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Demolito l’avversario, occorre ricostruire la città e consolidare una comunità rimasta allo sbando per troppo tempo. Giuliano Pisapia deve stare attento: lo attende una opposizione dura, accanita, aggressiva. Alla quale deve saper far fronte con equilibrio e moderazione. Lo ha capito bene Bersani, nel discorso poco trionfalista pronunciato subito dopo la vittoria: pacato e conciliante, seppure fermo e deciso; volto a spirito di collaborazione e non di contrapposizione.

Pisapia deve stare fermissimo nella difesa degli obiettivi politici, ma nello stesso tempo essere disposto a dialogare con tutte le forze cittadine pronte a dare il loro contribuito. Fermissimo nel condannare il disastroso Piano di governo del territorio, ma disposto a concordare un nuovo sviluppo urbanistico, meno dissennato del precedente, con tutti i costruttori e gli operatori immobiliari della città. Questi eserciteranno forti pressioni per difendere le enormi quantità di metri cubi consentiti dal Piano attuale.

Pisapia all’inizio aveva detto che il Pgt sarebbe stato rifatto integralmente; ma alla fine, con nostro dispiacere, ha soggiunto che verrà modificato solo parzialmente. Un cedimento? Ora deve instaurare al più presto un accordo con i costruttori e far loro capire che la nuova amministrazione non rappresenta un pericolo né una minaccia per le loro attività. Essa si pone solo l’obbiettivo di indirizzare l’edificazione verso obiettivi più realistici e sani: meno case di lusso, più case sociali, meno opere faraoniche, come il tunnel Rho-Linate, e più opere urgenti, come i sovrappassi stradali negli incroci congestionati, i parcheggi periferici nei nodi di interscambio, i centri sociali e gli asili-nido nelle zone di periferia.

Dal momento che costruttori e operatori immobiliari sono forze di lavoro produttive, dalle quali dipendono le attività di molti collaboratori, fornitori, dipendenti, assumere verso di loro una ostilità preconcetta sarebbe un grave errore. Così come sarebbe un brutto atteggiamento da parte loro non accettare la mano tesa del sindaco. Se si intende attuare il lodevole proposito di dialogare con gli abitanti, occorre prepararsi ad ascoltare anche quelli di orientamento politico diverso o opposto. Prima di essere il rappresentante di un partito il sindaco è sindaco di tutti i cittadini. Così come un padre saggio è sempre pronto ad ascoltare e, se possibile, accontentare tutti i suoi figli, perfino quelli che stima meno, allo stesso modo un bravo sindaco deve essere sempre pronto a prestare attenzione e capire la ragioni di tutti i suoi concittadini, anche di quelli che sente meno vicini.

Una regola di comportamento non difficile da mettere in pratica: basta fare il contrario di ciò che ha fatto il sindaco precedente.

Nota: su questo sito ormai da anni si accumulano le osservazioni anche di carattere puntuale su cosa non va nel "manico" dello strumento di programmazione territoriale milanese. Alla vigilia delle elezioni abbiamo anche provato a fare il punto e questo è il risultato (f.b.)

Conversazione fantastica e post elettorale in cui il despota (indovinate a chi somiglia?) avverte: «Celebrate il successo di oggi, ma domani dovrete fare i conti con quello che ho seminato nelle menti e i cuori degli italiani»

Democratica: «Trenta maggio 2011. Oggi è il giorno della mia festa. Ho indossato un abito grigio e ho messo fiori nei capelli per celebrare. L’abito è grigio perché alla democrazia non si addicono passioni forti e colori sanguigni. E’ una forma d governo "normale" che richiede impegno quotidiano, partecipazione, attenzione».

Tiranno: «La festa per te non implica la sconfitta per me. Festeggio oggi, vestendomi in abiti sgargianti o smorti (suggerisci lo stilista di punta: lo farò mio, con ogni anoressia che impone a chi sfila su quelle passerelle del nulla), e proseguo col nutrirti di battute di spirito. Il potere mi apparterà ormai, comunque. “Innovative ricchezze” e particolari filiazioni costituiscono garanzie. Democrazia? Si è mai concretizzata? Con chi? E chi sarei io? Nel libro VIII de La Repubblica di Platone, leggo: “Quando un popolo, divorato dalla sete della libertà, si trova ad avere a capo dei coppieri che gliene versano quante ne vuole, fino ad ubriacarlo, accade allora che, se i governanti resistono alle richieste dei sempre più esigenti sudditi, son dichiarati tiranni”. Ubriacati di libertà? O di ciò che in passato è stato sublimato, ma pure assiduamente cercato grazie a me, o proiettato in me? Evasioni fiscali, condoni di ogni genere (chi a Milano non possiede un vero e proprio attico, un tempo mero magro sottotetto?), guadagni facili, ignoranze, incompetente al potere, mafie, maschilismi, narcisismi, e via di dicendo. Primitivi, stando a Thomas Hobbes. Terminerà forse “la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto per parlare con più riverenza di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa”?».

Scettica: «Non festeggio, non esulto. Non perché non riconosca con razionale soddisfazione che le regole democratiche funzionano e facciano sentire che vale la pena stare al gioco, che gioco c’è. Non festeggio perché diffido delle celebrazioni. Come diffido delle visioni catastrofiche. Fino a qualche mese fa, tu Democratica gridavi alla crisi della democrazia e oggi sembri giá convinta che crisi non ci sia piú. Come se una vittoria elettorale fosse capace a dissipare i dubbi e le ombre che ti hanno oppressa in questi anni. Non credo che una vittoria sia sufficiente per concludere che tutto è normale. Certo, la normalitá delle procedure democratiche funziona, e questo è dimostrato dal fatto viene accettata da tutti l’alternanza di governo municipale. Tuttavia, non sottovaluterei i potenti mezzi che tu Tiranno puoi ancora sfoderare contro Democrazia. Per esempio, il monopolio dei mezzi di comunicazione, e l’enorme potere clientelare e finanziario che gestisci all’oscuro di tutti noi e della legge. Insomma, una viola non fa primavera».

Democratica: «È vero. Ricordo, inoltre, che la democrazia è quella forma di governo nella quale il coraggio non dovrebbe essere importante. Lo ha fatto presente anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’ 8 marzo 2010, per le celebrazioni della giornata della donna. Non dovrebbe. Non ci sarebbe, infatti, bisogno di coraggio se la democrazia fosse in grado di garantire, oltre al buon funzionamento delle istituzioni, anche condizioni eque nella gestione delle istituzioni medesime. Invece noi in Italia sappiamo che tu, Tiranno, detieni il monopolio dei mezzi di comunicazione, come ha ricordato lo Scettico, e possiedi enormi ricchezze con cui acquistare ogni cosa, compresi voti e coscienze. Poiché, dunque, la nostra democrazia rimane ancora fragile, occorre essere pronti a usare anche il coraggio, oltre alle altre antiche virtù: giustizia, prudenza, temperanza».

Tiranno: «Le mie risorse sono davvero abbondanti, e poi, senza dubbio, essendoci in ciascun individuo un piccolo tirannello pronto a far tacere la ragione e con una democrazia che riposa proprio sulle scelte degli individui, allora ho di che sperare. Tu, Democratica, celebra pure il tuo successo di oggi, poi domani dovrai comunque fare i conti con quello che in questi anni ho seminato nelle menti e nei cuori dei cittadini italiani. Di me non riuscirai con facilità a liberarti».

L´antidoto al berlusconismo non poteva che sprigionarsi dall´interno della società milanese. La nuova sinistra del Nord è nata nell´unico modo in cui poteva nascere, cioè come alternativa culturale a un sistema di potere ventennale che, proprio a Milano, appariva granitico, pur non essendolo, grazie all´organicità della sua ideologia.

Una visione mercificata delle relazioni umane, in cui la parola "libertà" veniva disinvoltamente brandita per zittire le aspirazioni di "uguaglianza" e "fratellanza"; una "libertà" del privilegio rivolta perfino contro il vincolo comunitario della "legalità".

Facile dirlo, ora che è successo davvero: per liberare l´Italia bisognava cominciare dalla liberazione di Milano. Ma fino a ieri il senso comune prevalente era ben altro. Una visione spregiudicata, talvolta cinica, della politica come mera misurazione dei rapporti di forza, ereditata dalle scuole di partito novecentesche, liquidava come dilettantismo ingenuo questa prospettiva di crescita della partecipazione dal basso, valorizzata infine da un leader come Giuliano Pisapia: anticarismatico, ma con un netto profilo culturale alternativo.

A lungo è prevalsa la convinzione che l´Italia potesse essere governata da sinistra nonostante Milano, solo accerchiandola e neutralizzandola. Quasi che il Lombardo-Veneto andasse considerato per sua stessa natura terra ostile a un progetto incentrato sulla giustizia sociale, su un prelievo fiscale equamente ripartito, sui valori della solidarietà nei confronti dei più deboli. Quasi che insieme alle fabbriche fosse scomparso anche il proletariato.

La teoria della Milano inespugnabile, dunque da sottomettere grazie a una maggioranza conseguita altrove (come nel 1996 e nel 2006), prevedeva necessariamente la variabile tattica dell´infiltrazione, o del compiacimento subalterno. Mai risolto l´enigma di come la sinistra possa rendersi attraente per i non meglio precisati "ceti emergenti", da ultimo ribattezzati "popolo delle partite Iva" - parole balbettate timidamente dai dirigenti romani in trasferta, come volessero esibire dimestichezza con una lingua straniera - ha alimentato per anni la scorciatoia della lusinga. Le più prestigiose Fondazioni dei leader politici nazionali sbarcavano a Milano facendosi sponsorizzare convegni sui temi della finanza, del credito e della sicurezza, all´unico scopo di conservare il rapporto con un establishment che gli era familiare per via delle sue frequenti incursioni nei palazzi romani; e per la comune pratica dell´economia di relazione. Sì, stiamo parlando proprio di quell´establishment che secondo le teorie in auge nel Pd milanese mai avrebbe potuto appoggiare un esponente politico della sinistra nella competizione per Palazzo Marino, perché inaccettabile ai "moderati". Ora sappiamo com´è andata, grazie alle primarie del novembre 2010 che hanno sovvertito la sua indicazione.

La traduzione nella politica locale di questa abitudine di compiacere la società del Nord, o meglio l´immagine deformata che ne trasmettevano i mass media, ha comportato imbarazzanti episodi di subalternità ai falsi argomenti della destra. Ricordiamo certi sì alle ronde; il documento del Pd lombardo in cui si proponeva un tetto alla presenza dei bambini stranieri nelle scuole; la polemica contro l´ultimo governo Prodi accusato di eccessiva debolezza con i rom; la corrività su un federalismo di facciata. Pareva che il leghismo dovesse trovare una declinazione da sinistra, nel nome di una presunta volontà popolare.

Intanto l´elettorato di sinistra - nelle periferie, ma non solo - voltava le spalle a questi astuti professionisti della tattica, con una massiccia propensione all´astensionismo. Solo l´esemplare comportamento di Stefano Boeri, sconfitto alle primarie ma impegnato dal giorno dopo alla testa del Pd nella campagna per Pisapia, ha consentito il lusinghiero successo del partito di Bersani, evitandone una pericolosa deriva. Quando già al suo interno qualcuno prospettava una scelta autolesionistica ma coerente col mito di Milano città imprendibile: appoggiare la candidatura dell´ex sindaco di destra Gabriele Albertini. Chiamando un´altra volta gli elettori a votare il "meno peggio", nella convinzione sbagliata che il volto della sinistra milanese risultasse loro impresentabile.

Quale sinistra è, dunque, la nuova sinistra protagonista della liberazione del Nord dall´egemonia berlusconian-leghista?

Stiamo parlando della città che prima ancora di Tangentopoli aveva vissuto lo scisma di Craxi. Cioè la frantumazione della cultura riformista consumata proprio negli anni che ne avrebbero dovuto consacrare l'egemonia a sinistra, in seguito al definitivo fallimento del movimento comunista. Le inchieste giudiziarie di Mani Pulite fecero sì che a Milano la linea di demarcazione imposta dal nascente bipolarismo italiano producesse effetti brutali. Restarono dall´altra parte, più o meno inglobate nel sistema di potere berlusconiano, componenti significative del riformismo lombardo socialista, ex comunista e cattolico. Non sono pochi i rappresentanti di questi filoni riformisti che accettarono incarichi amministrativi e di governo nel centrodestra, o magari nella Compagnia delle Opere. Qualcuno con disagio, altri accontentandosi di vantaggi personali.

La simpatia manifestata nei confronti del garantista antiberlusconiano Giuliano Pisapia da parte di uomini come Carlo Tognoli, Bruno Tabacci, Piero Borghini, lasciano sperare che la nuova sinistra del Nord abbia in sé le caratteristiche per superare questa frattura storica. E spalanca inedite prospettive di crescita per lo stesso Partito democratico.

Ma sbaglieremmo limitandoci a questa lettura politologica della riconquista di Palazzo Marino. La figura straordinaria del maestro elementare Paolo Limonta, coordinatore dei Comitati elettorali di Pisapia, regista accorto di una campagna alla quale non ha voluto sacrificare neppure un´ora di insegnamento, chiama in causa la più grave dimenticanza di chi guardava a Milano come città naturaliter di destra. Bisognava esserci, nel giugno 2009, ai funerali del cantautore della sinistra milanese Ivan della Mea, nel "suo" circolo Arci-Corvetto, per ricordare come la rete dell´associazionismo popolare socialista, comunista, cattolico, sessantottino, ramificata lungo più di un secolo nei quartieri cittadini, ha continuato a esistere. Dimenticata, in attesa che qualcuno le rivolgesse di nuovo parole d´impegno e riscatto. Quanto ai vilipesi centri sociali, c´è voluto Claudio Bisio, star di Mediaset, per ricordare quanto gli sia debitrice la cultura milanese. Demonizzarli, in una metropoli afflitta dal disagio giovanile, è stato prima di tutto un segno di ignoranza, tanto più ora che questo universo ha dispiegato nella rete della comunicazione virtuale il potenziale formidabile dei suoi linguaggi creativi.

Nella Curia arcivescovile del cardinale Dionigi Tettamanzi, nel Palazzo di Giustizia di Edmondo Bruti Liberati e nella Fondazione Cariplo del vecchio democratico Giuseppe Guzzetti, la Milano che da anni mal sopportava il malgoverno e gli abusi della destra ha trovato dei punti di riferimento più saldi di quelli offerti da un centrosinistra titubante. Finché, grazie allo strumento partecipativo delle primarie, questa Milano si è messa in cammino facendo da sé. Si è scoperta giovane, o ringiovanita. Si è manifestata attraverso il suo volto migliore, plurale e collettivo, senza paura di spaventare i "moderati". Che oggi la ringraziano.

Incassato il trionfo dei ballottaggi ed il previsto via libera della Cassazione al referendum sul nucleare, si tratta ora di dare pieno significato politico al primo successo della sinistra nella storia della seconda repubblica. I successi di candidati autenticamente alternativi a Napoli, Milano e Cagliari, sebbene assolutamente necessari per iniziare finalmente ad invertire la rotta anche in Italia dopo vent'anni di pensiero unico, non sono di per sé sufficienti. È fondamentale, per dare un senso politico nazionale a questo vero e proprio rinascimento della coscienza civile e politica italiana, vincere i referendum il prossimo 12 e 13 giugno. L'affluenza alle urne, piuttosto bassa anche ai ballottaggi, rende l'idea di quanto ciò sia difficile. Tuttavia è proprio il referendum il passaggio essenziale per dimostrare la vocazione maggioritaria di questa nuova progettualità, radicalmente alternativa rispetto alla visione che ha fin qui dominato e che ancora spadroneggia non soltanto al governo ma anche in Parlamento.

