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Capisco sempre meno quel che accade nel nostro paese. La domanda è: a che punto è la dissoluzione del sistema democratico in Italia? La risposta è decisiva anche per lo svolgimento successivo del discorso. Riformulo più circostanziatamente la domanda: quel che sta accadendo è frutto di una lotta politica «normale», nel rispetto sostanziale delle regole, anche se con qualche effetto perverso, e tale dunque da poter dare luogo, nel momento a ciò delegato, ad un mutamento della maggioranza parlamentare e dunque del governo?

Oppure si tratta di una crisi strutturale del sistema, uno snaturamento radicale delle regole in nome della cosiddetta «sovranità popolare», la fine della separazione dei poteri, la mortificazione di ogni forma di «pubblico» (scuola, giustizia, forze armate, forze dell'ordine, apparati dello stato, ecc.), e in ultima analisi la creazione di un nuovo sistema populistico-autoritario, dal quale non sarà più possibile (o difficilissimo, ai limiti e oltre i confini della guerra civile) uscire?

Io propendo per la seconda ipotesi (sarei davvero lieto, anche a tutela della mia turbata tranquillità interiore, se qualcuno dei molti autorevoli commentatori abituati da anni a pietiner sur place, mi persuadesse, - ma con seri argomenti - del contrario). Trovo perciò sempre più insensato, e per molti versi disdicevole, che ci si indigni e ci si adiri per i semplici «vaff...» lanciati da un Ministro al Presidente della Camera, quando è evidente che si tratta soltanto delle ovvie e necessarie increspature superficiali, al massimo i segnali premonitori, del mare d'immondizia sottostante, che, invece d'essere aggredito ed eliminato, continua come a Napoli a dilagare.

Se le cose invece stanno come dico io, ne scaturisce di conseguenza una seconda domanda: quand'è che un sistema democratico, preoccupato della propria sopravvivenza, reagisce per mettere fine al gioco che lo distrugge, - o autodistrugge? Di esempi eloquenti in questo senso la storia, purtroppo, ce ne ha accumulati parecchi.

Chi avrebbe avuto qualcosa da dire sul piano storico e politico se Vittorio Emanuele III, nell'autunno del 1922, avesse schierato l'Armata a impedire la marcia su Roma delle milizie fasciste; o se Hinderburg nel gennaio 1933 avesse continuato ostinatamente a negare, come aveva fatto in precedenza, il cancellierato a Adolf Hitler, chiedendo alla Reichswehr di far rispettare la sua decisione?

C'è sempre un momento nella storia delle democrazie in cui esse collassano più per propria debolezza che per la forza altrui, anche se, ovviamente, la forza altrui serve soprattutto a svelare le debolezze della democrazia e a renderle irrimediabili (la collusione di Vittorio Emanuele, la stanchezza premortuaria di Hinderburg).

Le democrazie, se collassano, non collassano sempre per le stesse ragioni e con i medesimi modi. Il tempo, poi, ne inventa sempre di nuove, e l'Italia, come si sa e come si torna oggi a vedere, è fervida incubatrice di tali mortifere esperienze. Oggi in Italia accade di nuovo perché un gruppo affaristico-delinquenziale ha preso il potere (si pensi a cosa ha significato non affrontare il «conflitto di interessi» quando si poteva!) e può contare oggi su di una maggioranza parlamentare corrotta al punto che sarebbe disposta a votare che gli asini volano se il Capo glielo chiedesse. I mezzi del Capo sono in ogni caso di tali dimensioni da allargare ogni giorno l'area della corruzione, al centro come in periferia: l'anormalità della situazione è tale che rebus sic stantibus, i margini del consenso alla lobby affaristico-delinquenziale all'interno delle istituzioni parlamentari, invece di diminuire, come sarebbe lecito aspettarsi, aumentano.

E' stata fatta la prova di arrestare il degrado democratico per la via parlamentare, e si è visto che è fallita (aumentando anche con questa esperienza vertiginosamente i rischi del degrado).

La situazione, dunque, è più complessa e difficile, anche se apparentemente meno tragica: si potrebbe dire che oggi la democrazia in Italia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori.

Se le cose stanno così, la domanda è: cosa si fa in un caso del genere, in cui la democrazia si annulla da sè invece che per una brutale spinta esterna? Di sicuro l'alternativa che si presenta è: o si lascia che le cose vadano per il loro verso onde garantire il rispetto formale delle regole democratiche (per es., l'esistenza di una maggioranza parlamentare tetragona a ogni dubbio e disponibile ad ogni vergogna e ogni malaffare); oppure si preferisce incidere il bubbone, nel rispetto dei valori democratici superiori (ripeto: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri, la difesa e la tutela del «pubblico» in tutte le sue forme, la prospettiva, che deve restare sempre presente, dell'alternanza di governo), chiudendo di forza questa fase esattamente allo scopo di aprirne subito dopo un'altra tutta diversa.

Io non avrei dubbi: è arrivato in Italia quel momento fatale in cui, se non si arresta il processo e si torna indietro, non resta che correre senza più rimedi né ostacoli verso il precipizio. Come?

Dico subito che mi sembrerebbe incongrua una prova di forza dal basso, per la quale non esistono le condizioni, o, ammesso che esistano, porterebbero a esiti catastrofici. Certo, la pressione della parte sana del paese è una fattore indispensabile del processo, ma, come gli ultimi mesi hanno abbondantemente dimostrato, non sufficiente.

Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale «stato d'emergenza», si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'Italia alla sua più profonda vocazione democratica, facendo approdare il paese ad una grande, seria, onesta e, soprattutto, alla pari consultazione elettorale.

Insomma: la democrazia si salva, anche forzandone le regole. Le ultime occasioni per evitare che la storia si ripeta stanno rapidamente sfumando. Se non saranno colte, la storia si ripeterà. E se si ripeterà, non ci resterà che dolercene. Ma in questo genere di cose, ci se ne può dolere, solo quando ormai è diventato inutile farlo. Dio non voglia che, quando fra due o tre anni lo sapremo con definitiva certezza (insomma: l'Italia del '24, la Germania del febbraio '33), non ci resti che dolercene.

Dopo il secolo dei totalitarismi, un nuovo mostro tirannico l’individualismo senza freni che distrugge la società.



Perché un potere sia legittimo, non basta sapere com’è stato conquistato (ad esempio con libere elezioni o un colpo di Stato), occorre ancora vedere in che modo viene esercitato. Fra poco saranno tre secoli dacché Montesquieu ha formulato una regola per guidare il nostro giudizio: «Ogni potere senza limiti non può essere legittimo». Le esperienze totalitarie del XX secolo ci hanno resi particolarmente sensibili ai misfatti di un potere statale illimitato, in grado di controllore ogni atto di ogni cittadino.

In Europa questi regimi appartengono al passato ma, nei Paesi democratici, restiamo sensibili alle interferenze del governo negli affari giudiziari o nella vita dei media, perché queste hanno come effetto la soppressione di ogni limite posto al suo potere. I ripetuti attacchi del Presidente francese o del premier italiano ai magistrati e ai giornalisti sono una dimostrazione di questo pericolo. Tuttavia lo Stato non è l’unico a detenere poteri all’interno di una società. All’inizio di questo XXI secolo, in Occidente, lo Stato ha perso buona parte del suo prestigio, mentre è diventato una minaccia l’ampio potere che detengono alcuni individui, o gruppi di individui. Eppure questa minaccia passa inosservata, perché questo potere si orna di un bel nome, di cui tutti si fanno forti: libertà. La libertà individuale è un valore in crescita, i difensori del bene comune oggi sembrano arcaici.

Come si sia prodotto questo capovolgimento, lo si vede bene nei Paesi ex comunisti dell’Europa dell’Est. L’interesse collettivo oggi è sospetto: per nascondere le sue turpitudini, il regime precedente l’aveva invocato così spesso che più nessuno lo prende sul serio, lo si considera una maschera ipocrita. Se il solo motore del comportamento è in ogni caso la ricerca del profitto e la sete di potere, se la lotta senza pietà e la sopravvivenza del più adatto sono le dure leggi dell’esistenza, tanto vale smetterla di fingere e accettare apertamente la legge della giungla. Questa rassegnazione spiega perché gli ex burocrati comunisti abbiano saputo rivestire, con una facilità sconcertante, gli abiti nuovi dell’ultraliberismo.

A migliaia di chilometri di lì, negli Stati Uniti, in un contesto storico completamente diverso, si è sviluppato da poco il movimento del Tea Party, il cui programma inneggia alla libertà illimitata degli individui e rifiuta qualunque controllo del governo: esige di ridurre drasticamente le tasse e qualunque altra forma di redistribuzione delle ricchezze. Le sole spese comuni accettate riguardano l’esercito e la polizia, cioè ancora la sicurezza degli individui. Chiunque si opponga a questa visione del mondo viene trattato da criptocomunista! Il paradosso è che questa visione si rifà alla religione cristiana, mentre questa, in accordo con le altre grandi tradizioni spirituali, raccomanda di curarsi dei deboli e dei miserabili.

Si passa, in questi casi, da un estremo all’altro, dal tutto-Stato totalitario al tutto-individuo ultraliberale, da un regime liberticida a un altro, di spirito «sociocida», per così dire. Ora il principio democratico vuole che tutti i poteri siano limitati: non solo quelli degli Stati, ma anche quelli degli individui, anche quando rivestono i vecchi abiti della libertà. La libertà delle galline di attaccare la volpe è uno scherzo, perché non ne hanno la capacità: la libertà della volpe è pericolosa perché è la più forte. Attraverso le leggi e le norme che stabilisce, il popolo sovrano ha tutto il diritto di restringere le libertà. Questa limitazione non tocca allo stesso modo tutta la popolazione: idealmente, limita coloro che hanno già molto potere e protegge chi ne ha molto poco.

Il potere economico è il primo dei poteri nelle mani degli individui. Lo scopo di un’impresa è generare profitti, senza i quali è condannata a sparire. Ma al di fuori dei loro interessi particolari, gli abitanti di un Paese hanno anche interessi comuni, ai quali le imprese non contribuiscono spontaneamente. Tocca allo Stato liberare le risorse necessarie a prendersi cura dell’esercito e della polizia, dell’educazione e della salute, dell’apparato giudiziario e delle infrastrutture. O della protezione della natura: la famosa mano invisibile attribuita ad Adam Smith non serve a molto, in questi casi. Lo si è visto con la marea nera nel Golfo del Messico, nella primavera 2010: lasciate senza controllo, le compagnie petrolifere cercano i materiali da costruzione poco costosi e dunque poco affidabili. Di fronte allo smisurato potere economico di individui o di gruppi di individui, il potere politico si rivela spesso troppo debole.

La libertà di espressione a volte viene presentata come il fondamento della democrazia, e per questa ragione non deve conoscere freni. Ma si può dire che è indipendente dal potere di cui dispone? Non basta avere il diritto di esprimersi, occorre anche averne la possibilità; se non c’è, questa «libertà» non è che una parola vuota. Tutte le informazioni, tutte le opinioni non vengono accettate con la stessa facilità nei grandi media. Ora la libera espressione dei potenti può avere conseguenze funeste per i senza-voce: viviamo in uno stesso mondo. Se si ha la libertà di dire che tutti gli arabi sono degli islamisti non assimilabili, essi non hanno più quella di trovare lavoro e neppure di camminare per strada senza essere controllati.

La parola pubblica, un potere tra gli altri, a volte deve essere limitata. Dove trovare il criterio che permetta di distinguere le limitazioni buone da quelle cattive? Soprattutto nel rapporto di potere tra chi parla e colui di cui si parla. Non si ha lo stesso merito se si combattono i potenti del momento o si indica al risentimento popolare un capro espiatorio. Un organo di stampa è infinitamente più debole dello Stato, non c’è dunque ragione di limitare la sua libertà di espressione quando lo critica, purché la metta al servizio della libertà.

Quando il sito Mediapart rivela una collusione tra poteri economici e responsabili politici, il suo gesto non ha nulla di «fascista», qualunque cosa dicano quelli che sono presi di mira. Le «fughe di notizie» di WikiLeaks nulla hanno di totalitario: i regimi comunisti rendevano trasparente la vita dei deboli, non quella dello Stato. In compenso, un organo di stampa è più potente di un individuo e il «linciaggio mediatico» è un abuso di potere.

I difensori della liberà d’espressione illimitata ignorano la distinzione tra potenti e impotenti, il che permette loro di coprirsi da soli di alloro. Il redattore del quotidiano danese Jyllands-Posten, che nel 2005 aveva pubblicato le caricature di Maometto, cinque anni dopo torna sulla questione e modestamente si paragona agli eretici del Medioevo bruciati sul rogo, a Voltaire nemico della Chiesa onnipotente o ai dissidenti oppressi dalla polizia sovietica. Decisamente la figura della vittima esercita oggi un’attrazione irresistibile! Ciò facendo, il giornalista dimentica che quei coraggiosi praticanti della libertà di espressione si battevano contro i detentori del potere spirituale e temporale del loro tempo, non contro una minoranza discriminata. Porre limiti alla libertà di espressione non significa sostenere la censura, ma fare appello alla responsabilità dei padroni dei media. La tirannia degli individui è certamente meno sanguinosa di quella degli Stati; eppure anch’essa è un ostacolo a una vita comune soddisfacente. Nulla ci obbliga a rinchiuderci nella scelta tra «tutto-Stato» e «tutto-individuo»: abbiamo bisogno di difenderli entrambi, e che ciascuno limiti gli abusi dell’altro.

[Traduzione di Marina Verna]

Era difficile credere che l’Italia potesse tornare davvero al nucleare. Ora, dopo Fukushima, decisioni come la "pausa di riflessione" di un anno suonano irrisorie. Non è del solo nucleare che si tratta, ma di un intero modo di avere a che fare con la natura, e fra gli umani. Di un’intera preistoria, gloriosa e rovinosa. I colpi che subiamo senza saperli prevedere, e tanto meno prevenire, hanno riportato all’ordine del giorno la questione dell’eterogenesi dei fini, cioè della probabilità che i risultati delle nostre azioni vadano a finire lontano dagli scopi che ci eravamo proposti. Siccome l’eterogenesi dei fini è una formula difficile, ora si dice cigno nero. (I cigni neri esistono davvero - in Patagonia hanno nero il collo e rosso attorno agli occhi, bellissimi, e tutti neri in Australia). Probabilmente, oltre che rassegnarci al fatto che i frutti dell’albero che scuotiamo cadono fuori dal cesto, dobbiamo rimettere in causa gli stessi scopi che abbiamo dato per scontati lungo qualche migliaio d’anni. Abbiamo bisogno di una conversione ecologica, che è altra cosa da una riconversione produttiva: come il passaggio da una vita da cacciatori a una da tessitrici. Torniamo a Fukushima e al suo antefatto, Hiroshima. L’anno scorso morì, a 93 anni, l’ingegnere Tsutomu Yamaguchi. Tutto il mondo ne parlò, aveva fatto un memorabile discorso alle Nazioni Unite, ed era l’unica persona ufficialmente riconosciuta come superstite a due bombe atomiche. Yamaguchi era in trasferta a Hiroshima il 6 agosto 1945, fu ferito e ustionato, rientrò a Nagasaki in tempo per la seconda bomba, il 9 agosto. Ebbe l’impressione che il fungo atomico l’avesse inseguito. Le vittime giapponesi sopravvissute a quel primo esperimento atomico (i morti furono 240 mila subito, altri 270 mila per gli effetti delle radiazioni) si vergognarono a parlarne, o non vollero, più ancora di quanto sia successo ai superstiti di Auschwitz. Yamaguchi ne tacque fino al 2005, quando il suo secondo figlio, anche lui sopravvissuto a Nagasaki, morì di cancro.

Il Giappone, solo destinatario, finora, di un bombardamento atomico, prese su sé la missione di porre riparo a quella catastrofe trasformando l’energia nucleare in una risorsa pacifica. È questo a rendere così definitiva la tragedia di Fukushima. La correzione di un errore immane tradotta in una replica dell’errore. Eterogenesi dei fini la più impressionante. Il fine da rimettere in causa è la fiducia senza riserve nel progetto di domare e dominare la natura, la passione per una scienza impaziente di ogni limite che non sia meramente tecnico e provvisorio. E l’abitudine cui rinunciare è la mortificazione provata di fronte alla necessità di tornare indietro, di disfare il già fatto. Di fronte al Regresso. Così per il nucleare, ma non solo per il nucleare.

Certo, il nucleare è davvero "un’altra cosa". Gli ultimi anni si vanno riempiendo di cigni neri e di emergenze, l’11 settembre e il crollo finanziario, lo tsunami giapponese e le rivolte arabe: non abbastanza da persuadere coloro che non sono disposti a cambiare strada, e anzi invitano a imboccare più risolutamente la strada di prima, che sia la divinità del mercato o la perennità dell’homo automobilista. I reattori di Fukushima si erano appena crepati che un coro esaltato proclamava l’impegno ad "andare avanti" sulla strada del nucleare. ("Avanti!", antica e nobile parola d’ordine dell’epoca del Progresso). Tra i ripensamenti, mi ha colpito la lettera di Umberto Veronesi qui, dove distingue fra l’"errore umano" di Cernobyl e Three Mile Island, e l’"incidente di strategia" di Fukushima. (Anche per Fukushima si farà presto -(si è già fatto)- a invocare l’errore umano). Veronesi sembra confidare che gli errori umani siano correggibili fino a offrire la "sicurezza". Ma l’errore non è soltanto un difetto rivedibile dell’umanità, è l’umanità stessa. Si può spingersi a dire che niente è più umano che l’errore: cioè l’agire secondo un’intenzione riflessa, e il suo scacco. Col nucleare, questa probabilità risulta in effetti catastrofici. Al mondo sono in funzione 453 centrali nucleari, e una è bastata allo scempio di Fukushima. "Ma lo tsunami è stato eccezionale": già. Un errore della natura? La natura li fa, chiedete all’islandese: solo che non li premedita, né li usa per castigarci, muove la coda distrattamente. Propongo a Veronesi, che crede a quel che dice (addirittura alla ineluttabilità del nucleare, pena la fine del genere umano) di immaginare che l’errore umano sia nella decisione stessa di piegare e impiegare l’energia nucleare. Non è questione di abdicare alla scienza, al contrario: di chiederle di trovare altre strade alla convivenza umana.

Il nucleare è "altra cosa": ma insieme è, per eccesso, rivelatore di una relazione distruttiva con la terra in cui e di cui viviamo: anche ordinariamente e "pacificamente" distruttiva. Che sia così, sono in moltissimi ormai a intenderlo: ma anche a provare una sensazione di impotenza e di resa, perché ci siamo spinti assai oltre in un modo di produrre e consumare e vivere, e per la giusta diffidenza verso vecchi miti di palingenesi, e nuovi miti di "decrescita". Così, spaventati di ammettere l’emergenza universale, rincorriamo le innumerevoli emergenze particolari, come quel giocoliere del Circo di Pechino che fa girare una lunga fila di piatti sui bastoncini e corre di qua e di là a dare un altro colpettino al piatto che ciondola e sta per cadere.

