un eldorado affollato di società internazionali. La sua neutralità, o indifferenza, durante la guerra del ‘67, il terzo conflitto tra arabi e israeliani, ha provocato sommosse, ed anche un pogrom contro la comunità ebraica, che viveva in Libia da quattro secoli. I seimila ebrei sono dovuti partire da Tripoli con una valigia e venti sterline, lasciandosi tutti i beni alle spalle.

Nel ‘69, il 4 agosto, re Idris ha gettato la spugna. Ha annunciato che tra un mese, il 5 settembre avrebbe abdicato in favore del principe ereditario, Sayyid Hasan al-Rida al-Mahdi el Senussi. Ma il primo settembre, mentre Idris si faceva curare in Turchia, il colonnello Gheddafi ha preso il potere. Ha cancellato la monarchia. Il nuovo re ha regnato un solo giorno. La bandiera di re Idris è rispuntata in questi giorni in Cirenaica, a Tobruk e a Bengasi, al posto di quella verde di Gheddafi che ha sventolato sugli edifici pubblici per più di quarant´anni.

Nota

Sulle imprese italiane in Libia (e in altri paesi africani e non) vedi la cartella “Italiani brava gente”; per la Libia, tra gli altri, l’articolo di Manlio Dinucci.

Sui sedici milioni e seicentomila euro di danni al Bilancio dello Stato che la Guardia di Finanza di Venezia ha segnalato, per l’anno 2010, alla Corte dei Conti, ben quattordici riguardano l’operazione ponte della Costituzione o ponte di Calatrava che dir si voglia. Ponte salito all’onore delle cronache di recente per l’impresa di un 23enne che, nel cuore della notte, lo ha percorso a bordo della Polo del padre, che poi ha parcheggiato a San Geremia. Per questo danno milionario all’Erario, la Guardia di Finanza ha segnalato nove persone alla Corte dei Conti. Tra cui diversi tecnici e funzionari deol Comune del periodo delle giunte di Paolo Costa e di Massimo Cacciari. La notizia in sè è forte, anche perchè in teoria quei quattordici milioni di euro dovrebbero essere restituiti da chi verrà individuato quale responsanbile dalla Corte dei Conti. In teoria naturalmente. La pratica è ben diversa. Anche perchè difficilmente le persone indicate, possono mettere assieme una tale quantità di denaro. Va sottolineato che il Procuratore capo della corte Davide Scarano non ha ancora valutato tutto il materiale inviato dal Nucleo di polizia tributaria di Venezia. Se l’opera in sè è costata qualche cosa più di undici milioni di euro, fa specie che il danno sia superiore. Gli investigatori della Finanza hanno fatto le pulci su tutti gli incartamenti che hanno girato intorno alla creatura dell’architetto catalano Santiago Calatrava; dai progetti iniziali, alle consulenze successive e a quelle svolte, quando si è scoperto che il ponte pesava troppo per le rive che lo dovevano sostenere. Dentro sono conteggiate anche le perizie ordinate dalla stessa Corte Dei Conti. (c.m.)

Oggi il Consiglio Regionale voterà un piano da cui dipende il destino del paesaggio. In Liguria se ne parla da mesi, ma anche i Verdi ed esponenti nazionali del Pd sono intervenuti per lanciare l’allarme: il Piano Casa voluto dal centrosinistra di Claudio Burlando ha rischiato di superare a destra le norme di Ugo Cappellacci. Capire esattamente che cosa preveda l’ultima versione per i cittadini è un rebus: ogni giorno il testo cambia, con la sinistra che chiede vincoli, ma l’assessore Idv e una parte del Pd che li tolgono.

L’assessore Idv “sbianchetta” i vincoli del Piano Casa. Senza nemmeno avvertire la sua maggioranza fa un regalo ai signori del mattone che potrebbero riversare sulla Liguria 40 milioni di metri cubi di cemento. Ormai il Piano Casa della Liguria è diventato un caso nazionale per il centrosinistra e soprattutto per il partito di Antonio Di Pietro che pure nei manifesti elettorali portava scritta in evidenza la parola “ambiente”.

Oggi il Consiglio Regionale voterà un piano da cui dipende il destino del paesaggio. In Liguria se ne parla da mesi, ma anche i Verdi ed esponenti nazionali del Pd sono intervenuti per lanciare l’allarme: il Piano Casa voluto dal centrosinistra di Claudio Burlando ha rischiato di superare a destra le norme di Ugo Cappellacci. Capire esattamente che cosa preveda l’ultima versione per i cittadini è un rebus: ogni giorno il testo cambia, con la sinistra che chiede vincoli, ma l’assessore Idv e una parte del Pd che li tolgono (per la felicità del Pdl e dei costruttori). Secondo l’ultima versione modificata in extremis il Piano sarà applicabile agli immobili parzialmente condonati (un nodo particolarmente indigesto per la sinistra), ma sarà leggermente corretta la norma più devastante che avrebbe consentito di spostare i capannoni industriali in zone residenziali e di trasformarli in case incrementando addirittura i volumi. Un disastro per l’ambiente. Secondo il nuovo testo le strutture industriali potranno essere spostate, ma se diventeranno case non potranno essere ampliate. Pare.

Ma andiamo con ordine: un mese fa l’assessore all’Urbanistica Marylin Fusco (Idv, vicepresidente della Regione) presenta quella che dovrebbe essere l’ultima versione del Piano. E pur in una Liguria ormai ricoperta dal cemento scoppia la rivolta: il Piano Casa firmato Fusco prevede ampliamenti per gli immobili condonati e per i manufatti industriali e artigianali (leggi capannoni) fino al 35 per cento. Non solo: possibilità di demolire e ricostruire con aumento volumetrico estesa a tutti gli immobili, dunque non soltanto a edifici pericolanti e ruderi. Ancora: si parla di comprendere anche gli alberghi.

Insomma, sarebbe una pietra tombale sull’ambiente di una regione che campa sul turismo, ma paradossalmente punta tutto sul mattone. Angelo Bonelli, presidente nazionale della Federazione dei Verdi lancia l’allarme: “Quarantacinque milioni di metri cubi di nuove costruzioni. Il piano casa della Liguria è come Attila. Per questa regione, per il suo paesaggio, ma anche per il turismo e l’economia sarebbe un colpo fatale. Sta per arrivare una seconda rapallizzazione”. Così anche una parte della maggioranza di centrosinistra si sveglia e alza la voce. Prima si decide di congelare il Piano, poi si arriva a un accordo tagliando gli aumenti volumetrici per gli edifici industriali. Marylin Fusco non nasconde la sua delusione, sostenuta paradossalmente soprattutto dal centrodestra che ha sempre sostenuto la norma.

Ma quando la battaglia sembra finita ecco la sorpresa, come ha rivelato Alessandra Costante sul Secolo XIX: il documento concordato dalla maggioranza approda in Commissione con un testo sostanzialmente modificato. Ecco ricomparire il via libera alla demolizione dei capannoni produttivi e il loro spostamento, fino a un massimo di 10mila metri cubi e con l’aumento del 35 per cento della volumetria, anche in zone residenziali senza troppi vincoli legati agli indici del Puc. Insomma, i consiglieri regionali si ritrovano davanti un documento che pare accogliere le osservazioni di Marco Melgrati, il vice presidente della commissione Attività Produttive, ex sindaco Pdl di Alassio, architetto, plurindagato per illeciti urbanistici. I consiglieri di centrosinistra fanno un salto sulla sedia: Fusco non li aveva informati delle modifiche sostanziali al documento. Non tutti, almeno. Il capogruppo del Pd, Nino Miceli, al Secolo XIX ammette: “Sì, io lo sapevo: se le obiezioni hanno un fondamento devono essere prese in considerazione”. E ricomincia la mediazione. “Abbiamo costruito un emendamento che mantiene il premio del 35 per cento per le attività produttive quando vengono delocalizzate, ma se invece c’è un cambio di destinazione d’uso e l’intervento diventa residenziale perché il Puc lo prevede, allora viene cancellato l’incremento”, spiega Miceli. Assicura: “E’ una norma più restrittiva di quella vigente”.

Ma i Verdi e i Radicali non sembrano per niente convinti. Per domani annunciano una protesta contro il Piano. Ci sarà anche Domenico Finiguerra, sindaco anti-cemento noto in tutta Italia. E pensare che dal Pd nazionale già l’anno scorso erano arrivati chiari segnali di allarme: “È il piano più cementizio d’Italia”, aveva attaccato il Roberto Della Seta (Pd), accusando la “lobby del cemento” interna al partito. Pippo Civati e Debora Serracchiani non erano stati meno duri: “Se la realtà del Piano varato da un’amministrazione di centrosinistra dovesse superare le fantasie di Berlusconi, ci sarebbe da preoccuparsi. Il centrosinistra ligure abbia la forza di distinguersi da questo modo di procedere. La nostra generazione non si deve macchiare degli stessi errori compiuti dalla precedente”.

Il Pd ligure, però, già allora aveva fatto capire che aria tirava: “Serracchiani e Civati farebbero bene a pensare ai fatti loro, anziché parlare di cose che non conoscono”, disse Mario Tullo, allora segretario ligure del Pd. Insomma, nonostante le accese proteste di associazioni, comitati e cittadini, nonostante i timidi dissensi, il Pd va dritto per la sua strada. Del resto negli ultimi quindici anni centrosinistra e centrodestra hanno gettato il cuore oltre l’ostacolo e si sono votati al cemento. Claudio Burlando, pur con recenti ripensamenti, è stato uno dei massimi sponsor della colata di cemento che ha portato ovunque in Liguria nuovi porticcioli (siamo quasi a trentamila posti barca, uno ogni 47 abitanti). Il 12 ottobre 2005 disse: “Un mio amico di Bologna (Prodi, ndr) si è augurato di vedere sulle nostre spiagge più ombrelloni e meno porticcioli. Invece io dico: più ombrelloni e più porticcioli”. Così ecco nascere porticcioli di centrodestra e di centrosinistra: a Imperia 1.400 posti barca, voluti fortissimamente dall’altro Claudio (Scajola), sui quali adesso indaga la magistratura. Alla Marinella, alle foci del Magra (vicino alla Spezia), invece arriveranno quasi mille posti barca più 200 esercizi commerciali e 750 residenze realizzati da una società che fa capo al Monte dei Paschi di Siena, la “banca rossa”, e oggi è partecipata dalle cooperative. Nel cda della società sedeva il cassiere della campagna elettorale di Burlando.

Burlando negli ultimi mesi ha respinto sempre le accuse di chi parlava di un Piano Casa votato al cemento: “Abbiamo dato la possibilità di modesti ampliamenti volumetrici a favore delle attività produttive in un momento di drammatica difficoltà per le nostre imprese”. Ma in tanti ricordano come basti poi una piccola variazione di destinazione d’uso, due righe sui documenti, per trasformare una zona industriale in residenziale. Gli esempi non mancano: a Cogoleto dove sorgeva la Tubighisa alcuni imprenditori amici del furbetto Gianpiero Fiorani stanno realizzando 174mila metri cubi di nuove abitazioni per 1.500 abitanti. Un’operazione voluta dal centrosinistra e firmata dall’architetto Vittorio Grattarola, fraterno amico di Burlando e membro della sua associazione politica Maestrale (dove sta accanto ad altri architetti, imprenditori del mattone e tecnici pubblici che si occupano di urbanistica e, ovviamente, al presidente della Regione che dà il via libera ai progetti).

Intanto a Savona le giunte di centrosinistra hanno voluto fortissimamente la colata griffata dall’architetto Ricardo Bofill che ha cambiato il volto del porto storico, a due passi dall’antica fortezza del Priamar e dalla Torretta simbolo della città. Poi c’è La Spezia, altro comune amministrato dal centrosinistra: la città ha un’occasione unica, ridisegnare e riqualificare la propria costa anche grazie a milioni di metri quadrati di aree che la Marina lascerà libere. E invece ecco il progetto per il nuovo waterfront: sponsor Lorenzo Forcieri (Pd, presidente dell’Autorità Portuale) e ancora la Regione con Marylin Fusco. Legambiente denuncia: “E’ un affare da 250 milioni di euro su un’area di 330mila metri quadrati”. Il progetto, anche questa volta griffato da un architetto straniero (José Maria Tomas Llavador) prevede due grattacieli, uno dei quali di trenta piani, che ospiteranno due alberghi a cinque stelle e poi spazi commerciali, un centro congressi, uffici, parcheggi sotterranei e le immancabili residenze.

