Vendita delle spiagge, riduzione della tutela del paesaggio e dei beni culturali, imposizione del piano casa alle regioni, aumento della trattativa privata, appalti selvaggi.
Il nuovo decreto legge per lo sviluppo approvato dal governo Berlusconi[1] (1) è già diventato assai famoso per la polemica sulla “vendita delle spiagge e ammazza coste”. Il testo pubblicato, dopo le critiche pesanti delle associazioni ambientaliste, della Commissione europea e i rilievi del capo dello stato, ha ridotto a 20 anni la durata delle concessioni ma ha lasciato il diritto di superficie (cioè la proprietà degli immobili sul demanio ai privati) che invece oggi è un diritto di concessione. In pratica questo significa che alla scadenza dei 20 anni lo stato vorrà le spiagge libere da infrastrutture e manufatti dovrà pagare ai privati il loro valore, diventando beni che si possono vendere o ereditare. In pratica è saltato per gli arenili il concetto di demanio pubblico (cioè un bene indisponibile al privato) e questo sarà un volano micidiale per cementificazioni e costruzioni in aree naturali, che anzi dovrebbero essere sgomberate e riqualificate per la loro fruizione con interventi ecosostenibili.
Va aggiunto che nel provvedimento, sempre all’articolo 3, sono previste anche semplificazioni per la realizzazione di porti turistici, di cui conosciamo numerosi progetti sparsi per l’Italia e che insistono quasi sempre su aree naturali e demaniali.
Ma sono anche tante altre le novità “negative” che il decreto legge introduce contro la tutela e i vincoli in materia ambientale e paesaggistica. È di questi giorni la denuncia di Salvatore Settis[2] (2) contro l’innalzamento da 50 a 70 anni della soglia di “presunzione di interesse culturale degli immobili pubblici” e per gli edifici degli enti ecclesiastici e assimilati, che potranno quindi essere venduti senza troppi vincoli, e che in buona parte saranno consegnati a Comuni e regioni per attuare il “federalismo demaniale” e fare cassa con le privatizzazioni. Si tratta di tutti gli edifici fatti tra il 1941 e il 1961, con le migliori architetture del novecento di Adalberto Libera, Gio Ponti, Mario Ridolfi e Pier Luigi Nervi, solo per fare alcuni esempi.
Ancora più grave è una semplificazione contenuta nel decreto che toglie potere alle Soprintendenze sui pareri per la tutela del paesaggio. Il Codice Urbani escludeva il silenzio-assenso per le autorizzazioni paesaggistiche (anche in coerenza con sentenze della Corte Costituzionale) che invece con il decreto legge 70/2011 viene introdotta: dopo 90 giorni dalla ricezione degli atti il parere “si considera favorevole” come scritto all’articolo 4, comma 16 del provvedimento.
Una grave inversione del principio di tutela del paesaggio e dell’ambiente, che sommato alle difficoltà operative della pubblica amministrazione preposta alla tutela, produrrà altri scempi e aggressioni al patrimonio del nostro belpaese.
Del resto è tutto il decreto legge a essere ispirato dalla filosofia che – allentando i vincoli, aumentando ulteriormente le semplificazioni nei processi decisionali e per le autorizzazioni a costruire, riducendo le gare d’appalto nei lavori pubblici – tutto questo costituirà un volano per il rilancio dell’edilizia e quindi per lo sviluppo del paese. Eppure dato che è almeno un decennio che si sono introdotte norme in questa direzione i risultati non si sono visti, anzi, viene messa a rischio la ricchezza vera del nostro paese: la sua storia urbana, il suo patrimonio, il suo paesaggio. Viceversa è aumentata la cementificazione del suolo, il dissesto idrogeologico, senza miglioramenti della qualità architettonica del costruito, con infrastrutture indifferenti al territorio e il fallimento della Legge obiettivo, con periferie sempre più degradate e carenti di servizi come risultato della pianificazione per “varianti” e delle perequazioni sistematiche.
Nonostante il fallimento non ci sono ripensamenti, e l’Italia è sempre più lontana dalle esperienze dei principali paesi europei che hanno fatto della sostenibilità, della riqualificazione edilizia, del risparmio di consumo di suolo, dei quartieri vivibili, delle reti e servizi di trasporto collettivo, i punti cardine delle loro politiche.
Anche la concorrenza viene sacrificata nel decreto sviluppo, con l’incremento della trattativa privata per interventi fino a un milione mentre prima la soglia era fissata a 500.000 euro. Qualche tempo fa avevamo denunciato un provvedimento parlamentareapprovato alla camera e ora in discussione al senato che triplicava la soglia per la trattativa privata da 500.000 a 1,5 milioni di euro. Adesso il governo con il decreto legge dice la sua raddoppiando la trattativa privata fino a un milione, indicando che le imprese che devono essere invitate informalmente sono cinque nel caso di importo fino a 500.000 euro e 10 da 500.000 a un milione. Infine è previsto che sia obbligatorio pubblicare l’avviso a conclusione con i dati dell’appalto e del vincitore.
In realtà immaginare un rilancio dell’economia evitando le gare e sottraendo mercato alla concorrenza è ben noto come non funzioni perché alimenta l’incremento dei costi, la discrezionalità e la scarsa trasparenza nella pubblica amministrazione, fino a vere proprie azioni di corruzione e concussioni messe in atto per accaparrarsi gli affidamenti, di cui le inchieste della magistratura hanno ben dimostrato purtroppo gli intrecci tra politica e affari. Anche in questi giorni, con gli affidamenti diretti legati ai grandi eventi e alla protezione civile.
Non solo, è dal 2002 che la corsa al rialzo della soglia per la trattativa privata prosegue inesorabile, che aumenta l’opacità mentre l’economia ristagna proprio perché il problema non sta nei tempi del bando di gara, che tutto sommato sono la fase più corta del processo (52 giorni), mentre processo decisionale e stipula del contratto sono ben più lunghi, mediamente 10-12 mesi.
Aumentare la trattativa privata è dunque un alibi come lo sono diverse altre misure contenute nel decreto legge che cambiano il Codice unico per gli appalti. Espropri preordinati per le opere strategiche che passano da cinque a sette anni, riduzione da tre anni a uno per il periodo di dissociazione delle condotte illegali dei manager e per riabilitare l’impresa i cui vertici sono stati condannati per reati contro la pubblica amministrazione, estensione dell’autocertificazione anche per la documentazione sulle condanne riportate, accorciamento dei tempi per esempio per la conferenza dei servizi istruttoria sul progetto definitivo delle opere strategiche, che passa da 90 a 60 giorni.
Nel decreto è inclusa anche una robusta modifica della finanza di progetto: i privati potranno presentare alle amministrazioni pubbliche proposte per interventi in concessione di lavori pubblici o di pubblica utilità non ricompresi nella programmazione triennale approvata dall’amministrazione. Come dire che saranno i privati – con le loro esigenze e interessi – a suggerire cose serve all’interesse collettivo mentre la pubblica amministrazione (sempre più indebolita dai tagli generalizzati) dovrà comunque procedere a valutare queste proposte. In pratica equivale ad annientare l’utilità della programmazione triennale, strumento già fortemente indebolito, come del resto lo è ormai da tempo tutta la pianificazione degli interventi, ormai ridotte a liste.
Tutti elementi di semplificazione che di sicuro non aumenteranno l’emergere delle aziende sane, la qualità dei progetti e delle opere, una robusta concorrenza nel mercato, i processi di partecipazione dei cittadini alle scelte e la vigilanza della pubblica amministrazione: gli unici elementi che l’esperienza ci ha insegnato in questi anni capaci di produrre risultati concreti ed opere che poi i cittadini utilizzeranno davvero.
Vi sono poi due aspetti nel decreto che puntano al contenimento dei costi delle opere pubbliche e meritano un approfondimento più ragionato: l’importo complessivo delle riserve non superiore al 20% dell’importo contrattuale e il tetto del 2% per le opere compensative (era del 5%) che devono essere strettamente correlate all’opera principale e inclusive delle mitigazioni ambientali richieste dalla commissione di Valutazione di Impatto Ambientale (art.4, comma 2, lettera r).
Giusto il contenimento dei costi ed una frenata alla lievitazione sistematica delle riserve ma il provvedimento non affronta a monte la qualità dei progetti, la loro funzionalità ed integrazione di rete e funzionalità territoriale, che sono gli elementi che hanno determinato (oltre all’assenza di gare come nell’alta velocità e nelle concessioni autostradali) aumenti dei costi finali e numerosi contenziosi. Con la legge obiettivo era stato esteso l’uso dell’appalto integrato – dove il costruttore progetta e realizza con lo scopo di ridurre i contenziosi con le imprese – eliminando la progettazione indipendente, ma questo sistema evidentemente non ha funzionato.
Per esempio nelle grandi opere ferroviarie si sono approvate le linee separatamente dai nodi urbani, è mancata quasi sempre l’integrazione di servizio tra rete veloce e rete locale; per le autostrade in proiect si tende a disegnare una striscia di asfalto senza tutte le interconnessioni con la rete viaria locale (per dimostrare che costa poco e rende tanto), adesso siamo ai lotti costruttivi e non più funzionali: come dire che invece di selezionare dalla lunga lista di opere da realizzare quelle davvero utili e sostenibili, si tende ad approvare tutto e poi avviare pezzi di opere, dai tempi e dai costi finali incerti.
Giusto eliminare opere compensative non connesse all’opera che sono diventate in diversi casi un modo poco elegante e per niente trasparente per acquisire il consenso degli enti locali, ma in molti casi le opere compensative hanno migliorato la qualità dei progetti, l’inserimento ambientale, indennizzato i cittadini colpiti dai cantieri e dagli espropri, integrato i servizi a rete, cioè aiutato pessimi e vecchi progetti a diventare migliori. Se i progetti resteranno pessimi e le opere compensative si riducono si alimenterà solo un grande contenzioso con le amministrazioni locali, con i cittadini e anche con le imprese, che di certo non aiuterà ad accelerare gli investimenti come il decreto sviluppo si propone di fare.
Del resto in questi mesi qualche ripensamento sulle grandi opere è in corso: dall’autostrada “frugale” invocata dall’ing. Giovanni Castellucci[3] (3), amministratore delegato di Atlantia, a proposito dell’Autostrada Tirrenica, alle grandi opere “low cost”. Per esempio per la Tav Torino Lione adesso si ipotizza un progetto leggero e per fasi costruttive, mantenendo la linea storica fino a Susa, realizzando una sola canna del tunnel nella tratta internazionale ed eventualmente la seconda se servirà dopo il 2030. Una strategia che dà ragione alle critiche degli ambientalisti e del popolo No Tav, che hanno sempre puntato il dito sulla scarsa utilità dell’opera a fronte degli elevati costi ambientali e finanziari.
Purtroppo governo e imprese non ammettono il fallimento della legge obiettivo, insistono con la retorica delle grandi opere (ormai senza lavagna però....) e si tentano ulteriori e inutili scorciatoie di semplificazione.
Nello stesso provvedimento all’articolo 5 sono poi contenute altre pesanti norme per il rilancio del piano casa per le costruzioni private. Il governo riprova a forzare le regioni: se entro 120 giorni queste non approveranno norme regionali in linea con il decreto sviluppo, le previsioni entreranno automaticamente in vigore. Previsto un aumento del 20% di cubatura in deroga al piano regolatore, anche attraverso demolizione e ricostruzione, il mutamento delle destinazioni d’uso e la modifica della sagoma degli edifici esistenti. Previsto il “silenzio assenso” per il rilascio del permesso di costruire, a esclusione dei casi di vincoli ambientali e paesaggistici; estensione della Scia agli interventi precedentemente regolati dalla Dia. Prevista la “cessione di cubatura” avallando da strumenti di perequazione e compensazione dei diritti edificatori. Minisanatoria per difformità nella realizzazione di interventi edilizi su altezza, distacchi, cubatura e superficie fino al 2% in variazione delle misure progettuali.
Insomma un complesso di norme che già ha messo in allarme le regioni, che hanno chiesto e ottenuto un tavolo dal governo per valutarne l’impatto e il rispetto delle proprie prerogative in materia urbanistica, prima di esprimere il proprio parere.
Da segnalare infine che i piani attuativi compatibili con lo strumento urbanistico generale sono approvati dalla giunta comunale e non più dal consiglio comunale, e che in caso di Valutazione ambientale strategica (Vas) applicata sul piano, questa non dovrà più essere effettuata sui piani attuativi, a meno siano difformi dal piano allora la Vas sarà effettuata solo sugli aspetti mai considerati (vedi art. 5, comma 8). Misure semplificatorie che riducono i processi di partecipazione e controllo sia dei consigli comunali, dei comitati di cittadini e delle associazioni ambientaliste.
Questo è un autentico decreto per lo sviluppo “insostenibile”. Cittadini, associazioni ambientaliste, urbanisti e comitati si stanno mobilitando ovunque e da tempo contro il partito del cemento e del consumo di suolo. Solo la politica e le istituzioni devono ancora imparare ad ascoltarli.
[1]Decreto Legge 70/2011 recante “Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia” pubblicato sulla G.U. n.110 del 13 maggio 2011.
[2]Salvatore Settis. La privatizzazione di un patrimonio. Intervento pubblicato su La Repubblica del 25 maggio 2011.
[3]Intervista su Il sole 24 ore del 9 febbraio 2011 all’ing. Castellucci, AD di Atlantia. “Opere più frugali per coinvolgere i privati” Un esempio? L’autostrada Tirrenica. La concessionaria SAT ci ha fatto ridurre i costi da 3,5 a meno di 2 miliardi”.
George Soros liquida i suoi investimenti in oro e compra fattorie in Sudamerica investendo nella Adecoagro, una conglomerata agricola con proprietà in Argentina, Brasile e Uruguay. Non è il solo: da un po’ di tempo gli hedge fund si contendono le terre coltivabili che possono essere acquistate in giro per il mondo. Se ne cercano ovunque, dalla Russia all’Africa, ma alla fine le più appetibili restano quelle negli Usa e in America Latina: più produttive, più facili da proteggere e senza troppi vincoli sulla proprietà. Un tempo chi voleva diventare ricco in fretta cercava di trasformare i terreni agricoli in aree fabbricabili.
Ma oggi negli Stati Uniti, mentre il mercato dell’edilizia residenziale vive il suo 57esimo mese consecutivo di recessione, un altro mercato immobiliare — quello delle aree coltivabili — ha raggiunto i massimi degli ultimi 32 anni: più 16 per cento dall’inizio del 2010, certifica la Federal Reserve di Chicago. Certo, c’è da restare interdetti davanti a queste sofisticate finanziarie di Wall Street che, dopo aver puntato sulle aree più avanzate e innovative dell’economia, cambiano cavallo e riscoprono un settore tenuto ai margini da quasi un secolo. Come può essere?
«Nel 2011 torna di moda un settore che aveva smesso di attrarre l’attenzione nel 1911» , si scandalizza il New York Observer. Ma Robert Shiller, celebre economista di Yale — uno dei pochi ad aver previsto non solo la «grande recessione» del 2008, ma anche la prolungata crisi del mercato immobiliare — ha appena spiegato a un pubblico di duemila operatori finanziari che, con la domanda di derrate alimentari che esplode nei Paesi emergenti e l’offerta che fatica a tenere il passo, quello in fattorie è uno degli investimenti più sicuri, visto che «i campi non si possono fabbricare» . Gli scettici sono molti: da un lato quelli che vedono nella corsa all’agricoltura il segno dell’involuzione di un mondo che ha paura del futuro, che si arrocca, teme di dover affrontare scarsità che sembravano ormai relegate nel retrobottega della storia.
Dall’altro gli analisti che invitano alla cautela: dopo la bolla dell’alta tecnologia e quella dei valori delle case, gonfiati dai mutui a go-go, adesso ne rischiamo una terza, alimentata dall’impennata dei prezzi delle derrate agricole. È normale che, in parallelo, cresca anche il valore dei terreni. Ma in Kansas e Nebraska, ai ritmi attuali, i prezzi raddoppieranno in quattro anni: insostenibile. Gli hedge, però, non vedono grossi rischi. Alcuni pensano addirittura di potersi arricchire in caso di distruzione dei raccolti per inquinamento, catastrofi ambientali o attacchi terroristici. E Larry Fink, il capo di BlackRock, che con 3.500 miliardi di dollari amministrati è il maggior gestore mondiale di patrimoni, taglia corto beffardo: «Investite sull’agricoltura e sull’acqua e poi andatevene in spiaggia» .
Nota: a questo link un po' di informazini ulteriori a proposito del fenomeno del Land Grabbing (f.b.)
Le aree metropolitane continuano ad espandersi in superficie e popolazione, e si aggregano a comporre entità uniche dal punto di vista economico, politico, e anche sociale, note come “conurbazioni” e per cui è usato anche il termine di “megalopoli”
Una delle più grandi conurbazioni del mondo si trova sulla Costa Orientale degli Stati Uniti, chiamata Atlantic Seaboard Conurbation. ASC si estende su oltre 1.000 chilometri a comprendere poli economici politici e culturali quali Boston, Massachusetts; New York, stato di New York; Filadelfia in Pennsylvania; Baltimora in Maryland; Washington, District of Columbia.
La foto dallo spazio comprende tutte le aree metropolitane di ASC tranne quella di Boston (fuori dallo scatto verso nord-est). L’immagine evidenzia posizione e dimensioni delle regioni metropolitane grazie all’illuminazione. Nascita e crescita delle conurbazioni si devono alle reti di trasporto – ferrovie, autostrade, rotte aeree – per spostare materie prime, prodotti, persone fra le varie città.
