“Due strade si separavano nel bosco/e io ho preso la meno battuta/e questo ha cambiato ogni cosa”, scrisse il poeta Robert Frost. A Daniele Kihlgren è successo davvero, ha trovato un bivio che somigliava tanto al destino e gli ha cambiato la vita. “Ero in Abruzzo, stavo facendo un giro in moto”. La strada che si arrampica sul Gran Sasso, tra prati dove puoi incontrare cavalli lasciati liberi al pascolo con l’erba che comincia lentamente a ritrovare il verde. Decine di bivi, ogni volta il dubbio, destra o sinistra. Finché la sua moto si lascia guidare dalla discesa fiancheggiata dal rosa dei mandorli in fiore e Daniele si trova lì: “Davanti a me ho visto quella torre, le case. Mi sono detto: questo sarà il mio borgo”.
Già, perché Daniele, un ragazzone che oggi ha 44 anni, ma l’entusiasmo che vorrebbero avere i ventenni, dentro di sé aveva un sogno: “Volevo trovare un paese, ancora intatto, e riuscire a riportarlo com’era. Le case, ma anche la vita. Senza un euro di contributi pubblici”.
E quel borgo aspettava proprio lui. Era Santo Stefano di Sessanio, un grumo di case arrampicate sulle pendici del Gran Sasso. Per capire come Daniele ha realizzato il suo sogno bisogna lasciarlo parlare, con quei suoi pensieri che ricordano gli studi di filosofia e l’accento lombardo che invece ti dà un’idea di sana concretezza. Poi ci sono le origini mezze svedesi, rigore e sincerità senza ombre. Ecco, Daniele è un idealista pragmatico. Soltanto una persona così poteva far rinascere un paese coinvolgendo gli abitanti. Ma soprattutto salvandone l’identità, parola che Daniele ripete spesso, come un mantra.
Un filosofo, persona normale
Ma perché ha scelto Santo Stefano di Sessanio? Kihlgren si guarda intorno, è già una risposta: non si vedono che prati, bianchi d’inverno quando la temperatura a 1.200 metri scende a meno venti, di un giallo ineguagliabile in primavera. Poi monti: il Gran Sasso, sulle spalle ne senti l’enorme massa. E la Maiella a segnare l’alba, il Sirente dove il sole tramonta. Intorno non c’è un abitato. Di notte è solo buio.
“Comprai un rudere, poi altri. Non costavano niente”, racconta. Basta vedere le vecchie fotografie di Santo Stefano per rendersene conto. Dopo gli anni ‘50 il Borgo aveva cominciato a spopolarsi, con le bestie non ci si campava più. Era una vita dura spostarle ogni stagione, dal Gran Sasso fino al Tavoliere delle Puglie.
“Negli anni Ottanta si è cominciato a pensare al turismo”, spiega Elisabetta Leone, il sindaco di queste 120 anime. Aggiunge: “Ma ci voleva un progetto. Finché è arrivato Daniele”. Sì, in paese lo chiamano per nome. Kihlgren non ha grandi imprese alle spalle, è solo con gli abitanti del paese. Con loro si mette a ristrutturare le case che ha comprato. “Utilizziamo materiale del luogo, spesso di risulta. Niente cotto che fa chic, ma qui non c’entra. All’interno i mobili contadini risistemati”.
È lo stesso Daniele che spiega lo spirito del suo lavoro:“Non sono un architetto, ho studiato filosofia, ma sono soprattutto una persona normale”. Aggiunge: “Sarebbe straordinario riuscire a recuperare il patrimonio storico minore. In Italia ci sono 2.500 borghi abbandonati e oltre 15.000 compromessi. E noi li lasciamo andare, la storia per noi sono i grandi imperi, i monumenti solenni. Invece la vita dell’Italia è anche questa, di semplici paesi, luoghi poveri”.
Teorico, ma anche concreto: “Il recupero del patrimonio è anche un’occasione per l’economia. E alla fine la gente se ne accorge: arriva il lavoro e le case, se recuperate bene, valgono molto di più”. Con una sola condizione: “In luoghi come questi non si deve costruire più nulla. Cemento zero. In Italia continuiamo a costruire e ci sono milioni di case vuote. I costruttori devono trasformarsi in restauratori”.
Alla fine il progetto ha preso corpo: “È nato un albergo diffuso, con le stanze disseminate nelle case, così che gli ospiti potessero vivere in mezzo alla gente del paese e far rivivere il borgo”.
Camping, ristorante e cinque bambini
L'entusiasmo di Daniele è stato contagioso: lui possiede un sesto delle case di Santo Stefano, ma anche gli altri abitanti hanno cominciato a restaurare, con la stessa cura. E sono ritornati i negozi, i locali. Racconta Elisabetta Leone, il sindaco: “Abbiamo 120 abitanti, l’emorragia della popolazione si è fermata. Ma soprattutto molti di noi possono lavorare qui. La disoccupazione quasi non esiste”. Davide De Carolis è arrivato per aprire un camping. Francesca Pasquali e il suo compagno Vittorio De Felice hanno messo su il ristorante “Tra le braccia di Morfeo”. Raccontano: “Abbiamo clienti da tutto il mondo”. Tra i trentasei tavoli, vengono serviti agnello scottadito, formaggi di Castel del Monte, paccheri con la zucca. Ti capita di incontrare reali del Belgio tra i comuni visitatori. Insomma, Santo Stefano di Sessanio sta rinascendo davvero, anche se i bambini sono solo cinque, ma l’anno scorso è nata Giulia Cesare. Tutto così semplice? “Sì, si potrebbe replicare ovunque”, è convinto Kihlgren. E racconta: “Ho ricevuto 600 mail da paesi che vogliono affidarsi a noi. Ma non posso. Oggi stiamo lavorando in otto borghi e soprattutto ai Sassi di Matera. Vorrei diffondere gli alberghi diffusi, soprattutto nei borghi sconosciuti e meraviglio-si della Calabria”.
Tutti d’accordo? “A volte abbiamo paura che il nostro paese diventi un borgo per vip. Che i vecchi abitanti vendano le loro case ai turisti”, sussurra qualcuno nel bar di piazza Mediceo. Kihlgren è sicuro che non sarà così: “Noi siamo l’opposto del Chiantishire. La ricetta è semplice: identità e cura. Bisogna mantenere le costruzioni e gli arredamenti, ma anche i cibi, insomma la cultura. E soprattutto le persone”.
Una cura contro il sisma
Già, la cura è il segreto che ha salvato Santo Stefano di Sessanio dallo spopolamento e, due anni fa, anche dal terremoto. Aprile 2009: il sisma devasta l’Abruzzo, decine di paesi vengono rasi al suolo. Santo Stefano no, le case restaurate con la massima cura subiscono danni minimi. Crolla solo l’antica torre medicea. Perché? “Più di dieci anni fa – racconta Camilla Inverardi, noto architetto dell’Aquila – c’era stato un intervento pubblico per realizzare un belvedere in cima alla torre. Il legno era stato sostituito con una soletta di cemento”.
Gli antichi costruivano meglio di noi? No, secondo Daniele: “La scienza strutturale è andata avanti, l’etica, però, è tornata indietro”.
Nota: in effetti l'iniziativa di recupero abruzzese non è cosa nuova, qui su eddyburg.it parecchi anni fa abbiamo già riportato un esauriente articolo da la Repubblica (f.b.)
L'ultima è stata la Avellino-Rocchetta, chiusa a dicembre dopo il taglio dei fondi della Regione Campania. Ma la storia delle ferrovie italiane è quella di una grande dismissione. Celebrata da una giornata con passeggiate e manifestazioni. Tra amarcord, proteste e il boicottaggio di Trenitalia
Se uno avesse voluto vedere dove albergano la dignità, la sobrietà, il coraggio, la speranza nel futuro, la capacità di attingere dalla saggezza del passato, allora sarebbe dovuto andare, domenica 6 marzo, giornata nazionale delle ferrovie dimenticate, a Rapone, piccolo comune lucano dirimpettaio dell'Alta Irpinai e agli inizi del vasto comprensorio del Vulture, terra naturalisticamente e storicamente ricca. Rapone condivide con Ruvo del Monte e San Fele la piccola stazione della tratta ferroviaria Avellino-Rocchetta Sant'Antonio (Fg), dall'11 dicembre scorso chiusa da Trenitalia dopo il taglio dei fondi da parte della Regione Campania. È una delle tredici stazioni, su trentatré complessive della tratta, non soppresse, almeno fino al dicembre scorso. Adesso è iniziata, ma in realtà bisogna dire che non si è mai fermata, una lotta tutta in salita per il ripristino della linea, storico lascito di impegni iniziati nella seconda metà dell'Ottocento (la ferrovia fu poi inaugurata il 25 ottobre del 1895), che ha visto come protagonisti tanti tra cui Francesco De Sanctis (nel paese d'origine, Morra, in Alta Irpinia, c'è una delle stazioni), e Giustino Fortunato.
La giornata è stata organizzata dal gruppo "In loco motivi", che ha lavorato da un paio d'anni alla difesa di questa linea e ai tantissimi viaggi di conoscenza fatti con un pubblico attento e curioso che ha imparato a conoscere il territorio in modo del tutto diverso. È iniziata, però, con l'amarezza di aver dovuto rinunciare al treno (Trenitalia, che pure sponsorizza la giornata, ha chiesto una cifra esorbitante) e alle tante prenotazioni di un viaggio concepito anche come celebrazione del centocinquantenario dell'Unità d'Italia. Col bus gran turismo non è la stessa cosa, ma molti non hanno voluto rinunciarvi. E hanno fatto benissimo. Perché il senso di solidarietà e resistenza che si è respirato nella giornata, contro una decisione vissuta come ingiusta e impoverente per un territorio che del turismo vuol fare la sua cifra futura, ha dimostrato tutto il suo valore. Appena lasciata la stazione di Avellino, la ferrovia si costeggia, sulla rotabile, un po' da lontano e un po' da vicino.
I commenti e i racconti sono tanti. In viaggio c'è il cerimoniere, cioè Pietro Mitrione, ex ferroviere e organizzatore del gruppo degli amici della linea, impegnatissimo come sempre per la salvezza e lo sviluppo di questa creatura a cui sta dedicando tanto del suo tempo. C'è Anna Donati, ex parlamentare e storica ambientalista oltre che saltuariamente collaboratrice del nostro giornale, che ha occupato il posto di dirigente dell'Acam (Agenzia Campana per la Mobilità sostenibile) per due anni in Regione Campania ed è sempre stata molto attenta alle ferrovie, da grande "aficionada" del treno che si vanta di aver preso ovunque. C'è Valentina, architetto e studiosa della tratta, altra super impegnata nel gruppo di lavoro attorno alla Avellino-Rocchetta, che distribuisce copie del suo bel calendario «In loco motivi - Il treno irpino del paesaggio», che porta anche l'intestazione storica da non dimenticare «Il treno, non l'aereo, ha fatto l'Italia». Ricco di foto che documentano la straordinarietà di quest'opera tra ponti grandi e piccoli di mirabile fattura, belle visioni naturalistiche, passaggi da un territorio all'altro con grande varietà di natura, come si addice del resto ad una linea che attraversa tre regioni (Campania, Basilicata, Puglia). Ci sono poi tante persone che non hanno voluto rinunciare al viaggio per sostenere una battaglia che soltanto i miseri tifosi di un vecchio modello di sviluppo possono ritenere nostalgica.
È in realtà una battaglia d'avanguardia, di chi vuole testardamente dare un futuro diverso a se stesso e ai propri figli. Un futuro ricco di possibilità, di conoscenza, persino di apertura a mondi nuovi. C'è poi Simona, studentessa che deve mettere in piedi la tesi di laurea sulla tratta, ed è più gasata che mai. Il tempo non è bello, fa freddo, c'è nebbia e ogni tanto riprende a piovere. Ma, all'arrivo a Rapone, tutto cambia e il tempo inclemente diventa del tutto secondario, a riprova che la fiducia delle persone nel futuro può muovere qualsiasi ostacolo. In piazza e davanti al Municipio c'è una festa coloratissima fatta di curiosità, banda musicale, gruppo folk, straordinari piatti della tradizione più antica (diciamo un superamento a sinistra del biologico tipico), soprattutto tantissime donne tra i musicisti e le persone accorse. A partire dalla vitale sindachessa, Felicetta Lorenzo, che ha accolto tutti con garbo e gioia e ha iniziato un discorso che si vorrebbe sentire in ogni borgo d'Italia di questi tempi. «Bisogna dare dignità alle ferrovie minori. La nostra è stata da poco sospesa, ma adesso occorre lanciare la sfida delle tratte come patrimonio nazionale. Non solo per i viaggi ma per godersi quello che oggi è un lusso, cioè il tempo. E io invito tutti a guardare dalla nostra ferrovia le bellezze discrete del nostro paesaggio». Anna Donati prende la parola: «Sono qui perché sono un'amante delle ferrovie. In questi anni, in cui c'era lo sport di dismettere, abbiamo vinto una battaglia, perché adesso è molto difficile che non ci sia una sensibilità nuova anche da parte dei vertici delle ferrovie sulle tratte dismesse. Per due anni ho fatto il dirigente della mobilità in Regione Campania e quando mi giunse la telefonata degli amici della Avellino-Rocchetta immediatamente li ho invitati. Avevo già visto in Sardegna, in Val d'Orcia e altrove il grande successo avuto dai treni delle tratte paesaggistiche. Ed è del tutto spiegabile: viviamo un tempo in cui davvero non se ne può più del degrado ambientale. Qui c'è cibo genuino, aria salutare e tante altre cose, cioè tutto ciò che può fare il successo come altrove. Purtroppo la manovra Tremonti ha tagliato i servizi per i trasporti e per questo la nuova direzione politica della Regione ha chiuso questa linea». «Che fare adesso? - riprende Donati - Certo tutti dicono di sì a questa tratta, ma non sono sufficienti le parole. Bisogna mettersi insieme con la consapevolezza che tutte le ferrovie sono sostenute, in tutto il mondo. Queste strutture poi sono un patrimonio in sé. E, del resto, quanti territori in Italia, apparentemente abbandonati, oggi sperimentano proprio su quel presunto abbandono la loro fortuna? Importante è adesso strappare un piccolo, concreto, impegno nei luoghi dove le decisioni si prendono. Non arrendiamoci. Ce la possiamo fare e la gente è con noi se vede questo impegno. È anche un modo degno di consegnare alle nuove generazioni questi patrimoni».
Pietro Mitrione, che ha la passione dell'ex ferroviere che su questa linea vi ha lavorato, prende la parola mentre l'atmosfera si fa commovente: «Vogliamo tenere vivo un territorio che è un unicum. Questa quarta giornata delle ferrovie dimenticate vuole essere una protesta civile. La cosa che unisce i nostri territori è la ferrovia, incomparabile dal punto di vista turistico. Ci ritorneremo col treno e con gli studenti. Quando ho visto la banda e tante donne in essa ho subito pensato che dove ci sono le donne le cose hanno una marcia diversa». «L'impegno che prendiamo qui - aggiunge Mitrione - è quello di continuare. Nella protesta civile, certamente, anche se sappiamo nomi e cognomi di quelli che hanno deciso la soppressione di questa tratta». La banda riprende a suonare, stavolta l'inno nazionale, e c'è commozione in tanti. La gioia riprende per le strade del paese e sfida il tempo inclemente. Gustosissimi piatti da assaggiare, visita al borgo con acquisti vari, il gruppo folk che suona e canta, e un arrivederci senza perdersi di vista. Con un augurio unico: che la linea ferroviaria, di cui tutti hanno compreso il valore grande, come delle cose che hanno una storia lunga, riprenda a vivere e sviluppi i suoi progetti per troppo tempo lasciati dormienti.
Andiamo nelle piazze per difendere la Costituzione e la scuola pubblica. Perché pensiamo che l’Italia, che noi tutti, non ne possiamo fare proprio a meno. E non ne possiamo fare a meno perché sono due cose che hanno la rara qualità di essere, ad un tempo, vitali e sacre. Vitali perché consentono a un organismo complessissimo – quale è la società – di regolarsi e di continuare a vivere nel tempo, generazione dopo generazione. Sacre perché contengono le qualità simboliche che permettono di tenere insieme una comunità fatta di milioni di persone diverse secondo un diritto che è uguale.
La nostra Carta sa mettere insieme, in modo chiaro, non solo i diritti e i doveri ma «quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi» – come scriveva Piero Calamandrei. In questi anni abbiamo vissuto e stiamo vivendo un tempo Grave non perché si è pensato o si pensi di cambiare questa o quella parte della Costituzione, cosa del tutto prevista dalla Carta stessa. E normale col passare del tempo. Se fatta per concorde adesione. Il tempo grave che viviamo è dato dal fatto che si stanno continuamente attaccando proprio “quegli organi” – e il delicato equilibrio tra di essi – «attraverso i quali la politica si trasforma in diritto». Questo non deve accadere. E siamo qui per impedirlo. Perciò: non si tratta di una battaglia di parte né di conservazione. È una battaglia per tutti, anche per quelli che oggi non lo vogliono capire. Ed è una battaglia che permette di continuare a cambiare. Perché c’è la certezza del come farlo, delle condizioni entro le quali le trasformazioni non diventano distruzioni, non minacciano la casa comune.
La nostra scuola ogni mattina mette insieme i mondi interiori di ogni bambino e ragazzo che sta crescendo con quello di ciascun altro e, al contempo, con l’universo mondo, le sue leggi, la sua storia, i suoi problemi e i molti alfabeti che servono a leggerlo. È in questa doppia funzione – mettere insieme persone diverse e apprendere – che vi è vitalità e sacralità.
La scuola è chiamata ad assolvere a questo suo compito in modi nuovi. E deve trasformarsi proprio perché sono mutate e stanno mutando sia le condizioni dello stare insieme tra diversi sia il mondo sia gli strumenti attraverso i quali lo si guarda e lo si può capire, salvaguardare e cambiare. Il tempo grave che stiamo vivendo è dato dal fatto che si metta in discussione la scuola nel suo carattere pubblico e protetto – e, dunque, altro da casa - nel quale ci si confronta tra diversi ed uguali mentre si sta crescendo e si sta imparando a stare al mondo e a conoscerlo. Anche per la scuola questa non è una battaglia di parte né di conservazione. È per tutti e per ciascuno. Ed è per consentire che la scuola, salvaguardata, possa cambiare.
ROMA - Preti, costruttori, calciatori, avvocati. E poi circoli canottieri, associazioni culturali, malavitosi vari, e persino ristoranti e discoteche. Due cd insabbiati in un ufficio del Campidoglio per mesi, con dentro tutta "la Roma che conta". Eccolo il libro nero dell´abusivismo edilizio, l´indice dei "furbetti del terrazzino", e della verandina, del garage, della villetta, dell´appartamento extra lusso, dell´intero condominio. Una colata di cemento frazionata in 12.315 abusi che Repubblica è in grado di documentare.
LA CASTA DEL CEMENTO
Nomi, cognomi, indirizzi, inequivocabili foto aeree da quattro prospettive diverse, scattate prima e dopo l´abuso. Costruzioni fuorilegge in centro, a due passi dal Colosseo, in periferia, nei parchi protetti, in zone con vincoli paesaggistici così stretti che anche tirare su una cuccia per cani è un crimine. Strutture illegali tenute in piedi dalla pretesa di ottenere prima o poi l´assoluzione definitiva, che in edilizia si chiama appunto condono. L´hanno chiesto tutti. Anche di fronte a situazioni palesemente non sanabili. Come l´appartamento con terrazza e tendoni sbocciato all´improvviso su un tetto a ridosso di Piazza Navona, o la villa in marmo con piscina stile "Scarface" eretta di nascosto spianando trecento metri quadrati di bosco nel parco di Veio.
Il bello è che il comune di Roma sa tutto. Ha sempre saputo tutto. Perché sono stati gli stessi proprietari, certi dell´impunità, ad "autodenunciarsi". Hanno inoltrato la domanda di condono e così si sono iscritti nella lista degli abusivi, sulla base della quale l´amministrazione avrebbe dovuto "ripulire" la città dagli scempi, o quanto meno trarne qualche vantaggio economico, acquisendoli.