Cemento, cemento, cemento. E pensare che, secondo le stime, in Liguria nei prossimi vent’anni la popolazione calerà di 150mila abitanti, che la regione ha già il record di case vuote (65mila) in rapporto alla popolazione. Che il turismo è attività fondamentale dell’economia (15 per cento del pil). Il voto di questi giorni sarà decisivo non soltanto per gli equilibri politici della Regione. Ma soprattutto per il futuro dell’ambiente di una delle terre più belle d’Italia.

Capitale selvaggia, nazione infetta

di Paolo Berdini

L'aspetto più preoccupante degli stati generali della città del sindaco Alemanno è venuto dal ministro Tremonti che ha replicato un tema preferito negli ultimi tempi. I vincoli paesaggistici e urbanistici bloccano la modernità ed è venuto il momento - anche cambiando l'articolo 39 della Costituzione - di togliere ogni ostacolo all'edificazione selvaggia. Del resto il governo non è stato con le mani in mano, perché attraverso i piani casa ha cancellato definitivamente quasiai visione d'insieme delle città. Ognuno può ampliare qualsiasi manufatto e tanto basta. Siamo l'unico paese sviluppato ad aver abbandonato l'urbanistica: gli altri mantengono regole certe e valide per tutti. La città viene da noi invece cancellata in nome di un cieco egoismo proprietario.

Ma c'è anche un aspetto di irresistibile comicità nelle parole del ministro. Egli infatti parlava ad una elegante platea che per buona parte frequenta la struttura di massaggi fisioterapeutici che va sotto il nome di “Salaria sport village” del premiato gruppo Anemone-Balducci-Bertolaso. Platea che sa dunque bene che i vincoli continuano ad esistere soltanto nella mente del ministro perché sono stati cancellati da anni: ormai si può fare ciò che si vuole, anche centinaia di migliaia di metri cubi di cemento sul greto del Tevere dove pure - sulla carta - esistevano i tanti odiati vincoli.

Gli Stati generali di questa capitale senza guida servivano dunque per mettere mano alle Olimpiadi senza regole. Non servivano per ragionare sul futuro della città, sulle sue numerose criticità, sulle sfide dei prossimi anni in cui dovremo obbligatoriamente attrezzare la città con un sistema di trasporto pubblico degno di questo nome. L'unico modo per poter attrarre occasioni di investimento e di occupazione è infatti quello di recuperare il ritardo che ci separa dalle città europee che funzionano proprio perché sono governate. Il neoliberismo urbanistico di Tremonti e Alemanno è diventato ormai un fattore di inarrestabile declino.L'immagine della lontananza dalla città vera era ben visibile nell'assenza di qualsiasi intervento che non fosse appannaggio del gruppo dirigente romano e nazionale. La società civile non si è potuta esprimere. Non ha potuto illustrare le sue richieste per avere quartieri vivibili e servizi pubblici degni di questo nome.

Così si è parlato solo dei grandi affari. Delle Olimpiadi, in primo luogo, in cui tutto il gotha nazionale è piazzato nei numerosi comitati esecutivi e d'onore. Della ricetta di nuovo inutile cemento a Tor Bella Monaca che avrebbe bisogno soltanto di attenzioni sociali. Della volontà di realizzare due ulteriori piste aeroportuali a Fiumicino, l'unico al mondo con cinque piste. Non sappiamo gestire l'esistente e continuiamo nella folle politica della quantità. E mentre gli altri praticano la ricerca della qualità, Roma continua a espandersi senza fine e senza idee. Povera capitale.

La Roma in crisi sfida Alemanno

di Ylenia Sina

«Roma bene comune». Uova, farina e coriandoli ieri mattina contro il sindaco, Tremonti e Berlusconi che chiudono gli Stati generali della città all'Eur. Corteo in un quartiere militarizzato. Il Forum dei movimenti per l'acqua pubblica riesce a ottenere la sospensione della privatizzazione nella capitale fino al referendum Precari, senzacasa, lavoratori delle municipalizzate in piazza contro la svendita della città e i tagli

Maschere e coriandoli contro «la fiction degli Stati Generali di Roma». Mentre, dentro a un Palazzo dei Congressi trasformato in "zona rossa", Alemanno si apprestava a regalare la città a industriali e costruttori, ieri mattina centinaia di persone hanno manifestato per le strade dell'Eur dietro allo striscione "Roma Bene Comune". «Noi siamo qui per rappresentare la vera Roma» denuncia Giulia Bucalossi dei movimenti per il diritto all'abitare «quella che non ha trovato spazio nella vetrina degli Stati Generali, quella della precarietà e dell'emergenza abitativa, dei tagli al welfare e ai servizi sociali». Per questo ieri, ad assediare il palazzo dove era in corso la presentazione del Comitato Olimpico 2020, «ennesimo grande evento che fa pregustare affari per tutti come già successo per i Mondiali di nuoto del 2009 e come sta accadendo per l'Expo 2015» denunciano dalla Roma Bene Comune, era presente un ampio schieramento della "Roma della crisi". Dai movimenti per il diritto all'abitare, ai lavoratori (rappresentati dai sindacati di base Usb e Cobas) delle aziende municipalizzate nel mirino della privatizzazione (Atac, Acea e Ama), dalle insegnanti dei nidi comunali che hanno distribuito alla piazza l'appello per lo sciopero generale indetto dai sindacati di base per l'11 marzo, fino ad arrivare ai precari. Dai cittadini di Tor Bella Monaca contro il Masterplan, ai rom del Comitato Ex Casilino 900 e del Metropoliz fino ad arrivare al Forum dei Movimenti per l'acqua pubblica. Con loro anche la Federazione della sinistra.

L'appuntamento per tutti è alle 9,30 ma dal luogo del concentramento, la fermata di Eur Palasport, il corteo parte solo verso le 11. Sullo sfondo le Ex Torri delle Finanze in demolizione per lasciare spazio al mega progetto residenziale di lusso di Renzo Piano e al cantiere della Nuvola di Fuksas che diventerà il nuovo Palazzo dei Congressi della Capitale, «simboli per eccellenza della Roma della rendita e delle grandi opere». Il corteo, autorizzato solo per un tragitto di cinquecento metri, sfila per un quartiere militarizzato. Bastano pochi minuti e i manifestanti, nascosti dietro a maschere con il volto di Alemanno e di Berlusconi, si trovano la strada bloccata. «Oggi siamo qui perché la città vera merita ascolto» urlano dal microfono gli organizzatori «e anche perché vogliamo dare un degno benvenuto al Presidente Berlusconi». Di fronte alle forze dell'ordine volano uova, farina e coriandoli. Una signora maghrebina che si attacca al blindato urlando «casa, casa» ricorda le rivolte che stanno incendiando l'altra sponda del Mediterraneo.

Ed è proprio alla forza delle rivoluzioni che stanno contagiando i paesi nordafricani che i presenti al corteo hanno fatto riferimento più volte. «Anche noi dobbiamo rivendicare e conquistare la nostra Piazza Tahrir» afferma Paolo di Vetta dei Blocchi Precari Metropolitani «e anche la mobilitazione di oggi è importante per un percorso che, partendo dal 14 dicembre, ci deve portare a costruire una vera opposizione a questo governo e a questa amministrazione». Dopo più di un'ora di blocco i blindati ricevono l'ordine di spostarsi per permettere ai manifestanti di proseguire il corteo fino a Piazza Asia, chiusa in un cerchio dalle forze dell'ordine. Poche centinaia di metri che però avvicinano l'assedio della Roma Bene Comune al "Palazzo dei Privati".

È ormai l'una di pomeriggio, dentro il Palazzo dei Congressi il Presidente del Consiglio Berlusconi sta benedicendo il Comitato Olimpico 2020 in presenza del ministro dell'Economia Tremonti e della Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, quando ai manifestanti arriva la notizia che nel pomeriggio il sindaco Alemanno riceverà una delegazione. «Un incontro che ha aperto un tavolo sulla crisi che sta affrontando questa città» spiegano i manifestanti a margine dell'incontro «mentre nei prossimi giorni verranno fissati una serie di tavoli con i singoli assessori. Ma intanto una prima "vittoria" c'è già: il Forum per l'acqua pubblica ha ottenuto da Alemanno il blocco nella capitale dell'applicazione della legge Ronchi (quella che prevede la vendita ai privati) fino al referendum. Dalla gestione delle aziende municipalizzate ai rom, dall'acqua pubblica, alla svendita delle caserme. Terminati gli Stati generali, è questa la Roma che dovrà affrontare Alemanno.

Milano, la crisi viene da lontano. Il Pil locale scende a causa della crisi degli ultimi anni, e questo è inevitabile. Diminuisce però anche la sua incidenza sul Pil nazionale. La città rimane la locomotiva dell´economia italiana ma arranca un po´. E il confronto con la media delle città euro (quelle assimilabili a Milano: Amsterdam, Barcellona, Lione e Monaco) è ancora più negativo. I dati. Per Bankitalia il Pil di Milano e provincia nel ´94 pesava per il 10,1% del Pil nazionale. Nel 2009 la quota è scesa al 9,5. Nello stesso periodo il Pil pro capite milanese è cresciuto dell´1%, contro il più 28 delle città Euro (dati dell´istituto di ricerca indipendente Bak Basel). Queste stesse città sono andate in pareggio fra il 2004 e 2009, ammortizzando il peso della crisi.

Milano, invece, ha accusato pesantemente la recessione, con un Pil che nel 2009 era 12 punti sotto quello del 2004. Ancora: fra il 1995 e il 2000 la crescita di Milano è stata superiore a quella di tutte le altre province lombarde, fra il 2000 e il 2005 è stata inferiore a tutte.

Non può essere solo un problema di ridistribuzione, essendo pur vero che in 25 anni un milione e mezzo di residenti si sono trasformati in pendolari e consumano altrove ciò che producono qua. I numeri sul Pil «rattristano», sostiene in un articolo sul settimanale online Arcipelago Milano, Edoardo Ugolini, manager finanziario già in Banca Intesa, coautore di uno studio per il quale «Milano si è, per così dire, italianizzata. Non sta facendo meglio di un Paese sonnacchioso». La tesi è che al modello di sviluppo industriale non ne sia stato sostituito uno altrettanto efficiente. Il terziario non è bastato a rimpiazzare le fabbriche e la città ha preferito affidarsi allo sviluppo immobiliare. Scorciatoia inutile, perché il mattone distribuisce la ricchezza prodotta a una platea ristretta, che va dal costruttore al manovale. E non aiuta nelle congiunture negative.

La risposta poteva essere l´Ict, l´Information and communication technology ma negli anni ‘90 «i salotti buoni dell´economia hanno respinto quei giovanotti dai modi informali, rifiutando il ricambio generazionale», racconta Adrio De Carolis, oggi 43enne. De Carolis nel 1999 cedette a peso d´oro la sua Datanord Multimedia a Bipop. Vendita a suo tempo non poco discussa, ma quella storia rende l´idea: l´Ict poteva essere il futuro, fu soprattutto una grande bolla speculativa. Eppure per De Carolis si deve ripartire da lì, dall´Ict, «per recuperare l´anima produttiva della città».

Un altro imprenditore, Luca Beltrami Gadola, direttore di Arcipelago Milano, esamina le conseguenze di questo impasse: «Si amplia la forbice sociale, i ricchi sono sempre meno e, sempre più ricchi e globalizzati, perdono interesse per la città».

Intanto il tasso di disoccupazione milanese è superiore di un punto percentuale a quello lombardo. Cala lo skill ratio, cioè la scolarizzazione (lauree e diplomi) della forza lavoro, che per le qualifiche medio-alte incontra più difficoltà nel trovare un impiego. Qui ci sono 200.000 studenti universitari ma diminuiscono i brevetti. Onorio Rosati, segretario della Camera del Lavoro, è preoccupato: «I dati del Pil certificano che Milano ha tenuto sul versante della capacità produttiva e in un quindicennio aperto dalla globalizzazione e chiuso dalla crisi non era scontato. È vero però che questa crisi è di sistema. È sbagliato delegare il rilancio solo ad Expo, che non lascerà nulla di definitivo. Pensiamo magari alla green economy, ad accordi territoriali per inserire i neolaureati nelle imprese».