Ci sono altre due aree metropolitane comprese nello scatto — quella di Norfolk e di Richmond, Virginia, nella parte inferiore — che non vengono però considerate parte di ASC.
Nulla di sostanziale è cambiato con l'approvazione definitiva del decreto omnibus, che contiene lo «scippo» del referendum sul nucleare. Già sapevamo che non c'erano le condizioni di necessità ed urgenza previste dalla Costituzione, come ribadito da un appello di giuristi ed intellettuali, pubblicato sul sito www.siacquapubblica.it e sottoscritto da quasi 8000 persone (si può ancora farlo). E già sapevamo che la sospensione del piano energetico altro non è che un tentativo furbesco di depotenziare la tornata referendaria del prossimo 12 e 13 giugno, che proverà ad assestare il colpo del ko ad un governo già traballante. Prevedibile era anche il voto di fiducia, date le condizioni sgangherate di una maggioranza parlamentare che non è in grado di affrontare alcuna discussione nel merito dei problemi.
Del resto, era stato proprio un voto di fiducia, quello con cui era stato approvato alla Camera il decreto Ronchi lo stesso giorno in cui in Senato veniva presentata la proposta di legge della Commissione Rodotà, a costringerci al referendum sull'acqua bene comune. Mentre sarebbe stata necessaria una discussione seria sulla strutturazione giuridica del nostro patrimonio pubblico e dei nostri beni comuni, ecco che il governo tentava il saccheggio definitivo di acqua e servizi pubblici.
Neppure imprevedibili erano le scorrettezze del governo per scongiurare scongiurare dei referendum temuti perché rappresentano la prima risposta istituzionale di rango costituzionale, in un paese occidentale, espressamente contraria al modello di sviluppo neoliberista. Una tornata referendaria contro l'ideologia delle privatizzazioni e la concentrazione del potere tipica di un modello di sviluppo fondato su grandi opere inutili e dannose come le centrali nucleari non poteva che scatenare ogni sorta di interesse contrario. Se a questo si aggiunge, in salsa italica, una battaglia per la sottoposizione alla legge del Presidente del Consiglio, non può sfuggire il significato politico potenzialmente dirompente della partita che abbiamo aperto.
In una prima fase Ronchi e Tremonti hanno cercato di far credere che fosse stata l'Europa ad averci dettato la privatizzazione dell'acqua e che quindi i referendum non fossero ammissibili. Questa tesi sfidava il buon senso, visto che in Francia si è ripubblicizzato e in Olanda da sempre si usa un modello pubblico partecipato. Sconfitta questa tesi alla Corte Costituzionale, il governo ha investito 350 milioni di euro per far fallire il quorum, rifiutando l'accorpamento con le amministrative. Non pago dello sperpero, dopo l'incidente atomico di Fukushima, che aveva trasformato il referendum sul nucleare nel vero traino dell'intera operazione quorum, ha posto in essere una campagna, anche mediatica, fatta di un mix fra silenzio e mistificazione della realtà.
Tuttavia l'effetto boomerang del tentativo truffaldino di scippo referendario inserito nel decreto omnibus è stato evidente. Oltre all'appoggio ufficiale del Pd, abbiamo incassato quello, molto importante, del mondo cattolico e forse perfino della Lega. Un sostegno naturale, quest'ultimo, vista la brutale centralizzazione del potere operata dalla legge Ronchi, che toglie ai territori ogni possibilità di scelta su come gestire acqua e servizi pubblici.
Adesso la palla è nel campo del Presidente della Repubblica, e soltanto se lui firmerà subito dovrà poi pronunciarsi l'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione. A costo di essere accusati, come si usa fare oggi con chi pretende che il Presidente tuteli sempre la Costituzione, di «tirare per la giacca Napolitano», mi sento di chiedergli di non firmare e di cogliere quest'occasione per «chiedere alle Camere una nuova deliberazione» (art. 74 Cost.). Il supremo garante dovrebbe rinviare loro il decreto omnibus con un messaggio che chiarisca il senso della locuzione «in casi straordinari di necessità e di urgenza» (art. 77 Cost.) e soprattutto il significato costituzionale del voto di fiducia. Questa sarebbe una buona azione costituzionale, che salverebbe il referendum sul nucleare e darebbe una nuova lezione di diritto costituzionale ad una maggioranza restia ad apprenderlo.
In caso contrario, dovrebbe essere la Cassazione a scongiurare il saccheggio della democrazia. Gli alti giudici potranno farlo semplicemente seguendo i precedenti orientamenti, secondo cui è allo spirito e non solo alla lettera della norma che devono guardare nel decidere se il referendum sia superato da un successivo provvedimento legislativo. In questo caso tanto lo spirito quanto la lettera del decreto omnibus dimostrano che esso non rende il referendum superfluo perché di mera moratoria si tratta.
MILANO - «Salvate il soldato Pgt». La lobby del cemento lombarda è sul piede di guerra. Il suo alleato di ferro, Letizia Moratti, barcolla. E con lei rischia di andare in fumo l’affare del secolo per il claudicante partito del mattone meneghino: il Piano di Governo del territorio (Pgt). Il libro mastro destinato a cambiare il volto di Milano approvato, in zona Cesarini, dalla giunta uscente. Il business è da sogno: 18 milioni di metri cubi di nuove costruzioni entro il 2030. Quasi 160 nuovi Pirelloni che, uno sopra l’altro, formerebbero una torre di 20 chilometri. «Il provvedimento più importante del mandato», dice il sindaco uscente. Valore 70 miliardi. Una montagna d’oro che la variabile Pisapia rischia di far svanire nel nulla e che ha convinto le associazioni di settore a lanciare un "mayday" bipartisan: «Rivolgiamo un pressante invito – ha scritto l’Assimpredil – perché il Pgt entri in vigore immediatamente e senza modifiche».
«Siamo preoccupati», ha detto ieri il presidente dei costruttori milanesi Claudio De Albertis nell’incontro convocato d’urgenza con i due candidati: «Con noi il Pgt sarà legge a giugno – l’ha rassicurato Moratti –. Bloccarlo vuol dire bloccare la città per quattro anni e perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro». L’architetto Stefano Boeri ha spiegato invece i piani di Pisapia: «Non vogliamo cancellare il Pgt, ma ne vanno rivisti alcuni punti sostanziali. Faremo una variante nel più breve tempo possibile: si può».
I timori degli immobiliaristi meneghini sono comprensibili. L’asse di ferro con il sindaco ha dato negli ultimi anni ottimi risultati. E il via libera al super-piano sarebbe la ciliegina sulla torta, nata tra l’altro da un’esigenza reale della città: Milano è senza piano regolatore dal 1980 e la sua mappa è un puzzle riscritto da allora solo dalla burocrazia degli uffici comunali. Zero progetti. Nessuna regia. Una svolta, insomma, serviva. Peccato però che dal cilindro di Moratti sia uscita la medicina sbagliata, destinata a curare non i guai urbanistici della metropoli ma quelli «delle lobby di immobiliaristi che tengono in ostaggio il sindaco», come dice senza troppi giri di parole la cognata Milly.
Il diavolo, più che nei dettagli, è nei presupposti. «Dobbiamo ridensificare la città» è il mantra di Carlo Masseroli, assessore ciellino e padre nobile del piano. Obiettivo: portare la popolazione da 1,3 a 1,7 milioni. Il Comune ha individuato 26 aree (tra cui cinque caserme e sette scali ferroviari) destinate a cambiare volto. E per far spazio ai nuovi milanesi, ha rivisto i coefficienti di edificabilità in vista di una colata di cemento che è oro zecchino per le casse asfittiche degli immobiliaristi meneghini.
Prendiamo via Stephenson, zona Nord, dove svettano semi-vuote cinque torri del gruppo Ligresti. Qui sorgerà la Defènse di casa nostra. Cinquanta grattacieli nuovi di zecca, resi possibili da un indice volumetrico da anti-doping di 2,7 (sotto il 5,4 della gemella parigina, si difende Masseroli). Destinati – ça va sans dire – a rilanciare le quotazioni delle cattedrali nel deserto dell’ingegnere di Paternò. Sono edifici che servono davvero? Il problema è proprio qui. «Milano ha perso 500mila abitanti dal 1980», calcola il sociologo Guido Martinotti. Invertire la tendenza è difficile. A meno di non pescare tra i cultori delle polveri sottili, uno dei pochi campi in cui la città non ha nulla da invidiare al resto d’Europa. Di più: la regione Lombardia stimava in 325mila i vani residenziali sfitti in provincia nel 2009. E a Milano ci sono 900mila metri quadri di uffici vuoti. Come dire trenta Pirelloni.
Oltre alla pioggia di cemento, l’altro regalo agli immobiliaristi si nasconde dietro la famigerata "perequazione". Nel mondo capovolto del sindaco, il concetto si declina così: «Il Pgt ha salvato il Parco Sud». Vero. Ma come? Regalando a Ligresti – che da anni comprava cascine nel parco a prezzi stracciati – la possibilità di cederle al Comune in cambio di ricchi volumi di edificabilità da utilizzare in altre aree.
Moratti respinge le critiche: il Pgt, spiega, garantisce flessibilità. Azzerando ogni regola sulle destinazioni d’uso e sui limiti di edificabilità, come accusano tra gli altri Gae Aulenti, Giulia Maria Crespi, Marco Vitale e Guido Rossi. Il piano, continua il sindaco, crea 30mila case a prezzi calmierati e aree verdi pari a 120 volte il Parco Sempione. Peccato che il cemento sia pronto per essere gettato. Mentre dei 14 miliardi necessari per i servizi ne mancano all’appello, ammette il Pgt, ben 9.
La lobby del cemento attende ora l’esito del ballottaggio con il fiato sospeso. A farle compagnia ci sono i proprietari dei magazzini di via Airaghi trasformati in appartamenti. Tra cui Gabriele, figlio del sindaco, e la sua Bat-casa. Anche loro, come tutti i 5mila "furbetti del loft" meneghini, potranno condonare. Grazie al provvidenziale colpo di spugna del Pgt.
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Francesco Erbani. Dal Pirellone all´Eur tolte le tutele palazzi storici a rischio svendita
Salvatore Settis. La privatizzazione di un patrimonio
Dal Pirellone all´Eur tolte le tutele palazzi storici a rischio svendita
di Francesco Erbani
Un comma cambia la legge sugli edifici fatti tra il 1941 e il ´61 - Molte fra le migliori architetture del Novecento risalgono proprio al dopoguerra
Da cinquanta a settant´anni. Ora dovranno avere vent´anni di più gli edifici pubblici in Italia se vogliono godere di una particolare protezione. E non essere venduti oppure manipolati. Lo stabilisce un minuscolo comma di un articolo del Decreto Sviluppo, lo sterminato provvedimento che contiene dalla moratoria nucleare alla concessione delle spiagge. E così, anche se firmato da Pier Luigi Nervi, come il Palazzo dello Sport a Roma o da Gio Ponti, come il grattacielo Pirelli, da Giancarlo De Carlo o da Luigi Figini e Gino Pollini, da Mario Ridolfi o da Franco Albini, un edificio pubblico costruito fra il 1941 e il 1961 rischia un po´ di più rispetto a prima del decreto.
La norma è complessa, scritta in un italiano aggrovigliato. Sono in allarme le soprintendenze, ma anche Italia Nostra, gli Archivi di architettura contemporanea e Docomono, l´associazione che salvaguarda edifici e complessi urbani moderni. L´attenzione è alta: chi ha infilato questo comma nel grande convoglio del decreto sembra voglia rendere più agevole la vendita di edifici che altrimenti, prima di passare di mano, dovrebbero essere sottoposti al vaglio della soprintendenza. Ma i pericoli sono anche altri: restauri poco accorti, manomissioni, fino alla demolizione.
L´articolo («Costruzione delle opere pubbliche») dovrebbe modificare il Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004. La filosofia è quella di «riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale e di semplificare i procedimenti amministrativi relativi a interventi edilizi». Deregulation spinta, dunque. Nell´articolo si aggiunge che gli snellimenti sono possibili nei comuni che si adeguano ai piani paesaggistici regionali. Norma equivoca, fanno notare in alcune soprintendenze: i piani paesaggistici c´entrano poco con questo genere di edifici. Inoltre, si aggiunge, la separazione fra beni pubblici e privati è culturalmente poco sensata e si spiega solo perché rende più agevole la vendita dei primi.
Una parte del migliore patrimonio novecentesco potrebbe essere meno salvaguardato. Qualche anno fa un gruppo coordinato dallo storico dell´architettura Piero Ostilio Rossi propose una schedatura degli edifici romani novecenteschi di pregio. Molti quelli realizzati proprio fra il ´41 e il ´61: il Palazzo dei Congressi dell´Eur di Adalberto Libera, il Palazzo che ospita la Fao, il Monumento delle Fosse Ardeatine, la Stazione Termini e poi il Palazzo dello Sport, il Palazzetto dello Sport e lo Stadio Flaminio di Nervi. Anche il ministero ha in corso un censimento: dal dopoguerra al 2005 sono quasi 300 in Italia gli edifici di rilevante valore. Spiega Carlo Olmo, professore a Torino: «L´architettura italiana fra la fine della guerra e gli anni Cinquanta è un riferimento per altri paesi». Il Novecento è il secolo nel quale è sorto dall´80 al 90 per cento di tutto quel che oggi vediamo costruito. E nel secondo dopoguerra la speculazione ha dettato le regole per la crescita delle città e ha prodotto pessime architetture. Ma, sottolinea Olmo, in quei vent´anni si realizzano edifici e quartieri pubblici «che sono una maglia fondamentale nel tessuto cittadino e la cui manomissione produce squilibri nell´organismo urbano». Singoli edifici, dunque, scuole, stazioni, ponti, ma anche edilizia popolare come il Qt8 a Milano di Piero Bottoni o gli interventi dell´Ina-Casa (350 mila alloggi dal 1949 al 1963), dal Tiburtino a Roma (dove lavorarono Ridolfi, Carlo Aymonino, Carlo Melograni, Ludovico Quaroni e altri) alla Falchera di Torino (Giovanni Astengo) a Cesate (Albini, Ignazio Gardella e i BBPR di Belgiojoso, Peressutti e Rogers), dove oltre alle case ci sono chiese, asili e altri manufatti pubblici. Su buona parte di questi edifici la tutela sarà da ora più debole.
La privatizzazione di un patrimonio
di Salvatore Settis
Lo stesso decreto rende meno vincolanti le autorizzazioni paesaggistiche
Contrabbandata fra le «Disposizioni urgenti per l´economia» del decreto-legge 70 del 13 maggio, prosegue l´escalation del governo contro la tutela del paesaggio e dell´ambiente, contro la Costituzione che ne è (o dovrebbe essere) garanzia suprema. La cannibalizzazione del territorio non si limita alle disposizioni "ammazza coste" che di fatto consegnano ai privati ampie e preziose porzioni di territorio che appartengono a noi tutti. Nel decreto c´è di più, e di peggio. Per esempio, l´articolo 4 porta a 70 anni la soglia «per la presunzione di interesse culturale degli immobili pubblici», che fu fissata a 50 anni dalla legge Nasi del 1902 e tale è rimasta fino al Codice Urbani del 2004. Che cosa può voler dire una differenza di vent´anni? Semplice: un edificio del 1943 come il Palazzo della Civiltà del Lavoro a Roma-Eur (il "Colosseo quadrato"), oggi presuntivamente di interesse culturale, con la nuova norma diventa disponibile per alienazioni, cartolarizzazioni, ristrutturazioni. Edifici degli anni Cinquanta potrebbero essere privatizzati senza verifiche dal "tana-libera-tutto" del nuovo decreto.
Ci vuol poco a fiutare dietro questa norma l´ombra sinistra del "federalismo demaniale", che consegna a regioni e comuni le proprietà del demanio nazionale (cioè di noi tutti), invitando gli enti locali a "valorizzare" chiese e palazzi, cioè a venderli, anzi (come già si sta vedendo) a svenderli, privatizzando al ribasso. E infatti il comma 16 dello stesso articolo agita la bandiera del federalismo demaniale per coprire con una spolveratina di zucchero un altro boccone avvelenato. Il limite per la verifica di interesse culturale viene portato a settant´anni non solo per gli immobili pubblici, ma anche per quelli degli enti ecclesiastici ed assimilati (come il Pio Albergo Trivulzio), con conseguente certa dispersione degli arredi. Si aprono così le danze di ulteriori affari per gli amici degli amici, incrementando festeggiamenti e brindisi nelle botteghe di mercanti pronti al saccheggio.
Come scusante di altre privatizzazioni si invocò in passato la pubblica vigilanza su edifici di interesse culturale, poiché una norma già presente nella legge Bottai del 1939 e ripresa dal Codice Urbani (articolo 59) prescrive che il proprietario debba comunicare al Ministero «ogni atto che ne trasmetta in tutto o in parte la detenzione». Niente paura, il governo ha pensato anche a questo: questa norma viene semplicemente soppressa (art. 4, c. 16, nr. 4 del decreto), cestinando la fastidiosa ipotesi che le Soprintendenze, sapendo chi ha in mano un immobile storico, possano verificarne la conservazione. Potremo così sventrare impunemente palazzi del Seicento, trasformare chiese in discoteche e conventi in supermercati o condominii, senza che nessuno ci metta il naso. Già depotenziata per l´assenza di risorse e il calo di personale, la pubblica amministrazione della tutela viene in tal modo inceppata rendendo di fatto impossibile ogni vigilanza.