E invece il più immobile di tutti è stato ed è tutt´oggi il sindaco Alemanno. La lista fa la muffa da marzo dello scorso anno. Nemmeno un atto è stato notificato. Ruspe in deposito, vigili urbani ai semafori, abbattimenti zero. L´elenco contenuto in quei due cd si riferisce al terzo condono edilizio concesso dallo stato italiano, quello del 2003 (governo Berlusconi), intervenuto dopo le sanatorie del 1985 e 1994. Al comune di Roma arrivarono in tutto 85 mila richieste. Gemma Spa è la società privata che ha avuto l´incarico di valutarle, con l´ausilio di un sistema a fotografia aerea che ha mappato dall´alto, metro per metro, tutto il territorio romano tra il 2003 e il 2005. Un lasso di tempo non casuale: la normativa sul condono (L. 326/2003) concedeva la possibilità di sanare soltanto gli abusi ultimati tassativamente prima del 31 marzo del 2003.
Nel giugno scorso, poco prima che le venisse ritirato il mandato apparentemente perché incapace di smaltire il monte dei fascicoli ai ritmi concordati, Gemma consegna ad Alemanno il frutto del proprio lavoro, la lista dettagliata delle "reiezioni", le domande da respingere perché - a vario titolo - violano i termini della legge 326. 12mila manufatti (e Gemma non era arrivata a lavorare nemmeno la metà delle 85 mila domande). Perché così tanti romani hanno chiesto il condono per abusi evidentemente insanabili? Da chi avevano avuto la garanzia dell´impunità?
i protagonisti
Alemanno scorre con gli occhi l´elenco e suda freddo. Sa bene quello che prevede la legge, abbattere o acquisire. E sa altrettanto bene cosa ciò può comportare in termini politici: l´addio a migliaia di voti, alla simpatia dei grandi elettori, alle sintonia con gli ambienti che contano. Tra chi ha provato a fare il furbo chiedendo il condono per una struttura costruita ampiamente dopo il 31 marzo 2003 - i cosiddetti "fuori termine", circa 3.712 pratiche - spunta il nome di Luigi Cremonini, l´imprenditore modenese leader nel commercio della carne e proprietario di tre catene di ristoranti, che dal giorno alla notte si è costruito una terrazza modello villaggio vacanze in uno dei punti più pregiati di Roma, di fronte alla fontana di Trevi. O come Federica Bonifaci, figlia del costruttore Bonifaci (anche editore del Tempo) che ha dato un´"aggiustatina" alla sua casa ai Parioli.
Di vip o anche solo di personaggi e istituzioni in vista nell´elenco ce ne sono a volontà. Si va da Maria Carmela d´Urso, alias Barbara d´Urso al calciatore nerazzurro ed ex laziale Dejan Stankovic, da Luciana Rita Angeletti, moglie del rettore della Sapienza Luigi Frati, all´Istituto figlie del Sacro Cuore di Gesù. Le congregazioni religiose hanno una certa dimestichezza col cemento. Nella lista nera figurano le Suore Ospedaliere della Misericordia, la Procura Generalizia delle Suore del Sacro Cuore, quella delle missionarie di Madre Teresa di Calcutta e la Famiglia dei Discepoli della diocesi romana. Non mancano i templi dove la Roma bene ama riunirsi per celebrare i suoi riti di socialità. Il Parco de´ Medici sporting club, il country club Gianicolo, il Tennis Club Castel di Decima, la discoteca Chalet Europa nel parco di Monte Mario. E nemmeno le ville mono e bifamiliari con piscina dell´alta borghesia, cresciute come gramigna nel parco di Veio, ai lati di via della Giustiniana, la strada più abusata di Roma. Ancora, scorrendo la lista balzano agli occhi decine di società immobiliari, alcuni distributori di carburante della Esso e la sede centrale della "Fonte Capannelle Acque Minerali" nel parco dell´Appia Antica. L´aspetto più buffo o forse drammatico è che nell´elenco dei più furbi tra i furbi compaiono anche molte aziende comunali di servizio, come l´Ama, l´Acea e addirittura Risorse per Roma, la municipalizzata che da gennaio ha il compito di occuparsi proprio delle pratiche di condono.
l´abuso del comune
Ma il top lo si raggiunge con la pratica numero 577264 contenuta nel faldone riservato alle richieste di sanatoria nei parchi. Bene, a guardare sotto la voce "proprietario" dell´abuso si scorge l´incredibile dizione "Comune di Roma" (ovviamente residente in "via del Campidoglio 1"). In sostanza: il Comune è contravvenuto alle proprie regole e poi si è chiesto da solo il condono sapendo benissimo di non poterselo dare. La manovra serviva a "legalizzare" un´opera abusiva in via del Fontanile di Mezzaluna, in pieno parco del Litorale romano dove i limiti all´edificazione sono strettissimi. Come del resto negli altri undici parchi di Roma. Che, ciononostante, sono probabilmente l´obbiettivo preferito dagli speculatori. E forse proprio per questo la Regione Lazio, con la legge 12 del 2004 aveva messo dei paletti all´ultimo condono: «Gli abusi realizzati nei parchi e nelle aree naturali protette - dice la norma - non sono sanabili».
Parole vane. Il comune oggi si ritrova, nero su bianco, 2099 domande (compresa la sua e quelle delle sue aziende) di condono per porzioni di villette, garage, interi fabbricati. Veio, Decima Malafede, Marcigliana, Appia Antica, Bracciano Martignano, Tenuta di Acquafredda. Non uno dei parchi di Roma è rimasto immacolato.
Chi c´è dietro? Ancora una volta l´occhio scorre sugli elenchi e individua i nomi grossi della città. Come Tosinvest spa, la finanziaria della potentissima famiglia Angelucci, i signori delle cliniche private nonché editori di Libero e il Riformista. A nome di Tosinvest spa ci sono tre domande di condono per una struttura aziendale nel parco dell´Appia Antica. In quello di Veio c´è un abuso a nome di Acea Spa, il colosso dell´energia e dell´acqua per metà pubblico (proprietà appunto del comune di Roma), in parte nelle mani del costruttore Francesco Caltagirone. Siccome il giochino era molto semplice, in molti hanno esagerato. Fanno impressione ad esempio le 28 domande di condono chieste per lo stesso indirizzo, via Cristoforo Sabbatino 126: un intero complesso di case in pieno Litorale Romano, a nome di Abitare Srl.
il business del condono
La procura di Roma si è accorta che qualcosa non va. Pochi giorni fa ha sequestrato, negli archivi di Gemma, 5000 pratiche fuori termine. Vuole capire perché non sono state notificate ai proprietari. La verità è che impostate così, con le domande presentate e automaticamente insabbiate dal comune, senza ruspe né multe, senza procedimenti né scandali, le sanatorie edilizie sono uno dei business più redditizi e politicamente più convenienti. Fanno girare soldi, ingrassano le casse delle amministrazioni quel tanto che basta e non scontentano nessuno. Dal 1994 al 2000 (giunta Rutelli) il comune di Roma ha incamerato 383 milioni di euro grazie alle 251 mila concessioni rilasciate per i precedenti condoni. Il successore di Rutelli, Veltroni, è stato anche più fortunato: dal 2001 al 2005 le concessioni, circa 84 mila, hanno fruttato mezzo miliardo di euro. Una montagna di soldi, spalmata in oneri di urbanizzazione e costi di costruzione, sborsata dai proprietari per "perdonare" il mattone nato illegale. Il segreto è non arrivare mai alle demolizioni. Che spezzerebbero la catena di interessi che tiene in piedi tutto. Ma cosa muove la macchina del mattone selvaggio nella capitale? Chi ha voluto che prosperasse indisturbata per anni? Dove si inceppava il sistema dei controlli?
il porto delle nebbie
Prima partecipata dal Comune, poi vincitrice dell´appalto esclusivo per il condono nel 2006 come società privata, Gemma a fine anni Novanta viaggia a una media di 24 mila pratiche, o meglio concessioni, all´anno. Nell´ultimo decennio la media scende a 12 mila, fino alle misere 1103 del 2007. Risultati al di sotto degli standard del contratto di servizio, per i quali comune e Gemma si accusano reciprocamente. «Fino all´agosto del 2009 (quando viene stipulato un nuovo contratto di servizio, ndr) non abbiamo mai avuto accesso libero alle pratiche - sostiene Renzo Rubeo, presidente di Gemma - quelle da lavorare le sceglieva l´Ufficio Condono». Fatto sta che, nonostante la lentezza, Gemma negli anni viene regolarmente pagata fior di milioni, e questo insospettisce i pm romani che mettono sotto indagine tutti i vertici dell´azienda, a cominciare da Rubeo, e gli ultimi due assessori romani all´Urbanistica, Roberto Morassut del Partito Democratico e Marco Corsini, della giunta Alemanno. Il sospetto/certezza degli investigatori è che Gemma fosse un carrozzone, una sorta di Bancomat della politica. E che tutti sapessero delle concessioni troppo facili. Sospetti pesanti, messi nero su bianco da uno degli ultimi direttori dell´Ufficio Condono nominato da Veltroni, l´avvocato Roberto Murra, in un documento confidenziale a uso interno. «Dietro tali procedure - scrive Murra al sindaco nel 2007 - spesso si è nascosta la tentazione di poter agire al limite della norma se non, addirittura, in esse si è annidato il malaffare».
Pure il sistema informatico "Sices" della Unisys, utilizzato per la lavorazione dei fascicoli, è sotto accusa: la Guardia di Finanza ha dimostrato che i dipendenti dell´Ufficio Condono avevano la possibilità di accedervi e modificare i fascicoli senza lasciare traccia. Un porto delle nebbie, appunto, dove ancora giacciono 250 mila pratiche. Secondo Gemma almeno la metà sono da rigettare. Per ora però non si muove una ruspa. E i furbetti dormono sogni tranquilli. Sotto un tetto abusivo.
Titolo originale: Trees slow motorists in urban areas as well as rural – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Alcuni esperimenti nei villaggi rurali dell’area Norfolk - Overstrand, Martham, Coltishall e Mundesley – dimostrano che gli automobilisti rallentano quando gli alberi limitano la visibilità periferica.
Che diminuisce del 20% chi procede a 65-95 kmh, e complessivamente si scende dell’1,5%.
L’associazione Trees for Cities sostiene che anche nelle aree urbane si ottengono i medesimi risultati.
La responsabile Emma Hill spiega:
“Questa ricerca di Norfolk dimostra che gli alberi in area rurale possono rallentare il traffico. E la stessa cosa avviene nelle città.
“Gli studi evidenziano che con le alberature arrivano anche più pedoni nelle vie. E con gli alberi e i pedoni gli automobilisti sono ancora più spinti a rallentare.
“Quindi aumentare sulle strade rurali e urbane gli alberi, che avvantaggiano gli abitanti da molti altri punti di vista, è una economicamente conveniente alternativa alle solite telecamere per rilevare le velocità”.
Il responsabile ministeriale nazionale per la sicurezza stradale Mike Penning aggiunge:
“I risultati delle alberature di Norfolk indicano come sia possibile pensare a soluzioni innovative per la riduzione delle velocità in aree rurali e villaggi, anziché usare le telecamere”,
“Spero che altre amministrazioni locali colpite da questo successo considerino se introdurre piani simili e ridurre gli incidenti sulle proprie arterie rurali”.
Conclude il responsabile sicurezza dell’Automobile Club Andrew Howard:
“Quando c’è un’ottima visibilità le auto esagerano, anche se non è sicuro”.
“Una scarsa visibilità può condurre a qualche sbandamento quando non è chiarissimo il percorso davanti. Con piantumazioni ben studiate si può rimediare a tutto questo”.
Nota: e pensare che il nostro Codice della Strada e relativo dibattito paiono stare su un altro pianeta; il testo originale dell'articolo sul sito Horticulture Week (f.b.)
In dissenso con un buon numero di opinioni lette ieri su giornali di destra di sinistra e di centro - opinioni argomentate, ironiche, pensosissime o sagaci - vorrei spiegare qui in modo chiaro perché ritengo che nessuna riforma della giustizia si possa e si debba discutere con questo governo. Lo dirò in pochissime parole, credo che bastino: non si riforma la giustizia con chi è imputato. Sarebbe certamente urgente e necessario mettersi al lavoro per rendere la giustizia più efficace, per dare più strumenti a chi la amministra. Purtroppo, però, non siamo in condizioni di farlo per via del fatto che il Presidente del Consiglio si trova in questo momento sotto processo come lo è stato innumerevoli volte in passato, quasi senza soluzione di continuità, quasi che la sua passione per la politica fosse in qualche modo collegabile alla sua esigenza di mettersi in salvo dalle conseguenze dei suoi gesti. Quasi che.
Non ci si siede ad un tavolo a discutere di giustizia se dall’altra parte del tavolo c’è qualcuno che con ogni mezzo si sottrae alla giustizia stessa: non è, come posso dire, un interlocutore all’altezza del compito. C’è un conflitto di interesse endemico: il suo interesse ad avere una giustizia che gli convenga confligge a priori, per il solo fatto di esistere, con l’interesse collettivo. Non c’è bisogno di entrare nel merito, anzi non lo si può fare.
Allo stesso modo non si discute di riassetto del sistema radiotelevisivo con chi ne detiene il monopolio, errore già occorso in passato e dal quale evidentemente non si è tratto alcun insegnamento. Semplicemente: si impedisce a chi detiene il monopolio del sistema radiotelevisivo di governare. Poi eventualmente, se costui preferisce fare politica al fare miliardi per la sua famiglia con le sue aziende, allora cede realmente le sue tv, si candida e corre con gli stessi mezzi economici e mediatici degli altri, se eletto diventa un valido interlocutore per discutere persino di tv. O di giustizia, o di scuola, o di impresa.
Se così non fosse - se questo non fosse un principio fondativo delle democrazie rappresentative - a capo dei governi dei paesi occidentali ci sarebbero gli uomini più ricchi dei medesimi paesi, i Murdoch e i Bill Gates, i signori dei colossi informativi sarebbero tutti presidenti e i miliardari corruttori (ce ne sono a tutte le latitudini) anzichè rispondere delle loro malefatte sarebbero tutti lì a riformare i sistemi-giustizia a loro misura. Possiamo dunque annoverare l’esigenza di una vera e rapida riforma del processo fra le ragioni che dovrebbero determinare le dimissioni di Berlusconi e il rapido ricorso alle urne. Non succederà, perché dopo aver permesso che l’uomo col più straordinario potere mediatico ed economico del paese si candidasse alla guida del medesimo non possiamo ora aspettarci che divenga ragionevole, acceda alla causa comune, si interessi al bene di tutti e non pretenda, come deve sembrargli ovvio, di continuare ad occuparsi del suo.
La controriforma della Rai, lanciata da Berlusconi in contemporanea alla controriforma della giustizia e dopo quella della scuola, è a modo suo altrettanto «epocale». Ferrara, Sgarbi e Vespa in prima serata sono infatti roba da anni Ottanta. Vespa, per la verità, anche di epoche precedenti. Giuliano Ferrara, a suo tempo il più interessante del trio, riprenderà il format di Radio Londra, che è appunto del 1988, ma fu presto accantonato da Canale 5 per i bassi ascolti. L’idea di portare Sgarbi e Vespa in prima serata sulle reti Mediaset fu bocciata vent’anni fa da Berlusconi, che non è un pirla, come direbbe Mourinho. Ma il bello di governare l’Italia è che con i soldi pubblici si può fare di tutto e senza problemi. Nominare direttore del Tg1 Augusto Minzolini, al quale un editore sano di mente non affiderebbe una gazzetta locale, per non parlare della carta di credito. Garantire dodicimila euro al mese e un vitalizio a Nicole Minetti, piazzare in Parlamento e ai ministeri le amiche, eccetera. Dunque anche far sprecare alla Rai qualche decina di milioni subito, e molti altri in prospettiva, per garantire un megafono elettorale in prima serata al proprietario dell’azienda concorrente. A Cologno Monzese si saranno sbellicati dalle risa.
Il fallimento economico dell’operazione, in termini di ascolti e pubblicità, è fin d’ora ovvio per chiunque capisca di televisione. Lo scriviamo anche a futura memoria, per quando la magistratura e la Corte dei Conti decideranno d’indagare sul perché la Rai sfrutti i precari per poi buttare centinaia di milioni nei cessi della politica. È vero che l’Italia non è cambiata molto dagli anni Ottanta, ma perfino i gusti televisivi si sono evoluti. Soprattutto nell’ultima stagione, come dimostrano il successo di Vieni via con me e della lezione di Benigni a Sanremo. Calare in questa rivoluzione del gusto televisivo le prevedibili invettive anti magistrati, già ascoltate un milione di volte, di due intellettuali che giocano da trent’anni a fare gli anticonformisti di corte rappresenta un suicidio aziendale. Non bastasse, l’elefantino Ferrara ha annunciato che, negli intervalli fra una bastonata e l’altra al pool di Milano, discetterà anche di teologia. Tema di gran richiamo per le platee di Raiuno, tanto più dal pulpito di un ateo clericale. Sgarbi minaccia di occuparsi di cultura («stronzo», «cornuto», «troia», «vaff…» e così via), estetica e ambiente, ad esempio sui danni artistici e al paesaggio di intercettazioni e inchieste dei pm milanesi. La terza punta dello spuntato tridente è il ciambellano Vespa, vale a dire la messa in latino per celebrare il potere.
A garantire la catastrofe è del resto la stessa firma dello stratega, il direttore generale Mauro Masi. L’unico fra i personaggi coinvolti, tutti evocativi di gravi mestizie, che al solo nominarlo infonda una lieve ilarità. Il dg di viale Mazzini è un bel figuro da commedia dell’arte, tanto guascone quanto maldestro e sfortunato. Ha perso tutte le guerre possibili, ma in maniera spettacolare. Era stato inviato con la missione di chiudere Annozero e ha trasformato Santoro in un intoccabile, beatificandolo anche agli occhi di chi lo trovava ambiguo e scontato. La sua guerra preventiva a Roberto Saviano si è trasformata nel più formidabile lancio pubblicitario della storia televisiva. In compenso è bastata una sua sola telefonata di auguri in diretta a Simona Ventura per far precipitare finalmente, dopo anni, gli ascolti dell’Isola dei Famosi. Un mito, già fonte di leggende. Qualcuno comincia a sospettare che il dg sia un eroe della resistenza berlusconiana infiltrato. Di certo, ha fatto più Masi per dar voce all’opposizione di tutti i segretari del Pd, Ds, Rc, Idv e beppegrilli messi insieme (a proposito: secondo l’Osservatorio di Pavia a gennaio nei tg Rai il premier ha totalizzato 402 minuti di presenza contro i 72 di Bersani, i 48 di Fini e i 12 di Vendola). I soliti pessimisti di sinistra temono però che in primavera, con la ghiotta ondata di nomine agli enti pubblici, Masi possa essere dirottato a far danni altrove.
Perché un uomo di televisione come Berlusconi si lancia in un’impresa tanto anacronistica come la controriforma Rai? Ragioni sentimentali, psicologiche, miste come sempre a convenienze economiche e politiche. Le seconde sono talmente banali da poter essere liquidate in breve. In primavera ricominciano i processi e forse si andrà a elezioni anticipate, il premier ha dunque bisogno di alzare il tiro sui magistrati e contro l’opposizione. La controriforma Rai è un laboratorio per sperimentare il «metodo Boffo» contro Bocassini e colleghi, stavolta su vasta scala, dai canali della tv pubblica e non dai giornali di famiglia. Comunque vada, un po’ di fango addosso alle toghe rimarrà. L’inabissamento di ascolti della rete ammiraglia Rai offre un gradito effetto collaterale sui bilanci di Mediaset, già risollevati quest’anno dalla cura Minzolini. In attesa di tempi migliori in cui si potrà procedere al vecchio progetto piduista della «dissoluzione del servizio pubblico». Non più attraverso la privatizzazione, perché a Mediaset non conviene introdurre nel sistema un altro Murdoch, ma togliendo la risorsa pubblicitaria.
I motivi psicologici sono più sottili. L’anziano premier è sempre più nostalgico dei gloriosi (per lui) anni Ottanta, sfociati nella «discesa in campo» del ‘93, l’apice della parabola. Vespa, Ferrara e Sgarbi fanno parte dell’album d’epoca. Nel declino, il Caimano torna all’ossessione di sempre. La televisione, origine della fortuna, è diventata alla fine l’ultima trincea, il suo bunker tripolino, un modo di rifiutare la resa che il resto del mondo si aspetta.