C’è bisogno di cambiare, nelle persone e nelle cose. C’è un verbo riflessivo e uno transitivo: convertirsi e riconvertire. Si può scegliere di farlo, o si può essere costretti: è come scegliere di rinforzare l’argine, o aspettare che la piena l’abbia travolto. Come a Lampedusa. Ci sono persone pazienti e competenti che affrontano l’agenda dettata da premesse come queste, senza sottovalutare la portata dell’impresa, ma senza lasciarsene intimidire fino alla rassegnazione e, appunto, all’abitudine. Lo fece Alexander Langer, lo fa, con tanti altri, Guido Viale. I lettori di Repubblica ne conoscono gli interventi puntuali (e anche profetici) su alcune delle abitudini "irrinunciabili" e "irreversibili" che sembrano diventate una seconda – o terza e quarta – natura, in questa parte di mondo, e si sbrigano a diventarlo anche nelle altre: l’automobile privata, il pieno di monnezza, il trionfo della confezione e del consumo usa e getta. Si intitola appunto, un nuovo saggio appena uscito di Viale, La conversione ecologica (NdA, Rimini). Spiega che non si dà una cultura adeguata allo stato del pianeta se non nel riconoscimento di chi è venuto prima e nella disposizione a cambiare rotta e animo, combinando lungimiranza e prossimità, capacità di pensare in grande e di agire in piccolo, responsabilità e iniziativa "dal basso" e, dovunque sia possibile, impegno di reti e istituzioni. Chi lo legga, e non sia avvezzo a questo dibattito, si ritroverà dapprima diviso fra una sensazione di enormità e una di inevitabilità: "non c’è alternativa", infatti. Poi, cominciano i problemi concreti. A partire da quegli effetti della globalizzazione qui spesso e variamente trattati, cui si possono immaginare due tipi di risposte. Uno (Scalfari lo chiama dei "vasi comunicanti") prova a immaginare in quale punto possano incontrarsi le opposte tendenze, quella rapida del lavoro nei paesi "sviluppati" a degradarsi e venir meno, e quella lenta nei paesi "emergenti" a conquistarsi remunerazioni e diritti decenti. Un incontro per il quale si dovrebbe pensare all’idea "come nuova" di un’associazione Internazionale dei lavoratori – e dei cittadini. Un’altra risposta punta soprattutto alla "riterritorializzazione" di produzioni e consumi, a cominciare dall’autonomia alimentare ed energetica e dalle relazioni di prossimità, "a km zero": un modo di vita in cui le cose viaggino il meno possibile, e siano le idee, i saperi, e le persone stesse, a fare il giro di un mondo sempre più condiviso. È possibile che i due approcci, piuttosto che contrari, si mostrino complementari. Per riportare lavoro e consumo al loro luogo bisogna attenuare la convenienza parassitaria della delocalizzazione e dei viaggi intercontinentali delle merci.

Quanto al bene comune, che di un movimento vasto e mondiale è diventato la parola d’ordine più o meno ideologica, ebbe un tempestivo manifesto nell’acquaforte di Goya dai "Disastri della guerra", con l’ecclesiastico vampiro che legifera "contro il bene comune". Così distante da un altro frate, che chiamava l’acqua sorella, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta, et non l’avrebbe mai privatizzata.

Qualche breve richiamo alle vicende urbanistiche milanesi del passato per chiarire in quale contesto si inserisce il nuovo PGT.

Il nuovo PGT sostituisce il PRG adottato nel 1976 e approvato nel 1980, che a sua volta sostituiva quello del 1953, modificato nel corso degli anni da numerose varianti e violazioni. Si trattava di un piano allineato, sia pure tardivamente con i principi riformisti degli anni 70: le aree urbane intercluse ancora libere destinate a verde e a servizi, nuove espansioni molto limitate, e addirittura un eccesso tardo industrialista: confermate in blocco tutte le aree industriali, le grandi e persino le piccole e addirittura le piccolissime. Il grimaldello delle osservazioni accolte eliminerà questa civetteria con una normetta che consente la trasformazione terziaria delle aree industriali. Erga omnes e casualmente, senza riferimenti alle prospettive del singolo impianto produttivo o allo specifico contesto urbanistico. Il processo di trasformazione delle aree industriali si avvia dunque, con buona pace del piano tardo operaista, nel più casuale ordine sparso.

Il PRG del 1980 vive quattro anni.

Nel 1984 Milano, avendo ottenuto di usufruire della quasi totalità degli investimenti regionali per i trasporti per potenziare il proprio sistema del ferro, radiocentrico e passante (raddoppi, triplicazioni o quadruplicamenti delle radiali ferroviarie prossime, passante ferroviario urbano e linea 3 della MM, transitante, come la linea 1, per piazza Duomo) annuncia, tramite un testo privo di valore formale, il “Documento direttore del progetto Passante” , l’intenzione non già di sfruttare le nuove infrastrutture per soddisfare il fabbisogno pregresso (un saldo pendolare giornaliero di 260.000 lavoratori) come pudicamente affermato dal Piano regionale dei trasporti, ma, al contrario di volerle utilizzare per accrescere l’attrattività terziaria di Milano. In particolare attraverso la trasformazione urbanistica delle aree lungo il Passante ( Certosa, Bovisa, Farini, Garibaldi Repubblica, Porta Vittoria, Rogoredo, etc ) ma anche di altre aree, come ad esempio l’ex stabilimento Alfa Romeo del Portello destinato all’ampliamento della Fiera. Tutto ciò sarà fatto senza più ricorrere a studi generali di PRG, ma “ a la carte”, grazie a progetti d’area promossi dagli operatori, che il Comune ratificherà mediante singole varianti parziali al PRG. La prima e più grande di queste varianti sarà addirittura fuori dal tracciato del passante e priva di metropolitana e si chiama Pirelli Bicocca. Ma il cavallo non beve quanto si era sperato e così Bicocca, nata e progettata come Tecnocity, polo della ricerca tecnologica, si trasforma in Nettare residenziale di Milano. Insomma, mattone. Seguiranno, più o meno, tutti gli altri progetti, molti dei quali cambieranno forma e natura strada facendo, come ad esempio quello della Fiera, in relazione all’apertura del nuovo polo di Rho Pero, e quello di Isola –Garibaldi –Repubblica, ora noto come Porta Nuova, soprattutto in relazione a discutibili sconfitte amministrativo – giudiziarie della parte pubblica. In pratica molti progetti sono a tuttora incompiuti e molte costruzioni sono invendute. Ordine di grandezza della volumetria convenzionale messa in gioco, oltre 12 milioni di mc. Gestione di questa fase da parte di amministrazioni di sinistra fino a tangentopoli, poi della Lega e infine del centro destra.

Milano non è Roma. Ha solo 1,3 milioni di abitanti ma è il centro di un’area metropolitana di 5,2 milioni di abitanti, composta da più di 400 comuni. E attorno ad essa, soprattutto a nord e ad est non ci sono campi colline e pascoli ma altri grandi sistemi urbani, alcuni addirittura di una dimensione prossima o superiore al milione di abitanti, come Bergamo e Brescia.

Nel 1995 la Provincia di Milano (amministrazione di centro sinistra), preoccupata della condizione di crescente congestione ed inefficienza dell’area, pur in assenza della legge regionale attuativa della legge nazionale 142 del 1990, avvia la formazione del Piano territoriale di coordinamento. Il Piano, presentato nel 1999, è ispirato ad una strategia di policentrismo discontinuo, finalizzato a contenere l’ipertrofia del nucleo centrale, a garantire la tutela delle cinture e dei corridoi verdi fin dentro la città, e a rafforzare le specificità dello sviluppo locale, alimentato dal trasporto pubblico soprattutto su ferro e di superficie, esteso nell’hinterland. Milano esprime con asprezza la propria contrarietà. Il voto riporta al governo della Provincia il centro destra, che subito revoca il piano e ne approva, nel 2003, uno del tutto diverso, totalmente privo di elementi ordinatori e vincolanti. Dopo cinque anni una nuova amministrazione di centro sinistra fallisce nel tentativo di rivedere il piano fantasma del 2003, fino ad un nuova vittoria, nel 2009, del centro destra, che per ora continua a navigare con il “piano” del 2003. Tutto bene dunque: nessuno disturba le ambizioni del comune di Milano.

La Regione del presidente Formigoni fornisce aiuti potenti. Nel 1999 introducendo la super DIA per qualsiasi tipo di intervento, e generalizzando l’uso dei Piani integrati di intervento (PII), di fatto privati, in variante ai piani regolatori - strumento del quale Milano si avvarrà immediatamente e largamente per varare nuovi progetti urbani. Nel 2005 sostituendo il PRG con l’oscura trilogia dei documenti costitutivi del Piano di governo del territorio (PGT), che i comuni si auto approvano. E poi disapplicando il DM 2/4/68. E infine togliendo alla Provincia tutti i poteri, tranne un confuso apporto di copianificazione nella individuazione delle aree agricole strategiche. Il tutto anche grazie alla decisiva, curiosa distrazione di consiglieri dell’opposizione al momento dell’approvazione della legge. Le ambizioni di Milano hanno finalmente di fronte una strada completamente spianata, in barba alle leggi urbanistiche italiane.

Il PGT approvato nel 2011 interviene apparentemente soprattutto sugli ATU - ATPG (ambiti di trasformazione urbana): scali ferroviari e stazioni, caserme, il carcere e altre aree pubbliche e private. Si tratta in tutto di circa 8 milioni di mq di superficie territoriale, che generano diritti edificatori per circa 5 milioni di mq di superficie lorda di pavimento (slp) e sui quali potranno realizzarsi circa 6 milioni di metri quadrati di slp, pari a circa 20 milioni di metri cubi di volume convenzionale. Il volume reale vuoto per pieno sarà più del doppio, circa 48 milioni di metri cubi, come mostrano le statistiche comunali sull’attività edilizia del passato.

Ma questa è, dicevamo, solo l’apparenza. In realtà tutta la città viene sottoposta ad un violento processo di densificazione. Una invenzione normativa molto creativa stabilisce, ad esempio, che tutti i “servizi”, pubblici e privati di qualunque natura non consumano diritti edificatori e che le relative aree generano, come se fossero libere, nuovi diritti edificatori, che possono arrivare fino a 1 mq di slp ogni mq di superficie territoriale. Così come viene attribuito un indice di edificabilità di 0,5 mq per mq di superficie, da sfruttare con il meccanismo del trasferimento dei diritti edificatori, sulle aree private destinate alle nuove previsioni puntuali di verde e infrastrutture di mobilità.

Le aree a servizi sopra indicate sono complessivamente 22,5 milioni di mq e possono generare fino a 22 milioni di mq di nuova slp. Pari a 72,6 milioni di metri cubi convenzionali e dunque a circa 176 milioni di mc vuoto per pieno! In particolare le aree occupate da servizi religiosi potranno non soltanto densificarsi al proprio interno ma anche esportare, secondo il principio della cosiddetta perequazione, diritti edificatori nuovi di pacca su qualsiasi area urbana. Insomma l’Ospedale di Niguarda può costruirsi 313.000 mq di slp residenziale, terziaria o commerciale, mentre il Duomo di Milano genera nuovi diritti edificatori esportabili, residenziali, terziari o commerciali per 10.000 mq di slp. Da non credere.

E ancora, le aree del parco sud sono in una situazione di attesa precaria fino a che una non meglio precisata autorità competente stabilisca se siano aree agricole strategiche oppure se siano invece lasciate libere di salire sulla esilarante giostra della perequazione.

E infine i Pii sono sempre pronti a colpire: per legge regionale gli indici di piano non sono giuridicamente vincolanti, e il Pii li potrà sempre aumentare in qualsiasi misura.

Lo scenario disegnato dal PGT solleva inevitabilmente almeno tre domande fondamentali. Ha un senso economico un piano di questa natura? Come cambierà la qualità della città? Come sarà servita in termini di mobilità?

Il dimensionamento.

Le concessioni edilizie rilasciate a Milano, per tutte le destinazioni d’uso esclusi i servizi, misurate in termini di superficie lorda di pavimento sono state, tra il 2000 e il 2007 mediamente di 390.359 mq/anno. Si tratta, come è ben noto, di un ritmo temporaneamente elevato, a cui hanno fatto seguito quantità molto rilevanti di non finito e soprattutto di non venduto, il che determinerà probabilmente una contrazione dei permessi di costruire negli anni successivi.

I cinque milioni di metri quadri generati dagli ATU-ATPG rappresentano dunque da soli una provvista di aree edificabili sufficiente ad alimentare circa venti anni di domanda. Se a queste aree aggiungiamo i diritti edificatori generati dalle aree a servizi ( 22 milioni i metri quadri di slp ) si raggiungono valori di capacità insediativa ragguagliabili alla produzione edilizia di settant’anni. Il piano non programma dunque attività edilizie in una prospettiva di realismo economico: bensì genera un marea di “future” immobiliari che saranno esigibili solo a lungo o a lunghissimo termine. Tutto questo è spiegabile solo dando per acquisito un rapporto ormai totalmente organico tra amministratori e sistema immobiliare. Quel che non è facile prevedere sono le conseguenze economico finanziarie di questo inedito scenario.

Qualcuno potrebbe sperare in una spontanea riduzione dei prezzi immobiliari. Ma le case realmente in vendita non scendono più che tanto di prezzo, soprattutto a causa degli oneri finanziari accumulati in anni di stand-by all’ufficio vendite. E a causa del sostegno fornito da una politica dei trasporti (sulla quale ci soffermeremo tra poco) che continua ad innalzare il divario tra il livello di servizio nella città e quello nell’hinterland. Di sicuro c’è che cresce la bolla del comparto immobiliare, distraendo sempre più operatori dagli investimenti in altri campi dell’economia meno aleatori e futuribili.

La qualità urbana è la vera vittima sacrificale del PGT. E’ sufficiente dare un’occhiata a volo radente al progetto Porta Nuova, che ha schiacciato con i suoi grattacieli il vecchio romantico quartiere dell’Isola Garibaldi, oppure scattare una fotografia tra le gru e i mastodonti che ancora stanno crescendo per avere l’immediata sensazione fisica di una città che non si piace e non si ama.

I nuovi quartieri inventati dal PGT non saranno da meno. Stephenson, non dispone ancora di un planivolumetrico. Ma basta allineare il cubetti della volumetria convenzionale ( indice volumetrico territoriale convenzionale 9,14 mc/mq, ma probabile indice volumetrico territoriale fisico effettivo, vuoto per pieno più che doppio: 22 metri cubi per mq !) per avere l’immagine della Milano futura voluta dal piano.

Il meccanismo della cosiddetta perequazione consente di prelevare diritti volumetrici dalle periferie e di trasferirli liberamente nelle aree più centrali, di valore molto maggiore. Un centro iperdenso è dunque l’inevitabile e voluto esito del piano.

Le occasioni ultime e irripetibili fornite dalle grandi penetrazioni urbane degli impianti ferroviari vengono bruciate e sacrificate, destinandole in buona misura all’edificazione e a giardinetti poco più che condominiali, invece di sfruttarle come ultima occasione per dotare una città brutta e asfittica di qualche lembo di natura. Cosa potrebbe diventare invece una di queste aree lo possiamo comprendere guardando il progetto di due bravi neolaureati su Farini-Bovisa.

Gli standard urbanistici residenziali che, raggiungendo in passato i 44 mq ogni 100 metri cubi di costruzione avevano regalato a Milano, nella breve stagione del dopo tangentopoli, qualche episodio di trasformazione urbanistica molto civile, oggi si riducono il più delle volte a 12 mq ogni 100 metri cubi, ed anche quel poco può eventualmente essere monetizzato invece che realizzato. Il terziario non ha più alcun obbligo di standard urbanistici, e l’industria nemmeno.

Le sola area considerata dal punto di vista della, sia pur debolissima, tutela del patrimonio storico architettonico è il centro. I nuclei di antica formazione della periferia sono sottovalutati o ignorati.

In qualunque punto del territorio il mix funzionale è a libera scelta del singolo operatore: residenza, terziario, attività produttive, e, come già detto, se si vuole, servizi privati e pubblici senza computarne le superfici. I fabbisogni arretrati, spesso paurosi, di parcheggi, non scalfiscono la libertà privata di gravare con nuovi sovraccarichi in qualsiasi punto della città.

Quote di edilizia sociale, se realizzate, incrementano le possibilità edificatorie private: ma manca qualsiasi definizione dell’edilizia sociale, che può dunque ridursi ad offrire vantaggi economici del tutto marginali, pur consentendo comunque di conseguire l’incremento premiale dell’indice di edificazione privato.

La mobilità.



Il piano è privo di un organico progetto della mobilità, rinviato al futuro piano di settore. La profusione di opere ipotizzate nel PGT non è giustificata da previsioni seriamente fondate sulle risorse disponibili per realizzarle. E’ comunque impressionante l’accrescimento del divario di infrastrutturazione tra città e hinterland. Nell’hinterland qualche rado prolungamento. In città invece quarta e quinta linea di metropolitana, eventuale secondo passante ferroviario da scegliersi tra alternative di tracciato non ancora sciolte e poi 6 nuove cosiddette linee di forza ( presumibilmente altre metropolitane) rigorosamente dentro le mura del municipio. I milanes arius g’han de rangias. Non si ragionava così nemmeno negli anni 60.

Ma visto che le risorse per le metropolitane sono più che incerte meglio tenersi buona la vecchia cara alternativa autostradale a pedaggio, facendola diventare urbana. Un tunnel a pagamento in project financing che collega l’Expo a Linate. La prospettiva certa per la città è più traffico in assoluto, da sommarsi probabilmente alla continuazione del trend storico di peggioramento del taglio modale pubblico/privato. Con l’aria fuori legge per la quale paghiamo salate multe all’Unione Europea.

Abbiamo detto Linate? Ma non era stata la causa del fallimento di Malpensa, hub del nord Italia? Grandissima è la confusione sotto il cielo.

Questo è quel che c’è nel piano. Poi c’è tutto quel manca.

L’hinterland, dove vivono quattro milioni di veri milanesi è completamente ignorato. Anche sotto questo profilo, non si usava così nemmeno negli anni 60 o 70. Allora Milano poteva dedicare uno sguardo benevolo alle periferie popolari che si andavano ingrossando immaginando di avvicinarle ed integrarle e talvolta concedendo anche qualcosa di sostanziale, come una linea metropolitana che arrivava quasi all’Adda. Oggi siamo invece nella torva era della guerra tra municipi per la sopravvivenza e per il potere. I metri cubi sono l’uno e l’altro a condizione di tenerseli stretti dentro i confini, e che i cittadini li sopportino.

Nessun modello territoriale pensato, e la peggiore malformazione territoriale di fatto: la somma esplosiva di super concentrazione al centro e libero sprawl nell’hinterland.

Questo è il Pgt: l’espressione estrema del municipalismo solitario di Milano, postmoderno e neomedievale.

Il piano è appena approvato e non ancora pubblicato. Il piano sarà, spero, confutato giuridicamente, e colgo questa occasione per segnalare fin d’ora a Italia Nostra, che ha avuto il grande merito di sollevare in termini generali, con la forza di questo convegno, il tema della mercificazione della città, l’occasione di confronto culturale, politico e giuridico che penso si aprirà in occasione di questa confutazione. A Milano si vota in maggio e certamente il risultato elettorale potrebbe permettere di tentare di rimettere in discussione l’impostazione del piano, pur con tutte le difficoltà dovute ai diritti acquisiti che non mancheranno certo di essere rivendicati dagli interessati.

Ma il punto vero è che questo piano è il frutto terminale e velenoso della divaricazione crescente tra la geografia reale e quella del potere. Area metropolitana sempre più vasta e sempre meno governata e potere sempre più concentrato e incontrollato dentro la cinta daziaria di Milano. Superare questa contraddizione, divenuta lacerante a Milano ma presente ed acuta anche in altre città italiane, mentre le città europee sono riuscite a strutturare sempre più efficacemente la propria pianificazione d’area vasta, vuol dire mettere mano alla formazione della città metropolitana. Se il nuovo sindaco di Milano saprà compiere il passo decisivo in questa direzione si potrà sperare non solo di liquidare l’orribile Pgt ma di aprire una stagione nella quale, finalmente le risorse ambientali, culturali ed economiche di tutta l’area possano essere utilizzate in vista di un vantaggio comune di sistema a più grande scala.

