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Adriano Sofri, Che cosa giustifica l'intervento

Thomas L. Friedman , L'eterna guerra tra clan rivali

Farid Adly, La mia sconfitta, la nostra salvezza

Loris Campetti intervista Gino Strada, Fermiamo le bombe

Roberto Festa intervista Michael Walzer, Questa volta è un errore

la Repubblica

Che cosa giustifica l’intervento della polizia internazionale

di Adriano Sofri

Quale sarebbe stato il destino degli ottocentomila abitanti di Bengasi? È una domanda che nessuno dovrebbe eludere - Si può davvero dubitare del dovere di aiutare o di chiedere aiuto quando il crimine si compie sotto i nostri occhi? - Con la decisione di agire in difesa degli insorti in Libia ritorna la divisione tra i fautori dell’ingerenza e chi sostiene il pacifismo "senza se e senza ma"

La guerra non è umanitaria, certe paci possono essere disumane. Lo scorso giovedì, 17 marzo, Gheddafi disse in tv: «Arriveremo a Bengasi stasera e non avremo pietà. Andremo casa per casa». "Stasera": alla mezzanotte libica il Consiglio di sicurezza avrebbe votato. I primi raid francesi – i più ansiosi di cominciare – sono avvenuti alle 17,45 di sabato. I gheddafisti avevano attaccato in forze, ma non ne erano ancora venuti a capo. Che cosa sarebbe stato degli ottocentomila abitanti di Bengasi? È una domanda che nessuno dovrebbe eludere. Non che manchino le ragioni per l’amarezza e il disgusto. Gli Stati che vanno a bombardare la Libia di Gheddafi hanno fatto fino a ieri affari d’oro con lui, e calcolano di farne di più. Gli hanno venduto le armi che oggi prendono di mira. Gli hanno lasciato piantare la sua tenda madornale a Parigi o a Roma. Bisognava prima fare ben altro, dite, bisognava comportarsi ben diversamente. Infatti: ma che cosa bisognava fare la sera di giovedì 17 marzo, quando si annunciava il rastrellamento, casa per casa, senza pietà? Tutto era cominciato, a Bengasi, dall’ennesimo arresto di un giovane avvocato che denunciava tenacemente l’eccidio di 1300 prigionieri in un carcere di Tripoli, nel 1996. Questa volta c’era l’esempio i Tunisi e del Cairo, la gente è andata in piazza. Toccava alla città che aveva avuto la forza di ribellarsi di pagare per il delirio della terra e dei suoi governanti?

Succede continuamente. La norma non è affatto quella dell’interventismo "umanitario", ma il suo contrario: l’omissione di soccorso. La norma è il Ruanda 1994, e il Clinton che si batte il petto per aver cavillato sul genocidio e lasciato perpetrare quell’orrore immane (e la Francia o il Belgio che non se lo battono abbastanza per avergli dato mano). Il Ruanda, dove si macellava a colpi di machete, e non si spedì un Piper a far saltare la Radio delle mille colline, e non si fecero cortei a Roma o a Parigi. La norma è Srebrenica 1995,coi governi europei complici e qualche pacifista impegnato a sventare decolli di aerei ad Aviano. Quando finalmente decollarono, la partita si chiuse in un giro di giorni e nella rotta dei gradassi ubriachi che miravano ai bambini. Andò diversamente in Kosovo, perché la lezione di Srebrenica era fresca, e Milosevic aveva passato il segno. Si riaccese la scaramuccia degli interventisti e dei pacifisti, più scoppiettante perché ad aderire all’intervento era Massimo D’Alema. Il copione dei pacifisti e degli interventisti si replica come le sedie di Ionesco. Si può davvero dubitare del dovere di aiutare, o chiamare aiuto, quando il crimine si compie sotto i nostri occhi, la sera di Bengasi o la mattina di Srebrenica? È stato codificato, quel dovere, ma era scritto da sempre. Ricominciare ogni volta daccapo –"intervenire o no?"– è il modo vanesio e imbecille per eludere la vera ardua questione: quando e come intervenire. Era la questione del Kosovo: sgombrando la terra e dall’alto dei cieli, o viceversa? Quasi nessuno se ne occupò, tesi gli uni a gridare no "senza se e senza ma", paghi gli altri della decisione trasmessa agli stati maggiori, che fanno quello cui sono addestrati. Si nega che oltre i confini nazionali si possa ricorrere a una polizia. In nome della sovranità nazionale – come se le frontiere delle nazioni fossero chiuse al bracconaggio criminale, alla fame, alle nubi radioattive, e anche alla solidarietà fra umani. O in nome dei rapporti di forza e di convenienza, della ragion di Stato: come sostenere che dentro una nazione il lavoro di polizia si debba fermare di fronte alla malavita troppo potente, o ai potenti troppo potenti. Del resto, hanno sostenuto anche questo.

Ci sono state guerre inevitabili e giustificate, come contro il nazifascismo. "Umanitarie" no. Si abusa del nome orrendo di guerra, e del resto che cosa c’è di più eccitante della nuvola di missili appena lanciati? Le guerre dovevano almeno avere una parvenza di equilibrio fra contendenti. C’è, fra la Tripolitania e l’armata d’occidente? A chiamarla, come si deve, azione di polizia, bisogna che sia autorizzata (questa lo è, in Iraq non lo era, e non rispondeva all’appello di una popolazione insorta), che faccia un uso proporzionato della forza, che faccia valere i propri principii anche per il nemico che affronta. Guerra o azione di polizia: lo considerano un gioco di parole, ammesso che lo considerino. Eppure è così inevitabile: c’è un diritto internazionale se c’è un’unione delle nazioni, c’è un tribunale internazionale se c’è una polizia internazionale. L’unico a dirlo, da noi, fra tanto cubitale gridare alla guerra, è stato Napolitano: «Non siamo entrati in guerra. Siamo impegnati in un’operazione dell’Onu». (L’ha ripetuto Frattini, «Non siamo in guerra», ma lui voleva dire altro, tirare il sasso, o non tirarlo nemmeno, e comunque nascondere la mano; come il Berlusconi "addolorato" per Gheddafi).

Quanto alla terza via: le vie sono diecimila. A volte c’è una sola via. La sera di Bengasi, la mattina di Srebrenica. Lì non si può dire "Né… né…", né con i ribelli né con Gheddafi…Si deve stare con qualcuno e contro qualcun altro. Con l’aggredito contro chi lo aggredisce, in una infame sproporzione di forze. In una strada di città può bastare un bravo carabiniere. Con un satrapo che sta bombardando i suoi sudditi ribelli con i Mig, è più complicato. Ma non meno necessario.

la Repubblica

L’eterna guerra tra clan rivali dietro la rivolta contro il Colonnello

di Thomas L. Friedman

Ci sono due generi di Stati: i "Paesi veri" e quelli delle "sette" unite sotto una bandiera - In Libia, Iraq, Siria, Yemen, i gruppi tribali non si sono fusi in un’unica famiglia di cittadini

Un interrogativo pende sui fermenti rivoluzionari nel mondo arabo: la battaglia in Libia (e in altri Stati) è lo scontro fra un brutale dittatore e l’opposizione democratica oppure è una guerra tra tribù? Infatti in Medio Oriente esistono due generi di Stati: i "Paesi veri", che vantano una lunga storia e forti identità nazionali (Egitto, Tunisia, Marocco, Iran) e le "tribù accorpate sotto una bandiera". Nazioni dai confini tracciati in modo artificiale dai poteri coloniali, dove sono intrappolate miriadi di tribù e di sette che non si sono mai fuse in un’unica famiglia di cittadini. Si tratta di Libia, Iraq, Giordania, Arabia Saudita, Siria, Bahrein, Yemen, Kuwait, Qatar e Emirati Arabi Uniti. Le tribù e le sette sono state tenute assieme dal pugno di ferro delle potenze coloniali, dei re o dei dittatori militari. L’alternanza democratica al potere è impossibile perché ogni tribù vive all’insegna del «governa o muori» - o la nostra tribù, la nostra setta, è al potere oppure siamo finiti.

Non è un caso che le rivolte per la democrazia in Medio Oriente abbiano preso il via in tre "Paesi veri" - Iran, Egitto e Tunisia - con popolazioni moderne, maggioranze omogenee che antepongono la nazione alla setta o alla tribù, e hanno la fiducia reciproca sufficiente a coalizzarsi, come fosse una famiglia, «tutti contro il papà». Ma nel momento in cui queste rivoluzioni si sono diffuse alle società più tribali-settarie, è difficile capire dove finiscano le istanze democratiche e dove inizi il desiderio che «la mia tribù sostituisca la tua».

In Bahrein, la minoranza sunnita, pari al 30 per cento della popolazione, governa sulla maggioranza sciita. Grazie ai matrimoni misti molti sunniti e molti sciiti si sono fusi e, da portatori di identità politiche moderne, accetterebbero la vera democrazia. Ma per molti altri abitanti del Bahrein la vita è una guerra tra sette, un gioco a somma zero, come per i falchi della famiglia Al Khalifa, attualmente al governo, che non hanno intenzione di mettere a rischio il futuro dei sunniti del Bahrein con una maggioranza sciita al potere. Per questo si è passati molto presto alle armi. O governi o muori.

L’Iraq è un buon esempio di cosa ci vuole per democratizzare un grande Paese arabo tribalizzato, una volta che il leader dal pugno di ferro è stato rimosso (in quel caso dagli Stati Uniti). Ci vogliono miliardi di dollari, 150 mila soldati Usa a fare da arbitro, miriadi di vittime, una guerra civile in cui entrambe le parti devono misurare il proprio potere, e poi un difficile parto, di cui siamo stati la levatrice, una Costituzione scritta dalle sette e dalle tribù irachene che stabilisce le regole di convivenza senza il pugno di ferro.

Mettere gli iracheni in grado di scrivere il loro contratto sociale è la cosa più importante che l’America abbia fatto. È stato, a dire il vero, l’esperimento liberale più importante della storia araba moderna perché ha dimostrato che persino le nazioni tribali possono, ipoteticamente, passare dal settarismo alla moderna democrazia. Ma è ancora soltanto una speranza. Gli iracheni non hanno sciolto definitivamente il grande dubbio: l’Iraq è così perché Saddam era com’era, oppure Saddam era com’era perché l’Iraq è così, ossia una società tribalizzata? Tutti gli altri Stati arabi oggi terreno di rivolte - Yemen, Siria, Bahrein e Libia - sono incubatrici di guerre civili tipo quella irachena. Alcuni possono avere la fortuna che l’esercito li traghetti alla democrazia, ma non c’è da scommetterci.

In altri termini la Libia è solo un primo esempio dei tanti dilemmi morali e strategici che andremo ad affrontare man mano che le rivolte avanzano tra le «tribù accorpate sotto una bandiera». Concedo al presidente Obama un’attenuante. È una questione complessa e rispetto il desiderio del presidente di impedire un massacro in Libia. Ma dobbiamo essere più cauti. La forza del movimento democratico egiziano stava nella sua autonomia. I giovani egiziani sono morti a centinaia nella lotta per la libertà. E noi faremmo bene ad essere doppiamente cauti nell’intervenire in luoghi che possono crollarci tra le mani, come in Iraq, soprattutto se non sappiamo, come in Libia, chi siano davvero i gruppi di opposizione - movimenti democratici guidati da tribù o tribù che sfruttano il linguaggio della democrazia?

Infine, purtroppo, non possiamo permettercelo. Dobbiamo impegnarci nel nostro Paese. Se il presidente Obama è pronto a prendere delle decisioni importanti, difficili, urgenti, non sarebbe meglio che innanzitutto queste si concentrino sul nation building in America, piuttosto che in Libia? Non dovrebbe prima realizzare una vera politica energetica, che indebolisca i vari Gheddafi, e una politica di bilancio che garantisca il sogno americano per un’altra generazione? Una volta fatto questo seguirò il presidente "dai saloni di Montezuma alle spiagge di Tripoli", come cantano i marine.

©The New York Times - La Repubblica - Traduzione di Emilia Benghi

il manifesto

La mia sconfitta, la nostra salvezza

di Farid Adly

Vivo questi momenti con angoscia. Sono convinto antimilitarista, pacifista e nonviolento.

Vivo la guerra libica come una sconfitta personale. La mia generazione di libici è fallita. Non abbiamo fatto abbastanza per sconfiggere politicamente la dittatura gheddafiana. L'opposizione era frantumata in mille rivoli, dai monarchici fino ai socialisti, ma tutti regolarmente all'estero e uno contro l'altro. Perché all'interno del paese c'erano soltanto Abu Selim (eccidio di 1200 detenuti politici, nelle loro celle, il 26 Giugno 1996, del quale ha parlato nel 2009 solo il manifesto) oppure le esecuzioni in pubblico negli stadi. Non abbiamo avuto sufficiente voce per farci sentire e, forse, anche il mondo non ci aveva dato ascolto, perché gli orecchi dei grandi erano tappate da cerotti di petrolio e dalla carta moneta delle commesse di armamenti.

Perché considero giusta la richiesta della No Fly Zone, da parte del Consiglio Nazionale Transitorio Libico (Cntl)? Perché era l'unica strada per la salvezza dei giovani libici che hanno dato avvio a questa rivoluzione, a questa resistenza. Il Cntl non ha chiesto - e lo ha ribadito anche nella giornata di lunedì 21 - bombardamenti sulla residenza di Gheddafi a Bab Azizie per ucciderlo. «Destituire Gheddafi è un compito nostro e lo faremo mobilitando il nostro popolo in questa resistenza formidabile che unisce tutto il paese», ha detto l'avvocato Abdel Hafeez Ghouga. È un diritto sacrosanto alla sopravvivenza!

È, parimenti, diritto dei miei compagni pacifisti italiani dichiararsi contrari all'intervento delle potenze occidentali, ma non mettano in campo ragioni che riguardano la nostra ricchezza petrolifera o il concetto di sovranità nazionale. Non ho dubbi che Stati uniti, Francia e Gran Bretagna non sono lì a difendere il mio popolo. Non ci sono guerre umanitarie, come ha scritto giustamente Tommaso Di Francesco. Lo so che sono lì per il petrolio e per le commesse future. La ridicola polemica tra Francia e Italia sul commando della missione dimostra ampiamente questo occhio rivolto al petrolio e rischia di allungare la vita al dittatore. Vi ricordo però che il petrolio ce l'avevano sotto il loro controllo anche prima. Non hanno organizzato loro la rivolta in Libia. Per loro sarebbe stato meglio se fosse rimasto tutto come prima, quando ballavano coi lupi.

Un discorso a parte per il miliardario ridens. Ha fatto ridere i polli e ha trascinato l'Italia in una situazione ridicola. Un giorno diceva una cosa e l'altro sostieneva il contrario. Ha superato se stesso quando la mattina ha detto che Gheddafi è tornato in sella e poi la sera, dopo che ha capito le intenzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu, ha cambiato idea per dire: «Gheddafi non è più credibile».

A Torino poi, dopo l'avvio della campagna militare alla quale partecipa l'Italia, ha cambiato ancora bandiera, dando credito al colonnello.

I compagni dell'Arci e della Tavola della Pace hanno ragione a chiedere che l'Italia non abbia un ruolo attivo nei bombardamenti. C'è una doppia ragione che consiglia ciò. La posizione altalenante di Berlusconi e Frattini è un dato che consiglia prudenza, ma la ragione più forte è un'altra: l'Italia è stata una potenza coloniale in Libia, quest'anno ricorre il centenario dell'aggressione italiana al suolo libico (avete visto qualche cerimonia per ricordarlo?) e questo trascorso militare (i primi bombardamenti aerei in assoluto nella storia militare sono avvenuti a Kofra da parte di un aviatore italiano), consiglia di astenersi completamente dal bombardare il territorio libico da parte dell'aviazione militare italiana.

L'Italia, se intende rimettere i rapporti con il popolo libico sul binario giusto, dedichi qualche piazza a Omar Mukhtar, eroe della resistenza libica, proposta che avevo avanzato proprio sulle pagine del Manifesto, oltre 10 anni fa, ma caduta nel dimenticatoio anche da parte del compagno(?) Veltroni, allora sindaco di Roma.

Se il governo italiano ha fatto una brutta figura, peggio hanno fatto certi opinionisti, attaccati a concetti ideologici, dimenticando la resistenza italiana contro il regime fascista e contro la repubblichina di Salò. Ecco, Gheddafi per noi libici rappresenta quello e i nostri ragazzi sono i nuovo partigiani. In questi momenti, i democratici di Tripoli vivono lo stesso sentimento di quei partigiani di Milano che lottavano per la liberazione in una città sotto le bombe degli alleati.

Noi vogliamo la libertà e mettere finire alla tirannia, scrivere una costituzione e scegliere, in elezioni libere, chi governerà la Libia. Questo processo è guidato da magistrati, avocati, medici, ingegneri e cosa sento e leggo? Che la Libia è abitata da beduini. Si sono dimenticati che la Libia nel 1804 ha sfidato e sconfitto gli Stati Uniti, freschi freschi di indipendenza (Professor Giuseppe Restifo, «Quando gli americani scelsero la Libia come nemico» Armando Siciliano Editore).

Non so se questo dice qualcosa a certi «signoroni» opinionisti italiani. Alcuni arrivano a ripetere cliché retaggio del colonialismo culturale, dimostrando ignoranza della realtà libica.

Noi oggi siamo protagonisti e vogliamo chiudere con il dittatore. Ben vengano tutte le proposte di mediazione internazionale, come quella del presidente della Bolivia Evo Morales, per arrivare, per via pacifica, alla cacciata del sanguinario despota.

il manifesto

«Fermiamo le bombe, ritroviamo la ragione»

Guerra criminale, non aiuta ma uccide chi chiede aiuto

Loris Campetti intervista Gino Strada

«Anche la bomba atomica sganciata su Hiroshima fu motivata da esigenze umanitarie. Il presidente degli Stati uniti, dopo aver raccontato la solita bugia di guerra ("è stato colpito un obiettivo militare" e invece si era rasa al suolo una città e cancellata la sua popolazione), disse che quell'intervento "intelligente" aveva salvato dalla furia giapponese 46 mila persone. Con la bomba umanitaria, invece, ne sono stati uccisi 400-500 mila, subito e in conseguenza delle radiazioni». Gino Strada non ci sta alla finta umanità di chi contesta al pacifismo il presunto disinteresse per i civili vittime di dittature. Fa i conti, in Iraq nel '91, in Kosovo nel '99 e poi ancora in Iraq, in Afghanistan, oggi in Libia. Il fondatore di Emergency non fa sconti a nessuno e rovescia le tante domande-accuse che gli poniamo, le stesse che si rivolgono contro il manifesto e chi si oppone alla guerra, si diceva una volta senza sì e senza ma: «Solo quando avremo espulso la guerra dall'arco delle possibilità potremo chiederci davvero cosa possiamo fare per aiutare le vittime di dittature, terrorismi, pulizie etniche». Potremo ascoltare Gino Strada domani alla Sapienza, all'assemblea promossa da Uniti contro la crisi all'aula 1 di Lettere.

Se Emergency fosse una multinazionale dell'aiuto con fini di lucro e non una meritoria organizzazione volontaria si potrebbe dire che le cose per voi vannno sempre meglio: le occasioni di lavoro al fianco delle vittime di guerra si moltiplicano.

Ahimé, il lavoro non manca. Ancora una volta si è scelta la guerra. E questa di Libia come le guerre precedenti, comunque vada a finire sarà una sconfitta della ragione, dell'intelligenza, della necessità di capire come bisognerebbe agire.

Una sconfitta anche della politica?

Sì e no. Dalla politica, da questa politica non nascerà mai una cultura di pace che potrà venire solo dai cittadini, dagli intellettuali, dagli scienziati e solo questi soggetti potranno imporre alla politica un cambiamento di paradigma.

Intanto siamo ancora lì, allo stesso punto di ieri e l'altroieri: guerra umanitaria, bombe intelligenti, no fly-zone.

Stesso scenario, stessi linguaggi insensati, stesse motivazioni truffaldine. Vogliamo dire che la guerra non è mai necessaria o inevitabile? Parlare poi di guerra umanitaria, prima che un imbroglio è un insulto all'intelligenza. Da sempre alla guerra si accompagnano menzogne.

Abbiamo già detto troppe volte che la prima vittima della guerra è la verità...

E prima ancora vittima è la ragione. Incominciamo a pensare di escludere la guerra dal nostro orizzonte mentale. Lo so che non è uno sforzo facile, anche Einstein nel '55 disse che l'esclusione della guerra avrebbe creato problemi alla sicurezza nazionale, ma questo passo è inevitabile per non restare prigionieri di una spirale senza fine e senza esito.

Tutto si ripete ferocemente. Eppure c'è qualcosa che cambia: oggi le critiche o i dubbi sull'intervento in Libia vengono più da destra, con motivazioni ignobili, opportunistiche e razziste, che da sinistra, ammesso che abbia ancora senso parlare di sinistra: diciamo dall'opposizione.

Dietro i sì e i no di questa politica ci sono interessi meschini o confusioni mentali. Voglio essere ottimista, credo che una mobilitazione contro la guerra partirà, sulla base di sentimenti e motivazioni più nobili e più alte.

Il mondo gira al contrario e la guerra calda, finita quella fredda, è entrata nell'ordine delle cose, nella normalità della vita.

Ci hanno detto che il mondo è cambiato l'11 settembre. Non è vero, è cambiato prima. In ogni caso andiamo a vedere qual è stata la risposta alla strage delle Torri gemelle: le guerre si sono moltiplicate. Perciò preferisco parlare di guerra che è un crimine contro l'umanità che non di questa guerra contro la Libia, sennò non facciamo che passare da una guerra all'altra con annesse bugie e presunte motivazioni. Dire no alla guerra punto e basta non è semplice, lo so. Ma ritengo quanto mai attuale il manifesto del '55 di Russell e Einstein che dice «Questo è dunque il problema che vi presentiamo, netto, terribile e inevitabile: dobbiamo porre fine alla razza umana oppure l'umanità dovrà rinunciare alla guerra?». Lo storico statunitense Howard Zinn scrisse: «Ricordo Einstein che in risposta ai tentativi di "umanizzare" le regole della guerra disse "la guerra non si può umanizzare, si può solo abolire". Come Emergency ha ripetuto per condannare la guerra alla Libia, è una scelta disumana, criminosa e assurda di uccidere, che esalta la violenza, la diffonde, la amplifica. Questo è l'approccio che dobbiamo imporre alla politica, parlare di disarmo e cominciare a praticarlo riducendo il potenziale di morte che insidia il nostro mondo. Quante testate nucleari abbiamo in Italia? Mi dicono una novantina. A che potenzale distruttivo corrispondono, quante Hiroshima potrebbero cancellare dalla faccia della terra? Siamo seduti su un arsenale.

Che idea ti sei fatto delle motivazioni reali della guerra alla Libia?

Dai commenti che leggo, le più disparate. Per la Francia, immagino che conti la volontà di Sarkozy di essere rieletto, mentre mettere le mani sul petrolio libico è l'obiettivo di tutti i combattenti «umanitari». Nessun governante informa i cittadini sulle ragioni vere per cui li porta in guerra, spacciano solo disgustose menzogne. Se va bene le motivazioni reali verranno fuori anni e anni dopo. E adesso l'Italia torna a far guerra alla Libia, come cent'anni fa.

Ti accusano, ci accusano, di fottercene del popolo di Bengasi, ci dicono «voi l'avreste lasciato nelle mani del boia».