Quando giudichiamo il conflitto fra potere politico e giustizia, conviene sempre alzare gli occhi, guardare oltre i nostri confini, usare la memoria, per capire se davvero chi governa ha in mente una soluzione che migliora le cose o una regressione formidabile, dissimulata dietro finte promesse. La riforma della giustizia che Berlusconi proporrà giovedì è un caso esemplare, e se suscita tante apprensioni è perché non scioglie ma accentua i conflitti tra poteri pubblici, e anzi vuol devitalizzare parte di questi poteri. È una riforma che non perfeziona ma disprezza il nostro patrimonio giuridico, e l´idea che i poteri debbano esser molti perché non predomini uno solo. È una regressione che non solo mortifica la Carta costituzionale ma è in aperta contraddizione con princìpi giuridici che l´Unione europea chiede agli Stati di rispettare. Spesso la regressione avanza in tal modo: presentandosi come rivoluzionaria.
È osservando quel che accade in Francia che l´impressione di un indietreggiamento italiano si conferma vistosamente. Negli ultimi due mesi il malcontento dei magistrati francesi si è inasprito, e il loro obiettivo, non nuovo, si è fatto più che mai nitido: liberare infine pm e procure dal potere politico.
Succede così che il patrimonio italiano divenga un traguardo, nel preciso momento in cui Berlusconi vorrebbe ridurre l´indipendenza dei magistrati dalla politica. Se prima in Europa eravamo considerati all´avanguardia, nella separazione dei poteri, oggi rischiamo di trovarci in coda. Una miopia radicale verso il mondo, e l´indifferenza al peso che l´Europa ha nelle nostre vite (con le sue leggi vincolanti) sono alla radice di quello che può divenire un grave impoverimento: giuridico, democratico, della memoria.
Alla base di questa miope indifferenza c´è una doppia fallacia. Prima fallacia: l´idea che in democrazia la sovranità si concentri tutta sul popolo, che elegge governi e parlamenti non sottoposti al vaglio di poteri terzi. Seconda fallacia: la finzione di una sorta di autarchia giuridica e politica dello Stato-nazione, e l´ignoranza di un´Europa già in parte federale, che esercita sovranità parallele a quelle degli Stati grazie a leggi, politiche comuni, costumi democratici concernenti anche la separazione dei poteri.
L´idea che solo uno sia il potere decisivo - il popolo - è spesso scambiata con la democrazia ma non lo è, e l´Europa s´è unita con questa consapevolezza. L´illusione monolitica è un´eredità del 1789 - meglio: della sua estremizzazione giacobina, nazionalista - e spiega lo speciale malessere francese. Nella tradizione giacobina la giustizia non è un istituto indipendente, nonostante l´articolo XVI della Dichiarazione dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789: è l´arma del popolo sovrano, dell´esecutivo che esso elegge. Qui è il suo vizio d´origine, e ancor oggi il pubblico ministero francese non è al servizio di tutti ma mantiene un rapporto di dipendenza dal governo.
I magistrati riformatori in Francia non si limitano a invocare autonomia completa, ma si battono perché il paese interiorizzi la democrazia costituzionale di cui l´Europa è levatrice. È in questo quadro che reclamano un´autentica Corte costituzionale, e soprattutto l´indipendenza del pubblico ministero. Spetta a quest´ultimo l´obbligo di esercitare l´azione penale, come imposto dall´articolo 112 della nostra Costituzione: non alla politica, come accade a Parigi e come Berlusconi vorrebbe in Italia. Il 15 dicembre scorso la Corte di cassazione francese, interpellata sulla custodia cautelare, ha giudicato che «il pubblico ministero non è un´autorità giudiziaria indipendente», visto che "non garantisce l´indipendenza e l´imparzialità prescritte dalla Convenzione europea dei diritti dell´uomo", e dalla Convenzione Ocse sulla corruzione. Non a caso chi auspica l´autonomia dei pm comincia, in Francia, col cambiare le parole costituzionali. Nel titolo VIII appare l´"autorità giudiziaria". Molti (tra loro l´associazione Terra Nova, in un recente rapporto) esigono che il termine autorità sia sostituito da "potere giudiziario".
Con secoli di ritardo Parigi riscopre dunque la separazione dei poteri di Montesquieu, si libera del giacobinismo, è stanca di ridurre la democrazia al suffragio universale: «In Francia - dice il rapporto di Terra Nova - la giustizia non è più il potere indipendente, guardiano della libertà individuale, descritto da Montesquieu. È sotto tutela dell´esecutivo». Tanto più è soggetta «all´influenza di interessi privati e partigiani. È una giustizia parziale, a due velocità: clemente verso chi è protetto dall´esecutivo, sempre più speditiva verso chi non è protetto». È pensando con severa memoria la propria storia che i magistrati francesi si ribellano. Solo una Corte costituzionale e un pubblico ministero indipendenti possono divenire punti fermi, più durevoli delle mutevoli maggioranze. I governi sono mortali, in democrazia. Non la Costituzione e la giustizia.
Non è solo la storia nazionale a entrare in gioco, abbiamo visto, ma l´Europa che delle varie memorie ha fatto tesoro, trascendendole. È quest´ultima a preconizzare una giustizia più indipendente, prescrizioni non di comodo, infine la riforma più desiderata dagli italiani: processi più brevi per tutti, non per uno o per pochi. In particolare - lo ricordano da anni il giurista Bruno Tinti e Marco Travaglio - l´Europa chiede che le carriere del giudice e del pm non siano separate: che «gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adottino misure per consentire alla stessa persona di svolgere le funzioni di pm e poi di giudice, e viceversa», per «la similarità e complementarietà delle due funzioni» (raccomandazione della Commissione anticrimine del Consiglio d´Europa, 30-6-00).
Nella riforma Berlusconi sono assenti queste norme costituzionaliste, ed è il motivo per cui di regressione si tratta. L´obiettivo è mettere le procure sotto tutela politica, duplicare il Consiglio superiore della magistratura neutralizzandolo, staccare la polizia giudiziaria dai pm assoggettandola al solo potere politico (forse la misura più pericolosa, perché in tal modo il governo ha in mano le chiavi per chiudere e aprire un processo penale). Ed è separare le carriere del pm e del giudice per degradare il pm a "avvocato dell´accusa", più vicino per cultura all´avvocato della difesa che al giudice: mentre con l´ordinamento attuale il pubblico ministero è tenuto a considerare anche gli elementi a discarico, non solo quelli a carico dell´imputato. Qui è la ragione prima per cui separare le carriere è un rischio. È un vero insulto ai Pm, spiega Tinti: "Il Pm tutela gli interessi della collettività, l´avvocato quelli del suo cliente. Per il Pm non è importante che l´imputato venga condannato; è importante che il colpevole venga condannato. L´avvocato difensore, lui sì, è uomo di parte", avendo per obbligo quello di " far assolvere il cliente oppure fargli avere la pena più ridotta".
Quel che ci si domanda è come mai l´Europa, pur avendo leggi e princìpi, conti così poco. In realtà essa difende i princìpi con estrema forza prima dell´adesione: i candidati devono avere giudici indipendenti e separazione dei poteri (se l´Italia fosse oggi candidata, certo non entrerebbe). Questo dicevano i criteri di Copenhagen fissati nel ‘93 per l´ammissione dei paesi dell´Est: i criteri non erano solo economici (esistenza di un´affidabile economia di mercato) ma anche politici e giuridici (presenza di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, stato di diritto, diritti dell´uomo, rispetto-tutela delle minoranze). Ancor più stringenti sono i criteri nel caso della Turchia.
Con i paesi che sono già nell´Unione, invece, l´Europa è intimidita, inerte. Varcata la porta d´ingresso solo i parametri economici pesano, diventando addirittura un ombrello che ripara gli autoritarismi. Quanto più sei dentro, e rispetti i parametri finanziari, tanto più sei libero di fare quel che ti pare con la democrazia. Se solo volesse, l´Europa potrebbe agire, arginare. Il Trattato di Lisbona agli articoli 6 e 7 prevede interventi e sanzioni dell´Unione per quei Paesi dell´Unione in cui si verifichino gravi rischi per la democrazia e per la libertà. Ma sinora gli articoli non sono stati invocati né tantomeno applicati all´Italia. Eppure i rischi ci sono ormai davvero e sono seri. Si parla molto dell´assenza di anticorpi, in Italia. Ma l´Europa ha gli stessi difetti, pur possedendo strumenti e leggi per salvaguardare le proprie democrazie.
In questa vignetta di Bucchi (la Repubblica) di qualche anno fa l'immagine perfetta del modo in cui B. vede la separazione tra i tre poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario), uniti in un unico tubo...digerente.
Al manifesto non riesce di dire che la Libia di Gheddafi non è né una democrazia né uno stato progressista, e che il tentativo di rivolta in corso si oppone a un clan familiare del quale si augura la caduta. Non penso tanto al nostro corrispondente, persona perfetta, mandato in una situazione imbarazzante a Tripoli e che ha potuto andare - e lo ha scritto - soltanto nelle zone che il governo consentiva, senza poter vedere niente né in Cirenaica, né nelle zone di combattimento fra Tripoli e Bengasi.
Perché tanta cautela da parte di un giornale che non ha esitato a sposare, fino ad oggi, anche le cause più minoritarie, ma degne? Non è degno che la gente si rivolti contro un potere che da quarant'anni, per avere nel 1969 abbattuto una monarchia fantoccio, le nega ogni forma di preoccupazione e di controllo? Non sono finite le illusioni progressiste che molti di noi, io inclusa, abbiamo nutrito negli anni sessanta e settanta? Non è evidente che sono degenerate in poteri autoritari? Pensiamo ancora che la gestione del petrolio e della collocazione internazionale del paese possa restare nelle mani di una parvenza di stato, che non possiede neanche una elementare divisione dei poteri e si identifica in una famiglia?
Ho proposto queste domande sul manifesto del 24 febbraio, senza ottenere risposta. Non è una risposta la nostalgia di alcuni di noi per un'epoca che ha sperato una terzietà nelle strettoie della guerra fredda. Né la nostalgia è sorte inesorabile degli anziani; chi ha più anni è anche chi ha più veduto come cambiano i rapporti di forza politici e sociali ed è tenuto a farsi meno illusioni. E se in più si dice comunista, a orientarsi secondo i suoi principi proprio quando precipitano equilibri e interessi.
Non che siamo solo noi, manifesto, a non sapere che pesci prendere davanti ai movimenti della sponda meridionale del Mediterraneo. Il governo francese ha fatto di peggio. Quello italiano ha consegnato al governo libico gli immigranti che cercavano di sbarcare a Lampedusa e dei quali non si ha più traccia. L'Europa, convinta fino a ieri che dire arabo significava dire islamista dunque terrorista, prima ha appoggiato alcuni despoti presunti laici - Gheddafi gioca ancora questa carta - poi si è rassicurata nel vedere le piazze di Tunisi e del Cairo zeppe di folle non violente, ha accolto con piacere l'appoggio alle medesime da parte dell'esercito tunisino e egiziano, e teme soltanto una invasione di profughi.
Ma la Libia non è né l'Egitto né la Tunisia. L'esercito è rimasto dalla parte del potere e la situazione s'è di colpo fatta drammatica. Ma chi, se non l'ottusità di Gheddafi, è responsabile se l'opposizione è diventata aspra, scinde la Cirenaica, cerca armi e il conflitto diventa guerra civile? Tra forze e ad armi affatto sproporzionate? E chi se non noi lo deve denunciare? Chi, se non noi, deve divincolarsi dal dilemma o ti lasci bombardare o di fatto chiami a una terza «guerra umanitaria», giacché gli Usa non desidererebbero altro? Sembra che la capacità di ragionare ci sia venuta meno.
La sinistra non può molto. Il manifesto, ridotti come siamo al lumicino, non può nulla se non alzare la voce con chiarezza e senza equivoci. C'è un'area enorme che si dibatte in una sua difficile, acerba emancipazione, che ha bisogno di darsi un progetto - non dico che dovremmo organizzare delle Brigate Internazionali, ma mi impressiona che nessuno abbia voglia di offrire a questo popolo un aiuto. Ricordate le corse giovanili degli anni sessantotto e settanta a Parigi, a Lisbona, a Madrid e a Barcellona? Dall'altra parte del Mediterraneo non ha fretta di andar nessuno, salvo i tour operator impazienti che finisca presto. Almeno su a chi dare simpatie e incoraggiamento non dovremmo esitare. Non noi.
Gira molto di questi tempi una favoletta apparentemente semplice, ma nella sostanza fasulla, che viene ampiamente propagandata e indirizzata - quasi come un manifesto, uno slogan, un credo ideologico-politico-urbanistico da imporre - ad un pubblico di menti candide, distratte o impreparate, che poco o nulla sanno o capiscono di questioni urbanistiche e ambientali e di pratiche di gestione del territorio, disposto a credere che “più grattacieli si costruiscono più si risparmia suolo” e che “grattacielo è bello” anzi “dovuto” per potere “risparmiare suolo” (questa è la parte del messaggio indirizzata agli ambientalisti ingenui).
In molti, a volte anche persone studiate dalle quali non te lo aspetteresti, ci cascano. Perché?
Questa favoletta risulta infatti, nel suo messaggio, anche non poco scorretta - un po’ come coloro che la sostengono e la propagandano - perché mischia artatamente al suo interno, in un ragionamento che si presta facilmente ad essere aggrovigliato e confuso, sia una parte vera che una parte falsa. E dove la parte vera sembra essere talmente evidente e indiscutibile da indurre a pensare che lo sia anche la parte falsa.
Vera è la parte stereometrica del ragionamento contenuto, che dimostra come il tipo edilizio del grattacielo, può, in termini fisici (la stereometria è infatti quella parte della geometria solida che studia i diversi modi coi quali si può configurare un volume nello spazio) consumare meno suolo rispetto ad altri tipi edilizi bassi o orizzontali che forniscano la stessa volumetria. Falsa è la parte del ragionamento che vuole far intendere che trasferire automaticamente nelle pratiche e nei metodi dell’urbanistica e dei suoi piani l’uso diffuso del ricorso alla tipologia del grattacielo provochi l’effetto virtuoso di fare risparmiare, sempre e comunque, suolo.
La verità stereometrica
Si prendano due dadi e li si posino su un tavolo. Si supponga che ogni dado rappresenti una casa o un edificio (per residenze, uffici, ecc.) di volume e di altezza pari a quella del dado. La superficie di tavolo occupata – o “consumata”, perché inibisce altri usi possibili della superficie complessiva del tavolo - da questi due edifici è equivalente alla superficie delle due facce sulle quali si posano i due dadi.
Sovrapponiamo ora i due dadi: otteniamo un edificio alto due dadi e dello stesso identico volume dei due. Abbiamo fatto un “grattacielo” (l’esempio vale anche per più dadi, per chi desiderasse giocare con un grattacielo più alto) che altro non è, nel senso più banale, che una certa quantità di metri cubi impilati in altezza. Ora però possiamo osservare che la superficie coperta, consumata dai due dadi impilati si è ridotta ad una sola faccia di dado: pari volume complessivo e superficie coperta ridotta della metà: magnifico! Ma allora è proprio vero e dimostrato che il grattacielo fa risparmiare suolo!
Fine dell’unica parte veritiera della favoletta.
La falsità urbanistica
Si consideri innanzitutto che il suolo, meglio pensarlo come territorio, nel quale e sul quale noi viviamo e operiamo, non è proprio equivalente al piano del tavolo di cui all’esempio e nemmeno è paragonabile a un foglio di carta bianca (come spesso se lo immaginano certi architetti) sul quale poter disegnare e collocare tutto ciò che passa per la testa. E non è neppure una sommatoria di “mappali” come lo pensa una concezione meramente proprietaria dei suoli.
Sul suolo si posano gli ambienti umani, si posa la natura, si posa l’ambiente naturale, si posa il paesaggio, vivono aree naturali sensibili e rare e sono presenti aree e ambienti preziosi o delicati che debbono assolutamente essere conservati e protetti per la vita. Il suolo stesso è natura e materia vivente e non è piatto e indifferenziato come un tavolo.
Il suolo è dunque risorsa scarsa e limitata, riproducibile dove può essere riprodotta, se non in tempi lunghissimi, che non può essere utilizzato e sfruttato nella sua totalità (come un tavolo). E che non può essere reso tutto edificato o edificabile (come pensano gli ossessi del metro-cubo, dello “sviluppo” e della “crescita”).
L’urbanistica, quella vera e consapevole, si pone, nell’organizzare e pianificare gli sviluppi insediativi urbani, prima ancora del problema delle tipologie edilizie da utilizzare o da non utilizzare, quello di quanti volumi (e funzioni) e per chi e per quali bisogni, programmare e autorizzare nei propri piani o programmi.
Tornando all’esempio dei dadi, cioè dei volumi “necessari” per un corretto e ben dimensionato piano urbanistico, la domanda è: sono necessari due dadi? ne basta uno? ne basta mezzo?
Prima domanda: servono due dadi o ne basta uno?
Prima di tutto viene il problema del “dimensionamento del piano” anche in termini di metri cubi programmabili che non possono essere infiniti o indeterminati (problema oggi completamente dimenticato e volutamente cancellato) e della loro rispondenza ai reali fabbisogni della comunità.
Ma non bisogna dimenticare che spesso si pone anche, a monte di ogni altra decisione, il problema della valutazione dell’accettabilità o della compatibilità dell’uso della tipologia del grattacielo in determinati siti o ambienti, urbani o anche non urbani, dove potrebbe, per mille evidenti ragioni immaginabili, rivelarsi inaccettabile o incongrua.
Il ricorso al tipo edilizio del grattacielo può funzionare ed essere accettato in urbanistica, ma sempre se compatibile con l’ambito dell’intervento, solo al verificarsi, contemporaneo, di due condizioni: la prima che il grattacielo venga a concentrare e ad assorbire in sé volumi già correttamente programmati e autorizzati, in una data area definita da corretti indici territoriali; la seconda, ancora più importante, che richiede che sui suoli così sottratti all’edificazione (il cosiddetto risparmio raggiunto) venga posto un vincolo che vieti ogni ulteriore edificabilità. Il suolo, per essere considerato effettivamente risparmiato deve essere identificato e sottratto ad ulteriori edificazioni. Il meccanismo del “risparmio” deve essere identificato, produrre un effetto tangibile, verificato e verificabile, ed essere conservato nel tempo come prodotto di un risparmio.
Se invece il sorgere di grattacieli fosse il prodotto, voluto e cercato, di nuove norme e scelte urbanistiche, generato da aumentati indici di edificabilità (territoriali o fondiari e di rapporti di copertura) non si andrebbe certamente in direzione di un risparmio di suolo. Ci si dovrebbe piuttosto preoccupare dei rischi (urbanistici, ambientali e paesistici) derivanti inevitabilmente dall’aumento dei nuovi carichi insediativi e ambientali o di congestione urbana apportati dalla nuova densificazione.
Ah, se le Valutazioni Ambientali Strategiche fossero una cosa seria!!
A un attento osservatore negli anni 70 Milano sembrava si stesse trasformando in una città di lavandai, nuova attività cui pareva dedicarsi la media e piccola borghesia milanese: tutti i sottotetti delle nuove costruzioni erano una fila di lavanderie con ampio stenditoio in corrispondenza degli appartamenti dell’ultimo piano. Il regolamento edilizio lo permetteva, dunque come perdere l’occasione per avviare piccole attività imprenditoriali?
Date le dimensioni, non erano solo il sostitutivo di uno stendibiancheria pieghevole. Ma non erano nemmeno lavanderie e stenditoi, era una delle stagioni dell’abusivismo edilizio milanese di massa: divennero tutte camere da letto con bagno. Poi con le Dia (Dichiarazioni di inizio attività – modifiche senza esplicita concessione) se ne videro delle belle e lo stesso accadde con la legge del 2001 sui sottotetti: la stagione di mansarda selvaggia. Le norme furono interpretate nei modi più stravaganti, a cavallo dell’abuso.
Insomma, se vogliamo dare un nome ai fenomeni possiamo dire che l’"abusopoli" alla milanese, mai grave come in altre parti del Paese, c’è sempre stata. Ma l’innata virtù ambrosiana, la parsimonia, fu un freno agli eccessi: abusare sì ma con moderazione. Oggi anche questa moderazione è scomparsa e il caso di Gabriele Moratti ne è l’esempio: probabilmente si tratta di abuso d’abuso. Ormai abbiamo messo da parte l’inutile pretesa che chi governa e i suoi famigli siano tenuti a dare il buon esempio, dobbiamo aspettarci di tutto, cullati solo dalla speranza che i loro abusi saltino fuori per merito, si fa per dire, dei compagni di merenda. Laura Sala, moglie di Mario Chiesa, portò il marito in Tribunale perché lesinava sugli alimenti.