Auguriamoci che, sia pure con mezzo secolo di ritardo, Milano riesca a riagganciare lo standard di pensiero delle metropoli europee.

Alcuni sono contrarissimi, altri dubitano che sia utile. Tutti a loro modo vogliono vederci chiaro: «È un’opera che serpeggia in modo devastante nel Parco agricolo sud, vicino a centri abitati, cascine di pregio e terreni agricoli». Oltre venti Comuni dell’est Ticino e del sud Milano si alleano per difendersi dal progetto della Tangenziale ovest esterna milanese (Toem), i 50 chilometri che la Provincia vuole realizzare per chiudere il raddoppio dell’anello delle tangenziali milanesi. A est, la Tem, la Tangenziale est esterna, i cui lavori partiranno entro l’anno, e a Ovest chiuderebbe il cerchio la Toem. Ma manca il favore di molti Comuni, molti dei quali, peraltro, già divisi su un’altra opera controversa, la superstrada Boffalora-Milano.

La nuova Ovest è prevista nel Piano territoriale di coordinamento provinciale: il tracciato ipotizzato parte da Melegnano e arriva a Magenta, dove è prevista la connessione con la Milano-Torino. Ma i sindaci di questi Comuni, che oggi si incontreranno a Rosate per stabilire una strategia comune, non ci stanno: «È una mera operazione propagandistica», dichiara Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano. Contro l’anello autostradale, per ora allo studio di fattibilità - Fabio Altitonante, assessore alla Pianificazione del territorio, promette che «verrà concordato con il territorio» - , si schiera anche il mondo agricolo: «Non possiamo sopportare ancora consumo di prezioso suolo», denuncia Paola Santeramo, presidente della Confederazione italiana agricoltori.

Intanto la provincia ha deciso di accorciare la prevista bretella a più corsie tra Malpensa e la Tangenziale ovest, che correrebbe internamente rispetto alla nuova autostrada: per non rischiare che i 250 milioni già stanziati dallo Stato vengano dirottati altrove, si punta a spenderli per realizzarne solo un tratto. «Faremo una nuova arteria da Magenta a Ozzero - spiega Giovanni De Nicola, assessore provinciale ai Trasporti - mentre da Ozzero ad Abbiategrasso ci sarà solo una riqualificazione». Ma anche in questo caso, alcuni sindaci si metteranno di traverso.

Nota: Incredibile: pur di sfasciare qualcosa anche la "direttissima Magenta-Ozzero" (guardate una cartina e si capisce al volo l'idea generale). E tanto per usare la formula del guardate che io l’avevo già detto, volendo si può rivedere il mio I Capannoni della Zia Tom, di qualche anno fa (f.b.)

Il Presidente Napolitano, che quando parla d’Europa usa veder lontano e ha sguardo profetico, ha fatto capire nel giorni scorsi quel che più le manca, oggi: il senso dell’emergenza, quando una crisi vasta s’abbatte su di essa non occasionalmente ma durevolmente; l’incapacità di cogliere queste occasioni per fare passi avanti nell’Unione anziché perdersi in «ritorsioni, dispetti, divisioni, separazioni». Son settimane che ci si sta disperdendo così, attorno all’arrivo in Italia di immigrati dal Sud del Mediterraneo. Numericamente l’afflusso è ben minore di quello conosciuto dagli europei nelle guerre balcaniche, ma i tempi sono cambiati. Lo sconquasso economico li ha resi più fragili, impauriti, rancorosi verso le istituzioni comunitarie e le sue leggi.

Durante il conflitto in Kosovo la Germania accolse oltre 500mila profughi, e nessuno accusò l’Europa o si sentì solo come si sente Roma. Nessuno disse, come Berlusconi sabato a Lampedusa: «Se non fosse possibile arrivare a una visione comune, meglio dividersi». O come Maroni, ieri dopo il vertice europeo dei ministri dell’Interno che ha isolato l’Italia: «Mi chiedo se ha senso rimanere nell’Unione: meglio soli che male accompagnati». La sordità alle parole di Napolitano è totale.

La democrazia stessa, che contraddistingue gli Stati europei e spinge i governi a preoccuparsi più dell’applauso immediato che della politica più saggia, si trasforma da farmaco in veleno. Di qui la sensazione che l’Unione non sia all’altezza: che viva le onde migratorie come emergenza temporanea, non come profonda mutazione. Governi e classi dirigenti sono schiavi del consenso democratico anziché esserne padroni e pedagoghi con visioni lunghe. Non a caso abbiamo parlato di spirito profetico a proposito di Napolitano. È la schiavitù del consenso a secernere dispetti, rancori, furberie. Tra le furberie che ci hanno isolato c’è la protezione temporanea eccezionale che il nostro governo ha concesso a 23.000 immigrati. La protezione è prevista dal Trattato di Schengen, ma solo per profughi scampati a guerre e persecuzioni: non vale per i tunisini, come ci hanno ricordato ieri la Commissione e gli Stati alleati. Non è violando le regole che l’Italia suscita solidarietà. Può solo acutizzare le diffidenze: un altro veleno che mina l’Unione.

Per questo vale la pena soffermarsi sul significato, in politica, dello spirito profetico. Vuol dire guardare a distanza, intuire le future insidie del presente, ma innanzitutto comporta un’operazione verità: è dire le cose come stanno, non come ce le raccontiamo e le raccontiamo per turlupinare, istupidire, e inacidire gli elettori. Di questo non è capace Berlusconi ma neanche gli altri Stati e le istituzioni europee: i primi perché sempre alle prese con scadenze elettorali, le seconde perché intimidite dalle resistenze nazionali. La lentezza con cui si risponde alle rivoluzioni arabe non è la causa ma l’effetto di questi mali.

La prima verità non detta è quasi banale, e concerne l’intervento in Libia e il nostro voler pesare sui presenti sconvolgimenti arabi e musulmani. Condotta con l’intento di apparire attivi, la guerra sta confermando il contrario: una grande immobilità e vuoto di idee. È un attivarsi magari sensato all’inizio, ma che mai ha calcolato le conseguenze (compresa un’eventuale vittoria di Gheddafi) sui paesi arabi-africani e sui nostri. Fra le conseguenze c’è l’esodo di popoli. Un esodo da assumere, se davvero vogliamo esserci in quel che lì si sta facendo. Invece siamo entrati in guerra senza pensarci, né prepararci.

La seconda verità, non meno cruciale, riguarda l’Europa e i suoi Stati. L’occultamento è in questo caso massiccio, ed è il motivo per cui il capro espiatorio della crisi migratoria non è l’Italia come gridano i nostri ministri ma – se non si inizia a parlar chiaro – l’Unione stessa. L’evidenza negata è che da quando vige il Trattato di Lisbona, molte cose sono cambiate nell’Unione. Le politiche di immigrazione erano in gran parte nazionali, prima del Trattato. Ora sono di competenza comunitaria, e la sovranità è passata all’Unione in quanto tale. Questo anche se agli Stati vengono lasciati, ambiguamente, ampli spazi di manovra, in particolare sul «volume degli ingressi da paesi terzi».

Risultato: l’Unione, anche perché guidata a Bruxelles da un Presidente debole, prono agli Stati, non sa che fare della propria sovranità. Non ha una politica verso i paesi arabi, di cooperazione e sviluppo. Tuttora non ha norme chiare sull’asilo, sull’integrazione dei migranti, né possiede il corpo comune di polizia di frontiera che aveva promesso. Ma soprattutto, non ha le risorse per tale politica perché gli Stati gliele negano, riducendo la sovranità delegata a una fodera senza spada. Per questo alcuni spiriti preveggenti (l’ex ministro socialista Vauzelle, il presidente del consiglio italiano del Movimento europeo Virgilio Dastoli) propongono una cooperazione euro-araba gestita da un’Autorità stile Ceca (la prima Comunità del carbone e dell’acciaio). Come allora viviamo una Grande Trasformazione, e Monnet resta un lume: «Gli uomini sono necessari al cambiamento, le istituzioni servono a farlo vivere».

Se il Trattato di Lisbona significasse qualcosa, non dovrebbero essere Berlusconi e Frattini a negoziare con Tunisia o Egitto, con Lega araba o Unione africana. Dovrebbero essere il commissario all’immigrazione Cecilia Malmström e il rappresentante della politica estera Catherine Ashton. Resta che per negoziare ci vogliono progetti, iniziative: e questi mancano perché mancano risorse comuni. La condotta dei governi europei è schizoide, e tanto più menzognera: gli Stati hanno avuto la preveggenza di delegare all’Europa una parte consistente di sovranità, su immigrazione e altre politiche, ma fanno finta di non averlo fatto, e ora accusano l’Europa come se gli attori del Mediterraneo fossero ancora Stati-nazione autosufficienti.

La terza operazione-verità, fondamentale, ha come oggetto l’immigrazione e il multiculturalismo. È forse il terreno dove il mentire è più diffuso, tra i governanti, essendo legato alla questione della democrazia, del consenso, della mancata pedagogia, degli annunci diseducativi. Risale all’ottobre scorso la dichiarazione di Angela Merkel, secondo cui il multiculturalismo ha fatto fallimento. Poco dopo, il 5 febbraio in una conferenza a Monaco sulla sicurezza, il premier britannico Cameron ha decretato la sconfitta di trent’anni di dottrina multiculturale. Il fatto è che il multiculturalismo non è una dottrina, un’opinione. È un mero dato di fatto: in nazioni da tempo multietniche come Francia Inghilterra o Germania, e adesso anche in Italia e nei paesi scandinavi. L’operazione verità non consiste nel proclamare fallito il multiculturalismo: se un dato di fatto esiste, fallisce solo se se estirpi o assimili forzatamente i diversi. Se fossero veritieri, i governi dovrebbero dire: il multiculturalismo c’è già, solo che noi – Stati sovrani per finta – non abbiamo saputo né sappiamo governarlo.

Dire la verità sull’immigrazione è essenziale per l’Europa perché solo in tal modo essa può osare e fare piani sul futuro. Urge cominciare a dire quanti immigrati saranno necessari nei prossimi 20 anni, e quali risorse dovranno esser mobilitate: sia per mitigare gli arrivi cooperando con i paesi africani o arabi, sia edificando politiche di inclusione per gli immigrati economici e per i profughi (la frontiera spesso è labile: la povertà inflitta è una forma di guerra).

Tutto questo costerà soldi, immaginazione, pensiero durevole. Comporterà, non per ultimo, un ripensamento della democrazia. Ci sono cose che non si possono fare perché maturano nei tempi lunghi e l’elettorato capisce solo i risultati immediati, spiega l’economista Raghuram Rajan in un articolo magistrale sulle crisi del debito ( Project Syndacate, 9 aprile 2011). Il bisogno di immigrati che avremo fra qualche decennio in un’Europa che invecchia è, paradossalmente, quello che dà forza ai nazional-populisti: in Italia, Francia, Belgio, Olanda, Ungheria, Svezia, Finlandia. Il dilemma delle democrazie è questo, oggi. Esso costringe governanti e governati a fare quel che non vogliono: smettere l’inganno delle sovranità nazionali, guardare alto e lontano, insomma pensare. E far politica, ma con lo spirito profetico che vede la possibile rovina (il «passo indietro» paventato da Napolitano) e la via d’uscita non meno possibile, se è vero che il futuro non cessa d’essere aperto.

Nel rapporto Ambiente Italia 2011, l'associazione del cigno lancia l'allarme. Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e capannoni. E' come se ogni quattro mesi nascesse una nuova Milano

Il cemento si sta mangiando l’Italia, al ritmo di 10.000 ettari di territorio all’anno: ogni 4 mesi è come se nascesse una nuova Milano. Periferie sempre più estese, arterie stradali, maxi-parcheggi e capannoni.

Grappoli disordinati di sobborghi residenziali e centri commerciali sorti in mezzo alle campagne. È l’ambiente nel quale vivono 6 italiani su 10.

Lombardia, Veneto e Campania guidano la classifica: cresce l’asfalto, la terra soffre, va in crisi il sistema idrogeologico. Mancano regole a tutela del suolo, aumentano i danni ambientali e i costi sociali. È il nuovo allarme lanciato dal rapporto Ambiente Italia 2011, promosso da Legambiente: insieme agli spazi verdi, spariscono ettari preziosi per l’agricoltura, che vanta un export da 26 miliardi di euro. A farla da padrone sono i palazzi: negli ultimi 15 anni si sono costruiti 4 milioni di nuove case. Ma oltre un milione di alloggi resta vuoto. E almeno 200.000 famiglie non riescono a pagare l’affitto o la rata del mutuo.

Urbanizzazione selvaggia, sempre più insostenibile. Lo rivela il rapporto realizzato in collaborazione con l’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica, presentato in questi giorni a Milano. Un quadro inquietante del consumo di territorio, che oltre all’ambiente mette in pericolo anche la produzione agroalimentare. Il cemento invade già 2 milioni e 350.000 ettari.

Un’estensione equivalente a quella di Puglia e Molise messe insieme: il 7,6% del territorio nazionale, con 415 metri quadri per abitante. Risultato: crescono le superfici impermeabili. Già nel 2007, in città come Napoli e Milano era isolato dall’acqua il 62% del suolo. Il primato è della Lombardia, con il 14% di superfici artificiali. Seguono Veneto (11%), Campania (10,7%), Lazio ed Emilia (9%). A rischio la Sardegna, dove la cementificazione minaccia patrimoni naturali di inestimabile valore.

“Il territorio italiano si sta rapidamente metropolizzando”, afferma il presidente INU, Federico Oliva. “Alla città tradizionale si sta sostituendo una nuova città, in cui vive oltre il 60% dell’intera popolazione italiana”. Si vive in condizioni insostenibili: cementificazione, traffico congestionato, nuovi squilibri e fame di spazio pubblico. Principale imputato: la crescita incontrollata delle periferie metropolitane, che divorano ogni anno 500 chilometri quadrati di aree verdi. Un esempio? Roma, il più grande comune agricolo in Europa. Nella città eterna, i complessi residenziali in periferia hanno “mangiato” 4.384 ettari agricoli, il 13% del totale, e 416 ettari di bosco. E il peggio deve ancora arrivare: i piani regolatori di Roma e Fiumicino prevedono di consumare altri 9.700 ettari, più di quanto sia stato urbanizzato dal 1993 al 2008.

Per Paolo Pileri del Politecnico di Milano, uno dei curatori del documento, “ad essere erose sono le risorse agricole e di biodiversità, che costituiscono uno dei beni comuni più importanti”. L’Italia è in controtendenza rispetto ai paesi europei dove “sono in atto da tempo politiche ambientali ed urbanistiche incisive contro il consumo di suolo e i suoi costi sociali”. Lo sfruttamento del suolo italiano non produce “solo ferite al paesaggio”, ma “una vera e propria patologia del territorio”. Per questo Legambiente e INU hanno deciso di creare un Centro di Ricerca sui Consumi di Suolo (CRCS). Nella legislazione italiana “mancano ancora regole efficaci sulle facoltà di trasformazione dei suoli”, afferma il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine: “Qualunque sia la politica che una Regione attua per il governo del territorio, riteniamo irrinunciabile che essa sia confortata da un’attività di verifica e monitoraggio, oggi estremamente lacunosa”.

Molti comuni piemontesi, stanchi di vedere il proprio territorio invaso da capannoni sfitti, hanno dato vita alla Campagna nazionale Stop al consumo di territorio. “Il consumo di suolo - dichiara il presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza – è oggi un indicatore dei problemi del Paese. La crescita di questi anni, senza criteri o regole, è tra le ragioni dei periodici problemi di dissesto idrogeologico e tra le cause di congestione e inquinamento delle città, dell’eccessiva emissione di CO2 e della perdita di valore di tanti paesaggi italiani e ha inciso sulla qualità dei territori producendo dispersione e disgregazione sociale. Occorre fare come negli altri Paesi europei, dove lo si contrasta attraverso precise normative di tutela e con limiti alla crescita urbana, ma anche con la realizzazione di edilizia pubblica per chi ne ha veramente bisogno”. Tra le abitazioni sfitte, 245.142 sono a Roma, 165.398 a Cosenza, 149.894 a Palermo, 144.894 a Torino e 109.573 a Catania. Ma il fenomeno sfugge, perché non ci sono banche dati aggiornate. E la piaga dell’abusivismo si aggiunge alle carenze di pianificazione.

La legge della natura delle cose contro le norme della giustizia: la forza del più forte contro quella della legge. Una storia che si ripete da secoli ma che ogni volta che riappare sembra nuova, inedita e diversa. Le recentissime esternazioni del presidente del Consiglio sono un florilegio da manuale sul rischioso cammino nel quale una democrazia si immette quando consente a un cittadino che ha acquistato già troppo potere economico e mediatico di coprire incarichi di governo. Il rischio si sta dimostrando fatale, soprattutto perché viviamo nell’era della audience leadership, dove la propaganda viaggia non più attraverso partiti strutturati ma invece il fluido mondo delle immagini e delle opinioni dette e non falsificabili. Antico e moderno si uniscono tuttavia, poiché nonostante la forma mediatica e da gossip con la quale si alimenta il plebiscitarismo di oggi, la sostanza e la tentazione restano le stesse, poiché, dopo tutto, la natura umana è fatta delle stesse passioni, in primo luogo quelle che spingono a ottenere il "massimo" di godimento da ciò che piace: dal potere di comandare masse di sudditi facendo loro bere ciò che è non è nel loro interesse e come se lo fosse, a quello di gestire un commercio largo e capiente di procuratori e procuratrici di piacere. Però, nonostante la natura immoderata del potere, sarebbe sbagliato pensare che il plebiscitarismo si sorregga solo sul potere del leader, che tutto nel bene e nel male sia a lui solo imputabile. Nessun regime si sorreggerebbe più di una manciata di ore senza il sostegno di un gruppo di fedeli e senza consenso. Il plebiscitarismo nasce del resto nella democrazia, che è una forme di governo fondata sul consenso.

Dunque, partiamo da questa ovvietà: nessun governo può sussistere senza consenso. Nemmeno i tiranni possono permettersi il lusso di stare al potere senza fare affidamento su un qualche sostegno da parte dei loro sudditi; diversamente dovrebbero mettere un guardiano a sentinella di ciascun suddito con la conseguenza di trasformare il paese in una caserma. A questo inconveniente i governi totalitari hanno provveduto facendo dei sudditi docili militanti dell’ideologia di governo. Ecco dunque che la differenza tra Paesi governati dispoticamente e Paesi liberi non consiste semplicisticamente nel fatto che questi ultimi sono governati per mezzo dell’opinione mentre i primi per mezzo della forza. Entrambi sono, in forme e con intensità diverse, governati anche grazie al sostegno dell’opinione e del consenso di chi occupa le istituzioni. I governi autocratici cadono quando l’élite di governo si fraziona e rompe il consenso, come avvenne appunto con il Gran consiglio fascista il 25 luglio 1943. I governi liberi, invece, cadono quando il Parlamento toglie la fiducia alla maggioranza che governa. La differenza fra i due tipi di regimi sta nel fatto che in quelli dispotici i sudditi obbediscono a un potere il quale non è certo che sia espressione della loro opinione poiché non godono della libertà di gridare forte il loro dissenso; mentre nel caso dei governi liberi cittadini ed eletti sanno di essere consapevolmente e volontariamente, in forma diretta o indiretta, gli agenti e i sostenitori del governo che hanno. È a questi ultimi che dobbiamo dirigere la nostra attenzione quando parliamo di plebiscitarismo democratico, nel quale dunque la responsabilità del consenso è principalmente imputabile a coloro che sono stati eletti e operano nelle istituzioni.