Ecco il cortocircuito, l'avvitamento, la spirale di morte. Ci raccontano che con le bombe staremmo aiutando quel popolo. Lo stesso ci dicevano in Iraq, quando dovevamo liberare gli iracheni oppresso dal criminale Saddam. Il risultato? Abbiamo ammazzato più persone del criminale Saddam, parlano i numeri. Come a Hiroshima, quando il presidente degli Stati uniti disse che con l'atomica avremmo salvato 46 mila persone. Peccato che quella bomba ne ha uccise 400-500 mila. In Afghanistan, per non lasciare impunito un crimine, per rendere «giustizia» ai 3 mila morti di New York sono state stroncate più di centomila vite umane. Se non ci si ferma subito, se non cesserà subito il fuoco, in Libia andrà allo stesso modo. Quanti morti ha fatto il dittatore Gheddafi in Cirenaica, quanti avrebbe potuto ancora farne? E quanti ne abbiamo fatti e ne faremo noi? E che conseguenze avranno i bombardamenti occidentali in quell'area turbolenta, e quanti su di noi?

Nel Bahrein e Yemen, per non parlare di Palestina, lo spirito umanitario si spegne.

Certo, ma attenti a non proporre l'estensione di quel criminale spirito umanitario a tutti i paesi in conflitto. Vogliamo forse fare una palla di fuoco del pianeta?

Hai usato parole dure verso il presidente Napolitano quando ha difeso la guerra sostenendo che non siamo in guerra.

Preferisco evitare ogni ulteriore commento per rispetto dell'età. Posso solo dire che dal presidente della Repubblica italiana mi aspetterei il rispetto della Costituzione italiana. È vero, c'è un mandato del Consiglio di sicurezza ma è un alibi. Cosè oggi l'Onu, quali diritti e interessi rappresenta e difende? Nella risoluzione si dice che bisogna fare tutti gli sforzi per evitare la violenza ma al momento del voto erano già in volo macchine di morte. Quali sforzi sono stati fatti, quali tavoli di confronto, quali missioni, quanti inviati delle Nazioni Unite?

Ci sono i primi appuntamenti in cui si chiederà, insieme ad altre rivendicazioni,di cessare i bombardamenti. Venerdì (domani, ndr) alla Sapienza alla grande assemblea promossa da Uniti contro la crisi per generalizzare e riempire di contenuti lo sciopero della Cgil del 6 maggio si discuterà anche di nucleare e guerra, e così sarà sabato alla manifestazione nazionale per l'acqua pubblica. Ci sarai?

Sarò presente all'assemblea della Sapienza mentre sabato sono impegnato in un'altra iniziativa di Emergency organizzata precedentemente. Ma vedrai che ci saranno altre riflessioni del movimento pacifista e altre importanti mobilitazioni. Ci stiamo lavorando intensamente.



la Repubblica

"Questa volta è un errore"

Roberto Festa intervista Michael Walzer

Non si entra in un conflitto solo per sostenere l’opposizione a un dittatore perché non ha forze sufficienti. Altrimenti la comunità internazionale dovrebbe intervenire sempre e dovunque"

«L’attacco alla Libia è un errore, in nessun modo giustificato dalle regole dell’intervento umanitario». Da anni Michael Walzer, filosofo della politica con base all’Institute for Advanced Study di Princeton, studia i fili complessi che legano uso della violenza, potere e morale. In un celebre libro degli anni Settanta, Guerre giuste e ingiuste, ha spiegato perché l’intervento in Vietnam era "ingiusto", mentre la Seconda guerra mondiale era "giusta". Nel caso dei raid alleati in Libia, gli sembra che ci siano tutte le ragioni per definirli «un errore, politico e morale, che si concluderà con un probabile bagno di sangue».

Michael Walzer, perché l’intervento in Libia è un errore?

«Per diverse ragioni. Anzitutto, non sono chiari gli obiettivi dell’attacco. Si vuole cacciare Gheddafi? Oppure si cerca di sostenere militarmente la rivolta? O ancora, più semplicemente, si vuole applicare il cessate il fuoco? L’entità delle bombe alleate scaricate sulla Libia lascia intendere che il vero obiettivo è eliminare il tiranno. Senza un intervento di terra, al momento improbabile, sarà però molto difficile. E così gli alleati si trovano di fronte due strade, entrambe pericolose. O riescono a riportare in vita una rivolta ormai sconfitta sul campo; ciò che condurrebbe a una lunga e sanguinosa guerra civile. Oppure ce la fanno a imporre il cessate il fuoco; ma in questo caso Gheddafi resterà padrone di gran parte della Libia. Sono, appunto, esiti per nulla augurabili».

Eppure, in questo caso, c’era la possibilità che Gheddafi scatenasse una feroce repressione contro l’opposizione nelle città riconquistate.

«Ecco, appunto, una repressione, non un massacro, o un genocidio. Una repressione dell’opposizione libica sarebbe stata un fatto drammatico, tragico. Ma purtroppo, non spetta alla comunità internazionale intervenire ogni volta che una rivolta democratica non raggiunge i suoi obiettivi. Altrimenti, si dovrebbe intervenire continuamente, ovunque, e questo non è politicamente e moralmente opportuno. La prima regola dell’interventismo democratico è quella di non cercare di riportare in vita un movimento di opposizione che non ce la fa a sostenere i suoi obiettivi, autonomamente, sul campo».

Quando è invece necessario, e giusto, intervenire militarmente? Quando la guerra è "umanitaria"?

«È facile fare alcuni esempi. Era giusto intervenire di fronte ai "campi della morte" dei Khmer Rossi in Cambogia. Era giusto intervenire in Ruanda o nel Darfur. Niente di quello che sta succedendo oggi in Libia è lontanamente comparabile a quanto accaduto in quei paesi».

È l’entità del massacro che giustifica la "guerra umanitaria"?

«Mettiamola così. La "guerra umanitaria" è quella che salva centinaia di migliaia di persone da morte sicura. Anche la "guerra umanitaria", sarebbe ipocrita negarlo, produce danni collaterali e mette a rischio le vite degli innocenti. Ma una guerra umanitaria ferma un massacro, e quindi salva molte più vite di quante ne mette a rischio».

Quindi la "guerra umanitaria" è slegata da motivazioni politiche?

«Non lo è nel caso di un movimento che metta a rischio la stabilità del mondo, come nel caso del fascismo nella Seconda guerra mondiale. Ma nel caso della Libia, Gheddafi non attaccava o minacciava nessuno, all’esterno. Lo ripeto. Solo un clamoroso disastro umanitario può giustificare un intervento. La "guerra umanitaria" non si fa in presenza di una repressione, sia pure sanguinosa. Né la si fa per favorire un regime change, o per disfarsi di un tiranno».

Un presidente del Consiglio sotto ricatto. Un governo a responsabilità e a sovranità limitata. Da qualunque parte la si osservi, l’Italia offre di sé un’immagine da fine Impero. Sul palcoscenico vediamo la tragedia della guerra e i grandi orrori della dittatura gheddafiana. Nel retropalco, al riparo dagli sguardi di un’opinione pubblica confusa e disinformata, non vediamo la commedia della destra e i piccoli orrori della «democratura» berlusconiana. La «promozione» di Saverio Romano a ministro è l’ultimo insulto al buon senso politico e alla dignità istituzionale. L’emendamento sulla prescrizione breve per gli incensurati è l’ennesimo schiaffo allo Stato di diritto.

Ciò che è accaduto ieri al Quirinale è la prova, insieme, della debolezza e della sfrontatezza del presidente del Consiglio. Berlusconi paga a caro prezzo la vergognosa «campagna acquisti» che in questi mesi gli ha consentito prima di evitare il tracollo al voto di sfiducia del 14 dicembre, poi di puntellare la maggioranza dopo la fuoriuscita dei futuristi di Gianfranco Fini. La sparuta pattuglia dei cosiddetti «responsabili», assoldati tra le anime perse dei «disponibili» di Transatlantico, gli ha presentato il conto: i nostri voti alla Camera, in cambio di poltrone di governo e di sottogoverno. Esposto a questo ricatto pubblico subito in Parlamento (che si somma ai ricatti privati patiti sul Rubygate) il premier non si è potuto tirare indietro. A costo di imbarcare, al dicastero dell’Agricoltura, un deputato chiacchierato sul quale pende un’inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa.

Non è la prima volta che Berlusconi mette in squadra ministri discutibili, sul piano politico e giudiziario. Volendo, si potrebbe partire da lui stesso. Se si allarga lo sguardo, tornano in mente il plurindagato Cesare Previti ministro della Giustizia, sul quale pose il veto Scalfaro nel maggio 1994, e poi il plurinquisito Aldo Brancher ministro per l’attuazione del federalismo, sul cui pretestuoso «legittimo impedimento» pose il veto Napolitano nel giugno 2010. Ma stavolta c’è di più e di peggio. Da un lato, appunto, c’è la sottomissione a un truce ricatto, che la dice lunga sulla condizione di «minorità» di questa maggioranza: si è dotata di un fragile argine numerico, ma non dispone più di un solido margine politico.

Dall’altro lato, c’è la sfida alle istituzioni. La scorsa settimana, nel primo incontro al Quirinale sul rimpasto, il presidente della Repubblica aveva già segnalato al Cavaliere che l’eventuale proposta di Romano ministro sarebbe stato un problema serio, viste le pesantissime ipotesi di reato che tuttora pendono sul personaggio in questione, per il quale esiste una richiesta di archiviazione ma sul quale il gip non si è ancora pronunciato. Ancora l’altro ieri sera, Napolitano aveva ripetuto a Gianni Letta che se il premier non avesse desistito dal suo intendimento, il Capo dello Stato avrebbe accettato la sua proposta perché non esistono «impedimenti giuridico-formali» tali da giustificare un diniego, ma non avrebbe rinunciato a rendere pubbliche le sue «perplessità politico-istituzionali» sulla nomina.

Nonostante questi avvertimenti, il presidente del Consiglio è andato fino in fondo. E ha costretto il Colle a un atto clamoroso e irrituale: un comunicato ufficiale in cui si auspica un rapido chiarimento sulla posizione processuale del neo-ministro, in relazione alle «gravi imputazioni» che lo riguardano. Un episodio che non ha precedenti. La presunzione di innocenza è una garanzia costitutiva di ogni Stato liberale. Ma che credibilità può avere un governo in cui, dal presidente del Consiglio in giù, è un contino viavai di indagati, inquisiti, processati? E fino a che punto può spingersi il cinismo politico di un premier, che pur di galleggiare fino alla fine della legislatura, è pronto a sottoscrivere qualunque «patto», anche il più scellerato, solo per salvare se stesso e il suo governo?

In questa logica, perversa e irresponsabile, rientra anche la questione della giustizia. Quanto è accaduto tre giorni fa in commissione, alla Camera, è l’ennesimo scandalo della democrazia. L’emendamento al disegno di legge sul processo breve, presentato dal carneade pidiellino Maurizio Paniz (il patetico Cirami di questa sedicesima legislatura) abbatte i tempi della prescrizione per gli incensurati. Più ancora di quelle che l’hanno preceduta, è una norma tagliata a misura per i bisogni processuali del Cavaliere. Grazie a questo trucco legislativo, il processo Mills decadrà prima dell’estate, e il premier sfuggirà ad una probabile condanna. La vergogna non è tanto la «cosa in sé»: di misure ad personam il Cavaliere se n’è fatte approvare ben 38, in diciassette anni di avventura politica.

Il vero scandalo è nella menzogna eletta a metodo di governo. Solo tre settimane fa, nel quadro della controffensiva politico-mediatica orchestrata da Berlusconi e dalla Struttura Delta, il governo aveva spacciato al Paese la sua «storica riforma della giustizia». Vendendola agli italiani, al capo dello Stato e all’opposizione come una «svolta di sistema», che per la prima volta non avrebbe contenuto norme atte ad incidere «sui processi in corso». Quindi mai più giustizia ad uso personale, mai più leggi ad personam. Un mossa astuta, propagandata e camuffata con tutti i mezzi del network informativo e televisivo di cui il premier può disporre. Una mossa che aveva accecato i soliti «addetti al dialogo» del Pd. Avevamo scritto che quella non era affatto una «riforma storica», ma una «controriforma incostituzionale». Avevamo scritto che prima di andare a vedere cosa c’era nella mano visibile del Cavaliere, bisognava capire cosa c’era in quella nascosta dietro alla sua schiena. Ora lo sappiamo. È l’ultima conferma che in Italia, finché c’è Berlusconi, la legge non sarà mai uguale per tutti. Noi l’abbiamo capito da un pezzo. Ora speriamo che l’abbiano capito anche le anime belle del centrosinistra.

m.gianninirepubblica.it

Firenze. L’ultimo a finire sotto le sue grinfie è il sindaco, Matteo Renzi, con il Piano Strutturale di Firenze. Un documento accompagnato da una promessa: “Saremo un Comune a cemento zero”. E la parola è passata alla Regione, all’assessorato all’Urbanistica dove siede lei, Anna Marson. Un nome che in Toscana sta diventando uno spauracchio per costruttori e amici del cemento. Così, ecco arrivare le 28 pagine del parere degli uffici di Marson sul Piano di Renzi. Non è una bocciatura, ma il Comune è stato “rimandato”. Si scopre che, secondo la Regione, di cemento a Firenze (nonostante i buoni propositi) ne arriverà più di mezzo milione di metri cubi, l’equivalente di un nuovo quartiere. Non solo: la Regione storce il naso anche sui centri commerciali: “Il Piano prevede l’esclusione di nuovi insediamenti, ma fa salva la possibilità di rilocalizzare quelli esistenti”. Negli uffici di Marson sintetizzano: “Il Piano non ha rivisto i dimensionamenti previsti dal vecchio piano regolatore, dove si ipotizzava una crescita degli abitanti che non c’è stata. Così, compresi cambi di destinazione d’uso che si contano come nuovi volumi, il Piano prevede tra cinquecentomila e un milione di metri cubi”.

Un documento che non farà piacere in Comune. Marson, però, non se ne cura. Lei si presenta sempre sorridendo. Parla senza alzare la voce, con un misto forse di timidezza e di riservatezza poco comune nei Palazzi della politica. Questo deve aver ingannato anche gli alleati quando hanno accettato che ad Anna Marson (indipendente in quota Idv) fosse offerta la poltrona di assessore all’Urbanistica in Regione. Un ruolo chiave, negli uffici di Novoli, periferia nord della città, si decide il destino di progetti da miliardi. Qui si concentrano le aspettative di potenti imprenditori (su versanti opposti, il gruppo Fusi, amico di Denis Verdini, e le cooperative o il Monte dei Paschi) e di partiti politici.

Marson sembrava la persona ideale per dare fiducia agli elettori, con quel suo pedigree da società civile: dottorati in Pianificazione territoriale, cattedra di tecnica e pianificazione urbanistica all’università Iuav di Venezia. Per questo probabilmente è stata voluta dall’Idv che spesso punta all’Urbanistica sottolineando la propria anima ambientalista. Anche se, talvolta, con esiti opposti: in Liguria il partito di Di Pietro ha scelto un’altra donna, Marilyn Fusco, che in breve si è guadagnata il soprannome di “assessore al mattone” per il suo Piano Casa che ha fatto impallidire perfino quello di Ugo Cappellacci in Sardegna. Difficile immaginare due assessori più diversi di Fusco e Marson,

Lei, Anna, è stata scelta dal presidente della Regione, Enrico Rossi, che la appoggia per dare una sterzata alla politica urbanistica. Altri pensavano che sarebbe stato un gioco da ragazzi mettersi in saccoccia questa donna di 53 anni, dall’aspetto distinto. Ma sbagliavano di grosso. In pochi mesi il bubbone è esploso. Non passa giorno che Marson non riceva attacchi da ambienti vicini a Confindustria, dalla stampa di centrodestra, ma non solo. E nei corridoi della Regione si racconta: “Il presidente la sostiene, ma anche tra i suoi alleati parecchi vorrebbero farle le scarpe”.

Marson la spiega così, diplomaticamente: “Molti credono che sviluppo significhi costruire, invece la nostra ricchezza è legata alla cura e riproduzione del territorio. Non è una questione soltanto estetica, ma anche economica. La Toscana attrae milioni di turisti per la sua bellezza. Ma il paesaggio va curato e protetto anche dal cemento”.

Ma ci sono nodi concreti. I porticcioli, per esempio. In Toscana è tutto un fiorire di progetti da miliardi che vedono impegnati colossi come Francesco Bellavista Caltagirone. E lei, Marson, ha parlato chiaramente: “Vanno bene i posti barca, ma puntiamo sulla nautica sociale, quella che interessa chi abita sulla costa. Invece si vuole puntare ovunque sui mega-yacht, su enormi porti con intorno case”. Una frase che inquieta imprenditori e sindaci della costa (di entrambi gli schieramenti) che su moli e cemento avevano scommesso. Basta? Neanche per sogno. Ci sono i fiumi, soprattutto l’Arno, con i bacini dove si è costruito troppo, con effetti che si vedono ad ogni alluvione. Marson è chiara: “Per l’Arno serve un progetto territoriale complessivo, bisogna riqualificare. Rivedere rapporto tra insediamenti e fiume”. Costruire ancora? “Macché, le condizioni climatiche sono cambiate, dobbiamo fare attenzione alla sicurezza”. E sono altri nemici. “Ci sono i Comuni che hanno troppi poteri in materia urbanistica”, avverte l’assessore. Fino al nodo delle grandi opere. A cominciare dalle autostrade, con la contestatissima Livorno-Civitavecchia sponsorizzata dal ministro Altero Matteoli (Pdl), e dalla precedente giunta di centrosinistra e da Riccardo Conti (predecessore della stessa Marson e oggi responsabile Infrastrutture del Pd nazionale). C’è poi il capitolo aeroporti, con il centrosinistra alleato del Pdl nel lanciare ovunque nuove piste: da Siena (oggetto di un’inchiesta della Procura dove è indagato Giuseppe Mussari, numero 1 del Monte dei paschi) a Firenze (vicino ai terreni di Salvatore Ligresti, il re del cemento). E ogni volta ecco che spunta Anna Marson a mettersi di traverso.



Vedi su eddyburg: “Il Piano di Firenze è davvero a volumi zero, come dice Renzi?”

Il progetto del tunnel Linate-Expo procede spedito verso il via libera della giunta, che potrebbe arrivare addirittura prima della fine della legislatura. Nonostante la decisione del consiglio comunale di vincolare l’opera al nuovo Piano urbano della mobilità (ancora tutto da scrivere), dopo l’approvazione del Piano di governo del territorio (dove rientra nel capitolo sulle infrastrutture) il progetto della maxigalleria sotterranea ha subito un’accelerata. Il tempo stringe e i privati fanno pressione perché il Comune sciolga la riserva al più presto, in modo da bandire la gara d’appalto entro questa primavera e iniziare i lavori di scavo a fine anno. Solo così, scrive la società Condotte nel piano di fattibilità presentato al direttore generale di Palazzo Marino prima di Natale, si potrà arrivare in tempo per l’Esposizione del 2015 con i primi quattro chilometri di galleria da Garibaldi a Cascina Merlata.

I tecnici sono al lavoro da settimane e ieri, in un vertice tra Comune e privati, il progetto è stato sbloccato. Almeno a parole. L’amministrazione ha accolto con favore la proposta di Condotte (pronta a imbarcare nella partita Impregilo, visto che Torno è fallita) e chiede solo alcune modifiche tecniche. Cambiamenti che ieri il rappresentante di Condotte ha già spiegato di essere in grado di mettere in pratica senza problemi. Quindi, se tutto filerà liscio - e in vista non c’è alcun freno politico che possa mandare all’aria il cronoprogramma - entro un paio di settimane i privati riceveranno la lettera ufficiale con l’interesse del Comune. Poi, a metà aprile, la delibera approderà in giunta per l’ok politico al progetto.

Un via libera che dovrà essere confermato anche dal consiglio comunale, a questo punto non prima di settembre visto che fra una settimana l’assemblea si scioglierà e nei mesi di aprile e maggio potrà riunirsi sono per discutere provvedimenti urgenti. È chiaro che se il consiglio dovesse bocciare il progetto il parere della giunta non conterà più nulla.

Arriverà il benestare della politica? Al momento non sembrano esserci ostacoli visto che sia il sindaco sia gli assessori coinvolti - Carlo Masseroli (Urbanistica) e Bruno Simini (Lavori pubblici) - hanno più volte espresso parere positivo per la mastodontica opera che verrebbe interamente finanziata dai privati (costerà 2 miliardi e mezzo) e che, una volta realizzata, porterà sotto terra 110mila auto al giorno.

Eppure approvare un intervento così imponente a un mese dalle elezioni potrebbe risultate rischioso. Quindi non è da escludere l’ipotesi di una frenata improvvisa all’ultimo momento per rinviare la questione alla prossima giunta. Il sindaco Moratti non fa alcun accenno al tunnel nel suo programma elettorale. I privati però insistono: «Le infrastrutture non hanno colore politico - commenta un rappresentante di Condotte - O servono o non servono. Milano deve rispondere solo a questa domanda: se la risposta è sì, più tempo si perde a decidere più tardi si arriva alla consegna del tunnel. Expo è vicino e la galleria, assieme alla M4, potrebbe essere uno degli accessi principali ai padiglioni». L’occasione «è d’oro», e arrivati a questo punto un rinvio potrebbe anche voler dire cancellare del tutto il progetto dalla Milano del futuro. Cosa, tra l’altro, che il centrosinistra ha già promesso di fare in caso di vittoria.

postilla

lo spiega perfettamente anche l’articolo, senza bisogno di particolari giri di parole: il tunnel serve a chi lo costruisce, eventualmente agli interessi di chi intende “valorizzare” immobili esistenti e non lungo il corridoio coinvolto, e per nulla alla città e al territorio.

A meno che per servizio non si intenda risucchiare una enorme quantità di risorse e aspettative verso un progettone anni ’50-’60 che ignora allegramente tutto il dibattito attuale sulla città sostenibile, la mobilità integrata, e ci ributta in sostanza a un modello urbano tipo la Milano di Piero Portaluppi-Cesare Albertini, quella che già nel dibattito sul Prg degli anni ’50 gli osservatori attenti definivano minacciosa e mastodontica. Una grossa bestia insomma, come chi ispira e sostiene certe decisioni, micidiali per tutto tranne il conto in banca dei soliti noti (f.b.)

Giù le mani dal referendum

di Ugo Mattei

Con la manifestazione di sabato in Piazza san Giovanni diventerà chiaro a tutti che la battaglia per l'acqua bene comune e quelle contro il nucleare e la guerra sono parte di un solo grande movimento di civiltà. Un movimento che vuole invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo suicida fondato sulla violenza del più forte contro il più debole. Un movimento che non si rassegna all'imbarbarimento della vita pubblica e alla rinuncia della cittadinanza a favore del consumo. Un movimento che difende la vita e ripudia, insieme alla guerra, ogni altra tecnologia di morte. Il movimento per i beni comuni vuole aprire un grande confronto democratico nel paese.

Un dibattito politico fatto di temi reali (acqua, nucleare, guerra) e non di alchimie o sigle. Il movimento referendario che ha raccolto quasi un milione e mezzo di firme per l'acqua bene comune vuole rappresentare fino in fondo il corpo elettorale sovrano, permettendogli finalmente di esprimersi direttamente, a seguito di un libero dibattito democratico, sul modello di sviluppo che come collettività intendiamo perseguire.

