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Ecco, quello che si può leggere sul volto di Dominique Strauss-Kahn mentre sta in tribunale e viene a sapere che resterà in carcere, che nessuna cauzione lo tirerà fuori di lì, che non solo una grande avventura politica finisce in quell’aula ma una vita libera, una reputazione politica nobile. Ha la barba sfatta, gli occhi sperduti, la bocca come di chi d’un tratto s’accorge d’aver bevuto veleno, i tratti legnosi del caduto, colpito da nemesi inaudita. Eppure quel volto non appartiene a un uomo ignaro, incosciente di sé e del paese dove lavora, colto di sorpresa dalla vastità del delitto (tentato stupro, aggressione sessuale, sequestro di persona: non sono accuse minori).

Strauss-Kahn sapeva com’è fatto il mondo, conosceva l’America e una giustizia che non concede impunità ai potenti e anzi spettacolarizza l’uguaglianza di tutti davanti alla legge (lo si è visto nel caso del finanziere Madoff, di Spitzer costretto a dimettersi da governatore di New York per un giro di escort). Conosceva a perfezione, come tutti coloro che sono ai vertici del potere e non sono stupidi, che ogni sua mossa era da anni spiata con occhio non solo curioso ma avido, spesso vendicativo. Conosceva anche i propri avversari, e ne aveva tanti sia in Francia sia altrove, da quando era direttore del Fondo monetario internazionale e aveva cominciato ad affrontare a modo suo, controcorrente, una crisi economica che tutto aveva messo in forse, e in primis l’ideologia stessa del Fondo. Dostoevskij ci fornisce il ritratto più calzante di quel che DSK è divenuto in queste ore: un potente scaraventato a terra, un uomo che ha sfidato il destino e che di fatto è un suicidato. Più precisamente: un giocatore d’azzardo che non gioca a casaccio, ma compulsivamente.

La politica è piena di simili Posseduti – in medicina si parla di dipendenza senza sostanze: in Italia ne sappiamo qualcosa, anzi molto. Giocano con tutto: non solo col potere politico ma col proprio corpo e con i corpi altrui, che calpestano. Dostoevskij racconta questa speciale dipendenza: il suo Giocatore finge l’attaccamento al lucro (o al sesso) ma l’oscuro oggetto del desiderio è altro: è l’«estrema bramosia di rischio, la voglia di stupire gli spettatori rischiando follemente». Inabissato nell’umiliazione, il direttore del Fondo monetario ha il volto di Aleksej Ivanovic: «Mi sembra di essermi fatto come di legno, di essermi come impantanato nella melma». Fatale, la roulette ha fermato il suo giro. Nella vita e nella politica, la chiave è nel vocabolario del croupier: «les jeux sont faits», «rien ne va plus». I giochi sono fatti, le puntate sono chiuse. Rien va: avrebbe chiuso Tommaso Landolfi.

Strauss-Kahn, non un Eroe ma un Giocatore dei nostri tempi. E forse anche di altri tempi: l’agonia della democrazia di Weimar, Fritz Lang la riassunse nella figura allegorica dello Spieler, del Giocatore. Può darsi che la vicenda sia una lurida montatura, o un equivoco atroce, anche solo in parte. Può darsi che qualcuno abbia teso una trappola, nella suite del Sofitel. Ma se trappola c’è stata, è stata tesa a un uomo che ha prestato il fianco, immerso nel fascino del rischio: ogni sorta di rischio, dal più nobile al più sozzo, fino allo stupro. A un uomo che intrecciava politica e sesso, senza tema di provocare disgusto. C’è una politica del disgusto – Martha Nussbaum ne descrive le ordalie in Disgusto e umanità – e Strauss-Kahn non l’ha messa nel calcolo. Se hai un punto debole, la politica del disgusto fa sì che resti impigliato e tramortito come un grosso ragno dentro l’aggrovigliata, troppo aggrovigliata tela che hai tessuto con le tue mani.

Il fatto che DSK non abbia calcolato razionalmente, pur conoscendo il precedente di Spitzer, che sia vissuto senza un grammo di prudenza: questo crea sgomento. Ha preferito la roulette agli scacchi, che secondo Benjamin Franklin insegnano ben diversi comportamenti: «Primo: la preveggenza, che guarda un po’ nel futuro e considera le conseguenze che possono venire da un’azione, perché il giocatore pensa continuamente. Secondo: la circospezione, che percorre l’intera scacchiera o scena dell’azione, le relazioni fra i diversi pezzi e le situazioni, i pericoli a cui sono rispettivamente esposti, (...) le probabilità che l’avversario faccia questa o quella mossa e attacchi questo o quel pezzo. Terzo: la cautela di non fare mosse troppo affrettate» (La morale degli scacchi, 1779). La regola dello scacchista è «accettare tutte le conseguenze della tua precipitazione». Strauss-Kahn l’ha sprezzata e ha perso tutto: la bramosia lo ha stritolato e rabbuia le stesse sue battaglie politiche. Forse non teneva a esse come diceva. Era pronto a sperperarle, sprecarle. Alcuni dicono: forse era un politico leggero, che si gettava nell’agone capricciosamente, che nell’intimo non ne aveva sufficientemente voglia. Non era un antipolitico come Berlusconi, ma si è comportato come se lo fosse.

È talmente incredibile, la sua storia nell’hotel (l’aggressione di una cameriera, e poi la colazione con la figlia come se nulla fosse, e infine i preparativi del viaggio in Europa dove l’attendevano riunioni decisive su Grecia e Portogallo minacciati dalla bancarotta) che allo stupore s’aggiunge qualcosa di infuriante. Se la sequela dovesse rivelarsi veridica, se l’accusa del procuratore venisse confermata, lo stupore si tramuterebbe in disgusto e anche collera. Disgusto per come un potente del mondo perde il senso della realtà, e viene a tal punto trasformato dalla politica e dal potere da accantonare sia la decenza sia la prudenza. Collera per le ripercussioni dell’accaduto e per l’idiota sottovalutazione prima del disastro, poi della soddisfazione che esso procurerà a tanti che esecravano la sua persona.

Questo colpisce nelle vicende di chi, forte della posizione di comando esercitato nel Fondo, si preparava presumibilmente a tornare in Francia, a duellare con Sarkozy nelle presidenziali del 2012. Colpisce l’abissale indifferenza alle frecce che possono trafiggere il potente, quando con disinvoltura si asserve alla roulette. Ci sono tutti gli ingredienti della favola nera: c’è il Dr. Jekyll che beve la miscela che s’è fabbricato e barcolla in vie notturne tramutato in criminoso Mr. Hyde. E c’è qualcosa di talmente cupo che si stenta a non fantasticare su avversari che altro non aspettavano che il finale sbandamento. Perché gli avversari politici esistevano, sesso e violenza non occupavano tutti gli spazi di DSK. Quel che stava facendo, nel Fondo, era secondo alcuni una rivoluzione. Appena 9 giorni prima del fattaccio, Joseph Stiglitz, l’economista che da anni denuncia i misfatti del Fmi, scrisse un articolo in cui annunciava la svolta radicale che Strauss-Kahn voleva imprimere all’istituzione: la fine delle condizioni capestro imposte ai paesi poveri, il «nesso indispensabile tra equità, occupazione e stabilità economica», la volontà di mettere tale nesso al centro del governo mondiale dell’economia (discorso alla Brookings Institution, 13 aprile 2011, vedi http://www.imf.org).

Anche per questo sul web ci si interroga, si parla di trame livide. Si ricorda l’offensiva contro Assange, accusato di stupro per screditare Wikileaks. Si enumerano i poteri forti (a Wall Street o in Francia) che potrebbero profittare del ragno suicidatosi nella tela. È troppo presto per trovare risposte chiare. E in fondo importa poco, sapere se il film noir è anche un noir politico. Per gli effetti che ha, è la storia di una gigantesca sconfitta politica. Di un giocatore talmente imbozzolato che nulla sa, come in Borges, dei pezzi che ha mosso: «Dio muove il giocatore, e questi il pezzo. Quale dio dietro Dio la trama ordisce di tempo e polvere, sogno e agonia?».

È stata la sconfitta della politica della paura. Lo specchio in cui i milanesi possono finalmente guardarsi, da lunedì sera, rimanda l’immagine di una città cambiata in profondità. Una città che non risponde più alla tastiera dei comandi utilizzata dagli stregoni del centrodestra. Quella dei 500 sgomberi dei rom, del coprifuoco, del divieto di costruire moschee, della chiusura dei locali dove si fa musica, dei clochard cacciati a pedate dalle strade, dei servizi sociali tagliati, dei vigili trasformati in vigilantes o celerini. Nella sorpresa generale, la volontà di cambiamento dei milanesi è stata molto più potente di qualsiasi previsione. Come al solito i sondaggisti – che qualche riflessione sul loro mestiere dovrebbero pur farla, per pudore – non si erano accorti di nulla. La voglia di voltar pagina si è sentita, fortissima, in tutta la campagna elettorale. Ma anche ai più ottimisti sulle speranze di Pisapia e della coalizione di centrosinistra è sfuggito quanto fosse definitivo e impietoso il giudizio negativo su Letizia Moratti e la sua giunta.

L’esito elettorale del primo turno dice che ampie porzioni dell’elettorato moderato milanese si sono ribellate all’idea di rivedere donna Letizia a Palazzo Marino per altri cinque anni. L’irruzione di Silvio Berlusconi sulla scena ha costituito un motivo in più per l’abbandono di Letizia al suo destino. Se c’erano buone ragioni per non ridarle fiducia, la presenza invadente del Cavaliere nell’ultima parte della campagna le ha addirittura moltiplicate. Il ballottaggio, ora, si presenta come una sorta di agonia per il sindaco uscente. Soltanto un miracolo potrebbe rovesciare un esito che già ora sembra condannare il centrodestra all’opposizione. Pisapia e le forze del centrosinistra fanno bene a non abbassare la guardia, ma davvero non si riesce a immaginare la resurrezione di un candidato totalmente groggy con un mentore come il Cavaliere, che all’orizzonte intravvede la fine della sua parabola politica.

Il cambio di pelle di Milano è evidente dal voto per le circoscrizioni. Il centrodestra padrone della città dal lontano 1993 ha perso ovunque. Ha perso clamorosamente nel centro storico e in tutte le altre otto zone. Il risultato è doppiamente significativo non solo perché replica e spesso migliora, a livello di quartiere, il dato cittadino, ma anche perché nelle zone si votano le persone, prima dei partiti. E i candidati scelti dal centrosinistra hanno fatto il pieno. Tutta la città, senza eccezioni, ha bocciato un’amministrazione pessima e insieme ha alzato il cartello di fine corsa per il centrodestra.

Questa omogeneità contiene uno spunto di grande interesse. Il messaggio è netto: chi andrà a Palazzo Marino deve, per prima cosa, occuparsi a fondo, con cura e passione, di una città che il centrodestra ha usato come magazzino elettorale retrocedendola a capitale della Padania. A nessuno verrà più concesso di usare Milano come un parco buoi, come un recinto di obbedienti yesmen, come hanno fatto il Cavaliere e la sua tenutaria Letizia. La solenne bastonata ricevuta al primo turno dal centrodestra è una ribellione aperta alle tante brutte favole, e prese per i fondelli, raccontate in questi anni. Dall’Expo umiliata fra risse e incapacità di gestione, alla beffa dell’Ecopass svuotato di qualsiasi efficacia, allo stato di degrado e abbandono dei quartieri popolari, alle truffe di Santa Giulia fino alle esondazioni del Seveso: i milanesi si sono ricordati benissimo dello spettacolo avvilente cui hanno dovuto assistere. E ne hanno tratto le conseguenze.

Infine, Milano cambia anche perché punisce la Lega. Il partito di Bossi sognava di essere il solo beneficiario dello scontento per Letizia Moratti. Sognava di superare il 15% e invece ha raccolto meno del 10. Questo solo dato basterebbe a indicare quanto sia davvero cambiato il vento. I predicatori di paura, gli uomini pronti a invocare il diritto differenziato contro gli immigrati, a discriminare in classi ghetto i bambini stranieri, a vietare le moschee sono rimasti, quasi, a bocca asciutta. La città ha riscoperto il piacere del coraggio civile. Quello che ai leghisti non è mai piaciuto.

MILANO. Il risultato delle amministrative di Milano sorprende il centrodestra. Soprattutto alla luce dei progetti infrastrutturali avviati durante l'ultimo mandato: con la conquista di Expo, Milano potrà realizzare quelle opere rimaste nel cassetto per decenni. I ritardi, indubbiamente, ci sono. Eppure con due nuove linee di metropolitana, il nuovo sito espositivo ideato per la manifestazione internazionale, più la Brebemi e la Pedemontana (le due grandi connessioni stradali che aiuteranno ad alleggerire il traffico cittadino, inserite anch'esse nel dossier di candidatura per l'Expo) a Milano e nel territorio confinante verranno spesi entro il 2015 quasi 9 miliardi, mettendo insieme l'intervento finanziario governativo, quello comunale e quello privato.

Tre opere tra quelle appena elencate sono già partite: la linea 5 della metro, i cui lavori sono iniziati nel giugno 2007 e per cui Palazzo Marino sta investendo 50 milioni (su circa 750 totali) e che dovrebbe venire completata il prossimo anno; la Brebemi (Brescia-Bergamo-Milano), che verrà realizzata interamente in project financing per un investimento di 1,6 miliardi, e che sarà pronta nel 2012; la Pedemontana (da Dalmine a Malpensa), che dovrebbe essere completata nel 2014 grazie ad un investimento complessivo di 4,1 miliardi, in parte con finanziamenti pubblici e in parte con il project financing. A questo si dovrebbe aggiungere il passante ferroviario, cioè il treno cittadino che collega Rogoredo a Bovisa (da Nord a Sud della città), un'opera senza fine iniziata negli anni Ottanta e finita dopo 30 anni, nel 2008.

Oltre alle opere inserite nel dossier di candidatura di Expo, il mandato della Moratti si chiude con un altro traguardo nel settore della mobilità, condiviso in modo bipartisan con il centrosinistra: la quotazione in Borsa della Sea, la società aeroportuale di Malpensa e Linate controllata dal Comune di Milano. Deliberato dal consiglio comunale un mese fa, lo sbarco a Piazza Affari dovrebbe avvenire il prossimo autunno con un aumento di capitale del 35%, in modo che Palazzo Marino diluisca la propria quota dall'attuale 84,6% al 51% circa. Questa operazione servirà non solo a permettere a Palazzo Marino di prelevare dalla società aeroportuale un extradividendo da 160 milioni per far tornare il bilancio comunale, ma anche di garantire a Sea un potenziale finanziamento tra i 400 e i 500 milioni da parte del mercato, utili per portare avanti un piano industriale da 1,4 miliardi.

Alla luce di questi traguardi il centrodestra di Letizia Moratti pensava forse di avere gioco facile, di essere riconoscibile come una coalizione pragmatica e operativa. Probabilmente però sono entrati in gioco altri elementi, come la scarsa capacità di comunicare i progetti in corso. Oppure, si dice nello staff della Moratti in queste ore, l'"invasione" della politica romana dentro la campagna elettorale. Evidentemente però, rimanendo sul fronte delle grandi opere, sono state percepite più le criticità che i successi.

E in effetti qualche difficoltà c'è. Nel pacchetto Expo la metro 4, che collegherà Linate a Lorenteggio (da Sud Ovest a Sud Est), ha subito diversi ritardi, e indicativamente i cantieri apriranno un anno dopo il previsto. Ad oggi la gara non è stata ancora aggiudicata ufficialmente, e non è scontato che tutta l'opera, del valore di 1,2 miliardi (di cui 400 milioni comunali), venga realizzata interamente entro il 2015.

Anche il Piano di governo del territorio (Pgt), che ridisegna l'urbanistica della città per i prossimi 30 anni, ha creato non poche discussioni e qualche tensione nel mondo delle associazioni e dei comitati cittadini. I dubbi riguardano il rischio di una cementificazione fuori controllo e la scarsa integrazione con un piano di mobilità in grado di sostenere la crescita della popolazione. Sulla testa del prossimo sindaco peserà tra l'altro un ricorso al Tar contro il Pgt, fatto a febbraio da una ventina di consiglieri di opposizione. Le motivazioni sono di tipo formale, ovvero il mancato dibattito in consiglio comunale di alcuni punti. Tuttavia tra qualche mese il Tar potrebbe bloccare ancora il Piano, per la cui realizzazione c'è voluto più di un anno.

Pgt a parte, il mandato Moratti si chiude con il proseguimento di alcune iniziative urbanistiche iniziate dal predecessore Gabriele Albertini, che pensò di spostare in periferia la struttura della Fiera liberando l'area di City life, un quartiere a Nord di Milano dove oggi si stanno costruendo grattacieli per abitazioni di lusso e centri direzionali. I grandi investimenti immobiliari si sono estesi anche all'area di Porta nuova, nella parte Nord di Milano. Ma tutto questo non è bastato per vincere.

Diciotto anni dopo la grande speranza suscitata da Nando Dalla Chiesa - sconfitta dalla Santa Alleanza di poteri forti e istinti deboli che si formò attorno alla Lega per salvare Milano dal " comunismo" - pedalo verso la mia casa milanese nella notte fresca di luna piena. Si chiude un ciclo negativo, la passione e la mobilitazione che ho visto attorno a Pisapia sono paragonabili forse soltanto a quella primavera del 93. Ma questa volta al ballottaggio non arriviamo come allora con la sorpresa di un risultato molto più basso del previsto, ma al contrario con un vantaggio che nessuno aveva messo nel conto. Più di 40 mila voti di vantaggio, più di 6 punti percentuali. E' un vantaggio omogeneo in tutta la città, tanto che persino nel centro storico il presidente di zona sarà di centro-sinistra. Cosa è successo?

Il buon risultato di Pisapia e del centrosinistra non è stato sorprendente ne imprevisto: abbiamo vissuto per mesi un impegno costante,quasi martellante. Ogni tanto c'era il timore che fosse un grande movimento rivolto a se stesso, con tutte le serate, gli incontri, le cene tra di noi e i nostri amici.

I risultati confermano che tutte le sfumature di centro sinistra e sinistra si sono unite in un amalgama solido. Ma rimanendo sè stesse. Avevamo preso 320 mila voti nel 2006 con il candidato sindaco Ferrante. Ne prendiamo 316 mila nel 2011 con Pisapia. La popolazione si è leggermente ridotta, quindi gli attuali 316 mila valgono l'1 per cento in più dei 320 mila di 5 anni fa. Non hanno votato per il centro sinistra le figure sociali antropologiche della destra, le "macchiette" della base sociale berlusconiano-leghista. Venerdì sera mi guardavo attorno intensamente nella piazza piena per Vecchioni in Duomo. "Perché questa lunga notte dovrà pur finire". Facce diverse, in genere sconosciute, non il giro ristretto dell'attivismo politico, varie generazioni, facce serie e intense ma facce di centro di sinistra. Erano seri e preoccupati perché - come capitava anche a me – non sapevano bene cosa stava succedendo nel campo avverso. La rimonta? La compra dei voti? Ma lo sfondamento invece è avvenuto proprio nel campo berlusconiano. Da 353 mila voti del 2006 la Moratti scende a 273 mila. Sotto il 42%. Un risultato così basso non era previsto.