I referendum infatti (proprio come i candidati vincenti di Milano, Napoli e Cagliari) letti nel loro insieme, rompono senza ambiguità con il ventennio del pensiero unico. Quelli sull'acqua possono finalmente mettere la pietra tombale sull'ideologia delle liberalizzazioni che ha avuto, e in gran parte ancora ha, nel Partito democratico (incluso il segretario nazionale) una sua roccaforte. Da anni raccogliamo dati a livello internazionale sui risultati effettivi delle privatizzazioniliberalizzazioni (per fortuna nessuno perde più tempo cercando di distinguere i due concetti). Da ben prima della grande crisi del 2008 siamo stati capaci di redigere, con metodo empirico, le leggi ferree che le governano: aumento delle tariffe; riduzione degli investimenti (anche sulla sicurezza: vedi ritorno dell'epatite A in Inghilterra); aumenti dei compensi dei manager; aumento dei budget per la pubblicità (necessari per controllare l'informazione). Da anni sappiamo che la gestione privata è incompatibile con i beni comuni, perché essi (ciò vale anche per i servizi pubblici diversi dall'acqua, come il trasporto e la gestione dei rifiuti) resistono alla logica produttivistica ed aziendalistica e vanno governati nella logica ecologica della riproduzione (in altre parole devono essere sostenuti da sussidi perché il loro valore è ecologico) e della soddisfazione dei diritti fondamentali.

Da anni sappiamo che la contrapposizione fra pubblico e privato, declinata nella (falsa) alternativa secca a somma zero fra Stato e mercato (più stato=meno mercato; più mercato=meno stato) stritola i beni comuni come una tenaglia, perché stato e mercato, lungi dall'essere antitetici, sono il prodotto storico della stessa logica individualistica, gerarchica e competitiva che, se non imbrigliata da processi politici autenticamente democratici e partecipativi, produce soltanto violenza e saccheggio. Stato e mercato cospirano contro i beni comuni e la follia nucleare costituisce la quintessenza di tale tradimento dell' interesse pubblico (ossia collettivo) a favore di quello privato (sia esso delle imprese beneficiarie degli appalti o dei partiti appaltatori). La questione nucleare non c'entra con quella energetica! Essa, come la costruzione delle Piramidi nell'antico Egitto o le grandi dighe nelle società idrauliche, serve soltanto a costruire un modello di controllo sociale fondato sulla centralizzazione piena del potere e delle risorse, sull'ideologia securitaria ed autoritaria e sull'annientamento delle libertà civili fondamentali dei cittadini. Contro questo modello di sviluppo si sono ribellati i movimenti. I referendum rimettono all'ordine del giorno la necessità che i requisiti della «pubblica utilità», della «riserva di legge» e dell'«indennizzo equo» non accompagnino solo l'espropriazione del privato a favore del pubblico ma anche del pubblico a favore del privato.

Quella iniziata ieri è una fase costituente decisiva per il nostro paese e forse anche oltre i nostri confini. L'elettorato italiano ha detto basta ad una subcultura politica incapace di adeguarsi alla crisi che stiamo vivendo, ad un linguaggio e ad una prassi che ripetono un triste mantra di continuità culturale come se la fine della storia non fosse a sua volta finita. È un mantra che, in nome dello sviluppo e di una falsa concezione dell'economia, sa solo offrire un modello di convivenza triste, competitiva, senza rete. Un modello a cui gli elettori stanno finalmente reagendo. Insieme possiamo finalmente costruire un'Italia in cui sia più bello per tutti vivere.

La Corte di Cassazione ha fatto la sua parte, con intelligenza giuridica e senso delle istituzioni. Gli effetti della decisione di far tenere il referendum sul nucleare sono evidenti, viene sventato il colpo di mano di un governo prepotente e incompetente. Viene impedita una frode del legislatore a danno degli elettori. Viene restaurata la legalità costituzionale. Disprezzata da chi pensava che con uno sgangherato tratto di penna potesse esser fatta tacere la voce dei cittadini. Viene così disinnescata la trappola congegnata con l´apparenza dell´abrogazione delle norme sulla costruzione delle centrali nucleari e con la sostanza di un governo che pretendeva di tenersi le mani libere per far ripartire a suo piacimento il programma nucleare. Un espediente misero, un´evidente legge truffa, che violava il principio secondo il quale il referendum non si tiene solo se la nuova legge va esattamente nella direzione voluta dai suoi promotori.

La Cassazione ha colto la malafede governativa (implacabilmente documentata dalla memoria presentata da Alessandro Pace) e ha trasferito il referendum proprio sulla parte truffaldina della nuova norma. La morale di ieri è limpida. E ancora possibile sottrarre libertà e diritti all´aggressione di cui sono continuamente oggetto. La sconfitta politica del governo e della maggioranza non poteva essere più chiara.

Da tempo, infatti, eravamo costretti a fare i conti con una linea governativa sempre più pericolosa, avventurosa, costosa. Una linea, però, che ormai incontra resistenze sempre più decise, che hanno cominciato a demolirla e che, insieme, stanno facendo emergere le vere questioni nelle quali si riconoscono i cittadini. E non trascuriamo la decisione presa nella stessa giornata di ieri dall´Agcom, che ha dato indicazioni alla Rai perché sia assicurata una effettiva informazione sui referendum, dopo la vergogna dei silenzi, delle trasmissioni semiclandestine, degli spot "informativi" che sembravano fatti apposta per togliere ai cittadini ogni voglia di andare a votare.

Questa strategia antireferendaria è fallita. Fuggita dal referendum, la maggioranza si trova ora a fare i conti con un nuovo smacco. Chi sarà indicato come responsabile? Qualche povero amanuense? Gli eterni giudici comunisti? E deve soprattutto fare i conti con quei cittadini "emotivi" ai quali si è cercato di negare il diritto di voto. Che, però, sono ora in buona compagnia, con l´emotiva Angela Merkel che ha decretato la fine del programma nucleare tedesco.

Riportati nella loro interezza sulla scena istituzionale, i quesiti referendari sono destinati a caratterizzare ulteriormente e ad accelerare le dinamiche politiche appena avviate. Le elezioni amministrative hanno visto la comparsa di nuovi soggetti, non solo i nuovi sindaci, ma tutto quel mondo di donne, giovani, studenti, lavoratori, indignati di ogni età che, nei mesi passati hanno rivitalizzato la politica e che più d´uno aveva liquidato con un´alzata di spalle. I referendum, da parte loro, segnalano ora la comparsa di una nuova agenda politica, costruita intorno a temi forti, che parlano del futuro di tutti. Di un punto di unione tra queste due vicende, le elezioni amministrative e i referendum, e che si trova proprio nelle forze in campo, perché il miracolo del milione e quattrocentomila firme per i referendum sull´acqua "bene comune", record assoluto per la materia referendaria, nasce proprio dalla mobilitazione di persone che poi sono state protagoniste nel tempo delle elezioni e che, a maggior ragione tornano ad esserlo in queste giornate.

Beni comuni, appunto. Questo è il tratto unificante dei quesiti referendari. Il bene comune dell´acqua sottratto alle pretese speculative. Il bene comune della salute e dell´ambiente sottratto al rischio nucleare. Il bene comune della legalità sottratta ad una giustizia a due velocità prodotta dal legittimo impedimento. Il caso o l´astuzia della ragione o la Provvidenza hanno fatto sì che si producesse una congiunzione così significativa. In un colpo solo possiamo dare alla vita, ai bisogni, all´eguaglianza, al futuro un senso che sembrava perduto.

Molti sono sconcertati [e] continuano a giudicare i referendum sull´acqua in particolare con criteri di convenienza economica e non colgono le dimensioni di un vero passaggio d´epoca che non può essere affrontato con le categorie del passato. Forse stiamo entrando davvero in un mondo tutto nuovo, e questo può far tirare un respiro di sollievo. Ma servono molta fede e molto impegno.

La prova è vicina, il 12 e 13 di giugno.

L'anatra zoppa? «Non esiste», risponde con la serenità che lo accompagnerà durante tutta l'intervista. Massimo Zedda è convinto che il centrosinistra avrà, oltre al sindaco, anche la maggioranza del consiglio comunale nonostante al primo turno le destre abbiano raccolto più voti. Del resto i precedenti gli danno ragione. Né anatra zoppa né pulcino bagnato: il trentacinquenne primo cittadino di Cagliari nasconde, dietro quell'aria un po' così, una solidità che gli è data da tre doti che mi colpiscono: passione politica, fiducia e, appunto, serenità. Adesso che ha superato con i massimi voti gli scogli delle primarie, del primo e del secondo turno dovrà recuperare almeno un po' dei chili persi battendo strada per strada la sua città. Si è appena comprato un vestito nuovo perché quello vecchio è diventato troppo largo.

Cagliari città di destra, in mano ai costruttori, ai commercianti, a una borghesia conservatrice. La sinistra e poi il centrosinistra non hanno mai creduto di poter vincere, al massimo si preoccupavano di scegliere uomini e politiche moderate, diciamo pure con qualche complicità per vivere in una realtà segnata dal destino. Cos'è successo? Come è stato possibile il miracolo?

Nessun miracolo, semplicemente ci abbiamo creduto fin dall'inizio, ci abbiamo messo passione e abbiamo raccolto i frutti di uno straordinario lavoro collettivo. Mi hanno avvicinato centinaia di persone, di giovani che si sono messi a disposizione nella campagna elettorale. Mica si limitavano a distribuire volantini, li facevano loro, si inventavano iniziative, incontri, coinvolgevano altre persone. Chi l'ha detto che Cagliari è una città di destra? Dovremmo chiederci piuttosto che cosa offriva il centrosinistra, quale diversa idea della città e dei beni comuni aveva. Noi abbiamo proposto un'alternativa, nel metodo - la partecipazione, la trasparenza, l'onestà - e nel contenuto.

Ti hanno votato i giovani, ma anche i padri e i nonni dei giovani. Anche quelli che hanno sempre pensato che per la sinistra non ci fosse nulla da fare se non riproporre politiche moderate, puntate al centro e incentrate su un ceto politico immodificabile.



Questo è il punto. Dire che non c'è nulla da fare è una giustificazione che nasconde impotenza e pigrizia. Invece bisogna osare, provarci, basta con l'introiezione della sconfitta. Già alle primarie qualche compagno mi chiedeva di ritirarmi per non oscurare o ridimensionare la vittoria del candidato doc data per certa. Io ho semplicemente risposto che non avrei oscurato nessuno, semplicemente avrei vinto, lo capivo parlando con le persone di cose concrete.

Quali sono le cose concrete?



Mica mi chiedevano dei guai giudiziari di Berlusconi, volevano discutere del lavoro che non c'è e quando c'è è precario, dei servizi, della scuola, dell'ambiente. Io ho sempre detto che non ho ricette miracolistiche e che le risposte vanno costruite insieme, con il contributo e la partecipazione di tutti. Per questo bisogna coinvolgere il mondo del lavoro, delle professioni, della cultura, della ricerca. Ma con ottimismo: se un secolo fa chi ha costruito le prime esperienze di cooperative, le associazioni, i sindacati, avesse avuto l'atteggiamento di chi pensa che di fronte ha un mondo troppo ostile e complicato, non avrebbero costruito un bel niente.

Vuoi dire che ti saresti immaginato un esito straordinario come quello che oggi fa interrogare tutti? Vincere le primarie, e infine sbaragliare l'avversario lasciandolo indietro di venti lunghezze?



E mica sono così presuntuoso, però, ripento, pensavo che ce l'avrei fatta quando ho visto esplodere l'entusiasmo delle magliette rosse. Anche rosse e blu che sono i colori di Cagliari con quel «2011» che ricorda il numero 11 della maglietta di Gigi Riva. È vero, sono di più le magliette tutte rosse: e allora?

Ti aspetta un compito molto difficile. Come pensi di affrontarlo?



Sto rinunciando a molti spazi privati, persino ai soldi che prendevo da consigliere regionale. Faccio sacrifici ma con soddisfazione cercando di restituire alla politica contenuti e etica che sono i motori della partecipazione. La politica non è interesse personale. Con questo spirito e in tanti si possono spostare macigni, e l'occupazione da queste parti è un macigno. Un sindaco non può fare da solo, deve stimolare le persone, i giovani ma non solo, deve aiutare questa città e la sua parte migliore a scollarsi di dosso sfiducia e passività, favorire una presa di coscienza collettiva che è l'unico modo per cambiare. Non basta dire come fanno tutti che serve il confronto: serve il lavoro e l'impegno comune, serve la condivisione. Vorrei coinvolgere movimenti, associazioni, categorie. Voglio che il sindacato mi tracci dei profili, non che mi dicano dei nomi, per affrontare il nodo del lavoro.

Poi però dovrai fare una giunta, e le pressioni dei partiti, forse anche dei vecchi ceti politici, non mancheranno.



Anche per fare la giunta non ho bisogno di nomi. Ho visto in questi giorni vecchi compagni piangere dalla gioia per aver scoperto che era vero, si poteva fare. Conta più questo, una grande motivazione, o un assessorato? A volte si racconta la politica peggio di come è. A volte si trovano insormontabili problemi che non lo sono: sai che stiamo spendendo solo il 17% dei fondi europei? E allora quando dico che bisogna mettere mano alla piaga del precariato, anche tra centinaia di dipendenti del Comune, non sono pazzo. Del resto, se un'azienda o un'amministrazione per vent'anni rinnova alle stesse persone contratti precari e a termine vuol dire che di quelle persone ha bisogno.

Cosa ha più contribuito alla tua vittoria?



Quando si vince o si perde le ragioni sono sempre molte. Il vento del cambiamento generale, l'assunzione di responsabilità di nuove generazioni, le proteste sociali di questi mesi che hanno assediato Cagliari e la Regione, studenti, pastori, partite Iva, precari, operai.

La personalizzazione spinta da una riforma elettorale che riduce il potere dei consigli ed esalta quello dei sindaci può cambiare anche le persone migliori

Nelle magliette rosse abbiamo scritto «Ora tocca a noi», il mio nome non compare neppure. Io dovrò avere uno stile, un comportamento adeguati al ruolo, ma voglio essere sempre quello che sono.

Il vecchio monito «se tira l’edilizia tira tutta l’economia» è forse un po’ abusato ma nasconde una verità di fondo: difficilmente per lo sviluppo dell’occupazione e della ricchezza si può fare a meno dell’indotto creato dalle costruzioni, dato che da solo esso pesa circa il 10 per cento della produzione lorda nazionale. Potrà forse farne a meno la Milano dell’ecologismo neocomunista di Pisapia? Probabilmente no.
Il peso del mattone nell’economia milanese che, storicamente difettando di risorse naturali o bellezze paesaggistiche da sfruttare, ha avuto come ricchezza principale nient’altro che la propria posizione geografica, è sempre stato grande.

Un perfetto emporio, un’area a vocazione terziaria è normale che conviva con le gru: la vetrina deve essere sempre moderna, nuova, sfavillante. Per questo da sempre Milano si consuma e si ricostruisce, mantenendo qualche angolo di ricordi ma sempre proiettata verso il nuovo. Negli ultimi anni la trasformazione di Milano ha imboccato una fase nuova, salendo verso l’alto, con i grattacieli che attirano gli sguardi dei passanti sotto i cantieri e impiegano migliaia di operai per la loro costruzione. Adesso da questi cantieri si guarda con preoccupazione alla rivoluzione di Palazzo Marino e ci si domanda cosa cambierà con il nuovo sindaco che, in modo esplicito, aveva promesso una «ripartenza da zero» rispetto al Piano di governo del territorio vigente. Non per niente tutta l’industria delle costruzioni è stata da subito definita come la grande sconfitta di questa tornata elettorale e i cognomi degli immobiliaristi famosi come Cabassi e Ligresti, i Catella o i Caltagirone, Hines e Bizzi vengono pronunciati da qualche ingenuo con un tono che ricorda molto l’«Ei fu» di manzoniana memoria. In particolare, per Ligresti il contrasto fra i suoi progetti di espansione urbanistica verso il sud della città e i punti del programma di Pisapia che invece vagheggiano in quell’area prati orti e paperelle sembra del tutto inconciliabile.