Il governo, sostenuto da un Parlamento delegittimato da una legge elettorale assurda, ha paura della democrazia diretta e non vuole confrontarsi nel merito. Per farlo ricorre a ogni scorrettezza di metodo, abusando sistematicamente del proprio potere e tradendo il proprio mandato costituzionale. Il dodici febbraio scorso l'Avvocatura dello Stato, costituitasi in giudizio contro l'ammissibilità dei referendum è stata sconfitta. Abbiamo portato a casa il fondamentale riconoscimento dei beni comuni nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (poco dopo anche le Sezioni Unite della Cassazione hanno riconosciuto la nuova categoria giuridica) e soprattutto abbiamo smascherato le menzogne sistematiche con cui Tremonti e Ronchi avevano cercato di non assumersi la responsabilità politica della loro scellerata scelta privatizzatrice, cercando di addossarne la responsabilità «all'Europa». Con la decisione della Corte Costituzionale è iniziata una nuova fase in cui il governo non può più essere parte ma deve cooperare lealmente con gli altri poteri dello Stato (fra cui i promotori dei referendum) nella piena applicazione dell' art. 75 della Costituzione per consentire al corpo elettorale sovrano di confrontarsi nel merito dei quesiti. In questa nuova fase il governo deve essere guidato dal solo art. 97. della Costituzione, quello che prescrive l'imparzialità e l'efficienza dell'azione amministrativa.

Lungi dall'attenersi a questo mandato costituzionale, nello scoperto tentativo di prendersi una rivincita facendo saltare il quorum, il governo ha dapprima deciso di rifiutare l'election day sperperando centinaia di milioni di euro (in gran parte gravanti sugli enti locali già impoverirti che farebbero bene a far sentire la propria voce) pur di far votare nell'ultima giornata utile, a scuole chiuse e in pieno periodo di maturità, dopo che gli elettori hanno già dovuto recarsi due volte ai seggi. Quando, dopo l'incidente nucleare giapponese, è risultato chiaro che gli elettori avrebbero capito la posta in gioco nonostante la congiura del silenzio, ecco ora il tentativo di scippare il corpo elettorale della possibilità di esprimersi, attraverso il congelamento di un anno del programma nucleare. L'idea dei nostri statisti è che l'Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione sospenda il referendum sul nucleare dichiarandolo superato dal nuovo assetto normativo prodotto dalla «pausa di riflessione» e che saltato il nucleare salterebbe il quorum per tutti gli altri. Il referendum verrebbe così celebrato quando è passata la buriana. Sia detto con grande chiarezza: questo escamotage avvilente dà la misura del dilettantismo giuridico di questi signori (già certificato dalla Corte Costituzionale), oltre a quella della loro miserabilità politica. L'effetto giuridico di un voto referendario dura infatti cinque (5) anni. Una leggina ponte della durata di un (1) anno non può perciò in alcun caso sostituirsi alla volontà diretta del corpo elettorale, che deve essere a questo punto espressa nei modi e nelle forme dell'art. 75 Costituzione. La Cassazione e in seconda battuta la Corte Costituzionale non avallerebbero mai un simile tentativo di scippo. Da parte nostra saremo numerosissimi sabato a dire oltre a tutto il resto: «Giù le mani dai referendum!». Perché si scrive acqua ma si legge democrazia.

Moratoria «bluff» sul nucleare

di Eleonora Martini



Davanti all'impasse, sul nucleare il governo tenta la mossa del cavallo. E con un discreto effetto mediatico, per bocca del ministro dello sviluppo economico Paolo Romani annuncia una «moratoria di un anno sull'attuazione e la ricerca di siti e sull'installazione di centrali». Nessun atto giuridico, spiegano fonti ministeriali, solo un impegno politico che il Consiglio dei ministri formalizzerà oggi stesso. La legge 133 del 2008, quella che reintroduce l'opzione energetica nucleare in Italia e che è oggetto del quesito referendario abrogativo, non dovrebbe subire - assicura Palazzo Chigi - alcun tentativo di modifica. Dunque il referendum si farà anche se, spera assai la maggioranza, a questo punto altamente "depotenziato". «Mi aspetto che non si decida sull'onda dell'emotività ma sull'onda di un ragionamento e delle certezze che dobbiamo dare come governo e come Unione europea», incalza Romani che assicura: «La decisione è stata presa alla luce di quanto discusso lunedì in sede europea sulle procedure standard di sicurezza da stabilire per tutti i paesi comunitari».

Ma sotto il vestito, almeno fino a ieri sera, non sembra esserci davvero molto: perfino il decreto legislativo correttivo sulla localizzazione delle centrali nucleari e dei siti di stoccaggio non è stato ritirato, come sembrava ipotizzare la maggioranza e in molti speravano, e ha proseguito invece il suo iter parlamentare. Ieri sera la commissione Industria del Senato ha dato (con il voto contrario di Pd e Idv) l'ultimo parere favorevole necessario al governo per mettere a punto entro oggi, giorno di scadenza della delega parlamentare, il testo definitivo. «Fino all'ultimo - racconta il senatore Filippo Bubbico, membro della commissione - abbiamo sperato che il governo ritirasse il decreto, ma non lo ha fatto». Ermete Realacci, responsabile della green economy del Pd, parla di «lingua biforcuta» e di «bluff atomico». In realtà, secondo quanto annunciato dal ministro Romani, la moratoria di un anno non dovrebbe comprendere la localizzazione dei siti di stoccaggio dei rifiuti nucleari, visti i ripetuti richiami all'Italia da parte dell'Unione europea proprio per la mancanza di un «idoneo deposito nazionale» di rifiuti radioattivi derivanti dalle vecchie centrali dismesse ma anche dalle attività ospedaliere. «La nostra volontà - ha spiegato il titolare dello Sviluppo economico - è di portare al Consiglio dei ministri quella parte del decreto legge correttivo che riguarda il deposito nazionale per lo stoccaggio delle scorie perché si tratta di un grande tema per la sicurezza».

«Cosa significa la moratoria di un anno sul nucleare, se la maggioranza al tempo stesso approva la norma che consente di costruire centrali nucleari e impianti di stoccaggio di scorie anche in caso di parere contrario di Regioni e Comuni?», protesta Realacci riferendosi alle norme contenute nel decreto. Un problema che si ripresenta anche solo per i siti di stoccaggio. Come faranno a scegliere l'area senza il consenso della regione "prescelta"? Niente paura, spiegano da Palazzo Piacentini: l'iter di individuazione è lungo e complesso, e ancora di più lo è la successiva «fase di concertazione».

Dal leader di Fli, Gianfranco Fini, alla Cgil passando per l'Anci (comuni) e per il presidente della conferenza stato-regioni Vasco Errani, sono in molti a tirare un sospiro di sollievo o a complimentarsi per la moratoria, definita da alcuni un felice anche se non esaustivo «primo passo». Ma dal Pd all'Idv, dai Verdi al comitato "Vota sì per fermare il nucleare" costituito da oltre 60 associazioni, l'opposizione compatta grida invece alla «truffa» e al «sabotaggio». «Una mossa furba e truffaldina per far credere agli italiani che non c'è alcun bisogno di andare a votare al referendum», attacca Massimo Donadi, presidente dei deputati Idv. Per il partito di Antonio Di Pietro, come anche per i Verdi di Angelo Bonelli, non è del tutto infondato il timore che il governo possa «preparare un decreto legge per modificare la norma oggetto del quesito referendario», in modo da sabotare non solo politicamente il referendum che dovrebbe tenersi il 12 e il 13 giugno prossimi. «Non possono farlo», reagisce il Radicale Marco Cappato che anche ieri mattina, da Milano in conferenza stampa con Emma Bonino, aveva chiesto di nuovo lo stop del piano nucleare e una decisa virata verso il risparmio energetico e le rinnovabili, colpite invece quasi a morte con l'ultimo decreto legislativo. «Non si può modificare una legge oggetto di referendum - spiega Cappato - ma nel Paese della distruzione della Costituzione, è lecito sospettare perfino una manovra del genere. Tanto più da parte di un governo che ha messo in piedi un piano nucleare costoso, insensato, e che ci rende subalterni a Sarkozy».

NUKE

No alla costruzione di centrali: il quesito

«Volete voi che sia abrogato il decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel testo risultante per effetto di modificazioni ed integrazioni successive, recante 'Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria, limitatamente alle seguenti parti: art. 7, comma 1, lettera d: realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare?'. Con questo quesito si vuole abrogare la norma per la «realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare».

ACQUA 1

Privatizzazione dell'acqua? No grazie

«Volete voi che sia abrogato l'art. 23 bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto legge 25 giugno 2008 n.112 'Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria' convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n.133, come modificato dall'art.30, comma 26 della legge 23 luglio 2009, n.99 recante 'Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia' e dall'art.15 del decreto legge 25 settembre 2009, n.135, recante 'Disposizioni urgenti per l'attuazione di obblighi comunitari e per l'esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europea' convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n.166, nel testo risultante a seguito della sentenza n.325 del 2010 della Corte costituzionale?». Con questo quesito si vuole fermare la privatizzazione dell'acqua. Si propone l'abrogazione della norma sulla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica che stabilisce come modalità ordinarie di gestione del servizio idrico l'affidamento a soggetti privati attraverso gara o l'affidamento a società a capitale misto pubblico-privato, all'interno delle quali il privato sia stato scelto attraverso gara e detenga almeno il 40%.

ACQUA 2

I profitti del gestore e i costi sulla bolletta

«Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell'art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 'Norme in materia ambientale', limitatamente alla seguente parte: 'dell'adeguatezza della remunerazione del capitale investito'?» Si propone di eliminare la disposizione in base alla quale la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell'«adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Si consente cioè al gestore di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza prevedere un reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio.

LEGITTIMO IMPEDIMENTO

Per l'abrogazione dello scudo giudiziario

«Volete voi che siano abrogati l'articolo 1, commi 1, 2, 3, 5, 6 nonché l'articolo 1 della legge 7 aprile 2010 numero 51 recante 'disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza?». E' il quesito proposto dall'Italia dei valori che riguarda lo scudo giudiziario per il presidente del consiglio e i ministri. Dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità della legge, la Corte di Cassazione ha autorizzato lo svolgimento del referendum.

Non è mai cosa semplice giustificare una guerra, per chi è mandato al fronte ma anche per chi ha l’incarico di iniziarla, di deciderne i fini e la fine. Non è facile neanche per chi, sui giornali, cerca di dire la verità della guerra, le sue insidie. La più grande tentazione è di rifugiarsi nei luoghi comuni, nelle frasi fatte, nelle menzogne. Frasi del tipo: nessuna guerra è buona; nessun politico ragionevole s’impantana in paesi lontani; nessuna guerra, infine, va chiamata guerra.

Il governo italiano è specialista di quest’ultima menzogna: la più ipocrita. Né si limita a mentire: un presidente del Consiglio che si dice «addolorato per Gheddafi» senza sentir dolore per le sue vittime non sa la storia che fa, né perché la fa.

A questi luoghi comuni sono affezionati sia gli avversari incondizionati delle guerre, sia i governi che le guerre le fanno senza pensarle, o pensandone i moventi (petrolio e gas libici) senza dirli. I luoghi comuni sempre rispondono al primo istinto, più facile. Memorabile fu quel che disse il premier Chamberlain, nel ‘38, quando Hitler volle prendersi la Cecoslovacchia: «Un paese lontano, dei cui popoli non sappiamo nulla». Sono frasi che circolano, immemori, da secoli. Perché combattere per Bengasi? Siamo usciti dal colonialismo dimenticando che la tattica di Mussolini in Libia (far terra bruciata) è imitata da Gheddafi nel suo Paese. Frasi simili possono esser dette solo da chi immagina che il proprio interesse (personale, nazionale) sia disgiunto dal mondo. Non c’è solo la banalità del male. Esiste anche la banalità dell’indifferenza a quel che succede fuori casa. Lo scrittore Hermann Broch parlò, agli esordi del nazismo, di crimine dell’indifferenza.

L’Onu nacque per arginare questo crimine, nel dopo guerra. La Carta delle Nazioni unite garantisce la sovranità degli Stati, nel capitolo 1,7, ma nello stesso paragrafo stabilisce che il principio di non ingerenza «non pregiudica l’applicazione di misure coercitive a norma del capitolo 7»: capitolo che chiede al Consiglio di sicurezza di accertare «l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione», e gli consente (se l’aggressore non è dissuaso) di «intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite» (articoli 39 e 42 del capitolo 7).

Le Nazioni Unite hanno commesso innumerevoli errori in passato, ma i peccati maggiori sono stati di omissione, non di interventismo: basti pensare al genocidio in Ruanda, cui Kofi Annan, allora responsabile delle operazioni militari Onu, restò indifferente nel ‘94. Nonostante ciò l’Onu è l’unico organismo multinazionale che possediamo, la sola risposta ai luoghi comuni di cui il nazionalismo è impregnato. La sua Carta non è diversa dalle Costituzioni pluraliste dei paesi usciti dal nazifascismo come l’Italia e la Germania. Non è lontana, pur mancando di autorevolezza sovranazionale, dallo spirito dell’Unione europea: l’assoluta sovranità non è inviolabile, se gli Stati deragliano. D’altronde l’Onu ha imparato qualcosa dal Ruanda. Nel 2005, su iniziativa dello stesso Kofi Annan, ha approvato il principio della «Responsabilità di proteggere» le popolazioni minacciate dai propri regimi (Responsibility to Protect, detto anche RtoP), anche se è imperativa l’approvazione del Consiglio di sicurezza. È il principio invocato in questi giorni a proposito della Libia.

A partire dal momento in cui questa responsabilità viene codificata, lo spazio delle ipocrisie si restringe e più intensamente ancora le ragioni della guerra vanno meditate: specie nei Paesi arabi, dove spesso dominano tribù anziché Stati moderni. Anche questo è difficile: dai tempi di Samuel Johnson sappiamo che «la prima vittima delle guerre è la verità», e quest’antica saggezza va riscoperta. Se l’Italia «non è in guerra», cosa fanno i nostri caccia nei cieli libici? Pattugliano per far scena, senza difendersi se attaccati, addolorati anch’essi per Gheddafi? È questo, ministro Frattini, quel che dice agli aviatori? Frattini riterrà la domanda incongrua, e lo si può capire. È lo stesso ministro che il 17 gennaio, in un’intervista al Corriere, definì Gheddafi un modello di democrazia per il mondo arabo: un mese dopo la Libia esplodeva. Come mai la maggioranza non l’ha estromesso dal governo, come i gollisti hanno fatto col ministro degli esteri Michèle Alliot-Marie?

Ma forse c’è un motivo, per cui le parole vane si moltiplicano. In parte nascono da vecchi riflessi, impermeabili all’esperienza. In parte sono frutto di una confusione mentale profonda: l’Onu è di continuo invocata, ma quando agisce e l’America di Obama sceglie la via multilaterale molti perdono la bussola. In parte è l’Onu, prigioniera dei protagonismi nazionali, a evitare parole chiare. Di qui le tante ambiguità della risoluzione sulla Libia: un testo che vuol accontentare tutti e in realtà non sa quello che vuole, né quello che non vuole. Perfino sulla questione cruciale regna il buio: non si vuol spodestare Gheddafi, e però non pochi chiedono proprio questo. Il primo a tentennare è Obama: stavolta non vuole cambi di regime alla Bush, ma il risultato è che ciascuno nell’amministrazione dice la sua come in un giardino d’infanzia. Il 18 marzo il Presidente annuncia che «il cambiamento nella regione non sarà e non può esser imposto dagli Usa né da alcuna potenza straniera: in ultima istanza, sono i popoli del mondo arabo a doverlo compiere». Tre giorni dopo, il 21 marzo in Cile, ripete che la missione è proteggere i civili ma aggiunge: «La politica degli Stati Uniti ritiene necessario che Gheddafi se ne vada: tale politica sarà sostenuta da mezzi aggiuntivi». Ben altro aveva detto domenica il capo di stato maggiore Michael Mullen: l’obiettivo è di «limitare o eliminare le capacità del dittatore di uccidere il proprio popolo e di sostenere lo sforzo umanitario», non di provocare un cambio di regime. Per lui, Gheddafi può anche restare al potere.

Non è l’unica ambiguità: gli interventisti proclamano di non volere occupazioni né attacchi terrestri, ma nutrono parecchi dubbi in proposito. Anche perché con la sola aviazione e gli spazi aerei interdetti si ottiene poco, o peggio ancora: in Bosnia-Erzegovina, la no-fly zone fra il ‘93 e il ‘95 non impedì il massacro di 8000-10000 musulmani bosniaci a Srebrenica, città sotto tutela dell’Onu.

Non meno equivoco è il ritardo con cui l’Onu interviene. Il divieto di sorvolo poteva essere imposto prima, quando Gheddafi non aveva ancora riconquistato città e creato una spartizione di fatto della Libia. Uno dei difetti dei cieli interdetti è la scelta dei tempi. Le no-fly zone in Iraq (1991-2002) furono istituite dopo che a Nord l’orrore era già avvenuto (3.000-4.000 villaggi curdi distrutti da Saddam con armi chimiche, nell’88, più di 1 milione di morti), e nel Sud il divieto restò inascoltato.

L’Europa non solo è inesistente, ma pericolosa nella sua frantumazione: la scommessa fatta da Obama sulla sua autonomia è fallita, e non per sua colpa. Uno dei motivi per cui Lega araba è incollerita pur volendo l’intervento è la fretta di Sarkozy, che ha fatto partire i propri aerei senza mai consultare gli arabi. Non basta qualche aereo del Qatar per riempire il vuoto, abissale, di politica. Sarkozy interventista pensa ai suoi casi elettorali non meno della Merkel anti-interventista: di qui il litigio sulla guida o non guida della Nato. Quanto all’Italia, vale la pena ricordare quel che scriveva oltre un secolo fa lo scrittore Carlo Dossi, consigliere di Crispi: «La politica internazionale attuale dell’Italia non è che politica di rimorchio. L’Italia governativa non ha più propria opinione, né ardisce mai d’iniziare un affare o un’impresa, anche se vantaggiosa. Essa si accosta sempre al parere altrui. E neppure osa aderirvi schiettamente. Piglia busse, tace e ubbidisce».

Ancora non sappiamo se il mondo arabo sia scosso da tumulti, da clan rivoltosi, o da rivoluzioni che edificano nuovi Stati. Una cosa però già la sappiamo: una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo. La settimana scorsa, la Bbc ha diffuso un dibattito organizzato dalla Fondazione Qatar (il Doha Debate) in cui una platea di giovani arabi discuteva dell’Egitto. La maggioranza ha votato una mozione in cui si chiede di non indire subito le elezioni, perché la democrazia «non si esaurisce nelle urne»: è fatta di infrastrutture democratiche, di costituzioni garanti delle minoranze, di separazione dei poteri. Ha detto Marwa Sharafeldine, attivista democratica egiziana: «La democrazia fast-food può solo creare indigestioni». Non lascia spazio che ai ricchi, agli organizzati come i fondamentalisti islamici.

Pensando all’Italia, ho avuto l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare a questa conversazione mondiale, cominciata in ben sedici Paesi arabi. Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, e i capipopolo che si sentono in tale fusione col popolo da ritenersi, come Gheddafi, politicamente immortali.

Il progetto per la più grande infrastruttura libica. L’autostrada da 4 miliardi e la fame padana

Forse la Lega teme davvero che il caos libico scaraventi sulle coste italiane un esodo biblico di disperati. Ma sulle sue fibrillazioni probabilmente influisce anche un altro aspetto determinante: gli affari. Proprio nel momento in cui stava accarezzando l’idea di diventare il pivot dei giganteschi business che insieme al petrolio e al gas riguardano il paese nordafricano, e cioè le grandi opere, le è capitata tra capo e collo la rivolta contro il raìs con tutto ciò che ne è seguito. Visti da questa angolazione forse si capiscono meglio i clamorosi distinguo di Umberto Bossi nei confronti delle decisioni del governo sulla Libia e i mal di pancia dei ministri leghisti dopo le missioni dei Tornado italiani sui cieli del nord Africa.

Lontano dai riflettori, ma molto nel concreto, la Lega negli ultimi tempi stava diventando il partito che più di altri avrebbe goduto dei benefici effetti sugli affari delle grandi imprese italiane prodotti dall’ormai famoso Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione firmato con grande solennità il 30 agosto di tre anni fa a Bengasi tra Silvio Berlusconi e il colonnello Gheddafi. In base a quell’intesa l’Italia si impegnava a versare alla Libia circa 5 miliardi di euro a titolo di risarcimento per i danni di guerra. Nello stesso tempo si stabiliva che il nostro paese avrebbe partecipato alla realizzazione della più grande infrastruttura del nord Africa dei prossimi decenni e cioè l’autostrada costiera che avrebbe attraversato la Libia da Ras Adir ad Emsaad, dal confine tunisino ad ovest fino a quello egiziano ad est. Millesettecentocinquanta chilometri di asfalto in totale. Valore stimato dell’opera, oltre 4 miliardi di euro.

L’operazione autostrada era concretamente partita tre mesi fa con la regia dell’Anas, azienda statale italiana delle strade guidata da Pietro Ciucci. Anzi, l’affare era stato avviato sotto la supervisione dell’ala leghista della società stradale, rappresentata dal consigliere di amministrazione Claudio Andrea Gemme, un manager genovese che è anche amministratore delegato di Ansaldo sistemi industriali, ma soprattutto è il referente nell’azienda delle strade del vice ministro delle Infrastrutture, il leghista Roberto Castelli. Otto mesi fa Gemme fu nominato coordinatore di un nuovo gruppo di lavoro costituito dall’Anas, il gruppo Attività internazionali, a cui fu affidato il compito di seguire gli affari attualmente concentrati soprattutto in tre paesi: l’Algeria, l’Iraq e in prospettiva la Libia.

Di questo comitato fa parte lo stato maggiore Anas, da Alfredo Bajo, responsabile delle nuove costruzioni, manager in passato collaboratore di Carlo Toto, proprietario di Air One e uno dei “patrioti” dell’Alitalia, a Michele Adiletta, direttore centrale dell’esercizio stradale, Eleonora Cesolini, responsabile ricerca e innovazione, Stefano Granati, ex condirettore della società Stretto di Messina.

Alla fine del 2010 questo gruppo aveva già portato a casa i primi risultati: l’ambasciata libica aveva affidato all’Anas il servizio di advisor per la futura autostrada. Ricevendo in cambio 125 milioni e mezzo di euro, l’azienda italiana delle strade avrebbe dovuto svolgere compiti delicatissimi e nevralgici come pianificare le procedure, convalidare i progetti, espletare le gare d’appalto per il successivo affidamento dei lavori alle imprese e infine garantire l’alta sorveglianza sui lavori stessi. In pratica su impulso del gruppo internazionale del leghista Gemme, l’Anas stava diventando il punto di riferimento per la nuova grande opera libica.

I lavori erano stati suddivisi in quattro lotti e il primo del valore di 835 milioni di euro era stato affidato ad un consorzio guidato da Maltauro, il gruppo che aveva costruito le ville di Berlusconi ad Antigua e più di recente la nuova sede compartimentale Anas all’Aquila. L’affidamento dei lavori degli altri lotti era previsto per il prossimo settembre e molti all’Anas davano per scontato che questa volta sarebbe toccato ad Impregilo, la grande azienda già impegnata sulla Salerno-Reggio Calabria, scelta per il futuro ponte di Messina e guidata da Massimo Ponzellini, considerato il manager e il banchiere più vicino alla Lega.

