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Gli effetti benefici dell'onda lunga dei referendum hanno indirettamente ripulito un piccolo grande obbrobrio contenuto nel decreto sviluppo: una norma che portava a 20 anni il diritto di superficie dei privati sulle spiagge italiane (i primi tre commi dell'articolo 3 relativi al demanio pubblico). Cancellati, come non detto, e dire che inizialmente la regalìa era prevista addirittura fino a 90 anni: una concessione secolare che la Ue aveva ritenuto «non conforme» alla disciplina del mercato comune.

Lo cancellazione della concessione ridotta a 20 anni è stata decisa ieri dal governo nel corso dei lavori della commissione lavoro e bilancio alla Canera, accogliendo alcuni emendamenti presentati dalle opposizioni. Saggia e popolare decisione, anche se adesso, per dare sostanza a questo colpo di freno alla furia privatrizzatrice dei businnesmen governativi, bisognerebbe trovare il coraggio di ripulirle davvero le spiagge nostrane, considerando che sono già le più cementificate d'Europa - al 60% secondo l'Agenzia delle Nazioni Unite per l'Ambiente (Unep).

Il pericolo è tutt'altro che scongiurato ma almeno, in attesa di nuove norme da valutare con grande attenzione, è stato fatto un passo nella direzione giusta. «È convinzione del Pdl - dichiara Sergio Pizzolante, membro Pdl della commissione finanze alla camera - che sia necessario definire norme, condivise con l'Europa, in grado di garantire continuità nella gestione delle spiagge anche dopo il 2015 per gli operatori che hanno fatto investimenti e creato valore commerciale». Per questo il governo nei prossimi giorni convocherà le categorie economiche coinvolte nella gestione delle spiagge per «una soluzione complessiva che dovrà vedere la luce entro l'anno».

Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, non è tranquillo e non ha alcuna intenzione di abbassare la guardia visto che la materia sarà trasferita nella legge comunitaria, e non si sa ancora in quali termini. «Il rischio - spiega - purtroppo resta inalterato perché restano in piedi i commi 4 e 5 dell'articolo tre, quelli che prevedono, attraverso le zone a burocrazia zero, di edificare su spiagge ed arenili». Come dice Maurizio Fugatti del Wwf, «bene che ci sia un ripensamento, anche se ci auguriamo che la norma non spunti in un altro provvedimento». Sebastiano Venneri, vicepresidente nazionale di Legambiente, di fronte alla cancellazione di una «aberrazione giuridica» oggi preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno. «Un altro successo per i cittadini. Dopo la vittoria su nucleare e acqua pubblica, la cancellazione di questa norma rappresenta una nuova vittoria per tutti i cittadini, gli imprenditori onesti e per coloro che hanno a cuore i beni comuni. Questa estate è cominciata bene, ora avanti per liberare le spiagge dai cancelli e dal cemento».

Sulla stessa linea il commento di Ermete Realacci, responsabile green economy del Pd. «Il governo - dice - è stato costretto a fare marcia indietro su una scelta miope e sbagliata, il diritto di superficie ventennale oltre ad essere una minaccia per l'ambiente e le coste italiane rappresentava un rischio anche per le migliaia di imprese del settore, perché quella norma era ritagliata sugli interessi di pochi grandi investitori, magari per solleticare l'ingresso di capitali stranieri di dubbia provenienza». Armando Cirillo, responabile turismo del Pd, partito che ha proposto la modifica della norma, adesso chiede al governo un intervento complessivo per tutelare il settore turistico-balneare. Una norma per archiviare la procedura d'infrazione avviata dalla Ue nei confronti dell'Italia. Una legge quadro per affidare le concessioni demaniali marittime e contrastare gli interventi speculativi, tutelando gli investimenti eco-compatibili effettuati dai privati sulle spiagge. Riaprire un confronto in sede Ue per «affermare la peculiarità delle imprese turistico-balneari». E, infine, il Pd chiede anche l'approvazione del piano nazionale per il turismo.

A proposito di turisti. Rispetto all'anno scorso, i prezzi sulle spiagge sono cresciuti dell'1,5%. Mentre rispetto al 2001, solo dieci anni fa, i prezzi sono aumentati del 136%. Una famiglia di quattro persone spende in media 97 euro per una giornata al mare, e senza scialare. E questo problema, c'è una norma che lo risolve?

Il paesaggio è il grande malato d’Italia, come scrive Salvatore Settis? Dovunque ci si volti, si trova che il cemento cresce e diminuiscono l’erba, la terra, l’acqua in libertà. La volontà di dominio degli uomini sulla natura non conosce misura. Le lezioni tipo Fukushima non spaventano gli esaltati del cemento, i quali, nella convinzione che ogni filo d’erba costituisca un impedimento al guadagno, non riescono mai a rivolgere uno sguardo verso il futuro. Eppure il futuro dovrebbe esserci caro, poiché è sul futuro che possiamo piantare le nostre speranze, i nostri progetti. Ma lo stiamo inondando di rifiuti. Segno, come dicono gli studiosi del comportamento animale, che ci stiamo disamorando del nostro stare al mondo.

Secondo l’Istat, fra il 1990 e il 2005 la superficie agricola utilizzata (Sau) in Italia si è ridotta di 3 milioni e 663 mila ettari, un’area grande quanto il Lazio e l’Abruzzo messi insieme: «Abbiamo così convertito, cementificato o degradato in quindici anni, senza alcuna pianificazione, il 17%del nostro suolo agricolo» . Cito dal bel libro di Salvatore Settis: Paesaggio Costituzione Cemento. Gli effetti sono: «La riduzione dei terreni agrari, boschivi e il dissesto idrogeologico, che creano una terra di nessuno disponibile ad affrettate urbanizzazioni» . Secondo l’Istat, «l’espansione dell’urbanizzazione ha conosciuto negli ultimi decenni un’accelerazione senza precedenti» . Eppure c’è la crisi, le case costano sempre piu care, gli affitti si fanno improponibili, e i giovani sono affamati di abitazioni. Ma le gettate di cemento non risolvono la questione, anzi l’aggravano. È questo il punto.

Come scrive Franco La Cecla ( Per un’antropologia dell’abitare): «L’equilibrio storico fra popolazione e territorio è già compromesso o sul punto di collassare» . Insomma: a cosa serve tutto questo cemento se non a soddisfare l’ingordigia di guadagno e l’induzione di nuovi inutili bisogni? E non si tratta, come dicono alcuni, di ubbie ambientaliste: la devastazione del territorio costa alla comunità un mucchio di denaro. Secondo il rapporto Ispra del 2009, l’uso irrispettoso «delle vocazioni naturali del territorio ha generato negli ultimi 7 anni danni per almeno 5 miliardi di euro» . Per non parlare degli incendi che ogni anno distruggono in media 45.000 ettari di aree boschive (dati del Corpo forestale), di cui oltre il 90%provocati dall’uomo. Questo non impedisce a molti amministratori di essere vittime di quello che Settis chiama «la retorica dello sviluppo» , parola d’ordine che incanta sia le destre che le sinistre. Il motivo è nobile: creare posti di lavoro.

Ma è chiaro che si tratta di un vecchio modo di guardare alle cose. Se non si cambiano i criteri di valutazione sui rapporti dell’uomo con la natura, ne usciremo sempre più poveri e malati. Il rimedio? Meno pretesa di dominio, meno speculazione, meno voracità. Più attenzione, più ascolto, più rispetto, più pianificazione. Non ci sono alternative. Pena la dipendenza sempre più drammatica dalle reazioni di una natura che si rivolta furibonda e senza pietà.

Forse, dopo la perdita di Milano e Napoli, la sconfitta al referendum è la più avvilente nella storia di Berlusconi. Si era messo in testa che ignorandolo l’avrebbe ucciso, l’aveva definito «inutile», e il giorno del voto se n’era andato pure al mare, esemplarmente. Niente da fare: il quorum raggiunto e i quattro sì che trionfano non sono solo un colpo inferto alla guida del governo.

