Venezia. AChioggia durante la sagra del patrono una band locale cantava facendo la parodia di Ramazzotti: “Mose-Mosè, più bella cosa non c’è”. Secondo i pescatori chioggiotti, già in crisi da un pezzo, quando le dighe del Mose saranno definitivamente incassate nelle bocche di porto manderanno all’aria quel poco di economia della pesca che ancora sopravvive. È un’ipotesi, una delle tante legate a questa opera di eccellente ingegneria (“Sicuramente la più imponente in costruzione oggi in Italia” dice Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia) che si trascina però tra dubbi e polemiche da almeno vent’anni. Polemiche scatenate soprattutto dai Verdi e dalle associazioni ambientaliste, che ormai hanno perso la battaglia. “È vero, abbiamo perso, ma le obiezioni sull’impatto ambientale e sull’effettiva efficacia dell’opera restano” è il giudizio di Gianfranco Bettin, assessore all’Ambiente della giunta veneziana e oppositore da sempre del Mose. Ora i dubbi si estendono anche alla data di fine lavori: non sarà più il 2014 come si è sempre detto finora, ma secondo Giovanni Mazzacurati, dg del Consorzio Venezia Nuova, concessionario unico dell’opera, “c’è da augurarsi che finiscano entro il 2015”.
Sono cambiate al rialzo anche le risorse necessarie per costruire le paratie mobili e i cassoni che staranno per cento anni affondati in Laguna a proteggere le tre bocche di porto che si affacciano al mare – Malamocco, Chioggia e Lido-Treporti – dal pericolo delle acque alte. Fino a un anno fa il progetto costava 4 miliardi e 200 milioni di euro, ora siamo arrivati a 4,7. Una quota che comprende il recupero delle coste dal mare e il sistema dei 35 cassoni di calcestruzzo grandi come condomini che saranno affondati a maggio 2012 nelle bocche di porto. Ma si arriva a 5 miliardi e 600 milioni considerando le opere aggiuntive richieste dall’Unione europea (“l’Europa ha chiesto una serie di misure compensative” dice l’architetto Flavia Faccioli del consorzio) e gli insediamenti ambientali.
Il tutto per mettere in funzione la grande architettura del Mose, poi ci sono i costi di manutenzione (secondo Faccioli 25 milioni l’anno ma è una stima al ribasso, ne costerà almeno 30). “I lavori del Mose assorbono risorse enormi, ma sono un esempio straordinario di capacità organizzativa che l’Italia sta dando al mondo” sembra giustificare i costi da capogiro il sindaco Orsoni.
Risorse che finora lo Stato ha erogato per i due terzi concedendo al Mose 3 miliardi e 700 milioni, prima attraverso la Legge Speciale e ora con la Legge Obiettivo per le grandi opere (quella che comprende il mai cominciato Ponte sullo Stretto di Messina). Mancano ancora all’appello 1 miliardo e ottocento milioni, anche se al Consorzio lamentano un rallentamento complessivo dei finanziamenti nell’ultimo anno, ma assicurano di contare sul Dpef in arrivo. “L’avanzamento dei lavori è al 60 per cento in termini di spesa su costo e al 90 per cento quanto all’incidenza sul territorio”, spiega l’architetto. Ai 5,6 miliardi di costo complessivo si devono aggiungere poi quelli per la ricostruzione e la manutenzione di spiagge, barene e velme, gli isolotti della laguna, per altri 11 miliardi di euro complessivi “extra-Mose”.
Un lavoro immenso fatto dal Consorzio Venezia Nuova (“con l’alta sorveglianza del Magistrato alle Acque”) che ha combattuto e vinto – almeno per ora – la battaglia per costruire un’opera impressionante, alla quale sono tuttora contrari una buona parte del mondo accademico e uno schieramento politico trasversale che va dall’ex sindaco Cacciari ai verdi al Pd a parte della Lega, che però abbozza. “Non si sa se il Mose sarà all’altezza del mutamento climatico dei prossimi anni” dice Bettin. Tradotto: nessuno è in grado di stabilire se i flussi delle maree nei prossimi cento anni saranno costantemente al di sopra di una certa soglia, e quindi provocheranno l’innalzamento delle paratie per lungo tempo interrompendo il flusso mare-laguna, o peggio non assolvendo al compito. “Il Mose è progettato per funzionare qualche volta all’anno non di più” chiosa Bettin.
Poi ci sono i dubbi sulla sostenibilità ambientale: gli enormi cantieri una volta terminati i lavori saranno smantellati. Quello di Malamocco, costruito su una piattaforma artificiale, sarà completamente sradicato dalle fondamenta. Insomma il Mose, 18 chilometri di cantiere sul mare che danno lavoro a tremila persone compreso l’indotto, rischia di essere la prova del fuoco di questi strani tempi: se funziona diventerà l’opera ingegneristica più celebrata, in caso contrario sarà lo spreco di soldi pubblici più clamoroso degli ultimi 20 anni. “Ho dubbi su tante cose ma sul Mose nessuno, dormo sogni tranquilli” è sicura l’architetto Faccioli, beata lei. Suona meno rassicurante il direttore del cantiere di Malamocco, che alla domanda: “Fra cent’anni cosa succederà, bisognerà rifare tutto? Chi toglierà questi blocchi enormi dalla Laguna?” ha risposto: “Boh, fra cent’anni chi lo sa... Lei ci sarà? Io no”. E forse nemmeno Venezia.
Festeggiata con grida di trionfo negli Stati Uniti, l´uccisione di Bin Laden crea nelle menti più sconcerto che chiarezza, più vertigine che sollievo.
La storia che mette in scena somiglia ben poco a quel che effettivamente sta accadendo nel mondo: è parte di una guerra contro il terrore che gli occidentali non stanno vincendo in Afghanistan, e da cui vorrebbero uscire senza aver riparato nulla. È un´operazione che rivela la natura torbida, mortifera, dell´alleanza tra Usa e Pakistan: una potenza, quest´ultima, che usa il terrorismo contro Afghanistan e India, e che per anni (cinque, secondo Salman Rushdie) ha protetto Bin Laden. Che lo avrebbe custodito fino a permettergli di costruirsi, a Abbottabad, una casa-santuario a 800 metri dal primo centro d´addestramento militare pakistano.
Ma l´operazione nasconde due verità ancora più profonde, legate l´una all´altra. La prima verità è evidente: Bin Laden era già morto politicamente, vanificato dai diversi tumulti arabi, e la cruenza della sua esecuzione ritrae un Medio Oriente e un Islam artificiosi, datati, che ancora ruotano attorno a Washington. Il terrorismo potrebbe aumentare, anche se l´America, che ha visto migliaia di connazionali morire nelle Torri Gemelle, gioisce comprensibilmente per la giustizia-vendetta. Come in M – Il mostro di Düsseldorf l´assassino è stato punito, ma l´ultima scena manca: quella in cui una mano potente agguanta il colpevole, lo sottrae alla giustizia sommaria, lo porta in tribunale. La parola che sigilla il film di Fritz Lang è: «In nome della legge». È la formula performativa che non s´è sentita, a Abbottabad. Con i nostri tripudi avremo forse contribuito alla trasfigurazione di M – il mostro di Al Qaeda.
Oltre che morto politicamente Bin Laden era divenuto irrilevante, prima di essere ucciso. La sue cellule gli sopravvivono, non avendo in realtà bisogno d´un capo per agire. Ma il suo desiderio di forgiare l´Islam mondiale era già condannato. Il mondo arabo e musulmano sembra aver imboccato una via, dal dicembre 2010, che rompe radicalmente con la visione che egli aveva dell´Islam, dell´indipendenza e dignità araba, della democrazia occidentale. La rivoluzione araba è cominciata con un evento, in Tunisia, che lui avrebbe ripudiato: la decisione di un giovane arabo di protestare contro il regime uccidendo se stesso, non seminando morte come un kamikaze, immaginando l´inferno fuori di sé.
Il terrorismo come metodo emancipatore non ha più spazio nelle cronache odierne, perché il suo obiettivo strategico è percepito da milioni di arabi come la radice stessa del male: come atto che espropria di potere il cittadino ordinario, che lo trasforma in uomo nudo, infantilizzato, mosso da paura. Seminando panico, l´atto terrorista congela l´emancipazione dal basso, proprio perché agisce in nome del popolo, non con il popolo. Gran parte dell´Islam non seguì questa via, dopo l´11 settembre, e meno che mai condivise il sogno di un califfato teocratico mondiale, che Bin Laden coltivava. Le sommosse arabe lo hanno ucciso prima degli americani, con le proprie forze e i propri martiri: in Tunisia, Egitto, Yemen, Siria, Marocco, Libia. Le piazze non si sono risvegliate grazie a lui, per il semplice motivo che Bin Laden non aveva scommesso sul loro risveglio ma sul loro sonno, e il più delle volte sulla loro morte (Al Qaeda ha ucciso più musulmani che non-musulmani, secondo uno studio pubblicato nel dicembre 2009 dal Combating Terrorism Center di West Point).
La seconda verità è strettamente connessa alla prima, e concerne le guerre americane ed europee posteriori all´11 settembre. Terrorismo e guerre imperiali al terrore sono stati in tutti questi anni fratelli gemelli, e insieme barcollano. Si sono nutriti a vicenda, fino ad assomigliarsi. La guerra al terrore che oggi vince una delle sue battaglie è la stessa che ha prodotto Guantanamo e Abu Ghraib: le prigioni senza processi, la tortura banalizzata. Una volta abbattute le frontiere del possibile, scrive Clausewitz, è difficilissimo rialzarle: e infatti Obama non ha avuto la forza di chiudere Guantanamo. Forse non ha neppure rinunciato alla tortura, come ha lasciato intendere il portavoce del dipartimento di Stato Philip Crowley prima di dimettersi, il 13 marzo scorso. Lunedì, alla Bbc, Crowley non ha escluso che sia stata usata la tortura, per estrarre dai detenuti di Guantanamo informazioni sul rifugio di Bin Laden. Alla vigilia delle dimissioni aveva parlato di torture e maltrattamenti del soldato Manning (colpevole d´aver fornito documenti a WikiLeaks) inflitte nella prigione di Quantico in Virginia. Senza attendere il processo Obama ha detto, il 21 aprile: «Manning ha infranto la legge».
Fred Halliday, il compianto studioso del Medio Oriente, ha scritto nel 2004 che la nostra modernità ha al suo centro questa complicità fra terrorismo e esportazione della democrazia dall´esterno: «Ambedue hanno imposto con la forza le proprie politiche e le proprie visioni a popoli ritenuti incapaci di proteggere se stessi, proclamando le proprie virtù storiche mondiali, richiamandosi a progetti politici che solo loro hanno definito». Halliday concludeva: «Il terrorismo può essere sconfitto solo se quest´arroganza centrale (evidente nel colonialismo di ieri come nel terrorismo di oggi, ndr) viene superata» (Opendemocracy, 22-4-04).
Ambedue le violenze sui popoli (terrorismo e guerra al terrorismo) sono figlie di ideologie apocalittiche che della realtà non si curano. I popoli che dovevano esser «salvati» hanno dimostrato di voler vigilare su se stessi senza voce del Padrone. Anch´essi sono pronti a morire, ma senza glorificare la morte come i kamikaze. Senza quello che Unamuno chiamò, durante la guerra civile spagnola, il «grido necrofilo» di chi sceglieva come motto «Viva la muerte!». L´uccisione di Bin Laden è un´ennesima salvezza venuta da fuori, che chiude gli occhi.
Eppure è venuto il momento di aprire gli occhi, anche per gli europei che usano seguire l´America senza discutere. Di capire come mai la potenza Usa ha attratto su di sé tanto odio. Quel che è perverso nell´odio, infatti, è che esso nasconde sempre una dipendenza, una segreta ammirazione, un bisogno dell´altro, idolo o Satana. La guerra al terrorismo non comincia l´11 settembre 2011, così come la prima guerra mondiale non comincia con lo sparo a Sarajevo. Comincia nella guerra fredda, quando Washington decide di combattere l´espansione sovietica con ogni mezzo: aiutando regimi autoritari, e anche finanziando e aizzando il radicalismo islamico in Afghanistan.
Non dimentichiamolo, mentre ascoltiamo Obama che annuncia di aver voluto «consegnare Bin Laden alla giustizia» (bring to justice) nel preciso momento in cui invece lo faceva giustiziare. Durante la guerra sovietica in Afghanistan, Reagan chiamava i mujaheddin non jihadisti ma freedom fighters, combattenti per la libertà. Eppure si sapeva che erano terroristi e basta. In un´intervista al Nouvel Observateur, il 15-1-98, il consigliere per la sicurezza di Carter, Brzezinski, racconta come Washington aiutò i jihadisti contro il governo prosovietico di Kabul, nel luglio ´79, sei mesi prima che l´Urss intervenisse. L´intervento del Cremlino fu scientemente forzato «per infliggergli un Vietnam» politico-militare. Brzezinski non rimpiange l´aiuto ai futuri terroristi, e al giornalista esterrefatto replica: «Cos´ha più peso nella storia del mondo? I Taliban o il collasso dell´impero sovietico? Qualche esagitato musulmano o la liberazione dell´Europa centrale e la fine della guerra fredda?».
Sono dichiarazioni simili a creare sconcerto, vertigine. Tanti morti - a New York, Madrid, Londra, e in Tanzania, Kenya, Indonesia, India, Pakistan - quanto pesano, nei Grandi Disegni delle potenze? Valgono l´esecuzione d´un sol uomo? Sono solo qualcosa di politicamente utile? Parole come quelle di Brzezinski erano ricorrenti nel comunismo: nelle democrazie sono veleno. E se così stanno le cose, perché ci hanno detto che la guerra contro qualche esagitato terrorista musulmano era la cruciale, l´infinita, la madre di tutte le guerre? Bin Laden era il mostro di Frankenstein che ci siamo fabbricati con le nostre mani: negli anni ´70-´80 pedina di vasti giochi euro-russi, nel XXI secolo nemico esistenziale.
I giovani protagonisti delle sommosse arabe chiedono ben altro: non un nemico esistenziale (lo hanno avuto per decenni: erano l´America e Israele), ma costituzioni pluraliste, leggi uguali per tutti, separazione dei poteri. Non è detto che riescano: il dispotismo li minaccia, cominciando da quello integralista. Ma per difenderci dal demone di Frankenstein non possiamo sperare che in loro.
«Vivo o morto» fu il grido di guerra lanciato da George W. Bush contro Osama Bin Laden all'indomani dell'11 settembre, con annessa taglia di 25 milioni di dollari. Di chiara marca texana, il grido e la taglia annunciarono l'eclissi del lo stato di diritto sotto le macerie delle Torri gemelle. Nel lessico dello stato di diritto, a differenza che nel vocabolario da Far West, vivo o morto non è la stessa cosa: ne va del confine fra la giustizia e la vendetta. Prenderlo vivo, Osama Bin Laden, e consegnarlo a un tribunale, avrebbe aiutato il difficile processo di elaborazione della vulnerabilà impressa sullo spirito pubblico americano dalla ferita dell'11 settembre; annunciarlo morto, aiuta viceversa a suturare quella ferita con un rigurgito di potenza (come dimostra l'improvviso slittamento di senso subito nelle piazze in festa dallo slogan obamiano «Yes we can»). A onta delle parole del Presidente, dunque, più che giustizia è fatta vendetta; il che getta un'ombra sulla festa, e rischia di rievocare gli «spiriti animali» dell'era Bush proprio nel momento in cui la morte di Bin Laden ne sigla simbolicamente la conclusione, già consumata politicamente con l'elezione di Obama e con la sua svolta nei confronti del mondo arabo e islamico.
Giustamente si osserva da più parti che l'eliminazione di Bin Laden avviene quando già la «primavera democratica» nordafricana - a sua volta debitrice dello storico discorso di Obama al Cairo nel 2009 - ha decretato la sconfitta del suo progetto, la crisi della sua organizzazione, l'obsolescenza della sua icona. Ma le icone hanno la loro importanza simbolica aldilà della loro fungibilità immediata, e che l'icona del capo di Al Quaeda si sia rotta resta un fatto simbolicamente rilevantissimo aldilà della sua perdita di influenza politica. Bin Laden - un nome che Jacques Derrida soleva scrivere fra virgolette, a significare appunto la potenza dell'icona a prescindere dall'uomo, e perfino dalla sua esistenza reale - non è stato solo il leader della rete terrorista globale che ha mostrato la vulnerabilità della più grande potenza mondiale e tenuto in scacco per un decennio le democrazie occidentali. Pura e ieratica sembianza senza Stato e senza indirizzo, intermittente apparenza mediatica fatta di videomessaggi, incombente presenza virtuale più forte della malattia che lo logorava, il principe saudita ha è stato per dieci anni l'incarnazione del «fantasma fondamentale» dell'inconscio geopolitico occidentale traumatizzato dalla fine del mondo bipolare: il fantasma del Nemico imprendibile e sempre ritornante, lo spettro a cui non smettere di dare la caccia. Non importa che sia vivo o morto, quel che importa è che gli daremo la caccia, diceva Bush con la sua taglia; non importa che io sia vivo o morto, quel che importa è che il mio fantasma continui a incombere sull'America, rispondeva Bin Laden con le sue periodiche apparizioni virtuali.
Quanta potenza e quanta violenza reali quel fantasma sia stato capace di muovere lo sappiamo dalla contabilità delle guerre - «permanenti», «infinite», «preventive» - che in suo nome sono state condotte. Ed è alla potenza del fantasma e della caccia al fantasma che il cadavere di Bin Laden oggi mette fine. L'icona si è rotta; la caccia è finita. Che ne sarà, della politica dell'occidente, senza quel fantasma? Guerre, politiche securitarie, controlli pervasivi di polizia, gabbie di Guantanamo: tutto questo dovrebbe di conseguenza svanire. Salvo riprodurre lo spettro per clonazione: dev'essere per questo che in tanti si precipitano a dire che Bin Laden non c'è più ma il pericolo resta anzi si aggrava: morto un fantasma se ne fa un altro, morto un nemico se ne trova un altro. Il nuovo banco di prova della discontinuità di Obama dall'era Bush sta qui, in una politica che del fantasma del Nemico sappia fare a meno, e che, uccisa l'icona,tolga di mezzo rapidamente pure i detriti.