L´economista Pietro Ferri redige il rapporto trimestrale di Unioncamere sull´economia lombarda: «Fermo restando che i dati macroeconomici a livello di area metropolitana vanno presi con precauzione, quanto ad attendibilità, il ritardo di Milano rispetto ad altri Paesi è visibile. Le infrastrutture sono indietro, lo sviluppo informatico e tecnologico è bloccato. Basta guardare al mancato coordinamento fra enti locali sulle misure antismog per rendersi conto che qualcosa non va».

«Mai trattare una perdita di quote di Pil come una crisi - avverte un altro economista, Giacomo Vaciago - queste cifre non dicono che Milano è più povera ma che altrove (Veneto, Emilia, Marche) si cresce di più. Da tempo sostengo che cresce chi lo vuole fortemente, come Trento che ospita il primo centro europeo di ricerca di Microsoft, o Parma. Milano ha rinunciato a volerlo davvero. La crescita te la devi meritare, nessuno te la regala».

E quindi, professore? «E quindi la Moratti cosa fa? Un po´ di edilizia. Cominci piuttosto dall´efficienza di una buona amministrazione. Andiamo sul sito dei Comuni lombardi a verificare quante domande e pratiche si possono sbrigare online da casa, senza code agli sportelli. L´inquinamento da traffico è la prova più evidente di quanto poco si possa usare il computer, perché si costringe la gente a muoversi di persona. Il computer è trasparente, rende più difficili furbizie e favori. Tecnologia ed efficienza della pubblica amministrazione permettono di attrarre investimenti dall´estero, quelli che oggi ci mancano».

Tagliente come un bisturi, la scrittura di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella affonda implacabile nel corpaccione malato dei Beni Culturali. Mitragliando decine di dati inoppugnabili, il loro ultimo libro (Vandali. L’assalto alle bellezze d’Italia. Rizzoli, pagg. 288, euro 18) passa dalla denuncia all’aneddoto, dal reportage all’analisi, dalle statistiche al confronto con gli altri Paesi, con risultati per l’Italia invariabilmente impietosi. Un esempio-simbolo della schizofrenia che viviamo è la Fescina, mausoleo romano in territorio di Quarto (Napoli), comune tanto fiero di tal cimelio da inalberarlo nel proprio gonfalone. Guai però se ci vien voglia di passare dall’araldica al monumento stesso: stentiamo a trovarlo fra «sterpi, erbacce, mucchi di vecchi materassi, poltrone sfondate, pannelli di eternit, lattine e pattume vario, una giungla di rovi». Chi facesse spallucce dicendo "cose che succedono al sud" è invitato a Leri (Vercelli), dove la tenuta Cavour è oggetto di depredazioni: «Dalla casa hanno portato via ogni cosa. Le porte, le tegole dei tetti, gli affreschi. Tutto. Hanno fatto a pezzi la scala interna per rubare i gradini di marmo. Tra i rovi che avvinghiano i muri, le tettoie pelate e le pareti a brandelli» resiste solo la targa che ricorda il conte di Cavour, la cui statua peraltro risulta decapitata. Insomma, Italia finalmente unita, da Napoli a Vercelli e oltre: unita nel degrado, nell’incuria, nel disprezzo della nostra storia, cioè di noi stessi.

Eppure Mario Resca, direttore generale alla Valorizzazione, spiega a ogni piè sospinto ("a ogni Pier sospinto", direbbe l’ex ministro dei Beni Culturali Vincenza Bono Parrino, di cui Rizzo e Stella evocano questa ed altre prodezze verbali) che la cultura rende. Peccato che lo dica con cifre sempre diverse: «Ogni euro investito in cultura genera un indotto 6 volte superiore» dichiara al Giornale dell’arte, «rende da 7 a 10» spiega al Giorno, «ne rende anche 10», proclama al Corriere, «rende da 6 a 12 volte l’investimento» si vanta sul Giornale, «rende 16 volte» discetta al Forum mondiale di Avignone. Cifre improvvisate e velleitarie, che tentano invano di nascondere il nulla di analisi e di progettualità. Nel giugno 2008 il neo-ministro Sandro Bondi dichiarò a Camera e Senato che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la percentuale della spesa in cultura sul bilancio dello stato (0,28 per cento contro l’8,3 della Svezia e il 3 della Francia)», aggiungendo: «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Meno di un mese dopo, Bondi incassò senza batter ciglio un taglio di 1 miliardo e 300 milioni, che quasi azzerava la capacità di spesa del suo ministero. Da un lato, la Valorizzazione (a parole) alla Resca, dall’altro lato i tagli (di fatto) alla Tremonti: messi insieme, questi due dati delineano una strategia davvero rivoluzionaria, la teoria economica made in Italy secondo cui si valorizza disinvestendo.

Ancor più drammatica è la situazione delle risorse umane: l’età media degli addetti ha sfondato il muro dei 55 anni, e nessun turn-over è in vista; anzi, il Ministero spinge i funzionari alla pensione anticipata. A Pompei è in servizio un solo archeologo; una deroga al blocco delle assunzioni era prevista nel decreto milleproroghe, ma è saltata senza alcuna reazione del ministro, troppo occupato a fare il poeta di corte. Invece di dotare Pompei di un organico decente, Bondi ha cambiato in un anno tre soprintendenti, peraltro esautorandoli, in nome dell’efficientismo manageriale, con commissariamenti affidati a prefetti in pensione o alla protezione civile. E che cosa han fatto i commissari? 102.963 euro spesi per censire i 55 cani randagi che infestano le rovine; due contratti a Wind (9 milioni) per le linee telefoniche e per un ridicolo video in cui le figure della Villa dei Misteri cantano in inglese (provare per credere: www.pompeiviva.it); 724.000 euro di contratto a un ateneo romano per studiare a Pompei lo "sviluppo di tecnologie sostenibili"; 6 milioni per distruggere il teatro romano sotto «cordoli di cemento armato e rozzi mattoni di tufo di un colore giallastro scuro».

Perché questo è il punto: si taglia sull’essenziale, si spende e spande sul superfluo. Le spese di Palazzo Chigi crescono nel 2011 di 30 milioni, 750 milioni vengono elargiti all’Alto Adige «proprio mentre i due deputati della Südtiroler Volkspartei decidevano di salvare Berlusconi con le loro determinanti astensioni alla Camera», si stanzia per il G8 alla Maddalena un miliardo di euro scippandolo ai Beni Culturali; per non dire della «piccola storia ignobile del portale italia.it», oltre 30 milioni di euro per allestire in sette anni un portale che risulta al 184.594° posto nella classifica mondiale. Questo rapporto perverso fra i tagli e gli sprechi è il frutto avvelenato della stessa economia di rapina che consegna il paesaggio in mano agli speculatori, in «un consumo del territorio abnorme, disordinato, sprecone, indifferente a tutti i rischi»; che in nome del federalismo demaniale prima regala ai Comuni edifici storici e aree protette, e poi li obbliga a svenderli per far quadrare il bilancio.

Hanno ragione i migliori commentatori stranieri, per esempio sul New York Times o su Le Monde: «Pompei che crolla è metafora dell’instabilità politica dell’Italia, della sua incapacità di gestire il proprio patrimonio culturale». Perché a questo siamo giunti: devono essere gli stranieri a ricordarci la nostra tradizione e la nostra storia, e per riportare alla coscienza nazionale l’art. 9 della Costituzione ci vuole Barenboim che ne dà lettura alla Scala, Harding che fa lo stesso alla Fenice. Giocano sporco i finti Soloni che si stracciano le vesti per i tagli "necessari", dato il nostro enorme debito pubblico. Fingono di non sapere che altri Paesi (per esempio Francia e Germania), per uscire dalla crisi, investono in cultura e in ricerca. Fingono di dimenticare che l´Italia ha il record mondiale di evasione fiscale (attorno ai 280 miliardi di euro annui di imponibile evaso), che «la corruzione è una tassa immorale e occulta pagata con i soldi dei cittadini, almeno 60 miliardi di euro l’anno».

Degrado morale e civile, paralisi della politica, disprezzo della cultura sono aspetti complementari di uno stesso declino. Il disastro del paesaggio e dei beni culturali ne è potente metafora e sintomo macroscopico. Si sta finalmente destando la coscienza dei cittadini? Questo libro potrebbe, dovrebbe esserne segno e stimolo.

L’avvicinarsi dell’esito del Bando di ristrutturazione del corpo centrale della Villa Reale di Monza gestito da Infrastrutture Lombarde S.p.A. per conto del Consorzio Villa Reale e Parco di Monza impone rinnovata attenzione per una iniziativa che ha suscitato vivaci proteste e contestazioni diffuse e profonde. Italia Nostra aveva già evidenziato in fase di costituzione del Consorzio alcune debolezze statutarie e strutturali del nuovo ente gestore sottolineando, in particolare, il ruolo egemone esercitato da Regione Lombardia. Ne consegue che Infrastrutture Lombarde governa il Bando determinandone così le relative procedure palesemente lontane dalle indispensabili caratteristiche di trasparenza e partecipazione che un tale intervento richiede. Inoltre la pessima gestione della comunicazione e informazione alla cittadinanza ha segnato irrimediabilmente la reazione popolare al progetto.

La sproporzione fra l’investimento pubblico e quello del soggetto privato, sebbene mitigato dagli oneri di manutenzione a carico di quest’ultimo (resi noti solo in un secondo momento), la durata della concessione (30 anni, una generazione) e alcuni ambiti di uso (commerciale e artigianale) rappresentano le principali aree di preoccupazione che Italia Nostra ha fatto proprie. Non di meno appare lacunosa e a breve respiro la strategia di intervento sull’intera Reggia e sul Parco che – come da sempre sosteniamo – rappresentano un unicum inscindibile. Il frazionamento degli interventi di recupero non inquadrati in un piano completo di lavoro condiviso con le parti in gioco e con la collettività pongono, al di là di generici indirizzi e riferimenti normativi quadro, una seria ipoteca sul più adeguato e completo recupero funzionale e culturale del bene.

L’ostentata assenza dell’Amministrazione comunale monzese – non un euro di contributo – appare colposa e miope rispetto alle ricadute che il ritorno della Villa a nuovi fasti può avere sulla città. Peccato che la disponibilità di risorse pubbliche per il restauro conservativo della Villa, fatto che rappresenta un’importante e apprezzabile novità, sia denotata da queste infelici condizioni. Occorre ora, in caso di effettiva assegnazione e avvio dei lavori, vigilare sugli elementi progettuali, sulle caratteristiche anche di dettaglio dell’esecuzione dei lavori e – soprattutto – sulla successiva gestione degli spazi ad attività completate. Italia Nostra si impegna affinchè siano rigorosamente rispettate le prescrizioni del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio e delle altre norme di tutela. La Reggia di Monza merita un futuro migliore.

Italia Nostra – Sezione di Monza

C´è qualcosa, nel successo strappato a Sanremo dalla canzone di Vecchioni, che intrecciandosi con altri episodi recenti ci consente di vedere con una certa chiarezza lo stato d´animo di tanti italiani: qualcosa che rivela una stanchezza diffusa nei confronti del regime che Berlusconi ha instaurato 17 anni fa, quando pretese di rappresentare la parte ottimista, fiduciosa del Paese.

Una stanchezza che somiglia a un disgusto, una saturazione. Se immaginiamo i documentari futuri che riprodurranno l´oggi che viviamo, vedremo tutti questi episodi come inanellati in una collana: le manifestazioni che hanno difeso la dignità delle donne; la potenza che emana dalle recite di Benigni; il televoto che s´è riversato su una canzone non anodina, come non anodine erano le canzoni di Biermann nella Germania Est o di Lounes Matoub ucciso nel ´98 in Algeria. Può darsi che nei Palazzi politici tutto sia fermo, che il tema dell´etica pubblica non smuova né loro né la Chiesa. Ma fra i cittadini lo scuotimento sfocia in quest´ansia, esasperata, di mutamento.