E le schede con vota incrociato Lega-Pisapia che gli scrutatori raccontano di aver visto qua e là sono solo una metafora di quel che sta succedendo, non un fenomeno statisticamente rilevante. La Lega ha perso in voti (meno 17.500) e percentuali rispetto al risultato in città delle regionali dell'anno scorso, non meno del Pdl (meno 15 mila). A una prima occhiata sono voti rimasti a casa, andati al Terzo Polo e un po' dappertutto, insomma sono la crisi tanto attesa e così ben mascherata fino all'ultimo. Fino a quando arrivavano fino alla nostra festicciola pre-elettorale nel cortile dei Navigli sabato sera le voci dei sondaggi con la Moratti al 49. Quelle voci che mi facevano temere che le sue liste avrebbero potuto superare il 50%, bloccando il premio di maggioranza alle liste di Pisapia. Macchè 49. Gli elettori mentivano ai sondaggi, o ci arrivavano solo i peggiori. Non è in qualche gaffe dell'ultima settimana che va cercata la ragione di questa crisi del centro-destra. Né in qualche inefficienza comunale, penso mentre percorro rassicurato alcune delle nuove piste ciclabili inaugurate dalla Moratti nelle ultime settimane. Sembra una crisi seria. Affrontiamo il ballottaggio senza ansia ma senza perdere un colpo. Chiedendo di tornare a Milano a tutti gli amici e i conoscenti che sono o risiedono all'estero - che forse non sanno che se tornano possono votare. Che vengano a partecipare alla sconfitta del berlusconismo.

S’inizia a scendere subito sotto casa. L’anno scorso, alle elezioni regionali, in centro storico il Pdl distaccò la sinistra di quindici punti. Una legnata, pur nel solco di una zona per tradizione di centrodestra. Bene, sul tardi, in Zona 1, intorno alle due, con 94 sezioni scrutinate su 105 il Pdl era al 44,5%e Pisapia al 44,8%. Addirittura. Pareggio. Anzi contropiede. Pensare che, alla vigilia, le partite vere erano altrove. Invece, un ribaltone. Di sicuro, da una appena che ne avevano, prese 8 Zone su 9. Forse, appunto, con l’ipotesi del centro, 9 su 9. Allarme o laboratorio? Le partite erano per esempio in luoghi emblematici tipo via Padova. Che è tante cose. Strada infinita (quattro chilometri) e multietnica. Il che porta alcuni a vederci uno straordinario laboratorio della Milano che sarà e altri invece a inquadrare la situazione in chiave d’allarme sicurezza, di degrado, e buonanotte.

Il penultimo aggiornamento in ordine di tempo con Luigi Galbusera, coordinatore di zona del Partito democratico, in assenza di dati ufficiali verteva sul commento del consolidamento di un trend. Ecco il commento, registrato intorno alle 22: «Il trend ci dice che, rispetto al 2010, siamo molto, molto cresciuti» . Con Pisapia che ha scollinato anche quota 50%. Un secondo colloquio telefonico con Galbusera, verso le 23, aveva i primi dati. Quattro seggi, dei quali tre al Trotter e uno in via Giacosa. Il risultato? Arretramento, se confrontato con il 2010, della Lega e avanzata del Pd. Fortissimo arretramento. E forte avanzata. La città asiatica e il 60%Via Padova rientra nella zona 9. La 9 va dalla stazione Centrale a Garibaldi, dall’Isola a una periferia purissima— dagli italiani del dopoguerra agli ultimi stranieri quartiere d’immigrazione, palazzi popolari, un certo degrado e una certa vita da casa di ringhiera che resiste —, una periferia dicevamo come quella di Niguarda.

In Zona 9 con 145 sezioni su 152 il centrosinistra era al 49,1%. Di contro, Pdl al 27,5%e Lega all’ 11%. I numeri che avete fin qui trovato, sono parziali. Da oggi, dopo la maratona, si avranno quelli certi. Non dovrebbero essere lontani dai definitivi i numeri di Chinatown. Vero, è considerata una «roccaforte» del centrosinistra; eppure, ci hanno detto dai seggi alcuni osservatori del Pd, le aspettative sono state parecchio superate. Del resto in alcuni seggi di via Giusti hanno riferito di 60, anche 62%per Pisapia. Il quale, va detto, ha compiuto un viaggio regolare. Prendiamo la Zona 4 (Vittoria e Forlanini): a 133 sezioni su 145 il centrosinistra conquistava il 48,6%dei voti contro il 41,1%. La Zona 8 (Fiera, Gallaratese e Quarto Oggiaro): a 156 sezioni su 169 Pisapia aveva il 47,8%mentre gli avversari si fermavano al 41%.

E ancora la Zona 7 (Baggio, De Angeli, San Siro): a 159 sezioni su 167 per Pisapia quasi il 47%e per la Moratti un risicato 42%. Prendiamone un’ultima. Ultima col botto. La Zona 3 (Città Studi, Venezia, Lambrate). A 124 sezioni su 132 Pisapia era al 49,9%e la Moratti al 42%. I parlamentini Ricapitolando. Sul tardi, 8 Zone su 9 ormai del centrosinistra, e la rimanente (la 1, quella del centro) probabile. Oggi sapremo. Sempre la 1, come detto notoriamente sventolante bandiera Pdl, ha pure visto l’affermazione del Pd nella partita — un’altra partita, diversa, per composizione degli schieramenti e squadre in campo — dei Consigli di zona. A 68 sezioni su 105 esaminate, la coalizione per Pisapia era al 47%e la coalizione «Milano sempre più bella» (Pdl e la Lega) al 44,94%.

postilla

Si è detto molto, su questo sito, a proposito del coprifuoco nelle vie e nei quartieri milanesi “puntati” verso i grandi nodi di riqualificazione e speculazione urbana, del legame piuttosto spudorato fra le strategie urbanistiche e certe assurde politiche pubbliche fascistoidi a dir poco. Negozi chiusi al tramonto, apparentemente contro ogni buon senso, per garantire la “sicurezza”, pieno sostegno alla logica leghista di ostacolare in ogni modo tutte le attività commerciali diverse dalle solite botteghe di stilisti centrali o poco altro, privatizzazione dello spazio pubblico. Era un vero Grande Disegno, e chi ci stava schiacciato in mezzo lo capiva eccome. Ecco per ora la sola reazione: la cura deve ancora arrivare, speriamo presto e decisa, ben oltre le grandi dichiarazioni di intenti o i classici inviti alla solidarietà. Sarà anche il banco di prova per verificare le nuove frontiere (quelle oneste, realistiche, auspicabili) del rapporto pubblico-privato, della sostenibilità ambientale e sociale. Si chiama planning? Speriamo: se non altro si capisce (f.b.)

Attenti. I tamburi delle acque libere rullano a Sud, nella penultima nocca del ditone calabro, sui monti chiamati "Le Serre". È la lotta di migliaia di abitanti stanchi di una privatizzazione zoppa che, in una terra benedetta dalle migliori sorgenti della Penisola, li obbliga a bere un liquido alla candeggina. Li vedi in processione tra i boschi, silenziosi e furenti, a caccia delle antiche fontane per riempirsi il cofano con le bottiglie di sopravvivenza. Tutta gente che promette sfracelli ai referendum di giugno. Una miccia che inquieta il Palazzo e i padroni delle acque.

Non la vogliono. Quella cosa che esce dai rubinetti è - dicono - iperclorata, sa di ruggine e ha il colore del fango. E viene dalla diga più malavitosa d’Italia, quella dell’Alaco, tra Badolato e Serra San Bruno, famosa per essere costata il decuplo del previsto. Sono anni che la gente ha paura di quell’invaso, ma negli ultimi mesi un balletto di ordinanze di non potabilità (quella di Vibo Valentia è durata 106 giorni!) poi revocate a macchia di leopardo, o reiterate all’interno della stessa rete, ha esasperato il problema, e ora il "tam-tam" corre anche sul web, contesta le rassicurazioni dei gestori, buca il silenzio di chi ha paura.

«Che venga, che venga a casa mia il sindaco di Vibo - urla una donna sui settanta accanto a una fontana sulla strada per Capistrano - venga che gli cucino gli spaghetti con l’acqua dell’Alaco... se li dovrà mangiare tutti!». In questi monti di alberi immensi, tornanti e nebbia, le donne sono le più determinate, il cuore della rivolta. «Figli di p..., scriva che siamo incazzati e non abbiamo più paura; questa è una guerra per la vita perché l’acqua è la vita», sibila un anziano ossuto dalla barba lunga, apparentemente mitissimo, e si fa il segno della Croce dopo la parola "vita" come se avesse chiamato in causa l’Altissimo in persona.

Assaggio l’acqua di Serra San Bruno: pessima. Cerco di capire, e subito mi perdo in un teorema bizantino. In Calabria funziona così: la raccolta e il pompaggio delle acque tocca a una società di diritto privato chiamata Sorical, mentre la distribuzione tramite le condutture spetta ai Comuni. E così, di fronte al vespaio scoppiato sulle Serre, nel Vibonese e dintorni, ecco l’inevitabile palleggiamento di responsabilità, con la Sorical che accusa i Comuni di avere reti colabrodo e la gente dei Comuni che accusa la Sorical di mettere in rete acqua malata. La fiaba del lupo e l’agnello.

Mettersi contro il sistema non è facile. Il giudice Luigi De Magistris che nel 2008 ha indagato sul business, s’è rotto le corna ed è stato trasferito. Diverso il destino dell’imprenditore Sergio Abramo che, dopo aver durissimamente attaccato la Sorical per certe irregolarità nel rapporto con una banca d’affari, è stato nominato presidente della Sorical medesima ed ora è assai più prudente nei giudizi.

Il fatto è che dietro la società c’è la francese Véolia, che di fatto comanda col 46,5 per cento delle azioni e gestisce pure il discusso inceneritore di Gioia Tauro, destinato al raddoppio. E’ questo il potere ed è qui la polpa: il privato (ma chiamiamolo per comodità "i francesi") che vende all’ingrosso ai Comuni la loro stessa acqua e lascia ad essi la rogna di gestire la rete. Col pubblico che si riduce a esattore per conto dei privati, anche a costo di indebitarsi.

A fronte di questo affare colossale, di canoni in forte rialzo e di investimenti tutto sommato relativi, scrive Luca Martinelli su "Altraeconomia", i francesi riconoscono alla Regione «un canone di 500 mila euro l’anno» per l’uso di tutti gli impianti calabresi. Un’inezia. L’affitto degli impianti di un’intera regione ricchissima d’acque equivale a un quarantesimo di quanto la società di gestione milanese paga per gli impianti di quella sola città. Ovvio che ai francesi piaccia la Calabria.

Ma con la diga dell’Alaco il meccanismo dell’oro blu si inceppa. La Sorical la eredita nel 2005 della Cassa del Mezzogiorno che l’ha appena messa in funzione. Una cattedrale nel deserto, costruita per spillare denaro pubblico in una zona umida con sabbie mobili e acque malariche. I fondali del lago artificiale non sono stati puliti e bonificati delle infiltrazioni di ferro e manganese contigue alle miniere borboniche di Mongiana. E quando, salutati dal plauso della politica, i francesi prendono in mano l’impianto dopo alcune migliorie, si ritrovano a mettere in rete un’acqua che grida vendetta rispetto alle fonti delle Serre. Una fornitura praticamente imposta dalla politica a 400 mila persone fino a quel momento agganciate a pozzi o condotte indipendenti, spesso - si asserisce - di buona qualità.

Nel 2010 persino la Regione Calabria, legata ai francesi, riconosce che qualcosa non va. L’Agenzia protezione ambiente dimostra che l’inquinamento viene dal lago, non dalla rete. Intervengono anche i Nas, che mettono sotto sequestro un serbatoio nel Vibonese. Nel gennaio di quest’anno il sindaco di Vibo dichiara l’acqua non potabile. Lo stesso accade in altri Comuni. Allora la gente chiede: riapriteci i vecchi pozzi che avevano acqua sicura. Ma non si può. Non sono più operativi. Qualcuno, veloce come il vento, li ha già disattivati.

«Macché pozzi buoni! - sbotta al telefono Sergio De Marco, responsabile tecnico della Sorical - questa dei sindaci è una bufala colossale. Li abbiamo chiusi perché erano di pessima qualità. Non bastavano, d’estate si svuotavano. E la storia della nostra acqua che sarebbe peggiore è un’invenzione dei Comuni che cercano un alibi per non pagarci le forniture. Possibile che per la stessa acqua altri Comuni non abbiano mai protestato? Centinaia di analisi dimostrano che l’acqua dell’Alaco è buona. Lo scriva, mi raccomando».

Per la politica, chi critica i francesi è "comunista" o propagatore di allarme. Alla Sorical si deve credere. Credere che l’acqua è buona, che il fondale del lago è pulito e che le analisi sono state fatte. Credere che un potabilizzatore da trecento litri al secondo è sufficiente per 400 mila persone. Così, per capire, bisogna andare lassù, oltre spettrali alberghi disabitati, fino al lago maledetto perso nella pioggia tra pale eoliche che paiono croci di un Golgota, in fondo a boschi così appetibili per "certi affari" che da gennaio vi sono morte già cinquanta persone per faide tra clan.

Strano, la rete che circonda l’invaso è aperta in più punti. Cancelli senza lucchetto. Nessuno pattuglia le sponde, tranne mandrie di vacche bianche che pascolano lasciando escrementi sulla battigia. Di chi sono? Sono le "vacche sacre", mi diranno a Serra San Bruno. Non hanno bisogno di pastori perché sono intoccabili. Sono della criminalità organizzata che così dimostra la sua onnipotenza e segna il territorio. Un simbolo, non un affare.

L’acqua sulle sponde è coperta di schiuma marrone quasi dorata. I ciottoli sono nerastri, hanno perso il colore originale. Cime di faggi nudi e abeti bianchi sbucano dalla superficie. Possibile siano cresciuti in acqua, dopo l’asserita ripulitura e impermeabilizzazione dei fondali? Vado a Serra San Bruno dove la resistenza, benedetta dal parroco, abita nella tana dell’associazione "I briganti", guidata da Sergio Gambino, figlio di un giornalista che ha dedicato la vita intera alla lotta contro la n’drangheta.

«Noi lo sappiamo» dice Gambino, capelli lunghi neri, occhi accesi e barbetta borbonica, «lo sanno i pastori, i boscaioli, i carbonai... Nessuno ha mai pulito quel lago... Altri sono venuti e ci hanno versato dentro non si sa cosa... La diga è in Comune di Brognaturo, retto da Cosma Damiano Tassoni, lo stesso sindaco che consentì quella diga demenziale... Credo che questi signori non abbiano idea di quanto siamo determinati a lottare per ciò che ci spetta». La sera, a Pizzo Calabro mi diranno: «Lo sa? Bossi ha ragione. Siamo una colonia francese. Ci hanno venduto. Acqua e nucleare. Ecco cos’è il patto Berlusconi-Sarkozy».

Il petrolio si è affacciato come importante fonte di energia negli ultimi decenni del l'Ottocento, con una produzione relativamente modesta; nel 1900 il consumo mondiale di petrolio era di 30 milioni di tonnellate rispetto a 600 milioni di tonnellate di carbone. Si tenga presente che una tonnellata di carbone produce energia come 0,7 tonnellate di petrolio. Il consumo di petrolio aumentò rapidamente con l'avvento dell'automobile e dell'aeroplano e con la prima guerra mondiale (1914-1919). Nel 1920 il consumo mondiale di petrolio era di circa 130 milioni di tonnellate rispetto ad un consumo di carbone di circa 1200 milioni di tonnellate. Nel 1950, lasciatosi alle spalle il grande massacro della seconda guerra mondiale (1939-1945), il consumo di petrolio era diventato di 700 milioni di tonnellate rispetto ad un consumo di circa 1500 milioni di tonnellate di carbone. A partire dal 1950 ai due giganti energetici si è affiancato, in modo sempre più aggressivo, il gas naturale.

Oggi i consumi mondiali vedono al primo posto il petrolio con circa 4200 milioni di tonnellate all'anno, seguito dal carbone con circa 5000 milioni di tonnellate all'anno (ma con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 3500 milioni di tonnellate di petrolio), e al terzo posto il gas naturale con circa 3000 miliardi di metri cubi all'anno (con un contenuto di energia equivalente a quello di appena 2500 milioni di tonnellate di petrolio). I bilanci energetici si fanno con una unità di energia che si chiama tep (tonnellate equivalenti di petrolio).

Durante la conferenza del 1956 dell'Istituto Americano del Petrolio un geologo chiamato King Hubbert (1903-1989) affermò che, sulla base delle conoscenze delle riserve di petrolio esistenti nel mondo, si poteva prevedere che la produzione mondiale di petrolio avrebbe raggiunto un massimo, forse nei primi anni del 2000, e poi sarebbe diminuita. A conferma di questo ricordò che gli Stati Uniti, che erano stati esportatori di petrolio, erano diventati importatori di petrolio per il graduale esaurimento dei suoi pozzi. Nel 2010 il 70 % del petrolio consumato negli Stati Uniti è importato dai paesi del Golfo Persico, da Venezuela, eccetera e i favolosi pozzi della California e del Texas si stanno esaurendo progressivamente.

Il continuo aumento del prezzo del petrolio è influenzato da considerazioni politiche, dalla comparsa di nuovi giganti economici, come Cina e India, che succhiano petrolio dovunque, ma anche da un graduale impoverimento delle riserve. Poco conta se nel sottosuolo c'è petrolio ancora per 30 o per 60 anni; il suo esaurimento si farebbe sentire nel corso di una o due delle future generazioni. A puro titolo di esercizio di fanta-economia immaginiamo che cosa succederebbe se il petrolio scomparisse del tutto. Scomparirebbe la nostra "civiltà" ? No, perché la civiltà è basata su molti altri beni oltre alla pura e semplice energia. Comunque sarebbe un bello sconquasso e, per capire chi ne pagherebbe di più le conseguenze, cominciamo a vedere dove va a finire oggi il petrolio.