Ma le cose stanno proprio così? Difficile. Se si dovesse prendere alla lettera l’intento del nuovo sindaco che proclama al primo punto delle sue strategie urbanistiche la necessità di «smettere di crescere nel territorio e valorizzare l’agricoltura di prossimità» staremmo freschi: Milano che punta sull’agricoltura è come far puntare Piacenza sull’alpinismo. È vero che la sinistra ci ha abituato a queste sciocchezze demagogiche mirate a colpire il «core business» dei territori in nome di un ecologismo da signori, vedi l’infausta tassa sugli yacht inventata da Soru in Sardegna. In quel caso però i mancati introiti li avrebbe come al solito pagati Milano a suon di trasferimenti ma se anche Milano si mettesse a giocare con l’orticello non ci sarebbe più qualcun altro a cui far pagare il lusso.

È più probabile quindi che in realtà la grande rivoluzione sarà solo di facciata e che a Milano si continuerà a costruire tanto quanto prima, magari cambiando gli attori e infiocchettando di verde il cemento. La contraddizione era infatti evidente sin dalle prime riunioni per il programma di Pisapia quando si toccava il delicato tema dei parcheggi: con il sorrisone pacioso veniva spiegato agli astanti che in sostanza la Moratti cattiva voleva i parcheggi per far arrivare in centro più macchine con conseguente smog e morte (fischi e buu tra i convenuti) mentre l’idea era quella di realizzare parcheggi per i residenti in modo da poter togliere le macchine dalle strade e far crescere pascoli e ruscelli (applausi a scena aperta). Oplà, riuscito il giochetto di prestigio: i parcheggi si faranno sempre, ma se da una parte erano brutti sporchi e di destra dall’altra saranno belli puliti e di sinistra. Nessuno che avesse alzato il ditino per osservare che un parcheggio è sempre un parcheggio, che è fatto di cemento e che si realizza scavando per terra.
Dato che probabilmente le cose andranno in questa direzione sarebbe carino se Pisapia cominciasse da subito a comunicare chi sono i costruttori e gli immobiliaristi «buoni» che, di certo, già stanno preparando cazzuole e betoniere. Le Coop dei costruttori? Qualche bel cognome dell’edilizia allegramente attivo nei purissimi comitati pro Sinistra Ecologia e Libertà? La domanda non è peregrina perché non è indifferente sapere se dobbiamo prepararci a una delle solite furbe operazioni di immagine della sinistra (e passi) o se nella prossima giunta prevarranno gli integralismi stile Carlo Monguzzi, quello che, per intendersi, ebbe la bella pensata di proporre la chiusura di tutto il nord Italia per una settimana per ridurre lo smog. Tanto mica paga lui.

Postilla

Sono bastate poche ore perché apparisse evidente a tutti qual era il vero scontro, la vera minaccia per il gruppo di potere berlusconiano. Non l’estremismo, non l’islamismo, non il terrorismo, non il comunismo raffigurati dall’immagine di “Pisapia canaglia”, ma il mattone. Nell’immaginario dei berluscones (che la loro gigantesca macchina propagandistica ha tentato di dissimulare) la buona borghesia lombarda non è la classe legata all’innovazione e al profitto industriale ma alla rendita immobiliare; non al progresso della scienza ma allo sfruttamento della tecnologia, e allo sviluppo degli strumenti di comunicazione e mistificazione capaci di giustificare il parassitismo economico e sociale: quel parassitismo di cui rendita e potere sono gli ingredienti essenziali.

La loro speranza è che, nonostante tutto, anche Pisapia e il nuovo governo della città restino fedeli allo slogan obsoleto per cui, come ricordano, «se tira l’edilizia tira tutta l’economia».

La nostra speranzaè quella opposta: che la nuova maggioranza resti fedele alla catena di eventi, di volontà espresse, di proposte avanzate da associazioni, comitati, gruppi di cittadinanza attiva che si sono manifestati negli ultimi anni: di quei «tanti sassolini bianchi» che (come ha scritto Barbara Spinelli) hanno costituito il sentiero della vittoria, a Milano cme a Napoli, Cagliari e in tante altre città e province italiane.

Ciò che noi aspettiamo con speranza da Pisapia è abbondantemente raccolto sulle pagine di eddyburg: a proposito del Parco sud e del consumo di suolo (ricordiamo con orgoglio il contributo che abbiamo dato con l’appello su cui raccogliemmo un numero inaspettato di adesioni), del Piano di governo del territorio e della profonda revisione del progetto della giunta sconfitta, dell’Expo e delle vistose alternative emerse fin dai primi mesi della sua discussione. In sostanza, ciò che aspettiamo con speranza sono gli atti conseguenti a quel profondo cambiamento di rotta di cui Pisapia a Milano è per noi l’espressione: assumere, come principio direttore delle politiche della città e del territorio, quello del maggiore benessere per tutti (a partire dai più deboli), anziché quello della massimizzazione del potere e della ricchezza per gli usurpatori del bene comune.

Il National Ecosystem Assessment col suo rapporto del giugno 2011 conferma se necessario quanto sia importante per le economie investire nella tutela delle risorse naturali, non solo intese come “materie prime” per produrre e vivere, ma anche nell’accezione di solito trascurata di qualità ambientale, spazi aperti, flora, fauna ecc.

Qualcuno pensa che la tutela dell’ambiente sia un peso economico che in un modo o nell’altro rallenta lo “sviluppo”, mentre esistono invece concreti motivi economici per proteggere la natura, non ultimi quelli legati alla salute e benessere generale della popolazione, con immediate ripercussioni ad esempio sui costi dei servizi sanitari.

Più in dettaglio per il caso britannico:

Il valore economico delle zone umide in termini di qualità delle acque si può calcolare sino a 1.700.000.000 di euro l’anno

Quello degli insetti e uccelli impollinatori per l’agricoltura in quasi 500 miliardi di euro

I vantaggi dell’abitare vicino a fiumi e altri corpi d’acqua sino a 14 miliardi di euro l’anno per il paese, e quelli sanitari della prossimità di spazi verdi sino a 350 euro l’anno a persona.

Col cambiamento climatico globale e l’incremento di popolazione la natura sarà sottoposta a pressioni crescenti ed è importante iniziare a considerarla nel suo piano valore, oggi e per il futuro.

Questa è una breve sintesi del comunicato stampa ministeriale. Sul sito del Ministero il testo integraledel comunicato e il link alla pubblicazione - Oppure si può scaricare direttamente da QUI (con molta pazienza) una sintesi del rapporto (f.b.)

In un paese come l'Italia le autostrade del mare sarebbero un modo per ridurre il trasporto merci su gomma e su ferro. E gli operai avrebbero lavoro. Ancora una volta tocca alla Fiom fare da punto di riferimento di un'aggregazione sociale che vada al di là della protesta

L'Italia è naturalmente dotata di due straordinarie autostrade del mare in grado di collegare, una - il Tirreno - Trapani, Palermo e Napoli con Livorno, La Spezia, Genova e Savona; ma anche con Marsiglia, senza bisogno di scavalcare o perforare le Alpi con un'autostrada ferroviaria (il Tav Torino-Lione) tanto costosa quanto inutile e dannosa; o di scavalcare lo stretto di Messina con un ponte altrettanto assurdo. L'altra - il mare Adriatico - Catania, Crotone e Bari con Ancona, Ravenna e Trieste. Se tutto il traffico merci di lunga percorrenza che attraversa la penisola e tutto il traffico automobilistico di carattere turistico - o anche solo una loro quota consistente - fossero deviati su queste autostrade, la rete viaria in terraferma sarebbe sgombra e a disposizione di chi ha da percorrere itinerari più brevi; i consumi energetici e le emissioni di gas serra si ridurrebbero drasticamente; e così pure l'inquinamento. Ma, soprattutto, si ridurrebbero i costi del trasporto e se ne avvantaggerebbe molto la famosa competitività delle produzioni italiane che oggi la Confindustria e il sistema delle imprese italiane sembrano inseguire quasi esclusivamente attraverso la compressione del costo e dei ritmi di lavoro e il ricorso al lavoro precario o a quello in nero.

L'idea di utilizzare di più e meglio le autostrade del mare italiane non è una grande trovata: se ne parla da decenni e la prospettiva aveva preso una dimensione concreta con il Piano nazionale dei trasporti messo a punto dal primo governo Prodi sotto la direzione della professoressa Vittadini. Ma poi non se ne è fatto quasi nulla e oggi il traffico di cabotaggio via mare copre una percentuale infima di quello che da Nord a Sud - e viceversa - intasa le nostra autostrade e satura il numero sempre più ridotto di convogli che trasportano merci "su ferro".

Se le autostrade del mare italiane venissero attivate, quand'anche, come è giusto, gradualmente, gli impianti di Fincantieri avrebbero lavoro assicurato per almeno i prossimi vent'anni, e anche oltre. Gli operai e i tecnici di Fincantieri le navi le sanno costruire; di tutti i tipi. Oggi la loro azienda si è concentrata su quelle da crociera, e sta perdendo il mercato; perché la domanda è debole e il lavoro per questo tipo di navigli si fa quasi tutto fuori dai cantieri; e sulle navi da guerra, perché il mercato dei massacri invece "tira". Ma in un segmento di mercato come questo i paesi committenti, giustamente, hanno detto: se le navi sapete farle, venite a farle da noi; così Fincantieri ha portato all'estero i suoi cantieri, ma non i loro operai; questi, caso mai, li importa dai paesi dell'Est: costano meno, sono più ricattabili e ce ne si può sbarazzare più facilmente.

Eppure, se uno dei cardini della riconversione produttiva del sistema economico è costituito da una mobilità che riduca il suo impatto sul territorio (e sul pianeta), il passaggio modale dalla strada al mare è una soluzione irrinunciabile. Ma allora, perché non la si imbocca con maggiore determinazione? I tracciati - i mari - ci sono già: a farli ci ha pensato la Natura, mentre quelli stradali e ferroviari bisogna costruirli a caro prezzo, devastando il paesaggio. Mancano i convogli: cioè le navi Ro-Ro (roll in-roll out), che sono quelle che possono attraccare senza rimorchiatore, caricando e scaricando in pochissimo tempo i mezzi. Quali mezzi? Tecnicamente, nel trasporto merci, è sufficiente far viaggiare i rimorchi, senza imbarcare anche le motrici con l'autista al seguito; anche se la cosa, come vedremo, è alquanto complicata. Poi mancano i caselli autostradali, cioè porti adeguatamente attrezzati per smistare grandi volumi di questo traffico. Realizzarli darebbe molto lavoro alle città portuali e, soprattutto, contribuirebbe a riqualificare la loro attività. Perché se le merci viaggiano in container, o anche sfuse, possono essere caricate su un convoglio ferroviario per proseguire il loro cammino. Ma se viaggiano su un bilico, un autorimorchio, sarebbe opportuno che il rimorchio venisse sganciato dalla motrice al momento dell'imbarco e riagganciato da un'altra motrice, con un altro autista, quando riprende il viaggio via terra. Far viaggiare motrici e autisti su una nave raddoppia inutilmente i vettori e il personale viaggiante; e con essi i costi, anche se comunque è sempre più economico del trasporto su strada.

Ma perché lo stesso rimorchio sia preso in carico da due motrici diverse - una prima dell'imbarco e l'altra dopo lo sbarco - bisogna che i loro autisti siano d'accordo e se non sono entrambi dipendenti da una grande impresa di trasporto, ma sono dei "padroncini", come oggi in Italia succede nel novanta per cento dei casi, bisogna che a metterli d'accordo sia un'organizzazione comune: per esempio una delle multinazionali di logistica che ha in carico l'intero itinerario del carico. Ma questa, se e quando c'è, si avvale per lo più di imprese di spedizione in subappalto; e sono queste, a loro volta, a reclutare i "padroncini", che non sono che il terzo o anche il quarto anello di questa catena; quando non sono loro a farsi reclutare sulla piazza, insieme al loro camion, come dei braccianti a giornata ingaggiati da un padrone saltuario ogni volta diverso. La grande impresa, però, preferisce beneficiare dei vantaggi offerti dalla concorrenza selvaggia tra una miriade di operatori, dove lo spazio offerto a mezzi fuori norma e ad autisti spericolati dell'Europa dell'Est è in continua crescita.

L'alternativa è allora un consorzio - magari obbligatorio, o, meglio, l'affiliazione al quale sia vincolante per l'accesso alle navi Ro-Ro - che provveda, con il ricorso alle tecnologie più moderne, a coordinare imbarchi e sbarchi, a ottimizzare i carichi e i percorsi, a garantire i carichi di ritorno, a contrattare le tariffe con le controparti e con i vettori navali, a escludere i mezzi fuori norma e gli autisti che mettono a rischio la propria e l'altrui vita con orari di guida troppo lunghi e tempi di percorrenza troppo corti. Gli autisti - tutti, autonomi o dipendenti - ci guadagnerebbero in soldi e salute; il paese in qualità dell'ambiente e in sicurezza sulle strade; il "sistema delle imprese" in competitività e autonomia. Ma chi pagherà tutto questo?

Se solo i fondi destinati a due opere totalmente inutili come il Tav Torino-Lione e il ponte sullo stretto fossero destinati a un programma del genere (per esempio alla ristrutturazione dei porti e del loro hinterland) un buon tratto di questo percorso sarebbe già garantito. Inoltre, a promuovere il passaggio al trasporto intermodale lungo le autostrade del mare potrebbe concorrere un graduale aumento delle tariffe autostradali (purché a incassarle non sia Benetton e servano a finanziare il nuovo sistema) e i fondi dell'Unione europea destinati (come il programma Marco Polo) al finanziamento del trasporto a minore impatto ambientale. Ma il problema prioritario è quello di affrontare due delicati passaggi, evitando che i diktat del liberismo annientino i vantaggi che si possono ricavare da questa soluzione; garantire con accordi di programma le transazioni tra Fincantieri, che dovrà costruire le navi, e l'armatore - o, meglio, un consorzio di armatori - che dovrà gestire la flotta Ro-Ro; e poi, le transazioni tra questo e il consorzio, o i consorzi, di autotrasportatori che quella flotta dovranno utilizzarla. L'uno non si tiene senza l'altro: se gli armatori non avranno un mercato garantito dagli autotrasportatori non potranno a loro volta offrire un mercato garantito a Fincantieri perché avvii questa nuova linea produttiva.

È questa una violazione della normativa europea sulla concorrenza? Può darsi, ma non è detto. Se una potenza come la Volkswagen ha potuto fare non solo un accordo di programma, ma una vera e propria società con un'azienda di distribuzione dell'energia elettrica per assicurare un mercato captive, cioè garantito, ai propri microcogeneratori, senza doversi esporre alla concorrenza di altri produttori di impianti analoghi, non si vede perché, all'interno di un programma finalizzato alla salvaguardia dell'ambiente e della sicurezza stradale, non si possano stringere accordi per garantire un mercato a una così importante riconversione produttiva.