È una filosofia politica a franare, come la terra che d’improvviso si stacca dalla montagna e scivola. È un castello di parole, di chimere coltivate con perizia per anni. «Meno male che Silvio c’è», cantavano gli spot che il premier proiettava, squisita primizia, nei festini. Gli italiani non ci credono più, il mito sbrocca: sembra l’epilogo atroce dell’Invenzione di Morel, la realtà-non realtà di Bioy Casares. Per il berlusconismo, è qualcosa come un disastro climatico.

Tante cose precipitano, nel Paese che credeva di conoscere e che invece era un suo gioco di ombre: l’idea del popolo sovrano che unge la corona, e ungendola la sottrae alla legge. L’idea che il cittadino sia solo un consumatore, che ogni tanto sceglie i governi e poi per anni se ne sta muto davanti alla scatola tonta della tv. L’idea che non esistano beni pubblici ma solo privati: il calore dell’aria, l’acqua da bere, la legge uguale per tutti, la politica stessa. L’idea, più fondamentale ancora, che perfino il tempo appartenga al capo, e che un intero Paese sia schiavo del presente senza pensare - seriamente, drammaticamente - al futuro. Più che idee, erano assiomi: verità astratte, non messe alla prova. Non avendo ottenuto prove, il popolo è uscito dai dogmi. Lo ha fatto da solo, senza molto leggere i giornali, gettando le proprie rabbie in rete. È una lezione per i politici, i partiti, i giornali, la tv. La fiamma del voto riduce una classe dirigente a mucchietto di cenere.

Pochi hanno visto quello che accadeva: il futuro che d’un tratto irrompe, la stoffa di cui è fatto il tempo lungo che gli italiani hanno cominciato a valutare. Erano abituati, gli elettori, a non votare più ai referendum. Questa volta sono accorsi in massa: a tal punto si sentono inascoltati, mal rappresentati, mal filmati. Nessuna canzoncina incantatrice li ha immobilizzati al punto di spegnerli. Berlusconi lo presentiva forse, dopo Milano e Napoli, ma come un automa è caduto nella trappola in cui cadde Craxi nel 1991 - andare al mare mentre si vota è un rozzo remake - e con le sue mani ha certificato la propria insignificanza. Impreparato, è stato sordo all’immenso interrogativo che gli elettori di domenica gli rivolgevano: se la sovranità del popolo è così cruciale come proclama da anni, se addirittura prevale sulla legge, la Costituzione, come mai il Cavaliere ha mostrato di temere tanto il referendum? Come spiegare la dismisura della contraddizione, che oggi lo punisce?

Il popolo incensato da Berlusconi, usato come scudo per proteggere i suoi interessi di manager privato, non è quello che si è espresso nelle urne. È quello, immaginario, che lui si proiettava sui suoi schermi casalinghi: un popolo divoratore di show, ammaliato dal successo del leader. Chi ha visto Videocracy ricorderà la radice oscena della seduzione, e le parole di Fabrizio Corona: «Io sono Robin Hood. Solo che tolgo ai ricchi, e dò a me stesso». Nel popolo azzurro la libertà è regina, ma è tutta al negativo: non è padronanza di sé ma libertà da ogni interferenza, ogni contropotere. Ha come fondamento la disumanizzazione di chiunque si opponga, di chiunque incarni un contropotere. Di volta in volta sono «antropologicamente diversi» i magistrati, i giornalisti indipendenti, la Consulta, il Quirinale. Ora è antropologicamente diverso anche il popolo elettore, a meno di non disfarsi di lui come Brecht consigliò al potere senza più consensi. Era un Golem, il popolo - idolo d’argilla che il demiurgo esibiva come proprio manufatto - e il Golem osa vivere di vita propria. Il premier lo aveva messo davanti allo sfarfallio di teleschermi che le nuove generazioni guardano appena, perché la scatola tonta ti connette col nulla. E quando ti connette con qualcuno - Santoro, Fazio, Saviano - ecco che questo qualcuno vien chiamato «micidiale» e fatto fuori.

Il popolo magari si ricrederà, ma per il momento ha abolito il Truman Show. Ha deciso di occuparsi lui dei beni pubblici, visto che il governo non ne ha cura. Non sa che farsene del partito dell’amore, perché nella crisi che traversa non chiede amore ai politici ma rispetto, non chiede miraggi ottimisti ma verità. Accampa diritti, ma non si limita a questo. Pensare il bene pubblico in tempi di precarietà e disoccupazione vuol dire scoprire il dovere, la responsabilità. Celentano lunedì sera ha detto che siamo disposti perfino ad avere un po’ più freddo, in attesa di energie alternative al nucleare. Per questo si sfalda il dispositivo centrale del berlusconismo: la libertà da ogni vincolo è distruttiva per l’insieme della comunità. Era ammaliante, ma lo si è visto: perché simile libertà cresca, è indispensabile che il popolo sia tenuto ai margini della res publica.

Specialmente nei referendum, dove si vota non per i partiti ma per le politiche che essi faranno, il popolo prende in mano i tempi lunghi cui il governo non pensa, e gli rivolge la domanda cruciale: è al servizio del futuro, un presidente del Consiglio che ha paura dell’informazione indipendente, che ha paura di dover rispondere in tribunale, che elude la crisi iniziata nel 2007, che non medita la catastrofe di Fukushima e considera il no al nucleare un’effimera emozione? Pensa al domani o piuttosto a se stesso, chi sprezza la legalità pur di favorire piccole oligarchie, il cui interesse per le generazioni a venire è nullo? Ai referendum come nelle amministrative il tempo è tornato a essere lungo. Non a caso tanti dicono: si ricomincia a respirare.

La crisi ha insegnato anche questo: non è vero che il privato sia meglio del pubblico, che il mercato coi suoi spiriti animali s’aggiusti da sé, che la politica privatizzata sia la via. I privati non sono in grado di costruire strade, ferrovie, energia pulita per i nipoti. Vogliono profitti subito e a basso costo, senza badare alla qualità e alla durata. Berlusconi si presentò come il Nuovo ed era invece custode di un disordine naufragato nel 2007. Non era Roosevelt o Eisenhower, non ha edificato infrastrutture per le generazioni che verranno.

Ogni persona, dice Deleuze, è un «piccolo pacchetto di potere», e l’etica la costruisce su tale potere. Berlusconi pensava - forse pensa ancora - che questo potere fosse suo: che non fosse così diffuso in pacchetti. Pensava che il cittadino non avesse bisogno di verità; che il coraggio te lo dai nascondendola. Pensava (pensa) che il coraggio consista nel ridurre le tasse, e chi se ne importa se l’Italia precipita come la Grecia o se pagheranno i nipoti. Pensava che, bocciato il legittimo impedimento, puoi farti una prescrizione breve, come se il popolo non avesse proscritto ogni legge ad personam. Il Cavaliere ha eredi nel Pdl. Ma all’eredità come bene consegnato al futuro non ha mai badato, convinto che la crisi sia come la morte (e lui come la vita) per Epicuro: «Finché Silvio c’è, la crisi non esiste. Quando la crisi arriva, Silvio non c’è». Tanti ne sono convinti, e lo incitano a «tornare allo spirito del ‘94»: dunque a mentire sulle tasse, di nuovo.

Chi lo incita sa quello che dice? Ha un’idea di quel che è successo fra il 1994 e il 2011? Rifare il ‘94 non è da servi liberi, ma da gente che ignora il mondo e ne inventa di falsi. Se fossero liberi e coraggiosi non sarebbero stupidi al punto di consigliare follie. Se insistono, vuol dire che sono servi soltanto. La loro retorica è così smisurata che neppure capiscono la nemesi, che s’è abbattuta sul loro padrone.