Il Parlamento ha una responsabilità diretta nelle persistenza del governo democratico. Lo si è visto molto bene con la recente votazione sul caso Ruby o quella sulla fiducia del dicembre scorso. In entrambi i casi, il Parlamento ha dismesso una delle sue due funzioni fondamentali, quella per la quale la sua presenza è segno distintivo della nostra libertà: la funzione di veto. Poiché il rapporto del Parlamento con l’esecutivo non è né di predellino né di copertura. I parlamentari hanno infatti mandato libero e nessuno, nemmeno il capo del loro partito, può costringere la loro volontà decisionale: su questa loro libertà sta la doppia funzione del Parlamento, quella deliberativa ovvero di produrre una maggioranza e quella di veto o limitazione del potere del governo. Il Parlamento non è mai un docile e passivo sostenitore del governo. Quando dismette la sua funzione di veto, esso diventa cassa di risonanza del governo e spalanca le porte al plebiscitarismo che la propaganda mediatica rinforza quotidianamente. Come l’opinione pubblica, il Parlamento diventa un potere docile nelle mani del leader.

Il presidente del Consiglio è consapevole di avere in mano il Parlamento quando riesce a neutralizzarne il potere di veto. Sa anche che due altri poteri di fermo gli sfuggono ancora di mano: la Presidenza della Repubblica e la giustizia. Da questa consapevolezza scaturiscono le sue recentissime esternazioni: cambiare la Costituzione per rendere tutti i contro-poteri docili al suo potere. Di fronte a questo rischio evidente, il Parlamento dovrebbe sentire la responsabilità del suo ruolo poiché è un fatto che nella democrazia elettorale i governi non dovrebbero cadere con la mobilitazione delle piazze, ma nel Parlamento. È possibile rendere il rischio gravissimo che sta di fronte alla nostra già compromessa democrazia costituzionale in questo modo: al Parlamento spetta il compito di riprendersi la sua completa autonomia, che è di rendere possibile una maggioranza e di fungere da veto. Più ancora, di impedire che tutti i poteri di veto e di controllo siano resi docili e addomesticati.

Tornerete presto nelle vostre case. Non pagherete tasse. La ricostruzione sarà veloce. Trasparenza assoluta nella gestione. Vareremo incentivi ed esenzioni fiscali per attirare investimenti delle imprese. Tra impegni solenni e chiacchiere a vuoto, per due anni il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sul terremoto de L'Aquila del 6 aprile 2009 ha spesso straparlato, dando quasi i numeri. E, numeri per numeri, ecco quelli che più degli altri documentano le sue false promesse, gli impegni assunti con gli aquilani e non mantenuti, il fallimento del modello di ricostruzione imposto alla città.

37.731 Sono gli sfollati che ancora attendono di rientrare nella propria casa. Troppi, dopo due anni. Di essi, 13.856 sono alloggiati nei 185 edifici del Progetto Case, i Complessi asismici ed ecocompatibili, dislocati in 19 aree intorno alla città; 7.099 sono sistemati nei Map, Moduli abitativi provvisori, sparsi nelle 21 frazioni dell'Aquila e degli altri Comuni del cratere; 844 utilizzano abitazioni acquistate dal Fondo immobiliare Aquila e concesse in affitto; 1.126 godono degli affitti concordati con la Protezione civile in tutte le località danneggiate dal sisma; 62 si trovano in altre strutture comunali. Ci sono poi 13.416 persone che beneficiano del contributo di autonoma sistemazione (600 euro mensili per ogni nucleo familiare), 1.077 sfollati ospitati in diverse strutture ricettive in Abruzzo e fuori e 251 persone alloggiate in caserme.

3.401.000.000 È quanto è stato speso sinora per il terremoto, tra emergenza, assistenza alla popolazione e primi lavori di ricostruzione. Una cifra colossale, anche se il ritorno alla normalità appare lontanissimo. Con un'ombra pesante sulla trasparenza dell'operazione: "Berlusconi aveva promesso massima informazione", denuncia il senatore democratico Giovanni Legnini, "ma nonostante una legge lo preveda, in Parlamento stiamo ancora aspettando il rendiconto del governo sulla gestione dell'emergenza".

4.000.000 Sono le tonnellate di macerie prodotte dai crolli. Il problema è che vengono smaltite al ritmo di 300 tonnellate al giorno. Si continuasse così ci vorranno 444 mesi, oltre 36 anni per liberarsene. Un disastro, lasciato in eredità dalla Protezione civile di Bertolaso che ha lasciato la città un anno fa senza mettere mano al problema.

90.000.000 Si tratta dello stanziamento per l'istituzione di una zona franca per l'Aquila che attraverso facilitazioni fiscali e altri incentivi avrebbe dovuto invogliare imprenditori italiani e stranieri ad investire nel territorio devastato dal sisma. L'allora presidente della provincia Stefania Pezzopane e il sindaco dell'Aquila Massimo Cialente la proposero a Berlusconi e Gianni Letta l'8 aprile 2009, due giorni dopo il terremoto. Il Cavaliere si impegnò solennemente, ma due anni sono passati e la zona franca nessuna l'ha vista, mentre il tasso di disoccupazione a l'Aquila e dintorni continua a salire secondo alcune rilevazione oltre l'11 per cento.

1.200.000.000 Sono le tasse arretrate che gli aquilani devono al fisco. Berlusconi aveva lasciato sperare in una totale esenzione. Poi si è capito che era una semplice sospensione. Solo che è durata fino a giugno 2010, tre mesi in meno del periodo concesso ai terremotati dell'Umbria. E non basta: dopo avere ripreso a pagare dal luglio scorso le tasse correnti, gli aquilani hanno appurato che la restituzione degli arretrati dovrà avvenire in 5 anni e per il 100 per cento degli importi, mentre Umbria e Marche hanno cominciato a saldare le imposte sospese dopo 12 anni e solo per il 40 per cento del dovuto.

13.000 Sono i cantieri per le case E, le più danneggiate, che devono ancora partire sia nel centro storico che nel resto della città. Il ritardo è dovuto alla mancanza del prezzario delle opere e delle procedure per il finanziamento delle stesse, strumenti indispensabili che il commissario straordinario, il presidente della Regione Gianni Chiodi, è riuscito a varare solo alla fine di marzo. Un intoppo che sta rimandando alle calende greche il ritorno alla normalità. "Colpa anche della scelta della ricostruzione leggera voluta da Berlusconi", spiega Stefania Pezzopane, "che ha lasciato per ultimo il disastrato centro storico".

Nel 2009 la Regione Puglia, come altre regioni italiane, ha subito l’imposizione del governo centrale di doversi dotarsi entro 90 gg. del cosiddetto “piano Casa”, quale misura straordinaria anti crisi economica.

Con il primo “Piano Casa”, la Puglia ha colto l’opportunità della legge per promuovere l’edilizia sostenibile, rispettare le tutele del territorio, garantire l’accessibilità ai disabili, prevenire il rischio sismico. In quella occasione, fu ascoltato il partenariato istituzionale ed economico-sociale, che condivise il principio ispiratore e avanzò proposte migliorative. Anche il Consiglio Regionale l’approvò all’unanimità. Oggi a tre mesi dalla scadenza dei termini per la presentazione delle istanze, quando è palese il fallimento del Piano casa, la Giunta Regionale della Puglia approva uno schema di disegno di legge che modifica quel “Piano Casa”. Ci pare strano che solo ora, dopo quasi ventiquattro mesi di vigenza, si rilevano alcune criticità di tipo interpretativo, alcuni vincoli dimensionali e burocratici della legge regionale. Si vuole recuperare il tempo perduto, ampliando le maglie della legge e prorogando i termini straordinari al 31 dicembre 2011?

Il “nuovo” Piano Casa della Puglia prevede l’aumento della volumetria complessiva, gli interventi di ampliamento da 200 mc. a 300 mc. ed un aumento del volume massimo degli edifici residenziali da 1000 mc. a 1500 mc, privilegiando così gli alloggi più grandi. Per quanto concerne gli interventi di demolizione/ricostruzione è stata ridotta la percentuale di residenza degli edifici esistenti dal 75% al 50%: così si agevolano gli usi non abitativi e salta anche la norma che impediva i cambi di destinazione d’uso. Si consideri il paradosso: gli interventi saranno realizzati con una semplice DIA, ma dovranno avere un punteggio 2 per ottenere la certificazione di sostenibilità ambientale, ai sensi della LR 13/2008 (Norme per l’abitare sostenibile). Gli edifici esistenti, non dovranno essere già accatastati, ma lo si potrà fare anche prima di presentare l’istanza; si ammettono anche gli edifici per quali è stata rilasciata la sanatoria edilizia straordinaria e si semplifica la valutazione antisismica. Non è stato per fortuna, ancora, modificato l’art. 6 che prevede una serie di aree di esclusione dall’attività edilizia (beni culturali e paesaggistici, naturali e ambiti di alta pericolosità idrogeologica) ed in aggiunta le ulteriori aree che potevano essere individuate entro 60 gg dai comuni. Ma, come abbiamo sottolineato già nel 2009 sarà massacrata “l’architettura rurale” in nome dell’edilizia sostenibile, perché in Puglia non c’è ancora una legge che la tutela. Un’ulteriore norma che si trova già all’articolo 9 è tesa a modificare la LR 21/2008 (Norme per la rigenerazione urbana), per permettere di delocalizzare i volumi “incongrui” in aree vincolate, che possono essere spostati in aree previste dagli strumenti urbanistici, con demolizione e ripristino delle aree di sedime.

Le associazioni ambientaliste della Puglia rigettano questo “nuovo” Piano Casa che è frutto delle “lobby del cemento” costituita da alcuni ordini professionali, dai costruttori, dai comuni e dai consiglieri regionali filo governativi.

L'autore è Componente della Commissione Regionale Paesaggio Ambito di Brindisi, Lecce, Taranto . Qui la replica dell'assessora al territorio della regione P8blia, Angela Barbanente.

Si è sempre saputo poco della storia dei due cappelli, piccolo ma non secondario capitolo di uno dei più grandi affari immobiliari milanesi degli ultimi anni. L’affare è quello dei terreni dell’Expo, a Nord Ovest di Milano. I due cappelli appartengono a Guido Podestà: il capello da presidente della Provincia di Milano e poi quello da socio dei Cabassi. Cioè la storica famiglia di immobiliaristi proprietaria di una grossa fetta dei terreni dove sorgerà l’Esposizione Universale. A loro fa capo anche il 40%del capitale di una holding della famiglia Podestà. «Tutto trasparente» , per l’uomo politico del Pdl. Terreni e miliardi Sarà la Provincia insieme al Comune di Milano e alla Regione Lombardia a decidere la modalità (acquisto, newco, comodato d’uso) con cui acquisire dai privati la grande area dove si farà l’Expo 2015.

Questa settimana potrebbe essere decisiva.

Qualche numero: terreni per 1,1 milioni di metri quadrati (un quarto dei Cabassi, circa metà della Fiera di Milano), 1,7 miliardi di investimenti per il sito espositivo, oltre 10 miliardi per le infrastrutture di accesso. Per i terreni l’ipotesi oggi più probabile è quella del comodato d’uso, opzione preferita da Letizia Moratti e Podestà. È anche l’ipotesi più gradita ai Cabassi che dal 2007 a oggi hanno sempre mantenuto una posizione coerente: siamo sviluppatori, quindi preferiamo il comodato, ma discutiamo tutto purché ci sia chiarezza. Con il comodato i terreni vengono presi in prestito e poi restituiti a fine Expo con il cambio di destinazione da agricola a residenziale. A fronte della crescita esponenziale del valore, ai privati viene chiesto di contribuire alle infrastrutture con 75 milioni.

I due Podestà

È in questo mix di interessi pubblici e privati che si inseriscono i «due» Podestà: l’amministratore della res publica e l’imprenditore legato strettamente ai Cabassi. Anzi per anni quasi aggrappato ai soldi che gli immobiliaristi milanesi hanno investito nella sua holding di famiglia, di cui sono creditori (secondo patti riservati) e garanti con le banche. Se da una parte Podestà ha un peso nella decisione sui terreni Expo, dall’altra i Cabassi hanno avuto un ruolo fondamentale per la sopravvivenza della sua holding. Ma da qui a sospettare presunti do ut des ce ne passa. È una fotografia, con molti dettagli che mancavano. Architetto, 64 anni, ex numero uno dell’Edilnord da cui partì la fortuna del Cavaliere, per 15 anni parlamentare Ue, scuola berlusconiana doc, Podestà saprà certamente separare gli interessi propri da quelli pubblici.

La «paghetta»

Al vertice della Pedemontana, intanto, ha messo un uomo di fiducia, Salvatore Lombardo, 56 anni, architetto. È amministratore delegato della società, controllata dalla Provincia, che gestisce 5 miliardi per il collegamento stradale Bergamo-Malpensa. Un business enorme che richiede la dedizione totale del manager di punta. Poi però si scopre che Lombardo è rimasto a libro paga della famiglia Podestà: prende 1.200 euro al mese per amministrare la Generale di Costruzioni («Generale» ), di cui è presidente. Incrocio nella holding Ecco, è proprio qui che si incrociano gli interessi dei Podestà e dei Cabassi. Di suo il presidente della Provincia possiede appena il 3,78%del capitale, ma è la seconda moglie, Noevia Zanella, con cui c’è una perfetta simbiosi, ad avere la maggioranza assoluta (54%).

I Cabassi però hanno in mano un assai influente 40%della Generale attraverso la loro Brioschi Sviluppo Immobiliare, quotata in Borsa. Sotto l’ombrello della holding dei Podestà c’è la partecipazione in una società che gestisce una residenza per anziani (Heliopolis) e l’immobiliare proprietaria dei muri. Ma la struttura, afferma il numero uno della Provincia, è stata venduta due settimane fa. «Sono tranquillo: abbiamo agito in modo trasparente» . Però, ad eccezione di una dichiarazione a Telelombardia in campagna elettorale, Podestà non ha mai parlato di questo rapporto d’affari. «Nessun altro — dice— ha mai chiesto chiarimenti, che io ricordi» . La biografia sul sito della Provincia non dedica nemmeno una riga alle aziende di famiglia.

Il patto con i Cabassi

Con i Cabassi era stato siglato un patto parasociale, ossia un contratto (riservato) che regola le relazioni economiche tra i due soci. Secondo il bilancio 2010, la Generale ha un debito di 3,5 milioni con la Brioschi e su quei soldi paga un tasso fisso del 6%annuo. Poi è molto indebitata con Montepaschi per il finanziamento (35 milioni) che servì a comprare l’immobile delle Residenze Heliopolis. Mps ha in pegno le quote societarie. Ma c’è anche la stampella dei Cabassi che per la loro quota-parte hanno rilasciato una fideiussione da 14 milioni a favore di Mps. Senza complicare troppo: i bilanci sono in profondo rosso da anni e nel 2011 è scattato l’allarme del patrimonio netto negativo. Cioè i soci avrebbero dovuto tirar fuori qualche milione di euro per coprire il buco. Ma la vendita dell’immobile, secondo Podestà, ha chiuso il debito e risolto i problemi patrimoniali. Per i Cabassi non è stato comunque un buon investimento. I terreni dell’Expo, invece, potrebbero esserlo. Podestà continua ad avere due cappelli, che tiene separati. Fino a prova contraria.

Lampedusa? L´isola è svuotata, ora è tutto a posto, dice Berlusconi. Sì, svuotata l´isola come ripulita Napoli, come ricostruita l´Aquila. Le notizie degli sbarchi smentiscono in diretta l´ottimismo dell´imbonitore. Ma c´è dell´altro. Ci sono i rapporti con gli altri Paesi europei, Francia e Germania in particolare. Qui manca ogni accordo sulla gestione dei flussi umani dall´Africa. Niente paura, dice il premier: «Se non fosse possibile arrivare ad una visione comune, meglio dividersi». Questa è dunque la ricetta dello statista: la divisione dell´Italia dall´Europa.

Divisione: la parola è sorta spontanea sulle labbra del premier non certo per caso. Quella parola aleggia da tempo nella realtà della vita del Paese. Nello spazio dei pochi giorni trascorsi dalla festa dei 150 anni dell´Italia unita il Paese che si era faticosamente ritrovato all´ombra del tricolore si presenta oggi lacerato come non mai, diviso non solo fra Nord e Sud ma fra una regione e l´altra, fra una borgata e l´altra. Così, a festa finita, la questione dell´unità ci appare oggi come un problema serio e grave.

La festa dell´Unità d´Italia poteva essere un´occasione importante per ripensare alla storia e alle prospettive del Paese. Ma alla festa si è associata una cattiva compagna di strada: la retorica dell´unità. Chiamiamo retorica dell´unità ogni lettura del passato e del presente che ignora le fratture, esalta il processo di unificazione come un moto armonioso e concorde e tenta di cancellare differenze e divisioni col silenzio, con la proposta di una storia ufficiale corretta "ad usum delphini" e con l´eliminazione delle tracce istituzionali e simboliche delle fratture profonde del Paese.

"Io amo l´Italia" è una di quelle espressioni della neolingua berlusconiana che hanno fatto breccia nel nostro parlare, così come la teatralità dei gesti patriottici di ministri che scimmiottano l´inevitabile modello americano quando si mettono la mano sul cuore davanti alla bandiera. Ma sono anni ormai che la retorica dell´unità si accompagna in Italia a una revisione o piuttosto alla decisa espurgazione della storia documentata del Paese diviso e feroce che abbiamo alle spalle. In questo contesto bisogna certamente accogliere e dare credito alla giusta preoccupazione di chi invita a guardare a ciò che unisce e a mettere la sordina a ciò che divide. È un invito sacrosanto se si tratta di unirci per affrontare i problemi e le fragilità che minano la società italiana e la allontanano dall´ideale che ebbero in mente i patrioti del Risorgimento e i combattenti della libertà repubblicana contro il nazifascismo. Ma non può diventare una autocensura unilaterale mentre il nemico della vera unità guadagna posizioni su posizioni. Davanti alla lacerazione del tessuto del Paese abbassare i toni rischia di valere come una rinunzia a difendere i diritti fondamentali dell´uomo e del cittadino.

E questi diritti si difendono partendo dalla condizione di chi diritti non ne ha: il dannato della terra, la figura dai tanti nomi – il rifugiato, l´immigrato, il clandestino. Chiediamoci quale immagine e quale esperienza dell´Italia abbiano oggi i profughi che, sopravvissuti a tragedie senza nome, riescono con enormi rischi e difficoltà a toccare le coste meridionali e insulari del Paese. Queste donne, questi uomini, non hanno storia per noi, sono i dannati della terra, sono il popolo senza nome dei sommersi. Ma, se non diventano letteralmente tali annegando nel Mediterraneo, se sopravvivono e se riescono a fare come quegli emigranti italiani che trovarono in altri Paesi società più libere e giuste, un giorno saranno loro stessi o i loro figli che scriveranno la storia vera del nostro tempo, quella che vivono e di cui oggi sono le vittime. E non sarà la storia di un´Italia unita. Sballottati da una regione all´altra, sempre però al di sotto di quella linea gotica che nel nome porta la memoria di antiche e recentissime fratture del Paese (la lingua è spesso un inesorabile quanto inascoltato documento storico), accolti dalla canea di folle incoraggiate dalla politica di una forza politica razzista e xenofoba che mira al disfacimento del Paese, sono i testimoni autentici dello stato di salute dell´Italia di oggi.