Circa un terzo del petrolio consumato nel mondo va nei trasporti terrestri, aerei, navali; i principali mezzi di trasporto terrestre sono, da decenni, gli autoveicoli azionati da motori a scoppio a ciclo Otto; la rotazione delle ruote è assicurata dall'energia liberata dalla combustione di un carburante liquido, la benzina o il gasolio, entrambi derivati dalla raffinazione del petrolio. Circolano autoveicoli che usano il metano del gas naturale, comincia ad affacciarsi qualche autoveicolo elettrico, ma l'elettricità è ancora prodotta in gran parte in centrali che bruciano derivati del petrolio. Se il petrolio improvvisamente scomparisse, ci resterebbero tre soluzioni: ottenere carburanti liquidi dal carbone; oppure usare carburanti liquidi ottenuti dalla biomassa vegetale, come l'alcol etilico o il biodiesel; o, infine, far muovere gli autoveicoli con motori elettrici ricaricati con l'elettricità prodotta dal carbone o dal Sole o dal vento. Quanto poco si possa contare sull'elettricità nucleare è dimostrato dalla catastrofe ai reattori giapponesi di Fukushima.

Il "re carbone" non è un combustibile comodo da usare, però può essere trasformato per reazioni chimiche in numerosissimi prodotti oggi ottenuti dal petrolio a cominciare dai carburanti liquidi per autotrasporti. Il carbone è costituito essenzialmente da carbonio, con piccole quantità di idrogeno e altri elementi. Trattando il carbone ad alta temperatura con vapore acqueo si ottiene una miscela di gas, principalmente idrogeno, ossido di carbonio, metano, che, per ulteriori trasformazioni, possono diventare carburanti liquidi simili alla benzina e al gasolio. Queste trasformazioni sono state rese possibili dalle ricerche condotte negli anni venti e trenta del secolo scorso dai chimici tedeschi Friedrich Bergius (1884-1949), Franz Fischer (1877-1947) e Hans Tropsch (1889-1935). Non c'è da meravigliarsi che si sia debitori alla chimica tedesca di queste innovazioni perché per tutta la prima metà del Novecento la Germania si è trovata priva di petrolio e ricca di carbone. Non consideriamo per ora quanto possano venire a costare questi carburanti dal carbone, perché la questione del prezzo sarebbe secondaria, se trovassimo i distributori di benzina vuoti.

Una parte del petrolio viene usato nel mondo nelle centrali termoelettriche nelle quali il carbone è già usato su larga scala; anche in Italia, zitte zitte, molte centrali termoelettriche funzionano a carbone. Le riserve di carbone sono molto grandi nel mondo, ma il suo uso come combustibile è certamente scomodo perché deve essere scavato nel sottosuolo e trasportato allo stato solido; durante la combustione genera vari gas inquinanti e lascia delle ceneri che pure sono fonti di danni ambientali. Ma se non ci fosse più petrolio, state sicuro che gli ingegneri e i chimici si metterebbero al lavoro per diminuire molti degli inconvenienti del carbone, con la gassificazione sotterranea, la depurazione dei fumi, con il recupero delle scorie oggi sepolte in discariche, eccetera. Una parte dei prodotti ottenuti dalla raffinazione del petrolio viene impiegata nell'industria chimica per fabbricare plastica, fibre tessili sintetiche, gomma sintetica e innumerevoli altri ingredienti di vernici, coloranti, medicinali, inchiostri.

Oggi; perché gran parte delle materie usate dall'industria chimica, etilene, propilene, butano, butilene, eccetera, in passato era ottenuta dal carbone anche grazie ai contributi di un altro chimico tedesco, Walter Reppe (1892-1969). Molte altre merci oggi ottenute dal petrolio sono state per secoli e decenni ottenute dal mondo vegetale e animale. Oltre un terzo delle fibre tessili usate nel mondo è costituito dal cotone offerto dalla natura; molti usi delle fibre oggi ottenute con sintesi chimiche dal petrolio erano soddisfatti in passato da lino, canapa, eccetera. In silenzio, in tutto il mondo, si sta verificando un "ritorno" alle fibre tessili naturali anche perché molte di esse sono prodotte nei paesi emergenti che sperano di trarne occasioni di lavoro e di sviluppo. Circa un terzo della gomma usata nel mondo è di origine vegetale e anzi la gomma naturale in certe applicazioni supera come qualità quella sintetica ottenuta dal petrolio. La natura offre innumerevoli materie nel regno vegetale e animale con cui ottenere coloranti e materie plastiche oggi derivate dal petrolio attraverso l'approfondimento delle conoscenze della biologia, della chimica, della merceologia.

Tranquillizzatevi, perciò, perché, se il petrolio scomparisse, la civiltà continuerebbe e anzi sarebbe probabilmente meno inquinata e più sicura.

Prove generali per il condono universale 2012

di Vezio De Lucia

Potrebbe essere solo sordida propaganda elettorale. È contraria la Lega (ma non ci si può fidare, nei mesi scorsi era stata d'accordo) e Il Sole 24 Ore ha scritto che non va bene, che si deve dire no all'abusivismo edilizio sempre e comunque. Potrebbe essere solo un'iniziativa, da abbinare alle dichiarazioni con le quali Berlusconi ha condiviso il triviale attacco di Letizia Moratti a Giuliano Pisapia, dettata dalla necessità di sollecitare i peggiori istinti giocando il tutto per tutto in una sfida elettorale all'ultimo sangue. Temo però che non sia così, e che l'intervento legislativo annunciato a Napoli per sospendere fino a dicembre le demolizioni degli abusi edilizi in Campania sia un promessa che il governo intende davvero rispettare. E non è tutto, se va in questo modo è inevitabile un provvedimento di condono universale. Che non sorprende chi ricorda le tre precedenti leggi degli anni 1985 (governo Craxi), 1994 e 2003 (governi Berlusconi): una ogni nove anni. La data del condono prossimo ventura sarebbe perciò il 2012. E quello promesso a Napoli per fermare le ruspe è solo un preavviso.

Certo è che il nostro Paese si allontana sempre di più dal mondo civile. In quale altro luogo d'Europa c'è tanta tolleranza per l'illegalità, la furbizia, l'esasperazione dell'egoismo proprietario? Il condono edilizio appartiene a quella filosofia - mirabilmente espressa dallo slogan «padroni in casa propria» - che ispira tutte le iniziative del governo in materia edilizia, dagli abominevoli piani casa, all'abolizione dell'Ici, alla liquidazione dei beni pubblici. Quella filosofia che consente di raccogliere sotto la stessa bandiera gli stati maggiori della proprietà immobiliare insieme alle fanterie che posseggono solo miserevoli manufatti abusivi. Queste cose le scrisse Valentino Parlato in uno dei primi fascicoli del manifesto mensile per far capire l'ampiezza dello schieramento sociale che si opponeva allora alla riforma urbanistica. Adesso è l'Italia di Silvio Berlusconi.

Alla quale non interessa che si mortificano le persone perbene, gli amministratori, i funzionari, i magistrati che fanno il proprio dovere contrastando l'illegalità. Che l'abusivismo di necessità non esiste da decenni e che ormai è solo un'attività criminale nelle mani di mafia, camorra e 'ndrangheta. Che gli insediamenti abusivi non rispettano neanche le norme a difesa delle frane e dei terremoti. Che le spese a carico dei comuni per il risanamento degli insediamenti abusivi superano di oltre tre volte l'ammontare delle oblazioni. Che il condono edilizio è peggio di quello fiscale e simili.

Potrei continuare. Ma è vero anche che esiste un'altra Italia, che si riconosce in principi diversi da quelli dell'egoismo proprietario. Un'Italia però sparpagliata e avvilita che finora non siamo stati capaci di mobilitare.

Usi e abusi, si sanano le case non le persone

di Marco Rovelli

E saniamole queste case abusive, dice il Caro Leader. L'abuso eretto a norma, morale prima che giuridica, pare ormai uno dei segni più marcati di questa età di Fine Impero. L'abuso è generalizzato, ci dice il Caro Leader strizzandoci l'occhiolino, siamo tutti complici di un'illegalità diffusa: ovviamente non quell'illegalità diffusa invocata anni fa in nome di una trasformazione rivoluzionaria collettiva, ma un'illegalità individualistica finalizzata al «si salvi chi può» - dove poi, a salvarsi e prosperare sulle spalle di un massacro sociale generalizzato, sono sempre quelli che partono da posizioni di vantaggi acquisiti. Che in questo paese, dove la forbice tra i più ricchi e i più poveri è larghissima, assume contorni devastanti.

Tutto questo appare in una luce particolare, dalla prospettiva del Duomo di Massa, dove da due settimane stiamo conducendo una lotta a sostegno degli immigrati in presidio permanente che chiedono di essere regolarizzati avendo subito truffe in occasione del decreto flussi colf-badanti del 2009. È una lotta difficile, con margini ristretti per conseguire gli obiettivi prefissi. Da una parte, una legislazione schiavista che non lascia spazi per poter dare giustizia a coloro che hanno consegnato migliaia di euro a qualche falso datore di lavoro, e sono stati lasciati nella clandestinità da cui volevano emanciparsi, senza i propri risparmi frutto di una fatica immane. Dall'altra, un percorso che in questi giorni si riapre in conseguenza della sentenza del consiglio di Stato che ha annullato la circolare Manganelli che escludeva dalla regolarizzazione coloro che avevano subito la doppia espulsione: un percorso però arduo, visto che la possibilità di accedere alla regolarizzazione non riguarda tutti coloro - e sono tanti - che non hanno fatto ricorso dopo la loro esclusione.

Ecco, da questa prospettiva irta di difficoltà, in cui tocchi con mano passo dopo passo che cosa significhi essere persone «non-persone», la ventilata sanatoria degli abusi edilizi appare come scandalo. Da una parte un territorio che può venir devastato impunemente, e ogni suo abuso può essere sanato. Dall'altra, invece, non si sana per nulla al mondo la condizione giuridica di persone che lavorano e che non devono venire riconosciute nei propri diritti di lavoratori, e prima ancora di esseri umani.

Sotto questa apparente contraddizione, però, si legge una logica unitaria, e fondativa della nostra epoca: il consumo di oggetti elevato a principio supremo. Territorio e persone sono usati e abusati, ciascuno a suo modo: da ciascuno ciò che può dare. Anzi: da ciascuno e da ogni cosa ciò che si può estrarre. (E, come corrispettivo: a ciascuno ciò che egli si può prendere). Così uso e abuso di persone e di territorio sono legittimati. Uso e abuso, indifferentemente, perché nella prospettiva del consumo totale scompare la soglia tra i due concetti, che si confondono: ogni uso è sempre cattivo (ab-uso), in quanto smisurato. È questo, insomma, il tempo della hybris (e Luciano Gallino ci ha detto, di fatto, come sia questa la marcatura "etica" di questa nostra età del finanzcapitalismo). E non possiamo continuare a rimandare la questione di fondo: come salvarsi da questa tracotanza del genere in-umano.

Via libera al Palacinema low cost

di Alberto Vitucci

Del progetto iniziale è rimasto solo il «buco». Un cratere pieno di amianto, con reperti archeologici ottocenteschi. Lavori fermi perché costa smaltire le sostanze inquinanti. «Quel nuovo Palacinema è una strada morta, serve un’idea nuova», ha detto a sorpresa il neoministro Galan. Il Codacons ha presentato una nuova denuncia alla Corte dei Conti: «Chi pagherà i danni alla città?»

Il «Sasso», progetto vincitore del concorso lanciato dalla Biennale nel 2005, non si farà più. Un altro sasso muove in queste ore le acque ferme della politica veneziana. E’ quello lanciato a sorpresa dal neoministro ed ex governatore Galan. «Ha messo la prima pietra insieme a me e Bondi, non credo che la sua sia una posizione di contrarietà», commenta l’ex sindaco Massimo Cacciari, «forse Galan vorrà rivedere il progetto, risparmiare qualcosa visti i costi della bonifica, non credo abbia cambiato idea e voglia tornare indietro rispetto all’idea di un nuovo Palazzo del Cinema». L’attale sindaco Giorgio Orsoni ha accolto la provocazione. «Se lo dice il ministro bisogna rifletterci», dice. In realtà si sta già discutendo di come uscire dal pasticcio. Idea del Comune sarebbe quella di limitare al minimo le nuove edificazioni, ristrutturare con i fondi disponibili il vecchio palazzo, creare collegamenti tra gli edifici esistenti. E recuperare il «buco» trasformandolo in parcheggio. L’amianto sarebbe ricoperto di cemento e il problema disinquinamento risolto. Una dichiarazione di resa rispetto alle intenzioni più volte espresse - anche dallo stesso Galan - per il nuovo Palacinema. Il presidente Codacons annuncia nuovi esposti. «Vogliamo che si faccia chiarezza sullo spreco di denaro pubblico compiuto», dice, «la decisione del ministro Galan conferma i nostri dubbi». Un altro esposto firmato dai comitati è già stato presentato in Procura. Si torna indietro, dunque. Perché la presenza dell’amianto, sostanza con cui venivano fabbricati a inizio secolo i tetti delle capanne delle spiagge, è stata trovata in quantità superiori al previsto. Materiali sotterrati di cui nessuno aveva evidentemente verificato la presenza prima di partire con i lavori. Un vero fallimento, il nuovo PalaCinema. Opera che doveva essere finanziata dallo Stato, inaugurata per il 150esimo dell’Unità d’Italia nel marzo scorso. Invece il palazzo del Cinema non c’è, i costi sono lievitati (si è tornati alla cifra di 130 milioni). I soldi finora li hanno messi Regione e Comune. Quest’ultimo con la vendita dell’Ospedale al Mare e la concessione alla cordata di Est Capital del progetto della nuova darsena. Lunedì il commissario Spaziante illustrerà ai cittadini del Lido il progetto della darsena da 1000 posti barca a San Nicolò. Giovedì sarà il sindaco Orsoni a incontrare la Municipalità. Tema, PalaCinema e grandi progetti.

Cantiere fermo già a giugno ed emergenza finanziaria: i soldi non bastano più

di Enrico Tantucci

Edificio rialzato e uso fiera - La nuova soluzione: rinuncia alla parte interrata e alle bonifiche

Potrebbe trasformarsi in un polo fieristico oltre che in una sala cinematografica, il Palacinema riveduto e corretto, realizzato con una soluzione low-cost, che non preveda più la parte interrata dell’edificio, ma solo la Sala grande da circa 2 mila posti, in superficie. Ma intanto già a giugno il cantiere in corso si fermerà, in attesa di capire come andare avanti.

Dopo lo stop all’attuale progetto di Palazzo del Cinema, per i suoi costi insostenibili, decretato di fatto dal ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan, il commissario Vincenzo Spaziante - in parte spiazzato dall’uscita del ministro, che segue l’appello del sindaco Giorgio Orsoni per la mancanze di risorse necessarie al cantiere - sta già abbozzando la soluzione alternativa. Lo scavo si fermerà più o meno alla profondità attuale - tra i 3 e i 5 metri - senza arrivare ai circa 10 metri previsti, lasciando l’amianto dov’era e risparmiando così gli altissimi costi della bonifica. Si rinuncerà così a buona parte degli spazi interrati - comprese le altre due sale cinematografiche - previste dal progetto iniziale del”Sasso” (la forma concepita dai progettisti per il Palacinema). L’idea di Spaziante, per non perdere in cubatura, sarebbe quella di riguadagnare quegli spazi in altezza, elevando di circa 5 metri tutto l’edificio.

Intanto la Sacaim - l’impresa che ha vinto l’appalto da 52 milioni per il Palazzo del Cinema, al netto di tutti i costi aggiuntivi delle bonifiche e di altre opere - continua a lavorare in cantiere e attende istruzioni. Se tutto dovesse bloccarsi sarebbe probabilmente inevitabile la richiesta da parte sua a Governo, Comune e Regione - i firmatari dell’accordo di programma - di un congruo risarcimento danni.

Ma l’idea di Galan, Spaziante e Orsoni non è quella, comunque, di «cancellare» il Palazzo del Cinema, ma di realizzarlo in versione ridotta, limitando i costi e destinandolo ad un uso più intensivo rispetto a quello garantito con la Mostra del Cinema. L’idea che starebbe emergendo sarebbe appunto quello di un polo fieristico, trovabdo per esso anche nuovi investitori dal territorio. Lo stop anticipato del cantiere - legato anche all’avvicinarsi del periodo organizzativo della Mostra del Cinema - servirà anche a riordinare le idee. Ma la vera incognita del Palacinema, anche rivisto, non è l’amianto: è la mancanza dei fondi necessari per realizzarlo, visti anche i problemi legati alla”partita” dell’ex Ospedale al Mare, tra il complessso turistico, la nuova darsena e l’area della Favorita che non è stata ancora venduta e lo sarà solo a trattativa privata e a un prezzo più basso. Se i soldi dal Comune non arriveranno - come pare probabile - in misura sufficiente, qualcuno dovrà pur garantirli per completare l’opera ed evitare contenziosi. E il problema torna, inevitabilmente, nelle mani del Governo e del ministro Galan.

«É un progetto sciagurato, giusto fermarlo»

I comitati propongono il rilancio dell’isola.

Ma senza il commissario straordinario

«Abbandonare subito quello sciagurato progetto e pensare davvero al rilancio del Lido, senza svendere le aree alla speculazione dei privati». Il coordinamento delle associazioni del Lido torna all’attacco. «Dobbiamo cogliere l’occasione», dice il portavoce Salvatore Lihard, «per ridiscutere tutto. Il ministro Galan ha ragione, quel progetto è morto, va ripensato completamente. E noi ne eravamo stati facili profeti. Adesso occorre coraggio, e una nuova idea per rilanciare la Mostra del Cinema»». Le associazioni ambientaliste del Lido (Difesa dei Murazzi., Rocchettam Estuario Nostro, Codacons, Italia Nostra, Lipu, vegetariani, Pax In Aqua) insieme al Movimento per la Difesa della Sanità pubblica avevano inscenato fin dall’inizio manifestazioni e inviato esposti alla magistratura e alla Corte dei Conti. «Fermate lo spreco di denaro pubblico», dicevano. Le foto dei grandi striscioni con su scritto «Vergogna», esposti alla Mostra del Cinema di settembre avevano fatto il giro del mondo. «Ma nessuno ci ha ascoltato», dice Lihard.

La protesta era iniziata all’indomani dell’abbattimento della pineta e dei 130 alberi a lato del palazzo del Cinema per far posto al cantiere della Sacaim. Un «sacrificio» ambientale che secondo i comitati non avrebbe nemmeno prodotto buoni risultati per la collettività. «+ nuovo Palacinema-palazzo dei Congressi» dice Lihard, «i è rivelato un’operazione fallimentare. E il grande buco del cantiere, dove i lavori sono stati sospesi più volte per il ritrovamento di amianto nel sottosuolo, rende difficile da due anni la vita del Lido.

«Occorre rilanciare l’attività convegnistica al Lido», continua Lihard, «proporre un’idea diversa di sviluppo e sospendere la vendita dell’area verde dell’ex Favorita, che va riconsegnata al Comune».