L'onda anomala dell'acqua pubblica

di Andrea Palladino

Le privatizzazioni selvagge, i tabù del centrosinistra, la repressione poliziesca di ogni forma di disobbedienza civile nata fuori dai partiti
Dalla prima rivolta internazionale contro le corporation al Forum di Corviale, cronaca di una svolta globale e locale costruita dal basso

C'è una data dimenticata dietro il successo straordinario, epocale, dei referendum sull'acqua. Febbraio 1997: sulla mailing list Forum international sur la globalisation appare un messaggio di uno studioso statunitense, Tony Clarke. E un documento allegato, che nel giro di pochi giorni inizia a circolare in decine di paesi, il Multilateral Agreement on Investment. Due mesi prima Martin Khor, direttore del Third World Network, Ong con base in Malesia, era riuscito a ottenere la bozza di quell'accordo sugli investimenti che l'Ocse stava segretamente preparando, che verrà da lì a poco conosciuto semplicemente come Mai. Khor aveva scansionato il documento per poterlo divulgare il più possibile, attraverso la rete internet. Fu un'esplosione, il vero annuncio del terzo millennio, la data di nascita del movimento mondiale contro la globalizzazione. E ieri in Italia, quattordici anni dopo, si celebrava la prima vittoria popolare di quell'onda lunga nuova, disobbediente, cresciuta fuori dalle segreterie di partito, reticolare, creativa e in grado di cambiare radicalmente la realtà, dal locale al globale.

L'opposizione al Multilateral Agreement on Investment fu in grado di bloccare quel primo tentativo di imporre le regole delle corporation, che si basavano sulla supremazia delle multinazionali rispetto agli stessi governi. Era solo la prima tappa, perché le grandi società dei servizi non abbandonarono mai quel progetto, cambiando semplicemente strategia dopo l'inaspettata opposizione internazionale della società civile. Lo spirito dell'accordo sugli investimenti dell'Ocse è subito dopo rientrato in pieno nelle grandi privatizzazioni dei beni comuni, dal Brasile al Sudafrica, dall'Inghilterra all'Italia. Dal 1997, però, il granellino di sabbia che aveva momentaneamente bloccato l'ingranaggio delle privatizzazioni si è moltiplicato all'infinito, si è mostrato a Seattle, e poi a Genova. Ha lasciato sui marciapiedi le prime vittime, come Carlo Giuliani, ha visto massacrare i più giovani nella scuola Diaz, nella macelleria che era solo un assaggio del massacro sociale che si preparava.

In Italia è dopo il 2001 che partono le grandi privatizzazioni dell'acqua. Un timing perfetto, scandito dai due governi Berlusconi e dalla timidezza del governo Prodi, quando l'ala liberista del Pd - composta dalla coppia Bassanini-Lanzillotta - abbracciò in pieno le teorie elaborate dall'Ocse qualche anno prima. Ma il granellino dei movimenti cresceva sotterraneo, nei territori, ampliava la propria forza attraverso le battaglie locali di Aprilia, di Arezzo, di Frosinone, della Campania, della Sicilia, dei Castelli Romani. Aggiungeva alla forza del movimento la crescita del consenso popolare, di fronte all'aberrazione della privatizzazione dell'acqua.

La tappa centrale del successo del referendum ha come scenario il lungo serpentone di Corviale, nella periferia estrema di Roma. Il Forum dei movimenti dell'acqua, nel 2006, aveva già raggiunto la maturità che serviva per iniziare a costruire il cammino durato cinque anni che è esploso ieri nelle urne. Dal 2003 aveva partecipato a un'altra campagna, stavolta europea, contro la direttiva che privatizzava i servizi pubblici, la famigerata Bolkestein.

Di quell'incontro a Corviale non rimane nessuna cronaca nelle principali testate nazionali. In fondo quel movimento che si occupava di acqua, che difendeva i beni comuni quando quelle parole erano considerate quasi tabù anche nel centrosinistra, che chiedeva l'uscita delle multinazionali dalla gestione dei servizi idrici, mentre l'ultimo governo di centrosinistra della capitale affidava tutto ad Acea, stringendo accordi segreti con i francesi di Suez, sembrava una cosa minuscola per gli opinionisti più accreditati.

Dal quel Forum di Corviale è poi uscita la pietra miliare del movimento per l'acqua pubblica, la legge di iniziativa popolare, presentata in Parlamento accompagnata da 450 mila firme, una cifra record. Ben pochi parlamentari, probabilmente, hanno mai letto quegli articoli, né tanto meno hanno cercato di discuterla. Non hanno capito che quelle migliaia di firme erano in realtà solo la prima pietra per la costruzione di un consenso che ieri ha sfiorato i 30 milioni di italiani, restituendo al paese la possibilità di decidere e di cambiare lo stato delle cose.

Servirebbero migliaia di pagine per raccontare quello che in questi quattordici anni è accaduto. Serve soprattutto la mente sgombra dai rituali della politica decotta delle segreterie di partito. Il movimento che ha reso possibile il miracolo è l'incarnazione della metafora della Cattedrale e del Bazar, utilizzata anni or sono per descrivere la filosofia dell'open source. Le grandi realizzazioni medioevali avevano un architetto in grado di controllare anche il minimo movimento dell'ultimo scalpellino; un modello opposto a quello del Bazar, dove l'informazione è sempre condivisa e corre orizzontalmente, in una rete neurale di pari che abbatte ogni gerarchia. Così l'Italia che si è presentata ieri nelle urne è fatta di migliaia di granelli, di comitati in grado da soli di condurre battaglie senza sosta contro i giganti dell'acqua.

L'esperienza, la conoscenza, lo studio dei contratti capestro, lo smascherare le strategie commerciali più immonde - come quella di staccare l'acqua con i vigilantes armati - sono l'immenso patrimonio condiviso, aperto, open source. Un modello che è stato in grado di coinvolgere città per città, municipio per municipio, quartiere per quartiere tutte quelle persone che avevano perso ogni speranza di cambiare. Per questo ieri si è celebrata una vittoria realmente e profondamente popolare, che ha un protagonista assoluto, il cambiamento non più arrestabile cresciuto dal basso. Così forte da superare lo sbarramento mediatico costruito quando ormai era troppo tardi, e in grado ora di proseguire - con ancora più forza - quella lotta di lunga durata per la riconquista dei beni comuni, per la ricostruzione di un futuro possibile e giusto.

Verso un manifesto dei beni comuni

di Alberto Lucarelli



Oggi, a due settimane dai trionfi di Napoli e Milano e a dieci anni dal G8 di Genova, festeggiamo la vittoria del referendum sull'acqua e soprattutto un nuovo modo di fare Politica. È nato un nuovo laboratorio politico, si è raggiunta una vittoria voluta con tutte le forze dal forum dei movimenti per l'acqua e da tutta quella cittadinanza attiva che progressivamente ha capito la necessità di riconquistare se stessi e soprattutto la voglia di far politica e di vedere affermati i propri diritti. Il movimento referendario ha avuto la forza e il coraggio, sin dall'inizio del suo percorso, di declinare un nuovo modo di fare politica, di esprimere nuove soggettività, al di fuori del sistema dei partiti.

Partiti in pochi, ma decisi e già consapevoli dei saccheggi che si stavano realizzando sui beni comuni, il movimento con coerenza, rigore, umiltà, forza di ascolto e di inclusione ha saputo e voluto raccogliere e declinare il "grido" di Genova 2001, dichiarando l'esigenza di uscire dalle logiche proprietarie e individualistiche, per affermare spazi e beni comuni dove poter esercitare e veder soddisfatti i propri diritti. Oggi si raccoglie il frutto di una semina non compresa, sbeffeggiata, avversata dall'establishment istituzionale, ma anche una semina che i più avvertiti avevano compreso che avrebbe determinato un'inversione di rotta e spezzato quell' intreccio affaristico tra borghesia mafiosa, politica, economia e pezzi deviati dell'amministrazione pubblica.