Il rapporto acqua-città, il dramma dei paesi poveri e le buone pratiche nel colabrodo Italia. A meno di tre mesi dal referendum, la giornata mondiale dell'acqua diventa l'occasione per rispondere alle sfide globali rappresentate dalla gestione della risorsa più preziosa

Ci sono due motivi sostanziali per cui la giornata mondiale dell'acqua quest'anno è dedicata al tema Acqua per la città: come rispondere alle sfide dell'urbanizzazione. La metà del genere umano vive in agglomerati urbani, e si calcola che tra vent'anni quasi il 60% della popolazione sarà stipata nelle principali città del mondo: 5 miliardi di persone. Essendo così decisivo il rapporto acqua-città, il problema ormai chiama direttamente in causa la responsabilità politica delle singole amministrazioni, delle aziende e di tutti i cittadini che possono influire direttamente nella gestione dell'acqua in contesti urbani - basti pensare al referendum di giugno. Di questa sfida parla il dossier preparato dal Comitato italiano Contratto Mondiale sull'acqua (www.contrattoacqua.it).

La situazione mondiale

La mancanza di acqua nelle aree più povere del pianeta (Asia e Africa) apre scenari drammatici. Almeno 5 milioni di persone ogni anno abbandonano le campagne per trasferirsi in città, 493 milioni di persone non hanno servizi sanitari, 789 milioni sopravvivono senza accesso all'acqua e il 27% della popolazione urbana nei paesi del sud del mondo non ha la rete idrica in casa. E il futuro non promette niente di buono, se è vero che nei prossimi venti anni in questa area del pianeta la popolazione è destinata a raddoppiare. Ma l'impatto dell'urbanizzazione ormai si fa sentire anche nelle città industrializzate, dove 497 milioni di persone hanno servizi igienici in comune e dove il 38% della crescita della popolazione è concentrato nelle periferie, con accampamenti totalmente sprovvisti di acqua e servizi. Sono i poveri che abitano a «casa nostra».

Acqua e povertà

La sfida più importante sarebbe quella di fornire acqua a quelle 828 milioni di persone che oggi vivono nelle baraccopoli. I poveri, oltretutto, pagano un litro d'acqua fino a 50 volte di più dei loro vicini ricchi, in quanto sono costretti a rifornirsi dai privati. Stime non proprio confortanti dicono che la popolazione dei quartieri poveri è destinata ad aumentare di 27 milioni di persone all'anno. Ma c'è chi muore di sete e chi l'acqua può sprecarla: si passa da una disponibilità media pro-capite di 425 litri al giorno per un cittadino statunitense ai 10 litri per un abitante del Madagascar (237 per un italiano e 20 per una intera famiglia africana). Allora si può ben dire, come ha scritto L'Osservatore Romano, che «l'acqua è un bene troppo prezioso per obbedire solo alle ragioni del mercato e per essere gestita con un criterio esclusivamente economico e privatistico».

Inquinamento, salute e sprechi

Ogni giorno, nelle principali città, 2 milioni di tonnellate di rifiuti umani vengono smaltiti in corsi d'acqua. La mancanza di impianti di depurazione nei paesi poveri, e gli scarichi industriali fuori controllo, provocano gravi problemi di salute (la malaria è ancora una delle principali cause di morte in molte aree urbane). La gestione degli acquedotti fa acqua da tutte le parti: i livelli di perdita delle reti idriche raggiungono anche il 70%, con una disonorevole media italiana del 47%. In totale, la quantità d'acqua potabile che ogni anno viene dispersa nelle principali città è stimata attorno ai 500 milioni di metri cubi.

Città e acque in bottiglia

Gli italiani continuano ad essere i più forti bevitori in Europa di acqua minerale (194 litri a testa, più del doppio della media europea, per un totale di 12,5 miliardi di litri imbottigliati). Le aziende produttrici gestiscono affari colossali (2,3 miliardi di euro all'anno) pagando alle Regioni pochissimi euro all'anno per lo sfruttamento delle fonti di acque minerali: sono 189, per 321 marche commercializzate. A livello di bilancio familiare, significa che una famiglia di quattro persone spende tra 320 e 720 euro all'anno per bere acqua minerale.

L'impatto ambientale di questo consumo scriteriato è presto detto: l'Italia produce 12,4 miliardi di bottiglie l'anno consumando 655 tonnellate di petrolio, scaricando in aria 910 mila tonnellate di CO2 e (nella spazzatura) 200 mila tonnellate di plastiche, il cui smaltimento è a carico degli enti locali, cioè dei cittadini. Inoltre, solo il 18% delle acque minerali imbottigliate viaggia su rotaia: significa che ogni anno 300 mila Tir fanno avanti e indietro per far aumentare i profitti stratosferici delle multinazionali o delle aziende che imbottigliano un bene comune.

Buone pratiche in città

Il Comitato italiano per un Contratto mondiale dell'acqua dieci anni fa ha lanciato l'idea di ricostruire e riattivare nelle città «punti d'acqua pubblica» come momenti di riscoperta e socializzazione del bene più prezioso. Da eventi inizialmente simbolici, oggi hanno preso corpo tre specifiche campagne che danno un prezioso contributo nella costruzione di un nuovo rapporto tra acqua e città.

1) L'etichetta dell'acqua del sindaco: si tratta di una campagna di sensibilizzazione per contrastare la tendenza a denigrare l'acqua del rubinetto, sottoscritta da diverse amministrazioni che hanno «sponsorizzato» la bontà della loro acqua, con il risultato che oggi l'acqua del rubinetto, dopo anni, è riapparsa nelle mense scolastiche di diverse città (Roma, Firenze, Milano, Bologna, Perugia...).

2) Le Case dell'Acqua: diverse amministrazioni hanno reintrodotto punti di ristoro collettivi (in giardini, piazze, scuole e stazioni) per contrastare l'uso di acque minerali.

3) Le fontanelle pubbliche: la proposta di realizzare nuove fontanelle o erogatori di acqua pubblica (anche frizzante) è stata accolta da numerosi comuni italiani, che oggi offrono ai cittadini sorsate di prodotto gratis o a prezzi stracciati. Piccole gocce di saggezza.

Meno minerale e più rubinetto

Gli italiani spendono di più per comprare acqua minerale che per acquistare vino. Dai dati forniti dall'Istat in occasione della Giornata mondiale dell'acqua, Coldiretti ha desunto che l'acquisto di minerale è la prima voce di spesa del bilancio familiare destinata alle bevande (19,71 euro al mese per famiglia). Tra alcolici e analcolici, ogni famiglia italianaspende complessivamente 41,06 euro al mese. La minerale per la prima volta ha superato il vino per il quale le famiglie italiane spendono 12 euro mensili. Negli ultimi 30 anni la spesa per il vino si è dimezzata, il consumo procapite è sceso a 40 litri per persona all'anno, per un totale di 20 milioni di ettolitri circa. L'uso della minerale è in calo mentre cresce il consumo dell'acqua del rubinetto (+1,2% negli ultimi dieci anni). Secondo l'Istat la spesa media per famiglia per il servizio idrico integrato domestico (acquedotto, canone fognatura, canone di depurazione) si aggira intorno ai 270 euro all'anno. Una famiglia su dieci (10,8%) lamenta disservizi nell'erogazione. L'Italia è come sempre divisa in due. Al sud le segnalazioni di inefficenze salgono al 18,7% (Calabria 33,4%, Sicilia 28,3%). Al nord si fermano al 5,8% delle famiglie. Conseguentemente al sud si spende di più per l'acqua minerale (20,34 al mese per famiglia contro 18,75 euro spesi al nord). Il calo di consumo di minerale cresce tanto più aumenta la fiducia nei confronti dell'acqua del rubinetto. Il 32,8% delle famiglie ha almeno un componente che non si fida dell'acqua del rubinetto con punte là dove è peggiore la situazione degli acquedotti (Sicilia, 64,2%, Calabria 52%). Le famiglie che acquistano minerale nel 2009 erano il 63,4%, mentre nel 2000 erano il 64,2%. La fiducia nel rubinetto però crolla quanto più aumentano i costi in bolletta. Rispetto al 2008 i rincari medi si attestano al 6,7% (Viterbo +53,4%, Treviso +44,7%). Dal 2000 ad oggi, 80 capoluoghi su 115 hanno ritoccato la bolletta per un aumento totale del 64,4%.

Quando l'Onda riprende il movimento dell'acqua

di Ro. Ci.

Primo appuntamento di una settimana piena di impegni per il movimento studentesco, ieri si è svolta nella facoltà di fisica della Sapienza di Roma un'affollata assemblea a sostegno della campagna referendaria per la ripubblicizzazione dell'acqua pubblica, contro il nucleare e per la difesa dei beni comuni. «Dal movimento degli studenti al movimento per l'acqua» era il tema dell'iniziativa organizzata insieme al comitato romano per l'acqua pubblica che ha ribadito le ragioni di votare due Si per l'acqua e uno contro il nucleare al referendum del 12 giugno. Gli studenti romani parteciperanno alla manifestazione nazionale di venerdì prossimo organizzata dal forum italiano dei movimenti per l'acqua pubblica e partiranno verso le due da piazzale Aldo Moro, «Siamo convinti - hanno scritto in un'appello insieme al Comitato Referendario «2 Sì per l'Acqua Bene Comune», l'agenzia italiana per la campagna e l'agricoltura responsabile ed etica e la Fondazione Rosa Luxemburg - che una vittoria ai referendum costituisca una prima e fondamentale tappa per riconsegnare il bene comune acqua alla gestione partecipativa delle comunità locali e per invertire la rotta e sconfiggere le politiche liberiste e le privatizzazioni dei beni comuni».

Il legame con la campagna del Forum per l'acqua risale a due anni fa quando la legge 133 ha legato le sorti dell'acqua con quella della scuola e dell'università. Con quella finanziaria il governo Berlusconi ha voluto privatizzare i servizi idrici municipali e ha tagliato 8 miliardi alle scuole e 1,3 miliardi all'università. Da allora i contatti si sono consolidati e non sono mancati i riconoscimenti come quello del 22 dicembre scorso quando gli studenti che manifestavano contro l'approvazione del Ddl Gelmini sull'università consegnarono uno dei loro pacchi regalo al comitato per l'acqua pubblica di San Lorenzo a Roma.

«Abbiamo aderito al comitato referendario "Vota Sì per fermare il nucleare" che si è costituito da poco più di un mese - affermano gli studenti che aderiscono a Link-Uds - la necessità di investire sulle energie verdi e di una riconversione energetica non è nata con il terremoto in Giappone». Sempre alla Sapienza, giovedì prossimo è prevista una giornata di iniziative e convegni che terrà a battesimo il nuovo gruppo «Unicommon» (ex Uniriot), mentre tra venerdì e domenica sono previste l'assemblea nazionale di «Ateneinrivolta» alla facoltà di Fisica e quella sull'«altrariforma» universitaria convocata da Link-Uds presso la facoltà di Economia.

Non bisogna farsi ingannare dalle immagini che dallo schermo ci raccontano in questo momento l’intervento in Libia. A differenza di quel che appare, questa è una guerra tutta americana e ha come obiettivo non il Medio Oriente ma l’Africa. Il riferimento per capirla non è il Kosovo né l’Iraq, ma la crisi del Canale di Suez del 1956.

Quella data ha un valore fortemente simbolico nella politica estera degli Stati Uniti. Usciti dalla Seconda Guerra Mondiale alla ricerca, come tutte le grandi potenze di allora, di un radicamento nel mondo del petrolio, fino alla crisi egiziana gli Usa rimangono in una posizione marginale in Medio Oriente.

La nazionalizzazione del Canale di Suez vede infatti scendere in campo accanto ad Israele (che si muove formalmente ma non sostanzialmente in maniera indipendente) le due potenze che per più di un secolo avevano condiviso la gestione mediorientale, cioè Francia e Inghilterra. Gli Usa giocano una mano in quella crisi - la cui causa scatenante è proprio il rifiuto americano di concedere un megaprestito a Nasser per la costruzione della diga di Assuan - tentando di calmare Israele, e mettendo in allerta la Sesta Flotta nel Mediterraneo, ma ne rimangono fuori. Il senso di questa «terzietà» Americana venne colto da una battuta che è stata ripetuta poi molte volte in altri teatri di guerra confusi: all’Ammiraglio Burke che ordinava al suo vice «Cat» Brown «Situazione tesa. Preparatevi a ostilità imminenti», Brown rispose: «Pronti a imminenti ostilità. Ma da parte di chi?»

Com’è noto, il tentativo di sottrarre al controllo egiziano il Canale fu un fallimento, grazie soprattutto alle minacce della Russia, e formalmente il conflitto terminò con la prima missione Onu di peace keeping, cioè con la formazione e l’impiego di truppe delle Nazioni Unite in funzione di cuscinetto. In sostanza però la crisi segnava la fine dell’influenza delle ex potenze imperiali e la nascita di un nuovo equilibrio in Medio Oriente in cui la Russia avrebbe avuto un ruolo indiretto sempre maggiore, e gli Stati Uniti avrebbero avuto campo libero.

Come si vede, si possono contare molti punti di contatto fra quella vicenda e quella di oggi. Ma la somiglianza maggiore è nella cesura fra due periodi di influenza.

L’attacco europeo contro Gheddafi oggi somiglia molto al colpo di coda finale di Inghilterra e Francia allora nel tentativo di recuperare una svanita autorevolezza. L’attacco che l’Europa muove oggi a un alleato di trentanni è comunque la certificazione di uno schema politico andato a male. Su questo fallimento gli Stati Uniti si sono mossi per entrare in quello che finora era rimasto l’ultimo spazio riservato alla influenza quasi esclusiva dell’Europa, il Mediterraneo.

La genesi di questo intervento, cioè il modo in cui è stato immaginato e poi messo in atto, è indicativa. Nonostante si usi molto - e con buona ragione - il Kosovo come punto di riferimento per indicare la «filosofia» che ha spinto Obama a muoversi sulla Libia, l’«intervento umanitario» è oggi solo una parte delle valutazioni che hanno mosso Washington. Non c’è dubbio che, come confermano le cronache, un ruolo decisivo nella decisione è stato giocato da un gruppo di diplomatici quali la Rice, la stessa Clinton (e forse oggi ci sarebbe anche Richard Holbrook se non fosse mancato poche settimane fa) formatisi all’ombra di un paio di crisi andate male negli Anni Novanta, una seconda generazione di Clintoniani nella cui memoria brucia ancora soprattutto il Ruanda, la pulizia etnica cui la comunità occidentale assistette senza sollevare un dito. Ma l’intervento umanitario non avrebbe potuto essere invocato se non si fossero determinate nuove condizioni: e queste nuove condizioni sono quelle fornite dalla entrata in scena in chiave democratica delle masse arabe. In altre parole, per poter difendere un popolo dal massacro era necessario che ci fosse un popolo oltre che un dittatore, e le rivoluzioni del gelsomino hanno offerto insieme al materializzarsi del popolo anche lo scardinarsi del vecchio schema del quietismo dittatoriale in cui gli Usa e noi ci siamo rifugiati per decenni come assicurazione contro il radicalismo islamico. Dicono ancora le cronache (sapientemente manovrate dalla amministrazione) che va ricordato l’attivismo con cui Hillary ha seguito il Nord Africa nella settimana immediatamente precedente alla scelta dell’Onu: un viaggio al Cairo dove, in risposta al rifiuto dell’attuale governo di farle incontrare i giovani attivisti della rivolta, il Segretario ha deciso di fare una «passeggiata» in piazza Tahrir, e a Tunisi da dove ha lanciato il primo ammonimento alla Libia. L’America insomma ha deciso di intervenire in sprezzo a un vecchio schema politico e cavalcandone uno nuovo, cogliendo una opportunità che la vecchia Europa, proprio a causa della sua ex influenza, ha lasciata marcire quell’attimo di troppo. I francesi, così pronti oggi con i loro aerei, sono gli stessi che a gennaio hanno perso la Tunisia ancora prima di accorgersene, non richiamando a casa un ministro in vacanza a spese di Ben Ali proprio mentre la rivolta spazzava il Paese.

Hillary ed Obama hanno così pavimentato la strada verso una zona dove gli Usa da decenni non erano riusciti ad entrare: nel Mediterraneo, e nel Nord Africa in particolare. E dietro la frontiera del Nord Africa si stende l’Africa intera, come ben sappiamo proprio dal ruolo che negli ultimi anni ha avuto Gheddafi, e come sapevano ancor prima dei generali italiani, inglesi e tedeschi, i generali dell’Antica Roma. Lo sbarco sulle coste libiche è a tutti gli effetti l’apertura della porta sull’Africa. Quell’Africa diventata negli ultimi anni per gli Usa meta di conquista in una feroce competizione con l’altra grande potenza in espansione nel continente nero, la Cina. Una pervasiva presenza, quella cinese, che si è per altro materializzata davanti ai nostri occhi proprio quando all’inizio delle tensioni contro Gheddafi la Cina ha evacuato decine di migliaia di suoi concittadini al lavoro in Libia.

Anche questo è in fondo un obiettivo della seconda generazione di clintoniani: la prima campagna d’Africa Americana fu iniziata e fu persa proprio dal primo Clinton, Bill, con la sua sfortunata operazione «Restore Hope» in Somalia. Chissà se ora un secondo Clinton, Hillary, non voglia vedere vendicato anche quel fallimento.

Assomiglia a una corsa a ostacoli l'Expo. Non appena si profila l'ultimazione delle fasi preliminari e la macchina sta per entrare nello stadio delle realizzazioni, ecco affacciarsi l'intoppo. Anche oggi l'iniziativa va sui giornali per le polemiche tra i protagonisti e le fibrillazioni partitico-istituzionali, non grazie ai progetti per i quali è stata pensata. Il clima preelettorale, poi, gioca la sua parte nel provocare forzature e nel distogliere l'attenzione dagli argomenti che invece dovrebbero mobilitare tutta la città.

Il Bureau di Parigi ha affidato a Milano l'evento del 2015 facendo proprio un sentire ormai diffuso in ogni angolo della terra e cioè il proposito di dare avvio a una stagione che accenda i riflettori del mondo industrializzato e dei Paesi in via di sviluppo su un argomento sul quale l'umanità gioca il futuro: «Nutrire il pianeta, energia per la vita» . Invece sta accadendo qualcosa di incomprensibile per chi guarda da fuori la città e il nostro Paese, del quale proprio Milano continua a rivendicare di essere forza propulsiva.

Il contrasto è stridente. Da una parte stanno le apprensioni per la catastrofe del Giappone, che ha messo il mondo davanti ai rischi dell'approvvigionamento energetico, e le inquietudini indotte dalle conseguenze del «risorgimento arabo» (come l'ha chiamato il presidente Napolitano) in ordine al petrolio e al bisogno di lavoro e di cibo di popolazioni dove le giovani generazioni sono la stragrande maggioranza. Dall'altra parte sta Milano, in cui Comune e Regione sembrano usare lingue diverse, la Provincia mostra cautela, la Camera di commercio preme, lo Stato traccheggia. E tutti insieme si frenano l'un l'altro e disattendono i tre obiettivi dell'Expo: educazione, innovazione, cooperazione.

Che la coperta delle disponibilità economiche sia corta non può essere un alibi. Le risorse, proprio se scarse, sono legate allo slancio ideale e alla conseguente capacità di stabilire priorità e obiettivi generali di bene comune, di puntare al massimo coinvolgimento di organizzazioni, persone, enti, mezzi, proprio mostrando che, se si va tutti in modo trasparente verso una direzione concordata, si innescano circoli virtuosi e si dissipano le eventuali zone grigie che le inazioni potrebbero indurre. Si può ottenere di più di quanto ciascuno ci ha messo, quando il risultato è collettivo. È una questione di crederci, di saper sacrificare gli interessi degli organismi che si rappresentano in nome di vantaggi che vanno oltre steccati e visioni particolari, di cercare i punti di mediazioni invece delle occasioni di scontro.

Insomma: è una questione di «volontà politica» e questa non è proprietà dei partiti e delle istituzioni che essi governano al momento, ma dovrebbe essere espressione d'un moto generale, della «polis» , della città intera, delle forze vive, responsabili, vogliose di futuro. Sarebbe un autogol clamoroso di Milano e del Paese se anche di fronte alle scadenze impellenti dell'Expo dovessero prevalere gli egoismi e venisse approfondito il fossato tra politica e società civile. C'è da chiedersi sino a quando città, forze produttive, rappresentanze sociali e culturali, giovani reggeranno lo stress istituzionale in atto, destabilizzante per l'oggi e pieno di insicurezze per il domani.

La reggia borbonica di Carditello, a pochi chilometri da Caserta, svetta nella piana aversana, circondata da discariche e attorniata dagli sversatoi abusivi in cui la camorra ha buttato rifiuti d'ogni specie. È in condizioni disastrose, ma il pericolo più imminente per questo capolavoro dell'architettura settecentesca non è che si stacchi ciò che resta degli affreschi di Jacob Philip Hackert oppure che i ladri si portino via, oltre ai camini e alle acquasantiere, già derubati, i fregi e i marmi delle scalinate. Il rischio è che Carditello venga venduta all'asta, al prezzo di 25 milioni (secondo un calcolo, 2,5 euro al metro quadro). E che venga venduta non si sa a chi. Ma non è difficile immaginare chi in questa piana, nel cuore di Gomorra, ha più soldi e tanto desiderio di gettarli in un'impresa pulita.

La storia di Carditello è esemplare di come in Italia marcisca un tesoro che altrove avrebbe ben diverso destino. La reggia è di proprietà del Consorzio di Bonifica del Basso Volturno, un ente pubblico gravato da una serie di debiti con il Banco di Napoli, poi assorbito da Banca Intesa (ma il Consorzio accampa anche molti crediti dalla Regione e da alcuni Comuni). Ora la Banca esige il rimborso e il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha avviato da qualche settimana la vendita all'asta. La procedura partirà in autunno, ma le prime sedute, si sente dire, andranno deserte e il prezzo calerà e così Carditello per poche manciate di euro diventerà, se va bene, una sala per matrimoni.

La reggia è al centro di un paesaggio a tratti miracolosamente intatto. Dall'altana, che sovrasta il corpo centrale, destinato alla residenza del re, si domina la partizione regolare delle strade che convergono verso l'edificio. Più oltre c'è Casal di Principe, il regno dei casalesi, e quasi a corona incombono le discariche Maruzzella, Casone, Santa Maria la Fossa, Parco Saurino, Ferrandelle, Pozzobianco, e poi i siti di stoccaggio dell'immondizia con milioni di balle ricoperte di teli. Terribile destino per questa zona, i Regi Lagni, dove il viceré Don Pedro di Toledo, lo stesso che disegnò i Quartieri spagnoli di Napoli, iniziò a metà del XVI secolo una monumentale bonifica. I lavori furono proseguiti dai Borbone, che realizzarono un delicatissimo reticolo di canali, con un "lagno" principale lungo 55 chilometri e una serie di piccoli affluenti a spina di pesce. Qui veniva convogliata l'acqua e così una distesa di pantani, piagata da malaria e alluvioni, si convertì in terreni fertilissimi, ospitando coltivazioni pregiate, comprese quelle del lino, e allevamenti. La sistemazione durò fino agli anni Trenta del Novecento.