Il punto più basso del decreto-legge è però un altro. Nello stesso art. 4 c. 16, e sempre «per riconoscere massima attuazione al federalismo demaniale», il decreto introduce una "semplificazione" che capovolge la lettera e il senso del Codice Urbani su un punto di capitale importanza, la tutela del paesaggio. Secondo il Codice (art. 146, c. 5), il parere del Soprintendente sulle autorizzazioni paesaggistiche è "vincolante" in prima applicazione, ma diventa solo "obbligatorio" una volta che i vincoli paesistici siano stati incorporati negli strumenti urbanistici e di piano. Applicando al parere del Soprintendente il silenzio-assenso, il decreto cancella anche questa salvaguardia. Viene così calpestato il principio (sempre affermato dalla legge 241 del 1990 ad oggi) secondo cui il silenzio-assenso non può mai riguardare beni e interessi di valore costituzionale primario come il patrimonio storico-artistico e il paesaggio. Principio riaffermato dalla Corte Costituzionale, secondo cui in materia ambientale e paesaggistica «il silenzio dell´Amministrazione preposta non può aver valore di assenso» (sentenze 26 del 1996 e 404 del 1997).
La nuova norma, se non fermata in tempo, avrebbe natura eversiva, poiché capovolge la gerarchia fra un principio fondamentale della Costituzione (art. 9: «La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico artistico della Nazione») e la libertà d´impresa che l´art. 41 garantisce purché non sia «in contrasto con l´utilità sociale», nel nostro caso rappresentata dalla conoscenza, tutela e fruizione pubblica del patrimonio culturale e del paesaggio. Si darebbe così per approvata la modifica dell´art. 41 periodicamente sbandierata dal governo e appoggiata da Confindustria, ma neppur discussa dalle Camere, secondo cui «gli interventi regolatori dello Stato, delle Regioni e degli Enti locali che riguardano le attività economiche e sociali si informano al controllo ex post». In questa proposta di controllo postumo, che equivarrebbe di fatto all´azzeramento di ogni controllo, è la radice del silenzio-assenso elevato a principio assoluto: in una Costituzione immaginaria, non nella Carta vigente, la sola a cui dobbiamo rigorosa fedeltà.
Scardinare i principi della tutela e dell´utilità sociale è una bomba a orologeria sganciata sulla Costituzione, in cui questi principi sono saldamente ancorati a una sapiente architettura di valori. Si legano al forte richiamo al «pieno sviluppo della personalità umana» (art. 3), coi connessi valori di libertà e di eguaglianza dei cittadini; si legano ai «diritti inviolabili dell´uomo» connessi alle «formazioni sociali dove si svolge la sua personalità» e ai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). La convergenza fra tutela del paesaggio (art. 9) e diritto alla salute «come fondamentale diritto dell´individuo e interesse della collettività» (art. 32) ha inoltre fondato la tutela dell´ambiente come valore costituzionale primario. In questo sistema di valori a difesa del cittadino, la priorità dell´interesse pubblico non cancella, ma limita i diritti della proprietà privata.
Le cosiddette "disposizioni urgenti per l´economia" non sono pensate in beneficio del Paese, ma di pochi affaristi pronti a spartirsi il bottino, sperperando un portafoglio proprietario, quello dei beni pubblici (come le coste e le spiagge) e degli immobili pubblici, ma anche dei paesaggi e dei monumenti soggetti a tutela, devastato da uno sgangherato "federalismo demaniale". Esso non è, come ha detto il presidente del Veneto Zaia, la «restituzione ai legittimi proprietari» di beni indebitamente sottratti da uno Stato-ladrone. Legittimi proprietari dei beni demaniali e dei beni pubblici (come l´acqua su cui siamo chiamati ora a votare) sono tutti gli italiani, "ladro" è semmai chi ci borseggia inscenando lo spezzatino del federalismo, in nome del quale nascono anche le norme più dirompenti del recente decreto-legge. Prima che esso venga convertito in legge, c´è tempo e modo di porvi rimedio.
Senza nulla togliere al merito grandissimo dei comitati per il referendum sull' acqua pubblica, credo che tanto il successo nella raccolta( di 1 milione e 400 mila firme) che la rapidità con cui essa è stata realizzata, nasconda ragioni prepolitiche che non ci devono sfuggire. C'è nel fondo della nostra cultura, e per così dire ancestralmente legata alla nostra esistenza, la convinzione che l'acqua, prima ancora di manifestarsi come “bene”, una risorsa economica, ci appartenga come esseri umani, che essa è nell'aria, sulla terra, nel nostro corpo. É dunque un elemento del mondo vivente, inseparabile da esso. Non solo il suo regime economico e giuridico, come ricordava nel XIX secolo il giurista Giandomenico Romagnosi, «non può essere regolato intieramente coi principi coi quali si dispone di un pezzo di podere o dell'area di una casa». Ma essa mostra altresì una universalità originaria nel processo della sua formazione che la distingue da gran parte delle altre le altre risorse naturali, rendendola moralmente incompatibile con la sua mercificazione. Il suo ciclo è un'opera gigantesca e completamente gratuita, realizzata dal sole, che solleva le acque degli oceani e quelle sparse nel pianeta e le redistribuisce purificate in forma di pioggia. Senza alcun intervento umano. Solo il momento terminale del convogliamento e della loro ripartizione necessita di un intervento tecnico e comporta dei costi. E solo questi costi dovrebbero essere sostenuti dagli utenti, equamente distibuiti, per avere a casa un bene che viene gratuitamente dal cielo. Mentre oggi, com’è noto, le grandi corporations dell'acqua pretendono e riescono a lucrarci profitti ingenti.
Non stupisce, dunque, il fatto che i cittadini boliviani di Cochabamba siano esplosi in una rivolta, nel 1999, quando la statunitense Bechtel (e altre multinazionali) imposero loro speciali licenze per potere accedere addirittura all'uso dell' acqua piovana. Perfino l'acqua senza costi, piovuta per l'appunto dal cielo, doveva entrare nel processo di valorizzazione del capitale, secondo la nuova furia predatrice che oggi anima questo modo di produzione.
Ma l'idea della mercificazione dell'acqua, anche quella distribuita dalle condotte, ripugna anche a noi italiani in quanto cittadini, abitatori da secoli di spazi urbani. Ci si fa poco caso, tanto fa parte della nostra consuetudine e del nostro sguardo quotidiano. Ma le nostre città sono disseminate di fontane pubbliche, dove l'acqua scorre liberamente, a disposizione del passante. In alcune delle nostre città – si pensi a Roma – le fontane si ammirano oggi per l'originalità e la bellezza delle fogge architettoniche, ma se ne dimentica la funzione originaria. Le fontane, l'acqua corrente per tutti, facevano parte non solo dell'arredo estetico e sociale delle città, ma ne incarnavano una funzione fondamentale: quella dell'accoglienza, del ristoro al viandante, dell'ospitalità pubblica data a tutti. Ricordo ancora, dei miei vecchi studi su Venezia, una ordinanza del Comitato di Sanità della città, del 22 giugno 1797, la quale faceva obbligo a «tutti i Cittadini aventi Botteghe» di tenere «tutto il giorno in un sito esposto sulla pubblica Strada una Mastella di Acqua dolce e netta», per dissetare i numerosi cani randagi che giravano per le vie cittadine. Anche le città piccole e medie del Sud si sono storicamente fornite di fontane pubbliche, che nelle estati torride di quelle terre svolgevano una funzione sociale importante. Nella memoria della mia infanzia, al centro del quartiere di Sant'angelo, a Catanzaro, campeggia una fontana dove le sere d'estate le famiglie che abitavano nei bassi mettevano a fresco il cocomero.
Questo carattere di bene comune dell'acqua, inscritto per così dire nella storia secolare delle nostre città, sta nel fondo del nostro immaginario, come il nostro rapporto con il cibo, con il sole mediterraneo. Ebbene, io credo che nella lotta per promuovere il referendum sino al 12 giugno .a dispetto di tutte le incertezze che gravano sulla sua celebrazione - bisogna avere la consapevolezza di questo prerequisito antropologico che lega il comune sentire degli italiani nei confronti di questo bene primario. É una base di partenza da valorizzare nello sforzo di raggiungere il quorum. Ma è anche la base per fare della campagna referendaria l'occasione di uno sforzo pedagogico di massa su che cosa sono i beni comuni. Lo stesso referendum contro il nucleare si inscriverebbe in questa prospettiva, perché volto a difendere la salubrità dell'aria e della terra dalla radioattività, a promuove l'utilizzo del sole e del vento, beni comuni illimitati. É questo il terreno solido e dischiuso sino all'orizzonte, su cui si può impostare la critica più popolare ed egemonica al capitalismo del nostro tempo, abbozzando al tempo stesso i lineamenti concreti di un diverso modo di produrre consumare, disporre delle cose. É una pedagogia che può ricorrere anche a solidi argomenti economici, che tutti noi dovremmo sforzarci di porre in evidenza nelle prossime settimane. É facilmente prevedibile, ad esempio, che la privatizzazione dell'acqua farà aumentare le tariffe. Ora, questo avverrà in un contesto economico che, come tutti sanno, è di feroce pressione sui redditi delle famiglie. Mentre la politica dell'UE si modella su una cieca politica deflattiva, con tagli sempre più dolorosi allo stato sociale, le tariffe dei servizi essenziali aumentano (luce e gas) insieme a tanti altri servizi comunali e nazionali, fatti lievitare dall'inflazione. Gli aumenti tariffari piovano sulla testa dei cittadini, senza che essi possano opporsi in alcun modo. Il referendum è in questo caso l'unico strumento a portata dei cittadini per impedire che un ulteriore aggravio si abbatta ben presto sulle loro limitate economie.
All'ampiezza di queste ragioni e motivazioni dovrebbe oggi corrispondere uno sforzo collettivo dell'intera sinistra per vincere questa grande partita. Molti hanno già sottolineato quale svolta politica e culturale potrebbe determinare una conclusione vittoriosa dei referendum. Ma vista la posta in palio, io credo che lo sforzo organizzativo necessiti non solo di uno impegno straordinario di mobilitazione. Spesso la nostra debolezza politica è anche il risultato delle mille cause che quotidianamente sposiamo, disperdendo le nostre energie. In questo mese dovremo essere più freddi e selettivi. Sarà allora necessario inventare forme di protesta originali, come quelle ideate da precari e studenti, già lo scorso anno, in grado di richiamare l'attenzione dei media, di obbligarli a parlare di eventi vendibili al loro pubblico di consumatori. Occorre che i nostri giovani volontari siano presenti con cartelli semplici davanti ai supermercati, ai mercatini e ai luoghi di maggiore concentrazione. E, a mio avviso, non dovrebbero mancare, nei vari angoli delle città, i banchetti dell'acqua: quelli stessi dove si sono raccolte le firme, che siano forniti di acqua da offrire ai passanti, con cui intrattenersi sui temi dei referendum. L'acqua pubblica della solidarietà, della nostra civiltà urbana. E gli studenti protagonisti delle lotte degli ultimi mesi dovrebbe organizzare simili presidi nelle scuole e nelle Università.
Io credo, che il raggiungimento del quorum può essere il risultato di una mobilitazione speciale, quale fu quella contro la guerra in Iraq nell'inverno-primavera del 2003. Ricordiamo tutti i drappi multicolori appesi alle nostre finestre e ai nostri balconi. Bisogna fare altrettanto per i referendum, lenzuola e drappi bianchi che invitino a votare si. Si può fare perché come allora la pace – non oggi, purtroppo - anche l'acqua pubblica accomuna, ricuce le nostre eterne divisioni, e la stessa mobilitazione può costituire l'occasione per fare prove di unità tra le forze della sinistra. Quell'unità che ci darebbe tante possibilità di vittoria, se fosse davvero seriamente ricercata. Quell'unità che nasce dall’adesione agli effettivi bisogni popolari, al reale interesse generale.
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1. La perequazione urbanistica: uno strumento potenzialmente benefico (a certe condizioni)
L’istituto della perequazione urbanistica - integrato nella legge urbanistica lombarda a quello della compensazione all’interno di processi ormai generalizzati di negoziazione fra pubblico e privato – costituisce uno strumento potenzialmente benefico e utile di gestione delle trasformazioni urbane. Con esso si intende riferirsi alla attribuzione di un indice lordo di edificabilità omogeneo all’interno di ampie zone di trasformazione individuate dal piano, con contestuale concentrazione dell’effettiva edificabilità su singole sub-aree e cessione gratuita di altre aree al Comune.
Gli obiettivi, e i relativi benefici, potenzialmente ricavabili dalla utilizzazione di questo istituto possono essere così sintetizzati:
- un beneficio di efficienza allocativa e di efficacia urbanistica, raggiunto attraverso un migliore disegno urbano, con concentrazione dell’edificato in alcune aree e destinazione di aree consistenti a verde e servizi;
- un beneficio di equità nel trattamento degli interessi privati, raggiunto attraverso l’indifferenza privata alle decisioni selettive di piano;
- un beneficio di carattere finanziario, poiché evita il ricorso a lunghe e costose procedure di esproprio per pubblica utilità e costose transazioni fra privati;
- un beneficio di carattere fiscale, nel senso di una supplenza alla mancata riforma della tassazione dei plusvalori della trasformazione urbana attraverso la fissazione negoziata di cessioni di aree ed extra-oneri.
Nel dibattito sulla riforma urbanistica, nazionale e delle Regioni, e nella pratica di pianificazione, la perequazione ha assunto via via, grazie all’interesse per questi benefici potenziali, la caratteristica di strumento utile e salvifico in tutte le occasioni e in tutte le sue coniugazioni. Niente di più sbagliato, naturalmente! Esistono infatti condizioni ben precise perché esso conduca effettivamente ad esiti positivi:
- che esso sia accoppiato a un disegno razionale e lungimirante di pianificazione e di disegno urbano;
- che esso sia utilizzato per realizzare un trattamento uguale e perequato di interessi uguali, di fatto e di diritto, e dunque che l’indice unico di edificabilità sia attribuito ad aree di simile valore intrinseco (in termini di qualità urbanistica e ambientale, di accessibilità), e dunque su comparti limitati e non sull’intera città. Scrivevo alcuni anni or sono, commentando la proposta dell’Istituto Nazionale di Urbanistica sulla perequazione: “allorché, nella realizzazione di un grande progetto di trasformazione su un’area centrale, si include in un medesimo comparto, e si attribuisce un medesimo indice volumetrico potenziale a un’area sub-centrale o a un’area periferica, di qualità urbanistica assai inferiore, si eguaglia artificialmente il plusvalore realizzato sulle due aree, pur in presenza di valori storici (e dunque anche di eventuali costi di acquisto) differenti. Ciò genera un vantaggio ingiustificabile per una parte, e una nuova sperequazione, fonte di nuovi arbitrî e pratiche speculative” (Camagni, 1999, p. 337);
- che esso sia utilizzato in modo trasparente nella negoziazione fra pubblico e privato sulle modalità dello scambio, o meglio del baratto, fra volumetrie di edificabilità da una parte e cessione di aree e altre monetizzazioni dall’altra. La trasparenza non deve fermarsi ai dati fisici, perché mq di superfici fondiarie o di pavimento hanno un valore assai differenziato all’interno della città, come tutti ben conoscono;
- che la negoziazione fra pubblico e privato avvenga nelle migliori condizioni di informazione e di capacità contrattuale da parte dell’organo pubblico, e dunque soprattutto attraverso la messa in competizione fra progetti differenti di sviluppo sulle aree urbanisticamente più rilevanti.
2. La perequazione nel PGT di Milano: tutte le condizioni violate.
La perequazione urbanistica così come proposta e adottata dal Comune di Milano nel luglio 2010 viola tutte queste condizioni per un esito operativo favorevole.
Innanzitutto, il meccanismo di attribuzione di diritti volumetrici sul territorio comunale prevale, anzi sostituisce quasi completamente, il processo di definizione e di valutazione delle trasformazioni desiderabili e sostenibili. Al di là di un disegno di alcuni elementi strutturali della maglia del verde e delle infrastrutture, tutta l’amplissima trasformazione consentita appare totalmente priva di ogni regola morfologica (salvo nella parte storica) e funzionale. “Le destinazioni funzionali sono liberamente insediabili, senza alcuna esclusione e senza una distinzione e un rapporto percentuale predefinito” (PdR, art. 5.1); il passaggio dall’una all’altra delle destinazioni funzionali con opere e senza opere edilizie è sempre ammesso” (PdR, art. 5.2); quanto alla disciplina degli interventi edilizi ammessi nelle diverse tipologie di aree del tessuto urbano consolidato, successivamente alla proposta di alcune indicazioni morfologiche si ripete che “resta salva la facoltà di procedere con modalità diretta convenzionata relativa alle soluzioni plano-volumetriche qualora l’intervento (del privato) si discosti dalle previsioni dei precedenti commi” (PdR, art. 13.4, 15.7, 17.3); cioè, si può sempre mettersi d’accordo.
L’unico obiettivo della pianificazione appare solo quello quantitativo: l’obiettivo, totalmente irresponsabile, di consentire espansioni edilizie tali da poter accomodare 257.946 nuovi abitanti (sugli attuali 1,3 milioni). Le indicazioni “politiche” che hanno accompagnato l’iter del Piano sono state ancor più compiacenti: mezzo milione di nuovi abitanti! Ed esse evidentemente hanno lasciato un segno, al di là della cifra formale, se una attenta analisi, effettuata dalla Provincia di Milano, delle previsioni di sviluppo urbanistico-edilizio ha evidenziato un macroscopico sovradimensionamento dell’offerta, capace di ospitare verisimilmente oltre 600.000 nuovi abitanti (Provincia di Milano, 2010; Botto, 2010).