Stefania Ariosto dette una mano alla giustizia in un quadro di relazioni sentimentali tra sua sorella e l’avvocato Previti e tra lei stessa e l’avvocato Dotti. L’ultima, Cinzia Cracchi, mise nei pasticci il sindaco di Bologna. Gabriele Moratti è balzato agli onori della cronaca per non aver pagato il suo architetto. Sua madre, nostro sindaco, invoca trasparenza. Personalmente le chiederei qualcosa di più: conoscenza delle leggi e saper vedere.
In uno dei recenti video apologetici sul suo canale digitale la vediamo mentre inaugura un parcheggio sotterraneo. Durante la visita si ferma dinanzi a un box con la serranda aperta: dentro un signore mentre piacevolmente passa il suo tempo in quello che ha trasformato in una via di mezzo tra un locale hobby e un salottino.
Lo sguardo del sindaco e il suo commento sono compiaciuti e incoraggianti. Non mi risulta che rientrata in Comune abbia mandato i vigili a fare un sopralluogo e a contestare l’abuso in materia di destinazione d’uso e salubrità degli ambienti: siamo in campagna elettorale e tale la madre tale il figlio.
Sul caso Gabriele Moratti poi, quanto alle parole dell’assessore Masseroli sulle salvifiche virtù del nuovo Pgt che non ammetterà più simili abusi, vorrei solo ricordare che nessuna buona legge sostituisce l’onestà, impedisce l’abuso o mitiga l’arroganza naturale dei potenti.
Nel giorno in cui Newsweek celebra «le italiane che dicono Basta! a Berlusconi», soggetto collettivo, nel numero dedicato alle «150 donne che scuotono il mondo» ci scrive una lunga lettera Pilar del Rio Saramago. La vedova del premio Nobel per la letteratura ci aveva chiamato a ridosso del 13 febbraio per comunicare la sua adesione alla rivolta e per dire quanto questo «vento nuovo» le facesse pensare alle parole e ai gesti compiuti insieme al marito, negli ultimi suoi anni, a proposito della forza delle piazze contro i regimi di ogni densità e tipo. Oggi, per l'8 marzo, pubblichiamo il suo appello agli uomini italiani. Dovrebbero essere gli uomini ad uscire per strada e dire ora basta, scrive. «Il giorno in cui scenderanno in piazza noi donne dai marciapiedi li applaudiremo e getteremo loro dei fiori». Sono parole che riecheggiano molte di quelle che abbiamo sentito alla vigilia del 13 febbraio. Dice Luciana Castellina: «Nella vicenda di Berlusconi e Ruby mi sembra che la prima identità sessuale ad essere offesa sia quella maschile. Sono loro che dovrebbero essere indignati in prima persona e meraviglia che non si sentano offesi. Andare in piazza in solidarietà delle donne è un po’ poco, va a finire che la colpa di questa situazione ricade su Ruby».
Ci sono arrivati migliaia di messaggi di ragazze molto giovani, alla vigilia dell'8 marzo. Tutte fanno cose. Si organizzano, si
muovono, abitano mille diverse piazze. Un gruppo, a Milano, è protagonista di una mostra fotografica sulle adolescenti italiane dal titolo «Tu quanto ti vuoi bene?». Volersi bene è il tema del nuovo libro di Eve Ensler di cui pubblichiamo un'anticipazione: è scritto perché le ragazze «smettano di trattare il loro corpo come oggetto per piacere agli altri», dice.
Questo giorno è un'occasione, in verità, per cogliere dalla moltitudine di gesti quotidiani quelli che non solo scuotono, come scrive Newsweek, ma crescono e cambiano l'Italia. Azioni e impegno che oggi, da qualche palco a qualche microfono, trovano una vetrina. Donne che lavorano nelle carceri e nelle scuole, nei centri immigrati e nei quartieri: che conducono solitarie incessanti battaglie. Tra le iniziative politiche ne vorrei ricordare una molto concreta: Titti Di Salvo e Marisa Nicchi hanno scritto ieri ai leader dei partiti di opposizione e ai sindacati perchè si riprenda in mano la legge contro le dimissioni in bianco. Fu la prima legge che il governo Berlusconi cancellò, tre anni fa: quella che impediva alle donne di firmare, all'atto dell'assunzione, una lettera di dimissioni volontarie senza data. Da usarsi a discrezione del datore di lavoro nel momento in cui annunciavano di essere in attesa di un figlio, per esempio. Più di mille parole, più di un milione di bonus bebè e di proclami in favore della famiglia varrebbe una piccola norma a tutela della maternità. Molte ragazze accettano condizioni di lavoro infime pur di averne uno, contratti più che flessibili e stipendi miserabili. Che almeno avere un figlio non sia un motivo di licenziamento. Le donne, lo ricordo, partoriscono anche uomini. Che siano gli uomini dunque i primi a pretendere di essere messi al mondo. Quando li vedremo arrivare nella protesta li saluteremo con un fiore.
È proprio vero che l'Italia non valorizza il suo patrimonio artistico. Guardate il ministro Sandro Bondi, nonostante sia stato più volte transennato e puntellato dalla maggioranza, alla fine non ha evitato il cedimento strutturale. Ora se ne va, ci lascia con una certezza difficile da scalfire: non ci mancherà. Lui, povera stella, giustifica il suo totale nullismo ministeriale con l'insensibilità dell'universo. Il mondo della cultura «di sinistra» non l'ha cagato nemmeno un po'. Il mondo della cultura «liberale» (ah, ah, ndr) non si è aggregato attorno a lui. Intanto gli è crollata addosso Pompei, qualche affaruccio famigliare è finito sui giornali, i tagli di Tremonti (quello che «la cultura non si mangia») hanno fatto il resto. Si è fatta strada nel Paese la convinzione che avere un ministro della cultura come Bondi, o non averlo, o avere al suo posto un grizzly degli Appalachi è esattamente la stessa cosa, e forse un po' meglio, dato che i grizzly non scrivono disgustose poesiole.
Eppure la triste storia del triste Bondi ci dice qualcosa del potere in Italia, dove potere significa Silvio Berlusconi. Finiti i tempi in cui bastava la piaggeria. Oggi dire «il duce ha sempre ragione» e comporre sonetti in sua lode non basta più. Ora bisogna attivarsi, presentarsi al cospetto del sovrano almeno con un disegnino di legge che lo cavi dai guai, o con la macchina dai vetri oscurati piena di ragazze, o con lo scalpo di qualche deputato razziato alle tribù vicine. Fatti, non parole. «Non ho convinto il governo del ruolo chiave che ha la cultura», ha detto, con inconsapevole umorismo. Cultura? Ruolo chiave? Ma che dice, Bondi! Porti una leggina ad personam. Porti due donzelle vestite da infermiere, oppure un «responsabile» nuovo di zecca, e vedrà la sua stella brillare di nuovo.
Comunque, grazie di tutto, si libera un posto per l'atteso rimpasto: Scilipoti, o Lele Mora, o il Gabibbo, o qualche ex del Grande Fratello, oppure, per risollevare la nostra immagine all'estero, Barbareschi o Topo Gigio. I talenti non mancano e, se sono uomini, possono pure restare vestiti.
È di strategica importanza la sentenza con la quale la VI sezione del Consiglio di Stato, presidente Giuseppe Severino ha bloccato (per sempre, si spera) i 260 mila metri cubi di cemento nel cuore di Tuvixeddu (Cagliari). Così ne parla il Gruppo di Intervento Giuridico, uno dei ricorrenti al Consiglio di Stato: “il Colle di Tuvixeddu, dentro la città di Cagliari (quartiere di Sant’Avendrace) è la più importante area archeologica sepolcrale punico-romana del Mediterraneo, con utilizzo fino all’epoca alto-medievale. Oltre 1.100 sepolture, alcune con pareti dipinte, scavate nel calcare in un’area collinare digradante verso le sponde dello Stagno di Santa Gilla. Residuano alcune testimonianze di “vie sepolcrali”, quali la Grotta della Vipera ed il sepolcro di Rubellio”. Di fronte a questa descrizione, in un Paese civile, cosa t’aspetti che succeda? Che si istituisca un Parco archeologico con quanto serve per la migliore tutela e fruizione. Invece no: “In buona parte l’area sepolcrale è stata aggredita pesantemente dall’espansione edilizia di Cagliari e dall’attività di cava, proseguita fino alla metà degli anni ‘70. Numerosi reperti rinvenuti sul Colle di Tuvixeddu impreziosiscono il Museo Archeologico di Cagliari.” Negli ultimi anni i saggi di scavo e le stesse attività edilizie hanno portato alla luce nuovi reperti di rilevante interesse archeologico. Ma non ci si è fermati. “Vuoi una casa nel parco?”, chiedeva lo spot della potente impresa del costruttore Gualtiero Cualbu. E intanto progettava dei molto comuni condominii da ficcare fra le tombe di guerrieri punici e poi romani.
La storia è breve. Dopo la cava dell’Italcementi, arriva l’immondizia. Che indigna pure la stampa estera. Nel 1997 la commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali chiede, in modo argomentato, l’imposizione di un vincolo paesaggistico su Tuvixeddu. Nemmeno per sogno. Nel 2000 viene firmato l’accordo di programma fra la Regione, il Comune di Cagliari (centrodestra) e il costruttore Cualbu con interessi in tutta Italia e in Brasile. Insorgono Italia Nostra, Sardegna Democratica, Gruppo di Intervento Giuridico, Amici della Terra e altre sigle. Soltanto nel 2006, con la Giunta regionale presieduta da Renato Soru, si blocca questo “nuovo modo di abitare, pensare e vivere Cagliari” a spese del paesaggio e dell’archeologia. “Vincoli assurdi che danneggiano l’economia”, tuonano costruttori e centrodestra contro il vincolo apposto dal centrosinistra a difesa di quel patrimonio di tutti. Purtroppo il Tar annulla quella saggia decisione dando ragione a imprese e Comune. Soru e le associazioni sopra nominate ricorrono però al Consiglio di Stato vincendo ora la causa a Palazzo Spada.
Ma v’è di più. La sentenza emessa dalla VI sezione del massimo organismo di giustizia amministrativa contiene motivazioni di valore generale di alto interesse. Per prima cosa, “all’interno dell’area individuata, è prevista una zona di tutela integrale, dove non è consentito alcun intervento di modificazione dello stato dei luoghi e una fascia di tutela condizionata”. Nessuna ambiguità, quindi. Poi, un chiarissimo principio che vale per tutta Italia: “La cura dell’interesse pubblico paesaggistico, diversamente da quello culturale-archeologico, concerne la forma del paese circostante, non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi”. Bene ha fatto quindi la Giunta Soru ad imporre col Piano Paesaggistico Regionale (redatto in base al Codice Urbani, poi Rutelli, sul Paesaggio) il “vincolo ricognitivo”, molto più vasto di quello archeologico essendo fondamentale la tutela del bene pubblico nella sua interezza. Ma l’area è stata già aggredita e in parte manomessa da alcuni palazzoni che la nascondono. Proprio per questo, sentenzia il Consiglio di Stato, “la situazione materiale di compromissione della bellezza naturale che sia intervenuta ad opera di preesistenti realizzazioni, anziché impedire, maggiormente richiede che nuove costruzioni non deturpino ulteriormente l’ambito protetto”. Principio essenziale in un Paese che tante bellezze paesaggistiche ha compromesso e imbruttito e che altre – grazie alla deregulation voluta da Berlusconi e al blocco della co-pianificazione Ministero-Regioni concesso da Bondi – ci si appresta a sfigurare per sempre fra cemento, cave e asfalto. Princìpi-cardine, con altri della sentenza, a cui si potranno ancorare quanti hanno a cuore la tutela del Belpaese che ci resta. Si capisce bene il fastidio del premier per gli organi costituzionali di controllo, che non si lasciano intimidire.
Perchè parlare di paesaggio
L’obiettivo di questo contributo era quello di tracciare una cornice storica, seppur forzatamente sommaria, delle normative di tutela del paesaggio con alcuni riferimenti a quelle di ambito regionale. Può apparire un tema tangenziale rispetto alla relazione sulla quale si incardinava il seminario, musei e paesaggio, quali elementi fondanti del nostro patrimonio culturale. Eppure, come si è cercato di evidenziare in questa pur rapida analisi, attraverso la prospettiva giuridica si sottolineano aspetti e criticità che si rivelano importanti per meglio comprendere l’assetto attuale del nostro sistema della tutela nel suo complesso e soprattutto le sfide che si trova a sostenere in questa fase storica.
Al di là dell’ovvia considerazione che musei e paesaggio costituiscono nel nostro paese un’endiadi inscindibile, compendiata nel nesso “museo diffuso”, meno scontata, ma ugualmente determinante appare l’analogia insita nella sempre maggiore pressione sociale, economica e politica assieme che entrambi si trovano a dover fronteggiare, con accelerazione crescente in questi ultimi anni.
Se per i musei è in atto un ripensamento radicale delle modalità di gestione che investe le finalità dell’istituzione stessa, il paesaggio si trova a dover convivere con fenomeni di sfruttamento del territorio per finalità economiche o sociali (edilizie, produttive, infrastrutturali) che ne minano progressivamente e senza ritorno la presunta intangibilità di bene culturale.
In sostanza questo primo decennio del terzo millennio ha visto in Italia riaccendersi il contrasto fra tutela e sviluppo, con modalità nuove nell’asprezza e nella intensità; per quanto riguarda il paesaggio questo fenomeno ha condotto ad un confronto quasi sempre lacerante con operazioni di trasformazione territoriale, mentre per quanto riguarda i musei, lo stravolgimento di senso e di ruolo cui sono sottoposti si colloca nella stessa direzione di uno sfruttamento commerciale a fini turistici sempre più esasperato e prevaricante nei confronti delle ragioni culturali e scientifiche.
La direzione generale per la valorizzazione recentemente istituita dal Ministero ha d’altro canto come obiettivo principale ed esplicitamente enunciato, la “messa a reddito” del nostro patrimonio culturale, obiettivo perseguito soprattutto attraverso la creazione a ciclo continuo di eventi e mostre. I nostri musei, per i quali si pensa ormai esclusivamente, a livello ministeriale, ad un’utenza di tipo turistico, sono quindi sempre più scenografie per eventi di vario tipo o depositi di lusso finalizzati ad alimentare il meccanismo ormai frenetico delle mostre temporanee.
Eppure, a livello giuridico, la nostra è una storia di eccellenze, nel senso che la legislazione di tutela del patrimonio culturale, oltre a risalire, come noto, per lo meno all’epoca rinascimentale nelle sue prime formulazioni, anche per quanto riguarda epoche più recenti, dagli inizi del secolo scorso in poi, ha saputo elaborare sistemi normativi di grande coerenza ed efficacia, spesso presi a modello da altre legislazioni nazionali; l’Italia è la prima e tra i pochissimi paesi moderni ad avere inserito fra i principi fondamentali della propria Costituzione, la tutela del patrimonio storico artistico e del paesaggio, riconoscendone quindi le caratteristiche di valori fondanti dell’identità nazionale.
Ripercorrere la storia della legislazione di tutela, del paesaggio in particolare, significa però confrontarsi con una compresenza spesso frustrante fra eccellenza giuridica e inerzia amministrativa. Frustrante e proprio per questo altrettanto significativa tanto da rappresentare probabilmente l’elemento più significativo dell’attuale momento storico-politico in questo ambito e il nodo da affrontare per arrivare a strumenti di tutela del paesaggio più efficaci.
Il quadro che si presenta in questa sede, costituito da una serie di richiami storico-legislativi e da alcune suggestioni a commento, considera nel loro insieme le normative statali e quelle regionali; di queste ultime si richiamano, come previsto, i provvedimenti legislativi emanati dalla Regione Emilia Romagna, anche se occorre sottolineare che il loro carattere esemplificativo è in questo ambito limitato poiché la produzione legislativa regionale, come si cercherà di sottolineare, è caratterizzata da una marcata disomogeneità a livello di metodo e di finalità perseguite e quindi di risultati ottenuti.
L’inizio della storia: da Benedetto Croce a Concetto Marchesi
Per quanto riguarda il paesaggio, la tradizione legislativa deve essere fatta risalire, come prima elaborazione compiuta, alla legge n. 778 del 1922, la così detta legge Croce che, in pochi sintetici articoli, decretava l’inserimento - e quindi la loro salvaguardia - delle “bellezze naturali” nel patrimonio culturale nazionale; nella relazione alla legge, di due anni precedente, Croce sottolinea come “Il paesaggio è la rappresentazione materiale e visibile della Patria con le sue campagne, le sue foreste, le sue pianure, i suoi fiumi, le sue rive, con gli aspetti molteplici e vari del suo suolo […]” rilevandone, quindi, accanto al valore estetico, anche quello identitario. Ma soprattutto introduce per le bellezze naturali quel carattere di “pubblica utilità” che vale a superare persino il diritto alla proprietà privata.
Da tali principi si svilupperà la legge 1497 del 1939, emanata da Giuseppe Bottai che, pur se con ben altra articolazione, dalla legge del 1922 erediterà comunque la filosofia largamente estetizzante (il paesaggio da tutelare è solo quello esteticamente pregevole), ma nella quale viene ribadito il carattere di “interesse pubblico” delle “bellezze naturali” (art.1) quale motivazione prima della legge stessa. Nellarelazione al disegno di legge, Bottai evidenzia la lacuna legislativa fino a quel momento presente per quanto riguarda i piani paesaggistici che, per la prima volta nel nostro ordinamento, con la 1497 vengono introdotti nella facoltà del ministro (art. 5).
Allo spirito della Bottai si ispira peraltro lo stesso testo costituzionale, il cui art. 9, che si deve principalmente a Concetto Marchesi, pone in capo alla Repubblica, nel suo essere costitutivo di Stato, regioni, province e comuni, la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico della Nazione. La sua collocazione nel ristretto novero dei principi fondamentali della Carta, ne ribadisce l’importanza dal punto di vista della definizione dell’identità nazionale: con una innovazione linguistica non trascurabile, ma destinata a svilupparsi, nelle sue potenzialità semantiche, con molto ritardo, nell’art. 9 si parla non più di “bellezze naturali”, ma di “paesaggio”.
Sarà solo con la legge “ponte” del 1967 che tale espressione sarà introdotta nella legislazione ordinaria, peraltro di ambito urbanistico. La legge “ponte” (e la successiva l. 1187/1968) costituì d’altronde il tentativo di trovare un coordinamento fra pianificazione urbanistica e pianificazione urbanistica, fino a quel momento disgiunte, introducendo gli organi preposti alla tutela paesaggistica nei procedimenti di elaborazione degli strumenti urbanistici.
Per quanto riguarda i piani paesistici introdotti dalla 1497, scarse e poco efficaci furono le elaborazioni fino al 1972, quando, con la nascita delle Regioni e il trasferimento di competenze legislative e amministrative, la possibilità di legiferare in merito ai piani territoriali paesistici venne trasferita agli enti regionali (Dpr. 8/1972). Con esiti del tutto deludenti: la pianificazione paesaggistica continuò ad essere totalmente trascurata.
Dalle Regioni all’Europa: la legge Galasso e la Convenzione europea
Per interrompere una lunga inerzia politica e legislativa in materia di pianificazione del paesaggio occorrerà giungere alla legge 431 del 1985, la cosiddetta Galasso, che per larga parte rappresenta la cornice legislativa entro la quale ci muoviamo tuttora, dal momento che l'adeguamento al successivo Codice dei beni culturali e del paesaggio è ancora un processo largamente in itinere.
La legge Galasso, che sostituisce il precedente decreto ministeriale del 21 settembre 1984, a firma del sottosegretario per i Beni culturali e ambientali Giuseppe Galasso, viene introdotta lo stesso anno del condono edilizio emanato dal governo Craxi; la legge cercava di fornire una risposta efficace ed immediatamente operativa a quei fenomeni di degrado territoriale, intensificatisi dall’inizio del decennio, contro i quali era venuta crescendo la denuncia del mondo dell’ambientalismo e di gruppi di intellettuali, fra i quali occorre ricordare soprattutto Italia Nostra e Antonio Cederna. Nella Galasso, come sappiamo, si introduceva il vincolo ope legis per “le zone del territorio nazionale ricadenti in fasce territoriali che seguono le grandi linee di articolazione del suolo e delle coste e che costituiscono di per se stesse, nella loro struttura naturale, il primo e irrinunciabile patrimonio di bellezze naturali e di insieme dello stesso territorio nazionale”. All’art. 1 bis si richiamavano quindi le Regioni a sottoporre “a specifica normativa d'uso e di valorizzazione ambientale il relativo territorio, mediante la redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali da approvare entro il 31 dicembre 1986”.