Anche l’operazione di trasformazione di Des Bains ed Excelsior ad opera dei nuovi padroni, la Finanziaria Est Capital, ha prodotto secondo i comitati «la perdita di 250 lavoratori e diu professionalità che se ne sono andate in altre località». Infine, i comitati ribadiscono la loro richiesta di rimuovere il commissario straordinario Vincenzo Spaziante, nominato dal governo nel marzo del 2009. «Doveva garantire la rapida realizzazione di un’opera per il 150esimo dell’Unità, ma così non è stato: per i progetti del Lido non ci serve un commissario». (a.v.)

Postilla

Ha ragione Lihard, il portavoce dei comitati del Lido: occorre ridiscutere tutto. Questo succederebbe in qualsiasi comunità democratica. C’è da dubitare che accada a Venezia, a proposito del suo Lido, dove è stato costruito un fortissimo intreccio tra potentati politici ed economici, tra interessi istituzionali e interessi privati, che è stato raccontato dai giornali locali passo per passo (ed è ora raccolto in un libretto di E. Salzano, Lo scandalo del Lido , edito in questi giorni dalla Corte del Fontego). I nodi principali dell’intreccio sono costituiti dal commissario straordinario Vincenzo Spaziante, nominato per la realizzazione del nuovo palazzo del cinema, opera inclusa nelle manifestazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, dall’ex assessore comunale alla cultura Mossetto, poi fondatore e oggi presidente della società d’investimenti finanziari e immobiliari Est Capital, e dal sindaco di Venezia Massimo Cacciari, oossi sostituito da Giorgio Orsoni. Il palazzo del cinema è solo un tassello di un’ampio programma di trasformazione fisica e funzionale dell’isola, che prevede lo smantellamento dell’Ospedale al mare e la sua trasformazione in un complesso di residenze e attrezzature turistiche, il parco della Favorita, anch’esso trasformato in ville e alberghi, la trasformazione i un lussuoso residence del forte di Malamocco, la “valorizzazione immobiliare” (residenze e supermercato) del Parco delle Rose, in una nuova darsena per 1000 barche alla radice del molo del Lido e in altre trasformazioni minori. Questo complesso di interventi immobiliari è in contrasto con gli strumenti di pianificazione, urbanistica e paesaggistica, vigenti. Perciò, per realizzarli, occorre qualcuno quale, nel regime attuale, sia consentito di derogare da leggi, regolamenti, piani e altri fastidiosi “lacci e lacciuoli”. Ecco l’idea che ha trovato tutti concordi, a partire dal sindaco di Venezia: attribuire al commissario straordinario, nominato per il palazzo del cinema, poteri su tutte le trasformazioni immobiliari da realizzare nell’isola del Lido per il suo “sviluppo”.

In una comunità democratica, oltre a riaprire una discussione aperta sul deestino del palazzo del coinema, si revocherebbero subito i poteri “ultrastraordinari” affidati al commissario Spaziante. Accadrà? É prudente dubitarne.

MANTOVA — Ma insomma, come è stato possibile anche solo immaginare che proprio di fronte a un sito dell’Unesco ammirato in tutto il mondo potessero essere costruite 200 villette a schiera e un albergo? E come è stato possibile che un’idea così fuori dal mondo potesse fare tanta strada? Lo stupore che per anni ha accompagnato gli amanti del bello, gli ammiratori di Mantova ma anche le più alte cariche ministeriali è stato anche quello dei giudici del Tar, che hanno con ogni probabilità scritto la parola «fine» sul progetto di far nascere un quartiere residenziale affacciato sulla «skyline» rinascimentale della città dei Gonzaga.

I giudici amministrativi (in questo caso quelli di Brescia) hanno ribadito che il vincolo introdotto nel 2008 dalla Soprintendenza è del tutto legittimo e dunque ogni edificazione è impossibile; ma tra richiami a codici, sentenze e mappali del catasto il tribunale si lascia scappare anche un moto, per così dire, «patriottico» , sottolineando come per una nazione sia fondamentale mantenere la memoria storica e «immateriale» della propria identità. Tira un duplice sospiro di sollievo, alla luce della sentenza, il sindaco di Mantova Nicola Sodano (Pdl), architetto esperto del paesaggio: «Il Tar di Brescia, ritenendo valido il vincolo della Soprintendenza, ha detto chiaro e tondo che non potranno nascere villette in riva ai laghi di fronte al centro storico.

Questo dispositivo, unito a un altro pronunciamento del Consiglio di Stato ci mette al sicuro: non solo l’arrivo delle ruspe è scongiurato ma anche siamo al riparo di fronte a richieste di risarcimento da parte di chi intendeva costruire» . Nel motivare la fondatezza del vincolo ambientale sull’intero insieme del centro storico e dei laghi di Mantova, i giudici amministrativi fanno appello a principi alti: «Preme — scrivono nel loro dispositivo— ricordare i datati, ma ancora attuali insegnamenti della Corte Costituzionale alla stregua dei quali emerge come la cultura non abbia solo un rilievo autonomo ma che possa integrarsi anche con le res materiali antropiche di riconosciuto valore storico ed architettonico quali simboli perenni della sua espressione medesima, sia con le res naturali» .

E ancora: «La conseguenza pratica necessaria non può altro che essere quella di conservare, valorizzare, proteggere tutto ciò come espressione della memorie di una nazione, dalla sua formazione, anche storica e culturale (e la città ducale ne è incontestabile esempio)» . Detto fuori dal forbito linguaggio giuridico: sarà anche vero che con la cultura non si mangia, ma certi valori immateriali sono indispensabili alla vita civile di una comunità. Concetto scontato? Sarà, ma intanto il progetto delle villette con vista sui palazzi dei Gonzaga ha «ballato» per un buon quinquennio: l’immobiliare «Lagocastello» aveva presentato il suo progetto all’allora amministrazione di centrosinistra.

Ma l’ipotesi della nascita di un cosiddetto «ecomostro» era divenuta di dominio pubblico suscitando lo sconcerto anche del ministero dei Beni culturali; a quel punto il Comune di Mantova aveva fatto dietrofront e la soprintendenza introdotto nuove tutele sull’area. Ma i costruttori, che avevano già recintato l’area da edificare e piantato cartelli del cantiere, avevano minacciato richieste di danni per decine di milioni di euro e il ricorso alla magistratura. Finiti, al momento, come si è visto.

L'unico vero contenuto di questa campagna elettorale sembra essere l'infamia della destra. È mancata un'idea di sinistra. Hai girato tutta l'Italia, che idea ti sei fatto? Che cosa hai trovato?

Intanto che l'operazione della destra è scientifica, non è uno scivolamento sulle provocazioni, sulle battute, sulle diffamazioni o sulle piccole fisiologiche infamità di una campagna elettorale. C'è il disegno di cancellare le questioni reali di un paese che è oppresso da una sofferenza sociale veramente drammatica: portare l'Italia dalla dimensione della realtà nella dimensione della propaganda.

Questa è la tecnica delle campagne elettorali berlusconiane.

Sì. Dall'altro però negli eccessi di questa specifica campagna elettorale si intravede anche una significativa inquietudine, la percezione che il popolo del centrodestra non è totalmente mobilitato, che ci sono crepe significative nel sistema di consenso del berlusconismo. Questo sforzo della macchina del fango è davvero emblematico: è aperta la possibilità di espugnare la capitale del berlusconismo.

Ma la sinistra che cosa ha messo in campo in questa campagna elettorale?

Intanto le primarie. Hanno rappresentato la fine di una stagione depressiva. Pensa a come si immaginava di andare e come invece si sta andando concretamente alla vicenda del comune di Milano. Le primarie sono state la selezione di personalità della società milanese che hanno portato un valore aggiunto straordinario e poi nel processo di partecipazione democratica è accaduto un fatto non irrilevante: si è per la prima volta illuminata la scena del malgoverno della destra. E come se noi non avessimo avuto il coraggio di nominare questo oggetto scabroso che è la Milano degradata e sporca, la Milano che si cimenta come un pezzo di Calabria con le vicende dell'Expo, la Milano rinchiusa nelle proprie nevrosi e nei propri affarismi. Ci accorgiamo che non è più la grande capitale euromediterranea della modernità e dell'innovazione.

Questo è il contenuto più forte che è venuto nella campagna elettorale?

Il centrosinistra ha a disposizione la propria mobilitazione locale e la capacità di mettere a fuoco i danni sociali del governo in carica. Non ha prodotto quella spinta necessaria che potrebbe venire dalla costruzione di un'agenda comune, di un cantiere comune del centro sinistra, nazionalmente questo non c'è. La destra italiana gioca la sua partita soprattutto nelle quattro città fondamentali Torino, Milano, Bologna e Napoli. Il centrosinistra gioca quattro partite differenti da cui ciascuno potrà desumere un significato generale.

A proposito di partite differenti: a Reggio Calabria il candidato di Rifondazione è sostenuto dal Pd ma Sel invece sta con l'Idv, e a Napoli sostiene Morcone contro De Magistris.

Noi, le forze di centrosinistra, ci presentiamo a ranghi sparsi in dinamiche contrapposte e questo è un male ma è una derivazione del problema principale che ti dicevo prima, perché ovviamente se manca un programma ed una regia generale è chiaro che sul terreno locale talvolta si ha la sensazione del liberi tutti, no? Per me che sono il leader di una formazione molto giovane e molto segnata dalle spinte della partecipazione e della rivendicazione di un modello democratico, non c'è (sia nella mia volontà che nella mia possibilità) una gestione giacobina delle vicende locali, tant'è vero che nella partita più difficile che è quella napoletana alla fine il mio suggerimento è stato di passare per una consultazione di tutti gli iscritti, anche perché io ho considerato un errore drammatico esibire lì, nel luogo in cui il centrosinistra aveva cumulato tanti errori e tante sconfitte e tuttavia nel luogo in cui aveva bisogno di provare a risalire la china, ritrovarsi divisi.

Tu hai lanciato «un'opa» sul Pd sostenendo che o si ristruttura tutto il campo progressista o si resta perennemente all'opposizione. Questa opzione è ancora in campo come scelta strategica?

C'è bisogno di un nuovo centrosinistra e vorrei specificare che cosa significa l'aggettivo nuovo in questo caso. C'è bisogno di non mettere in campo un modello di relazione tra quella che abbiamo chiamato anima radicale e quella che è l'anima riformista, tra le componenti antagoniste e le componenti moderate di una coalizione di centrosinistra. Non c'è invece bisogno di costruire la coalizione come un procedimento di somma algebrica.

Per quello parlavo di ristrutturazione del campo.

Perché poi quello che si riproduce è sempre una contesa in cui prevale l'elemento del posizionamento simbolico, ideologico. Siccome penso che siamo tutti quanti spiazzati e sconfitti, credo che abbiamo bisogno molto di portare il confronto interno sul merito delle cose. Per questo dico: aprire il cantiere significa ciascuno portando le proprie esperienze, la propria sensibilità alla costruzione di un'idea dell'Italia, alla costruzione di un'analisi tendenzialmente omogenea sulle ragioni della crisi. Questa crisi non è una qualunque crisi, ha dentro di sé oltre a una dimensione economico finanziaria e una dirompente dimensione sociale, una proiezione direi antropologica. E' una crisi dell'idea medesima dell'Italia, della sua capacità di stare assieme, di riconoscersi in elementi identitari, in un'idea civile, in una narrazione civile. Dobbiamo entrare nel merito di una ricerca che riguarda il lavoro e i suoi diritti, la formazione e il futuro delle giovani generazioni, l'ecologia come nome nuovo dell'economia. Rimescolare molto le carte, non secondo il trionfo del tatticismo o dell'alleanzismo legato al bisogno di guadagnare consenso. Abbiamo bisogno di proporre una grande alleanza all'Italia migliore che è stata umiliata negli anni di questa Italia peggiore che ci governa.

Tu sei stato l'unico politico a parlare della politica come di una narrazione, capacità di comunicare i sentimenti, delle idee. La parola narrazione è diventata un luogo comune. A questa parola quale cosa corrisponde? Tu, Di Pietro e Grillo siete tre leader senza partito.

A questo campo di forze vorrei esporre un problema: la politica oggi può essere una idea semplificata della realtà, può essere una fuga dalla complessità o non dobbiamo invece riconnettere la politica alle domande della vita e a una forte dimensione culturale, anche ricostruendo l'alternativa come vocabolario dell'alternativa? Da parte di molti di noi talvolta la prevalenza invece della ricerca di una scorciatoia, di un abbrivio linguistico e culturale, come una bestemmia cambierà il mondo, una bestemmia vi seppellirà, non è così. Abbiamo bisogno di sapere esattamente quali sono i marchingegni della riproduzione, per esempio, del consenso a questa destra in Europa. L'educazione alla complessità per me è un punto decisivo del campo di chi vuole cambiare questa società e per questo però a volte tra di noi, penso a Grillo, prevale un elemento microconflittuale, non solo ma prevale anche un linguaggio.....

Hai aspramente polemizzato con il linguaggio di Grillo che ti aveva citato alludendo alla tua omosessualità. Lo stesso Grillo che ha difficoltà a scegliere tra Pisapia e Moratti. È questo l'inizio o è la fine?

L'antipolitica finisce in un politicismo miope. Perché anche l'antipolitica è una politica. Mi pare che Berlusconi sia il campione di una politica che si è strutturata perfino come disprezzo delle procedure tipiche della politica dentro una democrazia matura.

Grillo aggressivo nei confronti della sinistra e anche sessista...

Gliel'ho detto, ma senza animosità. Da parte mia c'è la ricerca di un colloquio, di un dialogo, di una spiegazione. Sono troppo angosciato dall'integralismo, sempre nemico dell'umanità. La politica è anche mediazione, ascolto di voci differenti, costruzione di punti di equilibrio. Fuori da questo, i gruppi sono sette che si credono depositi di verità con la lettere maiuscola.

I moralisti in mutande sono ora infatuati del bel libro di Franco Cassano, «L'umiltà del male». Lo contrappongono ai moralisti e agli aristocratici della sinistra, ai puritani che vorrebbero questa oscenità della democrazia nel rispetto delle regole.

Giù le mani da Franco Cassano. Il suo è un pensiero vivo, non banale, non convenzionale di una sinistra che si interroga, che non cova sogni revanscisti e non si struttura sulle proprie frustrazioni, ma va in mare aperto, guarda il moto delle onde, si chiede che succede intorno a noi. Franco ha avuto l'acutezza di sollevare il problema dell'immoralismo di questa classe dirigente che si è strutturata come un linguaggio pubblico che ha perfino voluto riscattare, come se fosse una buona cosa quella debolezza della borghesia italiana, quell'incapacità di essere classe generale, portatrice di un disegno generale di trasformazione. E' una tara storica della vicenda nazionale italiana. A questo immoralismo che occhieggia i vizi che qualcuno intravede nei costumi più sedimentati del popolo nostro, rispondere con un moralismo petulante e talvolta livoroso, non produce né un effetto di decostruzione del consenso altrui, né la contaminazione di una nuova etica pubblica. Per questo c'è bisogno che a sinistra torni ad agire l'ago e il filo che cuce nella stessa tela diritti di libertà, diritti umani e diritti sociali.

Nella tua campagna elettorale hai molto insistito proprio sulla libertà come responsabilità.

Sì, perché noi dobbiamo contestare la riedizione della nozione della libertà in chiave berlusconiana. Loro quando immaginano la privatizzazione della costa italiana probabilmente stanno dando una proiezione a quella idea di libertà. Quando si sente dire, in alcune aree della cosiddetta Padania, «padroni in casa nostra», siamo alla libertà patrimoniale predatoria.La libertà, lo dico con timore, dello stupro; se ci pensi un attimo, è la libertà elaborata da un genere onnipotente proprietario, mentre la libertà dei moderni si è strutturata in riferimento alla questione della miseria e dell'ignoranza come emancipazione dalla miseria e dall'ignoranza Nella combinazione tra libertà dalla miseria e libertà dall'ignoranza c'è davvero libertà dalla paura. Invece loro costruiscono una libertà tutta interna al paradigma della paura.

Vendola ha appena finito un consiglio d'amministrazione di un istituto di ricerca scientifica che si chiama Ipres. Ha passato una mattinata con il sottosegretario Roccella per la battaglia per l'allattamento al seno. Ora sta andando a fare chiusure di campagne elettorali a Bisceglie e Barletta. E oggi per lui è ancora campagna elettorale in Sicilia dove si vota tra una settimana. Hai la stessa passione dell'inizio o questa Italia sfasciata ti ha fiaccato?

L'ho detto anche in qualcuno dei comizi: ho sempre vissuto con felicità la politica ma da qualche anno è come una ferita; non ne posso fare a meno perché è il senso della mia vita, però sento un dolore molto grande perché sempre di più la politica è galleggiamento dentro la mucillagine, è il negoziato con le lobby, con le corporazioni. Tu vedi un paese spappolato e l'annuncio di una politica che non arriva mai. Hai di fronte la battuta che noi leaders di sinistra puzziamo, che le donne di sinistra sono racchie e hai la sensazione che a tutto questo bisognerebbe contrapporre davvero una mobilitazione forte, un grande cantiere, una grande agenda. E invece ho il dolore di non sapere ancora se stiamo costruendo un vero percorso di alternativa.

I referendum, per i temi che propongono e per la forma diretta del voto, possono rappresentare la nuova agenda?

I referendum non pongono solo tre temi decisivi: il no al nucleare, l'acqua come bene comune e l'uguaglianza di fronte alla legge. Disegnano uno scenario nuovo. Immagina la coalizione del lavoro (lo sciopero generale) e la coalizione dei beni comuni: eccolo il nuovo cantiere del centrosinistra. Berlusconi è stata la dissipazione

«Quando vado all’estero non riesco nemmeno a raccontare quello che succede in Italia. Mancano le parole perché i concetti non sono traducibili. Un governo che sistematicamente massacra il proprio territorio, che apre la strada alle infiltrazioni del malaffare, che peggiora i propri bilanci costringendosi a fornire infrastrutture agli abusivi, che mette a rischio la vita dei cittadini incentivando la violazione delle norme sismiche e di sicurezza idrogeologica. Come si fa a spiegare? Non ci credono». Vezio De Lucia, uno dei nomi storici dell’urbanistica, è indignato ma non sorpreso. In 26 anni ha visto tre condoni e ha sviluppato una sua teoria interpretativa.

«I terremoti non si possono prevedere, i condoni sì», spiega De Lucia. «Il primo, il Craxi-Nicolazzi, è del 1985. Il secondo, il Berlusconi-Radice, del 1994. Il terzo, il Berlusconi-Lunardi, del 2003. Uno ogni 9 anni. Il prossimo dovrebbe scattare nel 2012 e quello che sta succedendo in Campania suona come la premessa per estendere all’intero paese la sanatoria edilizia. Che, come tutte le altre, naturalmente sarà l’ultima della serie, parola di premier».