Si è realizzato l’auspicio formulato da Maurizio Lupi, già assessore allo sviluppo del territorio di Milano, nel corso del dibattito sulla riforma della legge nazionale di governo del territorio: che il piano urbanistico divenga “”una sorta di banca dei diritti di edificazione commerciabili nell’ambito di una filiera di interessi pubblici da perseguire” (Lupi, 2005, p. 31). Effettivamente l’impressione è proprio quella di un catalogo di premi volumetrici accordati, che prevalgono su una rete tenue di interessi pubblici.
In secondo luogo, la costruzione della città pubblica, per quanto riguarda le grandi reti infrastrutturali e del verde, trova certamente uno strumento ragionevole, in termini finanziari, nella attribuzione dell’indice unico di edificabilità alle aree destinate a questi usi (PdS, Art. 5.2-3), ma si scontra con alcune difficoltà e alcuni limiti vistosi. Se da una parte è vero che il diritto edificatorio consente ai privati di ottenere un valore monetario a fronte della cessione delle aree al Comune, e che il Comune stesso, sulle aree di sua proprietà, può ottenere gli stessi vantaggi economici, come fosse un privato, vendendo i diritti, manca d’altra parte la garanzia della necessaria sincronia temporale nelle cessioni per poter davvero realizzare i detti servizi. Inoltre, nelle transazioni di trasferimento dei diritti attribuiti al di fuori di queste aree, manca totalmente un canale certo per ottenere nuove risorse o cessioni gratuite al Comune, il tutto essendo delegato a eventuali negoziazioni pubblico/privato. E la tradizione milanese recente insegna che tali negoziazioni hanno portato solo limitatissimi vantaggi al pubblico, nella forma di extra-oneri pari a un 1-1,4% del valore di mercato dei volumi realizzati (Camagni, 2009).
In terzo luogo, se si propone (finalmente) una maggiore trasparenza sulle condizioni della negoziazione (PdR, art. 11.10), scompare ogni accenno alla messa in competizione di progetti differenti.
In quarto luogo, per effetto della scelta di attribuire un unico indice di edificabilità a tutti gli ambiti del Tessuto Urbano Consolidato (0,5 mq/mq, aumentabile a certe condizioni fino a 1mq/mq) e cioè diritti edificatori trasferibili in tutta la città consolidata (PdR, art. 6.1 e 7.5), si perde ogni garanzia di concentrazione e di razionalità urbanistica delle nuove edificazioni, che restano legate alla casualità di decisioni individuali non vincolate (Pogliani, 2011).
Inoltre, ed è ancora più grave, scompare ogni possibilità di perseguire una equità vera, in quanto diritti maturati su aree diverse, a diverso valore, possono essere trasferiti e utilizzati su aree a maggiore centralità e maggiore pregio. Un istituto perequativo nato per generare equità, e riproposto nel Piano delle Regole di Milano con questo obiettivo (“la perequazione attua il principio di equità”, PdR. Art. 7.2), genera un trattamento eguale di condizioni diseguali.
Tre considerazioni fortemente critiche si possono avanzare al proposito, che mettono in dubbio la stessa accettabilità giuridica delle norme che regolano i processi perequati:
a. tutti i piani urbanistici generano processi di valorizzazione fondiaria, ma sono tenuti a darne giustificazione. Con quale considerazione si giustifica a Milano la creazione artificiale di valori attribuiti selettivamente, ad esempio laddove si dice che i servizi privati (anche religiosi) non consumano diritti edificatori, che possono essere realizzati in loco o trasferiti? (PdS, art. 8.2-3)(Boatti, 2011).
b. quale prezzo di mercato può essere attribuito razionalmente a un diritto edificatorio che può essere utilizzato ovunque in città, e dunque in condizioni di ben diversa valorizzazione potenziale? Al di là del vantaggio ingiustificato attribuito al detentore di diritti capace di ottenere dal Comune convenzioni per edificazioni centrali (elemento che rischia di generare corruzione e trattamenti differenziati di operatori privati), e al di là della difficoltà di valutazione nelle compravendite private di diritti, quale prezzo potrà essere giudicato congruo e corretto quando sarà l’amministrazione pubblica a vendere?
c. Nei manuali di urbanistica e di economia urbana si afferma che, allorché la città si sviluppa fisicamente, i proprietari fondiari si appropriano di una rendita assoluta, che matura ai margini della città per effetto delle economie di agglomerazione e degli investimenti in infrastrutture urbane. Nel caso milanese di trasferimento di diritti edificatori, maturati alla periferia ma utilizzati al centro (o in aree privilegiate per accessibilità o qualità) il proprietario si approprierebbe sia di una rendita assoluta, presente in tutta la città, sia di una rendita differenziale, data dalla centralità o dalla qualità situazionale (Fig. 1c). Un bel risultato davvero per un piano che afferma di perseguire l’equità!
Bibliografia
Boatti G. (2011), “Milano PGT: i privati gestiscono tutto”, relazione presentata al Convegno Nazionale di Italia Nostra il 6 aprile, pubblicato su Eddyburg
Botto I.S. (2010), "La dimensione sovracomunale della pianificazione" in: Il PGT del Comune di Milano. Dalle procedure di adozione alla nuova urbanistica, I Convegni del Quotidiano immobiliare, Milano, 30 novembre
Camagni R. (1999), “Il finanziamento della città pubblica: la cattura dei plusvalori fondiari e il modello perequativo”, in F. Curti (ed.), Urbanistica e fiscalità locale, Maggioli, Ravenna, 321-342
Camagni R. (2008), “Il finanziamento della città pubblica”, in M. Baioni, La costruzione della città pubblica, Alinea, Firenze, 39-57
Lupi M. (2005), “Verso la riforma urbanistica”, in Mantini P., Lupi M., I principi del governo del territorio, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano
Pogliani L. (2011), “Urbanistica negoziale: scambio leale e interesse pubblico”, relazione presentata al Convegno su “Ricerca e governo del Territorio: riflessioni sul caso di Milano a partire dalla ricerca di Fausto Curti”, Politecnico di Milano, 15 aprile
Provincia di Milano (2010), Valutazione di compatibilità con il PTCP del Documento di Piano del PGT del Comune di Milano, Deliberazione della Giunta n. 559/2010
Proposta di emendamento soppressivo del comma 16 dell’art. 4 del d.l. 70/2011.
Le finalità delle, in verità contenute, modifiche al codice dei beni culturali e del paesaggio sono proclamate nell’incipit del comma 16 dell’art.4: “massima attuazione del federalismo demaniale” e semplificazione dei procedimenti di rilascio delle autorizzazione paesaggistica nei comuni che abbiano adeguato il loro strumento urbanistico alle rinnovate prescrizioni dei piani paesaggistici.
1. E per cominciare, a quest’ultimo riguardo, dalla modifica all’art. 146, comma 5, secondo periodo, rileviamo innanzitutto che, rispetto al testo che fu dapprima licenziato dal consiglio dei ministri, è rimasta ferma la previsione del parere obbligatorio (non vincolante, così voluto anche nella revisione 2008 del “codice”) della soprintendenza e l’unica innovazione è costituita dalla conclusiva integrazione del comma 5, che per presunzione considera favorevole il parere che non sia stato dato entro i novanta giorni dalla ricezione degli atti. E se è la semplificazione il fine della specifica modifica, esso è sicuramente tradito, perché il vigente comma 9 dello stesso art. 146 prevede che l’“amministrazione competente” (al rilascio della autorizzazione, nella quasi generalità i comuni delegati dalla regione) provveda “decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte della soprintendenza”, “in ogni caso”, pur se la soprintendenza non abbia reso il proprio parere. E dunque la modificazione allunga i tempi, introducendo per altro la presunzione in pratica irrilevante, ma inammissibile in linea di principio, che quella inerzia valga parere favorevole, come silenzio cui concettualmente non può essere invece attribuito valore di assenso, benché non precluda la conclusione del procedimento.
2. La finalità della modifica dell’art.10, comma 5, del “codice” (e conseguentemente dei successivi articoli 12, 54, 59) è sfrontatamente dichiarata: quella cioè di includere nell’automatismo dei trasferimenti dei beni immobili dello stato a regioni ed enti territoriali locali, come previsti nel decreto legislativo n.85 del 2010, anche quei beni che ne sarebbero esclusi perché considerati di interesse culturale dal “codice”, risalendo la loro esecuzione ad oltre cinquant’anni e cioè nel precedente ventennio. Sappiamo infatti, da un lato, che l’art. 10, comma 5, fissa al cinquantennio il limite temporale dell’interesse alla tutela e, dall’altro, che il decreto legislativo 85/2010 esclude dai previsti trasferimenti tutti i beni dello stato che facciano parte del patrimonio storico e artistico e dunque tutti quelli la cui esecuzione risalga oltre il cinquantennio, fermo il principio che l’interesse culturale dei beni pubblici si deve presumere quando non vi sia stato un espresso accertamento negativo al riguardo.
Ebbene, con la modifica del comma 5 dell’articolo 10 del “codice”, per tutti i beni immobili appartenenti non solo allo stato, ma ad ogni altro ente pubblico e a tutti gli enti privati non a scopo di lucro ivi compresi gli enti ecclesiastici, è elevato a settant’anni il limite temporale di appartenenza al patrimonio storico e artistico, contro il principio generale convenzionalmente posto dalla gloriosa legge Rava – Rosadi del 1909 e dunque consolidato da oltre un secolo nel nostro ordinamento della tutela e attraverso la sua coerente prassi attuativa. La disposizione innovativa è espressione di una palese irragionevolezza, perché introduce una arbitraria disparità di trattamento rispetto ai beni mobili appartenenti ai medesimi enti e ai beni immobili di appartenenza privata (per gli uni e gli altri permane infatti la regola del limite temporale del cinquantennio). Ma, innanzitutto, la innovazione è irragionevole perché introdotta non già per le ragioni intrinseche alla più corretta definizione dell’ambito temporale del patrimonio storico e artistico della nazione (che ha la protezione costituzionale dell’articolo 9), bensì per rispondere alla dichiarata esigenza occasionale e contingente di aprire alla attuazione del così detto federalismo demaniale previsto dal decreto legislativo 85/2010 quel complesso di beni immobili dello stato la cui esecuzione risale tra il cinquantesimo e il settantesimo anno e che perciò appartengono al patrimonio culturale secondo la vigente disciplina del “codice”. Per superare dunque la esclusione dei beni culturali dello stato dai processi di automatico trasferimento, come espressamente dispone il decreto legislativo 85/ 2010 in conformità alla prescrizione al riguardo della legge delega 42/2009, il decreto legge ha così operato una assurda amputazione del patrimonio storico e artistico della nazione, negando in linea generale di principio che i beni immobili pubblici (non solo quelli di appartenenza statale) e quelli ad essi assimilati abbiano attitudine a rivestire interesse culturale e siano perciò assoggettati alla tutela se la loro esecuzione risalga anche oltre cinquant’anni, nel precedente ventennio. Con effetti che vanno al di là della dichiarata contingenza e incidono in via permanente sulla generalità del patrimonio architettonico pubblico e ad esso assimilato, che rimane privo di tutela se la sua esecuzione non risalga ad oltre settant’anni. Un arretramento permanente e gravissimo della tutela della più recente architettura. E, immediatamente, l’esclusione dalla tutela della produzione architettonica pubblica (e ad essa assimilata) degli anni quaranta e cinquanta del Novecento.
Il sistema economico si è stancato delle promesse rimaste sulla lavagna di Vespa. Il potere di seduzione del berlusconismo è finito. Il cardinale parla di «primavera». una bella novità
«La destra di Berlusconi e della Moratti è disperata e non ho alcun dubbio che fino all’ultimo momento userà l’insulto, l’inganno e la menzogna, cercherà la provocazione per provare a cambiare il risultato elettorale». Piero Bassetti non è un estremista, nè un frequentatore di centri sociali o un radicale islamico: viene da una famiglia di industriali, è sempre stato democristiano, idealizzava le regioni e il federalismo quando ancora Umberto Bossi suonava le canzoni degli Inti Illimani e frequentava le scuole per corrispondenza.
Bassetti e i suoi amici, assai moderati, del gruppo «Oltre il 51%» si sono schierati con Giuliano Pisapia e questa sera presentano le loro proposte di governo della città, «Milano civica, Milano riparte» con il contributo anche di esponenti del Terzo Polo. Bassetti, cosa vede in questi ultimi giorni di campagna elettorale? «La destra è allo sbando, ma pericolosa. Lo dimostra la somma di assurdità sparate in questi giorni: i ministeri a Milano, il condono delle multe, la ventilata “No tax area”. Sono proposte che non stanno nè in cielo nè in terra. Però dobbiamo stare attenti».
Perchè? Cosa teme? «Sentono la sconfitta che si avvicina, ma non sono diventati tutti scemi. Mi preoccupa la loro voglia di cercare la provocazione. Basta vedere Berlusconi in visita in ospedale alla signora caduta al mercato, oppure la tecnica Sallusti che titola sul Giornale “Brigate Pisapia”. Sono segni preoccupanti, mi aspetto di tutto da questi signori».
Milano è pronta a dare una spallata a Berlusconi? «Penso proprio di sì. Ci sono novità molto interessanti. Prima di tutto la posizione della Chiesa ambrosiana. Ancora una volta la Chiesa esercita la sua vocazione storica, di accompagnare con responsabilità il cambiamento in Lombardia. È di grande significato che il cardinale Tettamanzi parli di “una primavera per la città”. La Chiesa ambrosiana non è mai mancata nei momenti storici e difficili, come dopo Bava Beccaris o come nel 1945, alla caduta del fascismo. Il mondo cattolico ha preso coraggio e sente di poter contribuire al cambiamento».
E i suoi amici industriali, quel che resta della famosa borghesia milanese, sono pronti a tradire il berlusconismo dopo averlo apprezzato e condiviso? «Sì, questa vicenda segnerà un passo avanti della democrazia italiana e anche le imprese hanno capito che non possono abdicare. Soprattutto il tessuto economico e gli imprenditori si sono stancati di Berlusconi, Milano si rende conto che il governo non ha fatto nulla per favorire le enormi potenzialità e occasioni di sviluppo della città. Milano è la sola glocal city a sud delle Alpi, è l’ unica città di grande dimensione capace di avere un rapporto con l’Europa e il mondo, ma le promesse di Berlusconi sono rimaste sulla lavagna di Bruno Vespa. Milano e le imprese non vogliono regali, ma un governo capace di accompagnare lo sviluppo, l’innovazione, le infrastrutture, i grandi progetti a partire dall’Expo».
Così gli imprenditori solo ora si sono accorti che Berlusconi non è credibile? Dove avete vissuto fino a oggi? «È vero, capisco la perplessità. Gli industriali, poveretti, ci hanno messo 17 anni per uscire dall’influenza di Berlusconi e del suo populismo televisivo, basato sul tifo. Il potere di seduzione del berlusconismo è stato forte e diffuso, ma oggi si è esaurito. Lo dimostra anche la freddezza delle Assise confindustriali. Siamo a un punto di svolta, ci possono essere ancora difficoltà ma se Berlusconi perde Milano si apre una nuova fase di speranza e di cambiamento per la città e per il Paese».
La sua scelta pubblica a favore di Pisapia non le ha provocato proteste o critiche da parte dei suoi amici imprenditori e moderati? «Quando stavo nella Dc e avevo certe posizioni per alcuni un po’ troppe aperte, di sinistra, mi capitava di essere criticato, c’era chi mi accusava di tradire le mie origini, la mia famiglia, i miei interessi. Ora che mi sono schierato pubblicamente contro Berlusconi ricevo solo telefonate di consenso e di appoggio».
C´è forse un giudice a Berlino? La giustizia trionfa e chi delinque è punito in modo esemplare? A prima vista sembrerebbe di sì. Le sanzioni oggi deliberate dall´Agcom sono tra le più severe disponibili per quell´organo: colpiscono nella misura massima Tg1 e Tg4 perché recidivi; e sono puniti in misura minore Tg2, Tg5 e Studio Aperto. Ora, l´atto di giustizia, per essere tale, dovrebbe punire chi delinque, risarcire l´offesa e ristabilire l´ordine turbato. Sono stati puniti i colpevoli? Vediamo.
A giudicare dalle reazioni e dai lamenti dei puniti sembrerebbe che un qualche effetto le misure l´abbiano avuto. Si leggano le parole amare che arrivano da Mediaset: siamo allibiti, dicono. E aggiungono che così si nega il diritto di informazione. Singolare argomento, su cui vale la pena di soffermarci. Le ragioni della sentenza sono fondate proprio sulla lesione al diritto dei telespettatori (cioè di tutti i cittadini) a una informazione corretta. Dunque da un lato e dall´altro quello che viene invocato è un grande principio costitutivo della libertà dei moderni. La libertà dell´informazione è stata concepita fin dal ´700 come la condizione fondamentale per la formazione di quel tribunale supremo che nelle costituzioni moderne ha preso il posto un tempo occupato dal giudizio di Dio: il tribunale dell´opinione pubblica, unico giudice dei potenti, termometro regolatore della salute politica di un paese. Ebbene la protesta di Mediaset è un rovesciamento della realtà – un altro, uno dei tanti. Perché quella che milioni di spettatori allibiti hanno visto all´opera il 20 maggio è stata una violenza alla libertà dell´informazione. Chi ha acceso i telegiornali si è trovato davanti a un atto di aperta, clamorosa violazione delle regole dell´informazione vigenti in un paese dalla costituzione democratico-liberale: nella forma, poiché di fatto si è trattato di messaggi a reti unificate, di quelli che in Italia sono riservati ai bilanci di fine anno del Presidente della Repubblica come espressione dell´unità della nazione; nella sostanza, perché tutti e cinque i canali si sono aperti senza filtro giornalistico alcuno allo stesso monologo propagandistico: e così hanno rivelato la loro vera natura di voce al servizio di un padrone incurante di ogni regola. L´offesa è stata gravissima.