Il racconto degli ideali di una generazione di progettisti che doveva ricucire il tessuto nazionale a confronto con il presente "Da un certo punto in poi è mancata la scuola che creava intellettuali e non solo tecnici" "Negli anni 0ttanta la politica ha rinunciato alle regole e le città sono cambiate"
«Se mi piace la bandiera italiana?». Gae Aulenti, protagonista del design internazionale, incurva la virgola delle sopracciglia: «Scusi, ma che domanda è?». La casa-bottega di Brera, un palazzetto settecentesco sventrato e ricostruito in un unico spazio interrotto da strette scale di ferro, racconta oltre mezzo secolo di storia nazionale. Le agende del suo lavoro insieme a Rogers e Samonà, la collezione della rivista Casabella, i prototipi della lampada pipistrello, tra gli oggetti forse il più amato. Di lei è stato scritto che è il primo architetto ad aver dimostrato che l´architettura è un sostantivo di genere femminile. Da Tokyo a Buenos Aires, da San Francisco a Parigi e Barcellona, non c´è grande città che non porti un suo segno. È un personaggio-simbolo della Milano razionale e colta, la città degli illuministi, del Verri e del Beccaria, la città della Resistenza, dell´antifascismo, della classe operaia nel secondo dopoguerra, ma le sue origini affondano nel Mezzogiorno, nelle campagne di Calabria e Puglia, figlia della borghesia di Trani nata per caso in Friuli. Una doppia radice sintetizzata in quel bisillabo Gae che è la forma breve di Gaetana, regalo della nonna pugliese.
Lei come si definirebbe?
«Mi sento un´italiana, e basta. Ho forse avuto la fortuna di non vivere in un solo luogo, notando le differenze tra culture e regioni sideralmente distanti. Mio padre lasciò la Puglia per andare a studiare a Ca´ Foscari, e nel 1927 arrivai io. Ma poi d´estate ci immergevamo nel verde e nell´azzurro del Mezzogiorno, dove partecipavo a rituali contadini che hanno lasciato un´impronta nelle mie visioni. Se dovessi indicare l´essenza dell´italianità, vado a cercarla nella diffusa qualità del paesaggio: ovunque la nostra testa riposa sulla bellezza. Un´armonia che sa di eterno. Se ne avverte costantemente la durata della storia».
Nessun contrasto tra le due radici?
«Non direi. Sul finire degli anni Quaranta approdai in una Milano che intrecciava diversi caratteri regionali, idiomi, parlate espressive nutrite dai dialetti. Una trama di grande qualità, che in qualche modo rispecchiava la nostra identità nazionale, che si nutre di differenze. In questo siamo unici, diversi da tutti gli altri popoli. Mi verrebbe da dire che l´italianità è un´aspirazione, più che una condizione acquisita una volta per tutte. Questo incrocio di storie differenti ti obbliga costantemente a interrogarti».
Al Politecnico, appena ventenne, l´incontro con Ernesto Nathan Rogers. Che Italia progettavate di costruire?
«Intanto dovevamo ricostruirla. Milano portava le ferite dei bombardamenti. È una delle ragioni per cui m´iscrissi alla Facoltà di Architettura. L´idea principale era quella della continuità storica e culturale, fisica e concettuale. Bisognava costruire nel rispetto del "tessuto" d´un luogo, del suo ordito più profondo, senza rotture né traumi. Brodskij dice che nella cultura italiana opera un telaio che tesse la sua essenza più profonda, generata dalla piega d´un paesaggio o dalla facciata d´un palazzo. Il nostro dovere di architetti consisteva nel trovare le tracce più nascoste di questa trama».
Chi riuscì meglio in questa ricerca?
«Un esempio può essere la Torre Velasca, simbolo della città insieme al Duomo e al Castello Sforzesco. Negli anni Cinquanta Rogers ed Enrico Peressutti la progettarono in continuità con il passato – la forma della torre – e nel rispetto di un´idea precisa della città. Naturalmente questa scuola italiana era aperta a un vasto intreccio di suggestioni internazionali».
Oggi però non manca il respiro cosmopolita.
«Quel che manca è la scuola italiana, e sappiamo il disastro. Rogers ci ripeteva spesso che il dovere di un architetto era di essere un intellettuale prima che un professionista».
Cosa intendeva?
«Posso leggerle un passo di Vitruvio? "L´architetto sappia di lettere, sia perito nel disegno, erudito nella geometria, conosca molte, molte istorie, diligente ascoltatore di filosofi, s´intenda di sentenze giureconsulti, non sconosca l´astrologia e le leggi del cielo". Ho reso l´idea? Oggi si costruisce senza regole, l´architetto tende ad autorappresentarsi, incurante dell´integrazione con l´identità urbana».
Quando è cambiato il volto delle nostre città?
«Quando l´Italia ha smesso di essere amministrata, ossia un quarto di secolo fa. È negli anni Ottanta che la politica ha rinunciato a definire le regole, e gli architetti ne hanno approfittato, in nome di un principio sbagliato e illusorio: ossia che l´assenza di regole avrebbe favorito invenzione e creatività».
È vero il contrario?
«La regola severa ti costringe all´essenza. Il risultato di questo malinteso è sotto i nostri occhi: le città sono sfasciate. E l´architettura sembra virare in decorazione. Faccia attenzione a molte nuove costruzioni: non c´è più una linea retta. Vanno di moda le geometrie inclinate, per delle stupidaggini. Tanti piccoli Gehry, che scopiazzano rinunciando all´essenza».
La buona architettura nasce dalla buona urbanistica.
«In quegli anni sono venute meno entrambe: il risultato immediato ha vinto sulla lunga scadenza. E l´architettura italiana ha cominciato a perdere prestigio nel mondo».
In che cosa si distingueva un architetto italiano?
«Dalla capacità di disegnare tutto, dal piccolo oggetto alla casa che deve ospitarlo. Un confronto con lo spazio che includeva urbanistica, architettura, design».
Dietro l´invenzione del design c´era la trasformazione dell´Italia da paese contadino a paese industriale. Lei come cominciò?
«La prima cosa che feci fu una sedia a dondolo, marchio Poltronova. Ero totalmente persa. Ma allora si lavorava a contatto con gli operai, non c´era differenza tra produttore e design. Passavo le giornate in fabbrica, pigliando strisce di legno e intrecciandole. Il nostro lavoro era insieme molto artigianale e molto intellettuale, in una trama di corrispondenze con il cinema e il teatro. Oggi ci si interroga meno sulla funzione dell´oggetto, sul suo rapporto con la vita e la società».
Per questo è tramontato il made in Italy?
«Quaranta anni fa i grandi designer erano anche grandi architetti. Oggi sono per lo più decoratori, avendo rinunciato al rapporto con l´insieme».
Lei ha conosciuto le burocrazie di tutto il mondo, dall´americana alla francese, dalla tedesca alla spagnola. In che cosa siamo diversi?
«In Italia puoi vincere un concorso e rimanere senza lavoro se nel frattempo decade l´amministrazione che l´ha bandito. Altrove non è così. A Parigi vinsi la gara per il musée d´Orsay con Giscard d´Estaing, ma lo realizzai nell´era di Mitterrand, che veniva a trovarmi in cantiere. Prevedo l´obiezione: ma quella è la burocrazia francese, lo Stato forte. No, è accaduto anche nella più fragile Spagna: per costruire il museo nazionale della Catalogna ci sono voluti diciotto anni e non so quante amministrazioni. Però ce l´abbiamo fatta».
Come architetto donna s´è mai sentita discriminata?
«Appena arrivata a Parigi, al primo incontro ufficiale dopo aver vinto la gara, mi domandarono perplessi "Où est Monsieur Aulenti?". Pensavano fossi la moglie. In Italia ho sempre fatto finta di niente. Aiuta».
Le piace il nostro tricolore?
«Mi viene una risposta vigliacca, che però cancello».
La dica.
«Ho sempre preferito la bandiera rossa, ma è troppo facile. La verità è che non ci ho mai pensato».
E lo stellone repubblicano?
«Non me lo chieda. Dei simboli non ci si chiede mai il perché».
Forse non si conoscono molto. L´Italia ha una simbologia dimessa.
«E se le dicessi che è una cosa positiva? Noi siamo una nazione con tante storie e tante culture, che alimentano invenzione e non ortodossia».
Accade spesso che la sua austerità sia enfatizzata come un tratto molto poco italiano.
«Non sono sicura che l´esuberanza sia un tratto nazionale né un carattere meridionale. Se penso alla grande letteratura siciliana, dov´è questa esuberanza? Non è del principe di Salina, piuttosto del personaggio di don Calogero Sedara, esponente della piccola borghesia in ascesa. Forse la gestualità pittoresca è una cifra italiana più recente. Gli esempi pubblici non mancano».
Che cosa non le piace oggi di Milano?
«Non riesco più a leggerla, a interpretarne il movimento e il filo conduttore. I mezzi pubblici ricoperti di pubblicità contribuiscono a questa confusione. Prevale un senso di disordine che non è solo estetico ma civile».
Tempo fa ho portato la famiglia a sciare sulle montagne dell'Abetone e, lungo la statale del Brennero, abbiamo visto che gli alberi vicino alla sede stradale sono stati tutti tagliati. Allora ho approfittato dell'occasione per spiegare ai miei figli come il taglio degli alberi stia provocando delle frane, mentre questi svolgono spesso una importante funzione stabilizzatrice dei versanti e quindi riducono l'erosione e il deflusso incontrollato delle acque. Per prudenza, la settimana successiva, ho pensato bene di portare la famiglia al mare ma. .."i cipressi che a Bolgheri alti e schietti vanno da San Guido in duplice filar". dove sono finiti?
Supponendo che il cancro corticale del cipresso fosse il colpevole, stavo per spiegare in che modo insetti e funghi possono uccidere le piante e quali sforzi si deve fare per curarle, ma il vero colpevole non era il cancro, perche le piante erano state tagliate. Ora mi accorgo che lungo tutte le strade percorse, ai loro margini, non vegeta più né un platano, né un tiglio, né qualunque altro albero. C'è solo una lunga teoria di lamiere piegate ad arte, i guardrail, alcune delle quali sono anche chiamate 'ecologiche' perche rivestite di legno di pino!
Questo scenario incredibile e paradossale potrebbe diventare possibile, se si applicasse alla lettera la norma del codice della strada su cui si è basata la sentenza della Cassazione n. 17601 del 7.5.2010 per mezzo del quale un tecnico dell'Anas è stato condannato per omicidio colposo, non avendo provveduto a "mettere in sicurezza" il tratto stradale di sua competenza.
Gli effetti di questa norma del Codice della Strada, in sostanza, possono indurre a ritenere che ogni albero che si trova ad una distanza inferiore a 6 m dal ciglio stradale deve essere abbattuto (e mai ripiantato) in quanto potenzialmente pericoloso per la pubblica incolumità. La ragione ultima del disposto è oggettivamente condivisibile; chi non ritiene doveroso tutelare con il massimo rigore la sicurezza dei cittadini? Ma allora perche non asciugare l'asfalto dopo ogni pioggia (?!). Ovviamente non possiamo entrare n queste logiche senza superare il confine dell’assurdo (e si vedano a questo proposito i molti commenti alla sentenza rintracciabili sulle chat), però vorrei qui commentare quanto accaduto nell'ambito di un quadro più vasto.
La nostra Costituzione tutela la vita dei cittadini e la loro sicurezza, così come il territorio e l'ambiente, intendendo con ciò che la qualità della vita dei cittadini dipende anche dal luogo in cui essi vivono. Non si tratta di obiettivi contrastanti, nel senso che la tutela di un bene di valore primario e costituzionale non può comportare l'annientamento di un altro bene di pari valore. Ad esempio, fra i valori costituzionali vi è sia la tutela della salute che del "lavoro", ma quest'ultimo non può essere tutelato dalle norme a danno della salute e viceversa. Si deve cioè trovare un modo il più equilibrato possibile di perseguire questi beni e valori primari. Penso cioè che il Codice della Strada avrebbe dovuto trovare un più equo e intelligente (direi Costituzionale) compromesso fra il sacrosanto diritto alla sicurezza stradale e il diritto di tutela del paesaggio.
Sono convinto che una soluzione concreta esiste e che se certamente in qualche caso è necessario tagliare degli alberi che rendono molto pericoloso un incrocio, al tempo stesso la pericolosità dei nostri viali alberati non è data dalla presenza e dalla distanza degli alberi, o dall’assenza del guardrail, ma dal modo in cui noi guidiamo nelle diverse condizioni, dall’efficienza delle noste vetture e dalla manutenzione della sede stradale.
In questa ottica diventa chiaramente assurdo ipotizzare la distruzione di un elemento di qualificazione del paesaggio come il viale alberato per garantire la sicurezza che, invece, non si garantisce affatto. È, anche certo, infatti, che anche 'spostando' gli alberi a 6 m di distanza dalla sede stradale, tale misura non è quasi mai sufficiente a far sì che una macchina lanciata in velocità e magari senza controllo, possa fermarsi da sé. E allora perche invece di 6 m non spostare gli alberi a 100 m dal ciglio? Ricordo, altresì, che vi sono studi che dimostrano, invece, come la presenza di alberi al margine della strada contribuisca alla diminuzione degli incidenti, poiché favorisce la percezione del percorso, riduce l'impatto della luce solare e, favorendo il benessere psichico, tende a smussare i comportamenti imprudenti o aggressivi.
In questa ottica andrebbe rivista questa assurda norma del Codice, perche la sua applicazione implica l'impossibilità di progettare un viale alberato degno di questo nome ed in grado di assolvere le funzioni che gli sono proprie.
In sostanza l'approccio corretto dovrebbe essere il seguente: gli alberi (ma anche altri ma- nufatti come i pali della luce) possono trovarsi in prossimità della carreggiata stradale e la loro presenza può costituire una fonte di pericolo tale da indurre rischi di incidenti mortali o comunque assai gravi. Ai fini della normativa sulla sicurezza è necessario che il gestore predisponga misure di protezione collettiva (nel caso il guardrail) finalizzate a ridurre questa fonte di pericolo.
Ma, in tutti i casi, pensiamo un po' di più al ruolo, alle funzioni e alle condizioni di vita delle piante. Gli alberi lungo le strade, infatti, sono decisamente maltrattati, non solo a causa degli incidenti che subiscono, ma anche per colpa dell'Ente gestore, sia esso I' Anas o le amministrazioni locali. Molti alberi sono inclinati e quindi "fuori sagoma" o presentano carie estese od altre anomalie alla base del tronco e all'inserzione dei rami, con un notevole pericolo di rottura. Tutti questi difetti costituiscono una certa fonte di rischio per l'utente stradale, ben di più della loro minore o maggiore distanza dal ciglio! Ma questi difetti sono dovuti ad errori nella tecnica di impianto o nello spazio troppo limitato a disposizione, oppure nelle improprie tecniche di gestione colturale.
Questi alberi,più degli altri, dovrebbero essere prima compresi, mediante una appropriata valutazione della stabilità e quindi curati, secondo le tecniche dell'Arboricoltura, come si insegnano da tempo in questa scuola, da personale qualificato e magari certificato ETW (European Tree Worker), in modo che gli alberi siano sicuri per se stessi e in relazione agli spazi in cui si trovano a vegetare. Se una colpa dobbiamo fare a chi gestisce gli alberi lungo le strade, quest'ultima indicata è certamente legittima, mentre non si può accettare di vivere in un luogo a rischio zero, in quanto senza alberi, anche perche sarebbe un posto terribilmente stupido e noioso. .
Mille posti barca, 500 posti auto, ristorante. I comitati: «No alla privatizzazione dell’isola»
Via all’iter per l’approvazione della nuova darsena di San Nicolò. Il progetto di Est Capital dell’architetto Carlo Magnani, ex rettore del’Iuav, è stato illustrato ieri mattina alla Conferenza dei servizi presieduta dal commissario Vincenzo Spaziante.
Nel pomeriggio illustrazione alla Tethis dell’Arsenale, primo atto per aprire la procedura di Valutazione di impatto ambientale, che è stata «abbreviata» e ridotta a 30 giorni. Entro il 23 maggio dovrano essere presentate le osservazioni, il 31 maggio potrebbe essere approvata definitivamente insieme ai progetti per l’ex Ospedale al mare. 980 barche, anche yacht di lusso di grandi dimensioni, 500 posti auto lungo la diga. E poi ristorante, palestra, officine, yachting club, supermercato e uffici. E una nuova strada larga venti metri che porterà le auto a ridosso dei posti barca. Tutto sul lato mare della diga sud di San Nicolò. Parere favorevole della Soprintendenza, che ha apprezzato il «miglioramento del progetto dal punto di vista paesaggistico» e la riduzione dei posti barca, all’inizio 1500.
E’ uno dei tasselli dell’accordo stretto tra Est Capital e il Comune. Strada ormai quasi obbligata per Ca’ farsetti per incassare i soldi della compravendita dell’Ospedale al Mare e provare a sanare il bilancio. Ma i comitati non ci stanno. Ieri a Tethis hanno ascoltato la relazione del commissario Spaziante e dell’architetto Magnani, che ha annunciato un nuovo «parco» a ridosso del Mose. «Certo questo progetto è meno peggio di prima», dice Salvatore Lihard della Cgil, «ma resta il fatto che vioene così privatizzata una parte della nostra isola e del mare, e si insiste a metere una struttura che gli abitanti non accettano». Indice puntato anche sui lavori fatti dal Consorzio Venezia Nuova e dal Magistrato alle Acque che adesso saranno utilizzati dalla darsena, come la diga foranea (45 milioni di euro) che era stata stralciata perché ritenuta inutile. Adesso servirà a proteggere la darsena. «Ma il molo appena rifatto dovrà essere buttato via», dice Lihard, «e poi siamo preoccupati dall’inquinamento che mille barche porteranno alle nostre spiagge». Ma il percorso sembra ormai segnato. A volere la darsena sono le imprese che lavorano al Mose (Mantovani, Condotte, Fincosit) che hanno investito in questo grande progetto milioni di euro. Ieri la Conferenza dei servizi ha anche approvato alcuni studi per gli scavi del PalaCinema, la bonifica dell’isola della Certosa, dove è stato approvato il progetto di recupero dell’architetto Tobia Scarpa per il nuovo parco e un nuovo campeggio per la colonia Morosini.