A quest´Italia piace Benigni quando narra Fratelli d´Italia. Piace Vecchioni quando canta la «memoria gettata al vento da questi signori del dolore», e «tutti i ragazzi e le ragazze che difendono un libro, un libro vero, così belli a gridare nelle piazze perché stanno uccidendo il pensiero». Quando conclude: «Questa maledetta notte dovrà pur finire». Poiché si estende, il senso di abitare una notte: d´inganni, cattiveria, sfruttamento sessuale di minorenni. C´è voglia che inizi un risveglio. Che la politica e anche la Chiesa, cruciale nella nostra storia, vedano la realtà dei fatti dietro quella pubblicitaria.

Massimo Bucchi aveva anticipato, in una vignetta del 19 gennaio 2010, questa rivolta contro il falso futuro promesso dai signori del dolore: «Ha da passà ‘o futuro!». Erano i giorni in cui il governo non s´occupava che di legittimo impedimento, di lodo Alfano costituzionale, di processo breve. Immobile, il tempo ci restituisce senza fine l´identico. Quel 19 gennaio, il Senato si riunì per commemorare Craxi. Colpito poco prima a Milano dalla famosa statuetta, Berlusconi annunciava «l´anno dell´amore».

Forse ricorderemo gli anni presenti per questa collana di eventi, che pian piano travolse giochi parlamentari, patti con un potere imperioso e tassativo con gli altri, mai con se stesso. Ricorderemo questa domanda di politica vera. Ricorderemo, infine, i tanti che non hanno visto montare la marea della nausea, che hanno consentito al peggio per noia, o rassegnazione, o calcolo di lobby. Cerchiamo di non dimenticarlo: ben 315 parlamentari hanno votato un testo, il 4 febbraio, in cui si sostiene che Berlusconi liberò Ruby perché, ritenendola nipote di Mubarak, voleva «evitare un incidente diplomatico».

Ma soprattutto, colpirà nei documentari futuri l´inerte ignavia dei vertici della Chiesa, l´orecchio aperto solo ai potenti, il rifiuto – così poco cristiano – di dire male del male solo perché da questo male sgorgano favori; perché i governanti concedono alla Chiesa il monopolio sui cosiddetti valori non negoziali (il dominio sulla vita e la morte, essenzialmente) purché siano lasciati in pace quando violano la Costituzione, fanno leggi per sottrarsi alla giustizia, mostrano di non sapere neppur lontanamente cosa sia la decenza pubblica. La canzone di Vecchioni, la recita di Benigni, sono punti di luce in una chiusa camera oscura; sono una forza che sta di fronte alla formidabile forza del regime. Una forza cocciuta, insistente, cui l´opposizione è estranea e ancor più la Chiesa.

L´insurrezione interiore avviene anche dentro il mondo cattolico: si parla di un 30 per cento di refrattari, tra frequentatori della messa e presbiteri. Basta scorrere le innumerevoli lettere che parroci e preti scrivono contro i dirigenti in Vaticano, per rendersene conto. Sono lettere d´ira, contro la loro acquiescenza. Micromega dà ai dissidenti il nome di altra Chiesa e sul proprio sito li rende visibili. Le pagine dei lettori sulla rivista di attualità pastorale Settimana sono fitte di denunce del berlusconismo.

Quest´altra chiesa non ne può più dei compromessi ecclesiastici con una destra che nulla ha ereditato dalla destra storica che fece l´unità d´Italia. Ha riscoperto anch´essa il Risorgimento, la Costituzione del ´48. Condivide il dover-essere dei cattolici che Alberto Melloni riassume così: «Una dedizione alla grande disciplina spirituale, un primato vissuto del silenzio orante, un abito di umiltà, un´adesione alla democrazia costituzionale come ascesi politica» (Corriere della Sera 19-12-10, il corsivo è mio).

Tra i criticati il cardinale Bagnasco, che critica il Premier ma per non sbilanciarsi vitupera non meno impetuosamente i magistrati. O che denuncia un disastro antropologico contro il quale però non pronuncia anatemi, preferendo alla chiarezza il torbido di alleanze tra Pdl e Casini che mettano fuori gioco Fini e le sinistre, troppo laici. Contro questo insorgono tanti preti: «Vedete quanto è pericoloso tacere?», chiedono citando Agostino. L´empio pecca, ma è la sentinella che ha mancato: «Chi ha trascurato di ammonirlo sarà giustamente condannato».

Nei paesi nordafricani vigeva simile spartizione di compiti: ai despoti il dominio politico, alle moschee la libertà di modellare l´intimo delle coscienze. L´accordo di scambio sta saltando ovunque, tanto che si parla di fallimento colossale di quella che gli Occidentali chiamavano stabilità. È in nome della stabilità che Berlusconi ha chiamato Mubarak un saggio, e ha detto non voler «disturbare» Gheddafi poco prima che questi bombardasse i libici facendo centinaia di morti. È la stabilità il valore che anima tanti responsabili in Vaticano, perché essa garantisce prebende varie, sconti fiscali per le case-albergo dei religiosi, finanziamenti per scuole.

In cambio si elargiscono indulgenze. Berlusconi dice parole blasfeme, e mons. Fisichella invita a «contestualizzare» la bestemmia. Il Premier è accusato di concussione e prostituzione minorile, e la Chiesa giudica «abnorme» la sua condotta come quella dei magistrati. Afferma Nogaro, vescovo emerito di Caserta: «Noi rimaniamo nello sgomento più doloroso vedendo i gesti farisaici delle autorità civili e religiose, che riescono ad approdare a tutti i giochi del male,dichiarando di usare una pratica delle virtù più moderna e liberatoria.» (Micromega 1/11).

Altri presbiteri ammoniscono contro leggi liberticide sul testamento biologico. Don Mario Piantelli, parroco di San Michele Arcangelo, si associa «alle richieste che da molte parti d´Italia sono indirizzate ai vertici ecclesiastici di alzare forte la voce e di compiere azioni profetiche nei confronti del governo Berlusconi. È necessario un supplemento di libertà evangelica per sganciarsi decisamente da un sistema di governo che, attraverso benefici e privilegi, sembra avvantaggiare il "mondo ecclesiastico", e in realtà aliena e impoverisce i credenti».

La Chiesa ebbe comportamenti non diversi nel fascismo. Sta macchiandosi di colpe simili, e nessuno sguardo profetico l´aiuta a vedere gli umori d´un paese che cambia, che magari non vota opposizione ma è stufo di quel che succede. Che comincia a guardare se stesso, oltre che l´avversario. Il cartello più nuovo, nella manifestazione delle donne, diceva: «Bastava non votarlo». Bastava la virtù dei primordi cristiani: la parresia, il parlar chiaro.

Nel filmato futuro che dirà il nostro oggi saranno convocati gli storici. Potranno imitare Benedetto Croce, quando nei Diari, il 2-12-´43, si mise nei panni di Mussolini e scrisse: «Chiamato a rispondere del danno e dell´onta in cui ha gettato l´Italia, con le sue parole e la sua azione e con tutte le sue arti di sopraffazione e di corruzione, potrebbe rispondere agli italiani come quello sciagurato capopopolo di Firenze(...) rispose ai suoi compagni di esilio che gli rinfacciavano di averli condotti al disastro di Montaperti: "E voi, perché mi avete creduto?"».

ROMA - Lotta all´abusivismo: per difendere, oltre al territorio e all´ambiente, anche l´industria del turismo. Alla vigilia del Convegno nazionale in cui il Fai (Fondo per l´ambiente italiano) riunirà dal 25 al 27 febbraio alla Città della Scienza di Napoli i propri delegati e volontari, la presidente onoraria Giulia Maria Crespi lancia insieme al Wwf una campagna di mobilitazione contro la norma governativa - contenuta nel cosiddetto "decreto Milleproroghe" - che annulla di fatto le demolizioni delle costruzioni abusive in Campania. «Non posso credere che il governatore Stefano Caldoro porti avanti un´operazione destinata fatalmente a danneggiare la regione e i suoi cittadini».

Per voi, si tratta di un altro condono mascherato?

«Peggio ancora. Avallare un condono, dopo tre gradi di giudizio che hanno prodotto sentenze penali definitive, significa dare uno schiaffo alla magistratura e a tutta la giustizia italiana».

Perché lo giudicate tanto grave?

«Non grave, gravissimo. Per il fatto che non si annullano le demolizioni soltanto per gli abusi - diciamo così - normali, ma anche per gli edifici costruiti in aree vincolate. E allora mi chiedo: quanti saranno i disastri idro-geologici provocati dal mancato rispetto di questi vincoli? Quante sono le fabbriche o i capannoni realizzati negli alvei dei fiumi? Quante strade sono a rischio di frane o smottamenti? È una situazione che mette in pericolo anche tante vite umane».

Un condono, poi, è sempre diseducativo…

«Certamente. È un precedente, costituisce un cattivo esempio per il futuro. Così si alimenta la convinzione che, prima o poi, arriva una sanatoria. E alla fine, è sempre il cittadino onesto che paga».

In polemica con il governo, gli ambientalisti l´hanno definito un provvedimento "ad regionem".

«Sì, ma - come si sa - la mela marcia guasta anche quelle buone. Molte altre regioni si sentiranno autorizzate a fare altrettanto. In Lombardia, per esempio, il governatore Formigoni ha già puntato il dito contro i Parchi».

Ma il provvedimento per la Campania non è limitato alle "prime abitazioni" e a coloro che le "occupano stabilmente"?

«Guardi, io ho cinque figli. Se assegno a ciascuno una "prima casa", il problema è presto risolto. Fatta la legge, insomma, trovato l´inganno».

Al di là dei danni ambientali, voi temete anche un contraccolpo economico?

«Alla lunga, non credo che le grande aziende rimarranno in Italia. Sono i flussi della storia. Di immobile, invece, noi abbiamo il paesaggio e la bellezza. I Faraglioni non si possono trasferire da Capri in Cina né il Colosseo a New York. Ecco perché dobbiamo tutelare e valorizzare il patrimonio che abbiamo: è la principale attrattiva turistica del nostro Paese».

Purtroppo, in questo momento l´Italia non gode di una grande reputazione…

«Quando torna dall´America, dove insegna all´università, il mio amico Francesco Giavazzi mi racconta spesso che lì si parla più o meno male della nostra situazione politica ed economica, ma sempre bene della bellezza italiana. È vero, quando leggo i giornali stranieri e vedo il nostro Paese così bistrattato, ne provo vergogna. Ma per i turisti di tutto il mondo il viaggio in Italia continua ad avere un forte richiamo. Se continuiamo però a rovinare il paesaggio, l´Italia perderà sempre più fascino a livello internazionale».

Il suo tono sembra particolarmente accorato.

«Ho trascorso recentemente qualche giorno di riposo a Sirmione, dove andavo in vacanza da ragazza e avevo imparato a memoria i versi di Catullo in latino. Ora c´è cemento ovunque, si parcheggiano le automobili ai bordi del lago e non si può più neppure passeggiare. Per merito della Sovrintendenza che ha fatto un lavoro encomiabile, s´è salvato soltanto il piccolo promontorio con la casa di Catullo».

E al governo, intanto, che cosa manda a dire il Fai?

«Non dobbiamo più parlare soltanto di escort. Dobbiamo preoccuparci del patrimonio comune. Bisogna salvaguardare l´integrità dell´Italia: l´unità nazionale si difende anche attraverso il paesaggio e il turismo».

L'articolo di Luca Casarini pubblicato sul manifesto del 20 febbraio merita una risposta argomentata, alla quale, peraltro, egli stesso invita. Ricordo che tema del suo intervento è la critica a Nichi Vendola per aver suggerito il nome di Rosi Bindi quale guida della coalizione di centrosinistra. Ora, io non voglio entrare più di tanto nel merito di quella proposta. Ma approfitto dell'articolo in questione perché esso è fondato su alcuni nodi argomentativi che fotografano un modo di pensare la politica, all'interno della sinistra, destinato a sicuro fallimento e a certa sconfitta.