È secondario chiederci che cosa abbia indotto il premier a quella uscita. In fondo, come sappiamo da tempo, il primo comandamento della sua religione dice che quel che non passa in televisione non esiste: e l´esperienza del paese in tutti questi anni ha dimostrato fin troppo a lungo che quel comandamento aveva un suo valore effettivo. Con quel monologo a reti unificate ha tentato di negare la realtà del risultato elettorale che il primo turno aveva rivelato e riportare l´orologio indietro, cancellando quel che era accaduto e quel che si preannunciava per il prossimo turno. E forse pensava che gli sarebbe andata bene anche stavolta. In fondo per anni l´informazione monopolizzata dal premier è stata un´impunita macchina del falso, per anni la realtà del paese, i suoi problemi veri, sono stati occultati. Abbiamo nel nostro passato una lunga serie di esempi di storie individuali e collettive stravolte o cancellate del tutto.
Ma restiamo alla sentenza dell´Agcom. Si tratta di capire se i cittadini possano sentirsi risarciti, cioè se quella sentenza colpisca veramente il colpevole. No, il colpevole non paga quasi nulla: quei soldi delle multe li paga il bilancio delle televisioni, cioè - per quanto riguarda la Rai - li paghiamo soprattutto noi cittadini. Si tratta anche di capire se l´ordine è stato ristabilito e la lesione riparata. Anche in questo caso la risposta è no. Ben altro ci vorrebbe: la libertà dell´informazione verrà ristabilita solo quando sarà cancellata l´anomalia del regime berlusconiano, una anomalia che è stata chiara ed evidente fin dall´inizio e che si chiama conflitto di interessi. Ma non possiamo trascurare il fatto realmente importante che è accaduto. La stessa dismisura di quello sproloquio ha rivelato proprio ciò che lo sproloquio voleva occultare e cancellare: il sentimento bruciante di una sconfitta, la scoperta che il velo calato dagli schermi televisivi del padrone in tutti questi anni si era lacerato. I risultati elettorali avevano informato il mago dell´immagine che nella sua città c´era una maggioranza che cominciava a svegliarsi dall´incantesimo. Ora, perché sia fatta veramente giustizia, si tratta di procedere nel risveglio. Sappiamo per lunga esperienza del passato che i processi di mutamento sono lenti, avvengono in profondità, sono impercettibili nel loro primo avvio: ma è nella natura dei rivolgimenti politici e sociali che nei loro inizi sia già scritta la storia che seguirà. Bisogna ora aspettare, con pazienza e con fiducia: la ferita inferta dal Cavaliere alle regole elettorali potrà forse essere giudicata dai cittadini nelle urne.
Un paese invecchiato, sfibrato.e sfiduciato. Un paese in ginocchio. È questa la radiografia dell'Italia berlusconizzata in cui crollano le aspettative di lavoro, i giovani cervelli fuggono all'estero,.quelli che restano conducono una vita precaria sostenuta dai.genitori che però stanno impoverendo.
Diminuisce il risparmio, persino la scolarizzazione è in caduta libera. Si lavora e si studia sempre di meno, non si fanno investimenti, si ammazza la ricerca. Ieri ce l'ha raccontato l'Istat, domenica l'abbiamo visto in una delle più efficaci puntate di Report, sabato è stata la volta del Censis.
Altro che luci e ombre, come goffamente sostiene, arrampicandosi su specchi insaponati,.qualche pierino in forza al governo: l'Italia è al collasso,.sempre più diseguale tra nord.e sud e tra ricchi e poveri, tra uomini e donne e tra lavoratori.(o aspiranti tali) indigeni e migranti. Certo, lo sapevamo,.ce l'ha raccontato qualche mese fa Marco Revelli nel suo ultimo libro Poveri noi. Il fatto grave è che non si vede inversione di tendenza; anzi la crisi, che ormai è anche sociale e culturale, si sta aggravando e il tunnel sembra sempre più lungo e scuro .
Questa debacle che ci getta nel sottoscala dell'Europa non è tutto «merito» di Berlusconi, ma nessun altro sarebbe riuscito meglio del telepredicatore delle paure in questo miracolo al rovescio. Con una politica economica dissennata che ha distrutto risorse intellettuali e materiali. E viene ancora a raccontarci che dovremmo avere paura dei comunisti, dei rom, dei minareti, dei centri sociali, quando è proprio da Berlusconi, dal suo governo e dalle sue politiche che dobbiamo guardarci. Già parlare di politica economica – per non dire industriale – è un eufemismo: Berlusconi lo sfrontato e Tremonti il contabile non hanno progetti per il paese, sanno solo tagliare, tutto tranne i sottosegretari, i capital games e i loro interessi.
Siamo rimasti uno dei pochi paesi in cui parlare di reddito di cittadinanza è una bestemmia, ci riempiono la testa con l'amore e la famiglia mentre sterilizzano l'amore (fare figli è un lusso per pochi) e immiseriscono l’ultimo ammortizzatore sociale per un paio di generazioni di giovani precarizzati o espulsi. Poi ci dicono che dobbiamo riprendere a consumare. Finalmente dal paese qualche segnale di vita è arrivato: dai giovani, dagli operai e dagli studenti che portano in piazza la loro dignità, e dalle urne, domenica prossima, potrebbe arrivare un secondo segnale generale: l'Italia ha paura, sì, ma di Berlusconi ed è pronta a liberarsene .
La bocciatura da parte del Consiglio di Stato della Valutazione d'impatto ambientale che approvava la conversione a carbone della centrale di Porto Tolle ha sollevato le solite bordate antiambientali da parte industriale. Vale la pena di fare alcune puntualizzazioni. Fare una centrale da quasi 2 mila Megawatt in un delta di un fiume, nell'ambito di uno dei parchi ambientalmente più significativi del Paese, era già assai discutibile. Il vecchio impianto a olio combustibile, condannato per disastro ambientale e accusato di danno biologico, era stato un colossale errore di pianificazione. La conversione a carbone, oltre a produrre l'emissione di oltre 10 milioni di tonnellate l'anno di anidride carbonica, CO2, avrebbe comportato la movimentazione nell'area di 5 milioni di tonnellate di carbone all'anno e di un altro milione di tonnellate tra calcare, gessi e ceneri.
Un punto critico è stato quello del confronto con le alternative: oltre all'alternativa «zero» (cioè non far nulla in un'area già interessata da un rigassificatore) c'era l'alternativa di fare un impianto a gas invece di quello a carbone. Enel ha sostenuto la tesi che, essendo i gruppi a carbone più grandi di quelli usualmente impiegati per gli impianti a gas a ciclo combinato, i camini più alti avrebbero garantito maggiore diluizione degli inquinanti e dunque implicato un minore impattosull'ambiente. Questa tesi non ha alcuna base scientifica. Gli inquinanti, infatti, viaggiano, si trasformano chimicamente e interessano un'area vasta (dell'ordine delle centinaia di km). Dunque le preoccupazioni ambientali su quell'impianto non sono di tipo «nimby», ma riguardano invece l'impatto su gran parte della pianura padana, come si è sostenuto nel ricorso sostenuto da Greenpeace, Wwf, Italia Nostra e dalle associazioni locali del settore turismo e pesca.
In particolare, le circa sette mila tonnellate annue di ossidi di zolfo e azoto emesse dalla centrale a carbone - contro le poco più di mille di una centrale a gas a parità di energia prodotta - comportano la genesi di grandi quantità particolato fine «secondario» attraverso gli ossidi di zolfo e di azoto, che, oltre che acidificare l'atmosfera, ne sono i «precursori». Basti pensare che in una città come Bologna oltre un terzo del particolato ultrafine (inferiore ai 2,5 micron di diametro) è costituito da nitrati e solfati provenienti da sorgenti lontane. Ed è noto che si tratta della frazione del PM10 più pericolosa dal punto di vista sanitario.
Il recente rapporto di Legambiente, Mal'aria 2011, conferma una situazione sconfortante e grave sui livelli di particolato fine nelle città italiane: 30 delle 48 città italiane fuorilegge per numero di superamenti annuali dei limiti di PM10 sono nella pianura padana (tra queste Rovigo, Ferrara, Padova, Bologna e Milano).
E' possibile una strategia alternativa per salvare il posto a circa 300 operai? A parte l'alternativa del gas - certo assai meno inquinante di quella del cosiddetto «carbone pulito» - le analisi del potenziale delle rinnovabili in Italia mostrano ampie possibilità, con un impatto occupazionale ben superiore rispetto alle fonti convenzionali. Senza parlare delle ricadute occupazionali che potrebbero avere le misure di efficienza energetica proposte recentemente, a livello nazionale, da Confindustria, e che una cauta proiezione per la Provincia di Rovigo fa ascendere a oltre 3.000 nuovi posti di lavoro. Dal punto di vista energetico poi, l'analisi del potenziale di efficienza nel settore elettrico, elaborato dal Politecnico di Milano per Greenpeace, mostra un potenziale energetico pari a quello di 10 centrali di Porto Tolle, ma economicamente assai più conveniente.
La protezione dell'ambiente e il fare fronte ai cambiamenti climatici rappresentano, oltre che una necessità, un'imperdibile occasione occupazionale: ma bisogna cambiare drasticamente le attuali politiche energetiche e industriali.
Dopo gli incidenti alle centrali nucleari giapponesi di Fukushima c’è stato un po’ di ripensamento nei programmi nucleari del governo italiano; lo stesso governo si è affrettato a emanare un decreto che rimanda di un anno le procedure di localizzazione delle possibili centrali nucleari (ma non le procedure di localizzazione dei depositi delle scorie radioattive); vari paesi hanno deciso di rivedere le condizioni di sicurezza delle centrali esistenti, le quali (sono quasi 450 nel mondo) continuano a frantumare nuclei di uranio e di plutonio e a generare ogni anno tonnellate di rifiuti radioattivi.
Dopo Fukushima sono cambiate molte cose, oltre che di carattere ambientale, di carattere economico. Negli ultimi anni c’era stata una lenta ripresa, in vari paesi del mondo, dei programmi di costruzione delle centrali nucleari, pubblicizzate come la fonte di elettricità che evita l’effetto serra, del tutto sicura, e questo fermento aveva messo in moto l’unica cosa che conta per il potere finanziario, i soldi, da investire nell’industria meccanico-nucleare che fabbrica le centrali nucleari e nell’industria delle costruzioni. La costruzione di una grossa centrale nucleare richiede, a parte i materiali nucleari veri e propri, circa un milione di tonnellate di cemento e acciaio, e poi nuove strade e porti e infrastrutture. Poi richiede complesse procedure burocratiche che a loro volta richiedono studi di sicurezza, commissioni tecniche, appalti, tutti costosi.
Chi acquista centrali nucleari deve prendere i soldi in prestito dalle banche e questi soldi devono essere assicurati, il che significa altre speranze di profitti finanziari. Ci sono poi altri due settori economici la cui sopravvivenza è associata alla costruzione e al funzionamento delle centrali nucleari: una centrale nucleare ha bisogno di uranio, la materia prima di cui poco di parla ma che tiene in moto grossi affari industriali internazionali. Una centrale nucleare da 1600 megawatt (come una delle quattro che il governo italiano avrebbe voluto costruire, in collaborazione con la venditrice francese Areva), ha bisogno ogni anno di circa centomila tonnellate di roccia uranifera estratta in un numero limitato di paesi nel mondo: Kazakistan, Australia, Canada, Namibia. Un’importante industria chimica trasforma i minerali di queste rocce uranifere in ossido di uranio, poi l’ossido di uranio in fluoruro di uranio.
Poi intervengono altre industrie che trasformano, mediante centrifughe, l’uranio naturale in uranio “arricchito” al 4 % di uranio-235, la forma di uranio richiesta per le centrali; poi ci sono industrie metallurgiche che preparano le leghe per i tubi che rappresentano le “camicie” degli elementi di combustibile, e poi le “pastiglie” di uranio arricchito che saranno caricate nel nocciolo del reattore. Fa presto un governo a dire “ripensamento” sul nucleare, revisione delle norme di sicurezza, ma intanto il denaro delle imprese continua a uscire per pagare banche e assicurazioni, i cui prestiti si fanno più costosi davanti alla crescente incertezza del futuro delle centrali; intanto alle imprese non entra neanche un soldo fino a che le centrali sono ferme per ripensamenti e anzi altri soldi devono essere spesi per revisioni e controlli, e sale il costo finale dell’elettricità nucleare a livelli ancora più inaccettabili.
Dietro la catastrofe di Fukushima ci sono centinaia di persone, banchieri, dirigenti delle assicurazioni, manager di grandi imprese, presidenti, gli uomini del potere dei soldi, spaventati per il proprio futuro che, fino all’11 marzo, quando lo tsunami ha paralizzato le centrali nucleari giapponesi, sembrava così luminoso. Nelle ultime settimane il prezzo dell’uranio sta crollando, diminuito del 20 % in un mese, e così sta crollando il prezzo dell’uranio arricchito e delle relative tecnologie e calano i titoli in borsa delle società nucleari. Purtroppo la crisi coinvolge anche gli incolpevoli lavoratori di queste imprevidenti industrie, dai deserti dell’Asia ai poli tecnologici nucleari. Dopo Fukushima il mondo finanziario e industriale non sarà più come prima. I governi dovranno finalmente fare delle nuove corrette analisi dei reali fabbisogni di elettricità (perché solo elettricità sono capaci di dare le centrali nucleari) e dello stato reale delle tecnologie energetiche.
I posti di lavoro perduti abbandonando l’avventura delle centrali nucleari, potranno essere assorbiti dal gigantesco lavoro di sistemazione dei rifiuti radioattivi che si sono finora accumulati nel mondo e che continuano ad essere generati ogni giorno, fino a che restano in funzione le centrali esistenti. Tale lavoro richiede chimici, ingegneri, fisici, ma anche geologi e urbanisti e decenni di tempo, per cui più presto le centrali nucleari chiuderanno, più presto si smetterà di costruirne di nuove, meglio sarà. Una lezione che vale anche per l’Italia che stava imprudentemente per riprendere la via nucleare.
Questo articolo è stato inviato anche alla Gazzetta del Mezzogiorno
«A volte le regole aumentano la libertà invece di restringerla, ma occorre prima mettersi d´accordo sul significato di libertà». Amartya Sen, 74enne economista indiano, cattedra ad Harvard, ora "in prestito" all´università di Cambridge, premio Nobel 1998, pronuncia la sua apparente provocazione in tono pacato, come un insegnante che corregge con dolcezza l´errore di uno dei suoi studenti. Gli ho appena chiesto di parlare dei limiti della libertà economica, il tema del suo intervento al Festival dell´Economia di Trento (il 26 maggio), ma il professore comincia con una precisazione: «La libertà non si deve mai limitare».
Eppure si discute molto di limiti alla libertà del mercato, dopo il collasso finanziario del 2008.
«Io non ragiono in termini di limitazioni alla libertà». La libertà è la virtù più importante per l´uomo e va sempre preservata. Chiediamoci piuttosto quali sono i fattori che causano una diminuzione della libertà umana. Uno è sicuramente la disoccupazione: senza lavoro, un uomo diventa immediatamente meno libero, non è più libero di decidere il suo destino. Ecco dunque che dobbiamo guardare al problema dal versante opposto: cosa è necessario fare, a livello economico, per ampliare la libertà, intesa come libertà di tutti, degli individui, delle aziende, della collettività».
Quali devono essere, in tal senso, le priorità per l´economia di mercato?
«Molti anni fa ricevetti il premio Giovanni Agnelli per le questioni dell´etica a livello internazionale. Nel mio discorso parlai della libertà individuale come un impegno sociale da raggiungere e difendere, un tema che poi sviluppai in un libro, pubblicato in Italia da Laterza. Mantenere un alto livello occupazionale, diminuire o far scomparire la povertà, garantire un welfare sociale: questi, a mio avviso, gli obiettivi prioritari per un´economia di mercato che funzioni correttamente».
Che lezioni bisogna trarre dalla crisi globale, finanziaria ed economica, che ha investito il mondo tre anni fa?
«La prima è che è una crisi venuta da lontano. I semi di una folle deregulation finanziaria sono stati piantati già all´epoca della presidenza di Ronald Reagan negli Stati Uniti, e la semina è proseguita anche nel corso di amministrazioni e presidenze democratiche, raggiungendo l´Europa, estendendosi al mondo. Non ci si è resi conto che la libertà predicata in quel modo era una libertà fittizia per i mercati, perché creava dipendenze, inefficienze, debolezze strutturali, che avrebbero finito per privare della libertà economica sia le banche che le aziende che i privati cittadini. Perciò sostengo che le regole a volte aumentano la libertà, anziché limitarla».
È stato fatto abbastanza in questi due-tre anni per cancellare tali errori e ripristinare controlli e regole sull´economia globale che ne proteggano il funzionamento?
«Qualcosa è stato fatto, ma in modo insufficiente, specie negli Stati Uniti, il mercato che conosco meglio e che rimane più importante per come influenza gli altri».