A partire dal 2001 si è aperto in Italia, attraverso il ruolo determinante di tante realtà locali e di tante pratiche sociali, la battaglia dei beni comuni contro la privatizzazione selvaggia dei diritti di cittadinanza ma anche contro gli abusi di un pubblico sempre più corrotto e contaminato da interessi particolari. Si è riusciti a liberare il concetto vuoto di partecipazione dai formalismi giuridico-istituzionali e dai giochetti della democrazia formale; si sono contrastati con fermezza ipocriti meccanismi di cooptazione o di strumentalizzazione.

La truffa "normativa" della partecipazione è stata smascherata sviluppandosi all'esterno e a volte anche contro i meccanismi legislativi che miravano ad irretirla. A partire dalla vittoria di oggi pretenderemo che le politiche pubbliche (nazionali e locali) non siano più calate dall'alto e che le istanze partecipative, elemento decisivo per la gestione dei beni comuni, si trasformino in veri diritti, espressione di antagonismo, proposta, gestione e controllo. Tutti i comuni dovranno adottare delle delibere che impongano l'affermazione della democrazia partecipativa, sperimentando anche laddove non previsto dalla legislazione vigente reali ed effettive forme di coinvolgimento.

La vittoria di oggi è la prova che partecipazione e beni comuni sono nuove categorie che stanno contribuendo alla nascita di nuove soggettività politiche fuori ed oltre il sistema dei partiti. Attraverso le battaglie sull'acqua, ma direi in senso più ampio attraverso le battaglie a difesa del lavoro, del territorio, dell'università pubblica, dei diritti dei migranti, contro il nucleare e gli inceneritori, i cittadini si riapproprieranno del diritto di esprimersi sui beni comuni, sui beni di loro appartenenza, su quei beni che esprimono utilità funzionali all'esercizio dei diritti fondamentali. Sono avvertiti tutti quei comuni compiacenti che preferiscono fare affari con i privati piuttosto che difendere i beni della comunità. Questi amministratori si troveranno di fronte cittadini pronti a reagire a veri e propri piani di svendita dei servizi pubblici locali oltre che del patrimonio pubblico. Le comunità locali non sono più disposte a tollerare dei municipi gestiti da giunte che, unitamente a "pezzi" della borghesia mafiosa, perseguono interessi particolari, assumendo decisioni «non partecipate e calate dall'alto». Da oggi obiettivo politico primario sarà la realizzazione di un governo pubblico e partecipato dei beni comuni, in una prospettiva di effettivo cambiamento.

Erbacce alte più di un metro e rovi che coprono tombe e statue. La denuncia fatta ieri da Leggo ha scatenato una bufera politica sulla manutenzione dell'Appia Antica. Ma per la Regina viarum i problemi non sono solo gestionali, ma di controllo. La strada più famosa del mondo, infatti, all'ora di punta diventa un'autostrada. Il motivo? Automobilisti e motociclisti pur di evitare il traffico dell'ora di punta sull'Appia Pignatelli scelgono di transitare sul basolato romano di 2000 anni fa. Una scelta in voga anche tra gli autisti dell'Archeobus: quella che dovrebbe essere la linea nata per far ammirare ai turisti le bellezze del Parco archeologico, transita sui lastroni mettendo a rischio quel pezzo di patrimonio storico. Una situazione che si ripete ogni giorno dopo le 17, quando la parallela è invasa dal traffico. «L' Appia Antica è in uno stato di abbandono totale - tuona il consigliere del Pd, Paolo Masini - ma il sindaco pare non curarsene affatto. Chiediamo che il Campidoglio si svegli e la riporti in una situazione di pulizia e sicurezza». Gli fa eco Antonio Stampete, vice-presidente della commissione turismo del Comune: «Roma è sempre più abbandonata a sé stessa e l'incuria non colpisce solo le periferie ma anche i monumenti e la via più conosciuta al mondo. La falciatura dell'erba non è stata fatta, le aiuole sono giungle e sul basolato romano forse l'isola pedonale più ambita al mondo passa qualsiasi mezzo». «E una situazione che segnaliamo da tempo - dichiara Rita Paris, della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici - è assurdo che l'Appia venga usata come scorciatoia da auto e bus. Per quello che ci riguarda e compete effettuiamo interventi costanti e mirati contro il degrado, ma per la Regina viarum servirebbero maggiori risorse e cura. Si potrebbe portare a realtà il progetto per farla diventare Ztl. Per quello che riguarda le falciature abbiamo iniziato a sistemare la situazione».

"Nel nostro momento di massimo splendore noi italiani siamo stati promotori di esperienze culturali straordinariamente innovative. Oggi siamo diventati i guardiani notturni del nostro eccezionale patrimonio, siamo davvero gli eredi più inadeguati di quella cultura che vogliamo tesaurizzare". E ancora: "Se vuoi congelare un luogo questo si trasforma in un parco a tema, i centri storici di Venezia e di Firenze sono esempi lampanti di un modo sbagliato di fare cultura e i visitatori si adeguano a questo mutato sentire e utilizzano i bellissimi ambienti urbani come fondali per foto ricordo". È questo il pensiero espresso in: "Italia reloaded. Ripartire con la cultura" (il Mulino), l´opera di Christian Caliandro, dottore di ricerca in Storia dell´Arte, e di Pierluigi Sacco, professore alla Iuav di Venezia. Alla Fondazione Bruno Kessler, per il Festival dell´Economia di Trento, i due autori si sono intrattenuti, il 4 giugno con Paolo Legrenzi, psicologo economico e professore alla "Ca´ Foscari" di Venezia, e con Tonia Mastrobuoni, giornalista de "La Stampa". "Purtroppo in Italia - ha esordito Tonia Mastrobuoni - il dibattito in merito alla conservazione dei beni culturali si sta concentrano sulla disponibilità dei fondi, si è perso di vista da molto tempo un tema cruciale, ovvero come la cultura viene fruita dal pubblico". Argomento centrale invece nel libro di Caliandro e Sacco che, sulla base anche di alcuni sondaggi effettuati sui visitatori dei musei italiani, esprimono l´idea di una fruizione passiva dei beni culturali. "La società italiana alla fine degli anni ´70 è precipitata in un vortice - ha commentato Christian Caliandro - in una sorta di smarrimento, di decomposizione, come rendono bene alcuni zombie movies del periodo. C´è stata, in sostanza, una sorta di rimozione del passato, di rimpianto e nostalgia, che si è tradotta in assenza di memoria. Questa in buona sostanza è la condizione propria dello zombie; noi viviamo fra le rovine di strutture costruite e prodotte da una cultura precedente". Negli ultimi anni, accanto a un fenomeno collettivo di rimozione, si è affiancato un modo di intendere la cultura strettamente economico: "Ormai le manifestazioni culturali si leggono in termini economici, di marketing - ha spiegato Paolo Legrenzi -, ovvero quante persone hanno visitato la mostra, quanti soldi sono stati incassati, quanto è stato l´indotto complessivo. È un fenomeno che riduce e svilisce la nostra cultura, che riduce i gusti delle persone alle scelte che essi fanno e a ricavare l´assetto culturale di un intero paese dalle preferenze delle persone". L´effetto sui nostri centri storici più belli è stato devastante: "Sono ormai ridotti a parchi tematici, a sfondi per le foto ricordo e per le cartoline - sono state le parole di Pierluigi Sacco -. Venezia ha 20 milioni di turisti all´anno, ma è una città fatta per ospitarne 100 mila ed è evidente l´impatto che questo può avere sulla sua sostenibilità. Si sta desertificando, sta perdendo la memoria di ciò che è, rimane solo un immenso bed&breakfast, una grandissima vetrina incapace di produrre nuovi significati, nuova cultura". Ma la strada d´uscita è indicata da alcuni esempi virtuosi: "Trento, ad esempio, è una delle culle italiane di un nuovo modello di sviluppo, in grado di produrre sistemi di contenuti - ha concluso Sacco -. La sintesi a cui guardare non è il binomio tra patrimonio culturale e turismo, ma quella fra patrimonio e information technology, ovvero l´utilizzo della tecnologia per trasmettere contenuti e informazioni. Dobbiamo creare energia nuova attorno a queste progettualità, come stanno facendo tutti i paesi emergenti, perché le opportunità culturali hanno effetti sull´innovazione, sulla coesione sociale, sul benessere; pensiamo ad esempio alla Corea del Sud, che sta investendo miliardi per creare una piattaforma culturale. Solo attraverso un percorso che intreccia information technology e cultura, quest´ultima potrà trasformarsi e diventare motore dell´economia".