Dall'altana della reggia di Carditello quella trama geometrica di canali, opera della migliore ingegneria idraulica, è ancora visibile, sebbene ridotta ad appendice di un sistema fognario. E sebbene ospiti un mortale parco di discariche abusive e legali, che soltanto una follia perversa ha immaginato di collocare in questo territorio fatto di acque che emergono e di suoli che s'inabissano. Due anni fa la Regione invitò uno dei più esperti paesaggisti europei, Andreas Kipar, per disegnare un progetto che risanasse i canali e recuperasse i terreni all'agricoltura. La tenuta intorno alla reggia di Carditello, si disse, sarebbe diventata "un orto della biodiversità".

Non se ne fece nulla.

Nonostante il territorio sia vandalizzato, Carditello resiste. Costruito nel 1787 da Francesco Collecini, allievo di Luigi Vanvitelli, fu usato dai sovrani come residenza di caccia e per l'allevamento di cavalli pregiati. Hackert affrescò le sale del corpo centrale e vennero decorate la cappella e le scalinate. Nei due padiglioni laterali erano sistemate le stalle, secondo moderni criteri di allevamento. Cavalli e bufale pascolavano nell'intera tenuta e qui si produceva la migliore mozzarella del regno.

L'edificio centrale è stato restaurato nel 2000, ma senza manutenzione quei lavori resistono a stento. E ogni giorno c'è un pezzo in meno. Nelle stalle venne sistemato, alla fine degli anni Settanta, un museo della civiltà contadina, i cui oggetti ora giacciono abbandonati, mentre tanti altri sono stati derubati o trasferiti altrove. Ora non c'è più niente. Le scale sono divelte. I tetti crollano, se piove entra acqua e le travi penzolano minacciose. Il cancello è chiuso. Per entrare c'è bisogno di un permesso del giudice.

Si sono mossi comitati di cittadini, moltissimi i giovani. Sono stati organizzati sit-in. "Questo territorio è devastato: perché non si fa niente per quei tesori che sono ancora in piedi?", si domanda Antonio D'Agostino, animatore del gruppo Comunità che viene.

Italia Nostra di Caserta, presieduta da Maria Carmela Caiola, sta promuovendo un appello a Giorgio Napolitano. Finché è stato in carica Antonio Bassolino, la Regione ha mostrato segni di interesse. Ma la giunta di Stefano Caldoro ha annullato i propositi dei predecessori. Eppure, dicono Alfonso De Nardo, commissario del Consorzio proprietario di Carditello, e il direttore generale Antonio De Chiara, "basterebbe che Regione e Comuni pagassero le somme che ci debbono per contributi di bonifica, e noi potremmo riacquisire Carditello e avviarne il restauro. Poi si possono immaginare varie destinazioni, da quella espositiva e museale a quelle didattiche e di ricerche fino alla promozione dei prodotti di qualità, come la mozzarella di bufala, o alla riscoperta delle antiche tecnologie e pratiche colturali". "Carditello è la Venaria del Sud", spiega Alessandro Magni dell'associazione Siti Reali. "Ma mentre sulla reggia piemontese le istituzioni sono intervenute e l'hanno trasformata in un gioiello, sede di mostre e iniziative di livello internazionale, quello casertano è un tesoro lasciato a se stesso, in uno stato di degrado assoluto".

La soluzione è apparsa più volte a portata di mano. Fra il Consorzio di bonifica, che ha intenzione di restare in possesso della reggia, e la società di recupero crediti sono in corso trattative. Ma dal sito di Carditello non si allontanano gli appetiti più minacciosi.

l’Avvenire

Una nuova ingerenza umanitaria Incognite e doveri

di Luigi Geninazzi

All’ultima ora, dopo un mese di tentennamenti e rinvii di fronte alla crisi libica, quando ormai Gheddafi sembrava essere sul punto d’averla vinta sui ribelli, la comunità internazionale reagisce con un’improvvisa e drammatica accelerazione. Non c’è dubbio che i raid aerei sulla Libia, iniziati ieri sera dopo il via libera deciso dal vertice di Parigi, costituiscano un vero e proprio atto di guerra. Ma è la risposta alla guerra che il regime sanguinario di Gheddafi ha scatenato contro il suo popolo. Se anche Bengasi, città simbolo della rivolta e ultima roccaforte degli insorti, cadesse nelle mani del raìs, saremmo posti di fronte non solo alla sconfitta di coloro che in Libia chiedono libertà e democrazia ma a una tragica battuta d’arresto per tutti quei movimenti che hanno dato vita alla primavera del mondo arabo.

A differenza delle guerre più recenti (contro l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003 e contro la Serbia di Milosevic nel 1999), l’intervento militare contro Gheddafi ha avuto l’avallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu ed è stato predisposto con l’assenso della Lega Araba che sul destino della Libia ha legittimamente qualcosa da dire. Un sussulto doveroso ma tardivo che fa seguito a uno scandaloso attendismo, nutrito di previsioni tanto ottimistiche quanto erronee sull’imminente caduta del dittatore di Tripoli. Il brusco risveglio degli ultimi giorni, dovuto alla controffensiva vittoriosa di Gheddafi, ha provocato un’affannosa corsa ai ripari. Il più svelto è stato Sarkozy che, dopo aver riconosciuto come unico legittimo interlocutore in Libia il Comitato nazionale degli insorti, ha agitato la bandiera dell’interventismo, allo scopo di cancellare il passato legame coi dittatori del Maghreb e di rilanciare la grandeur francese nel Mediterraneo, scommettendo su vantaggiosi accordi petroliferi con il futuro governo libico. Sarkozy ha l’appoggio di Obama, e soprattutto ha trovato un decisivo alleato nel premier britannico Cameron, mentre la Germania della Merkel si è defilata. In mezzo c’è l’Italia che ha aderito alla linea interventista con poca convinzione e con una grande preoccupazione: quella di essere esposta, più di ogni altro Paese, alle rappresaglie del Colonnello che potrebbe reagire come già fece nel 1986 dopo l’attacco aereo ordinato da Reagan contro il suo bunker a Tripoli, quando lanciò due missili contro Lampedusa.

Quella che è iniziata alle porte di casa nostra è dunque una guerra animata dal nobile motivo dell’ingerenza umanitaria ma non esente da ombre e da rischi. Assomiglia molto all’intervento militare della Nato contro Milosevic nel 1999. Anche lì si trattava di difendere una popolazione civile, quella kosovara, dalle brutalità e dai crimini delle milizie serbe. I bombardamenti aerei della Nato andarono avanti per due mesi, Milosevic fu costretto a cedere il Kosovo ma restò al potere a Belgrado per oltre un anno. Potrebbe finire allo stesso modo, con una Libia spaccata in due e un Gheddafi saldamente in sella a Tripoli. Ma non tutti i dittatori sono uguali, e il «cane rabbioso» della Libia, come l’aveva definito Reagan, potrebbe tornare a mordere e a far male.

I suoi propositi di vendetta non ci devono intimidire. Ma non possiamo neppure sottovalutarli. L’Italia si trova in prima linea, a motivo della geografia e ancor più della storia, e non deve aver paura di assumersi tutte le sue responsabilità, facendosi carico di una sincera preoccupazione umanitaria a favore del popolo libico, dei tanti residenti stranieri e dei profughi purtroppo previsti. È questa la ragione dell’intervento militare, non dimentichiamolo. Da oggi entriamo in un territorio dominato da molte incognite. Dobbiamo essere pronti a ogni eventualità anche perché, come diceva von Clausewitz, «le guerre non finiscono mai come prevedeva chi le ha iniziate».

la Repubblica

Torniamo nemici 100 anni dopo

di Filippo Ceccarelli

Potenza degli anniversari: giusto cent’anni fa la guerra di Libia. E sembra anche di avvertire qualche assonanza di troppo. Geopolitica e non solo. «Giolitti sente poco la politica estera, ma esiste un’Italia malata d’Africa da quando la Francia s’è presa la Tunisia». Così ricostruisce la situazione Franco Cordero nel suo recentissimo commento al Discorso di Leopardi sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani (Bollati Boringhieri): «L’affare libico pare comodo: nihil obstat dalle Potenze; i turchi sloggeranno dopo quattro cannonate. L’opinione pubblica chiede Tripoli e lui l’asseconda malvolentieri…».

Era la fine di settembre del 1911. Fattori emotivi e considerazioni di prestigio spinsero principalmente l’Italia a mettere da parte l’idea di una penetrazione economica per intraprendere quell’impresa militare. Ma a chi voglia ulteriormente abbandonarsi alla gravosa fatalità delle ricorrenze si fa notare, con Denis Mac Smith, che per degnamente celebrare il 50° anniversario dell’unificazione la conquista della Libia, coronamento del Risorgimento, «avrebbe dimostrato come gli italiani meritassero di essere diventati una nazione».

Ora, Giolitti e Berlusca hanno davvero troppo poco in comune per consentire vani giochetti storici. Ma a parte le motivazioni fatte valere un secolo fa, una specie di diritto di proprietà risalente ai fasti dell’impero romano, come pure il sogno di un Eldorado a portata di mano sulla "quarta sponda", con relative leggende a base di chicchi di grano grossi come mandarini, la guerra non fu per niente una passeggiata. E non solo perché un pezzo di paese era contrario, da Salvemini, l’unico a sapere che si trattava in realtà di «uno scatolone di sabbia», a Treves e Turati, fino a Nenni e Mussolini che finirono in galera.

Se D’Annunzio cantò la gioia della conquista "d’Oltremare" e se l’isterico nazionalismo dei futuristi ebbe il suo agognato sfogo, la verità storica è «la Libia abbisognava di capitali - come scrive Mac Smith - ma l’Italia non ne aveva a sufficienza nemmeno per se stessa». Disse poi Giolitti che l’impresa era costata 512 milioni. Lo contraddisse in Parlamento Sonnino sostenendo che il bilancio era stato falsificato e che il costo effettivo della guerra era stato almeno doppio.

Brusco ritorno al presente, con legittima e conseguente preoccupazione per il futuro. Perché ciò che davvero atterrisce, ben oltre il fatale rincorrersi dei numeri e delle loro commemorazioni, è la velocità con cui ciò che vistosamente è andato in scena si va oggi rovesciando nel suo esatto contrario. I cammelli in regalo, il Cavaliere sotto la tenda che mostrava le foto del nipotino al Colonnello, l’autostrada promessa, lo "storico" trattato che addirittura privilegiava la Libia agli impegni della Nato, quel bacio della mano. Come se l’ostentata amicizia rivelasse di colpo la sua più spudorata falsità.

Non che i democristiani facessero poi una politica così diversa. Non Andreotti, a cui Gheddafi si offrì di pagare l’avvocato per i processi di mafia; non Craxi, che chiamava Gheddafi "Capitan Fracassa", ma gli salvò la pelle avvertendolo dell’attacco americano nell’aprile del 1986. Si sa. C’entrano il petrolio, gli affari e adesso anche le carrette del mare con i disperati. È ovvio che l’Italia doveva tenerselo buono, quel tipo lì, come infatti se lo tennero buono l’Avvocato Agnelli, Prodi o D’Alema, che andò a Tripoli a riprendersi certi bambini di genitori italo-libici in lite, e a cui fu regalata una scimitarra berbera, chissà che fine ha fatto.

E però, diamine: non sono passati nemmeno sette mesi dall’ultima visita del Colonnello a Roma e oggi la memoria si affolla di ricordi che risultano ancora più stranianti di quanto già sembrassero allora. Sogni, miraggi, fotogrammi di cinepanettone. La tenda di Gheddafi a villa Pamphili; il pranzo dal "Bolognese" con assaggiatore fisso ai fornelli; gli sguardi golosi sulle amazzoni, pure dotate di pendaglio con ritratto del Raiss al collo; il torneo equestre con i cavalieri berberi e i carabinieri a villa Borghese. Quindi Berlusconi che alla mostra sul colonialismo arrivò addirittura a commuoversi, ma poi durante l’interminabile concione del leader libico si mise a dormire. Per non dire dei torpedoni carichi di ragazze romane che il capriccioso tiranno volle mostrare ai telespettatori libici: ben 530 ne arruolò l’agenzia Hostessweb, comprese tre convertite all’Islam e una giovane giornalista che si finse velina interessata alla rivoluzione verde per scriverne un resoconto per Repubblica.

E ora all’improvviso la guerra. Le basi militari. I Tornado "pronti in 15 minuti". Il cacciatorpediniere "Andrea Doria" nel canale di Sicilia. Già una volta, di recente, il ministro La Russa ha esibito fregole dannunziane: "S’ode nel cielo un sibilo di frombe./ Passa nel cielo un pallido avvoltoio…/ Italia, alla riscossa, alla riscossa!". Mentre Berlusconi, con provvido tempismo, si è limitato a raccontare a Ruby che quel certo rito sessuale - vedi, vedi - glielo aveva insegnato proprio Gheddafi. Tutto dunque si tiene a questo mondo, da Giolitti al bunga bunga, e tutto speriamo davvero che non si sconquassi.

il manifesto

Un conflitto per il petrolio

di Valentino Parlato

E così, annunciata ma inattesa, la vera guerra in Libia è cominciata. Ricordiamo le premesse. Francesi, inglesi e americani avevano detto che sarebbero intervenuti contro le truppe di Gheddafi e non avrebbero dato alcun rilievo al cessate il fuoco del colonnello. Quindi guerra.

Nella situazione data è difficile pensare a una forte resistenza, anche se ci sarà e avrà le sue vittime. Il governo di Gheddafi non era certamente il migliore dei governi possibili, tuttavia poteva vantare un'indipendenza della Libia, antica colonia, prima ottomana e poi italiana. La fortuna-disgrazia della Libia è avere il petrolio, che - anche per i disastri giapponesi - diventa sempre più vitale per l'economia mondiale. Morale: il petrolio non può essere lasciato in mano a un soggetto come Gheddafi. Gli anglo-francesi, con il sostegno americano, sono intervenuti contro questa aporia. Ma in questo difficile contesto come sta messo il nostro paese, cioè l'Italia, che nonostante i trascorsi coloniali aveva realizzato un ottimo rapporto con la Libia gheddafiana? Come andrà a finire l'Eni quando la guerra di Francia, Gran Bretagna e Usa sarà conclusa?

Troppi sono gli interrogativi ai quali è difficile rispondere, ma viene il dubbio che siamo a una rinascita del famoso imperialismo: Francia e Gran Bretagna, con alle spalle gli Usa sono, pur nella recente globalizzazione, le potenze imperiali, per le quali di fronte ai guai del nucleare il petrolio diventa il prodotto massimamente imperiale. La Libia di Gheddafi era stata una irregolarità da sopportare, ma non da accettare. Ora questa irregolarità non è più accettabile. La ribellione, motivata, di buona parte della popolazione libica diventa un'ottima occasione per chiudere la parentesi gheddafiana e il petrolio dato a quelli che promettono la costruzione di una lunghissima autostrada, erede della via Balbia, che avrebbe dovuto sostanziare l'unità di un paese con molte diversità.

Non sappiamo come si regolerà tra i potenti la sconfitta di Gheddafi, ma una cosa almeno per noi italiani sembra certa: dopo cento anni dalla conquista della Libia (Giolitti presidente del consiglio) l'Eni rischia di essere messo fuori o, almeno, di non godere più degli attuali privilegi. Siamo al punto nel quale forse dovremo rimpiangere Gheddafi.

E’ scilipotismo termonucleare, trasformismo atomico. Questo non è un governo che ha cambiato idea e sta responsabilmente e dolorosamente rinunziando al nucleare, ma è un governo che non ha idee e si accoda alle paure e alle emozioni espresse dai sondaggi del momento. I ministri Romani e Prestigiacomo e, spiace dirlo, con loro anche Umberto Veronesi, non stanno alla testa ma alla coda del Paese. E difatti proprio loro, che non si erano fatti spaventare dall´apocalisse mondiale, si sono terrorizzati davanti ai sondaggi di cortile. Loro che si erano mostrati duri, tecnologi e «proiettati nel futuro», loro che avevano accusato di sciacallaggio gli antinuclearisti («non si specula sulla paura!») loro adesso ci ripensano, ragionano, rinviano. Come mai? «è finita. Non possiamo perdere le elezioni per il nucleare» è sbottata la ministra Stefania Prestigiacomo davanti a Tremonti e a Bonaiuti, senza sapere che i giornalisti dell´agenzia Dire la stavano registrando.

Ancora una volta, dunque, dobbiamo dire grazie a delle frasi intercettate. Questo portentoso sfogo della Prestigiacomo ci svela infatti il vero significato delle nuove posizioni di Romani, «non costringeremo nessun territorio a costruire centrali», e illumina di verità la pensosa riflessione di Veronesi. Sono intense e bellissime le parole usate ufficialmente: «sgomento», «coscienza», «prudenza», «intelligenza». Ma ecco come la Prestigiacomo le ha tradotte: «Non facciamo cazzate». Insomma, il Giappone rischia davvero di diventare anche per lei un´esperienza dolorosa, e non per i morti, non per la disperazione mondiale, ma perché «noi non possiamo perdere le elezioni per il nucleare. Dobbiamo uscirne in modo soft. Ora non dobbiamo fare nulla, si decide tra un mese».

Ecco il punto: non ci dice, la Prestigiacomo, che questi nostri governanti sono anti o pro il nucleare, e neppure che sono indecisi. Ma che sono irresponsabili. Non ci racconta che ieri erano a favore («non siamo in Giappone, il ritorno al nucleare rimane un´assoluta priorità italiana») e oggi sono contro perché «l´ammirevole compostezza del popolo giapponese» li ha svegliati, ma che sono ammalati di scilipotismo appunto, banderuole dell´opportunismo e dell´inaffidabilità, troppo abituati a prendere boccate d´ossigeno dalle disgrazie - il terremoto dell´Aquila, il crollo di una bella scuola elementare, la spazzatura di Napoli, e poi Gheddafi… - troppo lesti a cercare in ogni rogna la convenienza elettorale. E abbiamo pure il sospetto che la maggioranza di governo non abbia paura solo delle elezioni amministrative che stanno per arrivare. Teme di perdere anche il referendum sul nucleare e, sull´onda di quella sconfitta, quello sulla privatizzazione dell´acqua e soprattutto quello sul legittimo impedimento che, ovviamente, sarebbe per Berlusconi la vera fusione atomica del consenso, il disfacimento non solo elettorale.

Attenzione: noi non siamo per il nucleare, non è di questo che stiamo parlando. Il punto è che tutti, non importa se pro o contro il nucleare, preferirebbero un governo capace di far valere le proprie convinzioni anche quando diventano impopolari, un governo che fa la cosa che gli sembra giusta e non la cosa per la quale fiuta l´applauso. Una volta c´era la destra che si batteva per gli interessi dell´industria, il profitto e lo sviluppo, e c´era la sinistra che metteva al primo posto i salari, l´ambiente, la salute. Ora invece ci sono i sondaggi, c´è una classe dirigente che si uniforma pubblicamente a quegli umori che in privato disprezza, c´è una destra che sfugge alla solidità della politica e insegue la volatilità del consenso: se la volete cotta ve la diamo cotta, se la volte cruda ve la diamo cruda, basta che balliate con noi.

È un altro imbruttimento, l´ennesimo imbarbarimento che la destra deve a Berlusconi. L´altra sera ho acceso la televisione e su Raiuno ho riconosciuto tal Alessandro Di Pietro. Da vecchio cronista lo ricordavo alla testa dei "Gre" (Gruppi di ricerca ecologica), gli ambientalisti di destra. Ne era il capo e il fondatore. Si dicevano seguaci di Konrand Lorenz. Erano fortissimamente antinuclearisti. Ai miei occhi questo Di Pietro era un Ermete Realacci rovesciato con tanto di baffetti da paese. Ebbene in tv era un goffo concorrente semivip dell´empireo di "Ballando con le stelle": guidato dalla Carlucci danzava un fox trot che sembrava un Nichibu giapponese.

Sovente ripetiamo che per poter essere difesi i beni comuni devono essere riconosciuti come tali e che per riconoscerli occorre praticare il pensiero critico. Per esempio, tutti diamo per scontato che la terra sia ferma perché è proprio la terraferma ad averci garantito la possibilità di sviluppare il nostro modello di vita stanziale. La sismicità è rimossa dalla collettività, ma chi ha responsabilità di governo del bene comune «territorio» deve necessariamente tenerne conto. Male gestisce i beni comuni chi miri al profitto o alla concentrazione del potere, ed è per questo che essi devono essere governati in modo partecipato e diffuso da quanti ne assorbono i benefici e ne subiscono i costi. In questo modo, i beni comuni non rispondono alla logica della produzione ma, guardando alla sostenibilità di lungo periodo (ossia anche all' interesse delle generazioni future) devono rispondere alla logica della riproduzione: la logica eco-logica che è qualitativa e non quantitativa.

Chi mira al profitto e alla concentrazione del potere investe in modo sostanziale nell'occultamento dei beni comuni, proprio perché profitto privato e potere politico si soddisfano entrambi nel loro saccheggio. È interesse convergente tanto del potere economico quanto di quello politico, che ne è sempre più servo, indebolirne le difese democratiche (come per esempio il referendum). I beni comuni divengono molto più facilmente riconoscibili quando posti a rischio letale e la loro emersione pubblica ne facilita enormemente la difesa. In questi momenti , il potere mette in campo, disordinatamente, ogni possibile tattica per occultare la verità.

Queste considerazioni solo apparentemente astratte ci consentono di interpretare e di ridurre ad unità il dibattito politico di questi giorni. Un certo senso di tranquillità si era impadronito dell'opinione pubblica meno critica di fronte all'opzione nucleare, sebbene questa sia il principale paradigma della concentrazione estrema del potere non democratico nella società tecnologica «avanzata». L'opzione nucleare infatti non solo concentra gli investimenti energetici incanalando il patrimonio pubblico in una sola direzione, ma soprattutto richiede la costruzione di un imponente apparato poliziesco per evitare che il materiale radioattivo finisca nelle «mani sbagliate». In nome della sicurezza nucleare, siamo pronti ad accettare qualsiasi limitazione della libertà personale ed è inevitabile la militarizzazione di ampie porzioni del territorio circostante alle centrali. Paradossalmente, è la stessa portata micidialmente globale delle conseguenze di un disastro nucleare ad incentivare questa politica suicida. Proprio come nella famosa «tragedia dei comuni». Si ripete spesso che «tanto le centrali ci sono già in Francia e Svizzera e quindi il rischio c'è lo stesso e noi non ne traiamo alcun beneficio». Un tale atteggiamento egoistico, nazionalistico e di breve periodo spiega l'atteggiamento irresponsabile del governo italiano che così incrementa (a scopo di profitto e potere) il letale rischio per il nostro pianeta vivo, bene comune per eccellenza. La fede incrollabile nella tecnologia, gonfiata ad arte dal capitale, porta i più a bere la propaganda nuclearista di Veronesi, e si ripete lo spettacolo deprimente di Chicco Testa (ex presidente di Legambiente) che in televisione sdottora di terza e quarta generazione di centrali.