In dispregio della pianificazione urbanistica e paesaggistica, calpestando le prerogative degli istituti della democrazia, prosegue la privatizzazione e la “valorizzazione” del Lido di Venezia: tassello di un più vasta strategia di mercificazione del territorio veneziano. Lo strumento adoperato è il “commissario straordinario”, i cui poteri – occasionati dall’inserimento del palazzo del cinema nelle opere promosse per l’anniversario dell’Unità d’Italia – si sono progressivamente estesi all’intera isola, con il beneplacito del Comune (sindaco Massimo Cacciari prima, Giorgio Orsoni ora, entrambi di centrosinistra). Il motore economico dell’operazione è la società di gestione immobiliare Est Capital, fondata e presieduta dell’ex assessore alla cultura della prima giunta Cacciari. All’impresa concorrono attivamente rilevanti personalità della cultura accademica: l’autore del progetto è l’ex rettore dell’IUAV: non è il primo docente della prestigiosa università che ha concorso fruttuosamente a “mitigare” e adornare le alcuni dei più discussi interventi del grande capitale finanziario-immobiliare, espresso dalle imprese aggregate nel Consorzio Venezia Nuova, costituito per progettare, sperimentare e realizzare il MoSE.
La furia devastatrice del partito degli affari immobiliari è particolarmente vivace in Sicilia. Anche in quella regione le istituzioni sono spesso strumenti degli interessi economici più arcaici, e concorrono a distruggere ciò che innanzitutto a loro spetterebbe tutelare. La notizia del giorno è il tentativo della Giunta regionale siciliana di abolire (sic: “abolire”) il Parco archeologico della Valle dei templi di Agrigento. Abbiamo chiesto a Teresa Cannarozzo, che è stata vicepresidente del Parco, di informare eddyburg in proposito.
I luoghi
Nel territorio agrigentino si materializzano i contrasti più stridenti: l’eccezionale patrimonio archeologico e paesaggistico della Valle dei Templi e un abusivismo edilizio diffuso e multiforme; orti urbani e giardini lussureggianti che si incuneano all’interno di periferie miserabili; una maglia invasiva e ingombrante di opere viarie, per lo più in viadotto che ha massacrato il territorio e il paesaggio.
Il Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi comprende al suo interno l’antica Akràgas, di cui si possono leggere frammenti significativi in alcune aree scavate da tempo. La città classica era solcata da due fiumi ed era difesa da forti salti di quota e da una cinta murata che non si distingue per colore e materiale dalle rupi sottostanti.
L’Ente Parco
L’Ente Parco è stato istituito da una legge regionale: la n. 20 del 2000. La legge assegna all’Ente Parco propri organi di gestione, il compito di redigere il Piano del Parco, di tutelare e valorizzare i beni archeologici, paesaggistici e ambientali, di promuovere la ricerca archeologica curandone anche l’aspetto divulgativo, di potenziare la fruizione sociale e turistica delle risorse territoriali per incrementare il turismo culturale.
Altre attività di routine del Parco riguardano la manutenzione e il restauro del patrimonio vegetale e dei terreni agricoli espropriati; si è sperimentata anche una piccola produzione di olio e di vino.
Dopo un lungo periodo di commissariamento, alla fine del 2006 è stato ricostituito il Consiglio del Parco che si è dato alcuni obiettivi prioritari: la redazione di una Carta Archeologica, la costruzione di una nuova strategia di comunicazione delle risorse del Parco e la ripresa dell’iter di formazione del piano del Parco.
Il piano
La finalità principale del piano, faticosamente redatto e in fase di approvazione da parte dell’Assessorato Regionale ai BB.CC.AA.AA., è quella di rafforzare l’identità del paesaggio della Valle, indebolita dall’abbandono dell’agricoltura, da una edificazione strisciante e da svariati attraversamenti viari, attraverso una serie di azioni progettuali partecipate, articolate tra tutela, recupero, riqualificazione e valorizzazione.
Il primo obiettivo del piano è rendere accessibile e visitabile tutto il patrimonio archeologico esistente attraverso la proposta di nuovi itinerari. Per ampliare la durata e la tipologia delle visite il piano prevede un itinerario che include anche il centro storico e la vicina Rupe Atenea, dove sono visibili edifici di origine classica, aree archeologiche minori e tratti delle fortificazioni. Per le stesse finalità il piano prevede interventi di rinaturalizzazione e riqualificazione della fascia costiera e degli alvei dei due antichi fiumi lungo i quali propone itinerari naturalistici e green ways.
Il piano prevede anche un nuovo sistema di accesso al Parco basato su parcheggi intermodali tangenti alle aree archeologiche, in connessione con bus navetta che copriranno diversi percorsi di visita; si prevede anche di utilizzare il tracciato ferroviario che attraversa la Valle e che arriva alla città, attualmente adoperato in occasioni sporadiche.
Il piano affronta il tema del riuso del patrimonio edilizio storico all’interno della Valle e propone di ampliare il sistema dei servizi e delle attrezzature prevedendo punti di informazione, luoghi di esposizione e vendita dei prodotti tipici, aree di sosta e ristoro, centri di ricerca, foresterie per gli studiosi e spazi museali.
Il piano propone anche una inversione di rotta nei rapporti con i proprietari di immobili all’interno della Valle; prevede infatti di fermare la politica degli espropri che hanno causato fatalmente l’abbandono delle aree rurali e degli edifici, con grande danno per la conservazione del paesaggio agrario e di inaugurare rapporti di convenzione con i residenti, sia per il mantenimento dell’agricoltura che per la fornitura di alcuni servizi.
In definitiva il piano considera il Parco un territorio multifunzionale, caratterizzato da una molteplicità di risorse, aperto contemporaneamente al mondo e alla città, in un processo di riappropriazione identitaria, storica e culturale da parte della comunità locale.
L’assalto del Governo Regionale
Nonostante i risultati positivi conseguiti nella gestione del Parco, il governo regionale in carica ha fatto intendere in diverse occasioni che avrebbe voluto smantellare l’Ente, cancellandone l’autonomia finanziaria e le competenze. Ma questo obiettivo sarebbe stato raggiungibile solo modificando o abrogando la legge istitutiva, a suo tempo voluta da un ampio schieramento politico trasversale.
La presentazione della finanziaria da parte del Governo, in corso di discussione all’Assemblea Regionale, è sembrata l’occasione utile: è stato introdotto infatti un emendamento devastante che cancella gli organi di gestione del Parco e, incredibilmente, anche il Piano, che tra l’altro è costato una cifra esorbitante. Sono infatti abrogati gli articoli da 7 a 14 del Titolo I della legge 20 del 2000.
Naturalmente, la cosa non è passata inosservata e si è scatenata una forte reazione, specie da parte di alcuni deputati del PD di Agrigento.
Si dice che l’emendamento sia stato ritirato ma la finanziaria è ancora in discussione e potrebbe essere riproposto. Per altro come accade dappertutto, la stampa, ancorché sollecitata, ignora le vicende di questo genere e il dissenso si muove attraverso percorsi carsici senza arrivare facilmente all’opinione pubblica.
Allora è possibile, - anzi vero, - che un messaggio forte e chiaro che «scenda dall'alto» è destinato a produrre effetti decisivi in questa scassatissima Repubblica parlamentare che è diventata l'Italia. Naturalmente, mi rendo perfettamente conto che, una volta stabilito il principio, può anche accadere che il messaggio vada in direzione contraria a quella per cui è stato invocato. Ma tant'è: una volta stabilito il principio, può darsi che la prossima occasione sia quella buona.
Nel frattempo bisognerebbe evitare che un Governo, arrivato alle soglie dello sfacelo, si salvi in questa situazione proprio a causa dell'appoggio, sia pure paradossale e indiretto, delle opposizioni. Forse un modo c'è: prescindendo dal merito, che probabilmente, ahimè, ormai non è più nemmeno in discussione, resta che il comportamento del governo italiano, e del suo presidente del consiglio, è stato in occasione della crisi libica assolutamente vergognoso. Come al solito, l'«onore dell'Italia», - secondo quanto scriveva il valdese Piero Jahier nel corso della prima guerra mondiale, - sta in basso, tra gli alpini-soldati allora, ma anche fra la gente comune oggi, sempre più stanca dei giochini che i potenti fanno sulla sua pelle. Ricorre il centenario della prima guerra di Libia (strano che non lo si sia abbastanza notato): quella fu la fonte di molte sciagure: speriamo che non lo sia anche questa.
Forse ha ragione Massimo D'Alema quando dice (la Repubblica, 28 aprile) che decisive potrebbero risultare le prossime elezioni amministrative (perché non anche i referendum, che invece vanno difesi a spada tratta? Mah). Va bene, scegliamo questa strada, che è la più classica, ma non per questo necessariamente sbagliata, e mettiamocela tutta. E poi?
Per vincere, o almeno per dare alla maggioranza una sacrosanta lezione, bisognerebbe che tutte le opposizioni convergessero verso la medesima direzione. E' l'ipotesi Pd-Bersani. Ma non è così. Casini fa un suo gioco, che corrisponde alla lettera agli orientamenti della chiesa in questo momento: cercare di far fuori l'ormai impresentabile B. per aprire una nuova dialettica all'interno del Pdl, cui l'Udc sarebbe ben lieta di partecipare (e probabilmente, di conseguenza, anche settori del Pd).
E i finiani? I finiani costituiscono un caso davvero singolare nel già singolarissimo quadro politico italiano. Come è noto, son partiti da una piccola ma non irrilevante «rivoluzione culturale», sulle colonne del Secolo e di altre pubblicazioni e riviste. Si trattava di rifondare culturalmente la destra italiana, fuori e contro l'egemonismo berlusconiano, e i suoi sostenitori lo hanno fatto a lungo in termini non trascurabili. Poi la storia e la politica li hanno spinti in direzioni obbligate e alquanto diverse: l'alleanza con Casini e Rutelli è davvero un'altra cosa rispetto alle loro premesse e ai loro obiettivi. Ora sono dilaniati anche da una crisi interna da parte di quelli di loro che li vorrebbero sospingere verso un ritorno all'indietro: in pratica, verso il riconoscimento di una sconfitta strategica e la conseguente inevitabile dissoluzione. Anche per loro le prossime scadenze, - Libia, referendum ed elezioni amministrative , - rappresenteranno una prova decisiva. Se si tirano indietro questa volta, sono spacciati.
E il Pd? Il Pd dovrebbe sforzarsi di uscire dalla equivocità perenne dei suoi atteggiamenti e delle sue scelte, cui forse lo condannano la sua affrettata composizione e la sua composita struttura (non parlo delle vecchie componenti: personalità come Bindi o Franceschini, per intenderci molto sommariamente, stanno molto più «a sinistra» di altre provenienti dal vecchio Pci). L'asse strategico, - «l'onore d'Italia», il vero «onore d'Italia» in questo momento, - dovrebbe consistere da parte sua nel presentarsi come il punto di riferimento decisivo di un vasto schieramento di forze, dentro e fuori i partiti, anche fuori, anche molto fuori dei partiti, intenzionati a mettere fuori gioco, e per sempre, e senza mezzi termini, e senza opportunistici accomodamenti durante il percorso, il fenomeno Berlusconi e il berlusconismo, in tutte le sue varianti politiche, economiche, sociali e culturali (magari partendo dalla cultura, come altre volte è accaduto, per risalire all'indietro la catena degli impegni e degli eventi).
Ci vorrebbe, come dire, un'assunzione molto più piena delle responsabilità che glie ne derivano (che glie ne dovrebbero derivare) sul piano del progetto, delle finalità, delle alleanze e delle scelte, oggi più impegnative che mai, di sviluppo. Dov'è l'altra Italia, c'è un'altra Italia in tanti discorsi vuoti di ogni prospettiva? Il centro-sinistra, in che senso è oggi anche sinistra? E la sinistra, in questa visione, da dove parte e dove arriva? La fase costituente, tanto spesso puerilmente invocata, non potrà riguardare solo le istituzioni ma anche e soprattutto, come sempre quando le fasi costituenti sono state serie, le forze politiche destinate ad esserne le principali protagoniste. Se non si riparte da qui, il risultato elettorale non basterà; le forze politiche dominanti forse si scambieranno fra loro ma resteranno sostanzialmente le stesse. Di tutto ciò, con la maggior benevolenza possibile, non si vede traccia nei nostri iperpolitici politici, neanche nei più accorti (o semplicemente astuti, che è già qualcosa).
La crisi politico-istituzionale, - anzi, più esattamente, politico-costituzionale, che è assai più forte, - in cui versa l'Italia, sebbene sovente mascherata o accantonata nei più vari modi (la guerra di Libia serve anche a questo, anzi, forse soprattutto a questo), continua inesorabilmente ad avanzare, è sempre più grave e può sfociare in una catastrofe politica, economica e sociale (culturale lo è già). Mantenere distinti i piani del discorso, anche quando talvolta o in una qualche misura si presentano intrecciati o persino in contraddizione fra loro, è continuare ostinatamente e senza sosta a mirare all'obiettivo grosso, è la condizione politica necessaria per sperare che ne esca in maniera almeno decente.
Entro pochi giorni il Parlamento dovrebbe approvare in via definitiva la legge che mira a sterilizzare il referendum sul nucleare. A quel punto l'Ufficio centrale della Cassazione dovrà valutare se la nuova normativa che ha modificato la precedente situazione abbia assunto i "principi ispiratori" e i "contenuti normativi essenziali" che si pongono a fondamento della richiesta del referendum abrogativo. Nel caso in cui la Cassazione non dovesse ritenere idonea la modifica legislativa e - dando credito alle parole del Presidente del Consiglio - giudicarla solo strumentale a impedire la deliberazione del corpo elettorale, l'esito del giudizio sarebbe quello di far svolgere comunque la consultazione, sebbene sulle nuove norme.
Alcuni autorevoli studiosi (Stefano Rodotà, Massimo Luciani) hanno sollevato una questione che potrebbe rendere però vano quest'accertamento, rendendo complessa l'ipotesi di "trasferire" il referendum sulla nuova disciplina. L'emendamento del Governo su cui si dovrebbe spostare il giudizio del corpo elettorale appare, infatti, palesemente ambiguo: composto da otto commi, cinque di questi abrogano tutte le norme su cui è stato richiesto il referendum, uno (il primo) afferma invece la natura solo sospensiva e non invece definitiva dell'abrogazione, un altro (l'ultimo) stabilisce il termine di un anno della sospensione. Se si andasse a votare sull'intera nuova normativa l'effetto paradossale sarebbe quello che l'eventuale vittoria del sì all'abrogazione dell'emendamento anti-referendum finirebbe per cancellare non solo le norme "truffa" (quelle che riservano al governo ogni futura decisione in materia nucleare: il primo e l'ultimo comma), ma anche quella parte dell'emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare; con l'effetto irragionevole e contraddittorio di ridare subito al governo tutti gli strumenti per proseguire nella sua politica di costruzione delle centrali nucleari. Al danno si aggiungerebbe la beffa.
Tant'è che si sono prospettate altre strade per dipanare la matassa, sostanzialmente legate all'eventualità che la Cassazione si rivolga alla Corte costituzionale affinché sia quest'ultima ad accertare la costituzionalità delle norme che regolano la materia (nonché della legge che contiene l'emendamento governativo). La strada suggerita è complicata e i tempi rischiano di essere troppo stretti, a pochi giorni dalla data fissata per il referendum.
A me sembra vi sia un'altra e più lineare ipotesi che permetta di dare soluzione alla questione sollevata, nel rispetto dei principi giuridici indicati e delle posizioni politiche espresse. Dando finalmente senso (politico oltre che giuridico) all'intera vicenda.
Come è stato evidenziato, infatti, ciò che rivela l'intento mistificatorio e meramente antireferendario dell'emendamento del governo è contenuto nel primo comma (e in parte nell'ultimo) dell'articolato normativo, non in quelli successivi. È in questa parte della nuova legge che si afferma la volontà di non accogliere i principi ispiratori dei referendari. Nel primo comma si legge che «non si procede alla definizione e attuazione del programma» nucleare solo momentaneamente, in attesa di «acquisire ulteriori evidenze scientifiche» e «delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea». È questo che appare incompatibile con la richiesta dei promotori del referendum che invece prospettano l'abbandono definitivo di ogni politica nucleare in Italia.
Sulla successiva abrogazione delle norme sul nucleare oggetto dei quesiti referendari, prevista dai commi successivi, non vi è invece nessuna questione di conflitto né tra i promotori del referendum, che proprio quest'obiettivo vogliono raggiungere, né con il Governo che prospetta il loro momentaneo congelamento.
La particolare struttura della disposizione normativa permetterebbe allora un "trasferimento del quesito" rispettoso dei diversi principi ispiratori. Basterebbe operare il trasferimento solo sul primo comma. In tal modo, il corpo elettorale sarebbe chiamato a scegliere tra la sospensione momentanea delle politiche nucleari (così come ritenuto necessario dal Governo e dalla maggioranza parlamentare) e il definitivo abbandono di ogni politica nucleare (così come richiesto dai promotori del referendum).
Per una maggioranza parlamentare fondata sul populismo mediatico, assuefatta alla ricerca e alla raccolta del consenso attraverso il controllo pressoché esclusivo della televisione, pubblica e privata, il subdolo tentativo di sottrarsi ai tre referendum in calendario a metà giugno è un paradosso imbarazzante che ha tutte le caratteristiche di una nemesi storica. Ovvero, di una pena del contrappasso di dantesca memoria. Tanto è avvezzo il centrodestra a invocare come un´ordalia la volontà o la sovranità popolare, al riparo del conflitto di interessi che fa capo al presidente del Consiglio e in forza di questo o quel sondaggio d´opinione, quanto il governo appare adesso preoccupato e smarrito di fronte alla verifica di una consultazione diretta.
Che cosa c´è di più "popolare" di un referendum? In quale altra occasione o con quale altro strumento si può esprimere più efficacemente la volontà del popolo? E in quale istituto della democrazia, appunto, si manifesta meglio la sua sovranità?
Innescata dalla catastrofe atomica giapponese, la paura di una sconfitta politica nel referendum sul nucleare ha indotto il centrodestra a ricorrere a una duplice ipocrisia: prima, quella della "pausa di riflessione"; poi, la cosiddetta "moratoria". Entrambe all´insegna di un proclamato "senso di responsabilità", pubblicamente contraddetto nell´arco di pochi giorni dallo stesso Berlusconi con l´improvvido annuncio che se ne riparlerà comunque fra uno o due anni, appena superato il tragico ricordo di Fukushima. Se questo non è un trucco, uno scippo, una truffa, ai danni della volontà popolare, tanto vale abolire il referendum dal testo della Costituzione.
Hanno ragione perciò i comitati referendari a protestare contro l´oscuramento decretato dalla Rai, nell´ultima fase della dissennata gestione di Mauro Masi, violando palesemente i compiti d´informazione e gli obblighi d´imparzialità e completezza che spettano al servizio pubblico radiotelevisivo. E mentre l´Autorità sulle Comunicazioni richiama i telegiornali per la "sovraesposizione del premier", fa bene ora il sindacato dei giornalisti interni a reclamare un segnale immediato di discontinuità da parte della nuova direzione generale. Piaccia o non piaccia al governo in carica e alla maggioranza posticcia che ancora lo sorregge, il ricorso al referendum abrogativo è un diritto supremo che garantisce il rispetto della volontà e della sovranità popolare.