Il voto del 15-16 maggio, pur restando connotato più di quanto forse non si dica dalle sue peculiarità amministrative, ha senza dubbio inferto un colpo al sistema: ora si tratta di compiere l'opera. L'analisi delle componenti politiche, psicologiche e personali che ci hanno portato a questo risultato è prematura: ci sarà il tempo per farla dopo, quale che sia il risultato che ci aspetta (forse soltanto una cosa si può dire fin d'ora: in tutti i casi contemplati le primarie, quando si sono svolte regolarmente, hanno innegabilmente giovato). La convergenza assoluta sui candidati prevalenti del centro-sinistra, - in primis Pisapia a Milano e De Magistris a Napoli, ma anche Zedda a Cagliari - è la prima condizione da realizzare. Poi ci sono altri fronti da tener presenti.
Colpisce la renitenza a scegliere di due forze organizzate come il Terzo Polo e i grillini, uscite con risultati difformi dalle urne, ma comunque ben in grado d'influenzare con le loro scelte il voto finale. Si tratta, com'è ovvio, di situazioni diverse, ma con un tratto comune: non si sentono coinvolte dallo scontro attuale fra centro-destra e (un sia pur variegato a talvolta anomalo) centro-sinistra. Mi pare che sia per tutti costoro un grave errore, anche parecchio autolesionistico.
Nella competizione in atto - ripeto - giocano molto i fattori amministrativi. La fallimentare (e persino un po' oscura) conduzione del comune di Milano da parte di Letizia Moratti ha certo a che fare con il consenso ricevuto da Giuliano Pisapia. Allargo il discorso: va segnalato che il centro-destra si è reso responsabile di alcuni dei casi più clamorosi di cattiva amministrazione locale in Italia nel corso degli ultimi decenni: se si votasse oggi a Roma, con un buon candidato da opporle, la giunta di Gianni Alemanno verrebbe clamorosamente rovesciata.
Questo terreno non va certo abbandonato. E però è inutile negare che il discorso è andato al di là - e di molto - del dato puramente amministrativo. Se non ce ne fossero state le condizioni generali, - e c'erano, - l'avrebbero comunque voluto loro. Sembrava che lì per lì, dopo il primo voto, ne avessero fatto ammenda. Invece i toni - quelli del referendum e della crociata, della calunnia e dell'insulto, della menzogna e della panzana - non sono cambiati, anzi, si sono perfino accentuati. Come mai? La risposta è semplice: perché ormai non sono più capaci di altro; non gli resta che fare appello agli istinti bestiali del "popolo animale" (come loro sperano che sia e come giorno dopo giorno se lo allevano). Ho sentito il ministro La Russa dichiarare che i milanesi non devono votare Pisapia se non vogliono una moschea per ogni quartiere e un accampamento rom di fronte ad ogni scuola ... E quel che Bossi ha detto di Pisapia sta scritto su tutti i giornali ... E', tutto sommato, un segnale di rabbiosa debolezza, che va utilizzato.
Allora quel che è in gioco oggi, - oltre al dato amministrativo, il quale peraltro per molti versi fa corpo con essa - è la possibilità di riportare il paese a un gioco democratico "normale" e alla purificazione della politica dal groviglio ammorbante degli interessi personali e di gruppo.
Dichiararsi equidistanti o, peggio, indifferenti rispetto a questa posta non ha senso. Fa sorgere anzi il sospetto che alcune rendite di posizione in tali campi pensino di continuare a giovarsi proprio della perpetuazione di quello stato di anormalità e di degrado. Invece, solo quando il libero gioco democratico sarà restituito al paese, tutti potranno far valere le loro ragioni fuori del ricatto sistematico che tutti ci sovrasta.
In questo quadro complessivo alcuni silenzi ci colpiscono ancora di più. Quella di una forza come Futuro e Libertà, ad esempio: nata per ridar fiato ad una destra legalitaria e moderna, come può non rendersi conto che la rinuncia alla scelta in un momento come questo la condanna a una lenta estinzione e all'assorbimento nel grigio pantano moderato? E quello dei grillini, per fare un altro esempio: nati per dar vita a una critica radicale delle forme, dei temi e del personale politico attuali, spesso fondata e giustificata, come non si rendono conto che solo una decisa spallata al sistema berlusconiano di potere potrà aprire le porte eventualmente ad altri processi e altre sentenze?
Insomma, le ragioni per una raccolta di tutte le forze, che prescinda in questa fase ... ripeto, che prescinda in questa fase anche dagli schieramenti passati e persino da quelli futuri, ci sono tutte. Diamoci tutti da fare perché l'appello arrivi lontano ... anzi, arrivi dappertutto.
P.S. In un suo recente intervento sul Corriere della Sera (18 maggio), Pierluigi Battista prende spunto dal recente risultato elettorale per tornare a rinfacciarmi il mio famigerato articolo «Non c'è più tempo» uscito il 13 aprile sul manifesto: «E dunque Alberto Asor Rosa dovrà riporre nel cassetto le sue pur recenti fantasie di golpe democratico, unico rimedio, era parso di capire, per arginare quello antidemocratico incarnato da Berlusconi»; perché, - questo poi in sostanza è il senso complessivo del ragionamento di Battista, - «l'Italia resta una democrazia normale», dove il voto decide, non il golpe.
Da alcuni decenni Battista e io colloquiamo, trovandoci sempre su posizioni diverse, anche se non sempre le stesse, ma sempre, mi pare di poter dire, molto civilmente. Nel caso specifico, come in svariate altre occasioni in precedenza, Battista dimentica, anzi, appunto, torna ancora una volta a dimenticare che le questioni dell'«emergenza democratica», da me poste, erano piuttosto altre, e cioè:
1) E' vero o non è vero che la permanenza di Silvio Berlusconi al potere, con tutto ciò che lui rappresenta, - il conflitto d'interessi, le leggi ad personam, lo scontro devastante con la magistratura, l'insofferenza, anzi l'ignoranza della separazione dei poteri, le continue polemiche con la presidenza della Repubblica e le minacce nei confronti della Corte costituzionale, la pretesa riforma della giustizia, la compravendita plateale di parlamentari, le tentazioni di riforme della Costituzione, - costituisce un rischio, - un rischio voluto, calcolato, perseguito, - d'involuzione populistico-autoritaria della nostra democrazia?
2) Che si fa quando la democrazia è messa a rischio da una maggioranza parlamentare democraticamente eletta?
Potrei limitarmi a osservare che l'allarme sollevato da questi dubbi, onestamente da me come da altri esplicitati, forse è confluito nel risultato positivo del voto di domenica scorsa (positivo? Perché positivo? Ma ovviamente positivo soltanto se si pensa come me che il voto di domenica scorsa sia stato positivo). Io intendo tornare su questi argomenti. Mi auguro che anche Battista sia disponibile a rispondere ora a quelle due domande, di cui il voto, certo, non ha comunque depotenziato la rilevanza strategica.
Palacinemapiù alto e «turistico»
di Enrico Tantucci
Un «nuovo» Palacinema, che si ricolleghi a livello infrastrutturale anche agli altri interventi di edilizia tutistica che stanno sorgendo al Lido, come quelli condotti da EstCapital, tra il Lungomare e l’Ospedale al Mare.
E’ l’indicazione che inizia a maturare - raccogliendo anche l’invito del ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan di un’idea nuova per andare avanti - anche dopo la Conferenza di Servizi di ieri che ha affrontato anche il problema delle bonifiche. «L’indicazione emersa è quella di fermare lo scavo del Palacinema alla profondità attuale - spiega il commissario Vincenzo Spaziante - rinunciando alla bonifica dell’amianto a profondità successive, tenendo presente anche che quello della presenza dell’amianto nel sottosuolo dell’isola è purtroppo un’emergenza ambientale che riguarda tutto il Lido, perché scavando è presente praticamente dappertutto. E’ ipotizzabile un rialzo in altezza di qualche metro del nuovo Palazzo, per recuperare parte della cubatura persa rinunciando alla parte interrata. Anche in quest’area, comunque realizzeremo attività compatibile con il rilancio della zona. Tra pochi giorni, anche con il sindaco, ci incontreremo con il ministro Galan per presentare le nuove proposte di modifica del progetto». L’idea che sembra prevalere è quella di tornare all’antico - pur con un appalto a costi più contenuti - che pensi a un collegamento organico con le altre infrastrutture turistiche presenti o in via di realizzazione, come appunto quelle che sta realizzando l’EstCapital di Gianfranco Mossetto. «Nonostante le difficoltà, che sono nazionali e non solo veneziane - spiega ancora Spaziante - andremo avanti con il progetto, collegando il nuovo Palazzo e la Sala Grande ai nuovi poli turistici che si stanno realizzando con l’operazione sull’ex Ospedale al Mare, sfruttando anche tutta la riqualificazione del Lungomare che è già prevista. La Mostra del Cinema da sola non basta e il Palacinena non può essere solo un’opera pubblica, ma deve anche essere capace di generare un indotto economico per giustificarsi».
Dolenti noto arrivano invece dalle manifestazioni d’interesse per l’acquisto dell’area della Favorita, dopo che il bando pubblico era andato deserto. «Abbiamo ricevuto tre manifestazioni d’interesse per la Favorita - spiega Spaziante – tra quelli quella simbolica dei comitati ambientalisti del Lido, ma sono tutte per cifre molto inferiori a quella della stima per l’area che era di circa 20 milioni di euro. Le valuteremo, ma è possibile che - visto che determinati limiti di edificabilità pe l’area della Favorita sono venuti meno - l’offerta di vendita sia riformulata per renderla più appetibile».
Via libera ieri dalla Conferenza di Servizi anche alla bonifica dell’area dell’isola della Certosa dove è prevista la realizzazione di una nuova darsena.
«La nuova darsena? Come la Giudecca»
Bettin: a San Nicolò una superficie di 52 ettari
di Roberta De Rossi
«La darsena di San Nicolò? E’ grande come la Giudecca». L’esempio dell’assessore all’Ambiente Bettin rende bene l’impatto di un’opera che - hanno georeferenziato i tecnici dell’assessorato - occuperà una superficie di 52 ettari.
Osservazioni si aggiungono a nuove richieste di chiarimento - politicamente si chiamerebbero dubbi e critiche - nella relazione tecnica di valutazione di impatto ambientale che gli uffici dell’Ambiente hanno predisposto in vista del prossimo Consiglio comunale, raccogliendo anche le indicazioni dei consiglieri della V e X commissione: un parere non vincolante, ma al quale la commissione regionale di Impatto ambientale e il commissario Spaziante dovranno dare risposta.
Così, la relazione fa propria l’osservazione del consigliere pd Molina sul fatto che i tempi di approvazione della darsena siano stati dimezzati per decreto del presidente del Consiglio, invece che con una nuova legge. Si rileva come - contrariamente allo stesso dl 152/06 che impone il confronto tra più progetti - non sia possibile fare comparazioni perché per i proponenti la darsena dev’essere a mare e altro sito non c’è, mentre per gli uffici andrebbe considerato tutto il bacino. Raccogliendo un preciso allarme del consigliere pd Renzo Scarpa, inoltre, si chiedono monitoraggi ante-durante e post cantiere sull’impatto della mega darsena sulla pesca e indennità per i pescatori professionali, calcolando quanto meno un calo di 46 mila chili di vongole l’anno e un impatto non valutato sulle colonie di seppie, branzini, orate in un braccio di mare molto pescoso. Inoltre, nel progetto non sono stimate le quantità potenziali di scarichi delle imbarcazioni nel bacino chiuso, non risultano relazioni sulla presenza di rifiuti nel sottosuolo (nonostante l’esperienza amianto al Palazzo del Cinema e bonifiche ospedale al Mare), non sono state fatte analisi sull’impatto della darsena sul traffico acqueo, «tema rilevante per i noti danni causati dal moto ondoso».
Ancora, «il progetto non è compiuto sull’aspetto degli scarichi fognari», in una parte del Lido dove sono già emersi rischi di esplosione della rete esistente per troppo carico. Infine, «c’è una sottovalutazione di rischio di perdita dell’orizzonte del Lido», non tanto per la presenza del nuovo molo, quanto di yacht e grandi barche a vela: «Nei rendering ce ne sono poche, come in un martedì di dicembre», chiosa Bettin. Una precisa indicazione è stata data dagli uffici - riprendendo una segnalazione del pdl Costalonga - sulla necessità di mantenere basso l’impatto luminoso della darsena, per evitare di oscurare con l’inquinamento luminoso sistemi di sicurezza come faro di Murano e boe luminose. «Il sindaco ha chiesto al governo di chiarire se finanzierà il Palazzo del Cinema», commenta Beppe Caccia (In Comune), «in quest’incertezza, non ha senso la forzata accelerazione imposta dal commissario Spaziante alle procedure di progetti esclusivamente finalizzati al finanziamento dell’opera originaria, che vanno congelati».
Prosegue e si aggrava lo scandalo del Lido di Venezia, un episodio lampante del saccheggio del territorio. Un saccheggio che si giova di un intreccio tra pubblico e privato nel quale gli interessi della proprietà finanziaria comandano la politica e l’amministrazione pubblica, utilizzano la compiacenza (la complicità) di quest’ultima per accrescere la rendita immobiliare, impoveriscono i cittadini di oggi e di domani, sacrificano bellezza e salute e – dulcis in fondo – calpestano la democrazia. Chi voglia saperne di più acquisti il libretto di Edoardo Salzano, Lo Scandalo del Lido , che apre la nuova collana dell’editrice Corte del Fontego dal titolo significativo “Occhi aperti sulla città” (libriccini a 3 € l’uno, per conoscere meglio Venezia). Sconfiggere Berlusconi,è certamente utile, necessario e urgente, ma – come quest’episodio dimostra – non basterà a sconfiggere il berlusconismo di cui anche la storia recente del Lido è testimonianza.
Stupisce soltanto chi non conosce Milano, il risveglio civico di una città che si interroga da tempo su se stessa e sull’orgoglio perduto. Nel voto che ha spiazzato il centrodestra e sorpreso il centrosinistra c’è molto dell’indignazione che si legge ogni giorno nelle lettere ai giornali, insieme a una richiesta di attenzione della politica e alla domanda di maggiore serietà. Serietà intesa come rispetto, efficienza, controllo, garanzia di equità: messaggi che la città operosa recapita da anni a chi governa attraverso incontri e dibattiti che finiscono inesorabilmente con una domanda: dov’è Milano, dove sono i milanesi. Milano è nello stesso posto di sempre.
Coi suoi numeri da record, i suoi primati, le sue opportunità, tra lampi di luce e zone d’ombra, prove riuscite d’integrazione e nicchie di paura. I milanesi invece sembrano dispersi, perduti in mille isole di resistenza civile: molti si battono per il verde, per una strada, per un quartiere, portano il bene della solidarietà agli emarginati di ogni tipo, malati, anziani, disabili, immigrati, carcerati. Chiedono una città più pulita, più ordinata, la sicurezza senza il coprifuoco, l’attenzione per le piccole cose. Ma spesso bisogna andarli a cercare, per riunire intorno ad un progetto le tante articolazioni di una società minuta in fermento, che si dà da fare per migliorare il benessere dei cittadini e la qualità della vita.
Giuliano Pisapia ha incrociato questo fermento, quel new deal civico organizzato negli ultimi anni in piccoli centri di opinione, associazioni culturali, gruppi di lavoro nei quartieri e nelle parrocchie, che il Corriere aveva documentato nel suo viaggio in camper, attraverso le varie zone della città. Ha dato attenzione e ascolto ai cittadini, in modo semplice e diretto, a differenza della campagna elettorale di Letizia Moratti. Il sindaco uscente aveva già avuto segnali in questo senso, qualcuno aveva già evidenziato la distanza eccessiva tra richieste dei cittadini e Palazzo Marino.
Quando cinquecento persone si autoconvocano al teatro Puccini per discutere del «Manifesto per Milano» , come nel giugno dello scorso anno, vuol dire che c’è una ritrovata voglia di partecipare alle scelte per il futuro della città. Vuol dire che tanti cittadini chiedono ascolto sui loro piccoli e grandi problemi, o vogliono, come il cardinale Tettamanzi, essere protagonisti di una Milano capace di ritrovare la sua leadership nel Paese. Ci si vuole riconoscere in una città capace di dare il giusto valore al merito, di fornire qualche buon esempio e di allontanare il virus della volgarità. Nel «Manifesto per Milano» ci sono parole come rispetto, competenza, responsabilità. Sono parole che ci riguardano (diversamente da quelle del caso Lassini, contro i magistrati). Queste parole torneranno a ripetersi in questi giorni. Ma non si possono svendere nel marketing elettorale.
Gli Indignados hanno già vinto la loro seconda battaglia. A sette giorni dal loro primo grande successo - una mobilitazione di massa con le tende estesa a ben 67 piazze di Spagna - ieri l’inatteso movimento ha registrato il secondo successo: la polizia non li sloggerà né oggi né domani dalle agorà della Tendopolilandia d’Europa, come invece chiedeva la Commissione Elettorale Centrale, per non turbare la giornata di riflessione e il voto delle amministrative di domenica. Le forze dell’ordine interverranno solo se si registreranno atti violenti. Ma finora gli Indignados sono più pacifici di Gandhi. E a Madrid ieri a mezzanotte in 25 mila hanno accolto l’inizio della prima giornata del divieto con un «grido silenzioso» sulla emblematica Puerta del Sol.