Praticamente in una sola notte, dal 7 all’8 agosto 1985, il territorio nazionale tutelato, in virtù della Galasso, passava dal 18% al 47%, da 53.713 a141.751 chilometri quadrati.
L’obbligo stabilito dalla Galasso, fu però in buona misura disatteso da parte delle Regioni: sia per quanto riguarda i tempi (quasi tutte arrivarono in ritardo, per alcune il Ministero dovette esercitare i poteri sostitutivi), sia per quanto riguarda i contenuti. Nella maggioranza dei casi, infatti, gli enti regionali tesero ad assorbire le valenze della pianificazione paesistica all’interno della pianificazione territoriale e/o urbanistica: in pochissimi casi il piano paesistico fu concepito come figura pianificatoria autonoma. Tale impostazione, d'altro canto, non era contraddetta dalla legge che ammette esplicitamente piani che affrontino contestualmente la tutela e la trasformazione del territorio, ma è di per sè significativa di un atteggiamento di resistenza culturale a considerare il proprio territorio esclusivamente a partire dai valori paesaggistici e in definitiva ad assumere il paesaggio come invariante, un prius rispetto ad ogni trasformazione ammissibile, prima che come risorsa economica, parte di un processo di trasformazione territoriale in quanto esso stesso elemento di accumulazione.
Oltre a questo, un buon numero dei piani paesistici si limitò esclusivamente ai beni vincolati, fornendo quindi una lettura e protezione del territorio a macchia di leopardo. Questa linea di indirizzo ha comportato fra l'altro, quale negativa conseguenza, una inadeguata interrelazione tra elementi territoriali strettamente connessi, ad esempio, fra un fiume e il relativo bacino idrografico o tra i parchi e le aree contermini.
Infine, quale ulteriore elemento di debolezza, mentre, per effetto della Galasso, l'estensione del territorio nazionale vincolata triplicò da un giorno all'altro, a questo ampliamento non corrispose un adeguamento delle soprintendenze chiamate ad esercitare tale tutela sul territorio: né per quanto riguarda il numero, né le risorse e neppure le competenze. A tutt'oggi, in Italia, le Soprintendenze per i beni architettonici e paesaggistici contano appena una trentina di uffici.
Pur con questi limiti la 431ha rappresentato indubbiamente un ampliamento, sul piano della tutela, decisivo e fondamentale, operando, al contempo, un’evoluzione del concetto stesso di tutela, da una concezione soggettiva ad una maggiormente oggettiva dei beni paesaggistici includendo anche aspetti naturali ed ecologici, da una concezione estetizzante a una strutturale.
Anche sotto il profilo operativo, inoltre, almeno per decennio la Galasso ha costituito lo sprone, per un discreto numero di Regioni, verso un impegno alla programmazione e pianificazione di area vasta, pur con tutte le diversità caso per caso e con esiti assai diversi. In questa sede conviene ricordare, ad esempio, l’esperienza della regione Emilia Romagna che seppur in ritardo, elaborò un buon piano territoriale – paesistico: nello scorcio degli anni ’80, il PTPR dell’Emilia Romagna rappresentò certamente un punto di avanzamento della cultura ambientalista in Italia. Frutto di una discussione scientifica, politica, culturale in senso ampio, appassionata ed allargata, costituì, per almeno per un decennio, un punto di riferimento e di maturazione critica rispetto alle politiche di governo del territorio e come tale fu apprezzato, fra gli altri, da Antonio Cederna, anche perché, fra gli altri suoi meriti, costituiva il risultato concepito, coordinato ed elaborato dalle strutture interne di un'amministrazione pubblica.
Gli anni ’90 rappresentano sul piano dell’elaborazione teorico-scientifica un momento di grandissimo fermento: si moltiplicano gli approcci alla lettura e le interpretazioni del paesaggio si arricchiscono di contributi multidisciplinari, anche se raramente interdisciplinari in senso compiuto. Sul piano dell'elaborazione legislativa a livello europeo, il risultato di questa discussione culturale sarà la Convenzione europea del paesaggio, aperta alla firma dal Consiglio d’Europa nell’ottobre del 2000, a Firenze.
La Convenzione rappresenta indubbiamente un’evoluzione decisiva del concetto di paesaggio, a partire dalla sua estensione a tutto il territorio e a tutti i tipi di paesaggio; attraverso la Convenzione è sicuramente stato favorito quel passaggio da “bene paesaggistico” a "paesaggio" da realizzare attraverso processi di interpretazione, sensibilizzazione, formazione, per mettere in grado l’intera popolazione di riconoscere i valori del proprio ambiente di vita, di apprezzarne il significato e condividere la responsabilità della tutela. Anche per merito della riflessione operata da questo documento, sostanzialmente, ci si allontana da un approccio riduzionistico al paesaggio inteso come la mera sommatoria di tutti gli oggetti estetico-culturali o naturalistici di pregio, mentre si sviluppa una specifica attenzione alle molteplici relazioni che il paesaggio contiene ed esprime.
La Convenzione, infine, sancisce il riconoscimento delle funzioni di interesse generale del paesaggio, sul piano culturale, ecologico, ambientale e sociale, ma anche come risorsa favorevole all’attività economica.
Al di là di tali elementi interpretativi di indubbia valenza positiva presenti nella Convenzione, tale documento è però divenuto, soprattutto nell’ultimo lustro, oggetto di una sopravvalutazione non priva di opportunismi: se tutto il territorio è paesaggio, allora andrà gestito con strumenti diversi da quelli della tutela, inapplicabili alla globalità del territorio stesso. In realtà la convenzione non ha un carattere prescrittivo e rappresenta piuttosto un documento di riflessione culturale, pur importante.
Ma non esente da critiche anche sotto questo profilo, a partire da quella definizione di paesaggio che sembra limitarne la dimensione a quella esclusivamente percettiva, soggettiva quindi e in quanto tale staturiamente ambigua, a rischio di derive relativiste che già si intravvedono e potenzialmente aliena da ogni forma di descrizione, prescrizione e finanche interpretazione scientifica o storica. Se il paesaggio sul quale agiamo è solo quello percepito e quindi visibile, infatti, è impossibile operarvi quel processo di conoscenza fondato sulla ricostruzione storica dei rapporti sociali che, nel corso del tempo, lo hanno prodotto: ciò significa quindi precludere, in sostanza, quella “cognizione” che Lucio Gambi poneva come obiettivo di ogni seria politica territoriale.
Il Codice: uno strumento in mezzo al guado
Il Codice dei beni culturali e del paesaggio, emanato nel 2004 con successivi emendamenti del 2006 e del 2008, trova la sua prima ragion d’essere nella necessità di un adeguamento legislativo, anche nell’ambito del patrimonio culturale, al mutato quadro costituzionale venutosi a creare con la riforma del titolo V della Costituzione. Riforma, come si sa, per certi versi dirompente per la successiva vicenda dei rapporti interistituzionali, che in tutta la materia del Codice ha introdotto più di un elemento di confusione destinato a sfociare, come è puntualmente avvenuto, in una sorta di microconflittualità strisciante fra Stato da un lato e Regioni-enti locali dall’altro, e che ha caratterizzato anche la successiva discussione avviata sulla redazione del codice stesso.
Ma per la parte terza relativa al paesaggio, in particolare per quanto riguarda gli emendamenti introdotti nella versione del 2008, il gruppo di lavoro creato dal Ministero e coordinato da Salvatore Settis è partito anche dalla constatazione di un arretramento quasi generalizzato delle funzioni di programmazione su vasta area da parte delle regioni, atteggiamento politico e amministrativo assieme che ha, in molti casi, accelerato in modo sempre meno arginabile, progressivi fenomeni di degrado territoriale. E dal tentativo di circoscrivere un eccesso di delega che, in questo come in altri campi, ha prodotto una sovrapposizione e frammentazione di poteri decisionali tra Regioni, Province e Comuni, spesso a danno della trasparenza, della legalità e dell’interesse collettivo.
Con l'arrivo del Codice è cambiato anche il rapporto Stato-Regioni. Mentre nella Galasso erano le Regioni, autonomamente, che provvedevano alla redazione dei piani paesistici, dal Codice in poi vi è una nuova assunzione di responsabilità da parte dello Stato, da subito contestata dalle Regioni e all'origine di un vero e proprio conflitto istituzionale cui hanno posto soluzione alcune sentenze della Corte Costituzionale. In particolare la n. 367/2007, nella quale la Corte, ribadendo il “valore primario e assoluto” del paesaggio, ne ha posto in capo allo Stato la tutela che, in ogni caso, “precede e comunque costituisce un limite agli altri interessi pubblici”.
L'impegno dello Stato si estrinseca soprattutto in due passaggi: il Ministero ha il compito di individuare le linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio con finalità di indirizzo della pianificazione (art.145), mentre le Regioni e il Ministero per i beni e le attività culturali sono chiamati a stipulare intese per l'elaborazione congiunta dei piani paesaggistici per quanto riguarda le aree tutelate (art. 135). Il compito delle Regioni, che pure, nella versione vigente del Codice, rimane fondamentale, è quello di sottoporre a specifica normativa d'uso il territorio approvando piani paesaggistici concernenti l'intero territorio regionale (art. 135), disciplinando i procedimenti di pianificazione paesaggistica (art. 144), e disciplinando il procedimento di conformazione ed adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni della pianificazione paesaggistica (art. 145), che - lo ricordiamo - secondo il Codice viene ad essere al livello più alto della scala gerarchica, cioè superiore a ogni altra pianificazione.
Nel sistema delineato dal testo legislativo, le regioni rimangono lo snodo istituzionale decisivo, in quanto impegnate sui due versanti, sia nei confronti dello Stato che nei rapporti con gli enti locali. Ad esse spetterebbe, come ricordato, la disciplina dell'iniziativa degli altri enti pubblici nell'organizzazione del territorio, poiché se, soprattutto in questo ambito, il principio dell'autorità viene sempre più sostituito da quello ispirato ad una responsabilità condivisa e partecipativa, questa tendenza non dovrebbe far derogare dall'azione regolatrice la pubblica amministrazione, in quanto unica a poter rappresentare bisogni ed esigenze dell'intera collettività.
Una vivace discussione ha accompagnato l’intera vicenda dell’elaborazione del Codice: da parte della Conferenza unificata delle Regioni è stato lamentato, nel metodo, il mancato coinvolgimento delle Regioni stesse nel procedimento di adeguamento e, nel merito, come sopra richiamato, il tentativo di riappropriazione, da parte degli organi centrali dello Stato, di competenze precedentemente delegate all'ambito regionale.
Più in generale si è rimproverato al Codice di aver tradito, almeno in certa misura, lo spirito della Convenzione di Firenze, per ricollegarsi - con quello che è stato giudicato un arretramento concettuale – alla tradizione legislativa precedente. Sempre sul piano dei contenuti, è stato poi sottolineato da più parti come i richiami, pur presenti nel Codice, allo sviluppo sostenibile non rappresentano in realtà un reale avanzamento concettuale e metodologico, né comportano alcun preciso o nuovo impegno per l'elaborazione dei piani paesaggistici e finiscono con l'essere quasi solo una verniciatura lessicale, un dovuto, scontato omaggio al “mantra” del momento.
Oltre a tali aspetti, le critiche hanno investito anche quella che è la definizione degli strumenti di piano, cui si rimprovera l’assenza di innovazione, mentre da un documento come questo ci si attendeva che fossero ereditate almeno alcune delle recenti acquisizioni metodologiche relative alla pianificazione del paesaggio stesso.
Sono poi state rilevate talune sfasature culturali, e ambiguità, laddove il Codice avrebbe dovuto stabilire regole e paletti certi: nei tempi e nelle modalità in particolare.
Ma soprattutto sono state sottolineate discrasie e contraddizioni, ad esempio laddove, nell’ultima versione, l’operazione di copianificazione è stata limitata solo alle aree tutelate: se da un lato il ministero è chiamato a individuare le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, la pianificazione paesaggistica vera e propria di cui può occuparsi il medesimo ministero comprende solo i beni vincolati, e ne risulta quindi artificiosamente circoscritta.
Pur con taluni limiti, in ogni caso, il testo del Codice rappresenta una buona mediazione fra le istanze diverse degli operatori pubblici sul territorio, ponendosi in una linea di continuità culturale con la legislazione precedente, Bottai e Galasso in particolare, ma operando, allo stesso tempo, un’evoluzione positiva del concetto di tutela. A partire dall’affermazione del primato del piano paesaggistico quale strumento di gestione attiva delle politiche per il paesaggio, e dalla considerazione del paesaggio stesso come elemento fondante del territorio nella sua interezza e unicità. Il Codice sancisce inoltre il superamento definitivo, nella nostra legislazione, dell’originaria concezione estetica collegando, fra l’altro, le politiche di conservazione a quelle dello sviluppo sostenibile.
In sintesi, il Codice rappresenta un’operazione di grande valore culturale, potenzialmente in grado di far evolvere quelle attuali in forme alte di tutela che includano non solo prescrizioni vincolistiche, pure necessarissime e da mantenere nella loro prescrittività e cogenza, ma anche ricerca e diffusione delle conoscenze, formazione delle coscienze, consapevolezza dei valori.
Potenzialmente, appunto. Purtroppo, ad oltre due anni dall’approvazione definitiva, il Codice appare confinato, per quello che riguarda la parte paesaggistica, in un limbo difficilmente giustificabile solo con motivazioni di carattere organizzativo o amministrativo, mentre il quadro legislativo e istituzionale nazionale è stato caratterizzato, in quest’ultimo anno specialmente, da una instabilità e contraddittorietà tali da frapporre ostacoli sempre più pesanti all’efficacia operativa del Codice stesso.
Oggi: il paesaggio minacciato
Evidenti risultano i ritardi da parte sia dello Stato che delle regioni. Per parte ministeriale, le linee fondamentali dell’assetto del territorio nazionale ai fini della tutela del paesaggio previste nell’art. 145, sono restate finora una pura dichiarazione d’intenti e tale compito, seppur mai esplicitamente rinnegato, nell’attuale situazione di collasso organizzativo e di irrilevanza politica del Ministero Beni Culturali appare a dir poco velleitario.
Apparentemente arbitro della partita, il Ministero, sfibrato da anni di riduzione delle risorse finanziarie, di riorganizzazioni spesso fra loro contraddittorie e comunque incoerenti rispetto ai compiti prescritti dal Codice, da ultima la cancellazione di una Direzione Generale autonoma sul Paesaggio, sembra aver ridotto il proprio intervento, a livello centrale, ad un mero ruolo di segreteria ammnistrativa, mentre gli organi periferici procedono in ordine sparso e con grandi difficoltà determinate non solo dalla scarsità delle risorse a disposizione, quanto soprattutto ad una inadeguatezza, eccezioni personali a parte, a livello di competenze di pianificazione. Tali lacune non testimoniano solo dell’attuale crisi vissuta dal Ministero nel suo complesso, ma rappresentano un vero e proprio tradimento dello spirito del Codice che, per la prima volta nella storia del nostro sistema normativo, chiamava a confrontarsi sullo stesso piano, quello della copianificazione, anche gli organismi deputati a rappresentare le istanze della tutela.
Se in questa situazione diviene quasi utopistica l’elaborazione, a livello centrale, non solo delle linee guida sull’assetto del territorio nel suo complesso, ma anche di quella unitarietà di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, sola, potrebbe consentire una reale omogeneità di obiettivi e di risultati, ugualmente relegata alla dimensione della ipotesi futuribile appare l’organizzazione sul territorio di un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati.
Nessuna legge, per quanto giuridicamente “perfetta”, ha qualche speranza di efficacia laddove la struttura chiamata a renderla operativa si trovi di fatto in una situazione di paralisi e di impotenza.
In maniera speculare, d’altronde, le Regioni stanno procedendo all’adeguamento della propria legislazione ai sensi del Codice con estrema lentezza. Come si è avuto modo di sottolineare in questi pur rapidi cenni, l’intera storia delle politiche regionali sul territorio non depone a favore di una particolare sensibilità delle amministrazioni pubbliche nei confronti della pianificazione paesaggistica e anche in questa fase, l’operazione di copianificazione sta incontrando difficoltà di ogni tipo, conseguenza non ultima e inevitabile del vero e proprio abbandono di tali pratiche perseguito a livello regionale.
Eppure il ruolo delle regioni sarebbe determinante in materia di costruzione partecipata delle politiche per il territorio, per contrastare, tramite il piano paesistico regionale, i fenomeni negativi che interessano negli ultimi anni i nostri paesaggi. Ad esempio l’espansione esponenziale di fenomeni contemporanei di abbandono e di sovrautilizzo per controbilanciare i quali solo strumenti regionali di indirizzo, di coordinamento e orientamento delle politiche settoriali e di equilibrio fra conservazione e trasformazione potrebbero produrre risultati. È d'altro canto solo a livello regionale che sarebbe possibile promuovere l'integrazione tra esigenze del paesaggio e politiche di spesa settoriali (agricoltura, turismo, ecc.) e promuovere adeguati, aggiornabili ed estesi sistemi unitari di conoscenza, di sperimentazione e di formazione.
Come detto, l’attività normativa delle amministrazioni regionali in questi ultimi anni, a parte alcuni episodi isolati, va invece in tutt’altra direzione: appare cresciuta la difficoltà nei confronti di operazioni di strategia territoriale su area vasta e quindi a ripensare il proprio territorio in termini complessivi non collegati esclusivamente a modelli di sviluppo a senso unico.
In generale la disciplina del paesaggio rimane invischiata nel sistema della pianificazione territoriale, costruita secondo un sistema a cascata che termina a livello comunale, al quale ultimo è peraltro riconosciuta, in molti casi, un’autonomia ampia, quando non amplissima.
Nè lasciano ben sperare le prime operazioni collegate alla copianificazione ai sensi del Codice. La Regione Emilia Romagna, ad esempio, ha approvato da circa un anno la L. n. 23/2009 destinata a dettare norme in materia di tutela e valorizzazione del paesaggio e come primo, introduttivo passaggio all’accordo di copianificazione ancora da stipulare con il Ministero. Il testo, pur migliorato anche in seguito alla puntuale analisi critica svolta dalla sezione regionale di Italia Nostra, quando non risulta meramente ripetitivo della disciplina del Codice, manifesta nel complesso la rinuncia a proporre regole prescrittive o anche solo definitorie cogenti, sancendo che il piano che risulterà dal processo di copianificazione dovrà tutt’al più stabilire “prescrizioni generali di tutela” e definire, ad esempio, “i criteri per l’apposizione, la verifica e l’aggiornamento dei vincoli paesaggistici”, anzichè apporli esso stesso. Nel piano, così come descritto nella legge regionale, manca un’esauriente e prescrittiva rappresentazione cartografica e soprattutto esso risulta in definitiva costituito dall’insieme dei piani di coordinamento provinciale e anzi dal mosaico dei piani strutturali comunali.
Genericità delle prescrizioni di tutela e rinuncia alla pianificazione di area vasta appaiono d’altronde gli elementi ricorrenti per quanto riguarda la copianificazione paesaggistica a livello regionale, almeno da quanto è possibile rilevare dalle documentazioni disponibili.
Complessivamente si potrebbe commentare che anche per il Codice possa valere ciò che Giuseppe Galasso affermò, a distanza di anni, a proposito dell’applicazione della 431/1985, e cioè che la legge aveva preceduto la coscienza collettiva lasciando pericolosamente aperti il problema dell’educazione alla tutela e dell’addestramento della pubblica ammnistrazione.
Ma l’operazione di copianificazione è fortemente insidiata nei risultati anche da elementi di contesto esterni. L’ultimo anno ha difatti conosciuto un accavallarsi di provvedimenti legislativi, frammentari e scollegati che, anche quando non direttamente incidenti sul paesaggio, possono svuotare di senso alcune delle innovazioni introdotte dal Codice.