Casarini divide i militanti della sinistra tra quelli che criticano i partiti, persuasi dei loro limiti, ma li votano, e «quelli che ne stanno fuori, convinti che il cambiamento passi solo attraverso un rifiuto della rappresentanza». Ebbene, io - per quel che vale la mia testimonianza - sono fuori dai partiti, li critico aspramente, non li voto da anni, ma non rifiuto affatto la rappresentanza. La rappresentanza della sinistra, oggi in Italia è diventata l'impotenza quotidiana che abbiamo sotto gli occhi. E tuttavia essa significa, potenzialmente, la possibilità che i bisogni e i punti di vista della classe operaia, dei ceti popolari, dei movimenti abbiano voce dentro lo Stato. Tagliarsi un braccio che funziona male, pensando di essere più liberi facendone a meno, è una bizzarria concettuale prima che un pensiero politico. Anche perché, nel momento in cui lo Stato nazionale si indebolisce sotto la pressione dei poteri sovranazionali, abbandonarlo del tutto significa rendere il fronte di lotta ancora più arretrato di quanto già non sia. Aggiungo che la rappresentanza della destra è invece viva e vegeta, manovra a suo piacimento lo Stato e condiziona l'esito delle nostre lotte, degli stessi movimenti antagonisti, per usare il vocabolario di Casarini. Debbo ricordare che cosa la rappresentanza dei nostri avversari ha realizzato negli ultimi anni, grazie anche all'inconsistenza di quella della sinistra nel Parlamento? Debbo rammentare i colpi micidiali inferti dal governo nazionale al territorio, al lavoro, alla scuola pubblica e all'Università, alla politica dell'accoglienza dei diseredati che valicano i nostri confini?

Casarini ci ricorda un motivo ben noto e su cui non si può non concordare. Cacciare Berlusconi non è sufficiente per spazzare via il berlusconismo dalla scena italiana. D'accordo, ma Berlusconi è la «chiave di volta» del berlusconismo. È lui il collante generale, non solo di uno schieramento, ma di un blocco politico-affaristico, come hanno mostrato le inchieste giornalistiche più che non la denuncia del Pd. Per quale ragione, altrimenti, la canea dei servi che lo circonda avrebbe rinserrato i ranghi, ringhiando con tanto unitario furore contro ogni critica nei suoi confronti? Ma il tema Berlusconi mi consente un ragionamento più di fondo e, per alcuni aspetti, drammatico. C'è in tanta sinistra, la sinistra generosa, disinteressata, impegnata spesso duramente sul campo, l'incapacità congenita di comprendere la distanza che passa tra il piano della teoria, della testimonianza culturale, dei nostri ideali, e il territorio opaco e impervio della politica. Una incapacità (e anche, occorre dirlo, una grande difficoltà) che è la madre storica di tante nostre sconfitte. Viene in mente un passo di Gramsci nelle note di Passato e presente: «I grandi progettisti parolai sono tali appunto perché della "grande idea" lanciata non sanno vedere i vincoli con la realtà concreta, non sanno stabilire il processo reale di attuazione». La politica ha a che fare con quel che non ci piace, con le transazioni, gli accordi, i compromessi. Ma la politica è lo stato di forze reali in un momento dato. È il passaggio stretto in cui si possono conquistare margini di potere ma si può anche indietreggiare, subire pesanti e durevoli sconfitte. Ora, è proprio la critica severa alla «rappresentanza» del centrosinistra oggi presente in Parlamento che dovrebbe indurre a una visione più realistica dei rapporti di forza attualmente in campo in Italia. Un ragionamento politico aderente alla «realtà effettuale» delle cose, direbbe Machiavelli, dovrebbe possedere l'intelligenza di immaginare quali sarebbero le conseguenze, per la sinistra e per l'intero Paese, in caso di una nuova vittoria di Berlusconi. Perché, viste le condizioni dell'attuale opposizione, l'ipotesi non è del tutto remota. Qualcuno ha provato a "simulare" mentalmente che cosa accadrebbe, in questo caso, alle istituzioni della democrazia italiana, o la cosa non ci interessa, perché siamo antagonisti e puntiamo a dare l'assalto al Palazzo d'Inverno? Qualcuno ha provato a immaginare che cosa accadrebbe, dopo tante lotte, al fronte del lavoro, ai contratti collettivi, al potere sindacale in fabbrica? Qualcuno ha fatto lo sforzo di prefigurare quale devastante delusione si diffonderebbe nelle file multiformi della sinistra,tra le donne e gli uomini che hanno così appassionatamente lottato in questi anni, quali laceranti rancori finirebbe per lacerarla per almeno un decennio?

Da ultimo, una parola sulla proposta in sé da parte di Nichi Vendola. Non seguo così dall'interno i giochi quotidiani dei partiti. A me, francamente, la proposta è sembrata di grande intelligenza politica. E non a caso gli oligarchi del Pd l'hanno rapidamente seppellita. Il cosiddetto "gelo" della Bindi è una comprensibile moina formale. Che cosa non va in quella proposta? La Bindi è uno dei pochissimi dirigenti di quello schieramento a conservare un profilo politico avanzato e non neoliberale. È una donna che sa parlare ai bisogni della grande maggioranza delle donne italiane. È una cattolica non bigotta, che potrebbe raccogliere consensi in quel mondo senza genuflettersi. È un personaggio che potrebbe tenere insieme una coalizione eterogenea per un passaggio temporaneo ma realisticamente obbligato se si vuol battere Berlusconi. O non è così, viste le posizioni attuali del Pd? È Vendola da solo che può conseguire la vittoria? E allora? Non accettiamo la proposta perché questo sconfiggerebbe Berlusconi e non il berlusconismo? Non partiamo perché il treno si ferma a metà strada e noi restiamo in attesa, perché vogliamo prendere solo quello che giunge alla meta? Casarini preferisce le primarie. Le preferisco anch'io. Ma le decide il gruppo del Pd, non le decide Nichi Vendola, che non può restare a guardare una situazione che marcisce. Anch'io preferirei un governo formato dai pochissimi dirigenti che stimo, e magari vedere sventolare le nostre bandiere vittoriose davanti al Parlamento. Ma questo è il sogno. La realtà ci dice ben altro. Il materiale che dobbiamo maneggiare è di scadentissima qualità. E le ombre del ventennio berlusconiano rischiano di allungarsi sinistramente sul nostro futuro.

www.amigi.org

Di seguito l’articolo di Luca Casarini cui Bevilacqua replica

Caro Nichi, è questa la nuova narrazione?

di Luca Casarini

L'uscita con cui Nichi Vendola ipotizza forma e conduzione di quella che viene definita «alleanza democratica» contro Berlusconi mi trova in profondo disaccordo. Voglio comunicarne le ragioni per tentare di aprire un dibattito politico vero non solo con Nichi, ma anche con coloro che guardano queste cose in maniera diversa: quelli che stanno dentro i partiti della sinistra, o li votano, ma percepiscono tutti i limiti che essi incarnano e quelli che ne stanno fuori, convinti che il cambiamento passi solo attraverso un rifiuto della rappresentanza. Questi due modi di vedere il problema, quello critico e quello antagonistico, li considero fondamentali entrambi per ogni processo costituente che provi ad affrontare seriamente il nodo dell'alternativa in questo paese.

Beninteso, con tutta l'umiltà e la profonda amicizia per Nichi, che chi scrive segue con attenzione perché nel desolante panorama della sinistra italiana, di certo non c'è stato nient'altro, oltre ai movimenti che si autorappresentano, di così interessante come il percorso descritto dalle sue «fabbriche» e dall'idea di «nuova narrazione» sottintesa anche dalla grande richiesta delle primarie.

Ma lo stare dentro l'eterno limbo di una transizione che non finisce mai, quella di uscita dal ventennio berlusconiano, evidentemente logora e affatica. E dunque bisogna aiutarci tra tutti, stimolarci a vicenda per non finire in cose già viste, e già sconfitte dalla storia.

Il cattivo uso della tattica

Veniamo alla questione delle dichiarazioni di Nichi: le considero sbagliate sia nella sostanza che nei tempi. Appare quasi superfluo dire che la «mossa del cavallo», come viene definita, tutta giocata per mettere in difficoltà il quadro dirigente del Pd, è pura tattica. Uno dei mali della sinistra italiana è questo continuo gioco di tattica, capace di trasformare in politicismo ogni cosa. La tattica, in politica, dovrebbe essere usata con parsimonia, e mai sostituirsi alle ragioni, alle speranze, agli ideali e alle convinzioni.

Bisognerebbe, di questi tempi innanzitutto, vergognarsi un po' di ricorrere a mosse tattiche, esserne onestamente e pubblicamente imbarazzati, perché tattica è un sinonimo ormai di assenza di proposte vere, di alternativa. Suggerire la Bindi come leader di uno schieramento innaturale come quello immaginario che mette insieme tutti, da Fini a Vendola appunto, può apparire «geniale» a chi vive la politica dai Palazzi, a chi la osserva solo tramite sondaggi, organigrammi, equilibri di potere. Per il «popolo», invece, è semplicemente disarmante.

Quello stesso popolo che ci crede veramente al fatto che più che Berlusconi, come diceva Vendola, bisogna battere il berlusconismo. Cioè quel tanto di Marchionne e della Gelmini che c'è dentro i programmi degli oppositori «democratici» di Berlusconi, quella dose di pericoloso giustizialismo che pure anima anche coloro che farebbero di tutto per buttare giù il Cavaliere, quell'idea di etica pubblica che scivola rapidamente verso il moralismo patriottico dei vizi occulti, che sacralizza istituzioni che invece andrebbero rese terrene e contradditorie, e per questo più vicine alla realtà degli uomini e delle donne che dovrebbero servirsene, non esserne prigionieri. È un fatto culturale, prima che politico, e proprio per questo, culturalmente, nessuna tattica può giustificare l'idea che il problema risieda solo in un uomo, per quanto potente ed odioso esso sia.

Con i «se» non si costruisce nulla

I tempi sbagliati, persino incomprensibili, dell'uscita di Nichi, aumentano la preoccupazione: ma è tattica oppure, peggio, convinzione? Certo, perché quella proposta forse avrebbe messo in difficoltà il Pd e coloro che non vogliono le primarie, se le elezioni fossero alle porte, se il Quirinale si preparasse a sostituire un governo con un altro, se la Lega togliesse la spina, se, se... ma la vita nuova non si costruisce con i se. Abbiamo già la versione veltroniana, quella del «ma anche», ci manca solo quella di continui «se...».

Tempistica controproducente dunque, anche rispetto alle migliori intenzioni, e sostanza preoccupante: siamo veramente convinti che la Santa Alleanza, che si dice dovrebbe limitarsi a fare due o tre cose, sia una strada culturalmente prima che politicamente praticabile? Io penso il contrario.

Servono idee e pratiche nuove

Per «sparigliare» le carte in tavola, servono idee nuove, sul reddito e sul lavoro, sulla crisi ambientale e su quella finanziaria, sul conflitto di genere. Nuove idee e nuove pratiche sulla democrazia e anche sulla rappresentanza, che sono materie in crisi terminale e vanno affrontate con cure shock: le primarie o sono questo o diventano sì una specie di americanata giocata in provincia, come in qualche caso può succedere.

Ho imparato anche da Nichi che le proprie biografie vanno superate, se si vuole ambire ad un «comune» politico e sociale. Ma mi spingo a dire che bisogna farlo non solo con quelle personali, ma anche con quelle collettive: bisogna indicare l'oltrepassamento del partito, del sindacato, del movimento così come li abbiamo conosciuti e così come ci siamo rapportati ad essi finora.

Un patto continuo

Anche per questo, l'ordine simbolico che le cose assumono, in questo caso dichiarazioni a mezzo stampa, non può riguardare semplicemente i sondaggi o il consenso: esso stipula con la nostra vita un patto continuo, producendo l'orizzonte che ci è necessario vedere per potere rimetterci in cammino.

Il nostro, di tutti, non può essere che quello di una grande marcia per la democrazia, che si gioca dentro e fuori, nei vecchi meccanismi della rappresentanza in crisi e nelle piazze piene di gente che vorrebbe essere nuova, e quindi ha bisogno di una innocenza che diventi originalità, di un sodalizio che diventi amicizia, di una franchezza che sia verità. Su questo, proprio perché mi interessa contribuire e penso che nulla sia facile, vorrei che si aprisse una discussione.