Questa volta però un nuovo condono sembrava impossibile. Le frane che in Calabria e in Sicilia hanno spazzato via le case abusive seminando lutti, la magistratura che aveva cominciato a far muovere le ruspe…

«Appunto. Aveva iniziato il sindaco di Eboli, Gerardo Rosania, che qualche anno fa aveva coraggiosamente fatto abbattere le case comprate dalla camorra. Poi è intervenuto Aldo De Chiara, il procuratore che ha colpito l’abusivismo a Ischia. Si è capito che l’Italia poteva diventare un paese europeo, un paese in cui le regole vengono rispettate e il merito premiato. Un problema per chi percepisce la legalità come una minaccia».

Nel caso degli altri condoni la motivazione era stata legata a esigenze di cassa: c’era bisogno di entrate fiscali e si era calcolato che con la sanatoria si poteva ottenere un incasso rapido.

«Un calcolo clamorosamente sbagliato o una bugia. E’ successo esattamente il contrario. Per ogni euro che lo Stato ha incassato dal condono ne ha dovuti spendere tre per costruire le infrastrutture necessarie. Senza calcolare le vittime dei disastri idrogeologici prodotti dal malgoverno del territorio».

Pensa che arriverà il quarto condono?

«Ho detto che me lo aspetto ma parlavo dal punto di vista statistico. In realtà non ho ancora perso la speranza: penso che una reazione sia possibile. I condoni precedenti hanno creato un disastro amministrativo, perché al danno economico si è associata la paralisi dei servizi visto che sono ancora aperte le pratiche della prima sanatoria, e un disastro legale, perché è stata alimentata la crescita della malavita organizzata che controlla buona parte del circuito illegale del cemento. Questa coazione a ripetere il danno non è compatibile con la rinascita di un’economia sana e quindi capace di durare nel tempo. Il condono edilizio è il più devastante dei condoni perché i suoi effetti negativi durano per secoli».

In passato le sanatorie hanno sempre incentivato una forte accelerazione degli abusi.

«E’ quello che sta già succedendo proprio ora: mentre siamo qui a parlare di sicuro c’è già chi sta aprendo centinaia di cantieri abusivi in tutto il paese. Del resto i vari piani casa berlusconiani avevano gettato le premesse di questo affondo illegale. Abbiamo il record di abusivismo in Europa».

Non bisogna essere catastrofisti e pessimisti per vedere che le cose vanno di male in peggio. Sul fronte dell'economia, suona la solita triste musica, con il padronato privo di freni inibitori, il sindacato in fibrillazione, uno sciopero generale di cui si sono accorti in pochi, un ennesimo uomo di Goldman Sachs, questa volta in salsa italica, in procinto di scalare la Bce, e dulcis in fundo, l'Ocse che raccomanda di privatizzare l'acqua. Sul piano politico, ci siamo imbarcati in un'ennesima, stupidissima, illegale ed immorale guerra imperialista che costa, solo all'Italia, cento milioni di euro al mese e che causa una strage continua di migranti innocenti; i fascisti tornano aggressivamente in pista con mazze e coltelli ed i media di regime incolpano i centri sociali. Berlusconi si scopre timoroso del popolo sovrano e cerca disordinatamente di cancellare i referendum proponendo soluzioni truffa, giuridicamente impercorribili ma devastanti sul piano della comunicazione. Se fossimo in tempi normali, questo tentativo giuridicamente pasticcione altro non meriterebbe che una scrollata di spalle. Il sistema costituzionale prevede un controllo preventivo di legittimità costituzionale da parte del Presidente della Repubblica ed in questo caso davvero le condizioni per apporre la firma senza rinviare alle Camere non ci sono. Ma, con la teoria del «naturale sviluppo», è defunta la fiducia nella interpretazione costituzionale del Supremo Garante. Se il Decreto sarà convertito (ma il tempo stringe) Egli lo firmerà. Saremo quindi costretti all'ultimo momento a difendere a fondo i referendum di fronte all'Ufficio Centrale presso la Corte di Cassazione. Siamo ben provveduti ed in ottima compagnia (si veda l'appello su www.siacquapubblica.it) e affronteremo anche questo passaggio.

Di fronte a ciò impazzano i circenses di destra che abbrutiscono vieppiù popolazioni ridotte a consumatori a credito. A Londra il «matrimonio del secolo», da noi il rituale di beatificazione di un papa ossessivamente anticomunista e le parate militariste per i 150 anni della Repubblica. Chi si indigna per tutte queste miserie e vuole davvero farla finita con questa classe dirigente deve fare molta attenzione a utilizzare bene il proprio voto alle amministrative, scegliendo rigorosamente candidati che promettano un'autentica «inversione di rotta» con relativa rinascita di una credibile alternativa di sinistra. La situazione è molto variabile. A Milano è facile: Pisapia va sostenuto senza se e senza ma. Una sua vittoria nella città simbolo del craxismo e del berlusconismo avrebbe una portata politica dirompente. A Torino invece la sinistra è stata massacrata nel tritacarne delle primarie. Non c'erano le condizioni per partecipare, molti di noi lo avevano detto. Posto che Fassino non è votabile per una persona di sinistra, il voto va dato a Juri Bossuto, candidato di Fds e Sinistra Critica, che speriamo riceva molti voti disgiunti di quei compagni che voteranno consiglieri comunali di Sel, dei Verdi o del Pd (qualcuno di sinistra ancora c'è). Se l'antifassino di sinistra ottenesse un risultato significativo (per es. il 5%) si potrebbe tornare a far politica (e non antipolitica) di opposizione anche sotto la Mole. A Napoli c'è un'altra partita chiave. De Magistris, alleato con Fds, va sostenuto a spada tratta. Il suo programma, in gran parte opera di Alberto Lucarelli, co-redattore dei quesiti referendari e già esponente di punta della Commissione Rodotà, è un'autentica inversione di rotta. Una vittoria di De Magistris (con Lucarelli assessore ai beni comuni cosa importantissima in terra di spazzatura) avrebbe a sua volta una portata dirompente non solo in chiave antiberlusconiana (il che è ovvio), ma soprattutto sarebbe un'autentica spallata da sinistra al modo di pensare bipartisan dominate. Per questo occorre sperare che anche qui molti elettori di Sel e del Pd votino disgiunto.

L'inversione di rotta che può iniziare a Milano e Napoli si completerebbe poi il 12 e il 13 giugno con una clamorosa vittoria ai Referendum. In un mese da oggi possiamo creare le condizioni perché, almeno in Italia, tutto cambi. Non si possono risparmiare le energie.

La Repubblica

"Il decreto spiagge scritto sotto dettatura degli stabilimenti"

di Corrado Zunino

ROMA - Chiamato da tutto l’arco ambientalista a esprimersi sul "decreto spiagge", il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha mostrato dubbi. Le sue perplessità sono centrate, innanzitutto, sulla necessità di ricorrere allo strumento del decreto (che richiede requisiti di straordinaria necessità e urgenza), in particolare per alcuni articoli dell’atto. Quindi, l’attribuzione del diritto di superficie ai possessori della licenza per i prossimi 90 anni è un argomento che la presidenza della Repubblica non ha gradito. Sull’ultimo lavoro di Giulio Tremonti, Napolitano ha chiesto uno studio del Nucleo valutazione del Quirinale - il segretario generale e alcuni consiglieri - immaginando di poter indicare alcune anomalie e correzioni possibili, senza mettere in discussione la sua firma.

Ieri è stata Italia Nostra ad appellarsi al presidente della Repubblica. «Questa sorta di privatizzazione dei beni demaniali ad uso e consumo di chi intende speculare su di essi», ha scritto l’associazione, «chiaramente contrasta con l’articolo 9 della Costituzione, che prevede che la Repubblica tuteli il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Il Wwf e il Fondo ambiente italiano, a dimostrazione della contraerea alzata da tutti gli ambientalisti, hanno disvelato invece la scrittura del decreto «sotto la dettatura dell’Assobalneari».

Così le due associazioni raccontano il copia e incolla del governo: «Fatti e documenti parlano chiaro, il 27 gennaio 2010 in un incontro con il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla, l’Assobalneari, costola di Confindustria turismo, ha consegnato una nota dal titolo "Il nuovo demanio marittimo: gli obiettivi di Assobalneari Italia"». In quel papiello si chiedevano sostanzialmente tre cose: la proroga delle concessioni in essere sino al 2015, l’introduzione del diritto di superficie sul demanio marittimo e le previsioni di concessioni demaniali cinquantennali. Due richieste su tre sono state rispettate alla lettera: le concessioni al 2015, già contestate dall’Unione europea, e l’introduzione del diritto di superficie sulla battigia. Sulle concessioni di lungo periodo il governo ha praticamente raddoppiato: 90 anni, a fronte della richiesta imprenditoriale di 50 anni. Wwf e Fai sostengono ora: «Il governo agisce sotto dettatura dell’Assobalneari».

Le associazioni ecologiste ricordano il "boom" contemporaneo delle spiagge private italiane: tra il 2001 e il 2010 gli stabilimenti balneari sono raddoppiati passando da 5.368 a 12.000 «e per molto tempo le concessioni sono state assegnate direttamente», tanto da richiamare l’intervento dell’Unione europea. Il modello che va profilandosi, dicono, «è quello delle cittadelle del divertimento: piscina, palestra, sauna, bar, ristorante, discoteca, negozietti oltre a spogliatoi, cabine, bagni e docce. Ombrelloni e sdraio, ormai, sono solo l’ammennicolo che giustifica la concessione demaniale».

Angelo Bonelli, pioniere degli esposti a Napolitano, aggiunge: «La criminalità organizzata potrebbe avviare una imponente operazione di conquista del demanio perché ha forti capitali da poter riciclare. Ci sono tutte le condizioni affinché la Direzione nazionale antimafia presti attenzione a questo provvedimento». Federconsumatori studia un ricorso alla Corte costituzionale: «Continuiamo a considerare allucinante una norma che prevede il regalo delle nostre coste agli stabilimenti balneari», dice il presidente Rosario Trefiletti.

Raffaele Fitto, ministro degli Affari regionali, assicura che in realtà il presidente della Repubblica non ha perplessità, «solo ha chiesto di comprendere i contenuti del decreto». E così l’Europa: «Hanno detto "leggerò il decreto", ma non prendono una posizione. Puntiamo a un confronto con la Commissione europea per spiegare i contenuti specifici del nostro paese».

la Repubblica

Spiagge, legge sotto dettatura

di Tito Boeri



I nostri governanti sono stati spesso accusati di mancanza di lungimiranza, ma stavolta bisogna davvero ricredersi.

Il decreto sullo sviluppo varato la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri guarda lontano, molto lontano. Stabilisce, infatti, a chi saranno affidate le concessioni demaniali sulle nostre spiagge fra ben 90 anni. Non ci sarà nessuna gara in cui le concessioni vengano offerte al miglior offerente, ma una semplice proroga delle concessioni in essere. Le tariffe verranno negoziate solo dopo che la proroga è stata concessa, quando dunque i gestori hanno tutto il potere contrattuale dalla loro. Il tutto, come il Quirinale avrebbe già fatto notare, avviene in palese violazione delle norme comunitarie sulla concorrenza. La famosa direttiva Bolkenstein, quella che sin qui aveva evocato altri generi acquatici (molti si ricorderanno della paventata invasione degli idraulici polacchi dopo l’implementazione della direttiva), prevede infatti che le concessioni abbiano durate molto più brevi (tra i 5 e 10 anni) e vengano rinnovate con vere e proprie gare. I beneficiari delle norme approvate dal Consiglio dei ministri sono circa 24.000 operatori, tra stabilimenti balneari, alberghi e campeggi, che si tramandano questo patrimonio di generazione in generazione.

Per una volta si è voluto pensare ai figli, anche a quelli che devono ancora nascere, ma solo ai loro. Se lo vorranno, potranno avere un futuro balneare con rendite molto elevate: un metro quadro di spiaggia viene sub-affittato a prezzi anche 50 volte superiori a quelli pagati per la concessione. Se avranno altri piani, potranno rivendere la concessione, un capitale che li metterà per sempre al riparo dal precariato di figli meno fortunati. Nella legislatura del federalismo, gli enti locali si vedono costretti a rinunciare a entrate cospicue, trasferendo patrimoni e redditi a operatori che molto spesso (pensiamo ai litorali sardi) vivono a centinaia di chilometri di distanza. I residenti dovranno, invece, pagare tasse più alte per avere spiagge presumibilmente tenute peggio e servizi di ristoro (sono loro, anziché i turisti, i principali consumatori) molto più cari.

Ci si chiederà cosa tutto ciò abbia a che vedere con lo sviluppo del Paese che il decreto vorrebbe favorire. Ma, a ben guardare, la norma sulle spiagge è tutt’altro che un’eccezione nel dispositivo. Non c’è nessuna traccia del preannunciato pacchetto liberalizzazioni per benzina, farmaci e assicurazioni. E, leggendo con cura tra le righe (grazie al lavoro certosino di Angelo Baglioni, Luigi Oliveri e Stefano Landi su www.lavoce.info), ci si accorge che sono davvero tante le norme che proteggono chi oggi occupa posizioni di rendita.

In nome della semplificazione, si rinuncia ad esempio alle gare per le opere fino a un milione di euro (raddoppiando il valore degli appalti per i quali si possa procedere a trattativa). Questo significa meno concorrenza e meno trasparenza al tempo stesso. La vera semplificazione richiederebbe interventi su vincoli operativi e burocratici presenti nel codice dei contratti, a partire dai tempi della programmazione e a quelli per la stipula dei contratti, ben più lunghi di quelli richiesti per lo svolgimento delle gare. Invece si opta per ridurre la concorrenza e la trasparenza favorendo pratiche collusive ai danni della collettività.

Un altro esempio liquido è quello delle norme sui mutui. Sembrano andare incontro alle famiglie povere che hanno contratto mutui a tasso variabile, permettendo loro di ridurre le spese per interessi ora che i tassi stanno salendo e che molte di loro si trovano in condizioni finanziarie difficili. Ma, a guardar bene, ci si accorge che si tratta solo di un’assicurazione contro il rischio di un ulteriore aumento dei tassi, che potrebbe rivelarsi anche molto costosa per le famiglie (nel passaggio da variabile a fisso le rate dovrebbero aumentare mediamente del 20 per cento). Infatti, la rinegoziazione dei mutui non congela affatto i tassi ai livelli attuali, ma al livello stabilito sulla base "delle aspettative del mercato sulla dinamica futura dei tassi". Solo se i tassi dovessero salire di più di quanto già oggi si prevede potranno esserci vantaggi per le famiglie in un futuro che potrebbe comunque essere lontano.

Oltre alla presa in giro, c’è anche la beffa. Fissando un livello a cui rinegoziare i mutui, la legge facilita la costruzione di un cartello di banche, che potranno così allinearsi ai prezzi stabiliti dal decreto.

Insomma, col decreto sviluppo, il governo ha deciso che, non solo non ci saranno riforme (lo sapevamo già dal silenzio-assenso a riguardo del cosiddetto Piano nazionale delle riforme), ma che addirittura si faranno passi indietro sul piano delle liberalizzazioni. C’è poco da stupirsi. Un governo fragile, diviso e distratto è ostaggio delle lobby, dall’Abi, all’Ance, all’Assobalneari. Sapevano bene, loro che di litorali se ne intendono, che per il governo questo decreto era l’ultima spiaggia. Pur di avere il loro accordo, era disposto a tutto, anche a farsi dettare il testo di legge.

il manifesto

Il paesaggio è un bene costituzionale

di Alberto Ziparo

Fanno bene ambientalisti e movimenti di difesa del territorio a chiedere a Giorgio Napolitano di non firmare il Decreto Sviluppo, visti i contenuti espliciti di apertura alla privatizzazione ed alla cementificazione di un bene paesaggistico primario quale la fascia costiera. Va ricordato infatti che il paesaggio è tutelato ai sensi dell'articolo 9 della Costituzione ed è compreso nel Titolo I, in quanto «principio fondativo» dell'ordinamento statale. Questa assunzione non fa una "ubbia culturalista" dei costituenti, ma il riconoscimento dell'esistenza di una legislazione sulla tutela di beni culturali e ambientali assai avanzata, di riferimento per tutti gli stati occidentali, che aveva - ancora prima della Costituzione - già segnato dettati normativi importanti con le leggi sui beni culturali e il paesaggio del 1909, del 1922 (qualche mese prima della Marcia su Roma) e soprattutto con i due provvedimenti del 1939.

L'Italia è stata infatti la prima nazione al mondo a "costituzionalizzare" il paesaggio - sottolinea Salvatore Settis - ricordando così che la citata normativa post-unitaria e prima le tante leggi che avevano contrassegnato le diverse entità istituzionali che contrassegnarono l'Italia preunitaria - dallo Stato Pontificio a Firenze, dal Regno borbonico a quello savoiardo - sancivano «l'acquisizione sociale e culturale» del patrimonio paesaggistico quale categoria da tutelare ex legge, in quanto «espressione identitaria degli italiani nel loro costituirsi come cittadinanza».

Oggi il Codice (Decreto Urbani del 2004 e successive) dichiara che tra gli elementi fondamentali del patrimonio paesaggistico statale, tra i «temi paesaggistici» «di primario interesse nazionale», c'è la fascia costiera che «per i 300 metri dalla linea di battigia» (molte Regioni hanno esteso tale area di rispetto) viene tutelata integralmente. Il Codice ha sancito la necessità di salvaguardia assoluta di un bene, anche perché lo stesso era già largamente compromesso: il nostro paesaggio costiero è infatti abbrutito ed imbruttito da abusi, costruzioni in deroga, possibilità di esulare dai vincoli nei centri urbani, situazioni preesistenti alla norma. Tuttavia la legge ha inteso negli anni ribadire l'esigenza di salvaguardia «almeno degli ambiti non compromessi» e di recupero «dei brani già alterati» di paesaggio costiero, richiamandone la valenza costituzionale. Una censura del Presidente della Repubblica, prima degli inevitabili ricorsi alla Consulta, sarebbe quindi atto dovuto, più che giustificato.

Il Decreto sullo sviluppo, espressione tipica della dittatura dell'ignoranza che contraddistingue i nostri anni, pretende di risolvere, con modi superficiali quanto volgari, una delle maggiori querelle di politica dei suoli nazionale: il nodo storicamente critico tra diritti «di proprietà e di superficie» che ha sovente problematizzato fino all'ingestibilità l'urbanistica italiana. Il riformismo territoriale ha infatti assunto quanto stabilito dalla legislazione "progressista" fin dal 1967: «Il titolo di proprietà non da' diritto di disporre della destinazione d'uso di un suolo, in quanto i diritti di superficie sono stabiliti dallo strumento urbanistico, rappresentante dei superiori interessi della collettività». Questa norma è stata oggetto di contenziosi e conflitti infiniti, anche prima del 1980, quando la Corte Costituzionale, proprio sottolineando che il territorio - a differenza del paesaggio - non è inserito tra i «fondamenti» dell'ordinamento statale (la Costituzione ne tratta all'articolo 117), non legittima la supremazia della tutela dello stesso «quale interesse collettivo» superiore a quelli legati alla proprietà. Di qui la rimessa in discussione degli stessi vincoli urbanistici e previsioni dei piani, «in attesa di una prossima riforma generale del regime dei suoli», eternamente di là da venire.