Se fossimo capaci di guardare le cose dal loro punto di vista capiremmo forse quanto l´unità oggi sia qualcosa di sideralmente lontano dalla realtà quotidiana oltre che dalla prospettiva futura del Paese. E non è certo un caso se quei profughi non vogliono restare in Italia e si dirigono verso altri Paesi, verso quell´Europa da cui oggi ci si vorrebbe addirittura dividere. Quella parola "divisione" affiorata oggi nelle esternazioni del premier è da prendere sul serio: è grazie al suo governo, grazie a un ministro degli Esteri che si occupa di Antigua e a quello degli Interni che pensa alla Padania, oggi l´Italia non solo non ha più una politica mediterranea, ma non ha da tempo nessun credito e nessun peso nella politica europea. Ci sarà modo di risalire da questo abisso? Forse: ma certo non con questi uomini: non con una maggioranza sedicente di governo che passa le sue giornate in Parlamento affannandosi a regalare a ogni costo una nipotina all´esiliato signore dell´Egitto.

«Il triumvirato di Francia, Gran Bretagna e Stati uniti ha violato la Risoluzione 1973 che invocava "sforzi umanitari per evitare che i militari di Gheddafi entrassero a Bengasi", schierandosi a favore degli insorti con i raid della Nato e ora armandoli. Consapevoli così di mettere al sicuro le maggiori riserve di petrolio libico in Cirenaica, di fronte ormai all'inaffidabile Gheddafi»

«L' attacco militare alla Libia da parte del triunvirato imperiale di Gran Bretagna, Francia e Stati uniti e dei riluttanti "volenterosi" non ha nulla di "umanitario". È una guerra, punto e basta. Le motivazioni addotte dai leader politici ed opinionisti per questo intervento invocando scopi "umanitari" è inesistente, perché ogni ricorso alla violenza militare viene da sempre giustificata, anche dai peggiori mostri come Hitler, per autoconvincersi della verità di quanto asseriscono. Basti pensare a Mussolini, quando invase l'Etiopia. I massacri della popolazione civile vennero vantati «per apportare i benefici della civilizzazione alla popolazione oppressa e l'apporto diun futuro meraviglioso». Questo sarebbe quello che chiamiamo umanitario? Anche Obama può credere che la motivazione dell'intervento militare in Libia è a scopi "umanitari". Ma un quesito essenziale e molto semplice da porsi sulle reali motivazioni per l'intervento militare in Libia è un altro. Questi nobili intenti espressi dal triunvirato imperiale che si definisce "intervento umanitario e alla responsabilita di proteggere le vittime" è diretto alle vittime dei brutali crimini da loro commessi, oppure dei crimini commessi dai loro fedeli clienti? Ha Obama, per esempio,invocato la no-fly zone durante la criminale e distruttiva invasione del Libano da parte di Israele nel 2006, e da loro appoggiata? Non ha forse Obama strombazzato con vanto, durante la sua campagna elettorale, che in Senato aveva sottoscritto l'invasione israeliana del Libano con la richiesta di punizioni per l'Iran e la Siria per essersi espressi contro?».

È con questa spietata demistificazione storica che Noam Chomsky, linguista, filosofo e storico oppositore americano, apre l'intervista al manifesto sulla guerra in Libia.

Quali sono le violazioni commesse da quello che lei chiama «triunvirato imperiale», subito dopo aver ottenuto la Risoluzione l973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con il mandato addotto «di proteggere la popolazione degli insorti in Libia da una imminente carneficina delle forze di Gheddafi»?

La Risoluzione delle Nazioni Unite approvata dai membri della Coalizione e dai reticenti «volenterosi» con ampio mandato, invocava «sforzi umanitari per evitare che le forze militari di Gheddafi entrassero a Bengasi per evitare una carneficina». La Coalizione del triunvirato, ignorando in toto il mandato, si è precipitata immediatamente ad agire ben oltre le dichiarazioni espresse nella Risoluzione Onu, anzi interpretandola come una autorizzazione istituzionale ad una diretta partecipazione militare schierata a favore degli insorti. Fornendo loro appoggio militare con i bombardamenti della Nato, ben consapevoli così di mettere al sicuro le maggiori riserve di petrolio libico in quella parte del paese, cioè in Cirenaica. La Risoluzione l973 non fa affatto menzione della licenza di schierarsi dalla parte degli insorti libici. In secondo luogo, la decisione intrapresa dalla Coalizione nella dichiarazione d'intenti del mandato Onu viola «l'embargo di armi interne ed esterne al paese» da essi stessi sottoscritta alle Nazioni Unite, nel momento in cui si deciderà, e si sta decidendo, di armare gli insorti. Questo comporta inevitabilmente l'invio di forze militari da combattimento in Libia per l'addestramento degli insorti, disorganizzati e privi di efficiente munizionamento per contrastare le forze di Gheddafi. Di fatto, il triunvirato imperiale costituito da Francia, Gran Bretagna e Stati uniti è direttamente partecipe e coinvolto nella guerra civile in Libia. Se questo era l'intento vero, è bene che lo si sappia. Chiamiamo tutto questo «umanitario»?

Qual è il reale obiettivo di Sarkozy e di Cameron? C'è anche un riscontro interno che loro hanno ricercato, in Francia e in Gran Bretagna?

Proprio questo sospetto. Che la guerra in Libia venga usata come diversivo per la politica interna, visto anche il crollo ai minimi storici della loro popolarità.

Quanto conta la questione del prezioso petrolio libico?

Il controllo delle risorse petrolifere della regione mediorientale resta il movente principale per le potenze occidentali. Ma in termini nuovi e particolari. Gli europei in particolare non sono tanto preoccupati dall'accesso alle riserve petrolifere libiche, quanto al controllo di quelle ancora in mano a Gheddafi ormai non piu affidabile. Ricordiamoci che sino a poche settimane fa intercorrevano splendidi rapporti di scambio commerciale e di forniture di armi tra Stati uniti, potenze occidentali come Francia e Gran Bretagna e Gheddafi. Un altro fattore che risulta da documenti ufficiali sia degli Stati uniti sia della Gran Bretagna, è l'enfasi ribadita del timore costante che nel mondo arabo possa prendere piede un nuovo «virus nazionalista» di stampo neo-nasseriano. Il rischio sarebbe quello di veder orientare o sottomettere i profitti delle riserve petrolifere verso le richieste socioeconomiche delle proprie popolazioni.

Se sussiste per le potenze occidentali il rischio del «virus nazionalista» e del controllo delle riserve petrolifere, come influirà il caso della Libia sul mondo arabo tantopiù in rivolta contro i propri regimi?

Un dittatore affidabile o clientelare non si tocca. Di fatto non c'è stata nessuna reazione né imposizione della no-fly zone da Washington quando la dittatura saudita è intervenuta solo venti giorni fa in Bahrein, massacrando la popolazione che insorgeva per le riforme. Il Bahrein è uno stato fondamentale, geostrategico per gli Stati uniti. Lì è alla rada la Quinta Flotta Americana del Golfo. Negli stati dove le risorse di idrocarburi non abbondano, la tattica perseguita è sempre la stessa: per gli Stati uniti, quando il dittatore-cliente è nei guai lo si appoggia e lo si sostiene fino a quando è possibile. Quando non è piu possibile ecco che segue una pletora di dichiarazioni ispirati all'amore per la democrazia e dei diritti umani. Il tentativo ultimo è quello del salvataggio del regime del dittatore diventato scomodo. La casistica è noiosamente familiare: Duvalier, Marcos, Ceaucescu, Mobutu, Suharto ed oggi Tunisia ed Egitto. La Siria per ora non presenta alternative che possano far comodo agli obiettivi che stanno a cuore agli Stati uniti. In Yemen un intervento militare creerebbe maggiori problemi a Washington. Così tutti gli esercizi di violenza cui stiamo assistendo con massacri della popolazione in rivolta, sollecita soltanto pietose dichiarazioni in nome della «democrazia» e dei diritti umani.

Come pensa andrà a finire in Libia e quali prospettive restano alle primavere del mondo arabo?

Nessuno è in grado di prevedere sino a quando sarà possible reprimere movimenti popolari nello scontro col potere costituito. Possiamo soltanto comprendere perche questo avvenga. In Tunisia ed Egitto il vecchio regime è piu o meno vigente, senza l'apporto di salienti cambiamenti socioeconomici a favore dei movimenti popolari, con piccole vittorie seppure molto importanti. Quanto alla Libia, che è una caso molto diverso, dopo l'intervento «umanitario» del triunvirato occidentale è prevedibile una spartizione del paese in due parti: una parte in mano agli insorti, ricca di riserve petrolifere con giacimenti sul territorio ancora non sfruttato, fortemente dipendente dalle potenze imperiali dell'occidente; ed un'altra parte che resta con un Gheddafi depauperato del suo potere. E in una Libia di fatto più impoverita. Una volta assicurato il controllo dei pozzi petroliferi potremmo trovarci dinanzi ad un nuovo «emirato libico», quasi disabitato, protetto dall'Occidente e molto simile geostrategicamente al resto degli emirati del Golfo Persico.

Un operatore di call center mi dice che qualche anno fa viveva al centro di Roma, divideva l'affitto con un amico e aveva tempo per suonare e andare in tournée. Si considerava un musicista e utilizzava il call center come sponda. Adesso sta in periferia con tre studenti, lavora full time per sopravvivere, non ha più tempo per suonare e comunque anche la richiesta di concerti è diventata così striminzita che non ci camperebbe. Mi dice «ho quasi cinquant'anni, non ho una famiglia e va a finire che torno a vivere con mia madre».

Allora dov'è la precarietà? Non è solo un problema di stage non pagati, di assunzioni a tempo determinato, di lavoro nero e licenziamenti facili. Mille e cinquecento euro al mese basterebbero se una famiglia ne pagasse duecento d'affitto. Basterebbero se una donna e un uomo avessero la certezza di lavorare fino al giorno della pensione. Basterebbero se il figlio di un operaio studiasse in una classe con meno di venti bambini, ricevesse una vera formazione che comprendesse le lingue straniere e la musica, la storia contemporanea e il teatro... Basterebbero se quella famiglia avesse attorno una comunità che la sostiene, un servizio sanitario che la cura quando sta male. E invece l'operaio che pensava di essere assunto a tempo indeterminato vede in televisione un padrone col maglioncino che gli sfila i diritti da sotto i piedi, il sindaco (sedicente di sinistra) che va a giocarci a scopetta e prega il proprio partito di affiancarsi alla battaglia padronale. Porta il figlio in una scuola dove i suoi compagni sono così tanti che la maestra ci mette un mese per imparare i nomi, una scuola che funziona solo per l'impegno degli insegnanti che non hanno ancora mollato, che non sono ancora scoppiati per l'umiliazione continua alla quale sono esposti. Un lavoratore è precario non solo per la precarietà del suo lavoro, ma soprattutto perché sono precari la scuola, la casa, l'assistenza sanitaria, i trasporti, l'informazione, la cultura, il cibo che mangia e l'acqua che beve, l'energia che consuma e i vestiti che indossa.

Invece io dico che la scuola è solo pubblica. Dico che la scuola privata è una questione privata, un'azienda che deve prendere due lire solo in quel paesino di montagna dove non è ancora stata costruita quella statale. Dico che accettare oggi una riduzione dei diritti in fabbrica significa che domani quei diritti si ridurranno ancora di più. Dico che se un lavoratore accetta di lavorare per uno stipendio ridicolo non fa solo una scelta personale, ma sta costringendo tutti gli altri ad essere sottopagati, così come un lavoratore che sciopera e ottiene il riconoscimento di un diritto, lo fa anche per quello che entra. Dico che seicento euro d'affitto per un monolocale seminterrato in periferia (c'era il cartello nella piazza della mia borgata fino a poche settimane fa) è un furto e quando la casa non si trova: la si occupa. Dico che se acquisto un paio di scarpe sottoprezzo sto sfruttando un operaio e se compro a mio figlio un pallone cucito da un bambino dall'altra parte del mondo sono peggio di un pedofilo. Dico che se prendo l'acqua da bere al supermercato e uso quella potabile che esce dal mio rubinetto per lo sciacquone del cesso sono un pazzo pericoloso. Dico che non sono un uomo moderno se accetto la devastazione di una valle per farci passare un treno veloce che impiega un'ora di meno per portarmi in Francia: sono un criminale. Penso a una donna del trentino che va al supermercato a comprare un chilo di mele cilene. Se quelle mele costano meno di quelle coltivate sotto casa sua è evidente che in Cile c'è un contadino sfruttato e uno del trentino che resta disoccupato, un aereo che inquina inutilmente l'oceano e una piccola frutteria che chiude. Il lavoro era precario vent'anni fa. Oggi è la nostra visione del mondo ad essere precaria. Io non cerco voti per le prossime elezioni, né tessere per la prossima campagna di tesseramento. Non ho bisogno di carne da macello per la prossima guerra umanitaria o vittime del destino per il prossimo terremoto. Non scendo in piazza per un lavoro a tempo indeterminato o per qualche centesimo che il ministero della cultura succhia dai serbatoi della benzina. Non voglio mettere all'ordine del giorno del prossimo consiglio dei ministri o del prossimo talk show, del prossimo monologo teatrale o della prossima canzonetta il solito discorso del giovane sottopagato o disoccupato. Io dico che questo sistema violento mi fa paura e so che per liberarcene dobbiamo pacificamente far paura al sistema.

Lo chiamano l'Untore. "È un omino, piccolo, tarchiatello, stempiato, che passa quasi tutte le mattine all'Ufficio Condono Edilizio del Comune di Roma. Accede senza problemi alle stanze off limits, gli basta fare il nome del dirigente P. ed entra. Posa la sua ventiquattrore sulla scrivania del tecnico o del funzionario di cui ha bisogno, la apre, lascia sul tavolo la mazzetta e un foglietto con scritto il numero della pratica da "ungere", poi se ne va. L'ho visto io, con i miei occhi, decine e decine di volte".

Scene di straordinaria quotidianeità, al comune di Roma. A raccontarle è il testimone V., un tecnico che per undici anni ha lavorato in uno dei punti chiave del "sistema condono edilizio" della Capitale. In questi giorni viene ascoltato dalla Guardia di Finanza, nell'ambito di un'indagine su alcuni accessi abusivi al sistema informatico dell'Ufficio Condono. Dopo un fiume di denunce ed email al sindaco Alemanno, V. ha deciso di raccontare tutto a Repubblica. Un racconto sconvolgente che parte da un'affermazione netta: "Il condono edilizio è la più grande tangente che sia mai stata pagata nel Lazio".

La cupola e il tariffario

"All'interno dell'Ufficio Condono Edilizio - dice - esiste un clan, una cupola composta da alcuni inamovibili funzionari comunali e da almeno sette dipendenti di Gemma". Gemma è la società pubblico/privata che ha gestito per conto del Campidoglio le pratiche del condono fino al giugno del 2010. "Il potere di dare o rifiutare una concessione è tutto nelle mani del clan che quindi gestisce la tangente". Una tangente anomala, che pur provenendo da mille diversi rivoli finisce per riempire sempre la stessa mano. Quella del clan. Il meccanismo è molto semplice. Il cittadino deve essere spremuto ad ogni passaggio, da quando presenta la sua pratica, "i dipendenti chiedono soldi anche solo per dare il numeretto dell'eliminacode, 50 euro l'uno", a quando porta a casa la benedetta concessione.

Il problema con i condoni è sempre lo stesso: la gente pretende di mettere a posto opere che non si possono mettere a posto. Allora entra in ballo la cupola, che provvede a tutto. Basta pagare. Come in tutti i mercati organizzati, anche in questo racket esiste un tariffario. "La cifra varia a seconda dell'importanza dell'abuso e della "delicatezza" del luogo dove è stato costruito. Si va dai 5.000 ai 30.000 euro a condono, ma anche di più. Hanno offerto tangenti anche a me. Ho sempre rifiutato". Se invece la pratica è "buona", cioè sanabile, allora la si fa rimbalzare da un ufficio all'altro di Gemma finché qualcuno del Comune si avvicina al cittadino esasperato e gli dice chiaro e tondo: "La sua è una pratica difficile, si rivolga a uno studio tecnico privato", e gli passa l'indirizzo giusto. Quello di una delle solite cinque o sei "Società di sviluppo immobiliare", insomma geometri e architetti. Queste società nella migliore delle ipotesi sono "amiche" della cupola. Nella peggiore ne sono direttamente partecipate. L'Untore, per capirsi, lavora per una di queste.

I sistemi

Il pagamento della tangente è solo metà dell'opera. Perché poi bisogna saper aggiustare la pratica. E qui si entra nel campo dell'arte. In generale il sistema migliore è quello delle pratiche in bianco, buono per tutti gli abusi. "Negli ultimi giorni utili per presentare le domande, il dirigente G. si era inventato di "protocollare" alcune pratiche in bianco". Cioè dei fogli bianchi col timbro certificato del Comune ai quali aggiungere successivamente i dettagli dell'abuso. In teoria si potrebbe costruire una villa in un parco domani mattina e farla apparire condonata nel 2004. "Ancora oggi esiste un mercato di queste pratiche "pre datate". Costano 50mila euro l'una. Una notte, sotto i miei occhi ne vennero fabbricate 500".

Ma i sistemi sono anche più brutali. "Ho trovato pratiche con modelli "sbianchettati", nei quali erano state diminuite le metrature reali dell'abuso per rientrare nella sanatoria. Così si condona un appartamento di 200 metri quadrati facendolo passare per una verandina. Si possono sanare - con l'inganno - anche i "palazzi fantasma": si presenta una domanda di un abuso mai fatto corredata da una foto ad un palazzo qualunque, modificato con Photoshop, la si inoltra prima dello scadere del condono, e poi si costruisce dopo. Altre volte vengono aggiunti dei documenti nei fascicoli e, siccome non sono protocollati, gli impiegati se li passano al bar o dalle finestre".

I documenti e le prove

Il racconto di V. si fa forte di molte prove documentali. C'è la mail di un dipendente comunale che suggerisce al cittadino il solito studio tecnico privato "vista la situazione un po' burrascosa dell'ufficio". C'è la visura camerale dello Studio Tecnico S. che "incastra" un funzionario dell'Ufficio Condono: ne è il diretto proprietario. Uno di quelli col doppio lavoro. La sera in qualità di tecnici privati prendono i soldi della tangente, il giorno dopo come dipendenti comunali portano avanti la pratica. Ci sono alcuni esemplari dei suddetti modelli in bianco protocollati. Ci sono certificati di pagamento effettuati all'apparenza senza motivo, come quei 2.160.000 lire segnati su una pratica del 1986, una sorta di Gronchi rosa delle tangenti. E poi ci sono i bollettini di pagamento contraffatti, campi sportivi che cambiano dal nulla la destinazione d'uso e diventano parcheggi. Ci sono i documenti che testimoniano la pressione della direzione dell'Ufficio Condono per modificare la domanda per uno stabile di 3000 mq di una grossa società, scavalcando tutte le procedure.

"La corruzione in quegli uffici c'è dal 1995 ma ultimamente è diventata sempre più diffusa. E quanto al sindaco Alemanno, beh, è a conoscenza che ci siano pratiche manomesse e irregolari. Gemma gliel'ha scritto in più di una lettera".