A ulteriore conferma di questa operazione truffaldina, c´è poi il boicottaggio annunciato contro il referendum sull´acqua. Lasciamo stare qui il merito della questione: se l´acqua resta una risorsa pubblica, se si tratta di un´effettiva privatizzazione oppure se si possa distinguere tra gestione e distribuzione. Quello che conta è che c´è una legge approvata dal Parlamento e che questa legge può essere abrogata o meno attraverso una consultazione popolare. Non è accettabile sul piano democratico che la maggioranza cerchi di cambiare in extremis le carte in tavola, ricorrendo a qualche espediente per modificare o correggere un provvedimento già sottoposto alla procedura referendaria. Allo scippo, si aggiungerebbe in questo caso anche l´esproprio.
Ma il "clou" della manovra anti-referendaria, dissimulata sistematicamente dalla propaganda filo-governativa, riguarda il "legittimo impedimento": cioè il meccanismo che consente al capo del governo di decidere se ed eventualmente quando presentarsi in tribunale, per rispondere alle varie accuse che gli vengono rivolte dalla magistratura, chiamata ad amministrare la giustizia proprio "in nome del popolo italiano". E questo sarebbe davvero il colpo grosso, con l´unico obiettivo di difendere la posizione giudiziaria del presidente del Consiglio. Anche qui, a parte il merito della questione, si tratta essenzialmente di rispettare il fondamentale diritto dei cittadini a esprimere un giudizio definitivo su una legge votata da una maggioranza di parlamentari nominati dai capi-partito.
Arriviamo così all´invereconda situazione di un centrodestra che vince le elezioni con il sostegno di un apparato mediatico in cui si realizza il più macroscopico conflitto di interessi al mondo. Attraverso una legge elettorale definita notoriamente una "porcata", conquista una maggioranza dei seggi in Parlamento pur avendo ottenuto una minoranza dei voti nelle urne. E poi, invocando a ogni piè sospinto la volontà o la sovranità popolare, nega al popolo la possibilità concreta di ricorrere al referendum abrogativo. Se questa è ancora una democrazia, bisogna dire che è gravemente malata.
Galleria sotto vetro per almeno sette mesi. Dopo anni di annunci partiranno mercoledì prossimo i lavori per il restauro della pavimentazione del Salotto. Ma i milanesi e i turisti potranno seguire tutte le fasi di lavorazione perché si procederà per sezioni e le singole aree d’intervento saranno delimitate di volta in volta da protezioni verticali trasparenti e da passerelle orizzontali sempre in plexiglass. Il tutto, promette il Comune, si svolgerà senza penalizzare i commercianti (dovrebbe essere garantita quasi sempre la possibilità di mantenere i tavolini all’esterno) e il passeggio. «Compatibilmente con la tempistica richiesta dalle diverse fasi di lavorazione — si legge nella relazione tecnica degli architetti Silvia Volpi e Pasquale Mariani Orlandi — l’intervento sarà eseguito senza danneggiare il normale svolgimento delle attività commerciali» .
Per velocizzare il più possibile i tempi dell’intervento (che comincerà mercoledì con le campionature) in alcune aree, per esempio sul passaggio centrale e all’Ottagono, si lavorerà giorno e notte. E il cantiere partirà in contemporanea lungo i bracci lato piazza Duomo e lato Scala. Finito questo intervento toccherà al tratto su Ugo Foscolo e a quello verso Silvio Pellico. Restaurati anche i bracci laterali sarà quindi la volta dell’Ottagono e dei portici settentrionali di piazza Duomo. In coda i portici meridionali. Obiettivo: restituire alla città la Galleria scintillante entro 210 giorni. Per l’intervento, di cui si parla da anni, Palazzo Marino ha previsto una spesa di 1.970.000 euro. Soddisfatto del traguardo raggiunto l’assessore alle Infrastrutture e ai Lavori Pubblici, Bruno Simini: «Siamo intervenuti e stiamo intervenendo in molti ambiti in cui i milanesi vivono— sottolinea —.
Ora è il momento di occuparsi anche dello spazio per eccellenza in cui i milanesi "ospitano"i cittadini di tutto il mondo. Un luogo emblematico della città che finalmente tornerà a brillare» . La pavimentazione del Salotto di Milano verrà ripulita con mole, spazzole e saponi, per poi essere rinforzata e stuccata nei punti più malridotti. Le tessere del mosaico ormai irrecuperabili saranno sostituite e al termine del restyling sono previste ben quattro levigature, oltre alla lucidatura finale e al passaggio con olio e prodotti idrorepellenti. Anche i lucernari centrali verranno rimessi a nuovo. Scrivono ancora gli architetti nella relazione: «L’intervento sarà volto alla conservazione dei materiali e delle tracce storiche che su di esse il tempo ha impresso non trascurando la sicurezza e l’incolumità degli utenti» .
Per tutto il cantiere si farà base in via Ugo Foscolo. Il restauro della pavimentazione non è però che un aspetto della nuova vita immaginata dal Comune per la Galleria. Il progetto di Palazzo Marino punta verso uno sviluppo anche verticale, cioè sui piani superiori, e per arrivarci la giunta ha già approvato alcune delibere di indirizzo. La prima ristrutturazione sarà quella dell’ala che guarda su via Foscolo, per una superficie lorda di circa 5 mila metri quadrati: da McDonald’s (al fast food non verrà rinnovato il contratto d’affitto) ai palazzi in parte ancora abitati. Verso questo obiettivo si procede a piccoli passi, uniformando le scadenze d’affitto. Ieri la giunta comunale ha messo un altro tassello, approvando una delibera relativa a un immobile di via Silvio Pellico con destinazione commerciale, rinnovando la concessione con un nuovo canone, allo scopo di rendere più redditivi gli spazi.
Quando Obama vinse le elezioni, nel 2008, furono molti a esser convinti che una grande trasformazione fosse possibile, che con lui avremmo cominciato a capire meglio, e ad affrontare, un malessere delle democrazie che non è solo economico. La convinzione era forte in America e in Europa, nelle sinistre e in numerosi liberali. La crisi finanziaria iniziata nel 2007 sembrava aver aperto gli occhi, preparandoli a riconoscere la verità: il capitalismo non falliva. Ma uno scandaloso squilibrio si era creato lungo i decenni fra Stato e mercato. Il primo si era ristretto, il secondo si era dilatato nel più caotico e iniquo dei modi. Lo Stato ne usciva spezzato, screditato: da ricostruire, come dopo una guerra mondiale.
Le parole di Obama sulla convivenza tra culture e sulla riforma sanitaria annunciavano proprio questo: il ritorno dello Stato, nella qualità di riordinatore di un mercato impazzito, di garante di un bene pubblico minacciato da interessi privati lungamente dediti alla cultura dell’illegalità. Non era un’opinione ma un fatto: senza l’intervento degli Stati, le economie occidentali sarebbero precipitate. Un’economia non governata non è in grado di preservare lo Stato sociale riadattandolo, di tenere in piedi l’idea di un bene pubblico che tassa i cittadini in cambio di scuole, ospedali, trasporti, acqua, aria pulita, pensioni per tutti.
Quel che sta accadendo oggi non smentisce i fatti. Li occulta, li nega, con il risultato che i cittadini si sentono abbandonati, increduli, assetati di autorità che semplifichino le cose con la potenza del vituperio. Intervenendo per sanare il mercato, Stati e governi hanno adottato misure forse corrette ma il momento della verità l’hanno mancato, con il consenso delle opposizioni. Hanno mancato di dire che al mondo di ieri non torneremo, e che gli sforzi fatti oggi daranno frutti lentamente, perché lenta e lunga è stata la malattia capitalista. Di qui il dilagare di populismi di destra, in Europa e America, e la forza ipnotica che essi esercitano sulle opinioni pubbliche.
Prima ancora che la crisi finanziaria divenisse visibile fu l’Italia a negare i fatti, con Berlusconi e Lega. L’Italia è stato il laboratorio di forze che ovunque, oggi, sono in ascesa: in Belgio il Vlaams Belang (Interesse fiammingo), in Olanda il partito anti-islamico di Geert Wilders, in Ungheria il Fidesz, in Francia il Fronte di Marine Le Pen, in Finlandia i Veri Finlandesi.
Il rifiuto dello straniero, la designazione dell’Islam come capro espiatorio, la chiusura delle frontiere mentali prima ancora che geografiche: i populismi odierni si riconoscono in tutto questo ma la xenofobia non è tutto, non spiega la natura profonda della loro seduzione. All’origine c’è una volontà ripetitiva, sistematica, di non sapere, non vedere la Grande Trasformazione in cui stiamo entrando comunque. C’è una strategia dell’ignoranza, come sostiene il professore di linguistica Robin Lakoff, un desiderio di fermare il tempo: «L’attrattiva dei populisti scaturisce da un affastellarsi di ignoranze: ignoranza della Costituzione, ignoranza dei benefici che nascono dall’unirsi in sindacato, ignoranza della scienza nel mondo moderno, ignoranza della propria ignoranza» (Huffington Post, 30 marzo 2011).
Il vero nemico dei nuovi populismi è la democrazia parlamentare, con il suo Stato sociale e la sua stampa indipendente. Di qui le incongrue ma efficaci offensive antistataliste contro Obama, nel preciso momento in cui l’economia ha più bisogno dello Stato. Di qui il diffuso fastidio per la stampa indipendente, quando più ci sarebbe bisogno di cittadini responsabili, quindi bene informati. A tutti costoro i populisti regalano illusioni, cioè il veleno stesso che quattro anni fa generò la crisi. Ai drogati si restituisce la droga. Cos’è d’altronde l’illusione, se non un gioco (un ludus) che dissolve la realtà nelle barzellette sconce quotidianamente distillate dal capo? Cos’è il fastidio per la stampa indipendente, se non strategia che azzera la conoscenza dei fatti? Meglio una barzelletta del potente che una notizia vera sul potente.
L’Italia è all’avanguardia anche in questo campo: la concentrazione dell’informazione televisiva nelle mani di uno solo è strumento principe dell’ignoranza militante, e distraente. In Ungheria l’odio per la stampa impregna il partito del premier Viktor Orbán: le nuove leggi varate dal governo prevedono un’autorità di controllo sui mezzi di comunicazione, composta di cinque esponenti nominati dal partito di maggioranza. All’autorità spetta di verificare se la stampa è «equilibrata e oggettiva», di decidere multe o chiusure di giornali o programmi tv, di imporre ai giornalisti la rivelazione delle fonti se sono in gioco «la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico».
Anche lo straniero come capro espiatorio è gioco d’illusione, feroce, con la realtà multietnica in cui già da tempo viviamo. Il fenomeno non è nuovo. Negli anni ‘20-’30, la Germania pre-nazista esaltò il Blut und Boden, il sangue e la terra, come fonte di legittimazione politica ben più forte della democrazia. Oggi lo slogan è imbellito – si parla di radicamento territoriale, davanti a una sinistra intimidita e plaudente – ma la sostanza non cambia. La brama di radici, ancora una volta, impedisce il camminare dell’uomo e lo sguardo oltre la propria persona, il proprio recinto. Consanguineità e territorio divengono fonti di legittimazione più forti della Resistenza.
Helsinki ladrona, Roma ladrona, Washington ladrona: si capisce da questo slogan (lo stesso in Finlandia, Italia, America) come l’anti-statalismo sia centrale. Come la xenofobia sia il sintomo più che la causa del male. Vedendo che la crisi perdura, le popolazioni hanno cominciato a nutrire un’avversione radicale verso l’idea stessa di uno spazio pubblico dove la collettività, tassandosi, difende i più deboli, i più esposti. I populisti non temono di contraddirsi, anzi. D’un sol fiato si dicono antistatalisti e promettono uno Stato controllore, tutore dell’etnia pura, normalizzatore delle coscienze e delle conoscenze.
I sondaggi sul successo del Tea Party, il movimento neoliberista Usa, lo confermano. La molla decisiva non è il razzismo: è il rigetto della riforma sanitaria di Obama, del principio dell’etica pubblica. L’etica pubblica mette tutti davanti alla stessa legge, perché nessun interesse privato abbia la meglio. Lo Stato etico dei populisti impone il volere del più forte: Chiesa, lobby, etnia. Lo chiamano valore supremo, non negoziabile. In realtà è puro volere: suprema volontà di potenza.
Come mai le cose sono andate così? Come mai Obama può perdere le elezioni? In parte perché i governi hanno sottovalutato l’enorme forza del risentimento. In parte perché non hanno spiegato quel che significa, nel mondo globalizzato, salvare il bene pubblico. Ma è soprattutto la verità che hanno mancato: sono quattro anni che descrivono la crisi come superabile presto, il tempo d’arrivare alle prossime elezioni. Obama stesso ha omesso di spiegarla nella sua lunga durata: come qualcosa che trasformerà le senescenti società occidentali, che le obbligherà a crescere meno e integrare giovani immigrati, se non vorranno scaricare i propri anziani come il vecchio capofamiglia sulla sedia a rotelle che i nazisti gettano dalla finestra nel Pianista di Polanski. Per paura elettorale i governanti celano la verità, e ora pagano il prezzo.
Anche l’Europa ha la sua parte di colpe. Gli strumenti li avrebbe: può usare l’articolo 7 del Trattato di Lisbona, contro le infrazioni antidemocratiche in Italia o Ungheria. Può costruire una politica dell’immigrazione, avendone ormai la competenza. Se non lo fa, è perché non guarda ad altro che ai parametri economici. Perché è indifferente all’ethos pubblico. Perché quando esercita un potere, subito se ne pente. Perché dimentica che anch’essa è nata nella Resistenza.
Nel momento in cui la sua fonte di legittimazione politica è usurpata (al posto della Resistenza: il radicamento territoriale) l’Europa ammutolisce. Ha vergogna perfino delle cose non sbagliate che ha fatto: del comportamento che ebbe nel 2000, ad esempio, quando i neofascisti di Haider divennero determinanti nelle elezioni austriache del ‘99. Non mancarono certo gli errori: troppo presto si usò l’arma ultima delle sanzioni, presto abbandonate. Ma anche se disordinatamente, l’Unione almeno reagì, s’inalberò. L’Austria fu costretta a riaprire ferite tenute nascoste, a discutere colpe sempre negate, e il suo volto cambiò. Se l’Unione è così invisa ai populismi vuol dire che potrebbe far molto, se solo lo volesse.
Gentile Augias, la maggioranza di governo non si fida dei propri elettori e cerca di cancellare i referendum, un esempio di come s'intende la "libertà" e la "democrazia". Prima hanno separato le elezioni amministrative dai referendum, buttando 400 milioni di euro (800 miliardi di lire) che potevano essere utilizzati per creare posti di lavoro per i giovani, finanziare le Regioni per i fondi per la non autosufficienza, o per il trasporto pubblico. Hanno scelto un doppio appuntamento per rendere più difficile andare a votare. Poi hanno capito che neanche questo bastava e saremmo andati a votare lo stesso, così hanno deciso che era meglio non rischiare e cancellare i referendum con piccoli decreti che non cancellano il problema del nucleare e della privatizzazione dell'acqua ma lo spostano di un anno o creano un "garante". I paladini della libertà e della democrazia hanno paura del voto, i parlamentari del Pdl e della Lega non si fidano di chi li ha mandati a Roma! Mi chiedo quanti saranno gli italiani consapevoli dei trucchi con i quali si raggira la democrazia.
Aldo Tassara aldoenuccia@libero.it
T ra maggio e giugno saremo chiamati a votare due volte, alcuni tre. Il 15 e il 16 maggio elezioni locali che riguarderanno 1.300 comuni della penisola su un totale di 8.090 ovvero il 16 per cento circa del totale. Tra questi città significative: Milano e Napoli, per citarne solo due. Ballottaggi, se saranno necessari, il 29 e 30 maggio. Già questo doppio appuntamento è un'anomalia italiana. In tutti gli altri paesi del mondo si vota un solo giorno, non necessariamente la domenica. Il lunedì viene dalla sfiducia che la maggioranza ha nel proprio elettorato: se la domenica stanno al mare, facciamoli votare anche di lunedì. Sarebbe stato conveniente da ogni punto di vista accoppiare a questa tornata anche il voto sui referendum. Troppo semplice, troppo rischioso. I referendum sarebbero stati trascinati dalla partecipazione al voto amministrativo e magari avrebbero passato il quorum. Dunque altri due giorni di voto il 12 e 13 giugno, quando la bella stagione porterà davvero molti al mare. I referendum vertono su tre argomenti. L'impopolarissima privatizzazione dell'acqua; il ritorno dell'energia nucleare; l'eliminazione del legittimo impedimento che al momento rende tutti i ministri, a cominciare dal primo, in pratica non giudicabili. Dopo la tragedia di Fukushima, la bocciatura sul nucleare era scontata; è stata disinnescata togliendo, per ora, dall'agenda l'energia nucleare. Sull'acqua un ministro ha detto che bisognerà approfondire il tema, altro decreto. Resta il legittimo impedimento, quello che il premier teme di più. Sventuratamente è anche quello sul quale gli italiani sanno di meno.
La domanda «ma si può andare avanti così?» non è della casalinga di Voghera ma dell'ex vicedirettore del Corriere della sera Dario Di Vico. Quel che «non può andare avanti così» è il tentativo vetero-operaista novecentesco di cosiderare intoccabile la festa del 1° Maggio. «Si possono difendere strenuamente i nostri privilegi sapendo, tra l'altro, che saremo gli ultimi a usufruirne? Si può aprire una querelle politica sul sacrilegio di aprire i negozi il 1° Maggio a Firenze, Roma e Milano?». Ad aprire la querelle, in realtà, è proprio il Corsera che ha scelto di cavalcare la decisione del democratico sindaco di Firenze, Matteo Renzi, di alzare le serrande della sua città nel giorno della festa dei lavoratori. «L'happy hour non si tocca, è la nostra trincea», è il grido di dolore di Di Vico scatenato contro la Cgil. Bisogna monetizzare e non rifiutare il lavoro festivo, lo impongono la modernità, la crisi, la concorrenza, i diritti dei consumatori e il Corsera. Facciamola finita con «i nostri sacri valori religiosi o politico-culturali che siano».