Oggi il nostro ineffabile esecutivo risolve questo nodo al contrario: il diritto di superficie può essere differito da quello di proprietà, ma non «per superiori interessi collettivi», bensì per «superiori interessi speculativi», nella fattispecie di operatori turistici e costruttori. Se l'ambito in questione è inserito in distretti turistici da "valorizzare" può essere edificato o trasformato; al di là di qualsiasi tutela paesaggistica e destinazione urbanistica. Siamo al delirio.

Nel merito della questione, se i nostri ministri leggessero le statistiche sul consumo di suolo, sull'edilizia vuota ed inutilizzata, e sul fatto che - a dispetto della cementificazione delle spiagge - ormai in molte località gli hotel non si riempiono nemmeno a ferragosto, forse rifletterebbero sull'insensatezza delle loro proposte.

Oggi dunque Berlusconi annuncerà ai napoletani che è «Pronto il provvedimento che sospenderà gli abbattimenti delle case in vista di una soluzione». L'anticipazione del proclama è andata in onda ieri ai microfoni di radio Kiss Kiss, emittente legata a Mondadori che per conto del network napoletano gestisce in esclusiva la vendita dello spazio pubblicitario.

La sospensione degli abbattimenti è il cavallo di battaglia numero due delle ultime campagne elettorali: dopo il flop del miracolo dei rifiuti, via libera all'abusivismo edilizio, come alle scorse regionali. Una promessa che da due anni il Pdl prova a onorare tra decreti e leggine da far approvare in sordina al Parlamento, ma per ora nessuno stop agli abbattimenti della procura. Oggi pomeriggio alla Mostra d'Oltremare, per la chiusura della campagna elettorale di Gianni Lettieri, Berlusconi incasserà la ola di quelli che ruotano intorno al ciclo del cemento. «In Campania - osserva Michele Buonomo, presidente regionale di Legambiente - dove un terzo delle case degli ultimi dieci anni è abusivo, con decine di morti, e il business del cemento illegale è nelle mani della camorra, tale provvedimento può avere solo un effetto devastante». Un effetto soprattutto nei quartieri periferici, ad alta densità di abitanti e molti voti in palio, dove palazzoni e villette spuntano dalla sera alla mattina. Come si leghino mattone e successo elettorale, lo spiegano gli eletti. Se due anni fa a Ischia - dove gli abbattimenti aizzano la popolazione - il pieno di voti lo fece Mara Carfagna cavalcando la richiesta di fermare le ruspe, a Pianura, ultimo quartiere dormitorio prima dei Campi flegrei, tra i più votati c'è Pietro Diodato, ex An, poi Pdl, adesso Fli, quello che capeggiava la rivolta contro i migranti per liberare spazi, mentre il cognato, ex cutoliano, si accaparrava le proprietà dei suoli. Suo concorrente Marco Nonno, rimasto nel Pdl, ugualmente interessato agli sviluppi urbanistici del quartiere, su cui entrambi fondano il loro radicamento elettorale.

Settemila abitanti in meno dal ’ 91 a oggi e una popolazione over 65 ormai prossima alla soglia del 25%del totale. Fosse un film sarebbe «2011, fuga da Varese» e anche se la flessione non è certo cominciata ieri chi governerà la città nei prossimi cinque anni dovrà fare i conti con questa tendenza: una comunità che fatica a ridarsi una identità dopo la perdita delle vocazione industriale e che sente — in fatto di dinamismo — il fiato sul collo degli altri centri della provincia, Gallarate e Busto (quest’ultima, proprio all’inizio di quest’anno ha scavalcato Varese per numero di abitanti).

Sconfiggere il senso di marginalità e di «città -dormitorio» , sottrarsi a quel piano inclinato che porta sempre più giovani, sempre più talenti a migrare verso Milano: per quanto non apertamente dichiarato, questo è stato uno dei temi della campagna elettorale. Basti pensare che uno dei temi più dibattuti tra i candidati, nei forum dei sostenitori, negli incontri pubblici è stato l’eterna incompiuta dell’attività culturale a Varese. Costruire o no un teatro pubblico (il progetto di trasformare in questo senso l’ex caserma Garibaldi «balla» da un quindicennio)? Investire o no in mostre, appuntamenti, musica, università proprio per ridare smalto e capacità attrattiva a un capoluogo sempre più con i capelli bianchi?

«Con la cultura non si mangia» è stato detto di recente e il rischio di giocarsi il consenso annunciando in campagna elettorale roboanti investimenti in un periodo in cui mancano i soldi anche per rattoppare i marciapiedi ha indotto quasi tutti i candidati a non sbilanciarsi. D’altra parte nessuno dei «competitors» ha ceduto ai richiami della piazza promettendo mari e monti su un altro fronte su cui sarebbe stato facile fare «cassetta elettorale» : il Varese calcio dopo decenni di quaresima sportiva si sta giocando l’ascesa in serie A e la tifoseria reclama uno stadio nuovo. Ma anche in questo caso la classe politica ha scelto il profilo basso.

Detto dei temi chiave che saranno sul tavolo di Palazzo Estense nel prossimo quinquennio, resta da stabilire chi saranno i nuovi inquilini del municipio varesino. Sulla carta non sembra esserci partita: nella città -vetrina del Carroccio il sindaco uscente Attilio Fontana (Lega), che nel 2006 fece suo il 57,8%dei voti si ricandida e si è garantito il sostegno del Pdl. Rispetto a cinque anni fa, tuttavia, Fontana ha perso per strada l’Udc e i finiani che si affidano a Mauro Morello. In più nel campo dell’elettorato moderato e di centrodestra il fronte è quanto mai frammentato: in questo bacino elettorale «pescheranno» altri pretendenti alla carica di sindaco come Mauro della Porta Raffo, Raffaella Greco, Alessio Nicoletti o Flavio Ibba.

Alla pattuglia va aggiunto anche l’indipendentista padano Egidio Castelli. Ognuno di loro potrebbe diventare decisivo in caso di ballottaggio. Di converso il centrosinistra ha litigato molto meno che in passato e si è concentrato con sufficiente anticipo sulla candidatura di Luisa Oprandi, insegnante di estrazione cattolica, appoggiata da Pd, Idv e Sel e da una lista civica. Unica «concorrenza» a sinistra sarà quella rappresentata di Carlo Scardeoni (Rifondazione e Pdci) e Francesco Cammarata (Movimento 5 stelle). In definitiva decideranno gli indecisi: nel 2006 appena 67%dei varesini espresse il suo voto alle amministrative ma per scuotere la città dal torpore quasi nessun leader politico nazionale ha fatto tappa a Varese. Hanno compiuto una «capatina» solo Casini e Di Pietro, nei prossimi giorni si farà vedere Umberto Bossi. Ma è davvero il minimo sindacale, per una città capoluogo.

Le mosse di Berlusconi sono da tempo prevedibili, perché appartengono ad una logica che egli ha trasferito nel mondo della politica senza mai farsi contagiare dal "senso delle istituzioni". Non può sorprendere, quindi, lultimo suo proclama: «Dobbiamo cambiare la composizione della Corte costituzionale, dobbiamo cambiare i poteri del Presidente della Repubblica e, come avviene in tutti i governi occidentali, attribuire più poteri al governo del Presidente del Consiglio». Proprio le ultime parole sono rivelatrici. Scompare il "Governo della Repubblica", di cui parla larticolo 92 della Costituzione. Al suo posto viene insediato il "Governo del Presidente del Consiglio", una formula che esprime la logica proprietaria dalla quale Berlusconi non ha mai voluto separarsi. Limprenditore è fedele alle sue origini, e nel suo modo dagire si ritrova la vecchia e di nuovo vitale formula secondo la quale "la democrazia si ferma alle porte dellimpresa". Governare è esercizio di potere assoluto. Chi si presenta come un intralcio lungo questo cammino deve essere eliminato.

Prevedibile o no, lultima accelerazione inquieta, assomiglia ad un assalto finale. Gli ostacoli li conosciamo. Magistratura a parte, nellultima fase della storia della Repubblica le garanzie si sono concentrate in due istituzioni, il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Ma questo non dipende da una impropria volontà di potenza. Discende da un progressivo indebolirsi del sistema dei controlli, dei pesi e contrappesi che caratterizzano larchitettura costituzionale e dei quali non ci si è preoccupati quando è cominciata la stagione delle "spallate", delle manipolazioni delle leggi elettorali, del bipolarismo ad ogni costo, della "governabilità" senza aggettivi. Troppi apprendisti stregoni hanno lastricato la strada che oggi Berlusconi si ritiene legittimato a percorrere senza scrupoli. Così, nel deserto istituzionale, le funzioni di garanzia, ineliminabili in democrazia, si sono rifugiate nelle due istituzioni che il Presidente del Consiglio ha ieri pubblicamente rifiutato.

Mai, però, il tiro era stato alzato tanto in alto, per colpire deliberatamente il Presidente della Repubblica. Malumori, reazioni violente lasciate trapelare, senza tuttavia trasformare in conflitto aperto una relazione difficile. Cautele ormai abbandonate. Così comè, il Presidente della Repubblica non è più accettabile. Questo, a chiare lettere, ha detto ieri Berlusconi.

Le ragioni di questa mossa sono nitide. Inaccettabile, per chi si nutre di sondaggi, la fiducia crescente riposta dai cittadini in Giorgio Napolitano. Inammissibile il quotidiano rivelare le lacerazioni del tessuto istituzionale per chi vuole manipolarle impunemente. Oltraggiosa la pretesa di custodire la legalità costituzionale per chi vuole trasformare linvestitura popolare in un "lodo" che lo pone al disopra delle leggi.

Berlusconi sa benissimo che una riforma costituzionale che azzoppi in un colpo solo Presidente della Repubblica e Corte costituzionale esige tempi lunghi. Ma non gli importa. Nel momento in cui dice esplicitamente che i poteri del Presidente della Repubblica devono essere ridotti, lascia intendere che sono male utilizzati. Invita così ad una pubblica "sfiducia" a Giorgio Napolitano, facendo divenire asse della sua politica il copione che già linformazione di rito berlusconiano aveva cominciato a scrivere. Vuole demolire limmagine del Presidente super partes, mostrarlo non come un garante, ma come lespressione di una parte.

Napolitano parla anche perché troppi sono silenziosi, o ridotti al silenzio. Ma la voce delle istituzioni non può spegnersi. Da esperto della comunicazione, Berlusconi è inquieto perché sa che quella non è una voce che parla nel deserto, ma trova ascolto perché dice verità e così concentra sulla Presidenza della Repubblica lattenzione dei cittadini consapevoli della gravità di una situazione che Berlusconi e i suoi gabellano come il migliore dei mondi.

Una relazione non populista con i cittadini insidia lo stesso modo dessere di Berlusconi. Ma questo manifestarsi duna opinione critica diffusa appare monco, perché rivela gli inaccettabili silenzi di una cultura alla quale non si chiede di essere militante, bensì dessere parte di una difficile discussione pubblica, di testimoniare almeno quelle "ingenue idealità etiche" alle quali, contro il realismo politico, si richiamava nel 1929 Benedetto Croce votando contro il Concordato.

Passata la festa gabbato lo santo? In altre parole: come si muoverà la Cgil dopo lo sciopero generale del 6 maggio? Si aprirà una fase nuova, di responsabilità verso un paese in ginocchio, e dunque di conflitto; o, al contrario, lo sciopero segnerà la fine di una stagione che ha visto il maggior sindacato come unica solida sponda contro il pensiero unico, oggi pronto a ripartire all'inseguimento di un sogno concertativo con Cisl, Uil e padronato?

La riuscita della protesta è andata oltre le aspettive, e forse addirittura oltre l'investimento dell'organizzazione, sostiene malignamente chi più ci aveva puntato: la maggioranza dei lavoratori dipendenti ha incrociato le braccia e le oltre cento piazze in cui si è manifestato si sono riempite di operai, impiegati, tecnici, ricercatori, insegnanti, ma anche studenti, tantissimi giovani - cioè precari senza prospettive né rappresentanza sindacale. Del resto, quella politica chi ce l'ha? Nelle piazze la protesta si è naturalmente estesa dal governo, l'obiettivo scelto da chi ha promosso lo sciopero, alla Confindustria. E l'organizzazione padronale non ha neanche aspettato 24 ore a dar ragione, da Bergamo, ai suoi detrattori. Sarà sempre più difficile, con la linea scelta da Emma Marcegaglia, sostenere l'obiettivo del blocco sociale antiberlusconiano che dovrebbe mettere sulla stessa barca gli operai e i loro padroni, in nome di uno sviluppo deciso solo da chi sta al timone della barca e che, come dimostra Marchionne, non è disposto a rispettare neanche le regole del mare. Fuor di metafora, non tollera alcuna regola che non si fondi sulla sacralità del profitto e della rendita, in un mercato globale darwiniano senza vincoli sociali e ambientali. Vogliamo dimenticare gli applausi confindustriali di Bergamo al capo della ThyssenKrupp?

Ieri si è tenuto il Comitato centrale della Fiom, la categoria Cgil più esposta agli strali di Marchionne e dell'intero padronato che, come sempre, si aspetta dalla Fiat il là per ribaltare i rapporti di forza. Sogna la vendetta di classe ed è impegnato a costruirla, con l'aiuto del governo, dividendo i sindacati e arruolando i più disponibili con la complicità dell'opposizione parlamentare. La Cgil vive la Fiom come una risorsa o come un problema? Il rapporto tra Corso d'Italia e i suoi metalmeccanici è sempre stato vivace e talvolta si ha l'impressione, dall'esterno, che ci sia qualcuno alla ricerca del regolamento dei conti. Il fatto che intorno alla generosa lotta della Fiom in difesa del contratto nazionale e dei diritti individuali e collettivi sia cresciuta la solidarietà di chi, nel movimento degli studenti, dei precari, nell'associazionismo legato alla tutela del territorio e dei beni comuni, si batte contro il modello sociale dominante, può addirittura produrre richiami all'ordine. Come se la Cgil fosse un partito terzinternazionalista e non una casa comune, libera, aperta ai nuovi fermenti sociali.

Oggi si riunisce il direttivo nazionale della Cgil, le diverse linee si confronteranno e, sperabilmente, troveranno un punto di unità. Che difficilmente segnerà una svolta definitiva in un senso o nell'altro. Certo non potrà essere contraddetto il principio di una ragionevole autonomia delle categorie rispetto alla confederazione, così come esiste l'autonomia reciproca tra le Rsu e l'organizzazione sindacale, come ieri ha ribadito Maurizio Landini in relazione alle polemiche esplose dopo le decisione dei delegati Bertone di votare sì a un referendum di cui pure non riconoscono la legittimità. E al tempo stesso, di chiedere alla Fiom di non cambiare il suo orientamento e dunque di non votare il testo-truffa imposto da Marchionne. Questa dicotomia si spiega - oltre che con l'autonomia delle Rsu - con il fatto che la vittoria del no avrebbe consentito alla Fiat di riconsegnare l'azienda al procedimento fallimentare.

Dentro la Cgil non è in atto un conflitto tra due monoliti ma un confronto aperto, con posizioni articolate delle varie categorie dell'industria, dei servizi, della conoscenza e dei pensionati e delle camere del lavoro. Esistono poi una maggioranza che fa capo alla segreteria nazionale e una minoranza congressuale, «la Cgil che vogliamo», che è maggioranza tra i metalmeccanici, dove del resto esiste un'articolazione uguale e contraria. È una forma di democrazia, normale e feconda, nel maggiore dei sindacati italiani, sostenuto da quasi sei milioni di iscritti e capace di mobilitare la maggioranza dei lavoratori. Un valore da proteggere, e di cui andare fieri. Chiedere alla Fiom firme tecniche in calce a (non)accordi truffa, oppure al contrario di sanzionare le Rsu che sono state spinte dalla loro condizione a prendere una decisione diversa, è legittimo naturalmente, ma non fa fare passi avanti sul terreno della democrazia. Piuttosto che di critiche, il gruppo dirigente della Fiom avrebbe bisogno di solidarietà - quella dei lavoratori, degli studenti e dei precari ce l'ha già: la battaglia in difesa dei diritti, dei contratti e della democrazia meriterebbe di diventare una battaglia generale.

La discussione che si apre oggi nel gruppo dirigente della Cgil è incoraggiata dall'esito positivo dello sciopero. È un confronto a cui in molti dovrebbero prestare attenzione.

Controlli insufficienti, incapacità di spesa dei fondi a disposizione, ricorso eccessivo alla decretazione d'urgenza attraverso la Protezione civile, scarso scambio di informazioni tra uffici centrali e periferici. Sono le accuse mosse alla macchina amministrativa del ministero dei Beni culturali dalla Corte dei conti in una relazione dedicata alla manutenzione dei siti archeologici. Pur riconoscendo risultati positivi ottenuti nella conoscenza del patrimonio presente sul territorio, la magistratura contabile muove tutta una serie di rilievi al modo in cui il Collegio romano si occupa della tutela. Criticità motivate "in parte anche a causa delle stressanti riforme che hanno interessato il Mibac nell'arco di un quinquennio", ha spiegato l'indagine, ma non per questo meno gravi. A cominciare dalla mancanza di comunicazione fra gli uffici: "Il primo dato critico è rappresentato dalla instabilità organizzativa, la quale inevitabilmente riverbera i suoi effetti nel raccordo sia tra direzioni generali (e tra queste e sedi periferiche) che con gli altri livelli istituzionali", si legge nella relazione. I principali problemi? Le "sovrapposizioni funzionali, con duplicazioni di competenze tra direzioni generali e direzioni regionali". Dura l'accusa: "Non è stata definita una moderna struttura manageriale, mantenendosi invece un apparato centrale ibrido a carattere verticale che assolve a limitate funzioni, pur assorbendo risorse significative, col risultato di un forte deficit di controllo sull'attività svolta dalle soprintendenze". Una "colpa" che va divisa a metà, secondo la Corte dei conti: da una parte i dirigenti regionali (a loro volta tenuti a controllare le soprintendenze) non sempre rispettano la disposizione secondo cui ogni tre mesi devono informare sul loro lavoro il dirigente generale alle Antichità; dall'altra per l'abitudine di quest'ultimo ad un "recepimento acritico delle istanze regionali". Non va meglio nel coordinamento dell'attività di tutela dei beni archeologici: "Non è stata realizzata la banca dati unificata in cui far confluire i sistemi informatici riguardanti diversi aspetti conoscitivi". I numerosi sistemi operativi esistenti, gestiti da centri di raccolta differenziati, insomma, non dialogano tra loro. Così accade che, per uno stesso sito, le concessioni di scavo affluiscano esclusivamente alla direzione generale alle Antichità, gli introiti e i visitatori delle aree archeologiche alla direzione Bilancio, mentre la catalogazione e la documentazione afferisce al Segretario generale. Male anche la parte economica, a causa dell'incapacità di spesa, "paradossale a fronte delle scarse risorse". Alla base della formazione di consistenti giacenze di cassa, osserva la Corte dei conti, il "ritardo congenito della messa a disposizione dei fondi", con accreditamenti che a volte avvengono addirittura alla fine dell'anno finanziario. Anche "la lentezza nell'espletamento delle gare per l'affidamento dei lavori" ed il blocco delle risorse in quei progetti pluriennali che obbligano a spendere a seconda dell'avanzamento dei cantieri". E' il ricorso alle gestioni commissariali per l'attività di manutenzione dei siti archeologici, tuttavia, il tasto forse più dolente. Perché è vero che la situazione muoveva "da reali difficoltà e conseguenti rischi per singole opere o aree archeologiche - ha sottolineato la magistratura contabile - ma la creazione di gestioni commissariali aventi maggiori possibilità di deroga su siti tra i più importanti dell'intero pianeta, come la zona archeologica di Pompei, le aree di Roma, Ostia antica e la Domus Aurea, non era necessaria. La tipologia delle realizzazioni in concreto poste in essere nel 2009 - si legge ancora nella relazione - conferma, infatti, che si tratta di interventi che ben si sarebbero potuti effettuare con gli strumenti dell'ordinaria amministrazione. Quanto a Pompei, i presupposti per la dichiarazione dello stato di emergenza erano sostanzialmente assenti. Di qui, l'auspicio ad una maggiore trasparenza, soprattutto considerata la evidente scarsità di risorse destinate alla manutenzione dei siti archeologici, e l'assunzione di misure autocorrettive.