Postilla

Mentre il governo si appresta a varare l’ennesima sanatoria – il decreto blocca ruspe – per i così detti abusi di necessità in Campania, comincia ad emergere nella sua devastante ampiezza il fenomeno della corruzione che alligna accanto a quello altrettanto devastante dell’abusivismo, degradando il nostro paese a livelli da quarto mondo quanto a civiltà amministrativa e capacità di governo del territorio. Il quadro che ne deriva è quello di una società ormai completamente indifferente ad ogni sistema di regole. Dal suo osservatorio privilegiato eddyburg denuncia da sempre il fenomeno dell’abusivismo che per quanto riguarda la capitale si tinge di un ulteriore gravissimo aspetto negativo, che è quello di devastare territori preziosissimi anche sotto il profilo culturale. Primo fra tutti l’Appia antica, area nominalmente a tutela integrale , soprattutto grazie alle battaglie di Antonio Cederna, dove, al contrario, le costruzioni abusive non sono mai cessate. Piscine, gazebo, capannoni, ville ampliate a dismisura anche in tempi recentissimi: esattamente sui resti archeologici di monumenti antichi secondo l’ormai intoccabile principio del “ciascuno padrone a casa propria” che ha di fatto obliterato l’art. 9 della Costituzione.

Le denunce che la Soprintendenza Archeologica ha condotto in assoluta solitudine, ma instancabilmente, in tutti questi anni, nell’indifferenza dell’Ente Parco, affaccendato su primule e poiane, non hanno mai trovato il benchè minimo riscontro presso gli uffici comunali. Cominciamo a capire perchè. (m.p.g.)

Ogni giorno sette Piazze del Duomo in più

di Simone Bianchi

Il cemento dilaga in Lombardia e aumenta a un ritmo impressionante, l’equivalente di sette piazze Duomo al giorno. Legambiente e l’Istituto nazionale di urbanistica lanciano l’allarme: a Milano e in provincia il tributo quotidiano al cemento è di 20mila metri quadrati, secondo posto sotto Brescia, mentre nel rapporto tra aree urbane e verdi il record negativo spetta a Monza e Brianza dove le prime hanno superato il 50 per cento. Legambiente propone una legge che introduca oneri a carico di chi costruisce in zone aperte invece che in aree cittadine dismesse. L’assessore regionale Belotti: «Siamo favorevoli, ma subito non si può».

Come la lava di un vulcano il cemento avanza e "consuma suolo". Corre veloce, cancellando ambienti naturali e vegetazione spontanea, ma anche aree agricole. Ogni giorno in Lombardia vengono urbanizzati 117mila metri quadrati, una superficie pari a circa sette volte piazza del Duomo a Milano. La superficie che si perde invece ogni giorno in provincia è di circa 20mila metri quadrati.

Sono i dati contenuti nel rapporto 2011 sul consumo di suolo presentato da Legambiente, Istituto nazionale di urbanistica e il Centro di ricerca sui consumi di suolo di Milano. Il cemento inonda anche la città, sempre di più: il 78,1 per cento del territorio milanese è ormai costruito. E si procede al ritmo di due ettari al giorno, secondi solo a Brescia.

«Ci stiamo giocando un patrimonio di ambiente» dice il presidente di Legambiente Lombardia, Damiano Di Simine. Ma c’è anche un rischio economico: «Perdiamo la risorsa naturale più preziosa su cui si costruisce gran parte della ricchezza della nostra regione». A suo avviso in futuro andrà peggio, perché «nel Pgt che l’assessore Masseroli ha condito con richiami alla parola d’ordine "non consumeremo suolo", ci sono previsioni reali di consumo dell’1,5 per cento. Non è tanto in assoluto, ma per Milano lo è, visto che di superficie libera ne è rimasta poca». Per il direttore della Coldiretti Lombardia, Eugenio Torchio, non si può andare avanti così: «È come se sparissero ogni giorno i terreni di due aziende agricole».

In tutta la Lombardia, spiega il rapporto, un quarto delle superfici agricole produttive è andato perduto. Il cemento aumenta: la superficie urbanizzata a Milano è passata dai 56.660 ettari del 1999 ai 62.619 del 2007. Un incremento di 5.959 ettari, un +10,5 per cento in otto anni. E nonostante la crisi economica sembra che la costruzione di nuove autostrade, centri commerciali e capannoni non si fermi mai. Mattoni, cemento e asfalto: con tutte le infrastrutture in programma da costruire a Milano e provincia, ancora ne arriveranno.

Oggi è coperto dal cemento il 39,7 per cento del territorio della provincia milanese: il dato è - solo apparentemente - contenuto poiché comprende tutti i comuni del Parco Sud, ancora relativamente ricchi di aree verdi. Ma ci sono anche i picchi in negativo. Come quello di Sesto San Giovanni, ricoperta dal cemento per il 95,2 per cento del suo territorio. Grandi colate anche a Bresso (asfaltata per il 93 per cento), a Corsico (86,7). Seguono Cologno Monzese con l’82,1 e Pero con l’80,3. Il più in pericolo, nel panorama delle provincie lombarde, è il (restante) verde brianzolo: la provincia di Monza e Brianza si ritrova infatti una superficie urbanizzata che, con il 53,2%, supera la metà del totale.

Legambiente propone una ricetta per evitare di continuare a riempire di cemento il territorio: una legge di iniziativa popolare che ponga paletti introducendo, ad esempio, oneri a carico di chi, potendo riutilizzare aree dismesse della città, decide invece di costruire in aree aperte. «Siamo molto interessati» dice l’assessore regionale all’Urbanistica, Daniele Belotti. Il quale, però, spiega che siccome finora soltanto il 30 per cento dei 1.549 Comuni della Lombardia ha approvato il piano di governo del territorio, «una norma così non si può fare subito». E non si potrà fino al 31 dicembre 2012, termine della proroga ai Comuni per l’approvazione dei Pgt. Prima di allora non si può intervenire con alcuna legge "ad hoc" che aiuti a salvare il suolo dal cemento.

Così finiscono i terreni agricoli

di Teresa Monestiroli

«Il suolo è una risorsa limitata per questo molto preziosa. Obiettivo del Pgt è ridisegnare una città che cresce, e si sviluppa, senza consumare nuovo territorio». Era il 4 febbraio quando un vittorioso Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica, presentava il principio base del suo Piano di governo del territorio dopo il voto del consiglio comunale.

Uno slogan diventato, nei mesi del dibattito in aula, un tormentone che le associazioni ambientaliste hanno sempre criticato. Non solo loro, però. Per Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale e ambientale del Politecnico, uno dei curatori del Rapporto 2011 sul consumo di suolo, «più che uno slogan è un artificio perché si ridefinisce il concetto di consumo di suolo a proprio favore. Il Pgt sostiene che nei prossimi vent’anni il suolo urbanizzato scenderà dal 73 per cento di oggi al 65 del 2030. Una cosa mai vista, peccato che non sia vera. Per raggiungere quella quota infatti il Comune ha inserito nel "non urbanizzato" anche viali alberati e giardini cittadini. In nessuna parte del mondo il verde urbano è considerato "area non urbanizzata"».

Il principio masseroliano, a ben vedere, è realistico solo in parte. Si legge nel documento di piano che la città non potrà estendersi oltre i suoi confini attuali, ma potrà solo ricostruirsi in quelle zone dove oggi c’è degrado e abbandono, come gli scali ferroviari dismessi, per fare un esempio. «Ci sono grandi aree cittadine che sono oggi degrado puro - risponde alle critiche l’assessore - ambiti come gli scali ferroviari e tutta l’area della Bovisa, dove sorgeranno anche grandi parchi. Il consiglio comunale ha votato un aumento di verde pari a 3 milioni di metri quadrati che sorgeranno dove oggi c’è abbandono. Questa è riduzione del suolo urbanizzato». Ma, nota Legambiente, il Pgt rinuncia alla vocazione agricola di questa città perché, attacca Damiano Di Simine, «ci sono aree agricole che verranno riqualificate con la nascita di nuovi quartieri, invece che riportandole alle origini di terreni coltivabili».

Se dunque alcune aree come Bovisa o Stephenson, dove rispettivamente arriveranno 740 mila metri quadrati e un milione e 235 mila metri quadrati di costruito, sono zone ex industriali da bonificare o comunque già edificabili, nei piani di trasformazione urbana del Pgt rientrano anche terreni oggi agricoli che un domani diventeranno quartieri abitabili. Un esempio su tutti è l’area Expo, per due terzi coltivabile, che un domani sarà certamente costruita, ma anche Cascina Merlata e la Città della Salute che riunirà l’ospedale Sacco, l’Istituto neurologico Besta e l’Istituto dei Tumori. Tre nuovi insediamenti che, dopo il 2015, sorgeranno in una delle zone più attrezzate di Milano. «L’urbanizzazione segue le infrastrutture - continua il professor Pileri - In provincia di Milano le aree più costruite sono quelle lungo l’asse nord - ovest che passa per la fiera di Rho-Pero e va verso Novara, e quello sud - est lungo i binari dell’alta velocità fino a Lodi. Negli ultimi anni è qui che sono cresciuti i maggiori insediamenti».

È proprio lungo la direttrice sud - est che si trova Porto di Mare, altro punto di riqualificazione che, stando ai numeri del Piano, attirerà 530mila metri quadrati di cemento, una volta destinati alla Cittadella della Giustizia e domani chissà. L’area, a cavallo del Parco Sud, è per metà occupata da nomadi. Le volumetrie, garantiscono a Palazzo Marino, atterreranno solo nei metri quadrati di terreno fuori dal parco. Ma perché non estendere il verde, visto che la proprietà è del Comune? Risponde a modo suo Paola Santeramo, presidente della Confederazione italiana agricoltori: «Abbandonare le aree a se stesse e consegnarle al degrado è una politica ben precisa: prima si lasciano deperire i terreni, poi si dice che bisogna riqualificarli.

Le aree agricole sono molto appetibili perché costano poco e non hanno bisogno di bonifiche: basta cambiare la destinazione d’uso e il gioco è fatto. Forse però bisognerebbe ricordare che la Pianura Padana è la zona in Italia con il record di terreni fertili. Se perdiamo questa produttività ne risentirà tutto il paese». Il rischio delle continua cementificazione, che a Milano è arrivata al 78 per cento del totale, ma che a Sesto San Giovanni ha raggiunto addirittura il 95% così come in molti comuni nel Nord, è che si inizi a erodere anche il Parco Sud Milano, zona che fa gola ai costruttori. «Il Parco è rimasta la nostra unica chance di respirare - continua la Santeramo - Una volta che il terreno agricolo viene urbanizzato, per riportarlo alla sua origine ci vogliono mille anni. Credo che Milano, attanagliata dalla smog, non possa permettersi di perdere questo polmone».

Oggi si apre a Milano il processo Ruby, e qualcosa di strano sta accadendo, nonostante l´ora sia grave e parecchio miserabile. Un presidente del Consiglio è incriminato per aver abusato del proprio potere, costringendo la questura a rilasciare una ladruncola che gli stava a cuore e non esitando a spacciarla per la nipote di Mubarak. Pende anche l´accusa di favoreggiamento di prostituzione minorile, perché Karima El Mahroug (Ruby) frequentava festini a Arcore, prima della maggiore età.

E li frequentava assieme a ragazze che si prostituivano in cambio di soldi, gioielli, appartamenti, carriere. Le prove sono tali che è stato scelto il rito abbreviato. Un dramma insomma, per un uomo che addirittura anela al Quirinale: e tale resta anche se la Consulta approvasse il parere espresso dalla maggioranza dei deputati, secondo cui il premier non è giudicabile da tribunali ordinari. Un´esperienza non invidiabile, quantomeno, e chiunque si sarebbe aspettato dall´imputato, in ore così cupe, un atteggiamento adatto alla circostanza: i latini lo chiamavano gravitas, virtù di chi governa (lo è ancora, nell´articolo 54 della Costituzione). Da sempre, la calamità personale è la verifica dell´attitudine al comando.

Ma nel mondo di Silvio Berlusconi non è così. Se solo proviamo a penetrarlo, vedremo che è un mondo parallelo, in tutto somigliante all´allestimento, al casting, al linguaggio delle televisioni commerciali. La realtà sfuma in irrealtà e viceversa, i protagonisti non parlano ma recitano copioni preconfezionati, il pubblico plaudente è esibito come popolo, qualche comparsa emette fandonie. Questo è il premier, specie in questi giorni: una comparsa buffonesca, che sghignazza su quel che fra poco, anzi oggi, sta per accadergli. L´Italia intera è un suo villaggio Potemkin, fatto di cartapesta colorata per occultare detriti e rovine.

Nel villaggio lui è re, e ride ininterrottamente, di tutti e anche di sé. Il sipario del processo sta per alzarsi ed eccolo che il 2 aprile racconta una delle sue lunghe barzellette. Il pubblico batte le mani, e quest´euforia non è il capitolo meno sinistro del copione. Se Karima ha un nomignolo possiamo darlo anche all´autore della sceneggiatura: chiamiamolo Ubu Re, perché come nel dramma di Alfred Jarry prende il potere per «mangiare più salsicce, comprarsi ombrelli, far soldi»; perché promuove i corrotti, elargisce denaro perché glielo consiglia Mamma Ubu, annienta i nobili e soprattutto i magistrati, condannati a vivere delle multe comminate e dei beni dei condannati a morte.

Le barzellette sul caso Ruby mancano furiosamente di sottigliezza, non di furbizia. Sono pornografia allo stato puro, e la pornografia, si sa, cancella l´oggetto del desiderio facendolo vedere così da vicino che pare troppo vero per esser vero. Succede sempre, con l´osceno: quel che ammalia è il reale in eccesso, è l´iper-realtà (la parte del corpo è ingrandita come da una lente). «L´unico vero fantasma della pornografia non è il sesso ma è la realtà stessa, assorbita in qualcosa che non è reale, ma iper-reale», scrive Baudrillard sulla seduzione. Berlusconi non nasconde nulla di quel che fa ma anzi ne dilata i dettagli, li rende derisori, li evoca anche nei momenti in cui uno magari penserebbe ad altro. Di continuo siamo trascinati nel suo set-universo parallelo dove il reale si dissolve e l´assedio svanisce: perché se è derisorio lui quanto più lo saranno magistrati e giornalisti!

Ha un suo sogno ridicolo e non sottile, l´uomo Berlusconi, ma c´è del metodo e anche una cinica conoscenza delle cose, nel suo architettare villaggi finti: c´è la rappresentazione di una gioventù scombussolata da lavori senza futuro, e di un´Italia ridanciana, indifferente alle leggi perché dalle leggi non protetta. Un´Italia con la quale Ubu s´identifica, e che s´identifica con Ubu. Basta divenire padrone delle parole e delle leggi, per storcere gli eventi e capovolgerli. Risultato: quello di oggi non è un processo per concussione e minorenni prostituite. È un monumentale processo al desiderio, alla simpatia, alla leggerezza, alle risate. L´ironia, la più eccelsa delle arti, è usata come arma micidiale che sminuzza i fatti e li rende irriconoscibili. Niente mi minaccia, se ci rido sopra. Niente m´insidia, se come Napoleone m´impossesso dei sogni di soldati ed elettori. È il sotterfugio offerto sin dall´inizio dalle sue tv, tramite le quali conquistò le menti e l´etere. Lui ri-crea un mondo ma frantumato, e nel frammento vivi bene perché non vedi il tutto, non connetti i fatti tra loro sicché li scordi presto. Robin Lakoff, denunciando i nuovi demagoghi delle destre americane, parla di agenda dell´ignoranza.

Chi non dimentica il tutto, il contesto, è lui, il capo che sui falsi paesaggi ha idee ben chiare. Deve essere un paesaggio di emergenza e caos perenni, dove chi comanda si traveste da vittima, dove il potere continuamente deve essere espugnato, mai esercitato. Il Parlamento merita castighi, perché il leader sia solo davanti al popolo (davvero il premier ha sgradito gli insulti di La Russa al presidente della Camera?). Magistratura e Consulta hanno fame di potere politico, e vanno evirate. La Costituzione è un laccio. La politica non è manovrare, ma rimestare e smistare possibili ricatti. Gheddafi era così: ostile alle istituzioni rappresentative, incarnando il popolo si pretendeva inamovibile. Formalmente non governava lui ma i Congressi popolari. Lui, dietro le quinte, era Papà Ubu.

Resta la stranezza, il mistero. Perché tanto ridacchiare, alla vigilia del processo Ruby e di altri procedimenti? Quale spettacolo sta mandando in onda, di cui noi non siamo che ignoranti comparse? Quali leggi e stratagemmi inventerà Ubu perché ogni processo si spenga? L´obiettivo è la negazione del reale, ma c´è un più di violenza, c´è una tattica bellica preventiva presa in prestito dallo Spirito dei Tempi. Tutto è annuncio preventivo, prima che il reale si avveri, ne abbiamo conferma proprio in questi giorni nella guerra di Libia: anche qui viviamo eventi senza conoscerli, che paiono escrescenze delle tv commerciali. Ci sono stati certamente massacri, da parte di Gheddafi. Ma quanti e dove? I cronisti dicono che ci sono stati, ma non visti perché mancavano le telecamere. La tv commerciale fa legge, prima ancora che le cose avvengano: «Lo dice la televisione», e performativamente il fatto esiste. In un blog intitolato Una Storia Noiosa leggo: «Il fact finding/checking viene sostituito da immagini che non esistono, ma che se esistessero testimonierebbero indubitabilmente la realtà di questi fatti, di cui peraltro il giornalista non è testimone diretto. Vertiginoso. Nasce il genere del "reportage preventivo". Non so dire se siamo al funerale dell´immagine o al suo trionfo: l´immagine può permettersi di non esistere fisicamente, tanto tutti diamo per buono che rappresenterebbe fedelmente quella che già sappiamo essere la realtà» (http://du57.wordpress.com/).

Nel mondo di Berlusconi, la guerra al reale si fa preventiva. Più precisamente, e in conformità al personaggio: si fa apotropaica (apotropaico è il gesto che allontana e annulla un´influenza maligna: per esempio, toccar ferro). Apotropaico è il modo in cui ha difeso, il 10 marzo, la riforma della giustizia: se si fosse fatta nel ´92-93, Tangentopoli sarebbe proseguita indisturbata, non ci sarebbero state Mani Pulite né «l´invasione da parte della magistratura della politica e l´annullamento di un´intera classe dirigente».

Una risata vi seppellirà. Lo promette Berlusconi, forse dimenticando che furono gli anarchici dell´800 e la sinistra estrema nel ´900 a coniare lo slogan. Fortuna che abbiamo Lao Tzu, che da 2.500 anni dice, della via saggia e giusta: «Quando un dotto di prim´ordine sente parlare della via, la segue rispettosamente. Quando un dotto di mezza levatura sente parlare della via, ora la mantiene ora la perde. Quando un dotto d´infimo ordine sente parlare della via, si fa una grande risata».

«Nessuno si arrischierà a dire che la libertà d’azione dei singoli proprietari privati conduca al miglior risultato desiderabile: i piani generali o parziali devono essere fatti dall’autorità comunale». A pronunciare queste parole, nel 1906, non era un sovversivo comunista, ma un liberale che insegnava economia politica al Politecnico di Milano e alla Bocconi (di cui sarà Rettore dal 1930 al 1934). Ulisse Gobbi, questo il suo nome, era fermamente convinto che «la buona sistemazione del proprio territorio è il primo compito del Comune, a cui esso deve provvedere con tutte le sue forze». Ne è passata di acqua sotto i ponti. A più di un secolo di distanza, sciogliere le briglia al branco selvaggio della speculazione è divenuta la missione di chi gestisce la cosa pubblica. Evidentemente per costoro l’immagine dei volumi riversati sulla città e sulla campagna dalla cornucopia immobiliarista annulla ogni preoccupazione per la qualità degli aggregati insediativi e della vita che sono destinati ad accogliere. Basta fare un giro dalle parti di Citylife o di Porta Nuova per avere un assaggio di quello che la staffetta Albertini-Moratti (Formigoni benedicente) ha preparato per Milano: devastazione, bruttezza, arroganza, invivibilità.