Dunque la palla è in mano ai centomila e più autotrasportatori italiani che intasano le strade e le autostrade del belpaese: un popolo indisciplinato peggio di un'assemblea di condomini e tendenzialmente conservatore almeno quanto i camioneros che quarant'anni fa avevano messo alle strette il Cile di Allende; ma anche un popolo che si trova sempre più con l'acqua alla gola e che governi di destra e di sinistra hanno cercato di "tener buono" con gli sconti sulle accise del gasolio messi al bando dall'Unione europea (e la cui abolizione potrebbe essere un'altra possibile fonte di finanziamento di un loro associazionismo ambientalmente consapevole). La palla passa dunque alla politica. E purtroppo non è, o non è solo, una politica che si possa promuovere dal basso, senza una prospettiva complessiva a livello almeno nazionale. Ma per concretizzare e consolidare l'appoggio e la solidarietà con i lavoratori di Fincantieri da parte di tutte le categorie sociali che in questi giorni si manifesta nelle città colpite dai piani di ristrutturazione dell'azienda non c'è altra strada. E ancora una volta tocca alla Fiom fare da punto di riferimento di un'aggregazione sociale che vada al di là della protesta. La posta in gioco è talmente alta, e il rischio per i lavoratori coinvolti nel settore (le maestranze di Fincantieri; ma certo non solo loro) è talmente grande, che un impegno nel merito dovrebbe e potrebbe coinvolgere molti altri soggetti. L'importante è cominciare.

ROMA - Alla luce del sole, ma all´ombra delle tasse. Nascondere agli occhi dell’uomo case, fabbricati, immobili dovrebbe essere un impresa impossibile. Ma se gli occhi sono quelli del fisco, sono in tanti provarci. Si costruisce, ma non si dichiara: niente iscrizione ai registri del catasto, nessuna rendita sulla quale versare le tasse. Omertà fiscale e abusivismo.

Oggi però, grazie alle tecnologie satellitari e digitali, farla franca è davvero difficile e le casse vuote dello Stato hanno contribuito ad aguzzare l’ingegno dei tecnici incaricati di recuperare il gettito. Così nel 2007 l’Agenzia del Territorio ha lanciato su tutto il territorio nazionale una mappatura destinata a far riemergere l’evasione immobiliare, a stanare le case nascoste, regolarizzarle e recuperare i fondi. La tecnica usata è molto complessa: le «anomalie» sono state individuate e portate alla luce sovrapponendo una serie di immagini e rilevamenti, utilizzando le fotografie satellitari fornite dell’Agea (Agenzia per le erogazioni in agricoltura) e le mappe informatiche della Sogei. In una prima fase si è puntato alla denuncia spontanea da parte dell’evasore immobiliare, nella seconda si procederà all’emersione coatta.

Ora, al termine della prima fase (conclusa il 31 aprile), sono arrivati i risultati: gli immobili fantasma (o più precisamente le particelle catastali sulle quali sono stati costruiti edifici coinvolti nell’abusivismo o nell’omertà fiscale) sono 2.228.143. Un mare di cemento composto da case, casette, interi condomini, fabbrichette, magazzini o semplici depositi. Anche parti di aeroporti, stazioni e uffici pubblici ampliati, ma non messi in regola. Edifici di varia natura, non necessariamente abusivi, ma sicuramente inadempienti agli obblighi fiscali.

Su poco meno della metà di questa colata di mattoni (1.065.484 particelle) gli accertamenti sono già stati conclusi: gli immobili spontaneamente emersi sono 560.837 mila e «valgono» 415,5 milioni di euro rendita catastale (l’1,2 per cento di quella nazionale). Il 35 per cento è costituito da case (oltre 196mila), il 29 da magazzini, il 21 per cento sono autorimesse. Il restante 12 per cento è composto da negozi, ma anche parti di alberghi, scuole, stazioni.

C’è una graduatoria del «nero»: Salerno, Roma, Palermo, Cosenza e Napoli risultano le province con più immobili «fantasma», anche se, il direttore generale dell’Agenzia, Gabriella Alemanno, vorrebbe evitare la pagella dei buoni e dei cattivi «perché ci sono tante variabili in gioco, dall’estensione del territorio, al tipo degli immobili».

Altre 572mila costruzioni analizzate sono invece risultate «irrecuperabili» ai fini fiscali: o perché gli uomini dell’Agenzia del Territorio si sono trovati di fronte ruderi, tettoie e serre sfondate, immobili ancora in costruzione e quindi non ancora produttori di una rendita. Oppure perché i proprietari, piuttosto che pagare, hanno preferito abbatterli, temendo che l’esborso chiesto fosse superiore al valore dell’immobile.

Ora l’Agenzia del Territorio passerà alla fase due, controllando gli immobili non dichiarati al catasto costruiti sulle restanti 1.162.659 particelle. I tecnici, con la collaborazione dei comuni e della Guardia di Finanza, effettueranno i loro sopralluoghi e attribuiranno rendite presuntive (salvo rettifiche). L’operazione sarà conclusa entro la fine dell’anno o entro i primi mesi del 2012. La rendita catastale presunta si può immaginare sia di pari entità di quella finora rilevata. Chiaramente, precisa l’Agenzia, in caso di costruzioni abusive, le regolarizzazioni fin qui effettuate regolarizzano la posizione fiscale, ma «non rappresentano una sanatoria urbanistico-edilizia».

Se non ci fossero state persone come Giuliano Pisapia e Luigi de Magistris, nelle due città malate d’Italia che sono Milano e Napoli, probabilmente non avremmo assistito in diretta alle fine politica di Berlusconi e della sua inaudita magia. Molti elementi hanno contato, e tra questi sicuramente la coalizione divenuta un garbuglio, la cocciuta scommessa di Gianfranco Fini su una nuova destra legalitaria, la smisurata insipienza di un premier che s’aggrappa follemente a Barack Obama come Michele Sindona s’aggrappò negli anni ‘70 agli amici americani.

Ma il vento più impetuoso viene da altrove, viene da dentro gli animi, è una forza che ha travolto tutti i copioni consueti. Eravamo abituati a dire, con Gramsci, che quel che urge è il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà. Non è vero. Quel che ha vinto, a Milano e Napoli, è l’ottimismo della ragione: lo sguardo chiaro, veggente, sui tanti segnali degli ultimi anni. Il non possumus di Fini, le onde viola, la manifestazione delle donne il 13 febbraio, irradiatasi da Internet come virus ("Bastava non votarlo", diceva un cartello: è stato preso sul serio). Qualche giorno dopo, al festival di San Remo, il televoto scelse Roberto Vecchioni e anche quello fu un segno.

Alle nostre spalle, ci sono tanti sassolini bianchi che hanno finito col mostrare la via, come nella fiaba di Grimm. Li abbiamo messi noi, cittadini-elettori. Il castello che sembrava granitico, è il popolo sovrano che l’abbatte; lo stesso popolo che il premier usa per affermare un potere illimitato. Un’immensa e tranquilla fiducia di potercela fare, un’intelligenza-conoscenza dell’Italia reale, una voglia di provare alleanze interamente centrate sull’etica pubblica e la legalità, un’estraneità profonda ai partiti dell’opposizione, alle loro élite: questi gli ingredienti che hanno fatto lievitare il pane che abbiamo mangiato lunedì. E il senso che sì, più di Gramsci valeva Pessoa: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola». Chi ha ottimismo della volontà, lasciando che la ragione si deprima e inebetisca, altro non gli resta che la volontà di potenza.

L’ottimismo dell’intelligenza apre lo sguardo ai segni – rendendo visibile l’invisibile – entra in sintonia con le mutazioni di una società, resuscita parole diradatesi per malinconia. È possibile ricostruire una Milano accogliente, capitale morale. È possibile strappare il Sud a mafia, ‘ndrangheta, camorra, corona unita, cominciando dalla città-Babilonia che è Napoli. Non ci fa paura la paura. Luigi Bersani ha avuto la saggezza (dopo due sconfitte dei candidati Pd: alle primarie milanesi e nel primo turno a Napoli) di presentire che questa primavera italiana lui doveva assecondarla, aiutarla. Come scrive nel suo blog Pietro Ancona, già segretario della Cgil, Bersani s’è mostrato capace di buon senso: «Ha preferito vincere senza essere il protagonista principale, piuttosto che perdere essendolo». Anche questo è ottimismo dell’intelligenza.

Non siamo più invischiati in un Pd che corre da solo, che fa cadere Prodi presumendo di liberarsi della zavorra di Antonio Di Pietro o della sinistra radicale. Che per anni ha avuto come scopo essenziale quello di esser battezzato «riformista» dal finto sacerdote Berlusconi. Pisapia, Vendola, De Magistris guardano al potere senza più complessi: aspirano a prenderlo, con fiducia in sé, nel proprio ragionare, negli elettori. Gli stessi vizi della sinistra radicale (la riluttanza a governare, a pagare il prezzo che questo comporta) si fanno obsoleti e inutili.

Crederci, non crederci: questo era il dilemma, se parafrasiamo Amleto. «Se sia più nobile sopportare gli oltraggi, i sassi, i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». Sulla bilancia è stata la forza trasformatrice della verità a pesare: forza malinconica forse – disvelatrice di fatti e misfatti – ma non pessimista. I veri giustizialisti sono stati in questi anni coloro che più esecravano i magistrati. Fino a quando non si è condannati in terzo grado, tutto è permesso: gli insulti, le più immorali condotte pubbliche. Gli elettori delle amministrative restituiscono alla politica la sua vera ambizione: quella di agire e correggersi prima che intervenga il magistrato. Quella di non contar frottole, quando la crisi infuria.

C’è infine la crisi, che cambia il vento: un po’ come in America quando vinse Obama. I candidati dell’opposizione non si sono accontentati più di dire: «Noi italiani siamo fatti così, c’è poco da fare». C’è invece, a cominciare da sé. Basta legger con cura i dati Istat sull’economia che barcolla, e la chimera dell’Italia immunizzata evapora. Basta scoprire come l’economia di intere regioni stagni, perché pervasa dall’illegalità, dallo sprezzo dello Stato. È molto significativo che a Napoli sia un uomo di legge («malato di protagonismo», dicevano le sinistre fino a poco tempo fa) ad aver conquistato uno straordinario 65,4 per cento. Tutto quello che sappiamo dei disastri economici causati dalle mafie, o del peso ricattatorio esercitato a Napoli e Roma da persone come Cosentino, gli ottimisti dell’intelligenza l’hanno appreso da indagini giudiziarie preziose. I magistrati sono per Berlusconi brigatisti, cancri, uomini antropologicamente diversi. Ora è antropologicamente diversa gran parte d’Italia. Sarà interessante vedere se anch’essa sarà insultata: come la Consulta, la Costituzione, il Quirinale, la magistratura, l’informazione indipendente.

Nel berlusconiano impero dei segni, tanti s’erano installati: vassalli riottosi, ma pur sempre vassalli. Anche il Pd, quando faceva mancare i propri voti alla Camera; anche Casini, quando approvava la legge liberticida sul fine vita. Scoraggiamento e pessimismo li inchiodavano dov’erano. Un’altra Italia ha fatto scoppiare la bolla dei segni, con la spilla dei buoni argomenti, la mitezza dei candidati, anche con lo scherno: c’è stato un momento, fra i due turni, in cui ha fatto irruzione l’ironia e il banco di Berlusconi è saltato. È stato quando un utente twitter ha lanciato un appello alla Moratti: «Il quartiere Sucate dice no alla moschea abusiva in via Giandomenico Puppa! Sindaco rispondi!". Al che il sindaco: «Nessuna tolleranza per le moschee abusive!». Era una bufala, né Sucate né Puppa esistono. Così come non esistono l’Italia berlusconiana, gli annunci miracolosi del premier. Un’esilarante fandonia ha scacciato la fandonia sempre meno allegra, sempre più cupa, del leader.

Prima o poi la ribellione doveva venire, connettersi al mondo reale. Un mondo dove i giovani, stando all’Istat, sono derubati di futuro: con tassi di disoccupazione superiori di 3,7 punti rispetto alla media europea; con un’emigrazione all’estero in aumento, perché il merito da noi non conta più. Quasi la metà dei giovani occupati è precaria. Quasi un quarto è Neet (acronimo inglese di Not in Education, Employment or Training).

Ora si tratta di vedere cosa l’opposizione farà: come costruirà, dopo aver distrutto. Come si mobiliterà per il referendum su acqua, legittimo impedimento (legalità), nucleare. È un’impresa colossale, dopo anni di crisi negata. Il 24 maggio, la Corte dei Conti ha ammonito: per raggiungere un rapporto fra debito pubblico e Pil pari al 60% (per evitare la bancarotta greca, come chiesto dall’Europa), l’Italia dovrà ridurre il debito del 3% all’anno, pari oggi a circa 46 miliardi.

Per Berlusconi, è missione impossibile: a causa del governo infermo, e del populismo. Ma sinistra e altri oppositori ne sono capaci, dopo aver sostenuto in questi anni che Prodi cadde per colpa del rigore? Sono capaci di dire che le tasse non vanno diminuite, che nell’economia-mondo la crescita sarà debole, i sacrifici non comprimibili, l’equità tanto più indispensabile? La strada è impervia. Ma l’Italia forse ascolta oggi parole di verità, se chi le dice avrà l’ottimismo dell’intelligenza, oltre a quello della volontà.

Un voto di liberazione. Una svolta. I magnifici risultati di Milano e Napoli rompono l'incantesimo di un ventennio, travolgono i vecchi equilibri, infrangono lo stile di un ceto politico. Esplosi subito dopo la chiusura dei seggi, con percentuali da capogiro, emozionanti nelle proporzioni (specialmente quelle di Napoli), i risultati non giungono inaspettati. Ancor prima che dal voto comunale, erano annunciati dalle straordinarie mobilitazioni sociali che hanno segnato gli ultimi due anni della vicenda nazionale. Nel momento peggiore del peggior berlusconismo, seppellito dagli scandali sessuali e dalla dolorosa crisi economica, dalla parossistica guerra contro la magistratura e dal vergognoso spettacolo parlamentare, si è preso la scena un paese umiliato ma non rassegnato.

Le proteste dei giovani, delle donne, degli operai, del mondo della cultura e dell'informazione hanno riempito piazze libere (dai partiti) e arato in autonomia il seme del cambiamento. Chi ne sminuiva la potenza con il ritornello dell'antipolitica, di un antiberlusconismo da ceto medio radical-chic, oggi riceve l'ennesima, sonora smentita.

Nei due campi del malato bipolarismo italiano il voto di maggio spariglia. Berlusconi e Bossi frullano dentro una centrifuga impazzita che strappa il mantello al re e toglie alla Lega la corona di regina della "padania". Nell'altro emisfero della politica arriva al Pd un messaggio altrettanto limpido: i successi elettorali sono il tesoretto portato dai candidati. E non viceversa. Le prove di governi tecnici a-berlusconiani avanzate dal partito di Bersani e dal Terzo Polo appaiono retrodatate, ferme a un'altra epoca rispetto alla novità rivelata dalle campagne elettorali di Pisapia, De Magistris, del giovane Zedda a Cagliari, uniti da un elemento cruciale e determinante: l'essere stati scelti o dalle primarie o fuori dalle alchimie delle nomenklature. Non è in gioco il passaggio di Palazzo Chigi da uno schieramento all'altro, magari sul binario di una fallimentare corsa al centro. C'è di più, si sta giocando un'altra partita, come del resto ci dicono i quesiti referendari. Nucleare, acqua e legittimo impedimento parlano di un'altra storia, di un'altra democrazia, della centralità dei beni comuni imposti al linguaggio pubblico grazie ai movimenti e nonostante le forze politiche arroccate su posizioni liberiste e sviluppiste.