Il super esperto: vecchio, poco utile e costerebbe 650 milioni

Il progetto di sublagunare non sta in piedi. Stavolta non sono gli ambientalisti a dirlo ma gli stessi consulenti che Comune e Camera di commercio - proponente della grande opera nel 1999 - avevano incaricato di uno studio che doveva essere «risolutivo».

Questo almeno era stato l’obiettivo indicato lo scorso anno dal sindaco Giorgio Orsoni e dal presidente della Camera di commercio Giuseppe Fedalto quando avevano annunciato un «approfondimento conoscitivo». Ci si aspettava forse un via libera per andare avanti con la progettazione, avviata nel 2003. Invece è arrivata la doccia fredda. Il rapporto finale firmato dall’esperto di trasporti e docente Iuav Agostino Cappelli, non lascia spazio a interpretazioni. «Dati da aggiornare, che risalgono agli anni Novanta e non forniscono elementi utili per una valutazione dell’utilità del progetto». Ma soprattutto uno stato di fatto che non fa emergere quello che starebbe alla base del grande progetto: la domanda di mobilità.

«Tra Santa Lucia e piazzale Roma», si legge nello studio, «l’offerta tra bus e treni arriva a 540 mila posti in un giorno. La sublagunare ne offre solo 24 mila». Da quella direzione la domanda per gli arrivi in città è bassa. I turisti preferiscono andare per via acqua e godersi lo spettacolo della laguna, i pendolari sono pochi e si accontenterebbero di un trasporto su acqua più veloce.

Dunque le certezze si assottigliano. Il professore ne ha parlato qualche settimana fa nel corso si una riunione riservata con sindaco e presidente della Camera di commercio. E gli studi, che dovevano essere divulgati in dicembre, sono ancora nel cassetto. Troppi i dubbi e le incertezze di un progetto che forse non è stato sufficientemente approfondito prima di essere dichiarato (nel 2002 dalla giunta Costa) di «interesse pubblico». Ecco perché lo stesso Orsoni - assessore al patrimonio di quella giunta, che aveva inserito la sublagunare nel programma elettorale al pari del candidato del Pdl Renato Brunetta - adesso ha tirato il freno. «Per dire in tutta onestà che è un progetto conveniente per la città», dice il professor Cappelli, «bisognerebbe ripensare tutto». E dunque rifare le procedure e la progettazione.

C’è chi pensa addirittura a prolungare il tragitto proposto (da Tessera all’Arsenale passando per le Fondamente Nuove) fino al Lido e Chioggia. Ma si tratta di un altro progetto, non quello dichiarato di interesse pubblico e sottoposto al Cipe.

Che fare nel frattempo? Dal momento che è evidente la necessità di migliorare e velocizzare i collegamenti tra Venezia e Tessera, il professor Cappelli suggerisce di valutare anche un miglioramento dei trasporti «via acqua». E di comparare bene i costi dell’opera rapportati all’uso di mezzi acquei ecologici. «Il costo della sublagunare da Tessera ad Arsenale», scrive il consulente della Camera di commercio, «è lievitato per soli aggiornamenti di prezzi dai 350 milioni di euro del 2001 ai 650 dell’anno scorso. La sua tecnologìa forse non è adeguata a supportare grandi quantità di persone. Dunque, dal punto di vista trasportistico quel progetto non va bene. Un giudizio tecnico netto. Che mette seri ostacoli sul proseguimento di una grande opera che i veneziani non hanno mai visto con entusiasmo.

Raccolte quattromila firme per il referendum

Il comitato: «Si pronunci la città, è un’opera che ne cambia il volto

Quattromila firme raccolte in pochi giorni per proporre al Comune un referendum sulla sublagunare. Il comitato presieduto da Davide Livieri è stato fondato da poche settimane, e adesso ha lanciato una campagna per raccogliere al più presto le diecimila firme necessarie a presentare la richiesta al Comune. «Notiamo con curiosità», dice Livieri, «che da quando è partita la nostra mobilitazione e la raccolta di firme, i cosiddetti poteri forti della città si sono pronunciati per accelerare la realizzazione dell’opera». «Noi non abbiamo idee precostituite», dice Livieri, «ma riteniamo che su un’opera del genere, che potrebbe modificare la vita della città per i prossimi decenni, debbano essere i cittadini a pronunciarsi. L’unico vero potere forte per noi è il Consiglio comunale, che rappresenta i cittadini».

Banchetti per la raccolta delle firme sono stati aperti in questi giorni a Santi Apostoli e in campo San Giovanni e Paolo. presto ne arriveranno altri. Al comitato interpartitico di Livieri (ne fanno parte anche esponenti della Lega, della sinistra ed ex del Pd e del Pdl) si sono uniti anche gruppi politici come i grillini, associazioni ambientaliste e comitati di cittadini.

«Vogliamo sapere i costi e benefici di quest’opera», dicono i consiglieri del nuovo comitato per il referendum Franco Nordio, Ernesto Peschiuta, Bernardo Lancia e Ivo Papadia, «i cittadini non possono essere informati di queste decisioni a fatto compiuto. Non si può continuare a imporre opere faraoniche di dubbia utilità a una città che cade a pezzi, senza soldi per la manutenzione e per i servizi ai cittadini». (a.v.)

Postilla

La metropolitana sub lagunare non è una follia, ma un tassello d’una strategia che sta diventando sempre più chiara. L’obiettivo è di costruire nuove ricchezze private, e consolidare alcune di quelle esistenti, attraverso una sempre più spinta mercificazione di Venezia. Si tratta di attirare sempre più investitori nei settori (l’immobiliare e il turistico) nei quali più facilmente si possa vendere l’immagine della eccezionale bellezza della città: un’immagine che peraltro le nuove iniziative corrodono sempre più velocemente, così come peggiorano la qualità della vita per i residenti stabili.

La città storica è sempre più degradata dalle folle di turisti che la invadono, ormai in tutti i periodi dell’anno, lasciati bradi nella città senza alcuna politica di oculato governo dell’offerta e della domanda. La monocultura turistica sta rendendo sempre più fragile l’economia cittadina. Il degrado fisico aumenta per ogni meganave che arriva nel Bacino di San Marco. La riduzione dello stock edilizio disponibile per i cittadini e la città si riduce per l’aumento della ricettività turistica, agevolato dall’improvvida liberalizzazione delle norme urbanistiche. La bellezza dei monumenti e dei paesaggi urbani che essi caratterizzano scompare sotto i giganteschi cartelloni pubblicitari.

Intanto, il capitale finanziario sviluppa grandi operazioni immobiliari: da Benetton che acquista pezzi della città storica e realizza un vero e proprio piano urbanistico personale, alla società di gestione finanziaria e immobiliare Est Capital che colonizza il Lido di Venezia. Tra i protagonisti delle operazioni in corso le imprese di costruzione che stanno costruendo il MoSE. Nella Terraferma, mentre il vastissimo complesso di Porto Marghera offrirebbe giganteschi spazi a razionalizzazioni intelligenti di aree preziose per le possibilità di recupero ambientale e per lo sviluppo di funzioni non più devastanti per la salute e la sicurezza fisica, si promuove invece l’urbanizzazione di nuove aree e la densificazione di quelle esistenti: dalla “città nuova” di Tessera, sul margine della Laguna in un’area di massimo rischio idraulico, ai grattacieli previsti a Mestre.

La funzione strategica della metropolitana sub lagunare non è quella di agevolare la mobilità degli abitanti e dei visitatori: ben meno dispendioso, più connaturato con la bellezza e la possibilità di godimento che la città offre, sarebbe la riorganizzazione dei servizi acquei, per i quali esistono da anni intelligenti progetti elaborati da tecnici di grande vakore, a partire da Guglielmo Zambrini. Ma la funziona strategica è quella di collegare i tre poli del progetto di accaparramento della città: la nuova città di Tessera, la Città storica (attraverso il suo “vuoto” più prestigioso: l’Arsenale) e il Lido. Sottratto, quest’ultimo, al potere istituzionale del Comune mediante la figura del commissario straordinario, pretestuosamente dotato di funzioni smisurate. Anche per questo è interessante il fatto che si manifestino opposizioni provenienti da più fronti: da un lato, un intellettuale che, incaricato dai promotori dell’opera, esprime con onestà e rigore il punto di vista della tecnica (rinunciando, a differenza di moltissimi altri, di svolgere il ruolo di “facilitatore”), dall’altro lato un movimento popolare (avviato dalla rete “Io Decido”, a sua volta promossa da un gruppo di donne associato nel comitato “Geografia di genere”) cha ha avviato la procedura per l’indizione di un referendum.

I ricchi sono sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri: la diseguaglianza invece di diminuire aumenta e non solo nei paesi in via di sviluppo, anche in Europa. In Italia più che altrove. Una tendenza che crea ingiustizie, blocca la crescita e frena l´ascensore sociale: quel meccanismo che fa sperare ai padri di potere dare ai figli una vita migliore.

Lo denuncia l´Ocse con una ricerca che mette a nudo le disparità nei paesi dove il benessere dovrebbe essere sempre più diffuso. Così non è: nei 34 stati che fanno parte dell´organizzazione, il 10 per cento della popolazione più ricca ha in media redditi superiore nove volte rispetto al dieci per cento della popolazione più povera. Un divario che cresce sia dove il «gap» era già evidente, come in Israele e Usa, che nei paesi dove la diseguaglianza sociale è sempre stata bassa, come la Svezia o la Germania.

In questo quadro, restando all´Europa, l´Italia è uno dei paesi che fa peggio: le fasce che stanno ai vertici della ricchezza hanno redditi sei volte superiori a quelle che stanno alla base della piramide. E negli ultimi venti anni la diseguaglianza è aumentata. Lo studio dell´Ocse la misura attraverso l´indice Gini (è zero quando tutti i redditi sono uguali, è uno dove la differenza è massima): da noi, nel 1985 era fermo allo 0,30, nel 2008 è arrivata quasi allo 0,35. Uno dei peggiori dati messi a segno dai paesi europei. In coda alla classifica ci fanno compagnia il Portogallo, il Regno Unito, Polonia ed Estonia. Francia, Germania e Spagna stanno tutte attorno allo 0,30. La ricchezza, considerato il lungo periodo, è dunque aumentata, ma lo sviluppo ha premiato solo chi già stava bene: dagli anni Ottanta od oggi i più ricchi, in Italia, hanno visto crescere i loro già consistenti redditi dell´1,1 per cento, agli altri sono andate le briciole: le fasce basse possono contare su disponibilità aumentate solo dello 0,2 per cento. Per loro nulla si è mosso.

Commentando i dati, le Acli parlano di una «pesante retrocessione sociale» legata ad una «competizione internazionale che ha fortemente indebolito il nostro sistema produttivo: le ragioni delle disuguaglianze nel nostro paese vanno individuate innanzitutto nell´endemica debolezza dei redditi di lavoro dipendente e nella quasi totale assenza di un sistema generalizzato di tutele nel mercato del lavoro».

Il fatto è che la mancata distribuzione della ricchezza, fa notare l´Ocse, mette in pericolo anche lo sviluppo futuro. L´impossibilità per i giovani di migliorare il proprio status sociale ed economico «avrà un inevitabile impatto» sul paese che verrà.

La globalizzazione, che secondo i più ottimisti, doveva generare miglioramenti diffusi, ha generato dunque un aumento delle disparità. Perché? L´analisi dell´Ocse (Growing income inequality in Oecd countries: what drives it and how can policy teckle it?) fa notare che il processo ha favorito chi poteva contare sulle migliori qualifiche e che la diversa struttura delle famiglie e il maggiore contributo dei redditi da profitti del capitale hanno fatto il resto. Come agire ora? Per l´ Ocse gli strumenti «più diretti e potenti» per tentare un recupero sono le riforme delle politiche fiscali e previdenziali e le misure di sostegno al reddito. Ma da sole non bastano: bisogna creare lavoro e stappare le famiglie alla povertà aumentando l´occupazione, la formazione e l´istruzione delle persone poco qualificate. Bisogna investire insomma sul capitale umano e sulla scuola.

La strategia sui trasporti di qui al 2050. Il nuovo libro Bianco della Commissione Europea per incrementare la mobilità e ridurre le emissioni. Della serie: “missione impossibile”

Il 28 marzo 2011 la Commissione europea ha adottato il nuovo Libro bianco sui trasporti con una strategia di ampio respiro e dal lungo orizzonte temporale fino al 2050(1).

Il nuovo Libro bianco arriva dieci anni dopo l’analogo del 2001(2) intitolato “La politica europea dei trasporti fino al 2010: il momento delle scelte” mentre quello adottato di recente già dal titolo indica una strategia assai più realistica, se pur con un orizzonte temporale al 2050 ed include tappe intermedie al 2020 ed al 2030. “Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile” – così è stato titolato il Libro bianco - nel tentativo davvero complesso di coniugare l’incremento della mobilità e la riduzione delle emissioni.

Il volume è suddiviso in tre parti – analisi della situazione insostenibile, gli obiettivi e le sfide fondamentali da affrontare, la strategia e le regole per attuarle – ed un allegato che contiene un elenco di 40 iniziative da mettere in campo nei prossimi anni.

L’analisi della situazione parte dalla considerazione che il settore dei trasporti in Europa impiega direttamente dieci milioni di persone e rappresenta il 5% circa del Pil, che per le imprese il costo del trasporto si aggira sul 10-15% del prodotto finito ed in media le famiglie spendono il 13,2% del proprio bilancio in beni e servizi di trasporto. I trasporti dipendono per 96% dal petrolio, il cui prezzo è stimato che nei prossimi decenni sia destinato a raddoppiare, la congestione costa all’Europa circa l’1% di PIL ogni anno, e le emissioni secondo i piani della UE dovranno ridursi dell’80-95% entro il 2050 rispetto ai dati del 1990.

Anche i trasporti dovranno fare la loro parte ed il documento individua tre obiettivi per abbattere le emissioni che si dovranno ridurre del 60%: migliorare l’efficienza dei veicoli mediante l’uso di carburanti e sistemi di alimentazione sostenibili, ottimizzare le prestazioni della catena logistica multimodale e puntare sull’uso efficiente delle infrastrutture grazie ai sistemi di gestione informatizzata del traffico.

Sono dieci gli obiettivi fondamentali indicati nel libro Bianco:

  1. Nelle città dimezzare entro il 2030 l’uso delle auto ad alimentazione convenzionale ed eliminarle del tutto entro il 2050. Conseguire nelle principali città sistemi di logistica urbana a zero emissioni di C02 entro il 2030.
  2. Nel trasporto aereo aumentare l’uso di carburanti a basse emissioni fino a raggiungere il 40% entro il 2050. Nel trasporto marittimo ridurre del 40-50% le emissioni di C02 derivate dagli oli combustibili entro il 2050.
  3. Il 30% del trasporto delle merci superiore a 300 km deve passare entro il 2030 verso ferrovia e trasporto via mare. Questa quota dovrebbe raggiungere il 50% entro il 2050.
  4. Entro il 2050 la maggior parte del trasporto di medie distanze dei passeggeri deve avvenire mediante ferrovia, di cui va completata la rete ad Alta Velocità a livello europeo
  5. Completare entro il 2030 la retri infrastrutturali TEN-T
  6. Collegare tra di loro le reti ferroviarie, aeroportuali, marittime e fluviali
  7. Completare il sistema unico di gestione del traffico aereo (Sesar) e lo spazio aereo unico europeo entro il 2020. Applicare sistemi di gestione del traffico al trasporto terreste e marittimo nonché il sistema di globale di navigazione satellitare (Galileo)
  8. Definire entro il 2020 un quadro per un sistema europeo di informazione, gestione e pagamento nel settore dei trasporti multimodali.
  9. Per la sicurezza stradale entro il 2020 dimezzare gli incidenti ed entro il 2050 avvicinarsi all’obiettivo “zero vittime”. Aumentare la sicurezza in tutti i modi di trasporto nella UE.
  10. Arrivare alla piena applicazione dei principi “chi usa paga” e “chi inquina paga” facendo in modo di eliminare le distorsioni ed i sussidi dannosi e generando entrate e finanziamenti per investimenti nei trasporti.

Buoni obiettivi in parte già contenuti nel libro Bianco del 2001, da raggiungere mediante strategie e regole che puntano al mercato unico europeo dei trasporti, alla concorrenza, all’innovazione tecnologica ed alla ricerca, alla tariffazione delle infrastrutture e dei sistemi urbani, alla sostenibilità ed a forme innovative di mobilità, alla realizzazione delle reti TEN-T: parole chiave di una strategia ambiziosa e lungimirante di azione ed intervento.

Il nuovo documento è anche lo specchio dei successi ed insuccessi del libro bianco del 2001 e tiene conto delle azioni e dei piani di questi anni: dal piano di riduzione europeo 20-20-20 delle emissioni di C 02, del piano di azione UE per i veicoli puliti e l’auto elettrica del 2010, dalle difficoltà economiche e procedurali peri realizzare il piano delle reti TEN-T, alla nuova direttiva sui sistemi di trasporto intelligenti che dovrà essere attuata entro il 2012 dai paesi membri, dei significativi obiettivi ottenuti in ambito europeo per la riduzione di morti e feriti sulle strade.