Silvio Berlusconi ha fatto le cose in grande con Gheddafi. Gli ha aperto le porte, lo ha accolto come uno statista internazionale, lo ha promosso come un interlocutore politico credibile e affidabile, suscitando la preoccupazione e spesso l’indignazione delle cancellerie occidentali. Ha fatto anche di più, sul piano personale, con tutte quelle tende beduine piantate a Roma e le inquietanti guardie femminili a protezione del satrapo. Berlusconi è stato il presidente del Consiglio che si è speso senza limiti per rafforzare i legami politici e soprattutto economici con la Libia, ha varato il “Trattato di amicizia”, ma non sarebbe giusto attribuire esclusivamente al premier la responsabilità di questi imbarazzanti patti d’affari con la Libia, proprio mentre il regime reagisce alla protesta della popolazione distribuendo violenza e morte.

L’Italia pacifica e affarista è il primo partner commerciale della Libia, le nostre imprese guardano da tempo a Tripoli come un’occasione, un interlocutore ricco, di petrolio e di risorse finanziarie, investitore fedele e duraturo nei settori strategici dell’economia. Le grandi imprese nazionali, tutte, hanno realizzato affari con il paese nordafricano, hanno coltivato relazioni spudorate con il raìs e il suo regime dimenticando, come spesso accade nel mondo dominato dal profitto, i diritti, l’etica, la democrazia, variabili secondarie per chiunque pensi esclusivamente all’ultima linea del conto economico. Oggi sono un centinaio le imprese tricolori attive in Libia, che cercano di evacuare i loro dipendenti dal paese africano e sperano che la crisi si esaurisca presto per poter tornare al business di sempre.

L’Eni è presente in Libia da mezzo secolo, dai pozzi nel deserto arriva il 24% del petrolio importato in Italia e il12%circa del gas. Le concessioni a favore dell’Eni sono state prolungate di altri 25 anni e Tripoli è entrata nel capitale dell’Eni con l’1%, con l’ambizione di crescere di molto. La Libia «è la pupilla dei miei occhi perchè investiremo in questo paese 25 miliardi di dollari» ha detto Paolo Scaroni, amministratore delegato del nostro colosso petrolifero. E ha aggiunto: «Da Gheddafi a Chavez sono tutti bravi, buoni, belli perchè per me sono tutti clienti». Questa è la filosofia di un manager pubblico. La storia, si sa, è sorprendente perchè offre spesso novità impreviste, belle o brutte che siano.

Gheddafi è una brutta bestia e lo si sapeva da molto tempo. Ma quando negli anni Ottanta la Lafico (Lybian foreign investment company), finanziaria d’investimento della ex colonia, arrivò a Torino per dare unamanoalla Fiat in emergenza, venne accolta con tutti gli onori, restò in silenzio nel capitale con famiglia Agnelli.Quando nel 1986 la Lafico liquidò l’investimento realizzandoun bel profitto, Gianni Agnelli riconobbe: «Sono stati investitori seri e corretti». Oggi i libici hanno il 7,5% del capitale della Juventus perchè la famiglia Gheddafi ha sempre avuto un debole per il calcio e un figlio militò senza grandi performance nel Perugia di Luciano Gaucci. Nel 2002, per far contento il raìs, la Federcalcio trasferì la finale della Supercoppa italiana a Tripoli.

Più seriamente il peso dei capitali libici in Italia si è manifestato un paio d’anni fa quando l’Unicredit, uno dei maggiori istituti di credito europei, si trovò immerso nella crisi finanziaria internazionale. Per sottoscrivere l’ingente aumento di capitale, a un prezzo che era il triplo dei valori di Borsa del momento, Cesare Geronzi, allora presidente di Mediobanca e garante dell’operazione di Unicredit, chiamò gli amici libici, che già lo avevano aiutato nella Banca di Roma e in Capitalia. La Banca centrale della Libia e la Lybian investment authority (Lia), un fondo dotato dicirca 50 miliardi di dollari, hanno mostrato una grande generosità, addirittura eccessiva per la Lega di Bossi, sottoscrivendo complessivamente una quota vicina al7%del capitale per uncontrovalore di 2,5 miliardi di euro. I libici oggi sono i primi azionisti di Unicredit ed esprimono il vicepresidente, Farhat Omar Bengdara, governatore della banca centrale libica. Sull’asse con Geronzi la Libia ha manifestato interesse per Mediobanca, che orienta gli investimenti libici in Italia, per le Assicurazioni Generali, per Telecom Italia, per Finmeccanica e per Impregilo. Queste ultime due società hanno raccolto ricche commesse in Libia. Non c’è dubbio che oggi la crisi libica possa avere ripercussioni gravi sulla stabilità degli assetti azionari di Unicredit e, di riflesso, anche delle imprese partecipate dalla banca. Un segnale è arrivato ieri dalla caduta della Borsa di Milano (-3,59%).

Berlusconi e le imprese italiane seguono con apprensione la caduta dei capi dei regimi del Nord Africa: prima l’amico Ben Ali in Tunisia, poi l’amico Mubarak in Egitto, oggi l’amicoGheddafi in Libia. Chi sarà il prossimo?

Due cambiamenti, sufficienti per segnare la svolta di un´epoca, sono già intervenuti mentre le rivolte nel mondo arabo sono ancora in corso. E la repressione è sempre più sanguinosa in Libia. Il nuovo capitolo di storia non riguarda soltanto i paesi che ne sono il teatro. La zona sensibile, dall´Algeria all´Iran, rappresenta il 36 per cento della produzione mondiale di petrolio. Questo è quel che ci riguarda sul piano concreto, insieme ai rischi di guerre non soltanto civili, in una zona ricca di conflitti latenti, alle porte dell´Occidente europeo. Sul piano politico, ideologico, morale, quel che sta accadendo è inoltre destinato a sconvolgere, a rovesciare il pregiudizio occidentale sul mondo arabo musulmano. Il famoso conflitto di civiltà.

Il primo cambiamento già avvenuto è che uomini e donne rivendicano i diritti dei cittadini di uno Stato democratico, e quindi rifiutano il modello del rais, onnipotente e insostituibile, dominante dall´Atlantico all´Oceano indiano per decenni. Dopo il tunisino Ben Ali e l´egiziano Mubarak, adesso traballa anche Gheddafi, caricatura dell´autocrate arabo miliardario in petrodollari, in esercizio da più di quarant´anni. Altri birilli cadranno.

Cercando di svelare i misteri che inevitabilmente annebbiano i fenomeni rivoluzionari appena esplosi, gli storici più audaci azzardano un paragone: evocano la «primavera dei popoli» del 1848, che in qualche mese sconvolse in Europa il sistema politico creato dal Congresso di Vienna. Dopo grandi sacrifici, generose esaltazioni ed enormi speranze, le rivoluzioni d´allora, verificatesi a catena, dalla Sicilia dei Borboni alla Parigi di Luigi Filippo, fallirono una dopo l´altra.

Stiamo quindi assistendo a insurrezioni popolari, al di là del Mediterraneo, destinate a fallire? Come nell´Europa dell´800 ritornarono le monarchie autoritarie o si formarono nuovi imperi, cosi potrebbero ritornare i rais di cui gli arabi si sono appena liberati o si stanno liberandoo vorrebbero liberarsi? Gli interrogativi restano. Ma forse gli storici sanno soprattutto predire il passato. I nostri sono tempi veloci. I popoli insorti hanno sotto gli occhi i modelli democratici. Le immagini, le informazioni, scavalcano le frontiere e le censure.

Il secondo cambiamento, sottolineato da Henry Laurens, storico del mondo arabo, riguarda l´immagine che gli arabi hanno di se stessi e che da noi era tanto diffusa, al punto da essere un´ossessione. Il manifestante di piazza Tahrir al Cairo o di avenue Burghiba a Tunisi, e l´oppositore al regime di Gheddafi che sacrifica la vita a Benghasi, hanno sostituito l´immagine del terrorista barbuto e fanatico.

I popoli, le cui civiltà erano state umiliate dal colonialismo, decisi a ritornare sulla scena internazionale, si riunirono a Bandung (1955), per celebrare la sovranità dei loro Stati, l´indipendenza nazionale appena conquistata, ed anche per affermare, in certi casi, le loro fedi religiose.

Lo ricorda Jean Daniel, ed io ricordo le corrispondenze di un vecchio reporter, Cesco Tomaselli, mandato nella città indonesiana dove si svolgeva la conferenza, in cui i partecipanti (tra i quali Chou En-lai, Nasser, Tito, Nkrumah, Nehru) venivano descritti, o meglio derisi, come espressioni di civiltà inferiori, scimmiottanti i veri grandi della Terra.

Poco più di mezzo secolo dopo non è più questione di nazione indipendente e di affermazione dell´identità religiosa. Il vecchio cronista, allora convinto rappresentante di una civiltà superiore, scoprirebbe adesso che i giovani tunisini, egiziani, yemeniti, marocchini e anche libici, dei quali non avevamo l´impressione di conoscere i volti, perché il loro paese sembrava incarnato soltanto da Gheddafi, e dalle sue grottesche stravaganze, rivendicano diritti individuali e libertà.

Senza esprimere esigenze religiose. Senza limitarsi a richiami nazionalisti. Esattamente come gli europei del 1848, ma anche come quelli degli Anni Quaranta, della lotta antifascista, e del 1989, dopo la caduta del Muro. La storia si è ricongiunta. Il computer e i suoi derivati hanno aperto uno spazio incontrollabile per gli sgherri del raìs e offrono strumenti comuni a civiltà sempre meno divise. Le idee corrono più facilmente. Conquistano anche i soldati, i coscritti, che dovrebbero reprimere ma che sono spesso sensibili agli slogan dei coetanei pronti a sfidare la polizia di Mubarak e di Ben Ali e gli aerei di Gheddafi.

Gli sconfitti non sono soltanto i rais, a lungo prediletti dalle potenze occidentali, in quanto guardiani dei loro popoli, pronti a combattere, a reprimere le tentazioni integraliste appena affioravano nella società. Anche le correnti estremiste dell´Islam hanno subito una disfatta, perché la sognata rivolta popolare non è stata guidata da loro. Li ha colti di sorpresa. Anzi ha investito lo stesso Iran, dove gli oppositori del governo teocratico hanno rivendicato le stesse libertà chieste a Tunisi, al Cairo, a Tripoli.

Questo ha contato nell´atteggiamento americano. Gli Stati Uniti di Barak Obama sono stati determinanti in Egitto. Questa volta la forza si è messa al servizio della giustizia. Senza l´insistente intervento di Washington i generali del Cairo non si sarebbero risolti tanto presto a sbarazzarsi del presidente, che era anche il loro comandante supremo.

Obama ha mantenuto la promessa fatta due anni fa con il discorso del Cairo, rivolto al mondo musulmano. Ha appoggiato i movimenti democratici, pur compiendo qualche contorsione diplomatica. Per non compromettere troppo la stabilità di vecchi alleati dell´America tutt´altro che democratici. Ad esempio l´Arabia Saudita, insidiata dalla rivolta sciita di Bahrein.

Anche l´Europa è stata fedele ai suoi principi condannando la repressione e pronunciandosi in favore degli oppositori in rivolta. Soltanto l´Italia di Berlusconi ha mancato all´appuntamento d´onore per un paese democratico. Se l´insurrezione libica affogherà nel sangue, il governo italiano avrà la sua parte di vergogna.

Che cosa potrà dire il centrosinistra su Expo 2015 in campagna elettorale? Che ne stanno pensando l’uomo della strada e la casalinga di Voghera? Credo che a quest’ultima domanda sia abbastanza facile rispondere: dopo le tante figuracce che stiamo facendo all’estero, anche quella di far naufragare l’Expo sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso, una figuraccia per l’Italia ma soprattutto per noi milanesi. Non credo che pensino ad altro, perché sulle varie panzane del tipo «un’occasione da non perdere» piuttosto che «una grande occasione per Milano» hanno già capito che l’occasione sarà per pochi e che il codazzo di grane tra malagestio, arroganze, incapacità e favoritismi sarà inevitabile.

La questione delle aree, ancora irrisolta, e le ultime cronache cittadine sono l’infinita telenovela dell’amministrazione ambrosiana di centro destra e l’Expo ne sarà solo una puntata. Il giorno della primavera 2008 in cui il Bie designò Milano e l’Italia a ospitare Expo, si poteva immaginare quel che ne è seguito? Forse sì, visto che il secondo governo Prodi era già caduto – per farlo cadere ci misero del loro molti di quelli che ora si sbracciano per cacciare Berlusconi – ed era facile immaginare che i subdoli nemici di Expo fin dalla prima ora – la Lega con Bossi e Tremonti – sarebbero sbarcati a Roma.