Ancora più esplicito è l'attacco di Antonio Polito, dalle pagine dello stesso giornale milanese combattente, al «vade retro shopping». Polito accusa la «discendenza marxista», per la quale «il cittadino-produttore viene prima del cittadino-consumatore». Un vero scandalo. Invece, aggiungiamo noi, non deve scandalizzare che Renzi, tra i due cittadini, scelga quello consumatore: non è un provocatore ma un coerente dirigente del Pd, nel cui atto costitutivo si cancella il lavoratore per promuovere il consumatore. Del resto, dallo statuto del Pd scompare anche la lotta antifascista, ma a questo aveva già provveduto diversi anni fa la Borsa di Milano decretando giornata lavorativa il 25 Aprile.
Nessun valore può ostacolare il libero mercato, figuriamoci il supermercato, «la catena non si ferma, non c'è ragione», cantava Giovanna Marini. La festa del 1° Maggio diventa come la sabbia che i luddisti mettevano negli ingranaggi delle macchine. Se il lavoratore viene retrocesso a schiavo - vedi Marchionne - mentre il consumatore viene incoronato come primo fattore anticrisi, si capisce tanto accanimento contro il 1° Maggio e quel che rappresenta. Sono passati 31 anni dall'80, quando il manifesto organizzò il convegno «Liberare il lavoro o liberarsi dal lavoro?» che si concluse presso a poco così: «Liberare il lavoro dal profitto».
Era un altro mondo, oltre che un altro secolo, quando i negozi restavano chiusi il 1° Maggio e anche il 25 Aprile. Anche quest'anno, a dire il vero, i negozi sono rimasti chiusi il 25 Aprile, persino la Borsa, ma solo perché la Liberazione coincideva con la sacra Pasquetta. Checché ne dica Di Vico, c'è valore (religioso) e valore (politico-culturale). Basta alzare gli occhi su Varsavia: per la prima volta dal secondo dopoguerra non ci sarà il corteo del 1° Maggio. Per lasciar spazio alla processione che celebrerà la beatificazione di papa Wojtyla. O tempora o mores.
Postilla
Ci sono gesti che rappresentano la natura dei nostri tempi in modo esemplare, riassumendo in una decisione amministrativa apparentemente modesta un evento epocale. La proposta (la decisione) di tenere aperti gli esercizi commerciali il giorno della festa dei lavoratori è uno di questi. L’evento che quella decisione splendidamente rappresenta è semplice a dirsi: la riduzione dell’uomo, da titolare di diritti, in cliente, in soggetto utile unicamente in quanto disposto a comprare merci, o a favorirne la vendita.
Dopo secoli di riscatto l’uomo diventa di nuovo servo: non più del Signore arroccato nel suo castello, ma dei meccanismi anonimi dell’economia data; non più servo della gleba, ma servo del Mercato. Ridotto tale dall’uso spregiudicato dei sempre più raffinati saperi e delle sempre più evolute tecnologie della persuasione occulta, della manipolazione culturale, della formazione surrettizia dell’ideologia dominante.
Anche il mercato ha i suoi intellettuali organici. Non ci meraviglia più di scoprire come alcuni di questi provengano da sponde una volta antagoniste. Anche questo è segno triste dei tempi. Rincuora solo il fatto che ancora ci siano aree che resistono: più nella società civile che nelle istituzioni.
Cerba, Città della Salute o entrambe? In un momento di crisi e di difficoltà con sempre meno risorse disponibili per la sanità la domanda è tutt’altro che scontata. Realizzare entrambe le strutture oggi sembra un’impresa titanica, la crisi economica impone spese sempre più oculate e i ricoveri ospedalieri in tutta Italia sono in flessione. Milano già oggi garantisce oltre 500 mila ricoveri ogni anno ma ambisce sempre più a diventare un polo europeo di riferimento per la salute.
Il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), dovrebbe nascere sui terreni del Parco Sud vicini all’attuale sede dell’Istituto Oncologico Europeo, mentre dalla parte opposta della città, a nord-ovest, dove oggi si trova l’ospedale Sacco, avrebbe sede il polo della Città della Salute che prevede il trasferimento dell’istituto dei Tumori e del neurologico Besta, per un totale di 1.450 posti letto, diventando così uno dei più grandi ospedali italiani.
Intanto il Policlinico continua a marce forzate la sua opera di ristrutturazione e rinnovamento; è già attivo il primo blocco del nuovo Niguarda e per il 2014 è prevista l’ultimazione dei lavori; da questa estate è poi avviato il nuovo polo cardiologico dell’Auxologico in piazzale Brescia, insomma l’offerta sanitaria in città non manca. La sanità è uno dei più importanti motori della nostra regione e i nuovi poli costituiscono una grande occasione di rilancio tecnologico ma anche di investimento residenziale per la nostra metropoli, un’opportunità per realizzare nuovi spazi dove ricercatori, studenti, infermieri possano trovare luoghi di accoglienza e incontro.
Non ci si può però permettere di sprecare risorse, è fondamentale una programmazione mirata e corretta, sviluppando gli interventi sulla base dei reali bisogni di salute della popolazione, non si può ripetere quanto è successo in passato e che ha portato la nostra regione ad avere più cardiochirurgie di tutta la Francia. Alcune aree specialistiche sembrano, già oggi, troppo affollate, la competizione sta divenendo eccessiva e sterile per il malato. L’azione di programmazione dovrebbe essere indirizzata a coprire i vuoti assistenziali, a potenziare le strutture e i servizi più deficitari dei quali domani avremo maggiore necessità.
La chiave di lettura di questo articolo, che ahimè riflette e plasma l’opinione pubblica su un tema fondamentale per la convivenza civile, potremmo anche titolarla: “Ottenuta la separazione legale fra Città Sana e Città della Salute”. Perché di questo si tratta: lo star bene direttamente proporzionale alla densità locale di camici bianchi, posti letto, servizi e apparecchiature connessi. Che disastro! E pensare che l’urbanistica moderna nasce proprio da una convergenza di varie prospettive tecnico-scientifiche sul tema della Salute! Ma si vede che anche questo punto di vista è un po’ come il bistrattato “veteromarxismo” di chi vuole tenere i negozi chiusi il Primo Maggio: fuffa ottocentesca di cui liberarsi disgustati al più presto.
Possibile che non venga in mente a nessuno, l’equazione fra qualità urbana e salute, qualità urbana e congestione/stress/inquinamento, e infine la banalissima statistica del rapporto fra abitanti e verde in città? Macché: la “Salute” sono più ospedali, e gli ospedali si mettono là dove hanno deciso i medici (e magari, di sfuggita, i loro sponsor palazzinari), senza badare a sciocchezze tipo l’occupazione delle poche residue aree verdi in città. Cosa mai sarà l’azzeramento di qualche rete ecologica del Parco Sud o la cancellazione di una delle poche soluzioni di continuità fra gli svincoli autostradali nord-ovest e la cintura metropolitana, di fronte alla “opportunità per realizzare nuovi spazi dove ricercatori, studenti, infermieri possano trovare luoghi di accoglienza e incontro”?
Personalmente non mi permetterei mai di entrare in una sala operatoria esponendo le mie presunte priorità o opportunità d’intervento, neppure se si trattasse di persona cara. Ma forse il mio è un atteggiamento malsano, chissà (f.b.)
Con la pubblicazione del Rapporto Preliminare e dell'Analisi preliminare (identificata con la Carta dei Luoghi e Paesaggi del Piano stesso") ha preso avvio la prima fase, attività di scoping, del processo di VAS relativo al PPR dell'Abruzzo. Italia Nostra, che alla pianificazione paesaggistica intende rivolgere particolare attenzione ed a tale scopo ha promosso uno specifico Osservatorio nazionale, ha organizzato a Pescara il convegno "Il nuovo Piano Paesaggistico della regione Abruzzo: cominciamo a discuterne". Di seguito si riporta una delle relazioni tenute nell'occasione.
La nostra particolare attenzione alla Carta dei Luoghi e dei Paesaggi (CdLeP) discende dal ruolo che tale strumento assume non solo rispetto al Piano Paesaggistico Regionale (PPR), di cui costituisce il corredo conoscitivo di base, ma anche e soprattutto, quale istituto previsto, dalla nuova Legge Urbanistica Regionale (LUR), con funzioni molto significative ed importanti nei nuovi processi di pianificazione.
L’art. 5 della LUR definisce, infatti, la CdLeP quale sistema della conoscenza condivisa, e pertanto riferimento analitico imprescindibile di tutti i piani regionali di qualsiasi livello; in coerenza con tale strumento saranno conseguentemente definiti i quadri conoscitivi dei piani di settore, provinciali, e comunali; non solo, l’art. 8 della legge, al comma 10, precisa che “La Carta dei Luoghi e dei Paesaggi ” costituisce strumento conoscitivo della pianificazione urbanistica e territoriale, anche ai fini delle verifiche di compatibilità di cui all’art. 19”, come confermato nel Rapporto Preliminare: “La Carta dei Luoghi e Paesaggi, quale Quadro conoscitivo del nuovo Piano Paesaggistico Regionale, è parte integrante del medesimo e ne rappresenta lo strumento di valutazione di piani e progetti in relazione ai temi del paesaggio e dell’ambiente.”
Quindi ci pare pienamente legittima una lettura della Carta, quale quella che ci accingiamo a compiere, in termini autonomi, nei contenuti noti e alla luce della cartografia pubblicata; dalla lettura dei materiali ci sentiamo di affermare, non per amore del paradosso, che la Carta dei Luoghi e Paesaggi trascuri, dimentichi, nella sua complessiva configurazione, proprio i paesaggi.
La Carta, contraddittoriamente rispetto alla sua stessa denominazione, si occupa, degli aspetti fisici, storico-culturali e urbanistico-insediativi del territorio ed esclude dal proprio orizzonte di indagine gli aspetti percettivo-identitari, sociali e simbolici, propri della dimensione paesaggistica.
Per tale motivo, in considerazione del ruolo che la LUR assegna alla CdLeP, si può affermare, in particolare, che dal sistema conoscitivo di base del PRG viene espunta una lettura del territorio in termini di singolarità, specificità e differenze dei suoi componenti e cioè del riconoscimento dei paesaggi di valore, dell’ordinarietà o del degrado.
Recentemente sul sito web della Regione dedicato al PPR sono state pubblicate le 91 tavole di analisi ed è probabile che in esse siano rinvenibili aspetti conoscitivi significativi, non considerati rilevanti in sede di sintesi e che, invece, dovrebbero essere recuperati e opportunamente integrati nella CdLeP.
Ma i contenuti formulati sono pur sempre quelli che, nella generalità dei casi, vengono preliminarmente acquisiti dai comuni nella redazione degli strumenti urbanistici generali e che, nella maggior parte dei casi, richiedono la semplice assunzione e presa d’atto degli stessi, piuttosto che l’attivazione di percorsi partecipativi per la loro condivisione.
E’ anche evidente, nella impostazione data, la contraddizione con la stessa definizione di CdLeP formulata nel Rapporto Preliminare: “La Carta dei Luoghi e dei Paesaggi, è un sistema di conoscenze istituzionali, conoscenza di progetto (intenzionali), e di conoscenze locali (identitarie), che descrivono il territorio secondo le categorie di Vincoli, Valori, Rischi, Degrado, Abbandono, Frattura, Conflittualità…”
Perché la Carta sia coerente a tale difinizione, che ricalca il testo formulato nella LUR in itinere, è necessario che le analisi vengano integrate degli aspetti relativi alle conoscenze di progetto, (a partire dai programmi degli enti che si occupano di infrastrutturazione del territorio) e alle conoscenze identitarie condivise, presupponendo, quindi, un percorso di compartecipazione degli altri enti territoriali e delle comunità locali alla definizione del Piano.
D’altra parte è lo stesso Direttore generale, l’architetto Sorgi, a confermare questa considerazione quando afferma che:” gli elaborati del nuovo Piano paesaggistico regionale declinano dati territoriali ufficiali validati dagli Enti pubblici competenti ed in relazione ai quali codeste Associazioni possono solo segnalare eventuali carenze ed errori…”.
Da ciò deriva la grave ed inaccettabile conseguenza che le analisi di base dei Piani Comunali e le verifiche di compatibilità previste dalla nuova LUR, non dovranno misurarsi, ex ante, con una componente essenziale della pianificazione territoriale quale quella derivante dai caratteri e dai valori paesaggistici del territorio. Aspetti, questi, che il PPR assume nelle successive analisi relative all’Approccio sintetico induttivo e che sviluppa progettualmente nell’Atlante del Paesaggio, in relazione ai 21 paesaggi identitari regionali.
***
Disattendendo l’esortazione del Direttore generale prima richiamata, entriamo nel merito delle differenti elaborazioni cartografiche presentate, ponendo in risalto i rapporti diretti e indiretti fra indagine svolta e contenuti paesaggistici inespressi, i limiti analitici presenti e formulando considerazioni che, per quanto indesiderate, ci auguriamo utili al prosieguo dell’elaborazione del Piano.
1 Carta dell’Armatura urbana.
Su tale elaborato si avanzano due osservazioni:
a) L’unificazione in un’unica categoria dei Suoli Urbanizzati e dei Suoli urbani Programmati, non permette di distinguere la differenza fra ambiti territoriali consolidati, aree in corso di trasformazione e ambiti non ancora trasformati e pertanto questa lettura non consente di cogliere, come necessario e come negli intendimenti dei pianificatori, gli effettivi livelli di trasformabilità del territorio.
Si tratta di un aspetto di rilievo, a nostro avviso determinante, se solo si tiene conto del frequente sovradimensionamento insediativo dei piani regolatori comunali, della consueta sovrastima e reiterazione delle aree produttive, e quindi della possibilità/necessità di ripensare scelte compiute dalla pianificazione comunale, là dove queste si interferiscano con preesistenti valori paesaggistici.
In rapporto a queste situazioni problematiche, pur se il Codice sancisce la prevalenza normativa del PPR sugli strumenti urbanistici di scala inferiore, è auspicabile che, per il successo della stessa pianificazione paesaggistica, si percorra la via del confronto, del convincimento e della condivisione, utili alla crescita culturale e alle sensibilità diffuse dei cittadini. Sono queste le circostanze più opportune in cui promuovere iniziative di copianificazione, in modo da verificare e sciogliere, in termini compatibili per l’ambiente e per il paesaggio, i conflitti rilevati.
Questa attenzione alle sensibilità locali, nello spirito della Carta Europea del Paesaggio – quando, ovviamente, siano in gioco interessi della comunità insediata e non il tornaconto dei singoli e delle lobby - va comunque posta in relazione con l’assunto che il patrimonio paesaggistico locale “appartiene”, spesso, anche a comunità più ampie che trovano in esso l’espressione della propria identità (dai paesaggi di valenza regionale sino a quelli considerati patrimonio dell’intera umanità).
Si corrono, altrimenti, due rischi: il primo, quello di chiudersi in un localismo di corto respiro e di inaccettabili conseguenze e il secondo, di configurare una sostanziale e diffusa legittimazione, senza alcuna verifica, della pianificazione in atto, ripetendo quanto verificatosi in occasione della redazione del precedente Piano paesistico regionale, alla cui stesura, per lo meno, si era pervenuti attraverso un ampio coinvolgimento della società regionale.
b) La lettura dei caratteri insediativi è effettuata con un approccio unicamente “funzionale”, con l’utilizzazione delle categorie di: areeurbanizzate, servizi e aree produttive.
Qualche considerazione critica nel merito:
La mancata indagine sulla morfologia insediativa, quindi sulle forme specifiche degli assetti territoriali, non consente di conoscere i caratteri fisioniomici del costruito e, conseguentemente, di individuare gli ambiti di degrado, gli ambiti di particolare problematicità o i tessuti di qualità all’interno delle strutture urbane.
Non si evincono le dinamiche in atto, in particolare, rispetto alle più evidenti pressioni insediative: dalle risorse territoriali sottoutilizzate, alle aree a intenso consumo di suolo;
Una lettura sommaria che non articola sufficientemente le tipologie insediative, può indurre a gravi equivoci interpretativi (un esempio per tutti sulle infrastrutture del turismo: uno stesso simbolo indica i camping, di scarso impatto paesaggistico e attrezzature alberghiere di enorme evidenza insediativa).
In definitiva, non emergono nelle analisi i caratteri qualitativi dell’urbanizzazione (la periferia ed i margini urbani anonimi, ambiti di degrado, la città diffusa, la qualità insediativa delle aree produttive e il peso delle infrastrutture, ecc) elementi conoscitivi importanti sia per l’individuazione dei beni da tutelare, sia per la riqualificazione dei paesaggi dell’ordinarietà e del degrado e sia, infine, per la costruzione di nuovi paesaggi che consentano il riscatto dall’anomia dei processi di omologazione diffusi.
La carta dei rischi riporta sostanzialmente dati mutuati dal PAI, con l’individuazione delle aree di instabilità e quelle di esondazione. Dati particolarmente significativi ai fini della valutazione di rischi per l’edificazione e per l’individuazione delle più consone direzioni di espansione dell’abitato, piuttosto che per l’integrità dell’ambiente e del paesaggio.
In questa ottica, e in riscontro con altri aspetti dell’analisi, si manifesta una singolare e preoccupante distorsione di immagine:
i fiumi sono riguardati principalmente quale elemento di pericolo esondativo piuttosto che nella loro importante funzione ambientale e paesaggistica,
emergenze geologiche quali, ad esempio, i calanchi, risultano solo rischio e non elementi identitari del paesaggio collinare,
Si tratta di un evidente ridimensionamento di significato rispetto alla definizione che la nuova LUR formula per tali ambiti: “ Areali di rischio: quali parti del territorio caratterizzate dalla presenza di fattori di instabilità, fragilità e perdita di qualità riconosciute, che ne compromettono una o più caratteristiche costitutive, rilevanti ai fini della definizione delle Unità GPA e/o del Valore”. La norma, come si legge, sottende una visione di rischio più ampia e articolata rispetto alla sola dimensione del pericolo per le costruzioni.
A nostro avviso i rischi da indagare, in relazione alla componente del paesaggio, sono altri, quali ad esempio:
il numero dei permessi di costruire in zona agricola, gli accordi di programma in deroga che coinvolgono suoli agricoli, interventi per la realizzazione di strutture produttive ai sensi della L. 447/98, le ricadute della deriva petrolifera, l’eolico selvaggio, il fotovoltaico rurale, ecc.
Rischi, questi, concreti e tangibili per la perdita di qualità riconosciute del territorio e del paesaggio che derivano dai processi che in modo sempre più invasivo interessano lo sviluppo del territorio: l’inarrestabile consumo di suolo soprattutto agricolo, la saturazione della fascia costiera e la progressiva occupazione delle aree golenali, la crescente infrastrutturazione viaria con l’aumento della frammenterietà dei suoli, le deroghe ai vincoli del piano paesistico vigente, ecc.