C'è chi paragona questo straordinario risultato elettorale a quello delle elezioni amministrative del '93 quando la valanga dei sindaci, eletti direttamente, anticipava il governo dell'Ulivo del '96 sostanziandone il rapporto con il territorio. Iniziava allora il rinascimento napoletano di Bassolino, e molti giovani sindaci andavano al governo delle grandi città, dal nord al sud, da Palermo a Torino. Probabilmente qualcosa di analogo è accaduto anche nello smottamento prodotto dal voto di ieri, una scossa fortissima, anche psicologica, che potrebbe accelerare le elezioni politiche generali e inaugurare la stagione di un centrosinistra con una bussola puntata su un'alleanza di alternativa.

Ieri in Italia sono finiti gli Anni Ottanta. Raramente nella storia umana un decennio era durato così a lungo. Gli Anni Ottanta sono stati gli anni della mia giovinezza, perciò nutro nei loro confronti un dissenso venato di nostalgia. Nacquero come reazione alla violenza politica e ai deliri dell’ideologia comunista. L’individuo prese il posto del collettivo, il privato del pubblico, il giubbotto dell’eskimo, la discoteca dell’assemblea, il divertimento dell’impegno. La tv commerciale - luccicante, perbenista e trasgressiva, ma soprattutto volgarmente liberatoria ne divenne il simbolo, Milano la capitale e Silvio Berlusconi l’icona, l’utopia realizzata. Nel pantheon dei valori supremi l’uguaglianza cedette il passo alla libertà, intesa come diritto di fare i propri comodi al di fuori di ogni regola, perché solo da questo egoismo vitale sarebbe potuto sorgere il benessere.

Purtroppo anche il consumismo si è rivelato un sogno avvelenato. Lasciato ai propri impulsi selvaggi, ha arricchito pochi privilegiati ma sta impoverendo tutti gli altri: e un consumismo senza consumatori è destinato prima o poi a implodere. Il cuore del mondo ha cominciato a battere altrove, la sobrietà e l’ambientalismo a sussurrare nuove parole d’ordine, eppure in questo lenzuolo d’Europa restavamo aggrappati a un ricordo sbiadito. La scelta di sfidare il Duemila con un uomo degli Anni Ottanta era un modo inconscio di fermare il tempo. Ma ora è proprio finita. Mi giro un’ultima volta a salutare i miei vent’anni. Da oggi si guarda avanti. Che paura. Che meraviglia.

Da Milano e Napoli, con percentuali che soltanto un mese fa sembravano impossibili, l´Italia dei Comuni manda un chiaro segnale a Silvio Berlusconi: è finito il grande incantamento, il Paese vuole cambiare pagina.

La svolta nasce nelle città che scelgono i sindaci di centrosinistra e bocciano la destra, ma il segnale è nazionale ed è un segnale politico che parla ormai chiaro. Dopo il primo turno i ballottaggi confermano che Berlusconi è sconfitto al Nord come al Sud, è sconfitto in prima persona e attraverso i candidati che ha scelto e sostenuto, è sconfitto nel bilancio negativo che gli italiani hanno fatto non soltanto del suo governo, ma ormai della sua intera avventura politica.

Nell´Italia pasticciata di questi anni, il voto fa chiarezza, perché è univoco. Dopo Torino e Bologna, riconfermati già al primo turno, passano ora al centrosinistra con Milano anche Trieste, Novara, Pordenone e Cagliari, mentre De Magistris addirittura sfonda a Napoli, quasi doppiando il suo avversario.

Il tentativo di rimpicciolire il risultato, d´incantesimo, a una dimensione locale (dando tutta la colpa della sconfitta ai soli candidati-sindaco) è patetico, da parte di chi lo ha trasformato in un test nazionale per un mese intero, mettendo a ferro e fuoco la campagna elettorale.

Quando a Milano il sindaco uscente è stato fermato sotto il 45 per cento da Pisapia, salito al 55,1, è chiaro che la capitale spirituale e materiale del berlusconismo si è ribellata a questo ruolo, riprendendo la sua autonomia e chiudendo un ventennio. Quando a Napoli De Magistris ha stravinto con il 65,4, lasciando Lettieri al 34, 6, vuol dire che le promesse di Berlusconi sui rifiuti e gli abusi edilizi non sono state credute, e l´alternativa al malgoverno della città è stata cercata non a destra ma a sinistra, dov´era presente una forte discontinuità.

Berlusconi non convince quando governa coi suoi sindaci, non vince quando si propone coi suoi uomini come alternativa. Ma perde anche nelle roccheforti della Lega, come nel novarese o a Gallarate, portando la sua crisi personale e politica come una bomba nel corpo inquieto del grande alleato: che dopo aver lucrato elettoralmente (e in termini di potere) nella corsa al traino del Pdl oggi scopre la negatività di quel legame così stretto da soffocare ogni identità autonoma dentro gli scandali del premier, nell´incapacità di governare, nell´annuncio continuo di una pseudoriforma della giustizia che è in realtà un puro privilegio personale del sovrano, alla ricerca ossessiva di un volgare salvacondotto.

È a tutto questo che si è ribellato il Paese. E soprattutto alla falsa rappresentazione di sé, con una propaganda forsennata e suicida che ha presentato Milano come la capitale del male, in balia di tutto ciò che secondo Berlusconi può spaventare una borghesia immaginaria e da strapazzo, zingari, islamici, gay e terroristi: una città che può essere salvata e redenta soltanto dalla mano del Grande Protettore. Con questa predicazione di sventura (ripetuta dopo la sconfitta: "Vi pentirete"), l´ex "uomo col sole in tasca" non si è accorto di proiettare un´idea spaventosa e malaugurante dell´Italia, che i cittadini hanno giudicato pretestuosa, negativa e menzognera.

La prima lezione è che non si può guidare un Paese, dopo aver ottenuto il consenso popolare, e contemporaneamente parlare come se si fosse all´opposizione di tutto, lo Stato, le sue istituzioni, i suoi legittimi poteri, persino il buonsenso. Questo estremismo ideologico sta perdendo Berlusconi, e ha rotto l´incantamento, insieme con le promesse mancate, la compravendita ostentata, gli scandali, la legislazione ad personam.

La cifra complessiva che unisce tutto ciò è la dismisura, la disuguaglianza, l´abuso di potere e il privilegio. Ma questo abuso trasformato in legge, la dismisura che si fa politica, la disuguaglianza che diventa norma, il privilegio che deforma l´equilibrio tra i poteri, sono ormai la "natura" di questa destra, risucchiata per intero - dopo l´espulsione della corrente finiana, l´unica capace di autonomia - dentro il vortice berlusconiano che nella disperazione travolge ogni cosa pur di aprirsi un varco di sopravvivenza.

Per questo sono ridicoli i distinguo degli araldi berlusconiani che solo nelle ultime ore hanno incominciato ad imputare al Capo i suoi errori, dopo averlo eccitato ad ogni eccesso nei mesi della fortuna, quando vincere non bastava, bisognava comandare, e governare non era sufficiente, si doveva dominare.

È questa gente che ha aiutato Berlusconi a disperdere il tesoro di consenso conquistato due anni fa, e oggi non sa suggerirgli altro che qualche capriola pirotecnica, qualche giochetto da predellino, qualche invenzione nelle sigle e nella toponomastica politica, come se il problema del Premier e della destra fosse di pura tattica e non di sostanza - di "natura", appunto - e tutto si risolvesse nella propaganda, amplificata dai telegiornali.

Invece quando si esce dall´incantamento bisogna fare i conti con la politica. Il Paese non è governato, e il voto lo conferma. La compravendita a blocchi dei parlamentari dà un´illusione di forza numerica, ma non dà vita ad una coalizione politica coerente e coesa. L´attacco forsennato alla magistratura, alla Consulta, al Quirinale, ai cittadini che la pensano diversamente sfibra il Paese e lo calunnia nelle sue istituzioni, cioè nel suo fondamento costituzionale e repubblicano, che andrebbe preservato dalla battaglia politica.

Berlusconi trasmette sempre più - fino alla drammatica immagine del colloquio con Obama - l´idea di un leader alieno nelle istituzioni che dovrebbe non solo guidare, ma rappresentare. È un uomo che sfida lo Stato e non vi si riconosce appieno, e che oggi ha perduto anche il contatto con quel "popolo" che ha sempre contrapposto alla Repubblica e persino al cittadino.

Un uomo di Stato, dopo una simile sconfitta, con la posta fissata così in alto, dovrebbe dimettersi. Ma conoscendo il Premier non è il caso di pensarlo: per ora. Assisteremo a proclami roboanti e promesse mirabolanti, e non sarà difficile riconoscere dietro le parole l´ansia di un leader che perde terreno, deve alzare ogni giorno l´asticella, avverte il distacco dell´alleato e la diffidenza del suo stesso partito. Per questo il Premier dopo un breve travestimento da moderato tornerà irresponsabile, dando fuoco a tutte le sue polveri, infiammando di bagliori anti-istituzionali un´agonia che - come diciamo da anni - sarà terribile.

Così facendo, sarà lui a suscitare un arco di forze davvero responsabili, repubblicane, che si troveranno fatalmente insieme a difendere ciò che deve essere difeso, dalla Costituzione al Quirinale, alle istituzioni di controllo e di garanzia. In questo quadro, il Pd sta dimostrando di essere una struttura servente della democrazia repubblicana, perno dell´opposizione e di ogni alternativa, e il suo leader prende forza ad ogni passaggio. Il Terzo Polo ha dato prova di essere irriducibilmente autonomo dal potere di questa destra, e portatore di una cultura delle istituzioni, che dà un senso al moderatismo, sopravvissuto alla maledizione berlusconiana. L´area di Vendola e Di Pietro sa proporre a tutta la sinistra (e persino al centro) uomini e soluzioni nuove, per vincere.

La novità infatti è il vero segno di De Magistris e Pisapia, insieme con la diversità dal modello berlusconiano. E la prima diversità è la serenità, la sicurezza, l´ironia. Anche per questo il cupo arrocco berlusconiano, che tenterà di chiudere a pugno le forze residue intorno ad un governo già condannato, è una risposta vecchia e disperata alla crisi che da oggi è aperta. L´Italia non può essere imprigionata nel pantano perdente di Berlusconi, dopo che con il voto ha scelto di cambiare. Un´altra politica è possibile, un altro Paese la pretende.

Un assurdo, unanime coro di giubilo degli Amministratori Regionali, Provinciali e Comunali di maggioranza e opposizione ha salutato, il 24 maggio, l’avvio dei lavori per la realizzazione delle complanari sul tratto urbano dell'autostrada A24 (Roma-L'Aquila-Teramo). L'intervento, che sarà realizzato in stretta collaborazione con gli Enti locali, secondo quanto previsto dal Protocollo sottoscritto tra il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, l'Anas, la Società Strada dei Parchi, la Regione Lazio, la Provincia di Roma ed il Comune di Roma, della lunghezza complessiva di 14 km circa, ricade nella Regione Lazio interamente nell'ambito del Comune di Roma: internamente al Grande Raccordo Anulare, tra la Barriera di Roma Est e Via Palmiro Togliatti, ed esternamente fino alla barriera di Lunghezza.

L’importo dell’opera è quantificato in complessivi 255 milioni di euro, cofinanziati dai sottoscrittori del Protocollo stesso (il Comune di Roma parteciperà con 35 milioni) ed i lavori, che dureranno per 1120 giorni, prevedono la realizzazione di due nuove carreggiate parallele e complanari alla sede autostradale esistente per separare il flusso del traffico locale (p.e. quello da Ponte di Nona) da quello di lunga percorrenza proveniente soprattutto dall’Abruzzo.

Nella mente di chi esalta quest’opera essa è destinata a portare grandissimi benefici al territorio, fluidificando il traffico e riducendo i tempi di percorrenza. In realtà si tratta dell’ennesimo mare di cemento (tra le opere principali sono previsti p.e. i viadotti La Rustica, Aniene I, Aniene II, Cerroncino, Benzone, Montegiardino, Dell'Osa e Lunghezzina, nonché otto cavalcavia, cinque sottovia ed opere minori) destinato a stravolgere il prezioso sistema ambientale del quadrante est, costituito tra l’altro dal Parco della Cervelletta, dal Casale Bocca di Leone, dal Parco della valle dell’Aniene. Gli stessi abitanti di Colli Aniene dovranno assistere al drastico ridimensionamento del parco che i cittadini hanno curato e realizzato negli ultimi 20 anni a ridosso della bretella con la A24, proprio per avere una barriera di verde a protezione del rumore e delle polveri sottili che la trafficata arteria stradale produce giornalmente.

Centinaia di pulmann potranno così accedere più facilmente verso il centro della città, nuove migliaia di auto confluiranno quotidianamente su viale Palmiro Togliatti già gravato da una enorme mole di traffico in virtù anche della scellerata scelta della trascorsa Giunta comunale Veltroni di utilizzare come corsia preferenziale dei bus una delle tre corsie del Viale, anziché il disponibile square centrale. Aumenteranno la congestione da traffico e i tempi di percorrenza, i livelli di inquinamento atmosferico, acustico e ambientale, in una vasta area urbana fortemente antropizzata. Un futuro disastro voluto da Amministratori Regionali, Provinciali e Comunali incapaci di pensare, di progettare, di realizzare un sistema di mobilità non incentrato sull’automobile.

È lecito chiedersi: cosa si sarebbe potuto fare in alternativa e con le stesse risorse per migliorare la qualità della vita delle migliaia di pendolari che accedono a Roma dalla A24 ?

Sarebbe stata possibile una mobilità del trasporto pubblico su ferro alternativa a quella su gomma?

Sarebbe costato tanto trasformare la FM2 e l’antiquata Roma-Pescara, quest'ultima tutta o in parte, in ferrovie suburbane r interregionali moderne e tecnologicamente avanzate?

Quante decrepite stazioni di questa ferrovia e della FM2 si sarebbero potute attrezzare con parcheggi adeguati, rendendole accoglienti e sicure?

Si sarebbe potuto declassare il tratto autostradale della A24 fino alla barriera Roma Est, trasformarlo a 3 corsie per senso di marcia e utilizzarne una come corsia preferenziale per il trasporto pubblico?

Perché la Giunta Alemanno non ha mai voluto applicare la Delibera d’Iniziativa Popolare firmata da 11.000 romani e approvata all’unanimità nel 2006 dal Consiglio Comunale, per progettare e realizzare la tramvia/metropolitana di superficie Saxa Rubra – Laurentina, che collegherebbe tangenzialmente ben 6 municipi da Roma Sud a Roma Nord?

Tutto questo non accade per caso, solo per colpa di Amministratori incapaci e miopi.

Anche in questa vicenda, come in tante altre che hanno segnato il presente ed il futuro della nostra città, le Giunte che hanno governato e governano Roma ed il Lazio hanno sempre voluto dialogare solo tra loro e con gli imprenditori del cemento, non hanno mai attivato processi di partecipazione democratica, non hanno mai informato i cittadini, i loro Comitati, le Associazioni ambientaliste, non hanno mai voluto ascoltare le loro richieste e proposte.

Sulla città brechtiana dove tutto era permesso con il denaro, malgovernata da lustri dalle lobby neo-feudali incardinate nelle riunioni del lunedì ad Arcore, dove i vassalli collezionavano i pizzini del sovrano, ha soffiato il nuovo Vento del nord.

IL VENTO che porta a palazzo Marino Giuliano Pisapia, aspirante tardo epigono del riformismo ambrosiano. "Adesso mi aspetto il 25 luglio 1943, la data del Gran Consiglio del Fascismo che disarcionò Mussolini", esulta Piero Bassetti, primo presidente democristiano della regione Lombardia, che si è speso in campagna elettorale con il Gruppo del 51 (per cento), la cosiddetta borghesia illuminata rediviva, non solo contro la cricca spregiudicata che ha governato la città nel quinquennio del grande bluff di Letizia Moratti, ma per restituire a Milano il ruolo anticipatore di tutte le grandi svolte politiche del paese: il fascismo, la resistenza, l´immigrazione, il centrosinistra, il boom economico, il craxismo, infine il berlusconismo. «Quello che oggi pensa Milano - diceva Gaetano Salvemini - , domani lo penserà l´Italia».