Non mancano nemmeno debolezze e criticità nel Libro bianco. A partire dalla scarsa considerazione per i problemi del trasporto urbano ( oltre due terzi della mobilità) dove viene confermata la necessità del potenziamento del trasporto collettivo, della bicicletta e delle aree pedonali, ma si affida un ruolo chiave all’auto pulita, tralasciando i problemi di congestione, di uso dello spazio urbano e di pianificazione territoriale.

Ed anche per l’auto “pulita” da estendere su vasta scala in ambito urbano, si punta alla ricerca ed innovazione tecnologica, ammettendo che questo obiettivo è ancora molto lontano dalla sua soluzione e per i carburanti alternativi si ammette che “ non si potrà fare affidamento su di una sola soluzione tecnologica”. Nel Libro bianco non vengono mai richiamate specifiche tecnologie di alimentazione delle vetture mentre solo nei documenti di lavoro preparatori si trovano diversi riferimenti ad elettricità, idrogeno e biocarburanti, mentre come soluzione ponte da usare insieme al petrolio si richiamano metano, gpl e carburanti sintetici.

In questo senso il documento resta debole perché assegna un ruolo chiave per la riduzione delle emissioni all’auto “pulita” ma senza - ed onestamente- intravedere delle soluzioni operative in tempi ravvicinati e pur in presenza del piano europeo di sostegno all’auto pulita ed elettrica del 2010.

Un’altra criticità è rappresentata dalle reti TEN che anche in questo documento costituiscono un pezzo essenziale della strategia, che assomiglia al ruolo chiave che anche in Italia è stato assegnato dalla politica alle grandi opere strategiche della legge obiettivo, senza una efficace selezione e dai costi pubblici insostenibili.

Il Libro bianco 2011 quantifica in 550 miliardi di euro il fabbisogno europeo di risorse fino al 2020 per il completamento delle reti TEN-T ed arriva a 1500 miliardi di euro che servirebbero entro il 2030 per sviluppare le infrastrutture di trasporto adeguate alla domanda di mobilità. Risorse pubbliche e private che non sono in alcun modo disponibili e che rendono questi obiettivi evanescenti e quindi in parte inadeguati rispetto agli obiettivi ambiziosi della Commissione europea nel campo dei trasporti.

Infine un altro punto debole è rappresentato dall’applicazione dei validi principi “chi usa paga” e “chi inquina paga” che in questo decennio hanno trovato ostilità pesanti da parte del mondo delle imprese e delle lobby a livello europeo.

L’internalizzazione dei costi esterni negativi nei trasporti, che doveva trovare regole comuni da applicare in tutti i stati membri (anche per evitare distorsioni della concorrenza) è divenuta una metodologia che può (e non deve) essere applicata a discrezione dei singoli paesi membri; l’eurobollo, la tariffazione del trasporto merci a livello europeo per attuare il principio “chi inquina paga”, è divenuta una misura debole e non obbligatoria.

Allo stesso modo pedaggi e tariffe sia delle infrastrutture che in ambito urbano sono divenute raccomandazioni e di sicuro si scontrano con la difficoltà di sistemi assai differenziati tra i diversi paesi membri – basti pensare al sistema dei pedaggi autostradali legati alle concessionarie italiane, basato su contratti che a volte scadono fra trenta anni – avendoli legati agli investimenti infrastrutturali. Il nuovo Libro bianco ribadisce l’importanza di questi strumenti di regolazione per gli anni a venire ma è facile prevedere che le difficoltà saranno persistenti.

Una grande enfasi è dedicata al mercato unico europeo dei trasporti sia nel settore aereo – da completare – e sia nel sistema ferroviario, predisponendo un terzo pacchetto di direttive che rafforzi regole comuni sia per alimentare la concorrenza (anche nel trasporto passeggeri interno delle ferrovie), con la separazione strutturale (e quindi non solo contabile e societaria) tra proprietario delle reti e chi fa il servizi di trasporto, con il potenziamento dell’Agenzia europea di regolazione.

L’obiettivo è quello di promuovere un mercato comune del trasporto ferroviario, superando le attuali barriere e vincoli tecnologici che impediscono l’interoperabilità, puntando ad una concorrenza effettiva nei servizi a livello europeo. Obiettivo già in passato posto a livello europeo ma poi che ha rallentato la sua corsa e che ora ritorna tra le priorità europee. Restano da vedere gli strumenti operativi che verranno adottati per davvero dalla Ue in un settore che anche in italia in questo momento vive un dibattito complesso e non privo di polemiche, ora che sono arrivati per davvero nuovi operatori ferroviari nel mercato italiano.

Esiste una differenza fondamentale con il Libro bianco del 2001, che puntava al riequilibrio modale verso modalità a basso impatto ambientale come ferrovia e cabotaggio ed alla necessità di una strategia per “ il progressivo sganciamento della crescita economica dalla crescita dei trasporti”. Obiettivo quest’ultimo a cui il nuovo libro Bianco 2011 rinuncia completamente ed apertamente come ha dichiarato il vicepresidente Siim Kallas responsabile per i Trasporti, che nel presentarlo ha dichiarato che “Ridurre la mobilità non è un’opzione, ne lo è mantenere lo status quo. Possiamo interrompere la dipendenza del sistema dei trasporti dal petrolio senza sacrificare l’efficienza e compromettere la mobilità. Possiamo guadagnare su tutti i fronti”.

Parole di speranza e giusta esortazione che non trovano però riscontri concreti sulle modalità con cui questi due obiettivi ambiziosi possono davvero essere raggiunti secondo le indicazioni del Libro bianco. Mentre l’esperienza concreta di questo decennio ci ha dimostrato che ogni positivo incremento di efficienza dei veicoli, in particolare delle automobili e dei veicoli stradali, è stato divorato dall’aumento della potenza e dell’aumento dei chilometri percorsi, producendo alla fine un incremento significativo delle emissioni di C02, passati dal 23% al 28% nel settore dei trasporti e quindi fallendo ogni obiettivo di riduzione fissato dal protocollo di Kyoto del 6,5% rispetto ai dati del 1990.

Del resto è lo stesso Libro bianco trasporti 2050 (nei documenti preparatori) che prevede che tendenzialmente il trasporto merci crescerà del 40% dal 2005 al 2030 e di poco più dell’80% entro il 2050. Il traffico passeggeri dovrebbe invece registrare un aumento leggermente inferiore: del 34% entro il 2030 e del 51% entro il 2050.

Sarebbe opportuno non rinunciare completamente al raffreddamento della crescita della domanda di mobilità - che non equivale a “ridurre la mobilità” - ma semplicemente per il futuro aumentare l’efficienza complessiva del sistema, eliminare i viaggi a vuoto nel trasporto merci, progettare e riqualificare le città avvicinando le diverse funzioni per non essere “condannati alla mobilità”, promuovere i consumi a chilometro zero nel settore alimentare, sostenere tutte le tecnologie e le procedure telematiche che riducono la domanda fisica di trasporto merci e passeggeri.

Difficile insomma credere che sia possibile - con le conoscenze e le tecnologie di oggi - aumentare la mobilità riducendo in modo significativo le emissioni e la congestione.

Il dibattito è aperto ed adesso non resta che aspettare il confronto pubblico e l’approvazione da parte del parlamento europeo e del Consiglio del nuovo Libro bianco sui trasporti 2050.

1 Commissione Europea. Libro Bianco. Tabella di marcia verso uno spazio unico europeo dei trasporti – Per una politica dei trasporti competitiva e sostenibile. Bruxelles, 28.3.2011 ( vedi sul sito www.eur-lex.europa.ue)

2 Commissione Europea. Libro Bianco. La politica europea dei Trasporti fino al 2010: il momento delle scelte. Bruxelles, 2001

Mi duole dirlo perché, come molti lettori di Repubblica, ritengo che gli Stati Uniti siano una grande democrazia dotata di alcune ottime istituzioni e che molti politici e intellettuali statunitensi abbiano tanto da insegnarci, a noi europei. Mi duole dirlo, ma l´uccisione di Bin Laden ha costituito una seria violazione di almeno due di tre principi etico-giuridici fondamentali.

Anzitutto, informazioni iniziali intorno a un suo "corriere" sono state acquisite attraverso la tortura, autorizzata ufficialmente e mai condannata, neanche ai più alti vertici degli Usa. La norma che vieta la tortura e non la giustifica mai, dico mai, è diventata un "principio costituzionale" della comunità internazionale, e a nessuno dovrebbe essere consentito di infrangerla senza essere debitamente processato e punito. Stranamente Panetta, l´attuale capo della Cia e prossimo Segretario alla Difesa, nel 2008 condannò la tortura osservando che non può essere giustificata da ragioni di sicurezza nazionale. Poi nel febbraio 2009, davanti al Senato, affermò che l´annegamento simulato (waterboarding) era sì illegale ma, se egli fosse stato nominato capo della Cia, non avrebbe punito coloro che lo avessero commesso. Stupefacente! La tortura rimane illegittima anche nei casi in cui essa consente di ottenere utili informazioni. Chi ha torturato va punito anche in questi casi, per riaffermare il valore supremo di quel divieto.

La seconda violazione è consistita nel compiere una operazione militare in territorio pakistano senza il consenso di quello Stato. In una parola, è stata violata la sovranità del Pakistan. Ma qui Obama può invocare importanti esimenti. Islamabad aveva l´obbligo nei confronti di tutta la comunità internazionale di reprimere il terrorismo e non lo ha fatto. Questo obbligo era rafforzato da quello assunto bilateralmente nei confronti degli Usa di ricercare e arrestare Bin Laden, obbligo che aveva come "corrispettivo" la consegna statunitense al Pakistan di un miliardo di dollari l´anno. Nell´omettere platealmente e per molti anni di adempiere quell´obbligo il Pakistan ha in un certo senso legittimato una "azione sostitutiva". Il raid statunitense può essere equiparato, per certi aspetti, a quelle operazioni di salvataggio dei propri cittadini, tipo Congo (intervento dei belgi nel 1960) o Entebbe (intervento israeliano nel 1976), che sono state ritenute legittime in passato.

La terza violazione è quella di un principio fondamentale di civiltà giuridica. Uno Stato democratico non può trasformarsi in assassino, tranne che in due casi. Anzitutto nell´ipotesi di violenza bellica in atto. Ma tra gli Usa e Al Qaeda non c´è guerra, né internazionale né civile; l´azione statunitense contro le reti terroristiche di Al Qaeda è solo azione di polizia che, se intende dispiegarsi a livello internazionale, ha bisogno della cooperazione delle forze dell´ordine degli altri Stati, gli Usa non essendo un gendarme planetario. Del resto, anche in una guerra internazionale il nemico può essere ucciso solo in campo di battaglia, non a casa sua, tranne che si difenda con le armi, sparando e uccidendo; se sorpreso inerme nella sua dimora, va catturato e, se autore di crimini di guerra, processato. L´altro caso in cui lo Stato può uccidere legalmente è quando deve far eseguire con la forza ordini legittimi contro persone che deliberatamente si sottraggono all´arresto (ad esempio, si può uccidere un rapinatore che tenta di scappare sparando contro i poliziotti che cercano di catturarlo). Se uno Stato accusa uno straniero di crimini gravissimi, lo arresta (o la fa arrestare all´estero dalle autorità del luogo) e lo processa. Nel caso di Bin Laden tutto lascia pensare che l´ordine fosse di ucciderlo: era disarmato; ha opposto qualche resistenza facilmente superabile da uomini armati fino ai denti. Qui i principi etico-giuridici sono chiari. Averli trasgrediti è grave. Mettetevi però nei panni di Obama: egli sapeva che un processo, davanti a un tribunale statunitense o internazionale, sarebbe durato per lo meno due anni (fra istruttoria, dibattimento e sentenza), con Bin Laden detenuto. Obama deve aver pensato agli innumerevoli atti terroristici che Al Qaeda avrebbe scatenato nel mondo, durante il processo. E poi: dove detenere Bin Laden, a Guantánamo, che si cerca di chiudere al più presto possibile, o in un carcere in territorio statunitense, dove nessuna delle autorità statali lo prenderebbe, per ragioni di ordine pubblico? E come evitare che Bin Laden trasformasse l´aula giudiziaria in una tribuna politica, come hanno fatto Milosevic e Karadzic all´Aja? Un processo avrebbe anche portato alla luce le collusioni della Cia con Bin Laden ai tempi dell´invasione russa dell´Afghanistan, nonché gli ambigui rapporti della Cia con l´ex capo dei servizi segreti sudanesi, Sala Gosh, per un tempo protettore di Bin Laden in Sudan. Si sarebbe trattato inoltre di un processo nel quale la presunzione di innocenza di cui avrebbe dovuto godere l´accusato sarebbe stata minima e lo sbocco finale scontato. Obama ha così optato per l´opportunità politica contro valori morali e giuridici. Il che non giustifica affatto la sua decisione, ma permette di comprenderne le motivazioni. Resta il fatto che ancora una volta la Realpolitik ha battuto l´etica ed il diritto.

Il blitz ad Abbottabad solleva un problema più generale. Negli Usa, le autorità di polizia non procederebbero mai alla tortura, perché è vietata, e inoltre ogni prova ottenuta con quei metodi non avrebbe alcun valore in un processo. Inoltre l´uso di armi letali da parte delle forze dell´ordine è strettamente regolato, e lo "stato di diritto" esige che non si possano commettere "esecuzioni extragiudiziali". Tutte queste protezioni valgono per cittadini statunitensi o per gli stranieri che abbiano commesso un reato contro un cittadino Usa. Ma dal 2011 gli Usa hanno creato un limbo sia giuridico sia territoriale (Guantánamo) per presunti terroristi stranieri, tra l´altro ammettendo la tortura. Ed ora di fatto ammettono anche le "esecuzioni extragiudiziali" con blitz all´estero. Bisogna dunque chiedersi se gli Usa ritengano che la "supremazia del diritto" valga solo al loro interno, mentre perde ogni valore nel campo delle relazioni internazionali. Se così fosse, dovremmo seriamente preoccuparci per le prossime mosse della Superpotenza planetaria, oggi ancora guidata da un uomo che, almeno a parole, dice di credere nel diritto e nella giustizia.

In 10 articoli scatta la deregulation che Tremonti ha promesso a imprese e commercianti. Diritti di occupazione delle coste, più facile noleggiare yacht e costruire posti barca. Parte il saccheggio italiano.

Non costa nulla alle casse pubblichee libera tutti da vincoli e controlli.UnBengodi che «aiuta le imprese» (lo dice Giampaolo Galli),le banche, i costruttori, ristoratori,albergatori, baristi delle zonecostiere finalmente liberi di ampliarele attività su spiagge ed arenili.Di più: potranno anche allestiresenza troppi permessi pontiligalleggianti, posti barca, parcheggiper gli yacht, una vera prioritàper l’Italia dopo la crisi. Altrimentichi ci pensa ai più ricchi durante lacrisi? Comunque «la spiaggia restapubblica e accessibile a tutti» assicuraGiulio Tremonti. È specifica:«Non vendo le coste». Meno maleche lo specifica. Il ministro non faneanche quello che gli operatori turisticichiedono, cioè abbassarel’Iva, come osserva Enrico Gasbarra(Pd). Ma questo costerebbe.

Questa in estrema sintesi la presentazionea Palazzo Chigi dell’ultimatrovata pre-elettorale del governo:il decreto cosiddetto per lo sviluppo.Incastonato tra un interventodi Silvio Berlusconi su sottosegretari,Napoli, nuove autostrade aNord, l’annuncio di Paolo Romanidel nuovo decreto sulle rinnovabili(su cui è già arrivato un ricorso degliinvestitori esteri) e quellodell’Economia sull’ok di Bankitaliaalla Banca del Sud (cara al superministro),il «poderoso» provvedimentoorchestrato da Tremonti apparecome una disperata rincorsa verso ilconsenso, che in 10 articoli inglobanorme fiscali, ambientali, industriali,bancarie, sull’acqua, sulla scuola,sulla ricerca, sul lavoro, sulla ricerca.Sta di fatto che mentre scriviamoil testo ancora non si conosce, ed èancora da limare secondo il «ministro-delfino».

FRUSTATA

La «frustata» all’economia parte dal credito d’imposta sperimentale per 24 mesi per le aziende che investono in ricerca, che potranno dedurre il 90%. Come si possa fare, senza spendere, resta un mistero. Il ministro annuncia un metodo innovativo, un «prelievo volontario» che sarà spiegato in seguito. Segue un credito d’imposta per le assunzioni al Sud, norma ripescata dal governo Prodi.

Ma la vera «carne» arriva conl’articolo 3, che riguarda appunto lereti d’impresa, le zone a burocraziazero, i distretti alberghieri e le coste.«Tutto ciò che riguarda gli operatoribalneari sarà oggetto di diritto di superficiedi 90 anni». Per Tremonti «èil momento di valorizzare il turismosoprattutto nelle coste, fermo il dirittodi passaggio sulla spiaggia. Tuttociò che è terreno su cui ci sono insediamentituristici, strutture ricettive,chioschi. Pensiamo a un dirittolungo, che dia una prospettiva ditempo logica per fare davvero gli investimenti.Così si creano lavoro einvestiment. Èun meccanismo in divenire,le entrate andranno alle Regionie ai Comuni e al Ministero degliinterni nelle zone a burocrazia zero». Esultano le associazioni deicommercianti, mentre gli ambientalistidenunciano il saccheggio. SecondoLegambiente, infatti, la norma«in modo totalmente illogico eanacronistico, di fatto privatizza ilpatrimonio costiero cedendolo a pochisoggetti più ricchi a scapitodell`intera cittadinanza cui vienealienato il diritto di usufruire liberamentedel territorio e delle parti piùpreziose del nostro paesaggio». Menocontrolli anche in campo fiscale.

Anzi: basta con la «persecuzione»della guardia di Finanza e degliispettori, che danneggiano la credibilitàdi unfisco che vuole trasparenzae che quindi deve dare rispetto,spiega il ministro. Così arrivano lesanzioni per gli ispettori che «eccedononel loro ruolo» (che vuol dire?).«Se i comportamenti sono gravi,gravi saranno anche le relativesanzioni, nessuna esclusa». Insomma,la gravità sta nel fare i controlli,non nel non pagare le tasse. In unpaese dove l’evasione supera i 120miliardi l’anno di gettito. I recuperifinora si sono concentrati sulle grandiimprese, mentre le medio-piccolesono rimaste a briglia sciolta. Perevitare di disturbare troppo gli imprenditori,che già plaudono, Tremontichiede anche ai finanzieri dieffettuare i controlli senza divisa. Atutto questo si aggiunge la nuova sogliaper le gare negli appalti pubblicie l’innalzamento del tasso usurario,che le banche considerano necessariomentre i consumatori giudicanoassolutamente pericoloso. Losviluppo finisce qui.

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