Da qui non tutti ma molti di mali di Expo, forse i più gravi. Come spesso le accade la sinistra è in difficoltà: il precedente caso sulla "sicurezza" è esemplare ma sparare a palle incatenate contro Expo vorrebbe dire offrire all’avversario il facile argomento di essere vittima della sindrome da opposizione preconcetta e di non volere il "bene" della città e dei milanesi. Può non essere così. Che cosa chiedono l’uomo della strada e la casalinga di Voghera? Chiedono di non fare figuracce, e la sinistra deve essere con loro: quello che si deve dire è che non è pensabile che a gestire un’operazione tanto complessa e difficile ci siano dei dilettanti allo sbaraglio come ormai hanno capito anche i sassi.

Già si è visto e si continuano a vedere solo una serie di manovre di potere coperte dai fuochi di artificio mediatici per distrarre la gente e celare l’incapacità di risolvere i problemi. Non per nulla prima di andarsene e sedersi di nuovo negli scranni della Camera e far finta di credere alle balle su Ruby, Lucio Stanca blindò i suoi collaboratori minacciando severe sanzioni per chi avesse svelato cosa si facesse nelle stanze di Expo 2015 Spa e ancor peggio negli Uffici di piano dove si sviluppa il progetto: il tutto doveva essere considerato alla sorta di un segreto aziendale.

La posizione della sinistra deve essere chiara: l’idea forte dell’Expo era convincente e il governo Prodi la sostenne con tutte le forze; il suo snaturamento a favore di una riduzione ad affare immobiliare va impedito; il lascito di Expo alla città va garantito progettando sin da adesso i futuri usi e assicurando per gli stessi le coperture finanziarie prevedibili e necessarie; d’ora in avanti ogni sviluppo progettuale e ogni scelta deve essere comunicata, trasparente e condivisa realmente dalla "città" che non è sinonimo di "maggioranza del consiglio comunale". Se non ci sono queste condizioni a tutela del buon nome di Milano bisogna dire e ripetere: Expo sì ma con questa gente no.

E' in libreria "Vandali. L'assalto alle bellezze d'Italia" di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo (Rizzoli, 275 pagine, 18 euro). Una riflessione, amara e documentata, sulla situazione dei nostro patrimonio artistico e culturale e dei devastanti effetti della politica dei tagli attuata dal governo Berlusconi. «Eravamo i primi al mondo nel turismo - vi si legge -. Siamo precipitati per competitività al 28 posto.... Una classe dirigente seria sarebbe allarmatissima. La nostra no. Anzi, la cattiva politica è tutta concentrata su se stessa». Pubblichiamo parte del capitolo "La cultura rende? Alla «cricca» senz'altro".

“Pacco operaio! Pacco del lavoratore!». Era dai tempi in cui le sagre paesane erano battute da quegli ambulanti caciaroni che vendevano il celeberrimo «pacco» («E ti ci metto la coperta di lana matrimoniale! E ti ci metto la padella antiaderente! E ti ci metto il cacciavite multiuso...») che non si sentivano declamazioni come quelle di Mario Resca, l'uomo forte dei Beni Culturali berlusconiani. «Una recente indagine di Confcommercio (marzo 2009) ha dimostrato come un euro investito nella cultura ne genera 4 di indotto. Negli Stati Uniti un investimento nella cultura produce 7 volte quello che rende in Italia» dice sul sito ufficiale www.beniculturali.it. «Ogni euro investito in cultura genera un investimento 6 volte superiore» precisa in una chiacchierata con "Il giornale dell'arte". Il progetto Grande Brera costerà un mucchio di soldi ma quello non è un problema perché un po' dei finanziamenti arriverà dai fondi per i 150 anni dell'Unità d'Italia, un po' dai ministeri e il resto dalle istituzioni locali giacché «un euro investito in cultura ne rende 7 a 10 in ricaduta sul territorio» spiega al "Giorno" presentando l'iniziativa della quale lui è commissario. “Li troveremo i soldi» rassicura in contemporanea sul "Corriere": «Milano :..:. deve mettersi una mano sul cuore. E ricordare che un euro investito in cultura ne rende anche 10». Bum! «I1 turismo culturale è una grande fonte di reddito» incoraggia dopo il crollo della Schola Armaturarum di Pompei in un'intervista al "Giornale" di Alessandro Sallusti. E, spiegando che è «meglio investire qui piuttosto che nella manifattura, che nel nostro mondo globalizzato e in recessione è sempre più delocalizzata», conclude: «Un euro investito in cultura, dicono i nostri consulenti, rende da 6 a 12 volte l'investimento». Bum! «L'indotto generato dalla cultura e dal turismo culturale ha e avrà sempre un maggiore peso sulla nostra economia. Stiamo rilanciando la fruizione della cultura comunicando di più perché un euro in cultura rende 16 volte attraverso l'indotto del turismo culturale» dichiara (lo dice attraverso l'ufficio stampa del ministero!) al Forum mondiale che ad Avignone nel 2009 riunisce circa trecento personalità della cultura provenienti da tutto il mondo. Bum! Al di là dei numeri sui quali si sbizzarrisce, a metà gennaio 2011, l'ha detto anche a Vittorio Zincone, di "Sette": «Crediamo davvero che il futuro dei nostri figli sia ancora nelle fabbriche e nel manifatturiero? Lì non abbiamo speranze». Quindi? Tutti a fare i custodi nei musei? «No. Dobbiamo creare nuove professionalità: manager del Turismo e dei Beni culturali...» Come lui. Che per rimediare all'assenza di didascalie in inglese nel 76% dei nostri musei, parla in slang "macdonaldese"; «Con il marketing e i social network abbiamo colpito il target. Nell'ultimo anno c'è stato il 15% dei visitatori in più. Per questo business è un turn around fondamentale. Uno swing eccezionale». Sostiene che «i Beni culturali dovrebbero diventare un ministero di serie A. Perché nei prossimi vent'anni, se ci crediamo, potremmo assistere a un nuovo rinascimento nella produzione di ricchezza basato sulla leadership del nostro patrimonio culturale. L'Italia potrebbe diventare una grande Disneyland culturale». E dice che l'ha ricordato anche a Berlusconi: «Mi ha dato ragione. Ma poi ha altre preoccupazioni». Disneyland... Certo è che, a dispetto di questi discorsi, i finanziamenti alla cultura degli ultimi anni sono stati decimati. Direte: non è possibile! Se Silvio Berlusconi ripete da anni che occorre governare con il buon senso del «buon padre di famiglia», che lui è un imprenditore di successo e dunque sa come vanno spesi i soldi, che ha portato razionalità alla gestione dello Stato! I dati ufficiali sono implacabili. Da quel 2001 in cui tornò al potere per restarci l'intero decennio salvo la caotica parentesi prodiana, i finanziamenti pubblici ai Beni culturali sono andati giù precipizio. In dieci anni, dal 2001 al 2011, sono calati del 40%: da 2.386 a 1.429 milioni di euro. Ma se teniamo conto dell'inflazione, allora il crollo è stato del 50,5%. Il succo è che dieci anni fa lo Stato italiano dava al ministero dei Beni culturali più del doppio di oggi. Il che significa, poiché al di là delle sparate è assolutamente vero che un euro investito in cultura ne genera molto di più, che sono state buttate via potenzialmente decine di miliardi. Lasciando contemporaneamente che il nostro tesoro venisse saccheggiato dall'incuria, dall'indifferenza, dal degrado. Certo, anche nel 2000 la fetta più grossa se ne andava per la spesa corrente del ministero e delle sue strutture periferiche: stipendi, luce, telefoni, trasporti, affitti... Ragion per cui qualcuno potrebbe addirittura concludere che alla fin fine si sono risparmiati un sacco di soldi. Se però guardiamo la spesa per gli investimenti, tocchiamo con mano il disastro. Perché quella voce, in dieci anni, si è ridotta da 749 a 290 milioni, per scendere ulteriormente a 213 milioni nel 2011. Per capirci: soltanto quest'ultimo taglio di 79 milioni, se fosse vero che ogni euro culturale ne produce 16, avrebbe sottratto all'Italia un miliardo e 264 milioni di euro.

Niente stanziamenti adesso perché, secondo il governo, i fondi potrebbero essere erogati in maniera più compiuta «tra uno o due mesi attraverso un altro provvedimento, che potrebbe essere anche un decreto legge». A spiegarlo è il sottosegretario ai Beni Culturali, Francesco Maria Giro che argomenta così la decisione del governo: «Pur essendo l’emendamento su Pompei di fondamentale importanza per il sito, l’esecutivo ha deciso di ritirarlo per non stravolgere, come è accaduto in passato, la natura del decreto milleproroghe che, come si evince dal nome, dovrebbe contenere solo proroghe». Ufficiale comunque «l’intenzione di ripresentarlo» con l’inserimento di nuove norme che «daranno la possibilità alla Soprintendenza di Pompei di arginare il sistema burocratico, che appesantisce l’azione dei soprintendenti, dandole maggiori poteri per quanto riguarda spese, appalti e cantieri. Nonostante il blocco del turn over del pubblico impiego, la Soprintendenza avrà la possibilità di assumere nuovo personale.

Teniamo presente - ha concluso Giro - che gli scavi di Pompei avrebbero bisogno di almeno una trentina di archeologi». «Si tratta di una bocciatura tecnica e non politica» aggiunge il senatore del Pdl Lucio Malan, relatore dell’emendamento su Pompei. E aggiunge: «Se avessimo saputo della bocciatura avremmo evitato di presentarlo». Infine un riferimento a possibili finanziatori privati: «Se si facesse vivo qualche sponsor il governo sarebbe legittimato a fare un decreto ad hoc che ne consentisse l’immediato coinvolgimento». E ora, da dove si ricomincia? «Bisogna chiederlo al ministro Bondi» conclude il senatore del Pdl. Sempre per il fronte Pdl va registrata la posizione della senatrice Diana De Feo: «Il problema di Pompei non è assolutamente legato ai fondi. I soldi che il sito incassa dalle visite non solo gli bastano ma addirittura gli avanzano, visto che il Tesoro ha ritirato dalle casse degli scavi 70 milioni di euro, perché non erano stati spesi. Decine di architetti e ingegneri dell’università di Napoli sono poi pronti a mettere gratuitamente a disposizione le loro capacità per studiare a fondo la situazione».

Argomentazioni opposte arrivano dal dal Pd che, attraverso Vincenzo Vita (vicepresidente della commissione Cultura al Senato) annuncia che, dopo il ritiro dell’emendamento deciso dal governo, «sarà il Partito democratico a presentare in Parlamento un disegno di legge per la conservazione e la valorizzazione del sito archeologico». Lo stesso Vita, tra l’altro, ha anche dichiarato di non credere all’intenzione del governo di riproporre il provvedimento tra un paio di mesi, e di vedere «nella decisione del suo ritiro dal milleproroghe solo la conferma della totale assenza di una politica culturale negli atti e nelle scelte dell’esecutivo». Stessa linea che arriva dai sindacati. «Quella che sembrava una emergenza nazionale si legge in una nota della Uil - si è invece rivelata una ennesima boutade. Questo significa che ancora non esiste un piano per Pompei». Infine la Cgil Campania che, in una nota, esprime «contrarietà alla posizione espressa dal presidente della Regione circa l’orientamento che il sito di Pompei debba essere gestito più dai privati che dal pubblico».

La notizia è che uno dei forzieri con cui in anni di dominio, influenza e sviluppo vigilato l'Occidente ha regolato il rapporto Centro-Periferia sta cedendo a una pressione ormai fuori controllo. L'ampiezza del fenomeno è tale da offuscare i casi singoli. Non ci sono più alcuni «cattivi» spazzati via o sul punto di essere travolti dalla protesta delle rispettive piazze con il loro carico di frustrazioni, disoccupazione e voglia di libertà. Il contagio può aver fatto da detonatore ma all'origine ci sono cause più profonde. È sul punto di crollare un intero sistema di «sicurezza» che andava ben oltre la tutela degli interessi personali, clanici o dinastici di rais, generali, colonnelli e sceicchi. E quando sarà il turno dell'Arabia Saudita?