Sarà Bossi il Dino Grandi del Terzo millennio o il Pdl imploderà da solo? Quel che è certo è che si profila qui, come a Napoli, a Cagliari, a Trieste, un nuovo blocco sociale. «Non solo tra i borghesi e gli intellettuali, ma tra i giovani, i ceti popolari, i disoccupati, l´associazionismo, i cattolici, per ricostruire questa città e questo paese dati in appalto per troppo tempo all´affarismo coniugato con l´incompetenza al potere», preconizza il neo-sindaco, che festeggia a piazza Duomo, in una Milano estiva che stasera sembra liberata da una "introversione regressiva". Così la chiama l´urbanista del Politecnico Matteo Bolocan, che denuncia l´anarchia urbanistica come l´unica cosa visibile di vent´anni di governo della destra.

A poche centinaia di metri dai festeggiamenti per Giuliano, come tutti ormai lo chiamano, svettano gli scheletri dei grattacieli di Garibaldi, di fronte a quello già imbellettato eretto da Roberto Formigoni a eterna icona del potere suo e dell´affarismo di Cl e della Compagnia delle Opere. La nuova stirpe dei «grattacielari» senza un disegno, se non quello dello sfruttamento della "leva finanziaria", cioè l´indebitamento con le banche, si è impossessata degli spazi lasciati vuoti dall´industria qui in centro e un po´ più in là, dove sorgeva la storica Fiera. Se la Moratti fosse stata rieletta sarebbero stati subito in ballo col nuovo Piano di Governo del Territorio altri 35 milioni di metri cubi, 100 nuove torri, o addirittura 341 secondo l´ambientalista Michele Sacerdoti. Si chiama "ridensificazione" la filosofia dell´assessore uscente Carlo Masseroli, 700mila abitanti in più vagheggiati per la città, con un tasso di densità che passerebbe da 7 a 12mila abitanti per chilometro quadrato, secondo il conto fatto dai tecnici di Milly Moratti, la cognata dell´ex sindaco. Peccato che non si venda o non si affitti un solo appartamento, i metri cubi si scambiano soltanto tra speculatori e banche come le figurine dei calciatori. Quando non sono grattacieli, sono loft negli ex capannoni industriali dismessi. Ce ne sono 70mila illegali, come quello dedicato a Batman dal figlio dell´ex sindaco Moratti, forse timorata di Dio e anche moderata, ma strumento malleabile nelle mani di un comitato d´affari con sede ad Arcore e con ciambellani del calibro di Bruno Ermolli, il Gianni Letta ambrosiano.

La "Peste di Milano" l´ha chiamata in un suo libro Marco Alfieri, una peste fatta di affarismo, ciellismo, berlusconismo, leghismo, avventurismo e trasversalismo del malaffare, che non nega neanche Bobo Craxi, figlio dell´inventore della Milano da bere, che con Tangentopoli aprì le porte al berluscoleghismo, dopo anni di riformismo che aveva fatto di Milano la capitale morale del paese: "Quando non c´è più la politica - dice - confliggono soltanto gli interessi". I protagonisti sono sempre gli stessi: Ligresti, estensione d´affari della famiglia La Russa oberato da miliardi di debiti, ma che - ci si può giurare - non faranno fallire, i Cabassi, venditori dei terreni dell´Expo ed acquirenti delle aree della famiglia Berlusconi a Monza. L´oggetto le aree edificabili, i tunnel, le metropolitane, la sanità. «Un´intera oligarchia adesso travolta dal voto», secondo Nichi Vendola, che, liquidati gli affaristi ambrosiani, sbeffeggia «la volgarità dei raffinati intellettuali della Magna Padania».

Poi, con i grattacieli e gli appalti, le fondazioni bancarie, la Scala, i musei, una cassaforte di 22 società partecipate, 70 altri enti e fondazioni con 3 miliardi di patrimonio e 13mila dipendenti, che si aggiungono ai 16mila comunali. Il gas, l´acqua, le fognature, i trasporti, la sanità. Migliaia di poltrone lottizzate tra Pdl, Cl e Lega in modo scientifico, come neanche erano riusciti a fare democristiani e socialisti. Milano in questi anni ha subito persino l´onta di Cesare Geronzi nella poltrona che fu di Enrico Cuccia, che anche la borghesia illuminata accettò senza battere ciglio.

«Non faremo prigionieri», proclamò l´avvocato Cesare Previti dopo una delle prime vittorie elettorali di Berlusconi. A Milano di prigionieri negli enti non ne hanno lasciato neanche uno, salvo quelli - non pochi - che negli anni si sono autoreclusi, facendo il salto della quaglia verso il potere pervasivo del berlusconismo. Pisapia, pur dolce e gentile, non sembra che intenda fare prigionieri.

Ma l´insipienza del berlusco-morattismo è stata certificata oltre ogni legittimo dubbio dalla vicenda dell´Expo 2015. Sono passati 1.160 giorni da quando Milano strappò a Smirne l´esposizione. Troppo pochi per il partito del "fare e dell´amore" che si è scannato pubblicamente in una rappresentazione fatta di dilettantismi, incapacità, tradimenti, imboscate, conquista di poltrone e prebende, sotto la regia dei signori del cemento, cui hanno assistito annichiliti i membri del Bureau International des Expositions. Il risultato è ad oggi zero. Del resto, la vicenda era nata sotto una pessima stella. L´azione di lobbying sugli altri paese del Bie, indovinate da chi era cominciata? Dalla Libia del colonnello Gheddafi e dall´Egitto di Mubarak, i due dittatori spazzati via poco dopo.

Ai milanesi non piace farsi prendere per i fondelli, dopo vent´anni di promesse al vento e di fuffa che l´economista Marco Vitale considera offensiva: «I musulmani, la Moschea, gli attacchi al cardinale Tettamanzi. Hanno trattato i milanesi da deficienti». «Cinquecento sgomberi di Rom ha fatto il vicesindaco De Corato», ha calcolato il neo-sindaco. «Risultato: ha speso 7 milioni e non ha risolto, ma ha aggravato il problema». Nel frattempo, un negozio milanese su cinque paga il pizzo alla ‘ndrangheta, che ha già allungato le mani sugli appalti per l´Expo, nella sostanziale indifferenza della giunta, del Consiglio comunale e anche del ministro dell´Interno Maroni. Cacciare gli immigrati, del resto, «significherebbe tagliare il 10 per cento dell´economia e mandare definitivamente a fondo Milano, una sciocchezza senza pari», avverte Bassetti.

Missione ardita per Giuliano, di fronte a quella che è stata definita la sindrome dello "sconfittismo di sinistra". A piazza del Duomo, Vendola inneggia stanotte ai "fratelli musulmani". Forse un lessico un po´ forte per una città che rimane moderata. Ma infiamma la piazza con le parole: «Ora prenderemo palazzo Chigi».

a. staterarepubblica. it

Modifiche al vincolo sul trasferimento dei beni di interesse culturale agli enti territoriali, al fine di sostenere il processo del federalismo demaniale. L'articolo 4 del Dl sviluppo (70/2011) contiene alcune disposizioni che impattano in maniera rilevante su questo fronte: i commi 17 e 18, introducono alcune correzioni al Dlgs 85/2010 (federalismo demaniale), mentre il comma 16 modifica il Dlgs 42/2004 (Codice dei beni culturali).

Quest'ultima disposizione – con l'obiettivo di accelerare il federalismo demaniale – semplifica il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica nei Comuni che adeguano i propri strumenti urbanistici alle prescrizioni dei piani paesaggistici regionali.

Viene innovato l'articolo 10 comma 5 del Codice dei beni culturali, elevando da 50 a 70 anni la soglia d'età oltre la quale i beni immobili di proprietà pubblica sono sottoposti a un regime speciale. Tra le disposizioni di tutela previste dal Codice sono ricomprese:

- misure di protezione (articoli 21 e seguenti, che stabiliscono, tra l'altro, le tipologie di interventi vietati o soggetti ad autorizzazione);

- misure di conservazione (articoli 29 e seguenti, che includono anche obblighi conservativi);

- norme relative alla circolazione dei beni (articoli 53 e seguenti), nel cui ambito rientrano anche le disposizioni concernenti i beni inalienabili.

Con il prolungamento del termine da 50 a 70 anni, si sottraggono alla procedura dettata dall'articolo 5, comma 5, del Dlgs 85/2010 – in cui si prevede la necessità di un apposito accordo di valorizzazione con il ministero per i Beni culturali – un rilevante numero di immobili statali o di enti pubblici non economici, realizzati dopo il 1941, spesso privi di effettivo interesse culturale.

In coordinamento con questa norma, la lettera b) del comma 16 citato in precedenza sposta a 70 anni il limite di età dei beni immobili per i quali vige la presunzione di interesse culturale, fino a quando non sia stata effettuata la relativa verifica.

La verifica dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico (il cosiddetto "interesse culturale"), richiesto ai fini della definizione di bene culturale, è effettuata, d'ufficio o su richiesta dei soggetti cui le cose appartengono, da parte dei competenti organi del ministero per i Beni culturali.

In caso di accertamento positivo dell'interesse culturale, i beni continuano ad essere soggetti alle disposizioni di tutela. Nel caso di verifica con esito negativo, invece, vengono esclusi dall'applicazione di tale disciplina (comma 4). La lettera c) dispone l'inalienabilità dei beni immobili la cui esecuzione risalga ad oltre 70 anni, fino alla conclusione del procedimento di verifica del l'interesse culturale (articolo 54 comma 2 lettera a) del Codice).

Con la lettera d), che interviene sull'articolo 59 del Codice, viene circoscritto ai soli beni mobili l'obbligo di denunciare al ministero per i Beni culturali il trasferimento della detenzione, mentre permane, sia per mobili che immobili, con riferimento agli atti che ne trasferiscono la proprietà.

Infine la lettera e), semplifica il procedimento per il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica conferendo al parere del soprintendente natura obbligatoria non vincolante, nei casi in cui i Comuni abbiano recepito nei loro strumenti urbanistici le prescrizioni del piano paesaggistico regionale e il ministero per i Beni culturali abbia valutato positivamente l'adeguamento. La stessa disposizione introduce il meccanismo del silenzio-assenso prevedendo che, qualora tale parere non sia reso entro 90 giorni dalla ricezione degli atti di positiva verifica e di prescrizione d'uso emessi dalla Regione e dal ministero per i Beni culturali, lo stesso si consideri favorevole.

Una voragine al posto dello storico bosco e lavori fermi: è quello che resta del progetto per il Nuovo Palazzo del Cinema. Avviato al solito in "emergenza" dal vice di Bertolaso. E per finanziare l'opera si stanno svendendo gioielli della laguna, dove costruire ancora

LIDO DI VENEZIA - Un grande buco, anzi una voragine pietosamente recintata e coperta da una plastichetta di cantiere. Intorno, dove un tempo brillava il verde brunito di una pineta, il vento alza mulinelli di polvere bianca. A quasi tre anni dall'inizio dei lavori, la voragine è tutto quel che c'è del Nuovo Palazzo del Cinema, una delle grandi opere infilate fra le celebrazioni dell'Unità d'Italia, che quell'appuntamento ha già saltato e che chissà se vedrà mai la luce. O chissà come, visto che siamo alla quinta revisione del progetto e a ogni revisione si toglie un pezzo. Giancarlo Galan, neoministro dei Beni culturali, ex governatore della Regione Veneto, era qui davanti al Casinò il 28 agosto del 2008. Sistemava la prima pietra del nuovo edificio. Con lui l'allora sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, l'ex ministro Sandro Bondi e il presidente della Biennale Paolo Baratta. Dalla prima pietra alla pietra tombale. Ora, trentatré mesi dopo, Galan fa sapere che per il Palazzo del Cinema serve un'idea nuova, che i costi sono troppo elevati e che così non si va da nessuna parte.

Un pasticcio. Al Lido di Venezia si sta consumando una vicenda esemplare. Per pagare i suoi costi (all'inizio 130 milioni) si è scelto di vendere alcune delle porzioni più pregiate del territorio isolano, come la vasta area dell'Ospedale a Mare con la sua spiaggia di finissima sabbia chiara. Un'area pubblica, ora privatizzata. Qui, costringendo al trasloco anche l'ultimo presidio sanitario, sorgeranno un complesso residenziale e alberghiero e si allestirà un porto per 1.000 barche, grande 50 ettari, più o meno la superficie di un'altra isola della laguna, la Giudecca. Un vero stravolgimento del Lido, striscia di terra lunga e stretta che chiude la laguna veneziana, luogo di leggendarie vacanze ai primi del Novecento, quando vennero edificati villini e palazzine liberty. Poi, dal dopoguerra, una lenta crisi, niente più mondanità internazionale salvo durante il Festival del Cinema. Qui il verde è ancora tantissimo, soprattutto nelle punte estreme dell'isola, verso Malamocco e gli Alberoni e verso San Nicolò. Dove, appunto, sorgerebbe il porto. Contro la frenesia edificatoria che sta abbattendosi sul Lido sono nati comitati di cittadini, sono stati lanciati appelli e sono partiti esposti e denunce alla magistratura. Il Comune è con l'acqua alla gola. Se non vende i suoi tesori rischia di non poter più saldare i conti del Palazzo del Cinema. E finirebbe fallito. Il sistema per finanziare l'edificio fu promosso dal sindaco Cacciari ed è poi stato ereditato dall'attuale amministrazione di Giorgio Orsoni. Che ora prende tempo e lascia trapelare soluzioni alternative: limitare le nuove edificazioni, ristrutturando il vecchio Palazzo del Cinema e creando collegamenti tra gli edifici esistenti.

Straordinarie le manomissioni al paesaggio, straordinarie le procedure. La costruzione del Palazzo del Cinema è stata commissariata e affidata a un dirigente della Protezione civile, Vincenzo Spaziante, che ha poteri straordinari, come se il Lido dovesse fronteggiare una calamità naturale. Spaziante è stato vice di Guido Bertolaso e fra gli artefici del progetto C. a. s. e. dopo il terremoto dell'Aquila. Al Lido non vigila solo sul cantiere, ma ha competenza su tutti gli affari immobiliari che ruotano intorno all'operazione, l'Ospedale a mare e non solo. È un sindaco ombra ed è come se l'isola fosse privatizzata e sottratta alle ordinarie competenze comunali: per le varianti urbanistiche, per esempio, si salta il passaggio in Consiglio comunale. Ma la vicenda trascina anche una scia di personaggi incontrati nelle inchieste giudiziarie sulla "cricca": grande del Palazzo del Cinema era Angelo Balducci, l'ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici finito in carcere, e in varie fasi del progetto troviamo impegnati Fabio De Santis e Mauro Della Giovampaola, anche loro arrestati, e le cui notti veneziane all'Hotel Gritti erano allietate, stando agli accertamenti dei magistrati, da escort inviate da Diego Anemone.

Il cantiere del Palazzo del Cinema, affidato alla Sacaim, una delle imprese più potenti a Venezia e nel Veneto, si è impantanato perché, ai primi scavi è venuto fuori amianto. E più si scavava più ci si imbatteva nella micidiale sostanza. I costi in questi tre anni sono impazziti: fra progettazioni e lavori si è già speso 35 milioni. Troppo per avere solo una voragine e per la pazienza dei lidensi, già minata dalla distruzione di una delle più belle pinete dell'isola, centotrenta alberi sbaraccati. Che la pineta non si dovesse radere al suolo erano convinti anche i progettisti del Palazzo del Cinema (Rudy Ricciotti e lo studio 5+1AA).