Già nel primo pomeriggio di ieri, ultimo giorno della campagna elettorale per rinnovare tutti i comuni e i governi di 13 delle 17 regioni spagnole, giungeva la buona novella, diramata ai giornali online da fonti governative. La partita si era annunciata difficile, dopo la decisione della Commissione Elettorale Centrale che, in nome della legge, intendeva proibire le concentrazioni di persone in spazi pubblici, subito respinta dagli Indignados. Il principale partito dell’opposizione, i popolari (centro-destra), invocava il rispetto delle regole della democrazia. Ma il callido Zapatero si è inventato un escamotage. Ufficioso, ma che rasserena il Paese.
Prima si è mosso il ministro degli Interni, Alfredo Perez Rubalcaba, che per seguire la situazione potenzialmente esplosiva ha rinunciato al suo ultimo comizio: «Le forze di sicurezza non sono sul campo per creare due o tre problemi dove ce n’è uno solo, e si atterranno alla legge». Alludeva alle cariche della polizia, che avrebbero significato un massacro su scala nazionale e una sconfitta ancor più bruciante di quella annunciata (i popolari dovrebbero stravincere dappertutto)? No, evocava l’applicazione della Legge sulla Sicurezza Cittadina.
L’articolo 16 rimanda a un legge del 1983, approvata dall’ex premier socialista González, che dice: «La polizia può dissolvere riunioni e manifestazioni quando viene scardinato l’ordine pubblico, con pericolo per le persone o le cose, o quando si indossano uniformi paramilitari». Non è questo il caso del movimento degli Indignados, che vuole solo «Democrazia Reale Adesso». Utopica certo, come la richiesta di cambiare la riforma elettorale che premia i partito maggioritari, socialisti e popolari, ma con l’immenso pregio della non violenza. Aiutata solo dalla colossale forza di Internet e dalla solidarietà e simpatia di gran parte del Paese.
In una Spagna che ha riconquistato la democrazia nel ‘77 dopo 38 anni di dittatura franchista e repressione sanguinaria, in cui i carri armati e le cariche fanno parte di un passato sepolto, Zapatero ha fatto capire che la Spagna non è la Libia. «La polizia agirà bene, correttamente. Il governo garantirà i diritti di tutti - ha esordito alla radio filo-socialista Ser -. Provo grande comprensione per le rivendicazioni degli Indignados, sono il principale interpellato. La ragione delle proteste è la grave crisi economica, con il suo riflesso sull’occupazione e soprattutto sulla disoccupazione giovanile al 43%».
I popolari, che non dovrebbero essere penalizzati dal possibile aumento dell’astensionismo (36% alle amministrative 2007) che terremoterebbe invece i socialisti, scherzano sulle «Piazze Tahir». «Convochiamo un campeggio davanti alle sede della Rosa madrilena di calle Ferraz fino a quando Zapatero non se ne va», irrideva Aguirre, presidente della regione madrilena. Prova che la tensione si sta allentando. I giovani violenti e organizzati sono forti solo nei Paesi Baschi e a Barcellona. Una mappatura che fa sperare bene. La Spagna sarà Tendopolilandia, ma è pur sempre Europa, non il Nord Africa. E si permette di insegnare che persino le proteste clamorose degli Indignados, se non violente, sono permesse.
Due lunghe pensiline colorate che da piazza della Repubblica si allungano fino alla stazione Centrale. Vetro e una fibra ferrosa, blu come il cielo, che dagli ampi portici partono a copertura del marciapiede che si estende fino alla strada. La "via in blu" della città, ecco il futuro di via Vittor Pisani. È così che il Comune pensa di riqualificare l’ampio e monumentale - ma un po’ spoglio - vialone che collega la città alla stazione. Con un restyling che parte soprattutto dalle tettoie colorate ma che prevede anche un nuovo look nell’arredo urbano. A partire dal verde.
Le linee guida dell’intervento sono contenute in una delle ultime delibere approvate dalla giunta Moratti prima delle elezioni, a inizio maggio. Una rivoluzione estetica per la promenade milanese che è una delle porte di accesso alla città, vista la vicinanza con la Centrale. Una nuova identità da dare a una zona con molti locali tra bar e ristoranti parecchio frequentati che, per il Comune, oggi è «un asse che si presenta poco accogliente», come si legge nel documento approvato. E, anche, «frequentato come collegamento veloce ma carente di luoghi per la sosta e per un passaggio "lento"».
E così via libera alle modifiche. Gli ingressi ai parcheggi sotterranei verranno coperti da vegetazione: in particolare, l’idea è di realizzare pareti verticali di edera e gelsomino. Ai bordi della strada verranno inserite vasche piene di verde, alternate a sedute per invogliare milanesi e viaggiatori a passeggiate lungo la promenade. E per spingere anche i passanti a fermarsi, una richiesta avanzata direttamente dai commercianti. Ci sarà anche una siepe che, geometricamente, creerà un gioco di volumi per rendere più accogliente una strada che oggi poco si presta a una passeggiata di relax.
Ma il restyling riguarderà anche i dehors dei locali che oggi tappezzano l’ampio marciapiede: la delibera di indirizzo prevede infatti «nuove componenti di arredo urbano e riordino delle occupazioni di suolo pubblico attuali». Le pavimentazioni andranno così modificate e adattate al nuovo look della strada, quindi blu, en pendant con le pensiline che correranno lungo tutto il viale. In particolare bisognerà risolvere alcuni piccoli problemi, dato che «sono state rilevate alcune criticità relative ad alcuni dehors, per la loro tipologia ma anche per la loro posizione», scrive il Comune. Un intervento, nel complesso, di cui ancora non si conosce la spesa perché il progetto definitivo va ultimato e approvato dalla nuova amministrazione con le risorse da stanziare, ma che in una manciata di mesi promette di cambiare il volto di uno dei viali più conosciuti della città.
Se il grande timoniere dei padanos accusa il terribile candidato del centrosinistra di essere un matto che vuol regalare la città a una improbabile lobby di mendicanti e drogati, sinistra riedizione della letteraria corte dei miracoli, in fondo sono fatti suoi, sgradevole strategia acchiappavoti a tradimento. Molto più fondata sarebbe invece l’accusa alla matta attualmente in carica, di aver regalato e continuare a regalare la medesima città a una corte di miracoli parallela: la lobby del commercio. Che come si sa da sempre e ovunque è maestra nell’esercitare pressioni e vendersi come salvatrice della patria, anche contro ogni evidenza: desertificano i quartieri riempiendosi le tasche, e concentrandosi via via dove conviene di più, pretendono investimenti pubblici e scombinano ogni scelta strategica per la città piegandola ai propri interessi. Naturalmente questo non vale per “il commercio” in genere, ma per il tipo di forma organizzata e di “alto profilo” che guarda caso viaggia in parallelo con la cosiddetta riqualificazione urbana.
| foto f. bottini |
Già all’epoca d’oro dei socialisti e dei megaprogetti fantasma (mazzette a parte) che spuntavano ogni settimana dai cassetti degli assessorati, quel grande viale ricavato dall’arretramento dei binari (la vecchia Stazione Centrale stava nell’attuale Piazza della Repubblica) era stato oggetto di mostre con immagini da boulevard post-ottocentesco, salvo poi metterci giusto un paio di strisce lastricate e allargare un po’ lo spazio dei pedoni e dei tavolini dei bar. Adesso (eventuali mazzette a parte) ci risiamo con la politica dei due forni crematori: da un lato ferro e fuoco nelle vie del commercio multietnico e integrato, dove invece di promuovere le attività innovative si mandano gli sgherri; sull’altro versante lo shopping mall strisciante, dalla privatizzazione dei portici in centro, alle incredibili pensate per la chiusura della Galleria, e adesso appunto a via Vittor Pisani, sullo sfondo assiro-milanese della facciata della Centrale.
Ma a te non va bene proprio niente, si potrebbe pensare: in fondo si tratta di un progetto di arredo urbano, che rivitalizza una via, la rimette a posto, organizza un percorso pedonale dal terminal ferroviario verso il centro storico … Il dubbio è lecito.
Ma cos’è già successo in Centrale? È stata trasformata in tutto e per tutto in un centro commerciale chiuso, salvo che ci passano dei treni e che invece dello scatolone di cemento ci sono le architetture monumentali di Ulisse Stacchini. E adesso questa promenade che vorrebbe fare il verso a certe idee della newyorkese Sadik-Kahn ma sta imboccando la direzione opposta, perché anziché innescare onde lunghe di riqualificazione concentrerà sul solo asse tutto l’interesse, risucchiandolo dalle vie circostanti, che già non brillano per sicurezza e ordine. Una specie di replica del caso Venezia col ponte di Calatrava: le Ferrovie cominciano il gioco, e il Comune magari senza neppure accorgersene (ma non è vero) suona le sue campane. Nel caso di Milano, per essere precisi, le carampane. Occhi aperti insomma, sull’ennesimo strisciante Business Improvement District (f.b.)
Agli osservatori internazionali, con le scintillanti torri dei nuovi edifici terziari e residenziali, popolata da operatori della moda e architetti, l’ex capitale economica d’Italia sembra proiettata verso un luminoso futuro postindustriale. Ma vivendone quotidianamente il tessuto sociale, il contesto ambientale, la rete delle infrastrutture; subendone le decisioni sul territorio urbano e metropolitano, emerge un’immagine diversa: esclusione sociale, spinta all’insediamento disperso, degrado dell’ambiente e della qualità della vita. Sono le radici stesse di una città giusta, inclusiva e anche efficiente, a essere messe in discussione dall’urbanistica milanese degli ultimi 15 anni.
Oggi la riqualificazione urbana - quando c’è - è pura sostituzione sociale, l’aggettivo post-industriale significa solo ‘privo di industria’, e la sedicente nuova economia si limita al mercato immobiliare.
C’è un’alternativa? Certamente si, e sta nel cercare un equilibrio meno brutale e più avanzato fra dimensione locale e globale. Ma proviamo a andare con ordine.
Milano capitale della moda, del design e dell’editoria; hub della creatività e dell’innovazione; capoluogo di una fra le regioni più ricche d’Europa; ai vertici della gerarchia urbana europea: è una immagine di fatto contraddetta da recentissime graduatorie effettuate da istituti specializzati: nel 1989 stava al terzo posto dopo Londra e Parigi, oggi si deve accontentare di un decimo solo per la funzione economica, e occupa posizioni molto più arretrate per quanto riguarda qualità della vita e mobilità, inquinamento, organizzazione degli spazi pubblici e privati.
Là dove sarebbe importante investire nella città, dopo anni in cui è mancata una visione complessiva e si sono realizzate soltanto trasformazioni parziali, rinunciando a sperimentare ipotesi davvero innovative, la risposta alla crisi è stata un vero e proprio laboratorio di ‘privatizzazione dell’urbanistica’ solidamente fondato su alcune premesse: delegare all’iniziativa privata l’organizzazione del territorio; considerare la difesa degli interessi collettivi del tutto subordinata; porre ai margini, se non escludere del tutto, ascolto e coinvolgimento dei cittadini, privilegiando gli attori forti.
| La Milano degli immobiliaristi |
Si tratta di una scelta che parte dal lontano, quando con la dismissione industriale degli anni ‘70/’80 si manifesta la legittima necessità di trovare nuovi obiettivi ed equilibri, ma che si palesa davvero col nuovo millennio e l’obiettivo di Ricostruire la Grande Milano.
In questo obiettivo alcuni ricercatori internazionali leggono, almeno nelle dichiarazioni di intenti, la possibilità di una «ben equilibrata regione metropolitana» nel metodo e nel merito, una città globale orientata ai servizi, fra poli di eccellenza e quartieri a funzioni compositeper la creative class. Un prestigioso economista americano, Edward Glaeser, riesce addirittura a intravedere chissà come una «ruggente ridiscesa in campo postindustriale». senza soffermarsi magari a riflettere se, invece, una strategia di lungo periodo non dovrebbe promuovere equità, diritti, distretti mixed-use in cui convivano produzione, residenza per varie fasce di reddito, elevata abitabilità e mobilità sostenibile.
Oggi la città soffre di degrado sociale e edilizio ma, anziché attivare politiche di inclusione, si privilegiano scelte di tolleranza zero per i deboli, e ultragarantiste per chi paga in contanti; si privilegia una deregulation a tutto campo legittimata dalle leggi regionali. Quella urbanistica parte apparentemente da parole d’ordine prese a prestito dal dibattito europeo (densificazione contro il consumo di suolo, casa per i più deboli, sussidiarietà, valutazione strategica …. ), aprendo però di fatto all’intervento privato senza adeguate contropartite e garanzie per la città pubblica, e con infinita e immotivata fiducia nelle presunte virtù del mercato (immobiliare).
In questa prospettiva, Milano predispone il suo Piano di Governo del Territorio affermando di mirare a zero consumo di suolo, mantenimento dell’agricoltura, tutela del tessuto storico, emissioni zero, più servizi. Il tutto rivendicando continuità col precedente Ricostruire la Grande Milano, aggiornato con un incredibile incremento di popolazione del 50% per arginare – così si dice – lo sprawl suburbano. Ma come sarà possibile, visto che per sua natura il piano cittadino si ferma ai confini comunali, e la stessa legge ha ridotto a poca cosa la dimensione metropolitana di governo del territorio? Dov’è finita la «ben equilibrata regione» intravista dai commentatori internazionali?
C’è anche una contraddizione irriducibile nel metodo: la governance pensata come rapporto privilegiato fra decisori pubblici e grandi operatori privati esclude la società civile, di fatto riducendo il territorio a merce.
Che spazio urbano si prefigura nel Piano? Uno spazio come mero contenitore di interessi immobiliari, che sotto forma di diritti edificatori schizzano in tutte le direzioni a seconda delle convenienze dei grandi operatori: con rischi enormi, visto che qualunque idea di città prescinde assurdamente dallo spazio fisico, e rinuncia in gran parte a qualsivoglia regola. Il cosiddetto Piano delle Regole afferma infatti che «le destinazioni funzionali sono liberamente insediabili, senza alcuna esclusione e senza una distinzione e un rapporto percentuale predefinito» e poi specifica anche che «il passaggio dall’una all’altra delle destinazioni funzionali è sempre ammesso».
L’unico obiettivo chiaro è quantitativo: espansioni edilizie per oltre 250.000 nuovi abitanti da aggiungere agli attuali 1.300.000 circa. E le indicazioni ‘politiche’ che hanno accompagnato l’iter del Piano sono state ancor più compiacenti: mezzo milione di nuovi abitanti. Secondo alcuni calcoli attenti sui diritti volumetrici che il PGT autorizza attraverso una perequazione urbanistica reinterpretata in chiave neoliberista, potrebbero addirittura starcene oltre 600.000!
Altro che densificare per contenere lo sprawl, con un piano che si ferma ai confini comunali e che, quando discetta della regione urbana, ignora la pianificazione sovraordinata e fa riferimento a un’idea vaga, scientificamente infondata come la cosiddetta Città Infinita. E che vuole tutelare la storica greenbelt agricola che protegge dalla conurbazione, piazzando uno degli enormi poli di eccellenza scientifica (il CERBA) proprio nel bel mezzo di un cuneo verde. È questo che emerge dalla lettura delle proposte concrete, oltre gli slogan e la comunicazione pubblica.
E a conferma degli orientamenti reali e degli squilibri di interesse del nuovo PGT milanese c’è infine la prova del nove: a chi piace e a chi invece non piace affatto? Piace ai grandi interessi immobiliari, ossia ai medesimi soggetti che negli anni hanno fatto crollare il rating della città e visibilmente peggiorato la sua qualità della vita. Non piace per niente a tutti gli altri, al punto che, indipendentemente dal merito delle quasi 5.000 osservazioni presentate (e respinte in blocco senza discussione), la cittadinanza giudica illegale e autoritario vedersi imporre un’idea di città decisa nelle chiuse stanze di chi comanda. E ricorre in tribunale. Si dice che la magistratura non deve sostituirsi alla politica; ed è giusto, quando però la politica fa il suo mestiere.
L’esito più inquietante di questa strategia ‘riformatrice’ di radicale privatizzazione delle politiche urbane proposta dal nuovo Piano urbanistico per Milano può essere soltanto quello di riconfigurare la capitale morale del Paese come ‘capitale del mattone’, simbolo e modello per tutta la nebulosa urbana, politica, socioeconomica dello sprawl dal Po alle Alpi, magari da esportare peggiorato verso altre regioni.
É da Milano dunque che occorre partire per liberarsi da questa versione locale/lombarda del paradigma T.I.N.A./ There Is No Alternative.
| La Milano sostenibile? |
Le leggi lombarde, e il PGT milanese che di quelle leggi è acritico interprete, hanno rimosso vincoli, affossato principi consolidati nella tradizione urbanistica di tutela della città pubblica, concesso incentivi e premi volumetrici sovradimensionati, accelerato procedure amministrative in una sorta di ‘frenesia distruttiva’ della autorità pubblica e del bene comune che forse occorre interpretare come l’esito non tanto, o soltanto, di un profondo intreccio di interessi, ma come il segnale di un drammatico vuoto culturale.
Sta ai cittadini riprendere in mano il futuro di Milano, cambiando amministrazione; sta agli urbanisti e più in generale alla cultura progressista colmare un vuoto teorico: quello che separa le acquisizioni scientifiche e tecniche dal loro uso per promuovere eguaglianza e inclusione.
Forse questo traguardo è, inaspettatamente, a portata di mano.