Ammettiamolo: se non ci fosse stato lo tsunami giapponese, al referendum sul nucleare saremmo stati forse perfino sotto il 20%, ma del resto anche quello scorso si vinse solo «grazie» a Chernobyl. In effetti, perfino molti fra quanti si sono battuti per il referendum sull'acqua pubblica non vedevano bene quello sul nucleare, pensando che ci avrebbe «fatto perdere». La tattica (vincere sull'acqua) stava facendo premio sulla strategia (invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo suicida). Ecco oggi un esempio (molto comune in politica) di eterogenesi dei fini, perché sarà proprio il nucleare a motivare adesso la partecipazione alle urne. Ecco soprattutto beni comuni emergere prepotenti e visibili durante un emergenza che scuote (letteralmente) le false certezze ed illusioni della modernità. La certezze che la tecnologia possa rendere sicuro il nucleare, un dato tanto vero quanto il fatto che la terraferma sitia ferma. L'incidente giapponese mostra come diritto e politica dovrebbero garantire un bene comune fondamentale come la sicurezza di tutti nei confronti delle conseguenze delle fughe in avanti della mitologia progressista (ciò è vero oggi in Italia rispetto a Enel Edf che vogliono fare le centrali come era vero rispetto alla Bp che ha devastato il golfo del Messico). Soprattutto esso indica come, in prospettiva ecologica, si debba apprezzare la natura dell'energia come un bene comune globale. Essa va governata nell'interesse della ri-produzione e non in quello della produzione, evitando così ogni «tragedia» dettata dall'egoismo e dalla logica di breve periodo, sia essa pubblica o privata. Per questo il nucleare va respinto e per questo dobbiamo unire ogni sforzo in questa battaglia referendaria. Respingere il nucleare significa scommettere sulla produzione diffusa ed ecologica di energia, sulla diffusione del potere e dunque sulla democrazia e sui beni comuni. Proprio come per l'acqua.

Alla luce dei beni comuni il referendum sul nucleare e quelli sull'acqua sono accomunati da una medesima logica. Occorre invertire la rotta rispetto alla false certezze del pensiero unico; denunciare una classe dirigente irresponsabile e corrotta dalla concentrazione e dalla commistione del potere politico con quello economico; aprire gli occhi rispetto all' ipnosi colettiva che per anni è stata prodotta da strategie culturali volte a occultare i beni comuni a fini di saccheggio. Occorre cominciare a pensare in modo ecologico e sistemico. La piena consapevolezza di come l'interesse comune non possa coincidere con quello dello Stato deve essere assolutamente raggiunta per far risorgere la democrazia. Ciò è assai importante nella giornata in cui le celebrazioni dei 150 anni dall'unità d'Italia producono inevitabilmente confusione fra quanto è comune agli italiani (da decine di secoli) e quanto è Stato (da appena un secolo e mezzo). Ma qui si fonda la distinzione fra identità culturale e patriottismo, quest'ultimo sempre un po' fascisteggiante.

Altro esempio di questi giorni. il patrimonio pubblico non appartiene allo Stato ma a tutti noi. Il governo in carica deve amministrarlo nell'interesse di tutti e non dilapidarlo in quello proprio, anche se politico. Ogni sua scelta di gestione deve essere giustificabile ed «imparziale». C'è quindi un dovere civile di tutti noi ad indignarci per la decisione di respingere l'election day, sperperando 300 milioni in un momento di grande crisi. La Costituzione non può consentirlo, quali che possano essere gli argomenti formalisti dietro cui troppo spesso si nasconde la cosiddetta cultura giuridica. Dobbiamo porre il governo ma anche la Corte Costituzionale e le altre magistrature di fronte al dovere di fermare questa vergogna, anch'essa figlia della confusione fra Stato e bene comune.

La solita pioggia, i soliti fiumi, le solite frane riaprono le ferite mai chiuse di un Veneto fragile e vulnerabile nel suo territorio. E ancora una volta il bollettino dell’emergenza allarma cittadini, sindaci e Protezione civile, rigettando in faccia a tutti la contabilità di una vecchia incuria che presenta il conto. Sono passati appena quattro mesi dalla disastrosa alluvione di novembre e il terreno sottratto a fatica dalla furia delle acque sembra ancora indifeso come allora.

Che cosa è stato fatto e che cosa invece ancora manca per mettere in sicurezza un’area così vasta e importante del Paese, per dare garanzie alle popolazioni, alle imprese, alle fabbriche e alle attività commerciali, e come sono stati spesi i fondi stanziati per l’alluvione, quei 300 milioni che il governo ha messo a disposizione del governatore Zaia per ingabbiare i fiumi o creare bacini di sfogo?

Non è facile ricostruire in poco tempo quello che l’incuria e la mancanza di fondi finalizzati alle opere di difesa hanno contribuito ad abbattere, ma è evidente che nel nostro Paese dai disastri ambientali non si impara mai niente. La manutenzione del territorio, la sua salvaguardia, la tutela dei paesaggi dalla cementificazione, la buona gestione dei boschi come dei parchi, sono un impegno costante nel tempo e anche un onere finanziario che non si può scaricare solo su questa o quella Regione: non bastano l’orgoglio veneto, o quello di altre popolazioni colpite dalle avversità della natura, a costruire robusti argini di autodifesa alla furia delle acque.

Sono necessari un coordinamento, una pianificazione e anche una sensibilità ambientale che purtroppo oggi latita in Italia. Senza essere ingenerosi con gli uomini che in queste ore si danno da fare per evitare danni maggiori alle persone e alle cose, nella tutela delle risorse naturali continuiamo ad essere il Paese delle toppe e dei rattoppi. Dal Veneto alla Calabria, da Vicenza, a Messina a Milano (dove ancora il Seveso fa paura), la lentezza degli interventi è direttamente proporzionale all’intensità dei fenomeni atmosferici.

E se una regione come il Veneto, considerata da Legambiente ad alto standard per gli interventi di mitigazione del rischio idrogeologico, rischia di andare sott’acqua quattro mesi dopo un’alluvione, immaginate che cosa può succedere nelle zone in cui il dissesto è alto e conclamato. Con tutto il bene che si merita, l’Italia dovrebbe imparare a tutelarsi meglio, dando all’Ambiente il peso (e anche i fondi) che si merita. Senza aspettare la (solita) prossima emergenza.

Quanto contino i beni culturali nell’universo del berlusconismo è racchiuso nello scatto di nervi con il quale il ministro Sando Bondi ai primi di dicembre 2010 si è rivolto agli oltre settecento firmatari di una petizione a Giorgio Napolitano promossa d molte associazioni (da Italia Nostra a quella che raccoglie funzionari e tecnici del ministero, dalla Bianchi Bandinelli all’Associazione nazionale archeologi, dall’Associazione Silvia Dell’Orso alla rete dei comitati di Alberto Asor Rosa). Erano storici dell’arte, italiani e stranieri, direttori di musei, archeologi, archivisti, architetti, soprintendenti. Chiedevano le dimissioni del ministro, denunciando l’abbandono di Pompei, dove si era appena registrato l’ennesimo crollo, quello della Schola Armaturarum, e ricordando la tragedia dell’Aquila che sempre di più a Pompei andava e va assimilandosi. Per Bondi quell’appello «è l’espressione di un mondo che nulla ha a che fare con la vera cultura».

E, fin qui, lo sfogo del ministro, che è anche coordinatore del Pdl, fedelissimo e incrollabile interprete del berlusconismo, traballante sulla sua poltrona nonostante la Camera abbia respinto la mozione di sfiducia presentata contro di lui, si può incasellare nel generico disprezzo verso le critiche e le iniziative connesse all’esercizio dell’intelletto. Poi Bondi rivendica per sé il vero merito di un ministro dei Beni e delle attività culturali, un merito che i settecento denigratori ai suoi occhi disconoscono: aver evitato le “lungaggini”, le chiama così, dei ritrovamenti archeologici che impedivano la costruzione delle metropolitane di Roma e Napoli, e di aver spedito un commissario incaricato di snellire le procedure. Parlava come se lui fosse il ministro dello Sviluppo economico o delle Infrastrutture e non quello, appunto, dei Beni e delle attività culturali. Nell’orizzonte politico del berlusconismo i beni culturali e il paesaggio non hanno alcun rilievo.

Sono vissuti come una condizione limitativa, dalla quale si riscattano se non sono troppo ingombranti e se assumono un prezzo, cioè se possono diventare merce, oggetto da mettere a reddito o sulla quale fare affari. Oppure da vendere, come tentò di fare Giulio Tremonti nel 2002 inventando la Patrimonio Spa, un fondo nel quale collocare il patrimonio dello Stato, compreso quello storico‐artistico, in vista di una sua alienazione (il progetto poi si accartocciò miseramente su se stesso). Presi in sé, in questa logica che deforma e caricaturizza anche il liberismo più estremo, i beni cultuali appartengono a quella che appare come una nebulosa concettuale di ardita definizione. Seguono la stessa sorte che tocca ai beni comuni. Sono soggetti a una sublimazione retorica, estetizzante, sono opere‐icona, elemento di decorazione d’ambiente per un summit internazionale e per una fiera campionaria, componente d’arredo per un video‐messaggio, ma non avendo definita collocazione proprietaria, sono derubricati a terra di nessuno.

Giacimenti e miniere

L’antecedente di questa concezione mercantile si può rintracciare, come altri pezzi del mosaico berlusconiano, a metà degli anni Ottanta, quando il ministro del Lavoro del governo di Bettino Craxi, Gianni De Michelis, coniò la formula dei “giacimenti culturali”. Perché lui e non il suo collega dei Beni culturali? Perché i beni culturali non erano l’obiettivo di un’iniziativa politica, ma lo strumento per politiche d’altro genere (un po’ di lavori affidati a imprese informatiche per fumosi progetti di catalogazione). Di un bene culturale non interessavano conservazione e fruizione, ma la possibile – parola del ministro – “convenienza economica”. Anche quella vicenda si chiuse senza sostanziosi effetti. Ma da allora l’espressione tratta dal glossario industriale, “giacimento”, e i concetti che con sé trascinava hanno navigato sopra e sotto il pelo delle maree, bordeggiato a destra e a sinistra, e più volte sono riemersi. Un paio d’anni fa, a fine 2008, sono stati diversamente e più esplicitamente formulati: i musei italiani, i siti archeologici, le collezioni di monete, le quadrerie, i paesaggi e poi le biblioteche, gli archivi e quel diffuso reticolo di palazzi e di centri storici, di monumenti insigni, ma anche di piazze, di ricercati allineamenti stradali, di proporzioni architettoniche, di portali, di ringhiere in ferro battuto… ‐ tutta questa roba messa insieme, intrecciata da cordoni storicamente e culturalmente leggibili, scenario fisico e non solo in cui si sono formate identità collettive, sarebbe «una miniera di petrolio a costo zero».

Che attende di esser messa a fruttare. Parola di Mario Resca, cavaliere del lavoro, manager poliedrico –dal Casinò di Campione a McDonald’s Italia ‐ consigliere d’amministrazione Mondadori, Eni, Finbieticola e di altre aziende, amico personale di Silvio Berlusconi, appena nominato direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio a 164 mila euro l’anno, più un cospicuo staff e un palazzetto in affitto a Roma, in via dell’Umiltà, al costo di 400 mila euro l’anno (prima ospitava la Direzione per i Beni librari).

Il pensiero di Mario Resca

La designazione di Resca e le mansioni affidategli (molto inferiori rispetto a quelle che gli si voleva attribuire in un primo tempo: direttore dei musei, responsabile dei prestiti, organizzatore di mostre…) hanno assunto un aspetto simbolico dell’ideologia berlusconiana in materia. I beni culturali hanno molto più rilievo se soggetti a valorizzazione. Valorizzazione è parola equivoca, può voler dire molto o nulla, ma nel vocabolario di Resca è la parola che schiude l’edificio polveroso dei beni culturali (“polveroso” è aggettivo adoperato da Renato Brunetta a proposito dei musei), spalancando le porte all’aria fresca del mercato, del pubblico di visitatori, di privati smaniosi di investire in cultura, delle tecnologie informatiche e di riproduzione virtuale.

Non lui direttamente, ma una sua competente sostenitrice, l’onorevole Gabriella Carlucci, di fronte alle gravi perplessità avanzate da molti e al voto contrario unanimemente espresso dal Consiglio superiore dei Beni ulturali, allora presieduto da Salvatore Settis, poi sostituito da Sandro Bondi con Andrea Carandini, disse che le opposizioni volevano impedire «che in Italia la ricchezza artistica si trasform[asse] da costo insostenibile in risorsa virtuosa». Che un museo o un sito archeologico fossero, in atto o in potenza, “risorsa virtuosa” è un’idea che ha circolato a lungo, non solo nei varietà televisivi, a dispetto delle evidenti smentite provenienti da tutto il mondo, dove non c’è struttura che si finanzi con i proventi dei biglietti o che addirittura produca reddito.

Non il Louvre, tantomeno i grandi musei americani ‐ lo ha ricordato più volte Settis ‐ che sono tutti privati, ma non sono affatto orientati al profitto. Al contrario. Sono nutriti da cospicue donazioni a fondo perduto e da lasciti che godono di agevolazioni fiscali e che sono investiti sui mecati finanziari. Molti di essi sono gratuiti. Ma non occorre varcare l’oceano per rendersi conto di come funzioni il privato americano che si interessi alla cultura, bensì prendere un treno e scendere a Ercolano. Nella città vesuviana da molti anni “investe” il magnate David Packard, uno dei giganti dell’industria e della finanza internazionale, ma lo fa senza aspettarsi un soldo di utili e neanche ritorni di immagine. Finora ha speso 16 milioni. Ma non per restauri e per piazzare dovunque il suo logo, bensì, per esempio, per realizzare grondaie in tutti gli edifici e per recuperare il sistema fognario antico, che ora agevola lo smaltimento delle acque. Evitando che le infiltrazioni facciano sbriciolare i muri. Da questi equivoci politici e culturali discendono una serie di conseguenze. La prima è di ordine quantitativo. Nel carnet delle immagini da piazzare sui mercati del turismo internazionale – altro perno del pensiero di Resca e di Bondi –, nei book da esibire alle fiere delle agenzie di viaggio non ci può entrare tutto il patrimonio culturale.

Non si può vendere quel sistema che dai musei e dalle pale d’altare rimanda ai territori circostanti, ai paesaggi che li nutrono di immagini, e che identifica uno dei maggiori pregi del patrimonio italiano. Occorre concentrarsi su poche, riconoscibili icone, quelle celebrate dalle classifiche internazionali: Pompei, il Colosseo, Brera, il Polo museale veneziano e quello fiorentino…, tutti luoghi che producono incassi elevati e che altri incassi possono garantire. Emblema di questo atteggiamento, che seleziona una cultura di serie A e lascia in malora il resto, è la costosa campagna pubblicitaria che raffigurava, afferrati da gru o da elicotteri, il Colosseo, il David di Michelangelo e il Cenacolo di Leonardo. «Se non lo visitate ve lo portiamo via», recitava la didascalia sotto ognuna di queste scene un po’ macabre, ma incuranti del fatto che quei tre capolavori sono oberati di visitatori, e che per essi sono in vigore e si invocano forme sempre più rigorose di contingentamento del pubblico.

Per ottenere questo potenziamento dell’offerta – e qui veniamo alla conseguenza numero due – le soprintendenze non vengono considerate il soggetto più adeguato. Troppo poco attrezzate nel marketing culturale, poco disposte a immaginare il bene amministrato come fonte di reddito e di sfruttamento spettacolare. Le soprintendenze vengono lasciate deperire. La tutela perde la centralità. Al suo posto subentrano la promozione, gli effetti scenici, l’uso e l’abuso di palazzi e di musei per convention e matrimoni, l’esibizione del numero di visitatori, una serie di atteggiamenti che ben si coniugano con la frenetica industria delle mostre, dell’evento, fino alla perversione dell’one painting show, l’esibizione di un solo quadro, e che alimentano una mitologia del privato che farebbe meglio del pubblico.

La terza conseguenza è il ricorso ai commissariamenti, di cui Resca è responsabile solo in parte, che mirano a due obiettivi e che in qualche modo “privatizzano” la gestione del patrimonio: esautorare ulteriormente il sistema della tutela praticato dalle soprintendenze e nominare persone che garantiscono affidabilià e che adottano criteri discrezionali per consulenze e appalti, aggirando tutti i passaggi burocratici – passaggi che rallentano anche i pochi interventi che si possono compiere ordinariamente, senza commissari, e che si potrebbero snellire, ridurre, ma che invece sono usati come alibi per agire sempre in deroga. È il modello della Protezione civile.

Le soprintendenze al collasso

Il sistema pubblico della tutela è in condizioni di grande sofferenza. E qualcuno è indotto a presagire il suo smantellamento. Un po’ per consunzione. Un po’ perché vissuto come un insopportabile ricettacolo di vincoli, di impacci, di asfissianti consuetudini intellettuali. È un sistema che ha fatto scuola in Europa ed è servito come modello in altri paesi. Ma ora arranca nel fronteggiare una lottizzazione edilizia, la costruzione di una linea ad alta velocità o anche nell’esercitare quel minimo di manutenzione che serve a frenare il naturale degrado. Il sistema è fondato, dalla legge Rosadi del 1909 in poi, sulle soprintendenze, alle quali è affidata la responsabilità di vigilare su beni archeologici, storico‐artistici, architettonici, demo‐etno‐antropologici e sul paesaggio. In esse è stato selezionato per anni un personale che alle competenze tecnico‐scientifiche (in storia dell’arte e dell’architettura, in restauro, ma anche in ingegneria statica o in urbanistica) ha affiancato quelle amministrative e giuridiche e quelle per meglio valorizzare il patrimonio (al fine, come si legge nel Codice approvato nel 2004, del miglior «sviluppo della cultura», cioè in linea con l’articolo 9 della Costituzione).

E in taluni casi si sono toccate punte d’eccellenza, sebbene da più parti si sollecitino correttivi. La Lega ha scritto nel suo programma elettorale di voler smantellare le soprintendenze, viste come un’odiosa diramazione centralistica, e questo disegno viaggia parallelamente alla trasformazione in senso federalista dello Stato, che potrebbe portare la tutela sotto il controllo di Regioni e di Comuni (lo si è tentato per Roma), di organi politici, dunque. Ma non esiste un progetto organico in materia. Se ci fosse, si sente dire, sarebbe possibile discutere e non è detto che tutte le ragioni stiano dalla parte dell’attuale sistema. In assenza però di un chiaro disegno di riforma, contro Gian Carlo Caselli, Ilda Boccassini e altri magistrati (prende 60 mila euro l’anno); la signora Marinella Martella (30 mila euro), una ricca carriera a Publitalia, segretaria di Berlusconi dal 2001 al 2010; Francesca Ghedini, pagata a rimborso spese, archeologa, sorella di Niccolò, l’avvocato di Berlusconi.

Ma che cosa accade in altri paesi? Le differenze sono abissali, in una logica inversamente proporzionale al patrimonio custodito. Nel 2010 il bilancio italiano è fermo a 1,710 miliardi, contro i 4,150 della Svezia, i 3,250 della Finlandia, i 2,900 della Francia. In Italia si taglia, ma in Germania aumentano gli stanziamenti del 3,5 per cento e negli Stati Uniti il pacchetto di provvedimenti anti‐crisi varato da Barack Obama prevede non tantissimo, ma pur sempre 50 milioni di dollari in più. E le cifre del disastro si rincorrono. Per la sola attività di tutela nel 2005 erano disponibili 335 milioni, nel 2009 sono stati 179. Meno tutela significa più degrado, più abbandono. Musei che non aprono il pomeriggio, che tengono chiuse le sale perché senza custodi. Restauri che si rimandano. Biblioteche che disdicono abbonamenti, che riducono il prestito.

Archivi storici che chiudono. Il 90 per cento delle spese sostenute dalle soprintendenze archeologiche sono per la sola manutenzione: pulizie, impianti di condizionamento, recinzioni che si rompono, bagni che perdono. Una cifra irrisoria è destinata per i restauri, e ancora meno si può spendere per nuovi scavi, che ormai si avviano solo se ci sono soldi di fondazioni bancarie, di università oppure se si fanno buchi per una metropolitana, per l’alta velocità e persino per un parcheggio interrato. Molte soprintendenze attingono ai fondi speciali per ripianare debiti o pagare bollette. Il personale addetto alla tutela è invecchiato (età media 52 anni e dieci mesi), il turn‐over è fermo e quando entro il 2014 andranno in pensione le leve entrate negli anni Settanta e Ottanta non ci sarà chi potrà sostituirle. Gli archeologi sono 350, gli storici dell’arte 490 e gli architetti 500, ma ne servirebbero – soprattutto archeologi e architetti – fra 1000 e 1500. I concorsi sono impantanati: tormentatissimo l’ultimo per soprintendenti archeologi, che ha visto chiudere solo di recente il suo travagliato iter fra Tar e Consiglio di Stato.

A ciò si è aggiunta la norma varata dal ministro Renato Brunetta che anticipa la pensione per i dirigenti del pubblico impiego con 40 anni di contributi. E così, dopo l'uscita di scena di alcuni grandi nomi della tutela, da Adriano La Regina a Pietro Giovanni Guzzo, mandati via allo scadere dei 65 anni, nonostante fosse possibile trattenerli in servizio, è stata falcidiata un'intera generazione di soprintendenti, più o meno sui sessant'anni. Via molti direttori regionali. E sorprendenti alcune sostituzioni: in Sardegna al posto dell'architetto Elio Garzillo, che si è battuto contro l'assalto cementizio alla necropoli fenicia di Tuvixeddu, arriva Assunta Lorrai, che non è né architetto né storico dell'arte né archeologa e proviene dai ranghi amministrativi. In pensione anche Stefano De Caro, direttore generale dei Beni archeologici. A questo si aggiunga il carosello vorticoso dei trasferimenti, degli incarichi ad interim che sfibrerebbe qualunque amministrazione. E che va avanti da anni. A Lucca in cinque anni sono cambiati cinque soprintendenti.

Dopo il pensionamento di Guzzo, nell’agosto 2009, a Pompei si sono alternati quattro soprintendenti e uno di loro, Giuseppe Proietti, aveva l’interim di Roma, amministrava cioè le due aree archeologiche più grandi del paese. Francesco Scoppola si è alternato in sei diversi incarichi dalla fine del 2004 al 2009: da direttore nelle Marche, dove è stato allontanato per aver osato mettere un vincolo su tutto il pregiato promontorio del Cònero, è passato al Molise e ora è in Umbria. Molti trasferimenti sono decisi per punire funzionari troppo rigorosi. Alcuni vengono attuati in maniera improvvida, scatenando ricorsi amministrativi, sospensive del Tar e reintegri. E qui si tocca uno dei tasti dolenti: quello della tutela di territorio e paesaggio incalzati dall'incessante procedere del cemento (3 milioni e mezzo di appartamenti costruiti negli ultimi dieci anni).

Gli insediamenti invadono i litorali e le colline e spesso intaccano zone vincolate, per le quali è necessario il parere della soprintendenza che, con il nuovo Codice dei Beni culturali, avrebbe l'impegnativo compito di partecipare con le Regioni alla pianificazione del territorio: ma, come ha documentato un rapporto curato da Vezio De Lucia e Maria Pia Guermandi per conto di Italia Nostra, l’iniziativa è sostanzialmente fallita. In queste condizioni, si sente dire dappertutto, è un compito improbo per soprintendenti sul cui capo pende la spada di Damocle di un trasferimento o che sono minacciati da richieste risarcitorie contenere la forza esercitata dall'industria del mattone. Ormai si sono molto ridotti gli annullamenti di autorizzazioni a costruire in zone vincolate, a dispetto di chi continua a raffigurare le soprintendenze come delle conventicole di "signor no". Inoltre una circolare ha ammesso il ricorso gerarchico ai vertici del ministero contro un soprintendente solo nel caso in cui questi apponga un vincolo. Non per il contrario. Come a dire: chi tutela rischia, chi ama il quieto vivere no.