Erba alta più di un metro. Cassonetti sepolti dai rovi. Sporcizia e un senso di abbandono che contrasta con la storia. Siamo sull'Appia Antica: nota al mondo come Regina viarum, oggi somiglia sempre più a una Cenerentola, una strada di periferia. Basta incamminarsi tra i lastroni all'ombra della tomba di Cecilia Metella per rendersi conto dello stato di incuria. La rastrelliera installata per parcheggiare le biciclette sembra uscita da un bombardamento: abbandonata, in parte rotta e arrugginita. Poco più avanti si scorge un cassonetto: per gettare una cartaccia, però, serve buona volontà e scarpe da trekking. Già, perché è completamente coperto da rovi e spuntoni e il risultato è che lattine e sacchetti sono sparsi a terra. La cosa più impressionante è la mancata falciatura dell'erba. In particolare nel tratto compreso tra l'incrocio di via Erode Attico e via Cecilia Metella le aiuole a bordo strada sembrano una selva: quello che doveva essere un prato decorativo tra tombe e statue oggi è alto più di un metro. «Le falciature - dice Daniela Galdiero, del comitato in difesa della Regina viarum - come la manutenzione qui è un miraggio. La strada di Roma più famosa nel mondo è letteralmente abbandonata a se stessa. Abbiamo più volte sollecitato Comune e Sovrintendenze ad intervenire ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti». Ma se la manutenzione latita i controlli non sono da meno: l'Appia Antica dovrebbe essere una sorta di isola pedonale, dove possono passare solo i residenti. Ma il condizionale è d'obbligo: già, perché nel tratto lastricato - quello compreso tra vicolo san Sebastiano e via dei Metelli - ogni giorno transitano (contromano) centinaia di auto per dribblare il traffico infernale di via Appia Pignatelli. Un escamotage che crea pericolose vibrazioni e mette a rischio la pavimentazione di 2000 anni fa. Il tutto davanti agli occhi sbigottiti dei turisti che speravano di vedere un museo a cielo aperto ma trovano degrado e abbandono.

Trascrizione e tipizzazione dei contratti per la circolazione dei diritti edificatori come chiave a sostegno dello sviluppo locale

Dare più certezza alla circolazione dei diritti edificatori. Insiste su questo punto uno degli emendamenti al decreto sviluppo, che sta per iniziare l’esame in aula per la conversione in legge. L’argomento è stato ripreso anche da Inu, Istituto nazionale di urbanistica, che ha posto una serie di proposte all’attenzione dei parlamentari.

Secondo Simonetta Rubinato del Pd, lo sviluppo locale potrebbe essere incentivato dalla compravendita delle cubature. A tal fine sarebbe utile un panorama normativo certo, con la possibilità di trascrivere i contratti che trasferiscono i diritti edificatori. Evoluzione che eviterebbe l’insorgere di molti contenziosi.

Il tutto potrebbe essere completato dalla tipizzazione dei contratti di cessione di volumetria, che darebbe fondamento legislativo al principio della perequazione urbanistica, in base al quale tutti i terreni esprimono la medesima capacità edificatoria. La cubatura di competenza dei terreni non edificabili potrebbe quindi essere venduta a quelli edificabili.

Nel caso in cui il trasferimento avvenga a favore di enti pubblici territoriali, è proposto inoltre l’assoggettamento alle imposte di registro, ipotecarie e catastali in misura fissa. Al contrario, i privati non avrebbero margini di guadagno.

Sulla stessa lunghezza d’onda l’Inu, che oltre a ribadire la necessità di una legge ad-hoc per il governo del territorio, ferma da anni nelle competenti commissioni parlamentari, ha proposto di inserire lo strumento della perequazione tra le misure per semplificare la realizzazione delle costruzioni private.

L’Inu si è concentrato su una migliore e più ordinata disciplina del Piano regolatore generale, che a suo avviso dovrebbe essere sdoppiato in una parte strutturale e in una operativa.

Le leggi regionali dovrebbero quindi disciplinare i contenuti del piano comunale e intercomunale individuando le componenti strutturali, operative, regolamentari o gestionali. La componente strutturale dovrebbe recepire tutti i vincoli ricognitivi previsti da leggi e da piani di settore, individuare altri valori territoriali da tutelare e compiere scelte di pianificazione. Nella componente operativa dovrebbero invece essere individuate le aree e gli interventi di trasformazione del territorio da promuovere in un arco temporale non superiore ai cinque anni.

L’Istituto nazionale di urbanistica ha infine proposto il ripristino dei tempi di certificazione dell’interesse pubblico sugli immobili storici, da riportare a cinquanta anni dopo che il Dl sviluppo ha innalzato la soglia a settanta anni.

A proposito di

La sindaca credeva che indicare Lupi fosse vincente. Ma i guasti dei cementari sono sotto gli occhi di tutti i votanti

Le elezioni amministrative indicano per la prima volta dopo venti anni la possibilità di aprire ad una nuova prospettiva il futuro delle città. La tornata elettorale ha infatti dimostrato che il ventennio dell'urbanistica contrattata può dirsi concluso per sempre.

A Milano, Letizia Moratti aveva tentato la carta vincente annunciando che nel caso di vittoria al ballottaggio avrebbe nominato Maurizio Lupi assessore allo sviluppo del territorio. Lupi non è un personaggio qualsiasi. Già assessore all'urbanistica dal 1997 al 2001, con il sindaco Albertini, poi deputato Pdl, esponente di primo piano di Comunione e liberazione, amministratore delegato di Fiera di Milano congressi.

Sul tema delle città, Lupi è stato uno degli esponenti più determinati nel tentare di cancellare l'urbanistica dal panorama legislativo italiano. Lo ha fatto come assessore a Milano praticando oltre ogni limite l'urbanistica contrattata. Lo ha fatto come parlamentare con la proposta di legge che porta il suo nome e che non è stata approvata nel 2006 per un miracolo. In quella legge c'era scritto che le amministrazioni pubbliche e la proprietà fondiaria hanno le stesse prerogative nel governare il territorio: è l'economia che deve prevalere ad ogni costo. Letizia Moratti aveva dunque sperato di avere l'asso nella manica, affidandosi alla speculazione immobiliare per recuperare consensi.

Pisapia ha vinto con largo distacco. Per la prima volta la lobby del cemento ha fallito il colpo e dobbiamo chiederci perché. Finora, infatti, la cultura urbana liberista era stata egemone. Urbanisti folgorati sulla via di Damasco si sono messi a cantare le lodi del mercato come unica possibilità di salvezza delle città. Le amministrazioni di centrosinistra hanno fatto propri i paradigmi degli avversari e anche l'opinione pubblica ha dimostrato ampio consenso verso questa impostazione.