Ma l'argomento che ora inquieta gli abitanti del Lido (circa sedicimila persone) è un altro: il Palazzo del Cinema chissà quando l'avremo, ma intanto galoppano i progetti immobiliari che servivano a pagare l'opera fantasma. Ci troveremo un territorio stravolto, dicono, in cambio di che cosa? L'area dell'Ospedale a Mare è stata acquistata da un fondo immobiliare, Est Capital, sorto per iniziativa di un ex assessore della giunta Cacciari, Gianfranco Mossetto. Il quale esibisce sfarzosi progetti per far tornare il Lido, dice, ai fasti di un secolo fa. La prima mossa il gruppo l'ha compiuta nel 2007, acquistando i due gioielli del turismo lidense, l'Hotel des Bains e l'Hotel Excelsior e il Forte di Malamocco, un complesso militare austriaco costruito a metà Ottocento. Il Des Bains, scenario dei turbamenti di Gustav von Aschenbach nella Morte a Venezia di Thomas Mann, è in ristrutturazione da due anni. L'albergo verrà trasformato parzialmente in residence, ma i lavori sono fermi e non si sa quando riprenderanno. Anche il Forte di Malamocco è investito da un progetto: 32 ville, un albergo, una piscina e altre attrezzature. Anche se non rientrano nell'operazione finanziaria per il Palazzo del Cinema, questi interventi cascano fra le competenze di Spaziante, che nei fatti, insieme a Est Capital, sta disegnando il futuro del Lido. A poche decine di metri dall'Ospedale a Mare c'è l'area della Favorita, quasi due ettari di terreno. Il Comune, che ne è proprietario, vorrebbe vendere anche questa e anche questa finirebbe cementificata. Ma per il momento le offerte non raggiungono i 20 milioni richiesti: si sono fatti avanti i comitati ambientalisti, offrendo la cifra simbolica di un euro, un gruppo romano (8 milioni) e la solita Est Capital (10 milioni).

I comitati protestano, preparano documenti e ricorsi amministrativi. È sorto un sito (www.unaltrolido.com). Con loro è schierato l'attuale rettore dello Iuav (Istituto universitario architettura Venezia), Amerigo Restucci. Un urbanista di fama, Edoardo Salzano, ex assessore e animatore del sito www.eddyburg.it, ha scritto un instant book intitolato Lo scandalo del Lido (edito da La Corte del Fontego). In questi giorni è il porto il bersaglio delle più vivaci polemiche. Salvatore Lihard, portavoce dei comitati lidensi, ha presentato alla Regione un dossier di Osservazioni per la Valutazione di impatto ambientale. E anche l'assessorato all'Ambiente del Comune, retto da Gianfranco Bettin, è giunto a conclusioni molto preoccupate sul porto. È di Bettin il paragone fra la nuova darsena e l'isola della Giudecca. Ma altri punti destano perplessità, dalle eventuali conseguenze sulla pesca alla percezione dell'orizzonte che verrà deformata dagli alberi delle barche. All'inizio di questa settimana, infine, il Consiglio comunale ha votato una mozione all'unanimità (ma gli esponenti del Pdl sono usciti dall'aula) in cui si chiede di superare il regime commissariale e di chiarire che sorte avrà il Palazzo del Cinema. Che resterà per chissà quanto tempo ancora solo una voragine.

I libri della nuova collana di minilibri di Corte del Fòntego, “Occhi aperti su Venezia”, sono visibili e acquistabili qui

Una città in marcia verso uno sviluppo sostenibile, che torna a giocare alla pari con le grandi città dell’Europa e del mondo. Una comunità di cittadini felici di vivere la loro città finalmente affrancati dalle ansie di una gestione scandita dalla paura dell’altro e del diverso. Una città in cui si respira aria pulita, nelle strade e nei palazzi delle istituzioni. Una città finalmente capace di valorizzare l’universo femminile. Una città in cui i giovani, stufi di sentirsi narrare al futuro, possano essere protagonisti, qui e ora.

Questo è il volto di Milano che mi impegno a disegnare a partire da martedì, se sarò eletto Sindaco. All’inizio era solo un sogno, poi nel corso di undici mesi di una campagna elettorale sempre più partecipata, è diventato probabile, poi possibile. Non ho mai visto in trent’anni di attività politica tanta partecipazione, tanto entusiasmo come nelle ultime due settimane di campagna elettorale. Ora, con l’aiuto dei milanesi, questo sogno può diventare finalmente realtà.

Economia della conoscenza, creatività digitale, tecnologie verdi, ricerca scientifica: saranno motori innovativi dello sviluppo ritrovato di Milano che deve tornare a essere capitale economica del paese. E’ in questo quadro che vive e si realizza anche la nostra Expo 2015 che, andando oltre i sei mesi effettivi di esposizione, dovrà lasciare lavoro, intelligenza e nuovi spazi al servizio dei cittadini e non una cementificazione fine a se stessa. Nella convinzione che l’ambiente naturale, dall’aria al verde, è un bene comune da difendere con determinazione perché l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo non sono “negoziabili”.

La mia Milano sarà una città aperta e inclusiva, in cui il cittadino sarà al centro: soggetto e non oggetto. Donne e uomini, bambini e anziani da strappare alle loro solitudini, nuovi cittadini in arrivo dai quattro punti cardinali, a tutti il Comune aprirà le sue porte per ascoltare i loro bisogni senza mai mancare di dare risposte. Dal centro alle periferie per troppo tempo trascurate, da cui intendo far partire la mia azione di governo per porre fine a un loro degrado in cui possono annidarsi ingiustizie e criminalità. Milano garantirà il diritto a un luogo di culto per ogni religione, come dicono la Cei, il cardinale Dionigi Tettamanzi e la nostra Costituzione. Non ci sarà l’islamizzazione di Milano. Una moschea c’è in tutte le grandi città europee, c’è a Roma, Milano anche in questo deve essere una grande città europea. E in ogni caso lavoreremo per rendere la città più sicura e serena, convinti peraltro che la serenità ci puòessere solo se c’è una vera giustizia. Quindi l’affermazione della legalità, il rispetto dei diritti e dei doveri, per tutti e senza distinzioni, saranno la base della nostra azione. Ma con una consapevolezza: più sicura è una città illuminata, che vive e non chiude i suoi quartieri.

E non c’è luce più grande di quella trasmessa dalla Cultura, in tutte le sue possibili declinazioni. Qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia. Invece nella mia Milano sarà il principale motore di sviluppo: dalle scuole alle università, dalla Scala ai teatri sperimentali, dalle pinacoteche alle biblioteche di quartiere, gli investimenti in questo settore metteranno in moto un meccanismo virtuoso di creatività e innovazione che garantirà alla città di essere tra i protagonisti che stanno disegnando il futuro del mondo.

Speriamo lunedi di fare il balzo definitivo nel futuro

L'emendamento governativo all'art. 5 della legge di conversione del decreto-legge n.34 del 2011 rivela in maniera palese l'intento del legislatore, del resto apertamente dichiarato dal Presidente del Consiglio e dai principali esponenti della maggioranza, di impedire lo svolgimento del referendum abrogativo contro l'installazione in Italia di centrali nucleari, già fissato per il 12 e il 13 giugno. È pur vero che tale emendamento prevede l'abrogazione delle norme sottoposte a referendum. Tuttavia esso esprime, nel suo primo comma, la chiara volontà non già di abbandonare, come propongono i quesiti referendari, bensì di sospendere la «definizione ed attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare», in attesa e «al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell'Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare». Tale volontà è confermata dal comma 8 dell'emendamento, che prevede che «entro dodici mesi dall'entrata in vigore» della legge sarà adottato un piano energetico nazionale che non esclude affatto, ma implicitamente include l'opzione nucleare, in evidente contrasto con la proposta referendaria.

Fu proprio con riferimento a un simile contrasto che la Corte Costituzionale, con le sentenze nn. 68 e 69 del 1978, decise che, qualora una nuova disciplina legislativa, pur abrogando «le singole disposizioni cui si riferisce il referendum», non ne modifichi «i principi ispiratori» e «i contenuti normativi essenziali», allora «il referendum si effettui sulle nuove disposizioni legislative». I sottoscritti auspicano perciò che l'Ufficio per il referendum presso la Corte di Cassazione, sulla base dell'accertamento dell'evidente contrasto tra i principi ispiratori dell'emendamento approvato e l'intento dei proponenti del referendum, voglia trasferire il quesito referendario sul primo e sull'ottavo comma di tale emendamento, così consentendo agli elettori di pronunziarsi contro la pervicace volontà del legislatore di non abbandonare il programma nucleare.

Gaetano Azzariti, Francesco Bilancia, Eva Cantarella, Mario Caravale, Paolo Di Lucia, Mario Dogliani, Luigi Ferrajoli, Gianni Ferrara, Domenico Gallo, Raniero La Valle, Guido Martinotti, Stefano Rodotà, Massimo Siclari, Federico Sorrentino

"Il Pgt, che ora è realtà cambierà le nostre vite"

di Carlo Masseroli

Ho iniziato il mio lavoro di assessore all’Urbanistica cinque anni fa e ho incontrato cittadini, comitati, associazioni, imprese profit e no profit. Tutti si chiedevano perché non accadesse quella o quell’altra cosa, perché agli annunci letti non seguissero fatti, perché a servizi attesi o promessi non corrispondessero azioni concrete. Ho capito così la necessità di nuove regole per una città vivibile, libera e solidale. Il Piano di governo del territorio è nato per questo. La città, come ha ricordato il nostro arcivescovo nel "Discorso alla città" nella solennità di Sant’Ambrogio, è fatta di persone oltre che di case, è collegata da relazioni prima che da strade, illuminata dall’energia della solidarietà prima che dai cavi dell’elettricità.

È questa sfida la vera ambizione del Piano, sintetizzata nel titolo: Milano per scelta. Poter dire e sentir dire con convinzione io scelgo Milano. Scelgo Milano per vivere, per far crescere i miei figli per il mio business, per studiare, per divertirmi, scelgo Milano! Questo è il cuore del Piano, non ‘solo’ un piano urbanistico, ma un nuovo sistema di welfare. Provo a spiegarmi meglio: il principio di queste nuove regole è "Se scatena l’iniziativa delle comunità, dovremmo farlo. Se la ammazza, non dovremmo". E il risultato dell’applicazione di questo principio è in quattro fotografie, che possono ben rappresentare la Milano che continueremo a costruire.

Una casa per tutti. Perché tutti possano partecipare alla crescita della nostra città c’è bisogno che anche tu possa trovare una casa adeguata alle tue esigenze. Per questo il Pgt prevede di liberare le energie di chi sceglie Milano per accrescere le possibilità di viverci: dal mondo cooperativo alle banche, dalle istituzioni pubbliche e private ai singoli imprenditori. Case per studenti e residenze temporanee per professionisti; case in affitto, a riscatto o da comprare, con agevolazioni per giovani coppie, famiglie numerose, anziani, persone sole. Case in classe A, attente all’ambiente, al risparmio energetico e pensate per essere belle da vivere e da vedere. Perché tutti possano scegliere di vivere a Milano.

Nuovo verde. Grazie al Pgt, cinque nuovi parchi entro il 2015, 22 entro il 2030. Si tratta di nuovi spazi a verde per oltre 63 milioni di metri quadri: 120 volte il parco Sempione! A questo si aggiunge il Parco Sud, il più grande parco agricolo d’Europa che cinge la nostra città da est a ovest. Con Expo (il cui tema è "Nutrire il Pianeta. Energia per la vita") torneremo ad avere un mare fatto di spighe, di riso, di vivai. Ricco di agricoltori, allevatori e aziende agricole. Una risorsa preziosa per la città da far vivere attraverso i prodotti della terra, il recupero e la riconversione delle sue cascine. Riscopriamolo insieme. Dalle fattorie didattiche alla produzione a chilometro zero. Dalla carne ai salumi, dal latte ai formaggi.

Più servizi, più sicurezza. Il Pgt disegna la nostra città a partire dalle esigenze del tuo quartiere. Prevede l’affitto di spazi dedicati ai servizi per il cittadino al 30% del valore di mercato a chiunque intraprenda attività profit e non: dal negozio di vicinato all’incubatore d’impresa, dal laboratorio artigianale alle associazioni culturali e di promozione sociale, dalle palestre ai nidi d’infanzia. Questo si tradurrà in una maggiore offerta di servizi, più vicini a casa tua, raggiungibili a piedi in pochi minuti. Più servizi significano anche maggior sicurezza: un quartiere vivo e animato è senza dubbio un quartiere più sicuro.

Liberi di muoversi. Ti devi muovere. Lento, veloce, come vuoi. Una necessità che non deve trasformarsi in un incubo. Per questo il Pgt potenzia tutte le forme di mobilità collettiva e privata. In auto: abbiamo disegnato nuovi assi di attraversamento della città (come il tunnel da Linate ad Expo) e concluso la sperimentazione di Ecopass. In treno e metropolitana: grazie all’impulso di Expo abbiamo aperto sei nuove stazioni, avviato i cantieri di due nuove linee (M4 e M5) e disegnato la "circle line" milanese, che metterà a sistema il trasporto su ferro attraverso una metropolitana leggera da San Cristoforo a Garibaldi, passando per Rogoredo, Lambrate, Greco e Bovisa. In bici: per farti girare Milano sempre meglio stiamo realizzando la rete capillare di piste ciclabili in sede protetta. Alcuni itinerari sono già percorribili, altri in cantiere.

"Anno 2014, la metropoli è tornata un posto da vivere"

di Stefano Boeri



Poche ore fa mi ha chiamato un vecchio amico che ora è diventato il nuovo capo-ufficio stampa del sindaco Moratti. Non lo avevo mai sentito così agitato. «Stefano - mi ha detto - il Sindaco è in grande affanno… ha avuto un brutto incubo e non riesce a riprendersi…». Oh cielo, di che incubo si tratta? «Ha sognato di essere nel giugno 2014 e di tornare a Milano dopo 3 anni di riposo ad Antigua, ospite di un vecchio conoscente, anche lui in pensione da qualche anno. Bene, Letizia Moratti atterra a Linate e sgrana gli occhi: al posto del solito caos di taxi, macchine, valigie, c’è una piazza alberata con una stazione della metropolitana (proprio quella che lei non era riuscita a fare...) e - chi l’avrebbe mai detto? - un servizio di car sharing.

La Moratti non sa che fare, tentenna, ma le si avvicina un giovane dai lineamenti nordafricani che, con l’accento tipico dell’Ortica, le offre un passaggio in centro. Lei accetta e in pochi minuti, su viale Forlanini, si trova ad attraversare un vero e proprio bosco: aceri, querce, faggi, che fanno parte di quel grande anello di alberi che ormai circonda Milano e segna l’ingresso in città. Il ragazzo le fa un cenno con la mano e indica una costruzione in mezzo al parco: è una cascina, bellissima, piena di gente indaffarata: a scambiarsi ortaggi e frutta e latte e a discutere, incontrarsi, giocare e sopra il tetto della cascina una grande scritta in quindici lingue: «Benvenuti! Questa Cascina è un pezzo dell’Expo 2015. Mancano 330 giorni». «Corbezzoli! - pensa la Moratti - allora sono riusciti a farla, l’Expo…». Ma non fa in tempo a commentare, che la piccola macchina elettrica è già in viale Campania, e il giovane alla guida le passa un piccolo schermo portatile pieno di informazioni. «Sindaco, le dice, questo è quello che succederà stasera a Milano, mi dica cosa preferisce fare… tutta la città è connessa wi-fi e collegandoci con il navigatore possiamo arrivare in pochi minuti ovunque».