Si tratta di materia di grande importanza per la costruzione del piano; si consideri che l’individuazione dei fattori di rischio e degli elementi di vulnerabilità del paesaggio è uno dei contenuti essenziali dell’elaborazione del piano paesaggistico ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
3 Carta del degrado e dell’abbandono
Oggetto dell’indagine sono i suoli produttivi abbandonati, le cave (di cui però sarebbe opportuno introdurre la distinzione fra quelle dismesse e quelle in esercizio) e le discariche.
Anche per tale problematica si rileva una contrazione di significato rispetto alla definizione della nuova LUR: “….parti del territorio caratterizzato da fenomeni di abbandono (degli usi antropici) e dal conseguente degrado dei fattori costitutivi”.
Per cogliere a pieno i fenomeni di abbandono e di sottoutilizzazione delle risorse territoriali, gli oggetti dell’indagine dovrebbero comprendere anche i centri storici, gli antichi insediamenti, o le aree produttive o marginali.
Rispetto ai fenomeni di degrado una lettura inclusiva della dimensione ambientale e paesaggistica dovrebbe prendere i considerazione, ulteriori detrattori rispetto a quelli richiamati quali i paesaggi dell’abbandono e del disordine, i siti inquinati, ecc.
La Carta, infine, non restituisce elementi conoscitivi relativi agli areali di frattura ( Carta del Degrado, Abbandono e Fratture) un aspetto, questo, che riteniamo molto importante dal punto di vista ambientale, oltre che paesaggistico, ed essenziale per la progettazione della rete ecologica regionale, infrastruttura ambientale strategica per la conservazione della biodiversità e la specificità dei paesaggi, di cui non si fa mai menzione, ma che ci auguriamo assuma l’importanza che le compete nelle analisi del Piano.
4 Carta dei vincoli
Tale carta, che attiene alla trasposizione degli immobili e delle aree soggetti a vari tipi di vincolo, va sottoposta ad attenta verifica poiché sono omesse numerose aree protette regionali (non sono riportati, ad esempio, i perimetri di quasi tutte le riserva naturali regionali costiere: il Borsacchio a Roseto degli Abruzzi, Santa Filomena a Montesilvano, oltre a diverse riserve naturali nel chietino).
5 Carta dei Valori
E’ questa la carta di maggiore importanza in quanto, in una certa misura, anticipa le linee di azione del Piano, almeno sul versante della conservazione e della tutela del paesaggio.
Sono oggetto di studio i valori geobotanico e vegetazionale, storico, monumentale, archeologico e i valori agronomici, ovvero le qualità naturalistico ambientali, storico insediative e di produttività dei suoli.
Non sono invece indagati i caratteri precipui dell’identità del territorio: i sistemi delle specificità e le differenze, le dimensioni percettive e simboliche, non si individuano, in definitiva, i valori propri del patrimonio paesaggistico. Ma è proprio questa la materia che, a nostro avviso, assume maggiore importanza nel processo di riconoscimento e condivisione dei valori.
Una lettura che porta a risultati paradossali in cui le colline non ancora aggredite dallo sprawl invadente, le aree golenali, singolarità locali, tipologie insediative tradizionali, sono ritenuti di nessun valore.
Sfuggono all’analisi ambiti territoriali che per il loro ruolo, specificità o rarità assumono un valore strategico non solo per la tutela ma anche per la riqualificazione dei paesaggi, come accade nelle rare discontinuità della conurbazione lineare costiera, rispetto alla quale, indipendentemente dai valori intrinseci che pure sono presenti, tutte andrebbero gelosamente salvaguardate in quanto potenziali nodi di rigenerazione urbana. La classificazione delle sole qualità produttive dei suoli agrari senza alcun riferimento alle morfotipologie rurali lascia fuori dal riconoscimento di valore paesaggistico tutto il territorio agricolo (aree di origine protetta, aree rurali di valenza storica, ecc.).
Si disattende con evidenza alla definizione che la LUR in itinere formula per gli areali di valore ovvero “ quali parti del territorio caratterizzate da particolari e specifiche qualità naturalistico ambientali, paesaggistiche, storico artistiche, archeologicheed agronomiche che singolarmente o nel loro insieme contribuiscono alla definizione dell’identità regionale”. Gli areali di valore sono, cioè, quelli in cui si esprime l’identità dei luoghi e paesaggi locali e il cui riconoscimento richiede processi di condivisione con le istituzioni e le comunità locali.
D’altra parte il processo di condivisione delle conoscenze non ha alcun significato se si esercita di fatto su dati pressochè indiscutibili (il mosaico dei PRG, il PAI, i vincoli di legge, le analisi specialistiche disciplinari); il terreno della condivisione riguarda invece proprio la lettura degli elementi qualitativi legati alla percezione e alle sensibilità delle comunità locali, nel confronto del significato e della valenza dei beni.
A nostro avviso la carta dovrebbe mirare alla individuazione dei luoghi dell’identità regionale, del paesaggio, della natura, della storia, della cultura nel rapporto con l’ambiente e restituire la sintesi dei valori dei patrimoni del territorio, riconosciuti e condivisi dalla comunità regionale, e pertanto “non negoziabili”.
Beni e risorse non disponibili allo scambio impari, ad un mercanteggiamento che vede quasi sempre prevalente gli interessi particolari, che caratterizzano, sempre più frequentemente, modalità di trasformazione del territorio affidate agli strumenti propri dell’urbanistica contrattata.
6 Carta della conflittualità
La carta non è agli atti ma, alla luce di quanto prima argomentato sulle carenze di analisi dei caratteri dei paesaggi, è difficile possa contenere riscontri significativi rispetto ai valori paesaggistici. Ma si tratta di una carta importante perchè è da questo elaborato che vengono “estrapolate le conflittualità alle quali corrisponde un maggior livello di criticità ambientale;…”
Un elaborato che, se ridefinito con l’inclusione dei contenuti propri derivanti dalla componente paesaggistica, assume una importante valenza per le successive fasi di elaborazione del Piano poiché consente di individuare le aree sensibili, gli elementi di criticità e le dinamiche che costituiscono minacce tangibili al patrimonio paesaggistico.
***
In conclusione, a nostro avviso, la CdLeP dovrebbe essere adeguata sia sotto il profilo delle molteplici carenze analitiche prima richiamate e sia ricomprendendo in essa il riconoscimento dei differenti paesaggi regionali ed i relativi valori identitari.
Che tale revisione dei contenuti della Carta sia necessaria è implicitamente riconosciuta nella stessa Relazione Preliminare là dove, a proposito degli obiettivi di qualità dei paesaggi identitari, si afferma (come essi) “…..definiscono la cornice di riferimento per la definizione degli obiettivi prestazionali alla scala di maggior dettaglio dei piani urbanistici, chiamati a coniugare i valori identitari affermati dal piano paestico con le valenze di sviluppo locale e di tutela delle risorse territoriali proprie dello strumento urbanistico” ed ancora, alla pagina successiva, “La definizione degli obiettivi di qualità associata ai singoli paesaggi diventa il momento di culmine della fase di ricognizione e interpretazione dei beni paesaggistici e di snodo verso le scelte di tutela valorizzazione che dovranno essere operate in sede di pianificazione del paesaggio e più complessivamente di pianificazione del territorio”.
Pertanto il quadro conoscitivo (CdLeP) nella sua completezza, dovrebbe inscindibilmente comprendere, se si vogliono includere i valori paesaggistici del territorio, ambedue gli approcci analitici: deduttivo ed induttivo come peraltro emerge dalla stessa elaborazione di Piano: “ A) quadri conoscitivi – Carta dei Luoghi e Paesaggi /Regole: ……..l’avvio di un processo di condivisione del quadro conoscitivo, sia nella sua dimensione istituzionale (vedi art. 143 C.U.) che in quella identitaria locale”.
In tal modo è possibile far sì che tutti gli strumenti di pianificazione, a partire dai piani regolatori comunali, si misurino, sin dalle fasi preliminari della loro impostazione, con la dimensione del paesaggio quale elemento cardine della progettazione e con gli obiettivi di tutela in coerenza con il dettato costituzionale.
Il testo riprende la relazione svolta dall’autore in occasione del convegno: “IL NUOVO PIANO PAESAGGISTICO DELLA REGIONE ABRUZZO: COMINCIAMO A DISCUTERNE”, organizzata dalla sezione di Pescara di Italia Nostra “LUCIA GORGONI”, 15 aprile 2011.
L’autore è Responsabile regionale di Italia Nostra per la pianificazione territoriale.
Sull’imbroglio decida la consulta
di Stefano Rodotà
Sia lode al presidente del Consiglio. Con la disinvoltura istituzionale che lo contraddistingue ha svelato le vere carte del governo sul nucleare, carte peraltro niente affatto coperte. La frode legislativa, già evidente, diviene ora conclamata. Berlusconi è stato chiaro. Un tema tanto importante come il nucleare non può essere affidato a cittadini "spaventati" da quanto è avvenuto in Giappone, che debbono "tranquillizzarsi". Meglio, dunque, non far votare un popolo emotivo, disinformato. Gli abbiamo scippato con uno stratagemma un referendum che avrebbe reso impossibile per anni il nucleare, e ora abbiamo le mani libere per tornare in pista già tra dodici mesi. Gabbati i cittadini, ma rassicurati gli imprenditori, poiché il presidente del Consiglio si è premurato di dire che i rapporti tra Enel e Electricité de France andranno comunque avanti.
Un governo e una maggioranza senza dignità accantonano uno dopo l’altro gli strumenti della democrazia, non hanno neppure il pudore della reticenza, teorizzano il silenzio dei cittadini. Ma si può davvero restare passivi davanti a questo gioco delle tre carte istituzionali? Il famigerato emendamento approvato dal Senato diceva chiaramente quale fosse l’obiettivo che si voleva perseguire. Le parole di Berlusconi confermano l’interpretazione dei tanti che avevano sottolineato come la formale abrogazione delle norme sulle centrali nucleari fosse un espediente, anzi un imbroglio, per far sì che la politica nuclearista potesse continuare e per impedire che la partecipazione al voto di cittadini emotivi facesse raggiungere il quorum, consentendo così anche il successo del temutissimo referendum sul legittimo impedimento.
È bene ricordare i fatti. Quell’emendamento si presenta formalmente come una abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario. Ma il primo e l’ultimo comma dicono il contrario. Si comincia con lo stabilire che il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite "nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea". E alla fine si dice che lo farà entro dodici mesi adottando una "Strategia energetica nazionale", per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare, di cui peraltro si parla esplicitamente all’inizio dell’emendamento. Il Parlamento ha trangugiato senza batter ciglio questa brodaglia, ennesimo esempio dell’incultura politica e istituzionale che ci circonda.
Una volta che il decreto nel quale è stato infilato l’emendamento sarà stato convertito in legge, la parola passerà all’Ufficio per il referendum della Corte di Cassazione, che ha il compito di accertare se la nuova legge va nella direzione voluta dai promotori. Se la sua valutazione è positiva, il referendum non si tiene. Nel caso contrario, il referendum è "trasferito" sulle nuove norme e si va al voto. Dopo la clamorosa confessione pubblica del presidente del Consiglio, è dichiarato l’obiettivo di impedire il rispetto della volontà dei promotori.
A questo punto, però, le cose si complicano assai. Che cosa accadrebbe, infatti, se la Cassazione, prendendo atto della frode ai danni dei cittadini, decidesse di far tenere il referendum facendo votare pro o contro l’abrogazione dell’emendamento-imbroglio? Se gli elettori votassero sì all’abrogazione, cancellerebbero certamente le norme con le quali il governo ha voluto riservarsi di riprendere la politica nucleare a proprio piacimento. Ma cancellerebbero pure la parte dell’emendamento che abroga le attuali norme sul nucleare. Queste tornerebbero in vigore, ridando al governo, da subito, il potere di procedere sulla strada della costruzione delle centrali nucleari.
Come uscire da questo pasticcio? Facciamo un passo indietro. Nel 1978 la Corte costituzionale dovette affrontare appunto il problema di norme che, abrogando le disposizioni alle quali si riferiva il referendum, non rispettavano la volontà dei promotori. La soluzione fu trovata dichiarando l’incostituzionalità della norma della legge sul referendum che non prevedeva questa eventualità, e prevedendo il trasferimento del referendum sulle nuove norme. Ma, di fronte all’imbroglio attuale, questa strada non è praticabile, poiché produrrebbe l’esito paradossale di un voto referendario che si ritorce ancora di più contro l’intenzione dei proponenti. La Cassazione, allora, potrebbe sollevare la nuova questione, investendone la Corte costituzionale che, come nel 1978, dovrebbe cercar di porre riparo all’ennesima torsione alla quale il governo attuale sottopone le istituzioni.
Una parola sul modo in cui Berlusconi considera i cittadini, ai quali sarebbe precluso il diritto di votare in situazioni di emotività, di sostanziale incompetenza. Già in occasione del referendum sulla legge sulla procreazione assistita, nel 2005, uno degli argomenti adoperati per indurre all’astensione fu quello che sottolineava la complessità tecnica di taluni quesiti, che avrebbe impedito ai cittadini di esprimere una valutazione adeguata. Tutti questi sono argomenti pericolosissimi dal punto di vista democratico, perché subordinano la possibilità di votare al giudizio che qualcuno esprime sulla competenza di ciascuno di noi e mettono così "sotto tutela" la stessa sovranità popolare. In questi casi la via non è quella del silenzio forzato, ma dell’informazione adeguata, quella che produce lo "scientific citizen", il "cittadino biologico", cioè persone dotate dei dati che le mettono in condizione di formarsi una opinione critica. È un caso che la Commissione di vigilanza della Rai non abbia ancora approvato il regolamento sulle trasmissioni per i referendum, precludendo ai cittadini proprio quell’accesso all’informazione che li riscatterebbe dall’emotività?
E' passato un quarto di secolo da quel 26 aprile 1986, quando, in uno dei quattro reattori della centrale nucleare di Chernobyl, nell'Ucraina allora sovietica, venne a cessare il flusso dell'acqua che raffreddava il nocciolo del reattore, quello in cui uranio e plutonio, bombardati con neutroni, si scindono e liberano energia ad alta temperatura. La temperatura del nocciolo si alzò, così, ad un valore tale da provocare l'incendio della massa di grafite che circondava il nocciolo, la fusione del nocciolo stesso e una esplosione che distrusse la struttura superiore del reattore. Dal tetto scoperchiato furono gettati nell'aria, per alcuni giorni, fiamme e fumi radioattivi. Gli operatori e i pompieri presenti, e altri venuti dalle città vicine, si adoperarono per spegnere l'incendio con i pochi mezzi a disposizione, nella grande confusione di strutture contorte e crollate. Per fermare la fuoriuscita di materiale radioattivo esposero le loro vite a radiazioni mortali; morirono tutti, così come morirono i piloti degli elicotteri che a ripetizione sorvolarono il reattore ancora in fiamme per gettare al suo interno centinaia di migliaia di tonnellate di sabbia e cemento e piombo, in modo da fermare la reazione nucleare che procedeva ancora. Se non ci fosse stato il loro sacrificio, la radioattività delle polveri e gas che si sparsero e ricaddero nell'Europa centrale e meridionale, fino in Italia, avrebbe avuto conseguenze ben più disastrose. La storia è raccontata da Grigori Medvedev nel libro "Dentro Cernobyl", pubblicato nel 1996 dalle edizioni La Meridiana di Molfetta, un libro che dovrebbe essere letto nelle scuole perché è una specie di "Cuore" del ventesimo secolo. Qualche città italiana farebbe bene a intitolare una strada o una piazza ai "martiri di Chernobyl", agli eroi che, in quelle terre lontane, a prezzo della loro vita, evitarono che fossimo contaminati in modo molto più grave e salvarono tante delle nostre vite. Le zone intorno al reattore di Chernobyl, ancora oggi contaminate dalla radioattività, furono fatte sgombrare dalla popolazione; molti abitanti di tali zone erano stati avvelenati dalla nube radioattiva; molti bambini e ragazzi portano ancora nel loro corpo le conseguenze di tale contaminazione. Il disastro fu accompagnato da episodi di generosità e solidarietà internazionale. Il chirurgo americano Robert Gale, specialista di trapianti di midollo osseo, corse subito in Ucraina e per molto tempo operò i malati più gravi; anche questa storia è raccontata in un libro dello stesso Gale e in un film dal 1991, "Chernobyl", del regista Anthony Page, che ancora circola in qualche televisione e che meriterebbe di essere visto da tanti italiani. Ho voluto ricordare i molti episodi di solidarietà e generosità internazionale --- per anni molti bambini ucraini hanno trascorso dei periodi di vacanza in Italia, ospiti di organizzazioni di volontariato --- piuttosto che le squallide e scomposte reazioni che si ebbero in Italia dopo l'incidente, in quell'aprile e maggio di 25 anni fa. La catastrofe di Chernobyl mostrò che le denunce del movimento antinucleare non erano fanfaluche di ecologisti: davvero l'energia nucleare non era né sicura, né pulita. Si ebbero anche improvvise conversioni da posizioni filonucleari a posizioni antinucleari; insomma una brutta storia italiana che impedì di prendere decisioni sensate e rapide nell'interesse della salute dei cittadini. Naturalmente, come sempre avviene quando ci sono disgrazie collettive, ci fu chi speculò andando a comprare grano radioattivo a basso prezzo per rivenderlo fraudolentemente in Italia; ci fu chi importò rottami metallici radioattivi, finiti poi chi sa dove. Anche questo traffico internazionale di "merci radioattive", in mancanza di controlli e di corrette informazioni all'opinione pubblica, fu una delle conseguenze di Chernobyl. Il referendum del novembre 1987 dimostrò che la maggioranza degli italiani del nucleare aveva avuto abbastanza, e in tutto il mondo ci fu un rallentamento nella costruzione di centrali, anche se la scelta di ricorrere al nucleo atomico per le bombe atomiche e per l'elettricità commerciale ha continuato a fare sentire i suoi effetti nefasti sotto forma di incidenti e inquinamenti nell'estrazione e nella produzione dell'uranio e nel suo arricchimento, nell'uso militare dell'uranio impoverito, a cui vanno aggiunti i pericoli associati alla necessità di seppellire, non si sa dove, i residui radioattivi delle centrali. Dopo un po' di anni c'è stata una resurrezione della passione per le centrali nucleari, fino alla recente catastrofe di Fukushima. Vorrei concludere con le parole del libro di Medvedev prima citato: "Gli eroi e i martiri di Chernobyl ci hanno fatto comprendere l'impotenza dell'uomo di fronte a ciò che l'uomo stesso crea, nella sua presunzione di onnipotenza".