Oltre ai sempre nefasti provvedimenti di condono o sanatoria edilizia, ormai non più etichettabili come episodici, il complesso insieme di norme che ricade nell’alveo della così detta “semplificazione amministrativa”, ha prodotto o rischiato di produrre (a parte avventurosi salvataggi dell’ultima ora) effetti deflagranti per il sistema delle tutele: citiamo per tutti il nuovo regolamento di semplificazione dell’autorizzazione paesaggistica, secondo il quale si opera una vera e propria distorsione del ruolo delle soprintendenze e la S.C.I.A., l’autocertificazione destinata a sostituire la D.I.A. e per fortuna esclusa, poco prima dell’approvazione parlamentare, per quanto riguarda le aree vincolate.
Ma soprattutto preoccupano, per le sorti della copianificazione paesaggistica e del nostro paesaggio in generale, l’atteggiamento politico complessivo assunto dall’attuale classe di governo a partire dal Ministro dei Beni e le attività culturali in carica che, ad esempio, in sede di audizione parlamentare, ha addirittura connotato negativamente “l’eccessiva ampiezza delle aree sottoposte a vincolo” per effetto della legge Galasso e ha invocato “principi di ragionevolezza e proporzionalità” per l’individuazione di “un punto di equilibrio che coniughi le esigenze della tutela del patrimonio culturale e paesaggistico con quelle dell’alleggerimento del peso dei controlli burocratici”. Come evidente, si tratta di un’inversione a 180° rispetto ai principi costituzionalmente sanciti e sopra ricordati, che non sta mancando di provocare effetti sempre più evidenti sul quadro complessivo dell’esercizio delle attività di tutela.
Eppure a livello di settori sempre più ampi del mondo culturale, dell’associazionismo e fra gli operatori che sul territorio si occupano a vario livello di tematiche territoriali, sempre più chiara è la consapevolezza che sia necessario un cambio di passo per uscire dallo stallo e che tale opportunità vada cercata innanzitutto in un diverso atteggiamento cooperativo tra le varie componenti della Repubblica. Sempre più evidente è la necessità di costruire un concetto di federalismo fortemente ripensato rispetto alla vulgata attuale e che si innesti in una riflessione ad ampio raggio, una sorta di rifondazione della politica culturale, capace di innescare un processo di confronto paritario con quella economica e non velleitariamente superiore nel dettato normativo, quanto regolarmente perdente in re.
Le sfide che ci troviamo di fronte sono di grande difficoltà: il paesaggio che cerchiamo di tutelare oggi rimanda ad un modello economico locale, artigianale e familiare oggi in declino anche se ha prodotto risultati straordinari, sia del paesaggio urbano, sia di quello rurale non solo per bellezza, armonia e diversità culturale, ma anche per equilibrio nell’uso del suolo e delle risorse ambientali: un paesaggio naturalmente sostenibile, senza bisogno di dichiararlo.
Di fronte all’attuale crisi economica globale da più parti è stata quindi avanzata la proposta di fare del territorio e dei paesaggi le basi di un grande cantiere di manutenzione ambientale e di mantenimento e gestione-valorizzazione di patrimoni insediativi e rurali. Al di là della volontà politica, uno dei primi limiti culturali a un’impresa di questo genere, risiede nella mancanza, in Italia, di documentazioni scientifiche, aggiornate e su vasta area, sui principali fenomeni di degrado territoriale quali consumo di suolo e abusivismo, come pure sull’evoluzione storica del paesaggio stesso: primo fondamentale strumento per la costruzione di qualsiasi operazione di pianificazione territoriale.
Ce lo aveva già insegnato Gambi: occorre “conoscere per agire politicamente” e per agire politicamente (cioè pianificare) sul paesaggio, occorre acquisirne quella “cognizione discretamente matura” che è frutto di studio, ricognizione, analisi e sintesi ripetuta e consolidata nel tempo.
Non è un caso, d’altronde, che Lucio Gambi, pur partito da posizioni di severa critica nei confronti della Galasso da lui, grandissimo studioso del territorio, giudicata troppo rigida e schematica, abbia accompagnato la vicenda del Piano Territoriale Paesistico degli anni ’80 e, soprattutto, sia fra i protagonisti della fondazione dell’Istituto Beni Culturali, da lui, primo presidente dell’Istituto, interpretato come imprescindibile strumento di conoscenza del territorio al servizio della programmazione regionale, non solo culturale.
Nella sua vicenda ultratrentennale l’Istituto ha svolto un ruolo di ricognizione del territorio nelle sue valenze culturali, forse con difficoltà in certi casi, ma con una sostanziale continuità che è all’origine di un patrimonio documentale assolutamente unico, fra le regioni italiane, per ampiezza, estensione cronologica (che si colloca ben oltre l’arco di vita dell’Istituto stesso, grazie all’opera di ricerca e di acquisizione di fondi storici) e varietà multimediale. L’Istituto naturalmente partecipò a pieno titolo alla vicenda della redazione del PTPR, mentre attualmente la citata legge regionale n.23/2009 gli assegna, nel processo di adeguamento del Piano al Codice, un ruolo del tutto marginale, forse non per caso.
Eppure nelle sfide che affrontiamo oggi, quali, ad esempio, la crisi del paesaggio agrario e i diffusi processi di omologazione dei paesaggi legati a forme di urbanizzazione estensiva che dissolvono il confine tra urbano e rurale e che tendono a ridurre sempre più il ruolo del paesaggio come elemento di riconoscimento identitario, solo una conoscenza consapevole e aggiornata potrebbe essere lo strumento decisivo per migliorare la nostra capacità di interpretare e pianificare il territorio, anche al di là della conservazione e restauro dei paesaggi ereditati: ricostruendo il processo che ha portato alla formazione dei paesaggi stessi e riconoscendo i meccanismi economici e socio-culturali che ne influenzano la costruzione.
Il nostro paesaggio è un bene comune fragilissimo che si può salvare solo attraverso un'azione collettiva condivisa dalla grande maggioranza della comunità che lo ha in custodia, ma tale azione, se vuole perseguire un'opera di tutela duratura ed efficace nel tempo, non può che essere il risultato di una lenta, faticosa, ma tenace, ma aperta operazione di coinvolgimento culturale.
A conclusione di questa sintesi, propongo, a illustrazione di alcuni dei fenomeni che caratterizzano in questa fase le politiche sul paesaggio, un caso esemplare. Come molti ricorderanno, nell’estate del 2006, si avviò sulla stampa un acceso dibattito attorno ad una lottizzazione edilizia sorta accanto al centro storico di Monticchiello, una frazione del comune di Pienza, in provincia di Siena, collocata in Val d’Orcia, territorio inserito dall’Unesco nella lista mondiale dei siti patrimonio dell’umanità.
Tale episodio, che vide l’intervento anche dell’allora Ministro dei beni Culturali Rutelli nel tentativo di ridimensionare l’area delle costruzioni, è assai significativo almeno per tre aspetti: la pressione alla mercificazione cui è attualmente sottoposto il nostro territorio, la debolezza complessiva dell’attuale sistema delle tutele, il presidio costituito dalla società civile.
·La lottizzazione aveva sfruttato la posizione di assoluto pregio ambientale riconosciuta al luogo, tanto che la vendita delle villette era stata pubblicizzata sfruttando il richiamo dell’inserimento nella lista Unesco, utilizzato come un vero e proprio marchio di qualità.
·Non si trattò in alcun modo di un abuso, nel senso che tutte le prescrizioni delle allora vigenti normative di tutela furono rispettate e la Soprintendenza concesse le autorizzazioni necessarie.
·Anche grazie alla capacità comunicativa di alcuni dei personaggi coinvolti (primo fra tutti Alberto Asor Rosa che lanciò il caso) Monticchiello acquistò un livello di “popolarità” impensabile in anni passati, quando episodi di questo tipo erano relegati tutt’al più nelle cronache locali: indice inequivocabile della centralità che il tema del paesaggio nel suo insieme ha assunto nell’attuale fase politica, ritrovandosi al centro delle attenzioni come elemento di snodo dal punto di vista economico e quindi divenuto oggetto di interessi fortissimi e contrastanti che sottendono a visioni diverse e spesso inconciliabili non solo del nostro patrimonio culturale, ma del concetto di sviluppo e, in definitiva, del nostro futuro.
Lo slogan è già confezionato: «Scenderà in campo per difendersi il lunedì di ogni settimana». E il «campo», nello specifico, sono le aule di giustizia dove fronteggiare le acerrime nemiche toghe ovviamente «comuniste ».
Dopo vari tentennamenti, la strategia della resistenza giudiziaria del premier sembra essere decisa: per la prima volta nella sua lunga carriera di imputato (17 processi, 4 ancora aperti, in aula una volta sola nel 2003, caso Sme), Silvio Berlusconi farà il suo dovere di cittadino. La decisione arriva, non a caso, in occasione del processo più «spettacolare», quello per Ruby e le feste di Arcore che si terrà nel pieno della campagna per le amministrative (si rinnova il sindaco anche a Milano), e mentre il suo gradimento è al minimo storico.
Ancora una volta il Cavaliere cercherà di trasformare l’angolo del ring in cui è costretto in una ribalta. Ma soprattutto, se il Tribunale accetterà la richiesta della difesa di un’udienza al mese per ciascuna inchiesta, il processo Mills è in pratica già prescritto, quello Mediaset/1 quasi.
L’onorevole avvocato Niccolò Ghedini conferma la strategia – ne aveva già parlato in settimana - ieri mattina davanti all’aula del gip di Milano che ha appena rinviato l’udienza preliminare Mediaset/2 per un doppio difetto di notifica. «Non esiste un precedente di persona imputata in quattro procedimenti contemporaneamente - spiega Ghedini - dunque quello che abbiamo proposto al presidente del Tribunale Livia Pomodoro, visto che Berlusconi vuole essere presente, è di dedicare il lunedì ai processi, magari anche con un doppio turno, la mattina un’udienza preliminare e il pomeriggio uno dei dibattimenti. Questo è il massimo dello sforzo: non credo si possa chiedere di più a un capo di governo.E d’altra parte la Corte Costituzionale, che ha mantenuto in vita l’impianto del legittimo impedimento, dice chiaramente che le esigenze dell’imputato con incarichi di governo devono essere prese nella massima considerazione».
Le parole di Ghedini dicono molto, sottintendono di più, dimenticano altrettanto. Tra le dimenticanze, una su tutte: se il premier è imputato in quattro processi contemporaneamente è perché ha esaurito le scappatoie per rinviarli e non può fare altro che affrontarli. Ma sono i sottintesi a pesare di più. Dal punto di vista politico la scelta di essere in aula - “sempre, anche quando parleranno i testimoni” precisa Ghedini - è mossa da giocatore d’azzardo che tenta il tutto per tutto contro il nemico-giustizia e gli assicura una ribalta mediatica eccezionale. Cosa potrà dire o fare il premier-imputato quando Nicole Minetti o Ruby Rubacuori (teste della difesa) dovranno spiegare i bunga bunga ad Arcore? O quando Barbara Faggioli o Iris Berardi racconteranno delle intercettazioni in cui dicono che “fare sesso col Cavaliere è stressante”? I media sono già in fila per lo show. E lui, che è uomo di spettacolo, si frega le mani. Fuori da Palazzo di Giustizia il Pdl ha montato un gazebo con lo striscione “Fuori la politica delle aule di giustizia”. L’udienza è pubblica, nulla dovrebbe ostare alla presenza di taccuini e telecamere. Ma il presidente del Tribunale Giulia Turri potrebbe anche decidere diversamente.
Quello che Ghedini non dice ha peso soprattutto sul piano processuale. La presenza in aula è indispensabile perché la contumacia potrebbe negare le attenuanti generiche di cui beneficiano gli incensurati. E Berlusconi lo è. Poi, al passo di un’udienza al mese, è garantita la prescrizione di almeno due dei quattro processi: Mills “muore” tra gennaio e febbraio 2012 e si prescriverà senza una sentenza perché 7-8 udienze (nel 2011 restano 33 lunedì al netto di ferie e feste, divisi per quattro processi sono appunto 7-8 udienze per ciascuno) non sono sufficienti.
La fine è prossima anche per Mediaset/1 che deve ancora sbrigare un paio di complesse rogatorie. I tempi del processo Ruby dovrebbero essere brevi e la procura ha già ribadito la corsia “preferenziale” in quanto rito immediato ma le eccezioni della difesa li potrebbero forzare. Vedremo cosa deciderà il Tribunale. Ma se non dovesse accettare quello che Ghedini definisce “il massimo sforzo”, restano pur sempre il Parlamento e qualche leggina. Intanto da giovedì comincia l’iter di legge sulla separazione delle carriere tra giudici e pm e sulla modifica del Csm. Una riforma, per il premier, “epocale” .
Era il 25 marzo 1911, un incendio divampò nella camiceria "Triangle Shirtwaist", a New York. Dei centoquarantasei morti, centoventinove erano ragazze: siciliane, russe, ucraine Le fiamme divennero simbolo dello sfruttamento femminile e cambiarono la coscienza americana. Ma soltanto oggi gli ultimi corpi delle sarte sono stati identificati: tre erano italiane.
Fu lo spaventoso crogiolo dell’immigrazione, la fonderia umana nella quale si fusero per sempre i corpi, le identità e le nazionalità dai quali sarebbe nata la New York che conosciamo. Erano soprattutto donne, italiane e ucraine, russe e palestinesi, rumene e irlandesi, le cucitrici che furono consumate insieme un secolo fa esatto nel rogo della camiceria "Triangle Shirtwaist" del Village, negli appena diciotto minuti trascorsi fra il primo grido di «Al fuoco! Al fuoco!» e lo spegnimento. Alla fine furono centoquarantasei morti, tutti fra i sedici e i ventitré anni, piccole schiave incatenate alle macchine per cucire e ai tavoli per il taglio della tela ai quali furono trovate fuse insieme. New York avrebbe dovuto attendere novant’anni, fino all’11 settembre 2001, per subire una carneficina più orribile.
Fu il rogo che cambiò e sigillò il destino di una grande città e di chi ci avrebbe vissuto e lavorato dentro, secondo un canovaccio terribile e ripetuto tante volte nella storia americana periodicamente illuminata da immensi incendi, nella Chicago dei mattatoi industriali, nella San Francisco degli avventurieri, nella Atlanta sconfitta dalla Guerra civile, nella New York selvaggia del primo Novecento, come se il parto doloroso di questa grande nazione avesse bisogno di un falò, per ripartire. Ma di storia, di destini da Roma di Nerone, di crogioli che scuotessero anche le autorità giudiziarie e politiche dal loro comodo, e spesso corrotto, laissez faire, alle centoventinove camiciaie e ai loro diciassette colleghi maschi nell’East Village poco importava.
A Bessie la russa, a Peppina e Concetta le italiane, a Fannie l’ucraina, vittime identificate a fatica e alcune soltanto ora e finalmente sepolte con un nome nel cimitero immenso dei "Sempreverdi" fra Brooklyn e Queens, da un ricercatore ossessionato da quell’incendio, importava soltanto guadagnare quello che il capo reparto decideva di pagarle alla fine di ogni giorno. Non c’erano salari fissi né contratti sindacali. Un dollaro, due al giorno, mai di più, per restare entro i costi previsti dai due proprietari della azienda: diciotto dollari ogni dodici camicie, un dollaro e mezzo a camicia.
Poche di loro, in quel palazzo di dieci piani a pochi passi da Washington Square, nel cuore del Village, chiamato Asch Building, parlavano inglese e capirono che cosa significasse l’urlo che risuonò alle quattro e quarantacinque di un pomeriggio di primavera 1911, il 25 marzo: «Fire! Fire!». Non che la comprensione immediata dell’allarme avrebbe potuto fare molta differenza per le donne e gli uomini che tagliavano, cucivano, lavavano, stiravano e stendevano le camicie. Lo sweathshop, la fabbrica del sudore, occupava tre piani, tra l’ottavo e il decimo, e l’ottavo era bloccato. Tutte le porte erano chiuse dall’esterno e le lavoranti controllate una per una alla fine del turno, perché non rubassero utensili, forbici, aghi, filo o pezze di prezioso cotone.
Il secchio d’acqua che un impiegato della contabilità, William Bernstein, tentò di rovesciare sul focolaio acceso, attingendo all’unico rubinetto funzionante nello stanzone, non avrebbe potuto nulla contro un incendio che trovò, forse per una cicca accesa, nei mucchi di scampoli accatastati sul pavimento, nelle camicie stese ai fili e già asciutte, nel legno del pavimento e dei tavoli, il combustibile ideale. I racconti dei pochi superstiti, come Bernstein che testimoniò al processo contro i due soci proprietari della "Camiceria Triangolo" condannati per omicidio, sono pagine tratte dall’immaginario infernale da catechismo.
Sono scene di donne già in fiamme che correvano cercando di sfuggire al fuoco che stava bruciando le gonne e i capelli, tuffi silenziosi e senza grida di altre che si lanciavano dalle finestre scegliendo il suicidio, fotogrammi di ragazzine «semplicemente impietrite», disse Bernstein, incapaci di muoversi e di reagire. Immobili nell’attesa certa e rassegnata di diventare torce viventi o di cadere asfissiate dal fumo. I vigili del fuoco che, incredibilmente, riusciranno a spegnere un incendio all’ottavo piano in appena diciotto minuti, troveranno sartine fuse con la macchina per cucire alla quale morirono abbracciate, come se non avessero voluto separarsi da quell’utensile che aveva dato loro un mezzo per vivere nella città dove erano approdate.
Molte di loro non sarebbero state identificate per decenni, le ultime per un secolo, come Elizabeth Adler, rumena di ventiquattro anni, come Maximilian Florin, russo di ventitré anni, come la "morta numero 85", una caduta ignota sepolta per novantanove anni con questa lapide, e sarà colei dalle quale partirà, quasi per caso, il cammino di uno storico appassionato di genealogia, Michael Hirsch, ossessionato dall’incendio che cambiò New York. La "vittima numero 85" sarebbe risultata essere la sorella di una giovane di diciassette anni sepolta in un altro cimitero, sotto una lapide che ricorda misteriosamente «la sorella uccisa», senza altre indicazioni. Da quella tomba, Hirsch sarebbe risalito a una pronipote ottuagenaria, pensionata in Arizona. Da lei, dai suoi confusi ricordi personali di prozie perdute all’inizio del Novecento, avrebbe scalato l’albero della loro storia e trovato un nome, nell’elenco delle impiegate della "Camiceria Triangolo", una scomparsa dopo il 25 marzo 1911. E da lì sarebbe risalito alla tomba del cimitero di Brooklyn, finalmente dando un nome a quei resti: Maria Giuseppina Lauletti. Siciliana di vent’anni.
Con lei, l’appello dei morti è stato completato. Sotto il monumento che ricorda quel giorno, sono stati scritti i nomi degli ultimi sei ignoti, Max Florin, Concetta Prestifilippo, Josephine Cammarata, Dora Evans and Fannie Rosen e un atto di pietà è stato scritto. Ma il vero memoriale al rogo delle cucitrici non è in quel cimitero. È nella carne viva della città, che la strage cambiò per sempre e che anche il più "casual" dei turisti può vedere, senza neppure saperlo. Il processo contro i due soci proprietari, che le autorità cittadine perseguirono con tutta la furia e la severità di chi sapeva di avere la coda di paglia politicamente infiammabile quanto quelle camicie, riscrisse e impose la normativa antincendio nella città cresciuta senza regole. Costruì e rese obbligatorie ovunque quelle scale esterne che oggi si vedono pendere dagli edifici più bassi e che ogni film poliziesco o di horror usa per gli incubi degli spettatori. Cominciò la bonifica dei tenement, quei termitai in affitto, come dice il nome, dove le onde umane dei nuovi immigrati si accatastavano una sull’altra facendo di New York all’inizio del secolo scorso la città più densamente popolata del mondo. I regolamenti per la bonifica dei tenement esistevano già da dieci anni, ma né il Comune, né la polizia, né la magistratura si erano mai dati la pena di farli rispettare, nel nome della crescita rapinosa e della generosità sottobanco dei signori dei termitai. E quelle ottantacinque ore di lavoro alla settimana che le ragazzine dell’ottavo piano dovevano subire apparvero, finalmente, intollerabili.