La città ha detto basta all’arroganza»
di Luca Rojch
OLBIA. Difficile immaginarlo con la maglietta di Che Guevara e l’eskimo all’assalto del fortino del centrodestra. Il mite uomo in pipa e doppiopetto di ordinanza che ha raso al suolo la casa delle libertà, Gianni Giovannelli, è più un’icona della moderazione. Passeggia davanti all’ingresso del municipio in attesa di sedersi dopo due mesi sulla poltrona da cui era stato spodestato. Ma tra il Giovannelli I e il Giovannelli II c’è in mezzo una rivoluzione che ha schiantato il cuore del berlusconismo. Che ha cancellato la capitale balneare dell’impero azzurro.
Una fetta di storia. La Coalizione civica, miracolosa miscela di centrosinistra e terzo polo, ha trovato l’amalgama giusto per creare una corazzata che ha strappato la più berlusconiana delle città al centrodestra. Un vaccino al contagio azzurro che per oltre 10 anni ha conquistato l’Italia. L’uomo che ha guidato la strana rivoluzione mite è Gianni Giovannelli. «La città ha capito le ragioni della mia scelta - dice -, non la ricerca di una poltrona, ma il rifiuto di logiche poco trasparenti. Olbia ha compreso che all’origine della coalizione c’è l’esigenza di risolvere le emergenze. Siamo nati in questo modo, con una spinta dal basso, dal popolo, che ha mosso i partiti. La città ha punito l’arroganza. Gli atteggiamenti eccessivi manifestati anche in campagne elettorali munifiche in tempi di crisi. Aerei, palloni, manifesti e altro. È stata punita la logica del vae victis. Del sei con me o contro di me». Giovannelli stila anche il programma dei 100 giorni. «Affronteremo le grandi emergenze della città, Tarsu, strade, opere urbanistiche, riorganizzazione della macchina amministrativa, commercio, decoro urbano e sicurezza. Verificheremo tutti gli appalti e lo stato di attuazione dei lavori pubblici». Giovannelli non è stupito del successo. «Mi aspettavo una affermazione così forte. Non è stato merito mio, ma un successo della coalizione».
L’architetto della Coalizione, l’uomo che ci ha messo l’ingegno, il cervello e il cuore, è il senatore Gian Piero Scanu. Il suo coraggio è stato premiato. È il candidato più votato con 820 preferenze. Lui spiega i motivi del successo in modo semplice. «L’esperienza della Coalizione civica verrà esportata nel resto del paese - dice -. La forza è nella capacità di fare incontrare la politica e le persone. La coalizione parte dalla gente, dalla spinta arrivata dal basso, accolta, interpretata e affiancata dai partiti. Olbia aveva bisogno di democrazia e libertà, non solo economica. La città ha subìto come uno sfregio la formazione di un gruppo di potere che di fatto ha spaccato la comunità e ha determinato profonde divisioni. Ha creato la logica del con me o contro di me». Decise anche le priorità. «Lavoro, lavoro, lavoro - conclude -. Sono migliaia le famiglie in difficoltà. Dobbiamo mettere loro davanti a tutto». Un altro dei padri di questo successo è Giommaria Uggias, europarlamentare dell’Idv e capolista. «La vittoria è del progetto e della collegialità - dice -. È la vittoria di un metodo premiato al di là della mia personale affermazione. L’Idv ha avuto una progressione astronomica, 4 anni fa ha preso 0,38%, oggi sfiora il 5. Una grande soddisfazione».
Zedda-Fantola, ballottaggio ad alta tensione
di Giuseppe Centore
Primo turno al candidato del centrosinistra, ma ora c’è lo spauracchio «anatra zoppa»
Il voto disgiunto premia il giovane vendoliano, ma la sua coalizione è stata superata dalle liste del centrodestra
CAGLIARI. Sono separati da 413 voti, andranno al ballottaggio senza avere la vittoria in tasca. Le certezze su chi amministrerà per i prossimi anni il Comune finiscono però qui. Il resto è già oggetto di velata o diretta campagna elettorale, dalla composizione del consiglio, e all’esistenza o meno di un premio di maggioranza, già adesso per le liste del centro-destra. Sarà questo infatti il tema più discusso sino al ballottaggio. Alla fine, poco prima delle dieci del mattino, i dati hanno decretato che Massimo Zedda ha prevalso, nei voti di preferenza per poche centinaia di voti sul suo avversario: 42272 rispetto ai 41859 voti ottenuti da Massimo Fantola.
Rispetto alle comunali di cinque anni fa uno stravolgimento dei rapporti di forza, non solo per i candidati a sindaco ma anche per le liste. Allora con 95mila votanti (in questa tornata sono stati duemila in più), il candidato del centro-sinistra ottenne 36mila voti, mentre la somma dei voti dei candidati del centro-destra (uno risulterà vincente, l’altro dopo aver cercato uno spazio autonomo a destra è diventato capo di gabinetto del presidente Cappellacci) arrivava a 55mila voti.
Le percentuali non lasciavano spazio a dubbi, 38 per cento contro 59,5 per cento. Analogo il discorso sul partito principale della coalizione di centrodestra. Cinque anni fa Fi+An arrivarono a 21mila voti, oggi il Pdl si è fermato a 13mila e ottocento (anche sommando i 2175 voti di Fli il saldo è negativo di cinquemila voti). La crisi del centrodestra è tutta in questi numeri. Una crisi profonda, che ha prodotto due risultati complementari: la vittoria di Zedda, o il testa-a-testa in quasi tutte le zone della città. C’è stata una sola eccezione significativa, quella del quartiere di Sant’Elia: qui Fantola ha preso 343 voti in più del suo avversario, e, dato ancor più significativo, non c’è stata una sola scheda per tutti i candidati che non recasse anche il voto di lista.
Il secondo risultato è stata la differenza tra i voti per i candidati a sindaco e i voti per le loro liste: il centrodestra ha avuto 45287 voti di lista, il centrosinistra 32101. Numeri che hanno un significato politico, e una probabile conseguenza legale. Il dato politico è che Fantola ha avuto 3428 voti in meno delle sue liste, Zedda 10171 consensi in più della coalizione che lo sosteneva. Una città dove la terza età prevale, con interi quartieri dove gli ultrasessantacinquenni sono la maggioranza assoluta dei residenti, che ha dato fiducia, in questo primo turno, a un trentacinquenne; magari non se la sono sentita di votare i partiti che lo sostenevano, ma il candidato a sindaco sì.
Il voto disgiunto è stato scientifico? I boss del centrodestra, ciascuno con il proprio ambito territoriale di vie, piazze e rioni ben identificabile e il parlamentare di riferimento, hanno dato “libertà di scelta” al loro bacino elettorale per mandare un segnale al sindaco distinto (anche se non distante) dalla Pdl? Solo gli incroci sezione per sezione dei prossimi giorni potranno rispondere a queste domande. È certo però che le liste del centrodestra hanno ottenuto la maggioranza assoluta dei voti di lista espressi. Basta questo dato a far scattare il premio di maggioranza, e quindi a proclamare subito un consiglio con 23 eletti dal centrodestra, sedici del centrosinistra e il candidato sindaco Artizzu? Sarebbe questa l’ipotesi di scuola della cosiddetta “anatra zoppa”, figura retorica del lessico politico anglosassone, che si applica in Italia al caso in cui un sindaco viene eletto al ballottaggio, ma le liste della coalizione avversaria ottengono la maggioranza dei seggi già al primo turno, impedendo così una omogeneità di governo tra sindaco e consiglio comunale. Si applicherà l’“anatra zoppa” anche a Cagliari?
Il senatore del Pd Francesco Sanna è convinto del contrario. «Il Consiglio di Stato lo scorso anno ha chiarito come si interpreta la legge elettorale per i Comuni: le liste collegate a Fantola hanno preso meno della metà dei voti di tutti i candidati a sindaco, e non avranno alcun premio da subito». Ne è convinto anche il presidente della Provincia Graziano Milia, sicuro della vittoria al ballottaggio per Zedda, «le energie nuove di queste settimane lasciano ben sperare». Sicuramente non ne sono convinti i candidati del centrodestra, pronti a fare ricorso in caso di scelte non a loro favorevoli da parte dell’ufficio centrale elettorale. Il calendario procedurale comunque eviterà di dover affrontare questo aspetto sino a ballottaggio concluso: solo dopo la proclamazione del sindaco avverrà la ripartizione dei seggi, e a quel punto potranno eventualmente essere predisposti ricorsi, in caso di vittoria di Zedda. In ogni caso l’argomento della governabilità sarà centrale in tutta la campagna elettorale, anche se non compare nelle prime dichiarazioni. E così se Zedda e Fantola hanno incontrato nelle stesse ore i leader delle loro coalizioni, il primo dichiara di aver già ripreso la campagna elettorale, senza commenti, mentre il secondo segnala «il clima di entusiasmo raggiunto dall’alleanza e dal candidato a sindaco».
Per il resto dichiarazioni in linea con le attese, con il coordinatore regionale di Idv Patrizio Rovelli che ammonisce a non abbassare la guardia e il segretario del Pd cagliaritano Yuri Marcialis che definisce storico il dato dei partiti maggiori. In città da decenni il partito più rappresentativo del centrosinistra è stato in affanno, mai premiato ad ogni tornata elettorale: adesso il Pd ha preso 15259 voti, contro i 13862 del Pdl; niente male per un partito dato moribondo sino a ieri. E il dato si presta a una duplice lettura: la lista Pd oggettivamente era meno trascinante di quella del Pdl, basta vedere le preferenze dei loro candidati, e a sinistra, rispetto a ciqnue anni fa, la concorrenza è stata molto più agguerrita. Non è escluso che il Pd abbia ricevuto voti moderati in uscita dallo schieramento avversario. Sarebbe questa la vera novità del primo turno; un ulteriore campanello d’allarme per Fantola, a prescindere dall’anatra zoppa ben ritta sulle zampe.
Ecco, quello che si può leggere sul volto di Dominique Strauss-Kahn mentre sta in tribunale e viene a sapere che resterà in carcere, che nessuna cauzione lo tirerà fuori di lì, che non solo una grande avventura politica finisce in quell’aula ma una vita libera, una reputazione politica nobile. Ha la barba sfatta, gli occhi sperduti, la bocca come di chi d’un tratto s’accorge d’aver bevuto veleno, i tratti legnosi del caduto, colpito da nemesi inaudita. Eppure quel volto non appartiene a un uomo ignaro, incosciente di sé e del paese dove lavora, colto di sorpresa dalla vastità del delitto (tentato stupro, aggressione sessuale, sequestro di persona: non sono accuse minori).
Strauss-Kahn sapeva com’è fatto il mondo, conosceva l’America e una giustizia che non concede impunità ai potenti e anzi spettacolarizza l’uguaglianza di tutti davanti alla legge (lo si è visto nel caso del finanziere Madoff, di Spitzer costretto a dimettersi da governatore di New York per un giro di escort). Conosceva a perfezione, come tutti coloro che sono ai vertici del potere e non sono stupidi, che ogni sua mossa era da anni spiata con occhio non solo curioso ma avido, spesso vendicativo. Conosceva anche i propri avversari, e ne aveva tanti sia in Francia sia altrove, da quando era direttore del Fondo monetario internazionale e aveva cominciato ad affrontare a modo suo, controcorrente, una crisi economica che tutto aveva messo in forse, e in primis l’ideologia stessa del Fondo. Dostoevskij ci fornisce il ritratto più calzante di quel che DSK è divenuto in queste ore: un potente scaraventato a terra, un uomo che ha sfidato il destino e che di fatto è un suicidato. Più precisamente: un giocatore d’azzardo che non gioca a casaccio, ma compulsivamente.
La politica è piena di simili Posseduti – in medicina si parla di dipendenza senza sostanze: in Italia ne sappiamo qualcosa, anzi molto. Giocano con tutto: non solo col potere politico ma col proprio corpo e con i corpi altrui, che calpestano. Dostoevskij racconta questa speciale dipendenza: il suo Giocatore finge l’attaccamento al lucro (o al sesso) ma l’oscuro oggetto del desiderio è altro: è l’«estrema bramosia di rischio, la voglia di stupire gli spettatori rischiando follemente». Inabissato nell’umiliazione, il direttore del Fondo monetario ha il volto di Aleksej Ivanovic: «Mi sembra di essermi fatto come di legno, di essermi come impantanato nella melma». Fatale, la roulette ha fermato il suo giro. Nella vita e nella politica, la chiave è nel vocabolario del croupier: «les jeux sont faits», «rien ne va plus». I giochi sono fatti, le puntate sono chiuse. Rien va: avrebbe chiuso Tommaso Landolfi.
Strauss-Kahn, non un Eroe ma un Giocatore dei nostri tempi. E forse anche di altri tempi: l’agonia della democrazia di Weimar, Fritz Lang la riassunse nella figura allegorica dello Spieler, del Giocatore. Può darsi che la vicenda sia una lurida montatura, o un equivoco atroce, anche solo in parte. Può darsi che qualcuno abbia teso una trappola, nella suite del Sofitel. Ma se trappola c’è stata, è stata tesa a un uomo che ha prestato il fianco, immerso nel fascino del rischio: ogni sorta di rischio, dal più nobile al più sozzo, fino allo stupro. A un uomo che intrecciava politica e sesso, senza tema di provocare disgusto. C’è una politica del disgusto – Martha Nussbaum ne descrive le ordalie in Disgusto e umanità – e Strauss-Kahn non l’ha messa nel calcolo. Se hai un punto debole, la politica del disgusto fa sì che resti impigliato e tramortito come un grosso ragno dentro l’aggrovigliata, troppo aggrovigliata tela che hai tessuto con le tue mani.
Il fatto che DSK non abbia calcolato razionalmente, pur conoscendo il precedente di Spitzer, che sia vissuto senza un grammo di prudenza: questo crea sgomento. Ha preferito la roulette agli scacchi, che secondo Benjamin Franklin insegnano ben diversi comportamenti: «Primo: la preveggenza, che guarda un po’ nel futuro e considera le conseguenze che possono venire da un’azione, perché il giocatore pensa continuamente. Secondo: la circospezione, che percorre l’intera scacchiera o scena dell’azione, le relazioni fra i diversi pezzi e le situazioni, i pericoli a cui sono rispettivamente esposti, (...) le probabilità che l’avversario faccia questa o quella mossa e attacchi questo o quel pezzo. Terzo: la cautela di non fare mosse troppo affrettate» (La morale degli scacchi, 1779). La regola dello scacchista è «accettare tutte le conseguenze della tua precipitazione». Strauss-Kahn l’ha sprezzata e ha perso tutto: la bramosia lo ha stritolato e rabbuia le stesse sue battaglie politiche. Forse non teneva a esse come diceva. Era pronto a sperperarle, sprecarle. Alcuni dicono: forse era un politico leggero, che si gettava nell’agone capricciosamente, che nell’intimo non ne aveva sufficientemente voglia. Non era un antipolitico come Berlusconi, ma si è comportato come se lo fosse.
È talmente incredibile, la sua storia nell’hotel (l’aggressione di una cameriera, e poi la colazione con la figlia come se nulla fosse, e infine i preparativi del viaggio in Europa dove l’attendevano riunioni decisive su Grecia e Portogallo minacciati dalla bancarotta) che allo stupore s’aggiunge qualcosa di infuriante. Se la sequela dovesse rivelarsi veridica, se l’accusa del procuratore venisse confermata, lo stupore si tramuterebbe in disgusto e anche collera. Disgusto per come un potente del mondo perde il senso della realtà, e viene a tal punto trasformato dalla politica e dal potere da accantonare sia la decenza sia la prudenza. Collera per le ripercussioni dell’accaduto e per l’idiota sottovalutazione prima del disastro, poi della soddisfazione che esso procurerà a tanti che esecravano la sua persona.
Questo colpisce nelle vicende di chi, forte della posizione di comando esercitato nel Fondo, si preparava presumibilmente a tornare in Francia, a duellare con Sarkozy nelle presidenziali del 2012. Colpisce l’abissale indifferenza alle frecce che possono trafiggere il potente, quando con disinvoltura si asserve alla roulette. Ci sono tutti gli ingredienti della favola nera: c’è il Dr. Jekyll che beve la miscela che s’è fabbricato e barcolla in vie notturne tramutato in criminoso Mr. Hyde. E c’è qualcosa di talmente cupo che si stenta a non fantasticare su avversari che altro non aspettavano che il finale sbandamento. Perché gli avversari politici esistevano, sesso e violenza non occupavano tutti gli spazi di DSK. Quel che stava facendo, nel Fondo, era secondo alcuni una rivoluzione. Appena 9 giorni prima del fattaccio, Joseph Stiglitz, l’economista che da anni denuncia i misfatti del Fmi, scrisse un articolo in cui annunciava la svolta radicale che Strauss-Kahn voleva imprimere all’istituzione: la fine delle condizioni capestro imposte ai paesi poveri, il «nesso indispensabile tra equità, occupazione e stabilità economica», la volontà di mettere tale nesso al centro del governo mondiale dell’economia (discorso alla Brookings Institution, 13 aprile 2011, vedi http://www.imf.org).
Anche per questo sul web ci si interroga, si parla di trame livide. Si ricorda l’offensiva contro Assange, accusato di stupro per screditare Wikileaks. Si enumerano i poteri forti (a Wall Street o in Francia) che potrebbero profittare del ragno suicidatosi nella tela. È troppo presto per trovare risposte chiare. E in fondo importa poco, sapere se il film noir è anche un noir politico. Per gli effetti che ha, è la storia di una gigantesca sconfitta politica. Di un giocatore talmente imbozzolato che nulla sa, come in Borges, dei pezzi che ha mosso: «Dio muove il giocatore, e questi il pezzo. Quale dio dietro Dio la trama ordisce di tempo e polvere, sogno e agonia?».