A Roma la giunta di Veltroni ha rovesciato 70 milioni di metri cui di cemento (il micidiale Pgt di Milano ne contiene «soltanto» 35 milioni) e nessuno ha fiatato. A Torino sono state approvate circa 150 varianti urbanistiche per lo più ritagliate sulle esigenze della proprietà fondiaria. A Firenze hanno aperto le porte a Ligresti e, se non fosse sufficiente, basta andare a vedere l'inaudito scempio della scuola della Guardia di Finanza. A Venezia, l'isola del Lido viene devastata dal cemento perché solo così si può ristrutturare il Palazzo del cinema. La macchina del consenso funzionava.

Perché allora a Milano il collaudato gioco non ha funzionato? Perché i risultati del ventennio dell'urbanistica liberista sono ormai sotto gli occhi di tutti e i cittadini hanno giudicato sulla base della propria esperienza. Lo hanno fatto le giovani coppie a cui avevano fatto credere che Santa Giulia era il modello di città nuova. Si sono indebitate con un mutuo ed hanno scoperto che la proprietà aveva costruito scuole e abitazioni su un mare di sostanze velenose. Lo hanno fatto le coppie di anziani che - come nel caso della zona Garibaldi - vedono sorgere mostruosi grattacieli che sconvolgono il tessuto della loro città solo per far guadagnare un pugno di speculatori. Lo hanno fatto tutti i milanesi nel vedere che la cancellazione delle regole nelle città (dai "piani casa" al "decreto sviluppo") serve solo a spregiudicati speculatori, compresi i rampolli dell'aristocrazia proprietaria, per fare ciò che vogliono, compresa la casa di batman. A Milano hanno dunque compreso l'imbroglio dell'urbanistica liberista che aggrava le condizioni di vita di tutti per favorire i guadagni di pochi. Ma non è finita, perché la parte più avveduta del sistema finanziario ha compreso, essendo esposta per enormi cifre, che continuare a espandere le città è ormai un gioco folle. C'è troppo invenduto in ogni città d'Italia e continuare così porterà inevitabilmente ad un pericoloso corto circuito.

Lo straordinario merito di Pisapia è stato quello di aver fornito una figura di grande credibilità culturale e morale a questi segmenti di società abbandonati dalla politica. Da Milano arriva dunque un segnale che dobbiamo utilizzare senza incertezze. Al pari del ragionamento sul comparto Italcantieri su cui si è soffermato su queste pagine Guido Viale, le città possono diventare un grande cantiere diffuso che consente la nascita di migliaia di piccole imprese qualificate nel risparmio energetico degli edifici, nella sicurezza e nella sostituzione dell'uso dell'automobile con sistemi su ferro. Una grande riconversione produttiva, dunque, l'unica prospettiva di uscita dalla crisi che può essere disegnata dallo schieramento che ha conquistato Milano, Napoli e tante alte città.

Si vota! Sembra incredibile ma siamo riusciti a far esprimere il popolo sovrano su questioni fondamentali per il nostro futuro, senza la mediazione dei partiti e delle burocrazie politiche. Siamo riusciti ad aprire un dibattito serio nel paese e a proporre politicamente strumenti di azione ed un linguaggio nuovo, quello dei beni comuni, che esce dalle stanze degli addetti ai lavori.

Non è un traguardo da poco, né era scontato che saremmo riusciti a raggiungerlo. Un voto popolare per invertire la rotta rispetto ad un modello di sviluppo fondato sull'ideologia della privatizzazione e su un rapporto fra l'interesse pubblico e quello privato sempre più spostato a favore di quest'ultimo, non poteva che dar fastidio a molti. E i suoi esiti possono essere politicamente dirompenti, forse perfino costituenti di una fase nuova finalmente capace di superare in Italia il blocco del pensiero unico che paralizza ogni possibilità di uscita dalla crisi. Comunque, siamo riusciti a fermare il folle banchetto nucleare che pareva già imbandito quando, poco più di un anno fa, si siglavano gli accordi italo-francesi fra Edison ed Edf. Questo pactum sceleris poteva esser presentato, senza pudore, come un passo verso la modernizzazione sulle pagine dei giornali.

Adesso la Confindustria, che già aveva l'acquolina in bocca per i ricchi trasferimenti dal settore pubblico a quello privato, si agita vieppiù nervosamente perché rischia di veder sfumare anche il business dell'acqua, dei trasporti e della spazzatura. Infatti, se dovessimo vincere il referendum, organizzeremmo la gestione dell'acqua in modo coerente con la sua natura di bene comune: ne affideremmo la gestione ad un settore pubblico ristrutturato e democratico seguendo una logica ecologica e di lungo periodo. Troveremmo gli investimenti per un grande di intervento pubblico sul territorio, per ristrutturare le infrastrutture e prevenirne il degrado. Creeremmo così posti di lavoro garantiti come quelli che, sembra un secolo fa, avevano i cantonieri prima che Anas si trasformasse in un una agenzia di gestione di gare d'appalto. Perché il privato dovrebbe investire sul lungo periodo? Perché le gare dovrebbero essere trasparenti e meritocratiche? Perché non dovrebbero esserci soldi pubblici per una riconversione ecologica del nostro modello di sviluppo mentre ci sono (200 milioni al mese) per massacrare civili in Libia e Afghanistan, in brutale violazione della Costituzione?

Porre queste domande non è stato facile. Il governo ha iniziato inserendo addirittura nel preambolo del decreto Ronchi la grande menzogna per cui la dismissione a favore del privato del servizio idrico e degli altri servizi di interesse economico generale (trasporti e spazzatura) sarebbe stato obbligatoria sul piano europeo e quindi non sottoponibile a referendum. Questo argomento è stato il mantra ripetuto dai nostri oppositori (bipartisan) mentre noi raccoglievamo milioni di firme e iniziavamo un grande processo dal basso di alfabetizzazione idrica, ecologica ed istituzionale che, già da solo, ha reso l'Italia un luogo migliore. Poi la Corte Costituzionale ha accolto per due terzi il nostro impianto referendario, sbugiardando sul punto il governo, mettendo in chiaro i limiti culturali dell'impostazione dell'Avvocatura dello Stato, e riconoscendo l'importanza anche giuridica della nozione di beni comuni (poco dopo la nozione è stata elaborata anche dalle Sezioni Unite della Cassazione).

Da quel momento il governo avrebbe dovuto divenire "amministrazione", rispettando la Costituzione. Lungi dal farlo, il governo ha innanzitutto dilapidato 350 milioni (di quel denaro pubblico impossibile da trovare per riparare gli acquedotti) rifiutando l' "election day". Abbiamo puntualmente presentato ricorso contro questa autentica vergogna, ma né il Tar Lazio né la Corte Costituzionale hanno avuto il coraggio di opporvisi. Dal 4 aprile poi è scattata la par condicio, che ha reso tabù la discussione sui beni comuni mentre, nel frattempo, la maggioranza faceva melina in Commissione di Vigilanza per impedire che si emanassero i decreti necessari per assegnare gli spazi ai promotori.

Quando la terribile tragedia di Fukushima rende impossibile non parlare di questione nucleare, il governo, come un bambino beccato dalla mamma con le mani nella marmellata, mette a segno l'autogol per far saltare i referendum. Con l'approssimazione giuridica che contraddistingue una maggioranza che a furia di disprezzare la legge non sa più utilizzarla, il decreto omnibus, cerca di cancellare il voto sul nucleare.

Se per qualche settimana la confusione prodotta nell'opinione pubblica è stata totale, il tentativo di scippo goffo e maldestro dell' ultimo minuto ha scatenato nel corpo elettorale gli anticorpi dell' indignazione. La nostra energia si è moltiplicata, nuovi appoggi, fino a quel momento impensati, sono arrivati alla nostra compagine. Mentre il legame culturale fra il nucleare e l'acqua, declinato nella riflessione sui beni comuni faceva crescere lo spessore politico delle nostre analisi ed il significato del referendum, il mondo cattolico, mobilitato da quel grande campione di visione politica di lungo periodo che è Alex Zanotelli scendeva apertamente in campo.