Il nostro professore di economia politica si preoccupava che «attività, intelligenze, capitali» rimanessero disponibili per sostenere quelle intraprese «che giovano ad accrescere il benessere del Paese». Poiché, poi, «l’aumento di valore del terreno edilizio costituisce un guadagno che non è il compenso di nessuna opera utile», bensì il frutto per lo più di investimenti compiuti dalla collettività in infrastrutture e servizi, è bene, sosteneva Gobbi, che la rendita torni alla casse pubbliche. Da qui la sua proposta di una sistematica politica demaniale, condotta estendendo il principio di pubblica utilità introdotto in Italia dalla legge 25 giugno 1865 (esproprio per esecuzione dei piani regolatori) e ampliato dalla legge 31 maggio 1903 (case popolari).

Il mattone e nulla più. Quella che viene sbandierata come la formula in grado di assicurare lo sviluppo è in realtà la via maestra che conduce dritto a due esiti catastrofici: la crisi finanziaria della pubblica amministrazione, e la perdita di competitività economica del Paese. La gran massa di denaro (dei risparmiatori) che Intesa Sanpaolo e Unicredit immobilizzano per soccorrere i vari Zunino e Ligresti viene tolta a quegli impieghi di cui la Lombardia e l’Italia avrebbero quanto mai bisogno: formazione, ricerca e modernizzazione dell’apparato produttivo.

La vicenda dei terreni destinati a ospitare l’Expo 2015 è a suo modo esemplare. Si sceglie di localizzare la manifestazione in una vasta area di proprietà privata, si mette a punto un progetto e un correlato programma di interventi infrastrutturali. Risultato: la proprietà dell’area si ritrova nella condizione di pretendere un considerevole aumento di valore senza aver fatto alcun investimento. A questo punto tra gli amministratori di scatena una guerra di lobby, tra chi vuole acquistare l’area a caro prezzo e chi vuole ripagarne l’uso in comodato con concessione di volumetrie. Comunque la si rigiri, la conclusine della vicenda è quella di un considerevole trasferimento di denaro dal pubblico al privato. Un’amministrazione che avesse avuto a cuore il bene pubblico avrebbe acquistato preventivamente i terreni a prezzi agricoli (mettendo in concorrenza diverse aree) così da togliere di mezzo gli appetiti redditieri in un’impresa che si propone di misurarsi con ben altra fame.

Le ruspe lavorano. Il verde della vegetazione mediterranea scompare, lascia spazio al giallo della terra che emerge, come una ferita. Ecco la grande piscina dell’Hotel Roca di Monterosso. Piscina dei record: sarebbe la prima di tutte le Cinque Terre. Non ancora finita e già si trova al centro delle polemiche, e degli esposti degli ambientalisti. Non solo: il suo progettista è l’architetto Mario Semino. Già, negli anni Ottanta era Sovrintendente della Liguria, insomma era il custode del patrimonio architettonico e ambientale della regione. Mentre oggi è l’autore di un progetto che fa tanto discutere. Strano destino. E c’è chi ha paura che quella piscina (di acqua salata pompata dal mare), quella chiazza azzurra sospesa sul mar Ligure possa essere il passo decisivo verso il definitivo sbarco del Partito del Cemento alle Cinque Terre, uno dei tratti di costa più famosi d’Italia. Dove ogni anno arrivano milioni di turisti, molti stranieri.

I primi allarmi sono partiti negli anni scorsi. Gli ambientalisti puntarono il dito contro la costruzione di villette nel villaggio turistico a picco sul mare di Corniglia (operazione sostenuta da Franco Bonanini, l’ex direttore del Parco, vicino al centrosinistra, arrestato l’anno scorso). Poi ecco il nuovo edificio destinato a ospitare una scuola nei boschi di Pianca. Quindi la sede del Parco vicino alla stazione di Manarola. Per finire con la funivia che dovrebbe partire alle spalle di Monterosso. Insomma, alle Cinque Terre gli allarmi si moltiplicano.

Ma il racconto deve partire dall’inizio, da Monterosso, comune feudo del centrodestra. Primo, semplicemente perché qui l’opposizione non esiste. Il centrosinistra non è nemmeno presente in consiglio comunale. Roba da fare invidia alla Cuba di Fidel. Secondo, perché da queste parti si ritrovano tanti esponenti del mondo berlusconiano, da Luigi Grillo, potente presidente della Commissione Opere Pubbliche e Comunicazioni del Senato, a Maurizio Belpietro, direttore di Libero. Qui gli ambientalisti sono a mal partito. Si battono contro i nuovi garage, contro verande che compaiono all’improvviso su vecchi palazzi storici in riva al mare. L’ultimo allarme è proprio lei, la piscina dell’Hotel Roca.

Praticamente l’unica di tutte le Cinque Terre. Ma leggendo la relazione tecnico-descrittiva del 2004 sembra che non possano esserci dubbi: “La proprietà ha ritenuto indispensabile dotarsi di piscine”. Non solo: “Il Comune ha ritenuto il soddisfacimento di tale esigenza di sicuro beneficio per l’Hotel Roca nonché di miglioramento dell’immagine complessiva turistica del Comune di Monterosso”. Ancora: “Il nuovo Piano Regolatore in itinere, gia’ritenuto meritevole di approvazione dalla Regione Liguria, ha previsto in zona limitrofa all’albergo la possibilita’ di realizzare la piscine”.

Claudio Frigerio dell’associazione Ambiental-Mente, uno dei pochi a essersi battuto negli ultimi anni contro le operazioni immobiliari alle Cinque Terre, non e’ d’accordo. E ribatte punto su punto: “Non si capisce perché sia stata approvata la realizzazione di questa piscina, l’unica di una zona super tutelata, di un Parco Naturale”. Non solo: “Per consentire la realizzazione della piscina si è derogato a tutti i livelli di pianificazione territoriale, a livello comunale (Piano Regolatore), a livello di Parco Naturale e perfino a livello regionale”. Come è stato possibile? “Qualcuno ha sostenuto che la piscina per i clienti dell’albergo va costruita perché di interesse pubblico”. Ma il Piano Regolatore “in itinere” cui fa riferimento la relazione tecnica? Frigerio sorride:”E’ in itinere da dodici anni”.

Negli uffici del Comune respingono le accuse: “E’ tutto in regola”, assicurano. Certo, quella macchia chiara in mezzo al verde delle alture a picco sul mare, quelle ruspe che si mangiano i rilievi fanno venire la pelle d’oca. Non soltanto agli ambientalisti, ma alle migliaia di persone che con il primo sole della primavera sono arrivate a Monterosso. Adesso la parola passerà alla Procura che dovrà occuparsi dell’esposto (finora non ci sono indagati). Ma in Comune sono convinti della scelta e vanno avanti per la loro strada. Del resto non c’è nemmeno l’opposizione.

Buona notizia: Tremonti ha scritto a Repubblica (29 gennaio) smentendo di aver mai detto che «la cultura non si mangia». Pessima notizia: il governo Berlusconi (compreso Tremonti) si comporta come se quella stessa frase la cantasse in coro ogni mattina. Anche il reintegro dei (modesti) fondi per lo spettacolo, fatto a prezzo di un aumento della benzina, minimo ma identico per tutte le classi di reddito, lancia un messaggio chiaro: se volete più fondi per la cultura, pagherete più tasse, pagherete tutti. Nessuna menzogna di ministro o complicità di intellettuali inclini a genuflessioni, furberie e compromessi può nascondere che la scuola è in stato comatoso, che università e ricerca sono drammaticamente sottofinanziate, come anche musica, teatro, cinema, tutela del patrimonio e del paesaggio. In barba alla tradizione italiana e alle garanzie della Costituzione, chi ci governa vede le spese in cultura come un fastidioso optional, l’ultimo della lista.

Eppure Sandro Bondi, allora neo-ministro dei Beni Culturali, dichiarò il 3 giugno 2008 alla Camera che «l´Italia è agli ultimi posti in Europa per la spesa in cultura sul bilancio dello Stato: 0,28% contro l´8,3% di Svezia e 3% di Francia», e dichiarò «mi impegno ad invertire questa tendenza negativa». Risultato: 22 giorni dopo (il 25 giugno), con il decreto 112, il governo dimezzò la capacità di spesa dei Beni Culturali tagliando 1.200 milioni di euro. Da Bondi, neanche un lamento. Da allora, anzi, il suo (ex) ministero ha subito ulteriori tagli, e quello 0,28% è calato a qualcosa come lo 0,16%. In attesa, si suppone, di calare ulteriormente fino all´auspicato zero virgola zero. Davanti a questi dati, Soloni d’ogni osservanza spargono lacrime copiose,

ma poi subito levano le braccia al cielo, e proclamano: "Ma non ci sono risorse! Ma c´è la crisi!". Tanta rassegnata saggezza presuppone una piccola amnesia: l’evasione fiscale. Come hanno scritto Angelo Provasoli e Guido Tabellini sul Sole-24 ore (14 aprile 2010), «a seconda delle stime, il valore aggiunto non dichiarato varia tra il 16 e il 18% del Pil, con una perdita complessiva di gettito di oltre 100 miliardi di euro, pari a oltre il 60% dell´intero gettito Irpef». Perciò «la prima questione da affrontare è l’evasione fiscale», che «potrebbe essere debellata con investimenti non elevati». Recuperare subito l’1 o 2% delle tasse evase, e investirlo in cultura: perché no? Ma nulla in questo senso vien fatto, anzi le risorse che ci sono vengono investite senza alcuna lungimiranza. Per esempio, dopo la frana di Giampilieri che nell’ottobre 2009 uccise almeno 37 persone, Bertolaso dichiarò cinicamente che è impossibile trovare due miliardi per mettere in sicurezza le franose sponde dello Stretto, per giunta soggette a sismi di massima violenza (l’ultimo, nel 1908, seguito da tsunami: 120.000 morti). Si trovano, invece, i sette o dieci miliardi per costruire su quelle frane il Ponte. Si sono trovati cinque miliardi da dare a Gheddafi baciandogli la mano.

Tragica è ormai la situazione delle Soprintendenze, votate (lo ha detto Giulia Maria Crespi) «a una dolce morte»: l’età media del personale ha superato i 55 anni, le nuove assunzioni non sono nemmeno il 10% dei pensionamenti, il controllo del territorio è impossibile per mancanza di fondi. Intanto, nuove attribuzioni e compiti sono previsti dal Codice dei Beni Culturali varato da Giuliano Urbani (governo Berlusconi), con modifiche di Buttiglione e Rutelli: quanto di più bi-partisan, insomma, e forse per questo tanto disatteso. Più responsabilità, meno risorse umane e finanziarie: questo il copione degli ultimi anni, infallibile se si vuol chiudere bottega. E’ un miracolo se, sfiduciati e depressi anche per un’ondata di commissariamenti spesso dannosi, i funzionari delle Soprintendenze resistono in trincea.

Il nuovo ministro Galan ha inaugurato la sua stagione con segnali misti. Da un lato, ha dichiarato (Il Sole, 25 marzo) che non sarà «il sottosegretario di Tremonti», che occorrono nuove risorse e che è urgente «chiudere per sempre il capitolo della sfiducia, della depressione e della rabbia sterile che oggi avvilisce ingiustamente» le Soprintendenze e chi ci lavora (Il Sole, 30 marzo). Dall’altro, si è concesso una battuta («I Bronzi di Riace sono stati trovati nei mari della Calabria, ma solo per questo devono rimanere in quella zona?»), che ha prontamente scatenato chiacchiere da bar e polemiche d’ogni segno. Battuta frivola, che par pensata per dirottare l’attenzione dei media su un tema marginale (il luogo di esposizione dei Bronzi), distraendola da problemi ben più gravi. L’amministrazione dei beni culturali non deve occuparsi solo di opere supreme come i Bronzi, ma della presenza capillare del nostro patrimonio in tutta Italia, della tutela di un paesaggio sempre più devastato, dal Veneto alla Calabria, da spietate colate di cemento. Facendo intravedere un evento spettacolare (e poco costoso) come lo spostamento dei Bronzi da Reggio, il neo-ministro ha fatto parlare di sé ma girando a vuoto, ha scelto la strada in discesa dell’effetto-annuncio. Ma il suo compito è molto più difficile, richiede l’immediata ricerca di risorse e un urgente piano di assunzioni basate sul merito. Esige un progetto per l’Italia e non per due statue, per quanto importanti. E’ così, onorevole Galan, che si potrà ridare fiducia ai funzionari della tutela, e non "movimentando" statue e quadri senza nemmeno consultarli.

Colosseo ai privati, è polemica sul restauro

Claudio Marincola

Doveva essere «la fine di un incubo». Il contratto finalmente portato a casa per tirare a lucido il Colosseo, e metterlo al riparo dalle intemperie, almeno per il prossimo quarto di secolo. Un modello di sponsorizzazione da seguire anche per il futuro. E, invece, l'accordo con l'imprenditore Diego Della Valle sta diventando un "caso". I dubbi innescati dall'ex assessore capitolino alla Cultura Umberto Croppi alimentano nuove polemiche. Possibile che il sindaco Alemanno abbia concesso, come scriveva ieri Il Fatto Quotidiano, ad un privato l'esclusiva sul monumento? E per di più per la durata di cinque lustri? Il Campidoglio nega. «Tutto è stato fatto nella massima trasparenza, gestito dai massimi vertici dei Beni culturali - garantisce Alemanno - ci abbiamo messo quasi un anno a perfezionare la procedura». Ecco, appunto, il busillis sarebbe proprio questo: l'aspetto procedurale.

Il percorso che ha permesso al gruppo di Della Valle di avanzare diritti su una delle sette meraviglie del mondo in cambio di 25 milioni di euro. Il segretario della Uil Gianfranco Ceresoli ha messo in dubbio la legittimità dell'operazione. Ha presentato un esposto-denuncia alla Procura di Roma e alla Corte dei conti. Vuole mettere i bastoni tra le ruote al sindaco. Lo accusa di aver messo in atto«una dismissione del Colosseo», senza «un qualsiasi parere del Comitato tecnico scientifico dei Beni Archeologici». E Alemanno? Il primo cittadino avverte: «Nessuno si inventi fantasie che possano essere da ostacolo». E rivendica «un restauro che Roma attende da almeno 30 anni». In quanto al ricorso «tutti hanno diritto di presentarli, ma non se ne comprende la ratio». Tra qualche giorno, ha assicurato il sindaco della Capitale, la convenzione verrà pubblicata sul sito internet del Mibac e tutti potranno prenderne visione» I passaggi più delicati verranno riesaminati. A cominciare dal progetto iniziale, quando Della Valle si propose come capofila di una cordata e mise sul piatto 2 milioni di euro contro i 34 che secondo i calcoli sarebbero serviti per il maquillage del monumento. Tra intermittenze varie e nuovi contatti si ritenne che sarebbe stata necessaria una gara di evidenza pubblica. Si arrivò così al bando e venne richiesto di indicare anche le ditte che avrebbero effettuato i lavori di restauro.

Quest'ultimo aspetto, tutt'altro che marginale, non piacque, a quanto pare, al signor Tod's che scelse di non partecipare, e la gara andò deserta. Quello che è successo dopo è cosa nota. Il patron della Fiorentina stipulò un accordo direttamente con il Commissario straordinario Roberto Cerchi. Poteva farlo? Sì. Ma «è singolare», sostiene Cerasoli «che il Commissario delegato abbia impegnato la Soprintendenza per un periodo che supera largamente il proprio mandato» La questione è venuta fuori in tutta evidenza quando si è scoperto che l'Anfiteatro Flavio non era più tra le disponibilità esclusive dei Beni culturali. Assurdo ma vero. O almeno pare. Se è vero che la Volkswagen per lanciare un nuovo modello ne aveva richiesto l'utilizzo ricevendo la risposta che il permesso andava richiesto all'imprenditore della Tod's. Come se ormai le chiavi le avesse lui, Diego Della Valle. La Uil ora chiede al neo ministro Galan di «rinegoziare l'accordo». Lancia frasi incendiarie, parla di uno «Stato che di fatto ha venduto il Colosseo». Parole che riportano tutti nell'arena. Non solo i politici ma anche il mancato sponsor Volkswagen contro la Tod's SpA. Scarpe contro auto.

Per il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro siamo di fronte «ad una guerra dichiarata contro un'azienda italiana», la cui unica colpa è «aver compreso che legare il nome al monumento era strategico e redditizio». Ma è lo stesso Giro qualche rigo più giù a far capire che la procedura di assegnazione non si è completata. E che dunque sull'immagine del monumento più caro ai romani non è detta l'ultima parola, «l'intero Piano di comunicazione predisposto dalla Tod's» che dovrà ricevere entro 30 giorni «i rilievi scritti del commissario e del Ministero. Dubbi che si autoalimentano e dubbi espressi con riserva.

Per Salvatore Settis, ex presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali si tratta di «una situazione da correggere, anche «se non ho ancora visto i documenti». Particolare non da poco. Il destino del Colosseo sta a cuore a tutti. Tutelarne la conservazione o l'immagine? Il Pd chiede rassicurazioni al ministro Galan, si fa rilevare «che questo accordo ancora non esiste». Il segretario romano del partito Marco Miccoli «trema per il futuro» dell'Anfiteatro. Il senatore dell'Idv Stefano Pedica prima ringrazia Croppi «per aver sollevato il caso». Poi chiede al sindaco Alemanno di dimostrare «carte alla mano», «se c'è o meno un investimento reale da parte dell'imprenditore Della Valle». L'ultima frecciata è per Giro «diventato il portavoce del sindaco». Anche il capogruppo Udc in Campidoglio Alessandro Onorato chiede lumi. «Non vorremmo - dice - che il dottor Della Valle si trasformi da generoso mecenate in un imprenditore che fa l'affare della vita». E dopo la Volkswagen, anche Woody Allen potrebbe bussare alle cancellate del Colosseo per le riprese. A chi dovrà chiedere il permesso?

La Regina: «Il mecenatismo non può trasformarsi in spot»

Mauro Evangelisti

«A una grande azienda dovrebbe bastare il lustro conseguito dal finanziare dei restauri di un monumento come il Colosseo. Oltre non bisogna andare». Adriano La Regina è presidente dell'Istituto nazionale di Archeologia e storia dell'arte, in passato fu lo storico sovrintendente ai Beni archeologici della Capitale con un impegno caratterizzato dal rigore che gli valse il soprannome di "signor no". Che idea si è fatto del dibattito che si è innescato sull'intesa con Della Valle? «Voglio essere chiaro. Non conosco nel dettaglio il contenuto dell'intesa. Ma una cosa è certa: non è sbagliato di per sé il ruolo dei privati nel restauro di un monumento, ma le cose vanno fatte nei dovuti modi. In fondo anche papa Pio VII s'impegnò in questo senso, ma c'è una semplice targa a ricordarlo, nulla di più». Quale dovrebbe essere allora il punto di equilibrio nella collaborazione fra il Ministero dei Beni culturali e uno sponsor privato disponibile a spendere 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo? «Dobbiamo partire da un dato: un intervento così importante, che ti fa conoscere in tutto il mondo, non deve avere altro in cambio se non il lustro. Comportarsi in modo differente significherebbe svilire il Colosseo e quindi l'importanza dell'investimento. Utilizzare in modo sbagliato la sua immagine ne intacca il valore che invece va tutelato. E' evidente. Per questo bisogna essere attenti. Non voglio criticare, però è come avviene per certe stupende canzoni del passato: sono molto belle, ma vengono utilizzate con insistenza negli spot pubblicitari e si sviliscono». Qual è il modello da seguire, visto che comunque i soldi dei privati sono necessari? «Guardiamo a ciò che fu fatto vent'anni fa, quando l'allora Banca di Roma s'impegnò, per i lavori al Colosseo, per venti miliardi. Se si tiene conto dell'inflazione, è una cifra più alta di quella di cui si parla oggi. Anzi, se non sbaglio, ci sono ancora tre milioni di euro da spendere. Bene, la banca in cambio non chiese nulla, fu un atto di liberalità, perché già è sufficiente il prestigio che deriva da una operazione di questo tipo. Al controllo di un monumento come il Colosseo non si può abdicare».