Gli scioperi degli altri schiavi delle macchine per cucire a Philadelphia, a Baltimora, nel Village e nel Garment District di Manhattan, che ancora esiste ma langue nella concorrenza impossibile dei nuovi schiavi che tagliano camice e abiti in Estremo Oriente, incontrarono l’appoggio di un pubblico che, fino a quel falò, preferiva schierarsi con chi offriva loro, a qualunque prezzo, un lavoro. Per anni, e invano, altri operai e operai dell’industria tessile avevano organizzato scioperi. E in un’altra fabbrica del sudore a New York, pochi anni prima, si sarebbe visto lo spettacolo inaudito e terrorizzante del primo sciopero indetto e organizzato interamente da donne. I ritocchi salariali e miglioramenti avevano appena sfiorato le ragazze della "Camiceria Triangolo", reclutate fra le più giovani, le più timide, le più docili immigrate dalla Sicilia, dai ghetti d’Ucraina e di Russia. Lo Asch Building è ancora lì dov’era nel pomeriggio del 25 marzo 1911, ribattezzato Brown Building e oggi parte della New York University alla quale fu donato. È un edificio poco interessante, nella banalità dello stile neo rinascimentale che disseminò di palazzi simili le città americane, e alle finestre dell’ottavo piano, oggi sede di rispettabili studenti e insegnanti di scienze, c’è qualche condizionatore d’aria. È un luogo un po’ freddino, poco trafficato, stranamente silenzioso nonostante la prossimità con Washington Square, il cuore del Village. Non entra in nessuna foto o videoclip ricordo del viaggio a New York. Si incrociano giovani, studenti, soprattutto studentesse, belle, serie, sorridenti, decise, occupate a vivere quel sogno che altre ragazze cucirono anche per loro, con la propria vita.
Sulle origini della festa dell’8 marzo vedi anche l’eddytoriale n. 6
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis i Funerailles di Ferenc Liszt. Dai titani come l'Ente Teatrale Italiano e il giovane Napoli Teatro Festival, fino ai piccoli e piccolissimi, come Suoni e Visioni di Milano, rassegna per ora sospesa: la grande moria non risparmia nessuno.
Nel 150° anniversario dell'Unità d'Italia, Nord, Centro e Sud sembrano darsi la mano in questo piccolo monumento ai caduti della cultura, e tra i tanti simboli fa impressione la presenza della Biblioteca di Storia Patria, che ha dovuto sospendere le attività. Lo dedichiamo soprattutto ai tanti militi ignoti che non abbiamo segnalato: questa è solo una parziale lista di quello che non c'è più. La soppressione delle iniziative di Emma Darete, Nino D'Angelo, Ascanio Celestini e Gigi Proietti, protagonisti della scena tra loro diversissimi e tutti però molto amati dal pubblico, è lì a dimostrare che la piccola Shoah culturale italiana travolge tutto. Ma quello che abbiamo perso negli ultimi anni è molto di più, spiega Pietro Longhi dell'Agis: «Gli spettacoli si fanno più semplici, rozzi, senza scenografie, senza luci, pochi gli attori e non sempre professionisti, si preferisce la forma monologo». E, aggiungiamo, sempre meno idee.
PRECARI
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis Les adieux di Ludwig van Beethoven. Da qualche tempo nelle nostre istituzioni e associazioni culturali si celebra un macabro rituale: di fronte ai ripetuti tagli tutti i contratti cosiddetti internali - a tempo determinato, a progetto e collaborazioni di vario genere - sono stati lasciati morire. Da una parte una intera generazione di giovani, spesso laureati e con specializzazione, si troverà non solo senza lavoro, ma con il percorso che li avrebbe dovuti portare a contratti più stabili brutalmente "interrotto. Dall'altra invece tutta una serie di professionisti che erano impiegati su mansioni specifiche - fotografi, datori luce, grafici, strumentisti, costumisti e così via -, non vedranno rinnovarsi le loro collaborazioni. Uno di loro spiega: «Il segno dei tempi è il cellulare: non squilla più». Anche loro sono i caduti della cultura, che fino a oggi hanno lavorato per i musei, le gallerie, gli archivi, il cinema, le stagioni teatrali, musicali e della danza. Senza considerare i tecnici, i restauratori, gli architetti impegnati nella tutela dei beni archeologici e architettonici. Per tutti loro una nazione che si vanta di essere la culla della cultura europea e mondiale non riserva neppure uno straccio di ammortizzatori sociali. Non ci sono neanche per attori, coreografi registi, danzatori, scenografi, musicisti che hanno fatto della libera professione la loro vita. In altri paesi del mondo, con tradizioni e patrimoni ben inferiori del nostro, i lavoratori della cultura, soprattutto nello spettacolo, godono di protezione sociale proprio perché si tratta di una occupazione spesso stagionale e comunque di natura intermittente.
REGIONI ED ENTI LOCALI
Mentre a Montecitorio sventolano le bandiere della Lega per la recente approvazione dei decreti sul federalismo, Regioni ed Enti locali - province e comuni si trovano ad affrontare pesanti tagli sulla spesa corrente e dunque anche alla cultura. Ma, è bene ricordarlo, in una situazione così difficile non sempre le amministrazioni locali si sono mostrate all'altezza: esemplare quanto è successo al Napoli Teatro Festival, abbattuto quasi per ripicca dall'assessore alla giunta regionale campana che aveva cambiato di segno. Ma stupisce anche la chiusura dell'Orchestra di Roma e del Lazio, unica istituzione musicale che faceva attività in regione, lasciata deperire e morire negli ultimi tre anni. E sempre nel Lazio la giunta di Renata Polverini taglia i fondi ai festival e alle officine culturali, di teatro sociale e di coreografia, per spendere immaginate un po' in cosa? In sfilate di moda. La regione Abruzzo ha azzerato i contributi alle iniziative culturali medio-piccole e, per esempio, un comune come Terni a tutte le attività culturali. Propense agli eventi, spesso autocelebrativi, demagogici e con fini clientelari - si pensi al Carnevale romano della giunta Alemanno con una spesa di un milione di euro ad affidamento diretto senza bandi di concorso -, le amministrazioni locali sono spesso complici del disfacimento culturale.
AGGRAPPATI ALLA VITA
Ai pianisti d'Italia è concesso come bis una gran variazione sull'aria Mi lagnerò tacendo di Gioachino Rossini. Restare vivi, mentre ti tolgono lentamente l'ossigeno: lo facessero alle rane interverrebbe la protezione animali. Succede invece alle nostre istituzioni culturali: accanto ai resti della Schola Armaturarum, alle ruspe che aggrediscono Tuvixeddu, al Borgo Leri Cavour, ci sono musei, archivi, istituti di cultura, mostre, gallerie, biblioteche che restano attaccati alla vita. Continuano tra mille difficoltà la loro missione perché sanno che fermarsi ora vorrebbe dire chiudere per sempre, e abbandonare i loro patrimoni materiali e professionali al degrado, all'incuria, alla dispersione. E’ emblematica la situazione della Nazionale di Firenze, una delle più importanti biblioteche non solo d'Italia, ma del mondo, che azzoppata dai tagli apre solo per mezza giornata. Oltre all'orario e al personale in molte altre istituzioni si riducono le attività, non si fanno più servizi per le scuole né per i giovani e gli anziani. Poi arriverà qualche sapientone che dirà: «Sono enti inutili!». Li stanno rendendo inutili. E allora questo monumento è dedicato anche a loro, perché continuino a vivere e far vivere la cultura nel nostro paese, che forse non se li merita.
DEL DOMALA NON V’E’ CERTEZZA
I1 2011 andrà molto peggio: la fine è decretata dalle politiche di tagli agli investimenti del governo Berlusconi, articolate da Tremonti con il beneplacito del ministro dei Beni e delle Attività Culturali Sandro Bondi che, ai numerosi crolli di Pompei vuole affiancare una generale slavina, mentre scappa alla chetichella con pluriannunciate dimissioni, non ancora concretizzatesi. Consideriamo solo che il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali nel 2007 assorbiva il lo 0,29 % del bilancio dello stato: una cifra irrisoria rispetto al resto d'Europa. Bene nel 2011 questa quota è crollata allo 0,16. Nel 1968 dopo una lunga discussione, il parlamento con la legge 800 puntava a una distribuzione capillare delle attività culturali sul territorio che affiancasse la tutela dei beni culturali: oggi assistiamo a un processo inverso. Un'offerta di modestissimo profilo punteggiata forse da qualche evento, ma è solo una ipotesi, resisterà nelle grandi città, ma la desertificazione culturale è già in stato avanzato nei piccoli e medi centri, soprattutto al Sud. Una scelta di portata terribile, che il centrodestra si è arrogato senza alcuna discussione in Parlamento e quindi in maniera assai discutibile. Chi li fermerà?
Chi soffre di più
Istituti: nel 2011 un taglio ulteriore del 16%
Custodi di importanti archivi e biblioteche, promotori di iniziative, gli istituti di cultura negli ultimi due anni hanno visto ridursi all'osso i finanziamenti. Nel 2011 avranno un ulteriore taglio del 16%: meno attività, riduzione di personale e orari saranno le inevitabili conseguenze. Molti rischiano di dover sospendere le attività.
Giornata mondiale del teatro. In Italia niente da festeggiare
Il 27 marzo si tiene in 5 continenti la giornata mondiale del teatri ad eccezione che in Italia, dove non c'è nulla da festeggiare. Il governo ha cercato di far passare la cosa sotto silenzio, ma associazioni, teatri, compagnie e movimenti promettono una giornata di protesta e sensibilizzazione: ma per favore non la chiamate «festa della morte del teatro».
Stabili e orchestre a rischio chiusura
L'Italia, paese del melodramma, rischia di veder chiudere i suoi maggiori teatri e orchestre a causa dei tagli agli investimenti dello stato. I finanziamenti coprono a mala pena i soldi che i teatri rendono allo stato sotto forma di contributi e tasse. Caso emblematico la Scala che nel 2010 ha versato 30 milioni di euro in più di quanto riceverà nel 2011.
Archeologi e restauratori in sofferenza
Il ministero dei Beni e delle Attività Culturali nel 2004 assorbiva lo 0,34% del bilancio dello Stato, nel 2007, lo 0,29, nel 2011 la spesa è crollata allo 0,16%. In Francia è dello 0,90%, in Gran Bretagna dell' 1,20. Sono stati particolarmente penalizzati l'archeologia e i beni architettonici: solo tra i tecnici restauratori mancano dall'organico da 500 a 600 unità.
PIÙ TASSE PER TUTTI
Il governo che doveva togliere le tasse ha messo una tassa di un euro sui biglietti del cinema. Da luglio, insomma, si pagherà di più per vedere i film, mentre tutte le associazioni protestano
TEATRO
ETI Ente Teatrale Italiano (Roma - Italia)
Napoli Teatro Festival (Napoli)
Teatro Trianon Napoli
Rassegna Suoni & Visioni Milano (sospeso attività)
Festival Teatri delle Mura a Padova
Rialto Sant'Ambrogio (Roma)
Cinema Teatro Politeama Asti
Rosso Festival Caltanissetta
Laboratorio teatrale Gigi Proietti (Roma)
Teatro San Martino Bologna (sospeso attività)
Teatro Sociale Canicattì (sospeso la stagione)
Rassegna 'Castelli in scena' (Alba)
Festival 'Dreamtime' (in forse)
Teatro del Lido Ostia (occupato)
Teatro Politecnico (Roma)
Festival Bestiario (Roma)
Festival Bella ciao (Roma)
Festival Dedica Asolo
Teatro carcere al Due palazzi (Padova)
Filo d'Arianna Festival (Belluno)
Fondazione Toscana Musica e Arte (Arezzo)
Teatro Petrarca (Arezzo chiuso per restauro da 4 anni)
MUSICA
Orchestra Regionale di Roma e del Lazio
Festival Progetto Musica (Roma)
Festival Barocco (Viterbo)
Centro Reggino di Musica Classica (Reggio Calabria)
Centro Jazz Calabria (Cosenza)
Associazione Musicale Felice Romani (Moneglia)
Rassegna Canto delle Pietre (Como)
Autunno musicale (Como)
Arezzo wave (trasferito)
DANZA
Compagnia Danza Ricerca
Compagnia Associazione Florence Dance
Compagnia Il pudore bene in vista
Corpo di Ballo del Teatro Verdi di Trieste
Dance Festival (Olbia)
Culture dei Mari - Comitato Euromediterraneo
ARCHEOLOGIA
Casa Armaturarum (Pompei)
Centro storico dell'Aquila (abbandonato dopo il terremoto)
Zona Archeologica Campi Flegrei (Napoli)
Museo Archeologico Castello di Baia (Napoli)
Domus Aurea
Cantiere Navi (Pisa)
Museo regionale di scienze naturali di Torino
Reale tenuta di Carditello (Caserta)
Sito di Tuvixeddu
Borgo di Leri Cavour (Torino-Vercelli)
Villa Reale (Monza)
Città della Scienza di Roma (progetto esecutivo non realizzato)
BIBLIOTECHE
Biblioteca Nazionale Firenze (apre solo per mezza giornata)
Biblioteca di società di storia patria Napoli (sospeso attività)
Biblioteca del Conservatorio S. Pietro a Majella Napoli
Biblioteca comunale San Lorenzo Roma (sezione ragazzi chiusa)
Sistema bibliotecario di Villa San Giovanni Reggio Calabria
ET ALIA
Festival internazionale del cinema di animazione (Lucca)
Rassegna Alba Libri (Alba)Cantieri Culturali alla Zisa (In abbandono - sospensione regolare attività sull'arte contemporanea)
Teatro San Gerolamo di Milano (da anni si annuncia la riapertura)
L’ ultima volta, due anni fa, era sceso in campo addirittura Renzo Piano. Una stroncatura netta, senza appello, da parte dell’archistar genovese per la colata di cemento che avrebbe dovuto trasformare uno dei più antichi porticcioli d’Italia, un’ansa naturale fatta apposta per pescherecci, gozzi e yacht di medie dimensioni, in un’anonima megastruttura come tante che costellano le nostre coste. Allora la sollevazione di big, intellettuali e, soprattutto, dei cittadini di Santa Margherita Ligure bloccò quella che venne ritenuta unanimemente una mera speculazione edilizia.
Ora ci riprovano e puntualmente riesplodono le polemiche. Santa Margherita non è Rapallo, simbolo nazionale dello stravolgimento ambientale, del cemento e dell’edilizia selvaggia (non a caso è stato coniato un neologismo, «rapallizzazione», per identificare il tirar su case senza rispetto del territorio) e ha sempre conservato un’alta sensibilità in difesa delle sue colorate abitazioni storiche, gli edifici ad anfiteatro affacciati sul porto, le piazzette e i vicoli pittoreschi, i negozi ricercati. Tanto da diventare approdo e rifugio per numerosissimi milanesi e torinesi, lombardi e piemontesi.
Il nuovo progetto, proposto dalla società «Santa Benessere & Social» prevede un investimento di 70 milioni di euro, un notevole ampliamento del porto e la riqualificazione della zona a sud (sono state già rilevate le licenze di tre stabilimenti balneari) con la creazione di un centro di talassoterapia sul modello della francese Saint Malo. Per quanto riguarda il porto l’obiettivo è di allungare la diga foranea di 80 metri e il molo di sottofluttuo di un centinaio di metri, con la creazione di 150 nuovi posti barca in grado di garantire lo stazionamento per tutto l’anno anche di maxiyacht di oltre 50 metri. Il centro di talassoterapia sarebbe invece dotato di 250 parcheggi interrati, 25 suites, piscine, campi da tennis, negozi e ristoranti. Secondo i promotori verrebbero garantiti 195 posti di lavoro più altri 350 nell’indotto, con una ricaduta annuale sul territorio di 31 milioni di euro.
Ma chi sono questi promotori? Si tratta di imprenditori e professionisti che stanno pianificando importanti business nel levante ligure, ma che hanno intenzione di sbarcare anche a Genova e non solo. La «Santa Benessere & Social» fa capo a una società lussemburghese, la Rochester Holding, a sua volta controllata da società domiciliate nelle Isole Vergini e a Panama, ma comunque riconducibili a Gabriele Volpi. Nato a Recco, 68 anni, uomo d’affari (ricchissimo, jet Falcon 900 da 11 posti, yacht da 60 metri, società off shore, uffici a Londra, villa sopra Santa Margherita) opera da trent’anni in Nigeria (ha anche la cittadinanza) nell’indotto del petrolio e del gas attraverso la holding Intels: possiede terminal portuali e organizza la logistica e i campi con tanto di scuole, ospedali, mense e tutti i servizi per migliaia di dipendenti Eni e Bp. Amico di Gianpiero Fiorani sin dai tempi in cui, ragazzo, lavorava alla Lodi, Volpi è proprietario della Pro Recco (che è un po’ il Barcellona della pallanuoto) e dello Spezia Calcio. Secondo alcuni sarebbe accreditato come futuro patron della Sampdoria il giorno che Riccardo Garrone passasse la mano.
Accanto a Volpi, come amministratore delegato della «Santa Benessere», troviamo il costruttore Gianantonio Bandera, uomo vicinissimo al Segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone dai tempi della sua permanenza a Genova. Proprio il cardinale lo ha voluto nel cda della Fondazione Magistrato di Misericordia che amministra immobili della curia genovese (Angelo Bagnasco che la presiede lo ha riconfermato) e nel cda della Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo (Padre Pio), oltre a sceglierlo fra i realizzatori del nuovo centro dell’ospedale Bambin Gesù a Roma. Presidente della «Santa Benessere», infine, è l’avvocato Andrea Corradino, presidente di Banca Carispezia (gruppo Credit Agricole), vicepresidente dello Spezia Calcio e legale di fiducia del senatore Pdl Luigi Grillo, intimo (anche per via delle comuni vicende giudiziarie) dell’ex governatore Antonio Fazio e di Fiorani. Un gruppo affiatatissimo che troviamo anche dietro ad altre due operazioni immobiliari milionarie per cambiare il volto di Recco.
Se contro il vecchio progetto di porto turistico vi fu il no compatto di intellettuali, ambientalisti e amministratori pubblici, questa volta si registrano alcuni distinguo. Il comune, con il sindaco Roberto De Marchi in testa, è possibilista. Allettato dagli ipotetici nuovi posti di lavoro in un periodo effettivamente molto difficile sul fronte occupazionale, il sindaco ha detto che il progetto è «un’ipotesi sulla quale lavorare». Rossella Rosa, presidente della delegazione Portofino Tigullio del Fai (Fondo Ambiente Italia) parla addirittura «di riqualificazione di cui c’era bisogno».
L’avvocato Francesco Maria Ortona, leader della vecchia battaglia con il movimento «Tuteliamo Santa», spara invece ancora una volta ad alzo zero. Definisce il progetto «surreale» e paventa «una rapallizzazione trent’anni dopo». Il giornalista e uomo di mare Piero Ottone teme uno snaturamento di Santa e si schiera contro il progetto. Suo un accorato appello in cui scrive: «Spero ardentemente nella conservazione di Santa Margherita così com’è, perla del Tigullio, città e porto di incomparabile bellezza, una delle poche meraviglie che siamo riusciti finora a conservare in un’Italia molto mal ridotta». E di «rischio di svendita del territorio» parlano l’associazione internazionale «Amici del Monte di Portofino» guidata da Raffaello Uboldi, l’associazione «Gente di Liguria» con Marco Depino e l’associazione «Città Futura» con Alberto Cattaneo. E Piano? Per ora tace. Anche se con Bandera ha un precedente. Il costruttore qualche anno fa aveva proposto una marina nel quartiere genovese della Foce, poco distante dalla Fiera. L’architetto liquidò così il progetto: «Un porticciolo di quelli che impestano l’Italia».
CAGLIARI. Hanno vinto Renato Soru e il suo governo regionale: il vincolo da 50 ettari su Tuvixeddu e Tuvumannu è pienamente giustificato dall’obbiettivo di tutelare non solo un bene culturale come la necropoli punico-romana ma un paesaggio storico arricchito dalla presenza di un’area archeologica.
L’ha stabilito con la sentenza depositata ieri il Consiglio di Stato. I giudici della sesta sezione - presidente Giuseppe Severino - hanno accolto integralmente il ricorso presentato dalla Regione, da Italia Nostra e da Sardegna Democratica contro la decisione del Tar Sardegna, che tre anni fa aveva dato ragione alla Nuova Iniziative Coimpresa del gruppo Cualbu e al Comune di Cagliari, annullando il divieto di costruire imposto dalla Regione con l’applicazione del piano paesaggistico. Allo stato delle cose, all’interno dell’area circoscitta a suo tempo dall’amministrazione Soru non potrà essere messo in piedi un solo mattone. Sarà un’intesa tra Comune e Regione - scrivono i giudici - a concordare una nuova disciplina di salvaguardia. Ma il Consiglio di Stato ricorda come «all’interno dell’area individuata è prevista una zona di tutela integrale, dove non è consentito alcun intervento di modificazione dello stato dei luoghi e una fascia di tutela condizionata».