Arrivano i commissari

Ha cominciato Pompei. Sono seguite l’area archeologica romana e la Domus Aurea, il cantiere fiorentino per i Grandi Uffizi, quello milanese di Brera. Quindi L’Aquila. Ordinanze e procedure diverse. Un punto in comune sostanziale: mettere fuori gioco o ai margini la struttura delle soprintendenze e affidare poteri eccezionali a un commissario, talvolta proveniente dai ranghi dei Beni culturali, più frequentemente da altre amministrazioni, in primo luogo la Protezione civile. Il circuito si chiude. Anche la gestione del patrimonio culturale diventa l’occasione per sperimentare forme di governo strette nelle mani di pochissme persone, sostanzialmente legibus solutae, in grado di agire in deroga a tutte le procedure, di affidare appalti e consulenze senza gare, scansando i controlli e operando in una zona al riparo da ogni forma di verifica.

E quando queste arrivano ‐ come nel caso della Corte dei Conti per Pompei ‐ l’atto d’accusa è esplicito, ma giunge in ritardo. In altre occasioni interviene la Procura della Repubblica. L’arrivo dei commissari è spesso motivato da ragioni di emergenza o addirittura evocando imminenti calamità naturali. È accaduto per Pompei, nell’estate del 2008, quando in seguito a un articolo sul Corriere della Sera, il ministro Bondi nominò commissario Renato Profili, una carriera nella polizia e poi prefetto di Napoli. Dopo Profili, è stato designato un commissario che agli occhi del ministro aveva un curriculum più affidabile: Marcello Fiori, laurea in Lettere, vice capo di gabinetto al Comune di Roma con Rutelli, esperienza con il Giubileo, poi alla Protezione civile (L’Aquila, G8). Fiori ha lavorato con una soprintendente, Maria Rosaria Salvatore, che a Pompei si vedeva pochissimo.

Ha avuto mano libera. A fine mandato (luglio 2010) si sono tirate le somme. Degli 80 milioni che vantava di aver sbloccato, la metà erano stati già impegnati dal precedente commissario Profili in iniziative al 95 per cento di restauro e messa in sicuezza avviati dal soprintendente Guzzo e incagliati nelle procedure di gara. Per valorizzazione e promozione si erano spesi appena 400 mila euro. Restavano gli altri 40 milioni, che da Fiori sono stati impegnati in percentuali completamente rovesciate: solo 10 per la messa in sicurezza e 18 per valorizzazione. Fra le spese, viene molto contestata (oltre quella per il restauro del Teatro, dove si è lavorato persino con le ruspe, che sono bandite in un luogo dove si deve scavare con massima cautela) quella di 8 milioni prevista da un contratto con Wind per un impianto di videosorveglianza fatto di circa cento pali alti quattro metri che sfigurano l’area archeologica e che sono il doppione di un altro impianto, perfettamente funzionante e sistemato invece sulla cinta esterna.

Il contratto prevede anche il Wi‐fi e un nuovo portale web, pure questo doppione di uno già esistente. Ora Fiori è balzato su una poltrona di dirigente generale del ministero. Compenso: 166 mila euro l’anno. Nel febbraio del 2009 si decise il commissariamento di tutta l’area archeologica romana e di Ostia. Il motivo? Il pericolo di crolli sul colle del Palatino. Venne incaricato Guido Bertolaso, sollevando le proteste di tutti gli archeologi della Soprintendenza romana, i quali sostenevano che sarebbe stato più logico dotare di soldi e mezzi il loro ufficio per fare manutenzione e restauro, anziché convocare la Protezione civile, che con l’archeologia non aveva alcunché da spartire. Vice di Bertolaso, nel progetto originario, era l’assessore all’urbanistica del Comune di Roma, un soggetto istituzionale che con la soprintendenza deve avere un rapporto dialettico, senza confusioni di ruoli (poi Bertolaso non assunse l’impegno perché chiamato a L’Aquila).

A Brera, per snellire le procedure dei lavori di ristrutturazione, venne impegnato Resca. Dagli Uffizi, invece, si apre uno squarcio sulle vicende torbide messe a nudo dall’inchiesta della Procura fiorentina sulla “cricca” e sui rapporti con la Protezione civile. A rendere più veloce il cantiere fu chiamata Elisabetta Fabbri, architetta, molto legata a Salvo Nastasi. Nastasi è il potentissimo capo di gabinetto di Bondi, eminenza grigia del ministero, anzi il vero ministro, secondo alcuni, per la cui ascesa ai vertici del Collegio romano si è infilato un piccolo comma in un decreto legge per i rifiuti (194 mila euro il suo stipendio).

La Fabbri è stata rimossa da Bondi dopo che la magistratura fiorentina ha avviato l’inchiesta che nel febbraio del 2010 ha portato all’arresto di Angelo Balducci e di altri esponenti della “cricca”, fra i quali Mauro Della Giovampaola, soggetto attuatore proprio dei lavori per gli Uffizi. Direttore di quei lavori era stato nominato Riccardo Miccichè, ingegnere di Agrigento, che, si legge nel curriculum, aveva competenze «nella preparazione dei terreni per erbe e piante officinali», oltre che «nell’attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure». Miccichè era stato anche collaboratore di cantiere, alla Maddalena, di Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso. Nastasi, trentasei anni, molto legato a Gianni Letta, è un professionista dei commissariamenti. Oltre a esserne il dominus al ministero è stato anche lui più volte commissario: per la ricostruzione del Petruzzelli di Bari, al Maggio Fiorentino e al San Carlo di Napoli.

Il suo nome compare in molte intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura fiorentina, dalle quali risulta una grande familiarità con Balducci e gli altri della “cricca”. Un commissariamento sui generis è quello praticato a L’Aquila dopo il terremoto. Tutto il patrimonio culturale è stato affidato a Luciano Marchetti, ingegnere, dirigente in pensione del ministero al quale, però, non doveva per nulla rispondere, essendo il suo unico interlocutore la Protezione civile, e dunque Bertolaso. Le conseguenze? Le soprintendenze territoriali e la direzione regionale sono state messe fuori gioco, creando una quantità di conflitti. Ma esemplare è anche la vicenda di Giuseppe Basile, ex direttore dell’Istituto superiore per la conservazione e il restauro, che ha lavorato dopo i terremoti nel Belice, in Friuli e in Umbria, alla Basilica di San Francesco di Assisi. È uno dei nostri migliori restauratori. Ha offerto le sue competenze a Marchetti, ma non ha mai neanche ricevuto una risposta.

Nel frattempo le macerie di chiese e palazzi aquilani giacevano indistinte ‐ fregi, cornici, capitelli mischiati a polvere e calcinacci ‐ sotto la pioggia e la neve, preda di chiunque. In una posizione marginale è stato messo lo stesso Istituto fondato da Cesare Brandi nel 1939, che per altro nel marzo del 2010 è stato sfrattato dalla storica sede di piazza san Francesco di Paola a Roma, perché il ministero non è riuscito a trovare i soldi per adeguare il canone di affitto. Come quella di Basile, a nulla sono valse, sempre a L’Aquila, le offerte di collaborazione da parte degli storici dell’arte Valentino Pace e Fabio Redi, dei docenti di restauro Giovanni Carbonara e Marina Righetti e persino di Ferdinando Bologna, aquilano, anche lui storico dell’arte, maestro di generazioni di studiosi, fra gli allievi più prossimi di Roberto Longhi.

Per il dopo terremoto si è puntato su altro. Un po’ come sul progetto Case: invece che su una pianificazione corretta, che prevedeva di riparare subito gli edifici danneggiati, ma non inagibili, e di avviare il recupero del centro storico, si sono piazzati 19 insediamenti, volgarmente detti new town, che ospitano appena un terzo dei senzatetto aquilani, lasciando a tutt’oggi decine di migliaia di persone in sistemazioni precarie. Il patrimonio storico‐artistico della città è stato a stento messo in sicurezza, di progetti di restauro non si ha notizia, la sbandierata “lista di nozze” (un elenco di monumenti affidati alle cure dei partecipanti al G8) è stata molto più che un fiasco.

Ora il centro storico, di cui le chiese e i palazzi sono parte, ma che è integralmente un bene culturale, è chiuso, transennato, vigilato dalle camionette dell’esercito, stretto dai tubi dei puntellamenti e abitato da fantasmi (l’unico che ci vive è Raffaele Colapietra, ottant’anni, storico, professore universitario, che ha rifiutato l’ordine di sgombero). L’Aquila come Pompei, hanno detto anche i membri del Consiglio superiore dei Beni culturali. L’Aquila come prefigurazione di una città che non è più una città. E di cui il patrimonio culturale è elemento essenziale perché la città torni a essere il luogo in cui si forma e si riconosce una comunità

I due colpi, il sisma e le onde di tsunami, che in rapida successione si sono abbattuti venerdì scorso sul Giappone sono stati senza dubbio alcuno fuori dall’ordinario. Il terremoto di magnitudo 9,0 è il più forte mai registrato nell’arcipelago nipponico e il quinto per potenza mai registrato al mondo. Lo tsunami, con onde alte fino a 10 metri, è avvenuto sottocosta e in pochi attimi ha raggiunto e devastato un territorio pianeggiante.

Le perdite umane sono state alte: si parla di migliaia di morti. Ma gli esperti non hanno dubbi: in qualsiasi altra parte del mondo, con analoga intensità abitativa, sarebbero stati ben maggiori. Basta ricordare che proprio lo scorso anno ad Haiti un terremoto di magnitudo 7,0 – di due ordini di grandezza meno potente – e senza tsunami ha causato quasi 300.000 morti. Pur nella tragedia, il Giappone ha dimostrato che per capacità tecnologica e cultura della prevenzione non ha pari al mondo.

Tuttavia oggi il mondo è col fiato sospeso a causa di un effetto secondario del terremoto e dello tsunami: la crisi del sistema nucleare. Non il collasso, si badi bene. Perché nessun dei 55 reattori che costituiscono il sistema nucleare giapponese è collassato e tutti quelli a rischio sono stati spenti automaticamente non appena è stata registrata la scossa sismica. Ma una crisi del sistema, quella sì c’è stata. Il sistema ausiliario di refrigerazione non ha funzionato bene, soprattutto (ma non solo) in alcuni reattori della centrale di Fukushima. Provocando una crisi seria: perché già oggi, mentre la situazione è ancora in evoluzione e minaccia di peggiorare, quello ai reattori giapponesi è considerato il più grave incidente della storia del nucleare civile dopo Chernobil. L’ISPRA, l’Ente pubblico di ricerca italiano che si occupa di ambiente e anche di sicurezza nucleare, classifica l’incidente di Fukushima al livello 5 della scala INES (International Nuclear Event Scale), che va da 1 a 7. Le autorità nucleari francesi lo classificano, addirittura, al livello 6.

Le notizie sono ancora frammentarie. Non sappiamo se c’è stata, in qualcuno dei reattori, fusione del nocciolo. Non sappiamo se i giapponesi riusciranno a refrigerare i reattori surriscaldati. Sappiamo però che ci sono state diverse esplosioni, di natura chimica, che hanno provocato emissioni, più o meno controllate, di nubi definite nocive dal governo giapponese.

Non conosciamo né la quantità né la natura della radiazione liberata nell’ambiente. Sappiamo però che il governo di Tokio ha deciso di evacuare l’area intorno alla centrale per un raggio prima di 10, poi di 20, poi di 30 chilometri.

Non conosciamo ancora le cause precise della crisi del sistema ausiliario di refrigerazioni in così tanti reattori. E solo una conoscenza dettagliata potrà trasformarsi in una spiegazione significativa. Tuttavia una cosa è certa: il sistema nucleare giapponese – o, almeno, una parte di esso – non è stato progettato e realizzato per sopportare i due terribili colpi: il terremoto di altissima intensità e l’arrivo in tempi rapidissimi delle terribili onde di tsunami.

Bisogna capire se l’imprevisto è risultato tale perché imprevedibile. Oppure per carenze di progettazione. Il nodo non è da poco. Perché, in ogni caso, propone domande cui non è semplice rispondere.

Poniamo che il doppio colpo imprevisto in Giappone fosse imprevedibile. Questo non ci deve portare a rivedere profondamente i fondamenti teorici su cui costruiamo i nostri sistemi di prevenzione del rischio? Se, al contrario, il grave incidente è stato tale per colpa oggettiva dei progettisti (era prevedibile e non è stato previsto) nel paese a elevatissimo sviluppo tecnologico e a elevatissima cultura della prevenzione, non è il caso di rivedere in profondità il modo in cui mettiamo in pratica i fondamenti teorici della prevenzione del rischio?

Rispondere a queste domande viene prima della domanda che oggi campeggia sulla prima pagine e persino sulle agende delle cancellerie di : nucleare sì o nucleare no?

Nel 2011 scade un decennio caratterizzato da due eventi, di gravità molto diversa ma entrambi luttuosi: l’attacco alle Torri gemelle e la proclamazione alla lavagna di Vespa (senza apposito plastico, tuttavia) della legge obiettivo per le Grandi opere.

Vediamo, per il secondo evento, qualche aspetto di metodo: di metodo anzi non si potrebbe parlare, trattandosi di un elenco eterogeneo di opere, di cui non è stata spiegata al volgo plaudente (e pagante) l’origine, se non come parto della benevolenza del principe. Di solito la pubblicità televisiva di un prodotto, ne illustra le qualità, in questo caso per esempio si sarebbe potuto parlare dei ridotti costi per lo Stato e/o dei rilevanti traffici serviti. Di conti, invece, neanche l’ombra.

Un aspetto emerge subito: sono quasi tutte opere per il traffico di lunga distanza (minoritario), mentre paiono assenti le città dove non solo c’è la maggior parte del traffico, ma anche i maggiori problemi ambientali e la maggior congestione che genera costi elevati a famiglie e imprese. Sconcerto iniziale nell’opposizione, che aveva tentato negli anni precedenti di fare piani di trasporto, che parlassero anche di servizi, gestione, di priorità ecc. Dopo una breve perplessità, il centrosinistra, tornato al governo, decideva che inaugurare Grandi opere, se l’inauguratore era quello giusto, andava tutto sommato bene. Il populismo costruttivo/cementizio diveniva “bipartisan”. Ma la faccia andava pur salvata. Allora si cancelli subito il Ponte sullo Stretto!

Opera costosissima e inutile al Paese (si tratta di meno del 10 per cento del costo complessivo delle Grandi opere). Sul resto silenzio, anzi, si passa “all’inseguimento”, non solo nel merito ma anche nel metodo, quindi nessuna analisi quantitativa, “terza” e comparativa, ovvia premessa per un dibattito democratico e trasparente sulle priorità di spesa pubblica. Sui soldi poi si continua a tollerare inaccettabili stime ottimistiche dei costi pubblici, proprio mentre, nel silenzio “bipartisan”, i costi dell’Alta velocità triplicano, diventando inconfrontabili con quelli dei paesi vicini. Ma certo non tutti piangono per questa esplosione (costruttori, enti locali, ambientalisti).

Passando a qualche sviluppo specifico e illuminante del dibattito comunque emerso, un tema forte riguarda la “priorità delle Grandi opere per il Sud, per lo sviluppo”. Tralasciando le molte analisi su quanto le grandi opere civili giovino, al Sud, soprattutto alla malavita organizzata, emerge ancora una volta l’assenza di numeri sia per le opere insensate del Nord che per quelle del Sud.

Meno vivace, perché tutti d’accordo, il dibattito sul tema “più ferrovie che strade, perché le ferrovie servono all’ambiente” . Peccato che l’argomento sia falso: le ferrovie in Italia soffrono di carenza di domanda, non di offerta (tre quarti della rete è sottoutilizzata). La stessa Alta velocità ha sottratto un po’ di traffico all’aereo, certo, ma i numeri sono modesti, pari ad alcuni treni Av al giorno su una capacità aggiuntiva di 300 treni/ giorno. Inoltre le emissioni di CO2 da cantiere, per costruire l’opera, sembrano essere dello stesso ordine di grandezza del CO2 risparmiato col cambio modale indotto.

Ultimo slogan“bipartisan”: i privati devono contribuire agli investimenti. Peccato che quelli ferroviari siano pozzi di denari (al più si ripagano i costi di esercizio) dove nessun privato metterebbe un euro, se non fosse garantito che alla fine lo stato paghi tutto. Il contrario per le autostrade, in buona misura pagate dagli utenti che mostrano di gradirle di più anche dei migliori servizi ferroviari. Tale distinzione non sembra però “politically correct”, per cui si parla di infrastrutture in genere e anzi ci si lamenta (verdi) dei troppi investimenti per le strade.

Alcune “perle” finali: dall’anno scorso, si possono finanziare “lotti costruttivi”, non più solo “lotti funzionali”. Si possono cioè aprire cantieri (sotto elezioni) anche se non ci saranno mai i soldi per finire le opere. Una grande priorità è stata data a opere ferroviarie inutili, come la Torino-Lione e la Napoli-Bari (basta guardare i dati di traffico ufficiali). Manca solo il tunnel Trapani-Tunisi, proposto da Cuffaro, che tuttavia non può al momento occuparsene.

Una nota finale di ottimismo: la scarsità di denari ha indotto una qualche maggior ragionevolezza. L’autostrada tirrenica, opera inutile e lesiva per l’ambiente nel progetto originario, sarà realizzata in asse con la statale Aurelia con costi molto ridotti, e la nuova linea ferroviaria Venezia-Trieste sarà costruita con interventi successivi, in funzione della crescita del traffico, oggi scarso. Speriamo che i soldi continuino a mancare, ma forse occorrerebbe sperare che cresca la razionalità e il senso civico dei decisori. “Ogni denaro pubblico sprecato è sottratto a qualche servizio sociale essenziale” è il mantra della Banca Mondiale.

Una versione estesa di questo articolo sarà pubblicata sul numero di marzo de Il giornale dell’Architettura

Una città «fuori controllo» dal punto di vista urbanistico, dove «la lotta agli abusi è rallentata moltissimo» e dove «l´ultima demolizione è datata aprile 2010». Un «far west edilizio» in attesa del prossimo condono. «E tutto questo - dice un amareggiato Massimo Miglio - Roma non se lo merita». Geometra, 61 anni, dal 1998 al 2008 ha guidato l´ufficio antiabusivismo del Comune di Roma, conquistandosi i soprannomi di "sceriffo" e "cagnaccio". È riuscito a demolire oltre un milione di metri cubi di abusi, compresi quelli dei vip, da Ferdinando Adornato a Luciano Gaucci a Lory del Santo. È stato oggetto di minacce, per due volte gli è stata bruciata la macchina. Oggi, allontanato prima dal Campidoglio con l´arrivo di Gianni Alemanno poi, dopo la vittoria di Renata Polverini, da un medesimo ufficio creato in Regione, non si occupa più, se non per passione, di abusi edilizi e condoni.

La procura ha aperto un´inchiesta sulla cosiddetta "Condonopoli". Ma qual è la situazione a Roma della lotta all´abusivismo?

«La macchina anti-abusi ha rallentato moltissimo. L´ufficio istituito presso il Campidoglio era diventato un punto di riferimento e supporto per i 19 municipi. Avevamo stretto convenzioni con gli enti parco, lavoravamo insieme alla polizia municipale e a stretto contatto con la procura. Al pool di magistrati che si occupa di reati urbanistici presentammo anche un sistema all´avanguardia per il controllo territoriale fotoaereo».

Che fine ha fatto quel sistema?

«È scomparso. Il Comune non dispone più di uno strumento fondamentale che consente di rilevare qualsiasi variazione, anche prospettica che viene realizzata sul territorio».

E le demolizioni?

«Mi risulta che l´ultima sia stata effettuata nell´aprile del 2010, quando ero a capo dell´ufficio antiabusivismo della Regione».

La situazione a Roma e nel Lazio qual è?

«La relazione pubblicata alla fine del 2010 dalla Regione ci dice che, solo nella capitale, ci sono 6 abusi edilizi al giorno. Per quel che mi è dato sapere, in tutto il Lazio esistono 10 milioni di metri cubi di costruzioni abusive. In questi anni ne abbiamo abbattuti un milione, ovunque: nei parchi, compreso quello dell´Appia antica, e nei centri storici. Con i carabinieri di Frascati abbiamo demolito quattro edifici che appartenevano al clan dei Casamonica».

Ora è tutto fermo. Si è chiesto perché?

«Non so cosa abbia impedito le demolizioni in quest´ultimo anno. So solo che in precedenza c´era un interesse molto forte verso questo tema. Sono stato esautorato da ogni incarico. Sicuramente sono state scelte legittime da parte dalle nuove amministrazioni. Posso solo dire che, finché mi è stata data la possibilità di tutelare il territorio, l´ho fatto col massimo impegno».

Il suo allontanamento è stato oggetto di polemiche.

«Mi hanno cacciato da un giorno all´altro. Prima dal Comune, con un fax. Avrei preferito un contatto diretto, qualche motivazione più chiara. Ma è una decisione che non posso e non voglio sindacare».

E dalla Regione?

«Lì nemmeno un fax. Mi hanno semplicemente disattivato il badge per entrare in ufficio».

Lei è stato anche minacciato durante la sua attività.

«È stato un periodo triste. Mi hanno incendiato due auto ma non era il modo per dissuadermi dall´occuparmi di queste questioni».

Ritiene di aver toccato interessi delicati?

«Durante il mio lavoro, chi commetteva un abuso era regolarmente perseguito. Brutalmente: non abbiamo guardato in faccia nessuno».

Il Fatto Quotidiano

Nucleare, Mario Tozzi: “La politica farebbe meglio a stare zitta”

di Lorenzo Galeazzi e FedericoMello

“Sono degli irresponsabili. Parlassero di meno e studiassero di più”. Mario Tozzi, maître à penser e mezzobusto televisivo dell’ambientalismo italiano, non usa mezzi termini nel commentare le reazioni di casa nostra al terremoto giapponese e alla minaccia di disastro nucleare. Le dichiarazioni dei vari Fabrizio Cicchitto e Pierferdinando Casini, a Tozzi non sono proprio piaciute. E’ un fiume in piena: “C’è da rimanere allibiti. Questi politici fanno finta di esser dei teorici di fisica nucleare. Non hanno nemmeno la decenza di usare la cautela che in situazioni come questa dovrebbe essere d’obbligo”.

Non parlate a Tozzi poi dell’editoriale di oggi del Messaggero a firma di Oscar Giannino. Un articolo che ha scalato la classifica delle dichiarazioni al buio che poi sono state clamorosamente smentite. Il giornalista scriveva che quanto accaduto in Giappone era “la prova del nove” della sicurezza dell’energia prodotta dall’atomo. “Che figura miserrima quella di Giannino – attacca Tozzi – Ma a una cosa è servita: a smascherare l’abitudine italiana di salire in cattedra e di parlare di cose che non si conoscono”.

Di fronte alla minaccia di un disastro nucleare, la parola d’ordine della lobby nucleare nostrana è minimizzare. “Anche l’incubo che sta vivendo il Giappone in queste ore con il danneggiamento di un reattore – continua il giornalista – in Italia viene declinato a mero strumento di propaganda politica e ideologica. Difendono l’atomo solo perché non possono tornare indietro”.