In questo scenario sociale i referendum, con la rete di diverse decine di migliaia di attivisti per gran parte estranei ai partiti, paiono proprio il corrispondente italiano delle primavere arabe e degli indignados spagnoli. Fra poche ore sapremo se il nostro disegno di conferire forza politica costituente a un grande ripensamento dei rapporti fra pubblico e privato attraverso lo strumento dei quesiti referendari abrogativi sui beni comuni, sarà condiviso dalla maggioranza del popolo italiano. In caso affermativo, l'avidità per l'oro blu avrà sciacquato via, almeno in Italia, la fine della storia ed il pensiero unico.

Anticipiamo il testo dell'introduzione di Tommaso Fattori all'edizione italiana dello studio di David Hall ed Emanuele Lobina – ricercatori del PSIRU (Public Services International Research Unit) dell'Università di Greenwich – Da un passato privato ad un futuro pubblico. La privatizzazione del servizio idrico in Inghilterra e nel Galles, edizioni Aracne (di prossima uscita).

Questo rigoroso studio sugli effetti della “più grande rapina legalizzata” della storia britannica – definizione del quotidiano conservatore Daily Mail – contiene elementi importanti per il dibattito sulla privatizzazione del servizio idrico che sta attraversando il nostro paese, grazie all’iniziativa referendaria "2 sì per l’acqua bene comune" promossa da una vastissima coalizione sociale.

Un dibattito nel quale colpisce l’astrattezza ideologica delle tesi dei privatizzatori, aggrappati a modelli economici irreali, talvolta per l’ingenuità tipica di chi vive asserragliato nell’accademia senza contatto con il mondo esterno, più frequentemente per i forti interessi materiali connessi ai processi di privatizzazione. L’astrattezza di queste argomentazioni, spesso comicamente ammantate di pragmatismo, rifiuta con ostinazione di confrontarsi con i dati di fatto e con l’esperienza empirica, là dove i processi di privatizzazione del servizio idrico integrato siano avanzati e consolidati da anni. Anzi, sono proprio alcune esperienze di privatizzazione “riuscita”, come quella inglese o gallese, ad essere portate ad esempio da chi evidentemente non ha idea di ciò di cui sta discettando o confida nell’ignoranza di chi ascolta. Non è un mistero che in Italia il modello inglese venga portato ad esempio tanto dal governo di centro-destra che da parte dell’ opposizione, soprattutto perché consente di pronunciare una parola magica di gran moda: authority. L’authority, intesa come autorità indipendente di regolazione e controllo, appare alle menti neoliberiste un’entità quasi metafisica, che tutto dovrebbe risolvere all’interno di un mercato monopolistico privatizzato, coniugando armoniosamente il profitto di pochi e l’interesse generale. David Hall ed Emanuele Lobina mostrano invece, con dati incontrovertibili, come la mitica authority dell’acqua –più precisamente si tratta dell’Office of Water Service (Ofwat)- non sia affatto in grado di regolare o controllare alcunché, per limiti strutturali ed insuperabili di questo meccanismo, lasciando alle società private la possibilità di ricavare immensi profitti e di distribuire agli azionisti lauti dividendi attraverso la gestione monopolistica dell’acqua. Il servizio idrico è a domanda anelastica (la stessa quantità vitale d’acqua è necessaria ad una famiglia in tempi prosperi e in tempi di crisi, ai ricchi e ai poveri) ed è un servizio fondamentale perchè permette concretamente l’accesso ad un bene comune essenziale ed insostituibile per la vita. Un bene che dovrebbe riguardare la sfera dei diritti fondamentali è così consegnato al dominio dei profitti. L’authority finisce per essere una mera foglia di fico, che copre e legittima questo processo di spoliazione.

Hall e Lobina evidenziano come l’ente regolatore Ofwat sia stato continuamente raggirato dai gestori privati, che, nel migliore dei casi, hanno intascato extraprofitti riducendo gli investimenti programmati (ossia già pagati in tariffa dai cittadini). I casi più gravi non sono però emersi grazie al controllo di Ofwat ma perchè denunciati, a posteriori, dagli stessi autori dei misfatti, pentiti e decisi a svelare i meccanismi messi in piedi a danno dell’interesse generale. Negli scandali che hanno coinvolto Severn Trent, ad esempio, “l’informatore” è stato un ex manager che ha ammesso d’aver ricevuto l’ordine di alterare dati rilevanti al fine d’ottenere dal regolatore un aumento delle tariffe. Una vicenda che ha poi permesso di scoprire, attraverso successive confessioni, come una gran mole di dati forniti dalle società private ad Ofwat fossero falsi o gonfiati: dai dati sulle perdite di rete fino a quelli sulla consistenza reale delle morosità. Tutto ciò non fa che corroborare la tesi dell’impossibile governo e controllo pubblico delle gestioni privatizzate, avvolte nel guscio del diritto privato e regolate dal diritto societario. Un’impossibilità, aggiungerei, che non dipende tanto dalla cattiva volontà di singoli individui o da limiti organizzativi contingenti ma da fenomeni strutturali, come le “asimmetrie informative”: le conoscenze rilevanti si trovano tutte in mano al gestore (il gestore “sa” perché “fa”) ed è il gestore privatizzato che trasmette le informazioni sensibili al controllore, il quale non può che dipendere, nella sua attività di regolazione e controllo, da questi dati. Altrimenti detto, il gestore ha strutturalmente maggiori informazioni rispetto al regolatore e cerca di trarre il massimo vantaggio da questa asimmetria conoscitiva, a discapito del pubblico interesse. “Fare” significa “sapere” e sapere significa “potere”: nessun ente regolatore potrà mai recuperare quel cumulo di conoscenze legate alla gestione diretta che migra inevitabilmente dalla sfera del pubblico alla sfera del privato nel momento stesso in cui viene privatizzato un servizio essenziale. Il pubblico perde le conoscenze necessarie per esercitare il proprio controllo nel momento in cui è all'impresa che passa tanto il "fare" che il "saper fare" (know how), che gli è inscindibilmente connesso. Un soggetto regolatore esterno, per esempio, non può essere in grado di avere perfetta conoscenza dei processi produttivi e delle tecnologie impiegate, dati necessari per stabilire con precisione i costi di produzione del gestore privato. Ecco perché al fenomeno delle asimmetrie informative segue automaticamente la “cattura del regolatore”: se l’autonomia conoscitiva del regolatore è limitata, anche la capacità di giudizio e intervento viene impedita, così l’ente che dovrebbe regolare e controllare tende piuttosto ad adeguare le sue analisi alle interpretazioni offerte dai gestori, perdendo ogni neutralità e schiacciando il proprio punto di vista su quello dei soggetti controllati. Oltretutto, gli enti regolatori si devono solitamente rapportare a società privatizzate la cui governance effettiva è in mano a grandi soggetti multinazionali, che entro la società hanno il reale potere decisionale. Il caso inglese gallese trova quindi un perfetto pendant nell’esperienza italiana, dove le Aato, ossia le autorità di ambito che dovrebbero regolare e controllare i gestori, non sono affatto riuscite a regolare le società privatizzate, adeguandosi sostanzialmente alle richieste e alle esigenze dei controllati, a partire da quelle relative alla definizione delle tariffe. Agli albori della privatizzazione in Italia vi è il caso dell’Ato aretino, in Toscana, dove alla fine degli anni ’90 la gestione fu affidata tramite gara ad una società mista, con all’interno una cordata di privati guidati dalla multinazionale francese Suez. Proprio ad Arezzo il presidente dell’autorità di controllo si dimise dal suo incarico denunciando l’impossibilità di regolare la società privatizzata e rilevando la "debolezza endemica del rapporto pubblico-privato" [1] all’interno di una società mista, per quanto formalmente a maggioranza pubblica. In Italia il governo s’appresta nel 2011 a sostituire le autorità d’ambito territoriali con un’authority regolatrice nazionale sul modello inglese, ma si tratta di uno specchietto per le allodole: privatizzare il servizio idrico significa consegnare di fatto saperi e poteri alle gestioni privatizzate, come l’esperienza d’oltremanica mostra in modo limpido.