Milano è una Metropoli che supera di gran lunga il suo perimetro amministrativo. È il motore della regione urbana con la più alta produttività in Italia: in un’area che unisce diversi territori provinciali, si concentra il 14%della popolazione italiana e quasi il 20%del prodotto interno lordo del Paese. Chi lavora o studia a Milano— nella parte più densamente abitata e connessa dell’intera regione urbana — sa bene che a fronte di non pochi svantaggi, inquinamento e traffico in testa, esistono convincenti opportunità di lavoro. Al punto da spingere molti italiani e immigrati a cercar casa dentro o attorno ai suoi confini.
Milano è una di quelle città a cui le grandi trasformazioni in atto— globalizzazione e nuove tecnologie che creano e distruggono posti di lavoro — assegnano una responsabilità importante: ricavare il massimo beneficio dalla vicinanza fisica tra le persone. Come spiega bene Edward Glaeser nel suo recente libro «The Triumph of the City» , l’uomo è una specie sociale: apprendiamo e mettiamo a frutto ciò che impariamo grazie al poter vivere e lavorare «vicino» a persone che hanno talento, qualità, competenze. Glaeser è un economista e sostiene con forza la tesi dei vantaggi dell’ «agglomerazione» : le imprese e gli individui sono più produttivi quando scelgono di stare vicini in aree molto dense.
È questa prossimità fisica che rende più facile la circolazione delle idee e la nascita delle scoperte e delle innovazioni. Negli Stati Uniti il 18%del prodotto nazionale viene dalle tre maggiori aree metropolitane. Saranno le grandi città, e Milano in Italia, a trainare il resto dell’economia fuori dalla recessione? Per interpretare bene questo ruolo, le grandi città e i loro amministratori hanno di fronte due sfide importanti: aumentare la densità con un’offerta di buone abitazioni a basso costo— senza perdere di vista il complesso equilibrio con la bellezza architettonica e la qualità della vita in comune — e prestare una attenzione smisurata alla qualità della scuola e del sistema universitario locale: è qui che nasce quel capitale umano che rende poi così attraente il processo di apprendimento dagli altri attorno a noi.
Due sfide che a Milano si materializzano da una parte nelle scelte sull’urbanistica e sullo sviluppo economico locale— pensiamo al modo non scontato in cui verrà applicato o rivisto il piano di governo del territorio approvato dalla giunta comunale — e dall’altra nelle scelte su come rilanciare il sistema dell’istruzione— pensiamo al ruolo della scuola pubblica o agli investimenti delle Università locali nella ricerca. Si tratta di terreni importanti su cui misurare le idee dei candidati sindaci alle amministrative del 15 maggio. Non dobbiamo aver paura di una Milano più densamente abitata, ma di una città che non sa più trasformare le forze dell’agglomerazione, lo stare vicini, in una crescita della produttività, della qualità dell’istruzione e delle opportunità che essa sa offrire.
Ha ragione, il professor Giovanni Padula, soprattutto in due punti del suo articolo: quando all’inizio ci ricorda come “Milano è una Metropoli che supera di gran lunga il suo perimetro amministrativo”, e poi quando verso la metà del pezzo osserva che Edward Glaeser è un economista. Si può partire da qui, e prendere per comodità ad esempio il capitolo del citato Triumph of the City proposto qualche mese fa sulle pagine di Mall: Il grattacielo salvezza della città. dove il pur colto professore di Harvard discettando qui e là sul tema delle densità urbane, dalla Chicago di fine ‘800, attraverso la classica Manhattan fino alle megalopoli asiatiche di oggi, dimostra orgogliosamente di ignorare qualunque atomo di disciplina urbanistica, perché ostacola inutilmente il libero dispiegarsi del sacro ciclo domanda-offerta. Il che andrebbe benissimo se poi non pretendesse appunto (è il senso del libro) di esprimere giudizi generali sulla città dai sumeri alle archistar del terzo millennio.
Ad esempio sviluppando interi paragrafi sulle meraviglie della domanda e offerta in rapporto alle densità, col calo dei prezzi, ma senza curarsi di distinguere fra destinazioni residenziali, terziarie, spazi pieni, spazi vuoti, insomma senza curarsi di distinguere fra una città e una operazione finanziaria: del resto, a lui la città interessa proprio ed esclusivamente da quel punto di vista.
E basta leggere il capitolo di Triumph of the City dedicato a Milano (e relativi riferimenti bibliografici) per rendersi conto che Glaeser esprime giudizi globali secondo un criterio a dir poco induttivo: lunghi cicli storici di sviluppo, letti prevalentemente se non esclusivamente nella prospettiva dei vincitori, nel caso specifico operatori finanziari, della moda, del design. Non certo degli abitanti, e neppure di tutti gli operatori economici che da lì se ne sono scappati a gambe levate da lunga pezza. E arriviamo alla questione urbanistica.
Milano, anche la Milano di Glaeser e Padula, è una regione metropolitana: come hanno osservato fino alla noia TUTTI gli osservatori della pianificazione territoriale e urbanistica recente (ovvero dagli anni ’80 della contrattazione privatistica al Pgt attuale) spicca fra le enormi lacune proprio lo stare chiusi a chiave dentro i confini comunali, salvo varie chiacchiere e distintivi: dalla “T rovesciata” della Grande Milano subappaltata ai grandi operatori, ai quasi involontariamente umoristici primi paragrafi del nuovo Documento di Piano , dove spicca fra i riferimenti teorici l’inconsistente modello della “città infinita”, elaborato su commissione da gente che di territorio non ne capisce nulla, e solo per vendere ai gonzi l’ennesima autostrada.
In definitiva: che ci azzecca l’urbanistica, il Pgt, con il bacino socioeconomico metropolitano e la città postmoderna, delle economie della conoscenza, cantata da Glaeser? Questo il professor Padula non ce lo spiega, a meno che tutto non trovi poi la sua bella ricomposizione nelle varie cittadelle della ricerca finanziate dagli speculatori su aree libere, che però dentro al Piano diventano “zero consumo di nuovo suolo”. Non vorremmo che economia della conoscenza sia economizzare appunto sulle cose che si vogliono sapere (f.b.)
Aeroporto, niente scambi con la tramvia. Sulla pista parallela non ci sono compensazioni che tengano: «Se Manciulli e Rossi vogliono discutere di tramvia bene. Benissimo. Ma sia chiaro che con l´aeroporto e il parco non c´entra nulla». Dalla vetta della discarica di Case Passerini con vista sui terreni della pista parallela, i sindaci della Piana restituiscono l´offerta al mittente: «Per la tramvia non ci vendiamo».
Era stato il segretario regionale Pd Andrea Manciulli a dirlo all´assemblea a Sesto, mercoledì scorso: «Il primo problema della Piana è il traffico». Non l´aeroporto, aveva detto il segretario, facendo intendere di esser lì ad anticipare una proposta del governatore Enrico Rossi. E i sindaci della Piana, al sopralluogo organizzato dal sindaco di Sesto Gianni Gianassi per «dimostrare che la pista parallela cancellerebbe tutto», gli hanno risposto. «Anche Mubarak ha fatto finta di nulla ma poi ha dovuto accettare il dialogo. Sarebbe intelligente mettersi a discutere», gli dice il sindaco di Campi Adriano Chini. Il presidente toscano Rossi come Mubarak dunque? «Finora il dialogo non c´è stato, la tramvia è sicuramente un bisogno, ma non può essere messa sulla bilancia. Che modo è?», insiste Chini. «Aeroporto e parco con la tramvia non c´entrano», sostiene anche il sindaco di Calenzano Alessio Biagioli.
I sindaci della Piana ricordano che la discarica sta lì a testimoniare che loro non sono i sindaci del no: «Ci sono qua oltre 2 milioni di metri cubi di rifiuti proveniente anche da Firenze». E che sono stati eletti con la promessa del parco e del termovalorizzatore: «Abbiamo fatto la campagna elettorale in ottemperanza con quanto deciso dalla Regione. E i "ribelli" adesso sono quelli che vogliono cancellare tutto con un colpo di spugna», dicono i sindaci della Piana muovendo il braccio per indicare i terreni che dovrebbero essere asfaltati per far posto alla pista. Sul fianco destro dell´autostrada A11, con le spalle a Firenze, fino all´altezza del distributore. Direzione Prato, in bocca all´ex Motel Agip di Firenze nord: «E´ chiaro che la pista parallela cancellerebbe una volta per tutte il parco».
«Dobbiamo capire meglio di cosa parliamo, vediamo il piano industriale. Problemi, mi pare, ce ne sono», dice il presidente della Provincia Andrea Barducci. «Questo è un nuovo aeroporto», scuote la testa la consigliera regionale Pd Daniela Lastri. «La guerra interna del Pd impedisce un esame sereno e il vero rischio è che alla fine non si decida nulla», incalza il collega dell´Udc Marco Carraresi. Mentre anche il consigliere Pd Paolo Bambagioni appare perplesso. Soprattutto per il voto che sarà chiamato ad esprimere: «Votare la variante al Pit? Sono aperto, ma per ora vedo buone ragioni per non farla, aspetto di vedere quelle a favore».
"La pista non c´entra". "Guardate quanto spazio"
Gianassi e Giani, ovvero i mondi paralleli del PdÈ stato il sindaco di Sesto a volere la visita: assenti le giunte fiorentina e pratese Se si sposterà il Fosso Reale la Firenze-Mare dovrà essere alzata di sette metri
«Guardate l´autostrada: la striscia d´asfalto della pista arriverebbe fino all´altezza del distributore. E altri 2-300 metri se ne andrebbero per la fascia di salvaguardia. Qui la pista non c´entra», dice il sindaco di Sesto Gianni Gianassi. «Avete visto quanto spazio? Più vedo la Piana e più mi convinco, il parco ci sta anche con la pista», ribatte il presidente del Consiglio comunale e consigliere regionale Eugenio Giani.
E´ quasi mezzogiorno e la carovana di sindaci, amministratori e politici è sulla sommità della discarica di Case Passerini, la collina dei rifiuti che torreggia sul lembo di terra più conteso della storia politica fiorentina. Al sopralluogo «sul campo» voluto dallo stesso Gianassi mancano solo la giunta fiorentina e quella pratese. E sotto il cielo grigio di questo fine settimana pasquale, svettano sullo «skyline» della città la cupola del Duomo e il Palagiustizia ad un tiro di schioppo.
Quasi non si avverte l´olezzo perforante che nei giorni ventosi veleggia fino a Novoli. Si avverte invece l´odore acre dello scontro di casa Pd. La Piana, Prato le due Province da una parte, la Regione e Palazzo Vecchio dall´altra. Nero e bianco, perfino davanti allo stesso quadro. Qualcosa di più però di un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Perché comunque la si veda, realizzare la pista parallela è un´opera faraonica. Per il conto economico che comporta.
Per fare la pista si dovrebbero espropriare ben 120 ettari di terreno privato. In pratica, l´intero fabbisogno. A quale prezzo? Il Polo scientifico di Sesto, che si trova proprio sopra la pista futuribile, si è visto chiedere 200 euro al metro per la cassa di espansione idraulica. Ma l´esproprio è solo l´inizio.
C´è da spostare lo svincolo autostradale per Sesto. E c´è, soprattutto, da spostare il Fosso Reale. Che non in realtà un fosso ma un canale pensile a 6 metri dal livello del suolo. E visto che oggi attraversa l´autostrada più o meno a metà della lunghezza della ipotetica pista parallela dovrebbe essere portato più a nord. Con la conseguenza di dover innalzare di almeno 7 metri l´attuale carreggiata dell´autostrada, cioè dell´imbocco della Firenze Mare. Non è finita. C´è da spostare la stessa cassa d´espansione idraulica del Polo scientifico, situata proprio sulla direzione della pista. E c´è da spostare anche l´oasi della Querciola, dove i Cavalieri migrano arrivando puntualmente il 13-14 marzo di ogni anno per poi ripartire a fine agosto. Per non parlare dell´oasi di Focognano, che verrebbe asfaltata. Ma chi paga? Chi tira fuori i soldi?
Secondo i conti fatti dall´assessore all´urbanistica di Signa Paolo Pecile (che è stato anche amministratore dell´aeroporto), c´è bisogno di qualcosa come 220 milioni di euro. Una cifra enorme. Che, stante le difficoltà finanziarie del pubblico, non potrà che arrivare dal privato. Ma quale se lo stesso Pecile, davanti alla commissione regionale, ha fatto presente che l´attuale società di gestione non è in grado di sostenere più di 30-40 milioni d´indebitamento?
Eppoi: «Ammesso che ci sia un privato disposto a tirar fuori questi soldi, quanti milioni di passeggeri dovrebbe movimentare Peretola per coprire l´investimento?», chiedono i sindaci della Piana, Alessio Biagioli (Calenzano), Adriano Chini (Campi), Alberto Cristianini (Signa) e Gianassi. Rinnovando la richiesta di un piano industriale centrato sulla pista parallela per capire di cosa e di quanto parliamo. «Senza il piano industriale rischiamo di fare solo una discussione astratta», mandano a dire al governatore Enrico Rossi. Una vera e propria sfida, visto che a stare ai conti dell´assessore Pecile, gli unici fin qui presentati, l´aeroporto di Firenze avrebbe bisogno per rientrare dagli investimenti di un numero di passeggeri di gran lunga superiore al bacino potenziale della Toscana centrale.
Le difficoltà urbanistiche, la complessità delle opere, i soldi: «Sapete come andrà a finire? E´ dagli anni ´90 che abbiamo detto di voler fare il termovalorizzatore», dice Gianassi indicando l´area sottostante la discarica destinata ad accogliere l´impianto e il camino di 70 metri. Ma non prima del 2016-2017: «Immaginatevi dunque se si vuole realizzare un´opera come la pista parallela che non ha neppure il consenso delle amministrazioni - conclude Gianassi - la storia italiana dice che non si farà mai».
Confindustria parla ed il governo, zelante esegue. O almeno ci prova. Oggi per tutti gli italiani il referendum sul nucleare non c'è più. Una gran parte ne erano comunque ignari, grazie alla strategia del silenzio. Un'altra parte ha letto sui giornali che oltre al referendum sul nucleare salteranno anche quelli sull'acqua, perché il ministro Romani ha dichiarato ad una trasmissione radiofonica che una soluzione legislativa per scongiurare il voto sull'acqua sarebbe auspicabile.
Difficile immaginare, alla luce dei nostri principii costituzionali, una soluzione tecnica di questo contraddittorio dilemma che consenta davvero al governo di far saltare i referendum. Confindustria ha l'acquolina in bocca per le grasse commesse del capitalismo nucleare. Deve inoltre garantire ai suoi associati i profitti sicuri della gestione privata di un monopolio naturale come l'acqua.
A tal fine Confindustria teme che una clamorosa vittoria referendaria del Sì, il 12 13 giugno, produca un inversione di rotta tale da renderle irraggiungibile il succulento boccone. Tutto ciò naturalmente non riguarda solo l'acqua ma anche gli altri servizi pubblici che il decreto Ronchi ha arraffato (trasporti, spazzatura...). Più in generale mette a serio rischio le prossime privatizzazioni camuffate da liberalizzazioni o da federalismo demaniale.
Questa potenziale deflagrazione del modello di sviluppo a pensiero unico, pervicacemente seguito da maggioranze ed opposizioni dal '90 ad oggi, è il significato politico autentico dei referendum che si vogliono a tutti i costi evitare. Ciò purtroppo spiega l'atteggiamento dell'opposizione (che quel modello di sviluppo ha da lunga pezza sposato), pronta a festeggiare lo scippo, intestandosi gli esiti di brevissimo periodo di un emendamento legislativo.
La situazione è ancor più complicata per l'acqua perché l'Ufficio Centrale per il Referendum della Cassazione, deve lo spirito e non la lettera della propostamodifica. Lo spirito dei quesiti sull'acqua, frutto di una lunga evoluzione della cultura giuridica, è quello di difenderla in quanto "bene comune", indistricabilmente legato ai diritti fondamentali della persona, da governarsi al di fuori della logica economica ma piuttosto nell' interesse della sostenibilità. Ne segue che un esempio di scuola di "truffa legislativa" ai danni del popolo sovrano, quale quello che si prefigura al fine di restituire a Confindustria il bottino potenziale del saccheggio dei beni comuni, ben difficilmente può passare il vaglio dei giudici supremi.
Infatti, le motivazioni politiche delle riforme che il governo ora propone sono direttamente e nettamente conflittuali con l'intendimento dei promotori. Il governo ha promesso a Confindustria di privatizzare il servizio idrico integrato (e gli altri servizi) nel più breve tempo possibile, e l'eventuale abrogazione del 23 bis del decreto Ronchi non esclude affatto che le gare siano nuovamente imposte immediatamente dopo. Inoltre, la proposta di introdurre un authority per l'acqua, che purtroppo trova sponsor importanti anche nel Pd, non è per nulla equivalente alla volontà dei promotori del referendum ed anzi risulta adesso chiaramente indirizzata al solo fine di tentare l'elusione del voto. A tacer del fatto che resta il secondo quesito volto proprio a collocare il bene comune acqua "fuori commercio", togliendo dalla bolletta remunerazione del capitale e profitto, il solo motore di un modello privatistico regolamentato tramite authority. Il governo dichiarerà l'acqua un bene comune ed il profitto fuori dall'acqua? Non sembra proprio probabile. Che direbbe Confindustria?
E' chiaro a tutti che il governo vuole far saltare il referendum sul nucleare per fare il nucleare (sebbene attendendo tempi migliori). Ciò risulta nettamente dal testo approvato e non solo dalla posizione proclamata da Marcegaglia. Similmente si vuole normare il servizio idrico per meglio privatizzarlo e ciò probabilmente risulterebbe, altrettanto chiaramente, dal testo proposto.
In questo quadro, nei promotori resta la fiducia nelle supreme magistrature e la convinzione che questo tentativo di scippo avrà un effetto boomerang che ci farà raggiungere il quorum. Già fra ieri e oggi il silenzio mediatico è stato meno assordante del solito e di acqua si è finalmente parlato in qualche telegiornale!