Secondo il conduttore di “Gaia, il pianeta che vive” (che tornerà in onda su Rai Tre a partire dal 31 marzo) le bugie più macroscopiche della lobby pro-atomo sono due: la sicurezza e l’economicità di questa fonte di energia. Che la tragedia giapponese le sta drammaticamente mettendo a nudo.

“Le centrali nucleari giapponesi – spiega Tozzi – sono state costruite per sopportare un terremoto di 8,5 gradi della scala Richter. Poi cos’è successo? E’ arrivato un sisma di 8,9 e le strutture non hanno retto”. Le centrali italiane saranno costruite per resistere a delle scosse di circa 7,1 gradi, ma, come sostiene Tozzi, “chi ci assicura che un giorno non arriverà un sisma più potente?”. Nessuno, appunto. Perché i terremoti sono fenomeni che non si possono prevedere. Inoltre il disastro giapponese è avvenuto nel paese tecnologicamente più avanzato del mondo. A Tokio infatti è radicata una seria cultura del rischio che è frutto di una profonda conoscenza di questi fenomeni. “Con quale faccia di tolla i vari Cicchitto ci vengono a vendere l’idea che in Italia, in caso di terremoto, le cose possano andare meglio che in Giappone? Il terremoto dell’Aquila se si fosse verificato in Giappone non avrebbe provocato neanche la caduta di un cornicione. Da noi ha causato 300 morti. Chi può credere alle farneticazioni sulla sicurezza del nucleare italiano?”, chiede sarcasticamente Tozzi. E’ vero che l’incidente nucleare è più raro, ma è altrettanto vero che è mille volte più pericoloso. E il caso giapponese, secondo Tozzi, è da manuale: “Se a una centrale gli si rompe il sistema di raffreddamento diventa esattamente come un’enorme bomba atomica. Forse è questa la prova del nove di cui parla Giannino”.

E poi c’è la questione della presunta economicità dell’energia prodotta dall’atomo. “I vari politici e presunti esperti – argomenta Tozzi – si riempono la bocca dicendo che il kilowattora prodotto dall’atomo è più economico di quello prodotto dalle altre fonti. Ma non è vero. Noi sapremo quanto costa realmente solo quando avremo reso inattivo il primo chilogrammo di scorie radioattive prodotto dalle centrali. E cioè fra 30mila anni”. Secondo il giornalista, la lobby che vuole il ritorno del nucleare propaganda la sua convenienza economica senza tenere conto dell’esternalità, e cioè dei costi aggiuntivi che ne fanno lievitare il prezzo. Che vanno dallo smaltimento delle scorie (problema che nessun paese al mondo ha ancora risolto definitivamente) ai costi sociali ed economici di un eventuale incidente. “Sono soldi che i nuclearisti non conteggiano – dice Tozzi – perché sono costi che ricadranno sui cittadini e sulle generazioni future”.

Il 12 giugno è in programma un referendum che, fra le altre cose, chiede l’abrogazione del ritorno all’atomo dell’Italia. Il rimando a quanto successe a Chernobyl nel 1987, alle grandi mobilitazioni antinucleariste fino al referendum che sancì l’abbandono dell’energia nucleare è quasi d’obbligo. Ma a Mario Tozzi il paragone non convince: “Veniamo da 25 anni di addormentamento delle coscienze. Oggi abbiamo gente come Chicco Testa e Umberto Veronesi che fanno i finti esperti e spot ingannevoli che traviano l’opinione pubblica”. Insomma, il legame fra l’incidente che scosse le coscienze e il voto popolare che funzionò nel 1987, oggi potrebbe fallire. Ma il 12 giugno non si voterà solo per dire no all’atomo. I cittadini saranno chiamati anche ad esprimersi contro la privatizzazione delle risorse idriche e contro la legge sul legittimo impedimento. Temi che, affianco al no all’atomo, potrebbero convincere i cittadini ad andare alle urne. E consentire alla tornata referendaria di raggiungere il quorum.

il manifesto

L'incredibile Kikko

di Alessandro Robecchi

Credere a quello che dice Kikko Testa era, fino a ieri, una missione disperata. Da oggi è una missione impossibile. Venerdì sera, mentre il reattore nucleare di Fukushima preoccupava il mondo, Kikko era in tivù a dire: tutto sotto controllo. Ieri mattina, mentre le agenzie giapponesi parlavano di un'esplosione nella centrale nucleare, con distruzione della gabbia protettiva del reattore e rilevazioni di cesio radioattivo, sul sito del Forum nucleare (presidente Kikko Testa) il titolo era questo: «La centrale di Fukushima è sotto controllo», corretto da un timido aggiornamento solo a metà giornata.

Fortuna che Kikko è giovane e giovanile. Fosse più anziano avrebbe potuto tranquillizzare le popolazioni del Vajont (state sereni, due gocce d'acqua). Ma a quest'uomo così ottimista, uno che sul Titanic avrebbe chiesto all'orchestra di continuare a suonare e ordinato a gran voce altro champagne, dobbiamo dei ringraziamenti. Grazie a Kikko sappiamo esattamente cosa succederebbe qui se avessimo le centrali nucleari. Non sapremmo niente.

In un paese in cui un semplice sacchetto della monnezza pare un problema insormontabile, le scorie nucleari sarebbero presentate come caramelle inoffensive (cosa peraltro già fatta nello spot ingannevole del Forum nucleare, sospeso dal giurì per manifesta paraculaggine).

In caso di incidente, Kikko ci direbbe che va tutto bene, tutto è ok, sotto controllo, senza rischi, beviamoci sopra e non pensiamoci più. Con una semplice apparizione in tivù, Kikko ci ha spiegato perfettamente come la menzogna sui rischi sia connaturata agli interessi dell'industria nucleare, come un buon affare valga più della vita e della salute della gente anche per più generazioni. A quest'uomo elegante e pacato dovremmo dire grazie per la volonterosa pervicacia con cui ci aiuta a non credergli, nemmeno per un minuto.

È la prima volta che vediamo una manifestazione di sinistra inondata di bandiere tricolori. E' la prima volta che una grande manifestazione di popolo è aperta da un coro che intona le note di "Va pensiero" e si chiude su quelle dell'inno di Mameli. E' la prima volta che si scende in piazza indossando Costituzione per difenderla da chi la considera l'ultimo ostacolo alla governamentalità, come direbbe Giorgio Agamben, a una forma di governo autoritario e oligarchico. Sono segnali evidenti, vistosi, simbolici di un sentimento nazionale che arretra (o avanza) a difesa dei caratteri fondativi della convivenza civile, attaccata e ferita dal ventennio berlusconiano, smarrita dalle sinistre.

Laica, pluralista, lavorista, ugualitaria, solidarista, internazionalista, pacifista, la nostra Costituzione ieri aveva il volto della gente, era appuntata su giacche e cappelli, prima attrice nelle strade delle cento città che hanno manifestato per la democrazia e per la scuola pubblica, contro l'eutanasia della politica, in un paese dove il parlamento è un mercato e la scuola un'azienda.

Se i partiti sono afasiche, deboli macchine autoreferenziali, in Italia infiltrate da mafia e corruzione, è alla Costituzione che oggi viene chiesto di essere la bussola che orienta il futuro, così come le era toccato nel dopoguerra, quando come diceva Calamandrei (citato nelle piazze e sui cartelli dei cortei) rivolgendosi ai suoi studenti «dietro ogni articolo di questa Costituzione, voi dovete vedere giovani come voi che hanno dato la vita perché libertà e giustizia potessero essere scritte su questa carta». E i ragazzi delle scuole erano in piazza insieme a molti vecchi, come in un confortante passaggio del testimone per le future battaglie.

La scuola pubblica è diventata elemento centrale di una vera democrazia costituzionale, nel paese che piega il diritto allo studio per tutti in un privilegio per pochi. Studenti e professori sono stati il connotato più forte di questo 12 marzo italiano. Perché se è nell'ignoranza che cresce la sottomissione è nella conoscenza che può vivere la ribellione.

E' ormai in campo un'opposizione larga e consapevole che esce di casa e si mette in marcia, ciascuno e ciascuna con la rabbia e la voglia di reagire perché, come era scritto su un cartello, «per un popolo civile non c'è niente di peggio che farsi governare senza resistenza». E quei fazzoletti tricolori dei partigiani annodati al collo di molti, come quella enorme bandiera della pace che tallonava il bandierone tricolore, ne testimoniavano la coscienza.

La piazza continua. A Potenza sabato prossimo con don Ciotti contro le mafie, a Roma il 26 per l'acqua pubblica, fino allo sciopero generale della Cgil il 6 di maggio. Arriveremo alle elezioni amministrative con un pieno di mobilitazioni, con una poderosa domanda di cambiamento in vista la difficilissima sfida referendaria di giugno. È tutto un paese che cammina insieme, spinto dalla ragione e dalla passione. Certo non sarà la retorica nazionalpopolare della canzone di Roberto Vecchioni, cantata dalla piazza del Popolo a Roma, la colonna sonora di una stagione di rivolta pacifica e civile, ma è altrettanto chiaro che sono in piazza bisogni, sentimenti, persone.

L'acquedotto più grande d'Europa è una società per azioni a totale capitale pubblico ma assoggettata al diritto privato. Una legge ne chiede il passaggio al diritto pubblico e la sottrazione definitiva al mercato. Per questo, e per sostenere i referendum, i comitati suonano la carica Oggi a Bari movimenti per l'acqua pubblica manifestano per chiedere l'approvazione della legge sulla ripubblicizzazione dell'Aqp

Oltre un milione e quattrocentomila le donne e uomini che hanno sottoscritto i referendum perché l'acqua venga sottratta dalla logiche di mercato e dal rischio della privatizzazione. Un movimento partito dal basso che oggi, a Bari (ore 9.30, Piazza Umberto) segnerà la prima tappa di un percorso di mobilitazione popolare che il 26 marzo arriverà a Roma, per chiedere che l'acqua sia e rimanga un «bene comune». Animato dal comitato pugliese Acqua bene comune e dal Forum italiano dei movimenti per l'acqua, il movimento oggi scende in piazza non solo per affermare il sì alla ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese, per sostenere i due referendum sull'acqua bene comune e per fermare il nucleare, ma la riflessione si allarga sulla deriva liberista dei governi che in Italia e in Europa negli ultimi 15 anni hanno spinto verso la privatizzazione dei servizi pubblici, dalla sanità all'istruzione, fino ad arrivare, appunto, all'acqua.

Che oggi diventa il simbolo per eccellenza del concetto di bene condiviso. Proseguendo su un percorso già iniziato nel 2008, la sfida ultima del Comitato è portare il ddl per la ripubblicizzazione (nella versione originaria) dell'acquedotto pugliese, in Consiglio regionale prima dei referendum sull'acqua pubblica, in programma il 12 giugno prossimo. Secondo il Comitato «approvare tale disegno di legge prima dello svolgimento dei referendum, sancirebbe la volontà della Regione Puglia di rivendicare l'autonomia ad assumersi la responsabilità in tema di gestione pubblica del servizi idrico rispetto agli obblighi imposti dalla vigente legislazione». In Puglia infatti l'acquedotto è una società per azioni e, pur essendo a totale capitale pubblico (la Regione Puglia detiene il 100% delle azioni) è gestita secondo le regole del diritto privato. Il rischio reale è che parte delle azioni possa essere venduta ai privati. Rischio che si è corso il 25 febbraio 2009 - ricorda il Comitato - quando in Consiglio regionale il Pd, attraverso il suo capogruppo in Consiglio, presentò una mozione per vendere una parte delle azioni ai privati. Per fortuna tale mozione venne ritirata grazie alla forte e costante mobilitazione dei movimenti per l'acqua e, più in generale, della cittadinanza.

Il ddl in funzione anti-privatizzazione nasce nel dicembre 2009, sulla spinta e grazie alla collaborazione tra Comitato pugliese Acqua bene comune, Forum italiano dei movimenti per l'acqua e Regione Puglia. È approvato in giunta con alcune modifiche rispetto al testo licenziato dal tavolo tecnico, poi corrette, come richiesto dal Comitato, in una successiva delibera di giunta del febbraio 2009. Il testo non è stato però portato in Consiglio regionale entro la fine della legislatura.

L'attuale Giunta ha licenziato nuovamente il disegno di legge a maggio 2010, ma solo ad ottobre sono state avviate le audizioni presso le commissioni regionali competenti (II, Affari Generali e V, Ecologia, Tutela del Territorio e delle Risorse Naturali). «Nichi Vendola e l'assessore alle Opere pubbliche e Protezione Civile, Fabiano Amati - ricorda il Comitato - si impegnarono a portare il ddl in Consiglio prima della fine del mandato della giunta Vendola, cosa che però non avvenne. In campagna elettorale Vendola si impegnò a nome della sua coalizione, a trasformare il ddl in legge entro i primi 100 giorni del suo nuovo governo». Ma il ddl per ripubblicizzare l'Aqp giace ancora nelle commissioni competenti. In compenso, la mobilitazione non si è mai arrestata. Allo scadere dei 100 giorni dalla riconferma di Vendola alla guida della Regione, il Comitato provinciale Acqua bene comune di Brindisi ha inviato una lettera aperta alle commissioni consiliari competenti, ai consiglieri di maggioranza e agli assessori della giunta regionale pugliese, per ricordare l'impegno assunto in campagna elettorale chiedendo di procedere con sollecitudine alla calendarizzazione del disegno di legge sulla ripubblicizzazione dell'acquedotto pugliese. Il 28 dicembre 2010, invece, a seguito di un incontro con il Forum pugliese dei movimenti per l'acqua e del Coordinamento pugliese degli enti locali, Amati aveva dichiarato che «ci stiamo impegnando affinché la Puglia approvi un disegno di legge che possa effettivamente rendere pubblica la gestione del servizio idrico integrato, ed è per questo che nel prossimo mese di gennaio saremo in grado di portare in Consiglio regionale un testo che terrà conto anche delle indicazioni contenute nella recente sentenza della Corte costituzionale». La Corte, infatti, appena un mese prima, aveva rigettato il ricorso presentato da Puglia (la prima a presentarlo), Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Piemonte, che chiedevano l'abrogazione delle norme del decreto Ronchi relative alla privatizzazione dei servizi idrici, affermando che «le regole che concernono l'affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, ivi compreso il servizio idrico, ineriscono essenzialmente alla materia 'tutela della concorrenza', di competenza esclusiva statale». Un grave precedente, quello della Corte, che mette in relazione la «rilevanza economica» di un bene pubblico che, per definizione, dovrebbe essere scevro da logiche di profitto.

Nel mese di gennaio 2011 sono stati presentati diversi emendamenti al ddl originario e la preoccupazione dei movimenti era dettata dal fatto che «il provvedimento si stesse profilando con differenze sostanziali rispetto all'idea di partenza». Gli emendamenti proposti prevedono, tra l'altro, la possibilità che l'Aqp gestisca attività in stretta conseguenza della gestione del servizio idrico integrato attraverso la costituzione di società miste cioè da società di diritto privato con capitale privato. Ma l'acqua è considerata solo «la punta dell'iceberg della privatizzazione dei beni comuni». Il Comitato vuole avviare un percorso per la riappropriazione sociale di tutti i beni comuni e la realizzazione di un modello di gestione trasparente, pubblico e partecipativo attraverso politiche autorganizzate e dal basso. Per dire che un'altra Italia è possibile. Qui ed ora.

ROMA— L’allarme per la paura di una eventuale fuga radioattiva dalla centrale nucleare di Fukushima, in seguito al terremoto in Giappone, riapre in Italia la polemica sul nucleare. «Occorre riflettere sull'apocalisse che è avvenuta in Giappone— ha commentato Leoluca Orlando dell’Italia dei Valori —. Quanto sta accadendo è la testimonianza del pericolo del nucleare, energia ormai obsoleta» . Antonio Di Pietro ha aggiunto: «Diciamo no alle 13 centrali nucleari che il governo Berlusconi vuole aprire. Un errore tagliare sulle rinnovabili per tornare al nucleare» .

L’Italia dei Valori è tra i promotori del referendum contro la riapertura delle centrali nucleari, fortemente criticate anche dai Verdi di Angelo Bonelli, da Legambiente e Wwf e dal governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia. Per Bonelli «l'emergenza atomica giapponese deve far riflettere sulle parole di chi, in Italia, con troppa superficialità, dice che il nucleare è sicuro» .

Ma Cnr, Enea e Forum nucleare italiano assicurano invece che non ci sarà l’effetto Chernobyl. «Le centrali nucleari sono sicure. Chi è contrario è fermo a una vecchia mentalità ideologica che si basa su presupposti sbagliati» , spiega l’oncologo Umberto Veronesi da poco nominato direttore dell’Agenzia per la sicurezza nucleare. «Le fughe radioattive mi sentirei di escluderle. Nella peggiore delle ipotesi si tratta di materiale contaminato da radiazioni ma non ci sarà il cosiddetto "effetto Chernobyl"» ha spiegato Valerio Rossi Albertini del Cnr.

«Ci fa piacere che il Cnr escluda un effetto Chernobyl— ha replicato il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza —. Ma questo non ci tranquillizza, anche il rilascio di piccoli contaminanti mette a repentaglio la salute umana. Ci auguriamo fortemente che il governo riveda il suo masochistico programma nucleare» . Paolo Clemente, responsabile del laboratorio rischi naturali dell’Enea, spiega che nelle centrali nucleari «i sistemi di sicurezza si spengono automaticamente. E così è accaduto in Giappone. Solo in uno, questo meccanismo non ha funzionato a regola d'arte» . Ma secondo Alfiero Grandi, presidente del comitato «Sì alle rinnovabili No al nucleare» , anche un solo caso è pericoloso.

Postilla

Nel dibattito sull’energia appare poco la questione di fondo: davvero serve produrre tutta l’energia che dicono? E per che cosa? Tanti hanno dimostrato il consumo crescente di energia serve solo a mantenere in piedi un sistema economico folle, perverso e disumano, basato sulla produzione di merci sempre più inutili, che devono essere prodotte in grande quantità solo per poter far camminare la macchina della produzione, ma che hanno così poca utilità per lo sviluppo dell’uomo (quello vero) che quelli che comandano hanno fatto diventare stupidi tutti a furia di imbonimenti pubblicitari. Gli studiosi seri lo dimostrano da almeno mezzo secolo, eppure chi controlla l’informazione (e costruisce e alimenta l’ideologia dominante) è riuscito a cancellare questa verità dal mondo delle idee che hanno diritto di circolazione.

Nella retorica generalmente barocca di Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia e leader di "Sinistra, Ecologia, Libertà", in questo modo "si spegne il sole per favorire il nucleare". Ovvero, "il governo uccide il fotovoltaico". E verosimilmente non è facile coniare una sintesi più efficace, per riassumere e denunciare gli effetti perversi del decreto legislativo contro le energie rinnovabili.

Con il provvedimento predisposto dal ministro Romani, non si rischia di bloccare soltanto i finanziamenti e quindi gli investimenti a favore di un pilastro portante della "green economy", quanto l´intero sviluppo economico dell´Italia a cui il suo stesso dicastero è intitolato, compromettendo la credibilità istituzionale e l´affidabilità del nostro Paese come dimostra anche la protesta dell´Associazione delle banche internazionali. Tanto più nel momento in cui le tensioni planetarie, a cominciare dalle forti turbolenze nella Libia di Gheddafi, spingono al rialzo il prezzo del petrolio e ripropongono il problema della nostra dipendenza energetica dall´estero.

Il decreto contro il sole e contro il vento non fa che confermare, dunque, i sospetti e le preoccupazioni del fronte ambientalista che fin dall´inizio aveva individuato nel rilancio del programma nucleare il pericolo di uno stop alle rinnovabili. Un´inversione di tendenza che in realtà rivela una sorta di scambio occulto fra scelte e strategie alternative, interessi e capitoli di spesa. E naturalmente anche fra le rispettive lobby, quella dei pannelli fotovoltaici o delle pale eoliche e quella ben più potente e aggressiva dell´atomo.

Alla base di questa opzione, non c´è infatti un´economia di mercato con le classiche regole della domanda e dell´offerta. C´è piuttosto un´economia di Stato, destinata in entrambi i casi a essere sostenuta o assistita – almeno per lungo tempo – dagli incentivi e dai finanziamenti statali. Ma c´è soprattutto – o meglio, dovrebbe esserci – l´interesse pubblico, l´interesse generale, l´interesse comune dei cittadini.

Quali sono, precisamente, questi interessi? Quello economico e quello ambientale. Lo sviluppo e l´indipendenza energetica. La sicurezza e la salute. E ciascuno di noi è libero di stabilire la gerarchia che preferisce, tenendo conto dei costi e dei benefici, dei vantaggi e dei rischi.

Quello che non si può fare è propalare notizie false e tendenziose; lanciare allarmi o peggio ancora ricatti mediatici sui costi dell´energia verde; oppure "raccontare frottole", come contesta apertamente il senatore Francesco Ferrante (Pd) al presidente del Consiglio, a proposito del peso delle rinnovabili sulle bollette. A parte l´Iva che nel 2010 ha gravato da sola per un miliardo di euro, come se si trattasse dell´acquisto di un bene o servizio, il responsabile delle Politiche per l´energia del Partito democratico ricorda polemicamente che gli utenti italiani continuano a pagare sull´elettricità 300 milioni di euro all´anno per il nucleare che non esiste più nel nostro Paese dal 1987; oltre 1,2 miliardi per il famigerato "CIP 6" che, invece di essere destinato effettivamente a incentivare le fonti alternative, s´è risolto in un regalo ai petrolieri; e più di 355 milioni in agevolazioni alle Ferrovie dello Stato.

Al contrario poi di quanto tenta di accreditare la propaganda governativa, l´atomo non assicura affatto l´indipendenza energetica: per il semplice motivo che per produrre il nucleare occorre l´uranio e l´Italia non possiede notoriamente giacimenti di tale combustibile. Resta infine, come una maledizione biblica, la questione tuttora irrisolta dello stoccaggio e smaltimento delle scorie radioattive.

La verità è che a tutt´oggi l´energia nucleare è ancora troppo cara e troppo rischiosa. Per paradosso, considerando gli investimenti necessari e appunto i finanziamenti statali, all´Italia costerebbe di più produrla in proprio che continuare a importarla dalla Francia. E ragionevolmente non c´è neppure da temere che questa decida all´improvviso d´interrompere le forniture: si tratta infatti di una produzione a ciclo continuo che non può essere ridotta o sospesa ed essendo in esubero, rispetto al fabbisogno nazionale francese, non troverebbe altri sbocchi sul mercato.

A tagliare definitivamente la testa al toro, il fattore tempo. Per costruire una centrale nucleare, occorrono almeno 10-15 anni. L´Italia non potrebbe permettersi di aspettare tanto, anche per non rischiare di essere condannata a pagare le pesanti sanzioni previste per chi, secondo il Protocollo di Kyoto, non rispetta il cosiddetto "pacchetto clima" varato dall´Unione europea e già approvato anche dal nostro Parlamento, con la formula "20-20-20": vale a dire, 20% in meno di emissione di gas-serra, 20% di risparmio energetico e 20% in più di fonti rinnovabili, entro il 2020. Meno di dieci anni. E per rispettare quella scadenza, bisogna cominciare a lavorare subito.

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