E meno male che c'è il calendario. Lì, almeno, il tempo che scorre ci segnala le date, le ricorrenze, gli anniversari, ci richiama al dovere della memoria ed anche a quello dell'impegno. Il caso dell'Aquila e del terremoto che l'ha sbriciolata due anni fa è esemplare. Ci impone di tornare con lo sguardo su quella terribile ferita aperta e mai rimarginata. Il centro storico dell'Aquila, due anni dopo, è immoto: del suo passato si rivedono intatte, come apparvero all'alba del aprile 2009, solo macerie; nel suo futuro dilaga un deserto di impegni disattesi, di promesse non mantenute, di progetti lasciati sulla carta e di sogni di rinascita raggelati da una lunga stagione di inadempienze. Un terremoto (in questo caso, ricordate? 308 morti e 1.600 feriti) per sua stessa natura travolge, distrugge, azzera. Si porta via cose e case e con queste, affetti, ricordi, strumenti di vita e di sopravvivenza. Si può inveire contro la malasorte ma anche contro la poca previdenza, la micragnosa miopia delle istituzioni, il vezzo di affidarsi sempre allo stellone che tutto protegge, là dove il rischio sismico si sapeva altissimo e dove, nel costruire, non se ne era tenuto affatto conto. O come nel caso della casa dello studente, un concentrato di dolore e di morte, di giovani vite spezzate per l'insipienza e per biechi interessi di risparmio sui materiali. O come ad Onna, rasa al suolo due volte nella sua tragica storia, prima dai nazisti in ritirata e poi dalle scosse. Rivisitati oggi quei luoghi, attirati dal dovere imposto dalla ricorrenza, constatiamo che la composta sopportazione degli abruzzesi e degli aquilani, i più colpiti, ci aveva commossi nel profondo. Era una dimostrazione palpabile di una dignità che la magnitudo non era riuscita a scalfire. Ma poi il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. Ma poi, il fronte della ricostruzione, esauriti i lampi mediatici dell'emergenza delle prime settimane, ha sparpagliato la popolazione rimasta senza tetto e senza sostanze con un impegno, in verità, non riscontrato altrove, in precedenti catastrofi. C'è ancora gente del Belice, nelle Marche, nell'Irpinia che si deve adattare a rinchiudersi nei containers! Ma l'Aquila, città d'arte e di monumenti alla storia e della storia, il suo centro, sono rimasti intatti nella loro quasi totale distruzione: il confronto tra le immagini di ieri e di oggi propone plasticamente tutto il non fatto, il lasciato stare, il caduto e il lasciato cadere. Questa ferita aperta non è stata richiusa, non è stata rimarginata. Attorno ad essa sono prosperate polemiche politiche, sindaci ondivaghi nelle minacce di dimissioni, fronti della protesta che portavano carriole vuote, simboleggianti il vuoto delle promesse mancate. Dai primi aiuti, dal pronto soccorso nazionale ed europeo dagli stanziamenti dai fondi per l'emergenza (1,2 miliardi), e da quelli della Ue (494 milioni) tutto si è dissolto in un secondo sisma, stavolta silenzioso ma non meno terrificante. Dei tanti paesi che a telecamere accese avevano promesso di inviare fondi per ricostruire monumenti frantumati dalle onde della terra solo il Kazakistan ha mantenuto l'impegno. E chi se lo sarebbe aspettato. Ciò che a due anni da quel 6 aprile dovrebbe muovere tutti a un nuovo slancio è proprio la constatazione che il molto detto e il poco fatto lasciano la ferita dell'Aquila aperta e sanguinante: una città meravigliosa destinata a soccombere per sempre sotto le proprie macerie non è un destino accettabile. E gli aquilani, è vero, possono e debbono fare da sé, ma non da soli: debbono poter pretendere senza sbandierare la loro delusa indignazione che gli aiuti promessi diventino beni utilizzabili. Altrimenti la pratica degli annunci roboanti, delle false promesse, della generosità pelosa si iscriveranno in una tutt'affatto ingloriosa tradizione italiana. E per fortuna che a distrarci dalla nostra colpevole noncuranza ci pensa una generosa (come il compenso ricevuto) comparsa, finta abruzzese, che in una trasmissione dove si simulano controversie giudiziarie si è sbracciata, sotto copione per strillare a tutti che in Abruzzo il terremoto è un lontano ricordo, che non ci sono problemi, che la gente è felice. Anche questo è un piccolo, avvelenato spaccato, di una simulazione propagandistica della realtà che ritroviamo, quasi fosse una metafora in tanti altri luoghi, in tante altre piaghe di cui il paese soffre. I rifiuti a Napoli, che ciclicamente ricoprono la città e la stringono in un assedio insopportabile, il problema degli emigranti sempre a un attimo dall'essere definitivamente risolto via via che Lampedusa viene sottoposta ad uno stress che non sarà cancellato dall'acquisto di una villa e di due palme. Dunque è il bisogno di verità che urge. E la dimostrazione che i guai si possono davvero sanare. Che le ferite si possono rimarginare. Sennò il Paese appare ed è come uno specchio rotto, del quale diviene impossibile ricomporre i pezzi per riavere una immagine limpida del vero e del falso. E da lì, ricominciare.

Chiedo scusa ai critici cinematografici de Il manifesto, ma sono costretto a rubargli il lavoro. Recensione: I tunisini sfidano l’ispettore Clouseau (Italia, 2011, con Roberto Maroni, Silvio Berlusconi e qualche migliaio di comparse).

L’ispettore Clouseau (Roberto Maroni) strilla da mesi che il paese sarà invaso da pericolosissimi immigrati clandestini, ma quando gli immigrati previsti arrivano, l’ispettore Clouseau viene colto di sorpresa: «siete già qui? Tropo velosci!».

Con una mossa di rara astuzia li lascia senza cibo, seduti su un molo a Lampedusa. Poi arriva il suo principale (Silvio Berlusconi) e dice che lì deve fare un campo da golf e un casinò, quindi bisogna spostare i clandestini. L’ispettore Clouseau appronta in fretta e furia una tendopoli dove deporta migliaia di clandestini. Quelli, con mossa astuta, scavalcano la rete metallica e se ne vanno.

«Maledisione! Non sci avevo pensato!». Allora l’ispettore Clouseau appronta altre tendopoli in tutta Italia, manda i pompieri su è giù come pendolari,ma sindaci e governatori gli fanno chi marameo, chi il gesto dell’ombrello, altri ridono. Infuriato, l’ispettore Clouseau parla di respingimenti. Stavolta ridono i giovani tunisini.

Allora, mossa a sorpresa, Clouseau va in Tunisia con Berlusconi e un po’ di soldi per chiedere alla Tunisia di riprendersi i tunisini. Interessa un campo da golf? Interessa un casinò? E semi compro una villa a Tunisi? Ridono anche in Tunisia. Si chiude in un tramonto mediterraneo, con Clouseau e il suo capo che chiedono un passaggio a un barcone per tornare in Italia.

Il film appare sconclusionato, senza regia e piuttosto improvvisato. Unica nota positiva, lo straordinario talento comico del protagonista (azzeccati gli occhialini rossi), mentre la sua spalla, Silvio Berlusconi, sembra imbolsita e stanca. Ottime, invece, le comparse tunisine: molte di loro non hanno avuto nemmeno il cestino per il pranzo, hanno capito che il cinema italiano è in crisi e vogliono andare in Francia.

Il presidente della Repubblica questa volta è andato più in là che in altre precedenti esternazioni. Ha raccomandato sempre moderazione di accenti, lealtà tra le istituzioni, condivisione di valori e di decisioni quando riguardino le regole di base della convivenza, ma giovedì scorso ha preso un’iniziativa insolita, un’iniziativa da grandi occasioni: ha convocato i rappresentanti dei gruppi parlamentari informandone per lettera il presidente del Consiglio. A tutti gli interlocutori che hanno varcato la soglia del Quirinale ha ripetuto il suo giudizio sulla situazione riassumibile in cinque parole da lui stesso pronunciate: «Così non si può andare avanti».

Le gazzarre avvenute negli ultimi giorni a Montecitorio sono state l’occasione determinante dell’intervento del Capo dello Stato, ma la motivazione di fondo è un’altra perché le gazzarre parlamentari non sono una novità e non avvengono soltanto in Italia.

La motivazione di fondo sta nella constatazione della paralisi parlamentare che dura ormai da molti mesi e rischia di durare ancora a lungo. Le opposizioni la denunciano da almeno un anno, ma ora l’ammette lo stesso presidente del Consiglio. Contrastano le motivazioni, ma entrambe le parti arrivano alla medesima conclusione.

Dunque il potere legislativo non legifera né esercita i poteri di controllo sull’operato dell’esecutivo che pure la Costituzione gli riconosce; il potere esecutivo dal canto suo usa in quantità anormale strumenti impropri: ordinanze, decreti, voti di fiducia, per abbreviare forzosamente il dibattito parlamentare.

In queste condizioni il Capo dello Stato, con la sua iniziativa di giovedì, ha suonato l’allarme; in termini calcistici si direbbe che ha diffidato i giocatori con il cartellino giallo facendo capire che se non cambieranno registro dal cartellino giallo si passerà al rosso, cioè all’espulsione dal campo di gioco. Nel caso nostro il cartellino rosso equivale al decreto di scioglimento delle Camere che la Costituzione prevede tra le attribuzioni del Presidente della Repubblica con la sola modalità di consultare i presidenti delle Camere per un parere non vincolante.

* * *

Temo che l’allarme e la diffida non produrranno alcun risultato perché ne mancano i presupposti e non da oggi.

I presupposti mancano dal maggio del 1994, da quando cioè il proprietario di un impero mediatico, immobiliare, commerciale, finanziario, bancario, calcistico, diventò capo d’un partito, presidente del Consiglio o alternativamente capo dell’opposizione e insomma protagonista della politica italiana. Questa presenza insolita, corredata da una serie di effetti a pioggia che sono stati cento volte elencati e analizzati, hanno determinato la spaccatura in due della pubblica opinione dando luogo a due diversi schieramenti e a due diversi blocchi sociali.

La dislocazione bipolare non configura di per sé nulla di terribile, anzi costituisce la normalità dei reggimenti democratici quando avvenga in un quadro di valori condivisi, ma non è questo il bipolarismo italiano nato in era berlusconiana. Non c’è nulla di condiviso né di condivisibile tra due concezioni opposte della democrazia, della politica, dell’economia, della cultura, dell’informazione. Perfino della libertà e perfino dell’eguaglianza.

Non sono due schieramenti alternativi ma antagonisti. Non vanno d’accordo su niente. Allo stato di diritto che fu recuperato nel 1945 dopo il totalitarismo fascista, il berlusconismo oppone vocazione autoritaria fondata sulla dittatura della maggioranza e rinforzata dal monopolio dell’informazione. L’elenco delle anomalie è lungo e ogni giorno si arricchisce di nuovi capitoli. Non è quindi il caso di ripercorrerlo. Lascio invece la parola ad una fonte non sospetta, Andrea Marcenaro, autore d’una rubrica che compare ogni giorno sulla prima pagina del "Foglio". Rubrica partigiana ma scapestrata e talvolta veridica. Nel caso nostro così racconta l’ultima comparsata di Berlusconi a Lampedusa.

«L’Amor Nostro rientrato a Roma dallo sprofondo dove aveva appena comprato una villa, ristrutturato un’isola, piantato ortensie, proposto pioppi sugli scogli, vivacizzato le facciate delle case, fondato un casinò, affittato sette navi per la "Crociera dello Sfigato", pescato due triglie minorenni nonché perforato 18 buche dell’istituendo campo da golf; ma che cazzo – esplose – il mio processo breve? Beh! Capita, Cavaliere, quando si sceglie un ministro che confonde la Difesa con l’offesa».

Così Marcenaro descrive la trasferta lampedusana cogliendo una parte del tutto. Il tutto è molto di più.

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Dovrei ora parlare del processo breve, della responsabilità civile dei magistrati, della riforma della giustizia e del conflitto d’attribuzione che la maggioranza parlamentare intende sollevare con una votazione prevista per martedì 5 aprile, un giorno prima dell’apertura del processo che vede Berlusconi imputato per concussione e prostituzione minorile. Ma mi limiterò a quest’ultimo tema; sugli altri non c’è che ricordarne il contenuto con poche parole. Il processo breve è soltanto una prescrizione brevissima tagliata su misura per azzerare i processi che vedono Berlusconi imputato. La responsabilità civile dei magistrati è un nonsenso, viola il principio del libero convincimento del magistrato nella formulazione delle ordinanze e delle sentenze, pretendendo che quel principio sia sostituito con la prova raggiunta al di là di ogni ragionevole dubbio: sostituzione del tutto inutile visto che anche l’assenza di ogni ragionevole dubbio viene accertata attraverso il libero convincimento del magistrato. Del resto il nostro codice penale prevede già l’incolpabilità dei magistrati, procuratori e giudici, in sede penale con eventuali ripercussioni civilistiche di indennizzo, quando ricorrano gli estremi del dolo o della colpa grave. Aggiungere a queste norme già esistenti da tempo la possibilità di un’incolpazione civile per "violazione di diritti" significa semplicemente consentire a tutti coloro che perdono cause giudiziarie di aprire un percorso parallelo di controversie che produrrebbe il solo effetto di sfasciare la struttura giudiziaria già per varie ragioni insoddisfacente.

Resta il tema del conflitto di attribuzione che andrà in votazione martedì ed ha l’obiettivo di bloccare il processo "Ruby-gate".

Il conflitto d’attribuzione si verifica quando uno dei poteri dello Stato invada la sfera riservata ad un altro potere. In quel caso la competenza di giudicare chi sia l’invasore ed impedire che l’invasione avvenga spetta alla Corte costituzionale. Ma nel caso specifico chi ha invaso chi?

Il tribunale di Milano darà inizio mercoledì 6 aprile ad un processo penale. I legali dell’imputato contestano la competenza del tribunale di Milano e chiedono che il processo sia trasferito al tribunale dei ministri. Si tratta con tutta evidenza di un conflitto di competenza, non di invasione di un potere su un altro potere. Giudicare sulla competenza territoriale o funzionale spetta unicamente alla Cassazione. Quanto alla Giunta parlamentare delle autorizzazioni a procedere, essa ha il compito di accettare o respingere le richieste eventuali del tribunale o della procura. Nel caso specifico ha respinto la richiesta di perquisizione di un ufficio della presidenza del Consiglio situato in un palazzo di Milano Due. Infatti quell’ufficio non fu perquisito. E questo è tutto.

Vedremo come risponderà la Corte costituzionale alla richiesta del Parlamento di giudicare il conflitto di attribuzione. L’evidenza suggerisce una pronuncia di irricevibilità del ricorso perché – lo ripeto – si tratta di un conflitto di competenza all’interno della giurisdizione che spetta unicamente alla Corte di Cassazione.

* * *

Le vicende della Libia, dell’immigrazione, della lunga e sempre più agitata paralisi del Parlamento, dell’intervento ammonitorio del Capo dello Stato, hanno messo in ombra un altro tema che deve invece essere affrontato per quello che è: una sterzata estremamente grave della politica economica verso un intervento sistemico dello Stato nell’economia e nel mercato, in palese contrasto con la legislazione dell’Unione europea. Parlo del decreto promulgato giovedì scorso dal consiglio dei Ministri e voluto da Giulio Tremonti per impedire che un’impresa alimentare francese assuma il controllo della Parmalat.

Se fosse questo il solo obiettivo di Tremonti, potrebbe anche essere accettato sebbene si concili assai poco con l’auspicio più volte ripetuto di un aumento di investimenti esteri nel nostro paese. Siamo il fanale di coda nella classifica degli investimenti esteri rispetto agli altri paesi europei. Ce ne lamentiamo, se ne lamenta il governo, la Confindustria e gli operatori finanziari e imprenditoriali, ma quando finalmente qualcuno arriva dall’estero per investire i suoi capitali in iniziative italiane viene preso a calci e rimandato indietro dimenticando che oltre di essere cittadini italiani siamo anche cittadini europei. Il mercato comune non è nato per abolire frontiere e consentire il libero movimento delle merci, delle persone e dei capitali?

Ma Tremonti ricorda – ed ha ragione di farlo – che la Francia protegge la nazionalità delle imprese ritenute strategiche e quindi – sostiene il ministro – se lo fa la Francia perché non può farlo l’Italia? Difficile dargli torto. Bisognerebbe sollevare il tema nelle sedi europee e speriamo che venga fatto, per ripristinare il funzionamento del libero movimento degli investimenti contro ogni protezionismo. Comunque, su questo tema, Tremonti per ora ha ragione. Senonché...

Senonché la questione Parmalat è soltanto un pretesto o perlomeno un caso singolo dentro un quadro assai più ricco di possibilità. Infatti il testo del decreto non dice affatto che l’obiettivo è la difesa dell’italianità delle aziende nazionali. Dice un’altra cosa: autorizza la Cassa depositi e prestiti (di proprietà del Tesoro al 70 per cento) ad intervenire in caso di necessità per finanziare aziende ritenute strategiche per fatturato o per importanza del settore in cui operano o per eventuali ricadute sul sistema economico nazionale. Il caso Parmalat rientra in questo elenco ma non lo esaurisce perché il decreto va molto più in là. Praticamente resuscita l’Iri di antica memoria rendendo possibile che lo Stato prenda il controllo delle imprese che abbiano requisiti ritenuti strategici dal governo (da Tremonti) nella sua amplissima discrezionalità.

Tutto ciò avviene per decreto. Dovrà essere convertito in legge ma intanto produrrà effetti immediati sul mercato. Ma se il decreto non fosse convertito in legge? è realistico pensare che il governo, per evitare che quest’ipotesi si avveri, chieda per l’ennesima volta l’ennesima fiducia. Ma se in sede europea quella legge fosse bocciata in quanto aiuto indebito dello Stato ad un’impresa, vietato dalla legislazione comunitaria?

Ho detto prima che la Parmalat è un pretesto. Infatti il vero obiettivo di Tremonti è di far entrare lo Stato non soltanto nelle aziende che hanno necessità di finanziamento ma direttamente nel sistema bancario. In particolare nelle cosiddette banche territoriali: le banche popolari, le banche cooperative, le Casse di risparmio. Quelle più a corto di capitali, quelle alle quali la Lega guarda con occhi avidi, quelle che procurano voti, organizzano interessi e clientele. Una rete immensa di sportelli, di prestiti, di mutui. Di fatto la politicizzazione del credito.

È una delle più gravi malattie la politicizzazione del credito. Il decreto di giovedì scorso ne segna l’inizio. Che cosa ne pensano i partiti d’opposizione? Che cosa ne pensa il governatore della Banca d’Italia? Che cosa ne pensa il Quirinale?

La politicizzazione del credito è un altro modo per deformare la democrazia, forse il più insidioso insieme al monopolio dell’informazione. Chi può manipolare le notizie e il danaro è il padrone, il raìs, il Capo assoluto, circondato da una clientela enorme e solida. Inamovibile. O ci si arruola o se ne è esclusi. La clientela vota. Chi spera di entrarci se ancora non ne fa parte, vota nello stesso modo.

La chiamano democrazia ma in realtà è soltanto un grandissimo schifo.

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