Per la seconda volta dopo il caso Cala Giunco i giudici amministrativi supremi affermano che il Codice Urbani, interamente recepito dal Ppr, prevale su qualsiasi altro strumento di pianificazione locale e per la prima volta stabiliscono che la tutela del paesaggio inteso come un insieme storico-ambientale - prevista dalla Costituzione - deve venire prima di ogni altro interesse per quanto legittimo. Le trentadue pagine della sentenza confermano riga per riga, concetto per concetto, quanto la direzione regionale dei beni culturali retta da Elio Garzillo e le associazioni culturali ed ecologiste come Italia Nostra e Gruppo di Intervento Giuridico hanno sostenuto in ogni sede: il vincolo imposto su Tuvixeddu col Ppr, in linea con il Codice Urbani, è giustificato dalle emergenze archeologiche e dal contesto. La presenza di «opere preesistenti - scrivono i giudici - anziche impedire, maggiormente richiede che nuove costruzioni non deturpino ulteriormente l’ambito protetto».
Ma al di là del linguaggio proprio del diritto amministrativo, i dati centrali che emergono dalla sentenza sono due: il primo è che dal 2000, quando venne firmato l’accordo di programma tra Regione, Comune di Cagliari e Coimpresa, si sono verificati nuovi ritrovamenti archeologici. Un elemento sempre negato dai legali del gruppo Cualbu ma accertato dalle indagini del nucleo investigativo della Guardia Forestale e confermato dalla Procura della Repubblica. L’altro è che da allora ad oggi è cambiato il quadro legislativo, perchè il Codice Urbani - come i giudici confermano con grande chiarezza - è uno strumento di tutela del paesaggio come contesto storico-ambientale. Quindi non ha alcuna rilevanza che tra un quartiere da costruire - come nel caso di Tuvixeddu - e l’area archeologica scavata esista una qualche distanza: è l’insieme che dev’essere difeso, al di là di ciò che sta dentro il compendio e persino di quanto vi è stato costruito attorno in passato.
Scrivono i giudici: «La cura dell’interesse pubbico paesaggistico, diversamente da quello culturale-archeologico, concerne la forma del paese circostante non le strette cose infisse o rinvenibili nel terreno con futuri scavi». Di conseguenza ha fatto benissimo la Regione a imporre col Ppr un «vincolo ricognitivo» molto più ampio dell’area storica («un vincolo di pertinenza psichiatrica» l’avevano definito nella memoria depositata in giudizio i legali di Coimpresa) perchè quello che conta, al di là degli interessi privati, è la tutela del bene pubblico nel suo complesso.
Ma c’è dell’altro. Coimpresa ha contestato alla Regione la carenza di istruttoria, vale a dire il fatto di aver imposto i vincoli senza motivarli e senza dimostrarne a sufficienza la necessità. I giudici di palazzo Spada smentiscono Coimpresa e il Comune di Cagliari anche su questo: fin dal 16 ottobre 1997 la commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Cagliari aveva chiesto l’imposizione sull’area di Tuvixeddu di un vincolo paesaggistico. Ed è su quell’istanza che l’amministrazione Soru nel 2006 cercò di imporre il vincolo per notevole interesse pubblico, poi bocciato dai giudici amministrativi per l’illegittimità della commissione. Comunque qualcuno s’era mosso fin dal 1997, tre anni prima che venisse firmato l’accordo di programma ora travolto dalla sentenza del Consiglio di Stato.
Qui potete raggiungere la sentenza del Consiglio di Stato, di grande rilievo non solo per Tuvixeddu.
Non pioveva così da quarant’anni, secondo le imperturbabili statistiche della meteorologia nazionale, nelle Marche flagellate dal maltempo. E di fronte alla tempesta di acqua, neve e vento che imperversa da un capo all’altro dello Stivale, è forte la tentazione di ricorrere ancora una volta al cinismo di un vecchio proverbio popolare, per dire che da quarant’anni non avevamo un governo tanto incline all’appropriazione indebita e al consumo del territorio. Ma in realtà questa è solo l’ultima puntata, in ordine di tempo, di una storia infinita che purtroppo dura da sempre e ormai ha trasformato la nostra beneamata penisola nel Malpaese più sinistrato e vulnerabile d’Europa. Auguriamoci che, prima o poi, arrivi a un epilogo ragionevole.
Non c’è disastro o calamità naturale infatti che possano essere relegati nella dimensione biblica della fatalità, senza chiamare in causa le responsabilità o quantomeno le corresponsabilità dell’uomo, l’uomo di governo e l’uomo della strada, il potente e il cittadino comune. Vittime, feriti e dispersi; frane, smottamenti e alluvioni; danni e rovine non sono altro che il triste risultato del combinato disposto tra la furia degli elementi e l’inerzia o l’incuria degli esseri umani. Tutto è, fuorché emergenza: cioè eventualità imprevista e imprevedibile, caso fortuito, accidente della storia.
Non sorprende perciò più di tanto neppure la notizia che in Indonesia la ricostruzione post-terremoto sia proceduta più rapidamente che all’Aquila. Nonostante la retorica dei trionfalismi governativi, qualcuno avrebbe potuto meravigliarsi semmai del contrario.
C’è sempre la mano dell’uomo, il suo intervento, la sua assenza o comunque la sua complicità, nel dissesto del territorio che aggrava gli effetti e le conseguenze dei fenomeni naturali. Vale a dire il consumo eccessivo del suolo, l’alterazione diffusa dell’assetto idro-geologico, la cementificazione selvaggia delle coste, l’abusivismo e quantaltro. Quando le colline o le montagne franano a valle, molto spesso il fenomeno dipende dal disboscamento incontrollato che taglia gli alberi e distrugge la "rete" sotterranea delle radici. Quando i fiumi esondano, allagando le campagne e mietendo vittime, la causa più frequente è la deviazione degli alvei originari o la trasformazione artificiale degli argini. E così via, di scempio in scempio.
Manca una politica organica del territorio, difetta la prevenzione, si dispensano di tanto in tanto sanatorie o condoni: e allora sì, il governo è veramente "ladro", perché sottrae alla collettività e alle generazioni future un patrimonio irriproducibile. Ma manca perfino l’ordinaria manutenzione, quella che tocca innanzitutto allo Stato, agli organismi centrali e alle amministrazioni locali. E spetta però anche al privato cittadino: all’agricoltore, al proprietario, all’inquilino o al singolo condomino, a ciascuno di noi insomma nel proprio habitat vitale, per promuovere quella che Salvatore Settis chiama "azione popolare" nel libro intitolato Paesaggio, Costituzione, Cemento, invocando una battaglia per l’ambiente contro il degrado civile.
Politica del territorio significa, innanzitutto, governo e gestione del territorio. Cura, controllo, progettazione, pianificazione. Ma, ancor prima, significa cultura del territorio: cioè conoscenza e rispetto. Consapevolezza di un bene comune, di un’appartenenza e di un’identità. E quindi, difesa della natura, dell’ambiente, del paesaggio.
Un fango materiale e un fango virtuale minacciano oggi di sommergere l’Italia. Il fango prodotto dal maltempo, dall’acqua e dalla terra. E il fango prodotto dal malcostume dilagante, dall’affarismo e dall’edonismo sfrenato. Vanno fermati entrambi, in ragione della responsabilità e della solidarietà.
La convivenza di una comunità nazionale si fonda necessariamente sull’etica civile. Questa riguarda l’ambiente in senso stretto e l’ambiente in senso lato, la società e la politica. Non c’è legge elettorale, consenso popolare o federalismo municipale che possa surrogare o sostituire un tale valore costitutivo. È proprio attraverso la devastazione del territorio che rischia di passare fatalmente la disgregazione del Paese.
Sul margine della Laguna di Venezia, in un’area protetta dalla legge speciale del 1973 e dal Palav (un piano regionale con valenza di piano paesaggistico, sostitutivo del Piano comprensoriale mai definitivamente approvato) sta sorgendo un grande insediamento. Esso si aggiunge ai numerosi altri di cui si discute nell’area veneziana, frutto di una strategia largamente bipartisan che vede in uno “sviluppo” affidato alle infrastrutture d’ogni genere, al cemento, all’asfaltooo – e soprattutto agli affari immobiliari stimolati dall”economia di carta” – il futuro della regione e della sua classe dirigente. Dal giornale e dal sito di uno dei più combattivi comitati di cittadini (CAT - Comitati ambiente e territorio della Riviera del Brenta e del Miranese) riprendiamo un servizio sull’argomento.
La storia
Tutto inizia quando la Giunta di Giancarlo Galan, in scadenza di mandato, ha approvato un progetto strategico che individua proprio l’area in questione come ideale per lo sviluppo della “logistica”. Guarda caso, la collocazione di questa piattaforma si trova a due passi dal tracciato della cosiddetta “Romea commerciale” e al termine dell’altra autostrada in progetto, la famigerata “camionabile”.
Il disegno della Regione sembrava aver perso quota quando, pochi mesi fa, il Presidente dell’Autorità Portuale di Venezia ha avanzato decisamente l’idea di fare “massa critica” tra i porti dell’alto Adriatico, con l'obiettivo di attrarre le grandi navi provenienti dal canale di Suez e dall’Oriente. Secondo lo studio commissionato da Paolo Costa, infatti, il transito delle merci attraverso l'Adriatico e poi via ferro verso l'Europa centrale e orientale, sarebbe molto competitivo perché consentirebbe di risparmiare tempo, soldi e impatti ambientali (emissioni) rispetto all'attuale rotta che dal Mediterraneo risale fino ai porti del nord Europa. Insomma il nord-est potrebbe diventare uno degli accessi privilegiati delle merci verso i mercati del vecchio continente, arrivando a movimentare fino a 10 milioni di container (TEU) entro il 2020. Il progetto è già in fase avanzata e prevede per Venezia la costruzione di una piattaforma in mare aperto (Off-Shore) per l'attracco delle grandi navi fuori dalla Laguna; da qui le merci dovrebbero proseguire su chiatte fluvio-marittime per essere spacchettate e poi spedite in treno a partire da aree già attrezzate o predisposte come Porto Marghera, Chioggia, Porto Levante. Un'operazione potenzialmente interessante sia per gli aspetti legati alla riconversione di ampie zone industriali dismesse, sia per l'impulso che potrebbe dare al trasporto ferroviario e via acqua piuttosto che su gomma, sia per la creazione di nuovi posti di lavoro.
Ma gli eventi improvvisamente sembrano virare a favore della rendita immobiliare e della devastazione ambientale, da quando è rispuntata sul tavolo la proposta del Polo Logistico a Dogaletto, proposta dapprima ricevuta da Paolo Costa da parte della Alba srl proprietaria dei terreni, e poi trasmessa dallo stesso Costa al Sindaco di Mira Michele Carpinetti.
Il progetto, infatti, non solo consumerebbe 460 ettari di suolo libero invece di privilegiare la riqualificazione delle aree abbandonate di Porto Marghera, ma utilizzerebbe come infrastrutture di connessione proprio la camionabile e la romea commerciale.
Una assurdità se si pensa che completando i 13 km di Idrovia che mancano, si potrebbero far proseguire le chiatte verso l'interporto di Padova, integrando così nel sistema anche questo scalo (recentemente potenziato e dotato di terminal ferroviario).
I veri interessi in gioco
In realtà l'operazione Dogaletto ha tutta l'aria di essere una grande speculazione. A trarne i maggiori benefici sarebbero la società Alba srl del romagnolo Franco Gandolfi, proprietaria dei terreni agricoli sui quali dovrebbero essere stoccati i containers e anche della valle da pesca Miana Serraglia. Basti pensare che con il solo cambio di destinazione d'uso da zona agricola (E) a zona produttiva (D7), il valore del fondo schizzerebbe dagli attuali 7,5 euro/mq a 40-50 euro/mq, facendo guadagnare alla società almeno 165 milioni di euro in un solo colpo. Una cifra, questa, che comunque è sottostimata, visto che il progetto della Alba srl prevede anche ampie aree destinate a uso commerciale, direzionale e residenziale.
Ma la realizzazione del polo logistico interessa anche alla società GRA spa, che avendo in concessione la camionabile per 40 anni, si assicurerebbe un grande flusso di camion e quindi anche di denaro derivato dai pedaggi. Forse è bene ricordare a questo proposito che nel consiglio di amministrazione della stessa società GRA siedono uomini legati al PdL (Vittorio Casarin), alla Lega Nord (Attilio Schneck) e al PD (Lino Brentan); e che tra gli azionisti ci sono sia le imprese della “cricca” veneta come la Mantovani spa di Piergiorgio Baita, sia le Cooperative “rosse”.
Il dibattito a Mira
L'idea della piattaforma per i container vicino ad una delle zone più belle della Laguna veneziana ha sollevato un vespaio di polemiche. Immediata la presa di posizione contraria di CAT, ma anche della Federazione della Sinistra, della Lega Nord mirese, e poi delle due importanti associazioni dei cacciatori e dei cavanisti, così come di Italia Nostra e Legambiente.
Favorevole e convinto il PdL con in testa il consigliere Paolino D'Anna; mentre nel PD il fronte è meno compatto: decisamente a favore il Sindaco Michele Carpinetti sostenuto da buona parte del suo partito, ma non mancano i distinguo e i “mal di pancia” di alcuni esponenti e di vari militanti. Incredibile e assurda la posizione morbida e più che possibilista di Sinistra Ecologia e Libertà che può contare in Giunta su ben due assessori (Stefano Lorenzin e Silvia Carlin).
Questa volta però Il fronte del NO è molto ampio, variegato, e combattivo: la strada scelta è quella del Referendum popolare per mettere definitivamente la parola fine a questo progetto assurdo e devastante.
Quel conflitto di interessi che per molti anni i leader del centrosinistra hanno smesso di nominare, tentando di mimetizzarlo nelle partite di giro tra un'elezione e l'altra, è l'anomalia italiana destinata a trascinare tutte le altre. «Nel '94 le abbiamo dato garanzia piena che non avremmo toccato le sue televisioni», diceva l'onorevole Violante rivolgendosi a Berlusconi, in un purtroppo celebre discorso alla camera, qualche anno fa. E quella ferita inflitta al sistema democratico ora trascina a valanga i fragili contrappesi istituzionali che tentano di arginarla. Dall'uso contundente della maggioranza parlamentare per sottrarsi al processo Ruby, fino al paradosso di queste ore quando un primo ministro editore può decidere se e come si intrecceranno le proprietà di giornali e televisioni.
In un paese normale sarebbe il presidente del consiglio l'autorità deputata a firmare il provvedimento che proroga il divieto di incrocio tra le proprietà di stampa e tv, come è necessario dopo il pasticcio delle modifiche al decreto milleproroghe. Ma nella patria del conflitto di interessi l'unico che non può mettere la firma per regolare questo macigno della nostra democrazia è esattamente l'attuale capo del governo. Lo scrive l'Antitrust nella lettera inviata al premier e ai presidenti di camera e senato, cioè alle più alte cariche parlamentari e di governo. Il gesto dell'Autorità è l'estremo tentativo dell'arbitro di fischiare il fallo, di segnalare il vicolo cieco di una anomalia ormai irriducibile. E' un atto che mette in pubblico il degrado istituzionale, ormai fuori misura e fuori controllo.
La pur sbiadita legge sul conflitto di interessi (firmata dal fedele Frattini) prevede che Berlusconi esca dalla stanza del consiglio dei ministri quando si discutano provvedimenti che potrebbero coinvolgere le sue aziende (e il suo portafoglio). In questo caso non solo dovrebbe essere presente ma addirittura firmare l'atto che lo riguarda.
Possiamo facilmente immaginare in quale considerazione terrà questo rilievo Berlusconi. Dopo aver aggiunto anche l'Antitrust alle istituzioni (Parlamento, Quirinale, Consulta) che non lo lasciano lavorare, prenderà la penna e firmerà l'atto. Diversamente, in mancanza di una proroga, avrà la via spianata per aggiungere al suo impero mediatico i quotidiani che preferisce, magari uno solo, il più corteggiato e ambito.
E' la quadratura perfetta del cerchio, il regime che trova finalmente la conclusione del ventennio.Cementato così, con o senza firma, il conflitto di interessi, Berlusconi potrà avviare la fase successiva, necessaria a perfezionare l'ultimo capitolo: la definitiva blindatura della televisione, con l'azzeramento delle ultime sacche di resistenza. Lo stato dei lavori è molto avanzato, manca giusto qualche dettaglio. Fatti gli ultimi acquisti (Sgarbi e Ferrara arruolati nella rete ammiraglia del servizio pubblico), si può concludere la partita con la fantastica trovata elaborata nelle stanze della commissione parlamentare di vigilanza: alternare Floris e Santoro con due conduttori di «diversa formazione culturale». Una rotazione settimanale tra destra e sinistra. Naturalmente il democratico e pluralista avvicendamento vale solo per questi due talk-show, tutto il resto (Tg1, Ferrara, Sgarbi, Vespa) non si tocca perché in questo caso il pluralismo è incorporato nella loro specchiata autonomia. E' grottesco, ma anche semplice. Basta avere la maggioranza parlamentare (in questo caso della vigilanza) e il gioco è fatto.
Il linguaggio è moderato, la sostanza durissima. Un severo atto di accusa verso gli interventi di salvaguardia in laguna quello di Luigi D’Alpaos, uno dei più importanti ingegneri idraulici italiani.
«Fatti e misfatti di idraulica lagunare» il titolo del suo ultimo volume, pubblicato dall’Istituto veneto di Scienze, lettere ed Arti. Saggio storico, ma più ancora una durissima critica verso la politica della salvaguardia degli ultimi anni. Che non ha risolto i problemi idraulici del bacino lagunare. Anzi, li ha in molti casi aggravati. Tralasciando soluzioni semplici per «salvare» la morfologìa lagunare. Come il trasporto di sabbie dei fiumi e resistenze fisse alla marea alle bocche di porto. Sala piena, almeno 250 persone ieri a palazzo Franchetti per sentire la relazione di D’Alpaos. «Opera importante», ha detto l’assessore all’Ambiente Gianfranco Bettin, «che spiega l’impatto delle opere in corso e traccia scenari futuri. Per salvare Venezia non solo dalle acque ma nelle acque». D’Alpaos, che fu allievo di Augusto Ghetti, l’ingegnere del Vajont e del Progettone del 1982, cita Cristoforo Sabbadino, grande ingegnere idraulico del Cinquecento. «La laguna ha tre nemici, i fiumi, il mare e l’uomo. E spesso le voglie ingorde delli homini, come le chiamava Sabbadino, e gli interessi particolari hanno prevalso sugli interessi generali». D’Alpaos fa un appello agli scienziati a «tenere la schiena dritta». A esercitare più la scienza del dubbio delle «malposte certezze di ingegneri operosi che animati da sacro furore del fare» operano spesso scelte sbagliate. Riferimento, nemmeno tanto velato, ai grandi interventi del Consorzio Venezia Nuova e del Magistrato alle Acque («Solo un ricordo» della passata autorità di controllo). Si riprendono le critiche al Mose in vista di un innalzamento del livello del mare. Ma soprattutto gli «errori», i progetti approvati per stralci, con la tecnica del «fai e poi aggiusta». Ecco allora la mancata apertura delle valli da pesca. E, ancora, il grande errore del Canale dei Petroli. Che se non aumenta direttamente le acque alte, scandisce D’Alpaos, «è comunque il responsabile della devastazione della morfologìa lagunare. E pensare che c’è qualcuno che pensa anche di scavarlo e approfondirlo». Il problema vero, spiega ancora l’ingegnere, è quello dei sedimenti, che escono dalla laguna, trasformandola sempre più in un braccio di mare e distruggendo le barene. A poco servono, continua D’Alpaos, le opere artificiali pensate come «addobbo estetico». Mentre gli interventi in corso hanno aumentato la velocità delle correnti alle tre bocche di porto e stanno provocando «macrovortici ed erosione dei fondali». Anche i nuovi moli foranei, sostiene l’ingegnere, rallentano la marea in uscita. Non sono stati costruiti pensando alla riduzione della marea, come aveva chiesto il Comitatone, ma per difendere le paratoie dall’effetto risonanza in caso di mare agitato. Insomma la salvaguardia, assicura l’ingegnere, è tutta da ripensare.