Finita l'epoca coloniale, il Terzo mondo è stato oggetto di un presidio accurato. Man mano, nel mezzo secolo della guerra fredda è toccato all'America centrale, al Sud-Est asiatico o all'arco della crisi in Africa di occupare il proscenio, ma il Medio Oriente è stato l'epicentro fisso di tutte le strategie di contrasto.

Il primo conflitto dopo il 1989 ha avuto come teatro il Golfo. Si intuì subito che il neo-impero stava traslocando gli apparati militari e para-ideologici da Est a Sud. Dal contenimento dell'Urss e della rivoluzione si passò all'Iraq, all'Iran e finalmente alla «guerra al terrore». Di volta in volta si è trovata la causa per legittimare il «grosso bastone». Si è creduto che gli alti e bassi nel Medio Oriente andassero misurati con parametri di tipo culturale fingendo che le dinamiche sociali e politiche interne, con tutti gli impedimenti che rendono così ardue le transizioni alla modernità di paesi arretrati e soggetti da tempo a forme svariate del potere altrui, non fossero condizionate e manipolate da forze esterne. L'orientalismo come approccio agli affari del mondo arabo-islamico ha dimostrato di auto-riprodursi fino a oggi. Non per niente Bernard Lewis, il principale bersaglio delle polemiche innescate dal famoso libro di Edward Said, è ricomparso come consulente nelle guerre di Bush che Obama ha dovuto coprire perché nel frattempo si è trovato a farle proprie.

Né i «moderati» alla Ben Ali né i «radicali» alla Gheddafi hanno retto alla prova. Gli oneri sulle spalle dei regimi della Periferia sono esagerati sia in termini economici che in termini morali. Alla lunga diventano insostenibili. Qui si può capire la contestualità delle vampate. Sono stati impiegati metodi autoritari, la distribuzione della rendita è stata iniqua, la crescita dell'economia non ha tenuto il passo della demografia. Mubarak e gli altri non sono stati semplicemente appoggiati da Europa e Stati Uniti: hanno combattuto una guerra, silenziosa o rumorosa a seconda dei momenti, per difendere il petrolio, le grandi linee di comunicazione internazionali, Israele e da ultimo le nostre spiagge dagli sbarchi dei clandestini.

È ingeneroso infierire contro Berlusconi, piccola rotella di un meccanismo tanto più grande di lui. Per colmo d'ironia, a ballare mentre il Titanic va verso l'iceberg del destino non sono i passeggeri ignari ma lo stesso comandante in capo visto che gli Stati Uniti proprio in questi giorni hanno bocciato con il veto l'ennesima, vana risoluzione dell'Onu sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Come sempre, i grandi eventi si accompagnano a piccoli vizi.

Ci sono comuni noti in Italia per la qualità delle loro politiche: ad esempio, Cassinetta di Lugagnano, il comune zero consumo di suolo o il comune di Peccioli che detiene il record toscano e forse nazionale per la raccolta differenziata. Anche il comune di Casole d’Elsa, almeno a livello toscano, rivendica un primato, ma in concorrenza con le peggiori amministrazioni: quello dell’ente locale che nell’arco di dieci anni o poco più ha compiuto il maggior numero di operazioni illegittime: contro la legge di governo del territorio, contro il PIT e il PTC di Siena, contro le normative paesaggistiche e ambientali e perfino contro le disposizioni del vincolo idrologico. Dieci anni di mala urbanistica e mala edilizia, durante i quali la Regione Toscana, nonostante le relazioni dei propri uffici che indicavano la non sanabilità degli abusi promossi dal Comune , nonostante gli avvisi di reato (32 fra tecnici e amministratori) e i sequestri della Procura della Repubblica, ha continuato imperturbabile a coprire le malefatte dell’amministrazione e degli speculatori che con questa fanno tutt’uno. La Variante del Piano strutturale, ora adottata, è un suggello che vorrebbe mettere una pezza sulle porcherie pregresse. Il tutto condito con la solita retorica che condiziona lottizzazioni e nuovi usi di suolo al massimo impegno nella tutela del paesaggio.

Il grande protagonista di tutte le vicende è Piero Pii, già vicepresidente del consiglio regionale toscano, in buoni rapporti con Riccardo Conti, ex assessore al territorio e infrastrutture della Regione. Pii è sindaco di Casole d’Elsa, per l’allora Pds, dal 1994 al 2004, mentre nel 2004 come continuatrice del tracciato di mala urbanistica gli succede Valentina Feti (Ds), precedente vicesindaco. Nel frattempo la società Castello di Casole, promotrice di varie iniziative immobiliari e proprietaria di aree nel comune, dà l’incarico a Pii, per 140.000 euro l’anno, di seguire le proprie pratiche urbanistiche ed edilizie presso il Comune. A perfezionare il tutto, nel 2009 Piero Pii si presenta di nuovo alle elezioni, questa volta contro il suo ex partito, a capo di una lista civica appoggiata dal Pdl e, diventato sindaco per una manciata di voti, adotta una Variante al Piano strutturale destinata far scuola su come si aggirino le norme urbanistiche. Una Variante, si è detto, che vorrebbe sanare le precedenti malefatte e compensare i privati ‘penalizzati’ dai sequestri dalla Procura della Repubblica.

Affinché i lettori di eddyburg possano apprezzare pienamente l’operato del Comune e il ruolo politico della Regione dobbiamo, rapidamente e omettendo molti particolari e aggravanti, accennare all’operazione cardine di dieci anni di mala urbanistica, un Piano integrato di intervento (P.I.I, come il suo ispiratore) la ‘madre’ di molti degli abusi urbanistici edilizi, paesaggistici e ambientali che sanciscono il primato negativo di Casole. Il Piano integrato di intervento è uno strumento urbanistico che per legge dovrebbe durare non oltre il mandato dell’amministrazione promotrice, finalizzato a realizzare opere pubbliche (strade, infrastrutture, spazi collettivi, ecc.), mentre i privati possono proporvi l’inserimento di loro progetti non oltre il termine perentorio di 60 giorni dalla data di approvazione del piano. Il Comune di Casole, infischiandosene della legge, tiene invece aperto il piano ‘sine die’, inserendovi via via gli interventi richiesti dai promotori immobiliari, difformi dal PS ma regolarmente pubblicati sul Bollettino ufficiale della Regione. Fra questi spicca il piano di recupero di San Severo, inserito nell’aprile 2004 (quindi 3 anni dopo la scadenza ‘perentoria’), e approvato nel 2005.

Il piano ‘recupera’ un podere con due case coloniche, stalle e altri annessi per un totale di 5.860 mc trasformandolo in edilizia residenziale a villette per 7.530 mc (Il P.I.I. prescriveva che la volumetria del piano di recupero non dovesse superare quella esistente), ma il Comune generosamente rilascia permessi per quasi 11.200 mc e i costruttori, non contenti, ne realizzano più di 12.000 divisi in 55 appartamenti. Osserva, a tale proposito, il dott. Formisano, Sostituto Procuratore presso il tribunale di Siena, che “è evidente che in tanto l’impresa ha edificato oltre il consentito in quanto era certa che l’Amministrazione avrebbe comunque assentito ogni eventuale abuso. I rapporti con l'Amministrazione erano di tale natura che mai vi sarebbe stato un controllo con successivi provvedimenti di demolizione degli abusi realizzati. Il silenzio serbato dell'Amministrazione, che si è limitata ad attendere gli sviluppi delle indagini ed a porre in essere solo gli accertamenti obbligati, dimostra in modo evidente la volontà di ridimensionare le condotte poste in essere dagli indagati. Appare sin troppo evidente che si ignorano le responsabilità e gli obblighi che la normativa urbanistica riserva agli uffici comunali in materia”.

Intanto, di fronte a incriminazioni, sequestri, ricorsi al Tar, denunce di comitati, di cittadini, circostanziate ricostruzioni delle vicende da parte di Italia Nostra, articoli di giornale, inchieste televisive, pareri negativi dei suoi stessi uffici, la Regione si tappa gli occhi, le orecchie (e il naso), rimanendo inerte e continuando a pubblicare sul proprio Bollettino ufficiale le varianti al Regolamento urbanistico (complessivamente 24), al P.I.I. e al Piano di recupero, che via via il Comune approva in un quadro di totale illegalità.

Gli abusi edilizi si sommano, perciò, agli abusi urbanistici che, a loro volta, si inquadrano in una sostanziale difformità del Regolamento urbanistico approvato nel maggio del 2001 rispetto al PS vigente, le cui previsioni, come viene ammesso nella Relazione della Variante al Piano strutturale del novembre 2010, superano largamente quelle consentite.

Arriviamo ai nostri giorni: venendo a mancare le coperture politiche, la situazione diventa insostenibile per l’amministrazione comunale. Nel giugno 2010 viene, perciò, approvata una Variante di ‘assestamento’ al Regolamento urbanistico che sostanzialmente conferma, con qualche ridimensionamento minore, le previsioni del precedente Regolamento, mettendole ‘in salvaguardia’: vale a dire ‘congelandole’, in attesa che una Variante al PS sani la situazione, ratificando quanto anticipato in quella di assestamento.

Siamo giunti, quindi, alla Variante al PS, adottata nel novembre del 2010 che ha l’obiettivo di ‘sdoganare’ le operazioni messe in salvaguardia. Il dimensionamento residenziale è basato su una previsione di crescita della popolazione da 3 860 a 5 660 unità (il 50%) pari a 180.000 mc di edificazione, quasi tutta nuova. A questo dimensionamento ‘domestico’ si sommano 1.440 posti letto per attività turistico ricettive - pari a 120.000-140.000 mc, - che si vanno ad aggiungere ai 380 posti letto esistenti, con un incremento quasi del 400% (saranno tutti confermati nella destinazione?). Infine la Variante prevede addirittura 210.000 mq di superficie coperta per attività artigianali/industriale e commerciali/direzionali; ciò significa un impegno di suolo circa 70 ettari e implicherebbe un’occupazione, a regime, di circa 3.500-4.000 addetti. Si tratta evidentemente di previsioni ipertrofiche, non sorrette da alcuna analisi della domanda (le aree industriali presenti sono solo parzialmente utilizzate). O meglio, la stima della domanda residenziale è basata su un incremento di quasi novecento residenti nell’ultimo decennio, attirati da altri comuni con l’offerta di case: si offrono abitazioni si aumenta la popolazione e sulla base di questo aumento si ipotizza una nuova domanda (mentre è evidentemente l’offerta che comanda), un vecchio trucco che premia i comuni meno virtuosi.

Ciò che, tuttavia, maggiormente stupisce è l’assenza nel PS di qualsiasi analisi sulla dotazione di risorse, forse contenuta nella Valutazione strategica che dovrebbe essere allegata al piano, ma di cui il garante alla comunicazione del Comune non ha dato notizia. Ma, in un’ottica ancora più complessiva, è tutto il Piano strutturale – variante o non variante – che tradisce non solo la norma, ma lo spirito della legge di governo del territorio e del PIT, con buona pace dell’invariante strutturale ‘patrimonio collinare ‘ che in quella parte di territorio vieta lottizzazioni residenziali. Basti dire che, incredibilmente lo Statuto del territorio (che nelle NTA viene ancora chiamato ‘dei luoghi’) non contiene né l’individuazione delle invarianti, né una qualunque disciplina di tutela ambientale e paesaggistica, limitandosi a indicazioni generiche, non statutarie, e rimandando ogni eventuale disciplina al Regolamento urbanistico. La Variante al PS ha, evidentemente, un unico scopo: tentare di sanare il cumulo di atti illegali pregressi, mettere al riparo i responsabili dalle incriminazioni passate e future della Procura della Repubblica e accontentare società immobiliari e costruttori.

La Variante ora adottata dovrà essere esaminata dagli uffici della Regione. Sarà interessante vedere se questi non avranno nulla da obiettare (come è avvenuto in passato in tutto l’iter del Piano integrato di intervento e delle varianti al regolamento urbanistico) o se la Regione eserciterà il suo ruolo di garante del rispetto della legge nei confronti dei cittadini. I quali confidano che la nuova amministrazione regionale segni un punto di svolta in materia urbanistica rispetto a quella precedente.

Qui il link ai documenti della Variante, per valutare e, se credete, presentare osservazioni

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