Intesa tra Comune e imprese sulle opere di riqualificazione ambientale. Ma per la rete No Ponte si tratta di pochi interventi in cambio di devastazione del territorio e inquinamento
Devastazione del territorio, discariche, inquinamento e rumore, in cambio di uno svincolo autostradale, un depuratore, la bonifica e riqualificazione delle aree di discarica e gli indennizzi per gli espropri. “Un vero e proprio ricatto”: così la rete No Ponte definisce l’accordo per la costruzione dell’opera sullo Stretto raggiunta dal comune di Messina e dai rappresentanti della Stretto di Messina spa e del contraente generale Eurolink (associazione di sette imprese guidata da Impregilo). L’intesa, che per il Comune è un formale “accordo procedimentale” che accelera la procedura per l’avvio dei lavori preliminari alla costruzione, è stata definita formalmente, ma non è ancora operativa: riguarda l’alloggiamento dei cantieri, la gestione delle terre da scavo e dei siti di stoccaggio, la realizzazione delle opere di riqualificazione ambientale dei siti e la loro destinazione all’uso pubblico, e infine gli espropri, che interessano circa 500 soggetti tra semplici cittadini e società.
Secondo il movimento No Ponte, quella offerta dalle imprese costruttrici è una “compensazione ricattatoria. Accettare di trasformare la città per anni in un mega-cantiere, dagli effetti inimmaginabili per la vita di oltre 200mila persone – spiega Luigi Sturniolo, uno dei fondatori del movimento – è il segno della debolezza e povertà delle amministrazioni locali: si cerca di ottenere in altro modo ciò che non è possibile fare con il bilancio ordinario”.
Di accordo importante parla invece Pietro Ciucci, amministratore delegato della Stretto di Messina spa: “Offre al territorio una significativa opportunità di recupero ambientale ed idrogeologico di un’area compromessa che sarà restituita alla sua originaria destinazione agricola”.
Ma Sturniolo non ci sta: “È quantomeno strano l’ottimismo di Ciucci – replica – visto che si stanno pianificando discariche per il materiale inerte in un territorio che, come è noto a tutti, è fragile sul piano idrogeologico e dove ci sono decine di aree di impluvio. Parlare addirittura di ‘recupero ambientale’ mi sembra discutibile». La frequenza delle frane sul versante tirrenico di Sicilia e Calabria non è una novità e questo punto, sottolineano gli oppositori del ponte, potrebbe rivelare l’insostenibilità del progetto già nel primo anno di lavori. Un argomento oggi più che mai attuale, dopo l’alluvione dell’1 marzo che ha devastato Camaro Superiore e Mili San Pietro (100 milioni di danni e nessuna vittima, ma solo per caso), frazioni di Messina non lontane da Giampilieri, teatro della drammatica alluvione dell’ottobre 2009. “L’ennesimo episodio che dimostra come bisognerebbe utilizzare il denaro pubblico – sostiene Sturniolo – e cioè spostando le risorse destinate al Ponte per rispondere alla richiesta di sicurezza degli abitanti delle zone a rischio sismico e idrogeologico. Solo nel 2010, per il Ponte sono già stati sperperati 110 milioni di euro per trivellazioni e progettazione definitiva”.
Pubblici sono finora gli unici soldi stanziati per il Ponte: 1,3 miliardi di fondi Fas. Soldi stanziati ma comunque non disponibili, come conferma la relazione della Corte dei Conti del 15 dicembre 2009. “La maggior parte della spesa sarà però finanziata dai privati (60% del totale secondo lo schema del project financing), che ovviamente non hanno intenzione di investire nella sicurezza del territorio, per loro non redditizia”, spiega al Fatto il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca. Eppure nel libro L’insostenibile leggerezza del Ponte, Domenico Marino, professore di politica economica all’Università di Reggio Calabria, non solo ricorda che al momento non ci sono ancora privati disposti a mettere mano al portafoglio (i pochi finanziatori interessati, negli anni, si sono mostrati attendisti), ma documenta la scarsa redditività del Ponte. La sua analisi è basata sui dati del Golden Gate bridge di San Francisco, che pur essendo indispensabile al traffico cittadino, chiude i suoi bilanci sempre in perdita (nel 2009, 20 milioni di dollari). Nella migliore delle ipotesi, a Messina solo dopo 40 anni gli investitori porterebbero i conti in pareggio.
D’accordo con le previsioni di Marino è Marco Brambilla, ingegnere al Politecnico di Milano e autore di uno studio su costi-benefici del Ponte sullo Stretto: “In caso di concessione trentennale l’indicatore di convenienza economica resta negativo – sottolinea – e solo nell’arco di 50 anni, e in caso di eccezionali e favorevoli condizioni, si ha un’inversione di tendenza”.
Ad ogni modo, nel caso in cui la Stretto di Messina spa non riuscisse a finanziare l’opera con i flussi di cassa e i ricavi generati dalla gestione entro il limite della concessione, lo Stato farebbe da garante. Il rischio è che l’intera opera risulti in gran parte (o del tutto) pagata dallo Stato, soprattutto dopo la modifica alla legge sul project financing che ha eliminato il limite del 50% del contributo pubblico per ogni opera finanziata.
Intanto il fronte del dissenso, pur rimanendo ampio in una parte della popolazione, ha ormai perso molti degli amministratori locali su cui poteva contare fino a qualche anno fa, oggi quasi tutti schierati a favore della grande opera. “Prima eravamo ancorati su posizioni ideologiche – continua il sindaco di Messina – mentre ora siamo più responsabili. Non ci si può opporre a una legge dello Stato e ora ogni sindaco deve cercare di dare quanto più può alla propria comunità. Il ponte attrarrà il 20% di tutti i turisti che ogni anno visiteranno l’Europa e sarà un volano di sviluppo per tutto il meridione”.
A dicembre del 2010 il contraente generale Eurolink ha consegnato il progetto definitivo alla Stretto di Messina spa, che dovrebbe approvarlo entro il mese di maggio. Poi sarà la volta del Cipe, a cui tocca l’approvazione finanziaria, auspicata per settembre dal ministro dei Trasporti Altero Matteoli. Solo allora si potrà procedere con l’avvio dei lavori preliminari, in attesa del progetto esecutivo. Ma rimangono le perplessità su un’opera ritenuta superflua dai molti che la considerano dannosa per l’ambiente e troppo costosa. Obiezioni che si aggiungono ai ragionevoli dubbi sulla sua fattibilità tecnica in una zona ad alto rischio sismico (anche se il progetto assicura una tenuta della struttura fino a 7,1 gradi Richter): il ponte sullo Stretto, se realizzato, avrà una campata unica di 3.300 metri, la più lunga mai realizzata nel mondo, il 60% in più di quella del ponte di Akashi-Kaykyo (1.991 metri) in Giappone, che oggi detiene il primato.
Ogni giorno ha la sua pena istituzionale. Davvero preoccupante è l’ultima trovata del governo: la fuga dai referendum. Mercoledì si è voluto cancellare quello sul nucleare. Ora si vuole fare lo stesso con i due quesiti che riguardano la privatizzazione dell’acqua. Le torsioni dell’ordinamento giuridico non finiscono mai, ed hanno sempre la stessa origine. È del tutto evidente la finalità strumentale dell’emendamento approvato dal Senato con il quale si vuole far cadere il referendum sul nucleare. Timoroso dell’"effetto Fukushima", che avrebbe indotto al voto un numero di cittadini sufficiente per raggiungere il quorum, il governo ha fatto approvare una modifica legislativa per azzerare quel referendum nella speranza che a questo punto non vi sarebbe stato il quorum per il temutissimo referendum sul legittimo impedimento e per gli scomodi referendum sull’acqua. Una volta di più si è usata disinvoltamente la legge per mettere il presidente del Consiglio al riparo dai rischi della democrazia.
Una ennesima contraddizione, un segno ulteriore dell’irrompere continuo della logica ad personam. L’uomo che ogni giorno invoca l’investitura popolare, come fonte di una sua indiscutibile legittimazione, fugge di fronte ad un voto dei cittadini.
Ma, fatta questa mossa, evidentemente gli strateghi della decostituzionalizzazione permanente devono essersi resi conto che i referendum sull’acqua hanno una autonoma e forte capacità di mobilitazione. Fanno appello a un dato di vita materiale, individuano bisogni, evocano il grande tema dei beni comuni, hanno già avuto un consenso senza precedenti nella storia della Repubblica, visto che quelle due richieste di referendum sono state firmate da 2 milioni di cittadini, senza alcun sostegno di grandi organizzazioni, senza visibilità nel sistema dei media. Pur in assenza del referendum sul nucleare, si devono esser detti i solerti curatori del benessere del presidente del Consiglio, rimane il rischio che il tema dell’acqua porti comunque i cittadini alle urne, renda possibile il raggiungimento del quorum e, quindi, trascini al successo anche il referendum sul legittimo impedimento. Per correre questo rischio? Via, allora, al bis dell’abrogazione, anche se così si fa sempre più sfacciata la manipolazione di un istituto chiave della nostra democrazia.
Caduti i referendum sul nucleare e sull’acqua, con le loro immediate visibili motivazioni, e ridotta la consultazione solo a quello sul legittimo impedimento, si spera che diminuisca la spinta al voto e Berlusconi sia salvo.
Quest’ultimo espediente ci dice quale prezzo si stia pagando per la salvezza di una persona. Travolto in più di un caso il fondamentale principio di eguaglianza, ora si vogliono espropriare i cittadini di un essenziale strumento di controllo, della loro funzione di "legislatore negativo".
L’aggressione alle istituzioni prosegue inarrestabile. Ridotto il Parlamento a ruolo di passacarte dei provvedimenti del governo, sotto tiro il Presidente della Repubblica, vilipesa la Corte costituzionale, ora è il turno del referendum. Forse la traballante maggioranza ha un timore e una motivazione che va oltre la stessa obbligata difesa di Berlusconi. Può darsi che qualcuno abbia memoria del 1974, di quel voto sul referendum sul divorzio che mise in discussione equilibri politici che sembravano solidissimi. E allora la maggioranza vuole blindarsi contro questo ulteriore rischio, contro la possibilità che i cittadini, prendendo direttamente la parola, sconfessino il governo e accelerino la dissoluzione della maggioranza.
È resistibile questa strategia? In attesa di conoscere i dettagli tecnici riguardanti i quesiti referendari sull’acqua è bene tornare per un momento sull’emendamento con il quale si è voluto cancellare il referendum sul nucleare. Questo è congegnato nel modo seguente: le parti dell’emendamento che prevedono l’abrogazione delle norme oggetto del quesito referendario, sono incastonate tra due commi con i quali il governo si riserva di tornare sulla questione, una volta acquisite «nuove evidenze scientifiche mediante il supporto dell’agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza, tenendo conto dello sviluppo tecnologico e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea». E lo farà entro dodici mesi adottando una «Strategia energetica nazionale», per la quale furbescamente non si nomina, ma neppure si esclude, il ricorso al nucleare. Si è giustamente ricordato che, fin dal 1978, la Corte costituzionale ha detto con chiarezza che, modificando le norme sottoposte a referendum, al Parlamento non è permesso di frustrare «gli intendimenti dei promotori e dei sottoscrittori delle richieste di referendum» e che il referendum non si tiene solo se sono stati del tutto abbandonati «i principi ispiratori della complessiva disciplina preesistente». Si può ragionevolmente dubitare che, vista la formulazione dell’emendamento sul nucleare, questo sia avvenuto. E questo precedente induce ad essere sospettosi sulla soluzione che sarà adottata per l’acqua. Di questo dovrà occuparsi l’ufficio centrale del referendum che, qualora accerti quella che sembra essere una vera frode del legislatore, trasferirà il referendum sulle nuove norme. La partita, dunque, non è chiusa.
Da questa vicenda può essere tratta una non indifferente morale politica. Alcuni esponenti dell’opposizione avrebbero dovuto manifestare maggiore sobrietà in occasione dell’approvazione dell’emendamento sul nucleare, senza abbandonarsi a grida di vittoria che assomigliano assai a un respiro di sollievo per essere stati liberati dall’obbligo di parlar chiaro su un tema così impegnativo e davvero determinante per il futuro dell’umanità.
Dubito che questa sarebbe la reazione dei promotori del referendum sull’acqua qualora si seguisse la stessa strada. Ma proprio l’aggressione al referendum e ai diritti dei cittadini promotori e votanti, la spregiudicata manipolazione degli istituti costituzionali fanno nascere per l’opposizione un vero e proprio obbligo. Agire attivamente, mobilitarsi perché il quorum sia raggiunto, si voti su uno, due, tre o quattro quesiti. Si tratta di difendere il diritto dei cittadini a far sentire la loro voce, quale che sia l’opinione di ciascuno. Altrimenti, dovremo malinconicamente registrare l’ennesimo scarto tra parole e comportamenti, che certo non ha giovato alla credibilità delle istituzioni.
Leggendo Asor Rosa, noto sovversivo, confesso di avere pensato che sollecitasse un intervento del Capo dello Stato. E così avevo letto l'articolo 88 della Costituzione che prevede la possibilità per il Presidente della Repubblica di sciogliere una camera con l'accordo di un presidente della medesima - Fini, mi ero detta. E mi chiedevo perché Giorgio Napolitano non lo facesse davanti a un premier che straparla, e mi rispondevo: forse per timore del vuoto che si aprirebbe nell'inesistenza di altre autorevoli figure.
Mi sbagliavo. Luigi Ferrajoli in privato e Gaetano Azzariti sul manifesto mi hanno spiegato che Napolitano non può: l'art. 88 non può essere letto senza l'89, per il quale qualsiasi atto del presidente non è valido senza la firma di un ministro. Siamo sul serio una repubblica parlamentare, è il parlamento che elegge il governo, un membro del governo deve firmare assieme al Capo dello Stato. Ora che un membro del governo Berlusconi firmi un gesto contro Berlusconi è impensabile. Insomma, è soltanto dall'interno della maggioranza che può partire un mutamento traumatico, come è avvenuto quando la Lega ha lasciato il Premier.
Il nostro Presidente della Repubblica ha ben pochi poteri, fra cui quello di non apporre la propria firma a una legge e rimandarla alle Camere, ma soltanto una volta; se queste gliela ripresentano, deve firmare. Di soltanto suo, Napolitano ha la facoltà di indirizzarsi alle Camere, ammonendo: «Questo è troppo!». In un paese civile sarebbe un terremoto. Da noi il governo attuale, la sua ipermaggioranza è capace di rispondere: «E chi se ne frega?».
Per chi, come me, vive in una repubblica presidenziale, dove il capo dello stato non è super partes ma il rappresentante supremo della parte che ha vinto, si confonde con il primo ministro, può smentirlo da un giorno all'altro, avanza proposte che il governo ignorava ed è costretto a seguire o viceversa, una repubblica parlamentare appare di gran lunga preferibile. Il generale de Gaulle - mi dico con sollievo - non è passato di qui. Come è dunque che siamo senza via d'uscita?
E' chiaro che i padri costituenti non avevano neppure immaginato un premier come Berlusconi. Ma neanche a maggioranze del tutto impermeabili a una dialettica decisiva fra coscienza del paese e istituzioni.
Nell'estate del 1960, per avere fatto un accordo con i fascisti, suscitando la collera popolare e mandando l'esercito a reprimerla, Tambroni cadde velocemente - non la forma ma la sostanza del suo agire apparve intollerabile alla sua stessa parte. Ed è invece dalla tolleranza di qualsiasi assurdità di Berlusconi - come nel caso di Ruby, votato da 314 deputati come problema di politica internazionale - che Berlusconi è reso intoccabile. Di più penso che i costituenti, affidando questo potere alla maggioranza, la pensassero del tutto rappresentativa del voto, ignorando che potesse essere gonfiata attraverso un premio di maggioranza che la allarga molto al di là della sua effettiva presenza elettorale.
La Dc governò quasi quarant'anni con una maggioranza relativa che la obbligava a tener conto degli alleati, e quando tentò di far passare un premio di maggioranza che era uno scherzo rispetto al "porcellum", la gente si levò contro la "legge truffa", e questa cadde. Se si votasse con una proporzionale decente Berlusconi avrebbe una assai modesta maggioranza relativa; la Lega non basterebbe e una sua caduta per via parlamentare sarebbe possibile. Ma con il "porcellum" e il premio di maggioranza che comporta, la dialettica parlamentare è azzerata.
Come è possibile che in una repubblica così assolutamente parlamentare, sia lecito inchiodare così il parlamento? La risposta è semplice: la legge elettorale detta "porcellum" piaceva non solo a Berlusconi ma anche a D'Alema, Veltroni, Prodi - solleticati dall'idea di funzionare come potere assoluto, iperpresidenti. Nessun governo di centrosinistra si sognò di cambiarla.
Repubblica virtuosamente parlarmentare ma eletta con un meccanismo che fa schifo. Tale che anche se l'opposizione non fosse invertebrata, come è, sarebbe in difficoltà. Così, sommando alla sua debolezza le proporzioni della maggioranza, Berlusconi non è minacciato "dal basso". Lo fu un momento, a novembre, e il Capo dello Stato, volendo far passare i bilanci nei termini legali, gli lasciò il tempo di comperare alcuni deputati. Non c'è procedura, per perfetta che sia, in grado di proteggere da una opacità delle coscienze, e questa presenta di regola il suo prezzo. Asor Rosa ha un bell'invocare uno stato d'emergenza democratica. E' il senso della parola "democrazia" che è sfuggito a destra e a sinistra. E, visto che c'è chi sospetta che egli evochi un golpe dei carabinieri, vien da pensare che sia sfuggito anche «a sinistra in basso».
E’ difficile non condividere l’analisi di Rossanda. La conclusione è: siamo una democrazia «virtuosamente parlamentare ma eletta con un meccanismo che fa schifo»: un meccanismo che è che è stato costruito e condiviso da quello stesso sistema di partiti che ha occupato tutti i posti nei quali si esercita il potere, da quelli che comandano l’economia, alla maggior parte delle istituzioni, a quelli (decisivi) che formano il pensiero corrente e quindi determinano anche le scelte elettorali. Del resto, lo stesso snaturamento della democrazia parlamentare è avvenuto mediante la sostituzione della governabilità alla democrazia (lo spostamento dei poteri dal legislativo all’esecutivo), ed è operazione che è stata compiuta con un consenso quasi totalitario; così l’assunzione a “valori” universali dei principi del neoliberismo (liberalizzare, privatizzare, deregolare). E via enumerando
La proposta di Asor Rosa (se tale si vuole considerarla, e non solo una provocazione), è certamente impraticabile. Ma è difficile vederne altre potenzialmente efficaci nel breve periodo. E allora? Resistere, resistere, resistere nella difesa di quello che rimane (a partire dalla magistratura e dai beni pubblici). E insieme mobilitare le coscienze per un domani che verrà: se non ora, dopo.