La Moratti sgrana gli occhi: uno spettacolo di Peter Brook al teatro Ringhiera alla Barona, tre concerti di giovani gruppi nelle piazze di Quarto Oggiaro, Niguarda, Corvetto. E ancora: una decina di installazioni e letture pubbliche grazie al nuovo Festival delle Riviste internazionali che inaugura quel giorno, e uno in particolare dedicato all’esegesi del Corano nella corte principale del Centro di Cultura islamica, progettato da un gruppo di giovani architetti israeliani. «Con tutta questa roba - pensa la Moratti - avranno chiuso la Scala…». E invece no: proprio quella sera, in cartellone alla Scala c’è l’ultima, trionfale, replica del grande concerto della giovane orchestra cosmopolita fondata e diretta a Milano da Claudio Abbado. Si suonano Bartók e Mahler e il Maestro ha appena partecipato alla collocazione degli ultimi alberi attorno al monumento a Leonardo Da Vinci. «Beh - pensa - Milano è diventata un divertificio…», ma appena rialza gli occhi, siamo ormai in viale Corsica e sono le 22, la città è ovunque accesa e viva.

Dalla scuola di via Mugello, aperta e illuminata, esce un gruppo di settantenni indaffarati, attraversano la strada e li si sente discutere tra loro di un progetto per un nuovo sistema di illuminazione della città; poco più in là anche la scuola materna di corso XXII marzo è aperta, e sono aperte le biblioteche di zona, e sono illuminate le vetrine affidate dal Comune alle piccole imprese innovative, agli artigiani, agli artisti, purché impieghino nel loro lavoro i giovani del quartiere... Tutta Milano vibra di gente che va e viene, cammina e si ferma sulle migliaia di nuove panchine e gira sulle biciclette realizzate dalle cooperative di artigiani dell’Isola. Acciderboli, pensa la Moratti, vuoi vedere che hanno riportato a Milano perfino le rondini? «Mi porti subito a Palazzo Marino», ordina con lo stesso tono cui di solito si rivolge al maggiordomo.

Il ragazzo la guarda, le sorride e la porta in piazza della Scala, a Palazzo Marino, nella sala Alessi, dove un sindaco diverso, con il viso gentile di Giuliano Pisapia, sta incontrando le delegate dell’Onu riunite per preparare a Milano la conferenza internazionale sulla Donna. È davvero troppo: Letizia Moratti si sveglia e si rincuora. È sul suo divano, circondata dagli amici più cari: il viso dolce della Santanchè, lo sguardo gentile di De Corato, il sorriso genuino di Red Ronnie… e la voce soave di La Russa che borbotta: «Letizia… abbiamo perso Milano!».

postilla

Da un certo punto di vista si potrebbe anche commentare: beh, non c’è partita, viva l’incubo della Moratti! Cosa del resto prevedibile, visto che l’Autore del secondo testo, a differenza dell’Assessore allo Sviluppo del Territorio, il comunicatore lo fa di mestiere da parecchi anni, e la differenza salta all’occhio. Da un lato prevalgono cemento e mattoni che, in uno stile modernista vintage un pochino anni ’60, con imbrillantinata fede nel progresso inevitabile, si riverseranno felicemente su tutti. Dall’altro la città viva del terzo millennio che si riprogetta quotidianamente in modo partecipato ed equo. Parrebbe sin troppo facile scegliere.

Se non fosse che la differenza fondamentale fra i due testi (e, ma è da verificare, nelle due contrapposte intenzioni) è invece tra una urbanistica quantitativa, di crescita e redistribuzione , e un complesso di politiche urbane coordinate dove lo sviluppo del territorio sta a significare soprattutto articolazione qualitativa, trasformazione graduale. Dove anche quei “carne salumi latte e formaggi” evocati da Masseroli trovino posto oltre le copertine degli opuscoli promozionali. Dove gli alberi raccontati da Boeri facciano in tempo, come natura pretende, a trovare gli anni di tranquillità necessaria ad esistere fuori dai renderings. Dove la comunicazione insomma smetta di essere un fine, per tornare ad essere uno strumento fra i tanti di politiche urbane serie. Attorno agli urban center, alle pratiche partecipative magari a senso unico alternato, tocca sempre non scordarselo, c’è tutto il resto della città (f.b.)

“Mappa di un paese in rovina. L'Italia è crollata». Questo è l'articolo che Antonio Cederna ha scritto sulle pagine della rivista Il Mondo. Ieri? No. Ben 36 anni fa! L'articolo, infatti, pubblicato nel 1975 all'indomani della costituzione del ministero dei Beni Culturali e Ambientali voluto da Giovanni Spadolini, sottolinea l'importanza di tale istituzione, vista la gravità dello stato in cui versava il patrimonio culturale e naturale del Paese. Come ieri, anche oggi, ritorna ad essere grave l'abbandono dei monumenti e dei siti archeologici. Immersi nel paesaggio, come nelle città e nelle periferie, questi, sempre più spesso, periscono fino a scomparire lasciando alle generazioni che seguiranno non "testimonianze avente valore di civiltà", ma soltanto pietre e polvere: macerie da raccogliere. L’Italia così continua a perdere pezzi della sua storia. All'ombra del Vesuvio, dopo il crollo della Schola Armatorarum nel sito archeologico di Pompei, anche il "Miglio d'Oro", un quadro spettacolare di arte e natura lungo la linea di golfo che va da San Giovanni a Torre del Greco, ha perso un'altra testimonianza storica: Villa Lauro-Lancellotti a Portici. Voluta dal principe Scipione Lancellotti nel 1776 e costruita dall'architetto Pompeo Schiantarelli, la dimora settecentesca costituiva una testimonianza unica per gli affreschi dello splendido salone cinese, danneggiato proprio dal recente crollo. Tra le 122 ville vesuviane a perire, per il grave stato di incuria e abbandono, è anche la villa d'Elboeuf, una splendida terrazza sul mare. Prima in ordine cronologico, fu voluta dal duca d'Elboeuf su disegno di Ferdinando Sanfelice, nel 1711, di cui elemento caratteristico è la doppia scala ellittica con balaustra in marmo e piperno di accesso ai due portali della facciata principale. Tuttavia altrettanti episodi di incuria si registrano anche nel cuore antico della città di Napoli, dichiarato dall'Unesco, nel 1995, Patrimonio mondiale dell'umanità. Dalla Guglia dell'Immacolata dove, a novembre, sono cadute parti della decorazione marmorea, alla chiesa di Sant'Agostino alla Zecca, dove sono crollati pezzi di piperno dall'ultimo ordine del campanile; dal Cimitero delle Fontanelle dalle cui alte pareti sono precipitati piccoli pezzi di tufo, alla chiesa di San Paolo Maggiore dove alcune decorazioni in stucco hanno ceduto all'azione del tempo. E nel Belpaese - dove l'attenzione alla tutela delle antichità ha preceduto la formazione dello Stato unitario - il Gran Tour continua, dal Nord lungo tutto lo stivale fino sue isole, nell'Italia dei disastri. Anche la Serenissima perde pezzi. Un cornicione da Palazzo Ducale, un gradino dalle fondamenta davanti a Ca' Farsetti, sede del Comune di Venezia, un masegno da Riva Sette Martiri, e, infine, una colonnina dal ponte di Rialto. Negli ultimi anni per lo storico ponte, che resiste dalla fine del '500 alle intemperie, alle vibrazioni delle imbarcazioni e al calpestio dei turisti, erano già stati lanciati allarmi per delle crepe nell'arco di volta e per il distacco di altre colonnine dalla balaustra. La sua manutenzione e, ancor più, il suo restauro sono vittime delle fitte maglie della burocrazia e della cronica carenza di fondi. Da Venezia ad Agrigento, l'Italia è un paese che "crolla". Solo pochi giorni fa, nella città siciliana, si è verificato un altro grave cedimento. In pieno centro storico un palazzo in stile barocco è completamente collassato e le macerie, di quel che fu il Palazzo Lo Jacono, ancora giacciono sul ciglio della strada. Anche nella città di Roma le testimonianze storiche cedono, esauste, alle pressioni del tempo e all'incuria dell'uomo. E’ del 30 marzo 2010 la notizia di un altro crollo nella Domus Aurea, preziosissima testimonianza di epoca neroniana. La parte coinvolta dal crollo è di circa 60 metri quadrati e ha interessato una delle gallerie traianee. La maestosa dimora, scoperta per caso alla fine del XV secolo, ricca di decorazioni a "grottesche", non mancò di ispirare gli autori del fermento artistico romano, da Perugino a Raffaello, fino a Michelangelo. Artisti celebratissimi già dai contemporanei, come si evince dalle parole di Giorgio Vasari, storiografo e pittore, il cui prezioso archivio, pervenuto fino a noi e conservato nella sua casa natale ad Arezzo, rischia oggi la vendita e la dispersione. Tra ruderi e rovine, tra la 'fuga' dai confini nazionali di importanti testimonianze e l'alterazione degli equilibri naturali, l'Italia perde la sua identità storica, patrimonio di civiltà. Sono noti a tutti gli effetti devastanti di un evento naturale quale il terremoto che ha colpito l'Abruzzo il 6 aprile 2009. Un evento naturale non è contrastabile, ma di certo i suoi effetti vanno a potenziare le linee di azione di una tutela carente come fin qui si è cercato di descrivere. La città de LAquila, particolarmente colpita da quell'evento tellurico, si è spogliata dei suoi abitanti e sta perdendo il suo patrimonio di arte e natura. Ha perso il complesso contesto di strade ed edifici, l'articolazione organica di case, piazze, giardini, «che di ogni nucleo antico di città costituisce il tono, il tessuto necessario, l'elemento connettivo, in una parola 1' ambiente vitale» - affermava Cederna nel 1991. Ora l'Italia ha un centro storico in meno e un pesante vuoto culturale in più. Tuttavia, «la lotta per la qualità della vita - scriveva Spadolini nel 1975 - è altrettanto importante della lotta per la cultura per la sopravvivenza delle testimonianze del passato. Non c'è antitesi, in prospettiva, fra paesaggio e biosfera. E non c'è neanche antitesi fra crisi dell'ambiente e crisi degli archivi di Stato. Un paese moderno si misura sulla lotta contro gli inquinamenti non meno che sulla dignitosa conservazione di una storia, che è pure parte essenziale della propria identità di nazione». Eppure, come disse Antonio Cederna nel suo articolo del 1975, «forse è ancora possibile evitare il crollo totale. Se tutti, Parlamento, governo, Regioni e Paese lo vorremo».

Giorgio Napolitano ha promulgato la legge, appena approvata dalla Camera, che contiene la "moratoria" nucleare voluta dal governo. Dunque la parola può passare ora alla Corte di Cassazione che dovra decidere se il testo uscito dal Parlamento supera o meno il quesito referendario. E i magistrati dell´Ufficio centrale per il referendum sono stati già convocati alle ore nove del primo giugno.

Dunque mercoledì prossimo si saprà se gli elettori che si recheranno alle urne il 12 e il 13 giugno troveranno, oltre alle schede sull´acqua e sul legittimo impedimento, anche quella sul quesito che chiede di bloccare per sempre i progetti nucleari del governo.

Un passaggio scontato e previsto quello della Cassazione. Anche se ieri il Quirinale, annunciando la promulgazione della legge, ha sentito il bisogno di ricordare che non tocca al presidente della Repubblica, ma proprio alla Cassazione, stabilire se il referendum sul nucleare si deve fare o meno.

Replica indiretta a chi chiedeva a Napolitano di non promulgare la legge. Questa richiesta, per esempio, era arrivata dal senatore democratico Felice Casson e dall´ex procuratore di Firenze Ubaldo Nannucci.

In questo caso al coro non si è unito Antonio Di Pietro. «Prendiamo atto e rispettiamo la decisione di Napolitano: non poteva fare altrimenti», dice il leader dell´Idv. L´ex pm però aggiunge: «Resta il fatto che gli effetti di questa legge sono una truffa ai danni dei cittadini, perché governo e maggioranza tentano in maniera prepotente di impedire che si svolga il referendum, calpestando il diritto di voto degli italiani».

L´Idv annuncia una sua memoria all´Ufficio centrale per il referendum che chiede di tenere ugualmente il referendum. Una richiesta che si aggiunge a quelle annunciate dal Pd e dai comitati referendari. Lo scontro adesso si trasferisce sui i tempi e i modi dell´informazione su referendum.

La Rai doveva iniziare a informare il 4 aprile, ma i balletti in commissione di Vigilanza Rai hanno "mangiato" quasi tutto il tempo a disposizione. Ieri, per discutere di informazione e referendum c´è stato un incontro fra i comitati promotori e il vicedirettore Antonio Marano. Secondo il comitato Viale Mazzini ha assicurato che «le tribune elettorali saranno spostate in momenti della giornata di maggior ascolto televisivo e verranno fatte puntate di approfondimento dei più seguiti talk show sui referendum». Fumata bianca, invece, per gli spot negli spazi di maggior ascolto, per le tribune referendarie in prima serata e sulla presenza di rappresentanti dei comitati promotori nei talk show. I comitati sono alla fine insoddisfatti e adesso chiedono di incontrare Sergio Zavoli.

Signor Presidente, il governo ha posto la fiducia in parlamento per esercitare, con modalità inedite, una forzatura al fine di far passare un decreto che "neutralizza" il referendum abrogativo della legge che ripropone il nucleare nel nostro paese. Tralasciamo qui ogni considerazione politica sul disprezzo con il quale la sovranità popolare viene umiliata nel nostro paese e non entriamo nel merito delle valutazioni giuridiche in base alle quali la Corte di Cassazione deciderà nella sua autonomia. Ci poniamo invece un problema che, pur nella sua ovvietà fin qui poco considerata, pensiamo sollevi una questione costituzionale.

Noi pensiamo che se il precedente inaugurato dal governo in questa occasione si affermasse, una espressione determinante della sovranità e del potere popolare - il referendum - sarebbe nel nostro paese di fatto liquidato. In una parola, se di fronte ad ogni richiesta di referendum avanzata dai cittadini ed accolta dagli organi istituzionali preposti la contromossa dell'esecutivo fosse un provvedimento a maggioranza di sospensione (per un breve periodo) della legge in questione, verrebbe sospeso anche il potere abrogativo o convalidativo di cui il popolo è titolare qualora si raggiungesse il quorum in regolari votazioni. Se poi il marchingegno per la prima volta introdotto nell'esperienza repubblicana viene addirittura accompagnato dall'intenzione dichiarata di riproporre la legge di cui si è chiesta l'abrogazione in un tempo successivo, quando si «saranno calmate le acque», il referendum diventerebbe un istituto a discrezione della maggioranza parlamentare, che i cittadini non potrebbero mai riprendere nelle loro mani.

Signor Presidente, la domanda non è di poco conto e non riguarda soltanto la sua facoltà di firmare o respingere un provvedimento. La Costituzione riconosce al Popolo italiano un solo mezzo per esercitare la propria volontà di cambiare le leggi espresse durante una legislatura dalla maggioranza dei parlamentari da lui votati. All'istituto del referendum sono stati posti dalla Costituente vincoli che si rivelano più stringenti nella situazione attuale, al punto da rendere il raggiungimento del quorum un fatto di per sé straordinario, se si considera la scarsa informazione che gli italiani residenti e quelli all'estero continuano a ricevere. Ma oggi, con il voto anomalo di sospensione e rimando di un Parlamento costretto alla fiducia, rischia di essere definitivamente "neutralizzato".

Signor Presidente, noi possiamo rivolgerci solo a Lei, per chiederLe di prendere in esame in tutte le sue implicazioni la prospettiva da noi temuta. Fidiamo in una sua parola e in un suo intervento.

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