Qualcuno potrebbe ottimisticamente sostenere che in Italia la nuova ondata di privatizzazione dell’acqua offrirà maggiori garanzie perché intende muovere da premesse diverse: a differenza del modello inglese e gallese analizzato da Hall e Lobina, il modello di privatizzazione italiano dovrebbe prevedere, in origine, l’affidamento della gestione ad operatori privati tramite gara (o, in alternativa, l’ingresso di soci privati nelle Spa in house almeno con il 40% di partecipazione nel pacchetto azionario, soci da individuare sempre tramite procedura ad evidenza pubblica). Le gare potrebbero pur esser vinte da società di capitali interamente pubbliche, si aggiunge, come per velare ed occultare la logica privatrizzatrice del provvedimento [2], il cui obiettivo immediato è spazzar via proprio le gestioni in house. Lo si sarà facilmente intuito, in questo caso la nuova parola magica è gara: come se la gara potesse mutare d’incanto un pervicace “monopolio naturale” – in ogni territorio passa un solo acquedotto e c’è un solo fornitore possibile - in un mercato concorrenziale. Invece il monopolio naturale si trasforma così in un solido monopolio privato, con vita peraltro assai lunga, solitamente ventennale o trentennale (addirittura 50 anni in Inghilterra e Galles, dove sono state privatizzate persino le infrastrutture). Per sua natura il servizio idrico non può essere liberalizzato ma solo privatizzato e l’esperienza, ancora una volta, dimostra come la “concorrenza per il mercato” (il meccanismo di gara), che nella teoria dovrebbe compensare e risarcire l’assenza di un’impossibile “concorrenza nel mercato”, si riveli solo l’evanescente copertura per l’ingresso di soggetti privati a caccia di rendite garantite in un mercato monopolistico. Lo dimostra l’esperienza internazionale ma anche italiana, dato che le offerte presentate in occasione di gare effettuate nel nostro paese sono state una o due al massimo: il mercato dell’acqua privatizzata è dominato da oligopoli e questi pochi attori si mettono d’accordo fra loro per spartirsi rendite monopolistiche, come accaduto fra le presunte “concorrenti” Acea e Suez nelle gare realizzate in Italia nel decennio passato. L’Autorità antitrust, nel 2007, multò le due multinazionali “per aver posto in essere un’intesa restrittiva della concorrenza (…), che ha avuto per oggetto e per effetto un coordinamento delle rispettive strategie commerciali nell’ambito del mercato nazionale della gestione dei servizi idrici”. Più precisamente “l’istruttoria ha consentito di verificare che Acea e Se (Suez ndr) hanno raggiunto sin dal 2001 un accordo di massima sul coordinamento delle rispettive attività nel settore dei servizi idrici. In particolare, le parti hanno concordato la partecipazione congiunta a numerose gare relative a gestioni idriche in Italia – a partire da quelle bandite in Toscana, dove la forma operativa del PPP è stata adottata per la prima volta in maniera estesa (…) – ovvero combinazioni con soggetti terzi al fine di condizionare gli esiti di procedure ad evidenza pubblica (gare, ndr)”. Né sarebbe stato difficile immaginarlo, dal momento che la quota di capitale azionario di Acea in mano alla “concorrente” Suez è sempre stata consistente (nella primavera del 2011 la partecipazione è salita addirittura dal 10 all’11,5%). Il fine di questa alleanza era evidente: “un simile accordo di cooperazione (…) è stato volto a mantenere ed aumentare il rispettivo potere di mercato secondo criteri di mera strategia imprenditoriale e non di maggior efficienza industriale”. Suez non intendeva “lasciare Acea ad approfittare da sola dei margini realizzabili nel settore non regolamentato”: “obiettivo: utilizzare Acea come ‘braccio armato’ di Suez per l’acqua in Italia.” [3]

Per un altro verso, non esiste un solo economista (in grado di separarsi, anche per un istante, dagli amatissimi modelli astratti), che non conosca la banale verità: nel servizio idrico, dove gli affidamenti durano decenni, non sono mai possibili gare che permettano di valutare con attendibilità quale sia la migliore offerta economica, perché i termini fondamentali del contratto dovranno essere necessariamente rivisti nel tempo e ha ben poca importanza l’offerta avanzata in origine. In altre parole, tutti gli elementi economicamente determinanti su cui basare la scelta -a partire dagli investimenti e dalle tariffe- dovranno essere rinegoziati svariate volte dopo la gara, nel corso del lungo periodo d’affidamento del servizio. In gare di questa natura conta l’arbitrarietà e la discrezionalità di chi sceglie ma ancor più conta la forza ed il potere dei soggetti economici privati che si propongono per la gestione del servizio. Sarà poi il gestore che avrà ottenuto l’affidamento ad essere, nel corso delle successive rinegoziazioni, in posizione dominante (detenendo sapere e potere), anche se trovasse di fronte a sé il miglior regolatore al mondo. Insomma, la pragmatica Thatcher, nel demolire i servizi pubblici, ha almeno evitato ai poveri inglesi la ridicola pantomima della gara.

I privatizzatori sostengono inoltre che l’arrivo dei privati porti di per sé un aumento degli investimenti nel settore, per la ristrutturazione degli impianti e per la realizzazione di nuove infrastrutture (in Italia soprattutto per la depurazione delle acque reflue). Per innescare un simile meccanismo virtuoso, si dice, basta legare i profitti agli investimenti: se il privato tanto più investe quanto più guadagna, sarà spinto ad investire moltissimo, perseguendo il proprio interesse che si tradurrà anche in beneficio per tutti. Certo, le bollette si alzerebbero, sia perché gli investimenti vanno pagati interamente in tariffa (in base al sistema del full cost recovery), sia perché è giusto “premiare”, con i legittimi profitti, l’investitore privato; ma se il gestore privato risultasse efficiente, s’aggiunge, potrebbe diminuire i costi operativi e così i cittadini quasi non s’accorgerebbero del profitto e dei dividendi privati caricati sulle tariffe. Il caso inglese e gallese dimostrerebbero bene la realizzabilità di un simile miracolo, viene spesso ribadito. Se invece dal magico mondo dei modelli astratti torniamo all’esperienza del mondo reale, vediamo che le cose non stanno così, né mai potrebbero stare così. Innanzitutto, a proposito di profitti occorre una premessa: chiunque abbia dimestichezza con i processi di privatizzazione sa bene quali e quanti modi vengano utilizzati normalmente dai privati dell’acqua per ottenere profitti ed extra-profitti, fra cui, ad esempio, il travestire da investimenti spese che nelle gestioni pubbliche figuravano più onestamente in bilancio come voci per normalissimi costi di gestione ordinaria; spacciare per consulenze e trasferimento di know-how quelli che invece sono “utili anticipati” per i soci privati; affidare appalti a società direttamente o indirettamente controllate o collegate, senza passare da gara (spezzettando l’appalto in più parti quando si tratti di lavori superiori ai 4,8 milioni di euro). Ma è necessario porci la domanda di fondo: davvero sono i privati a far partire gli investimenti? Cosa ci insegna, in proposito, il famoso caso inglese-gallese? Hall e Lobina mostrano chiaramente due cose. La prima è che il motore degli investimenti in Inghilterra e Galles è stata più semplicemente la necessità esogena di rispettare le nuove direttive UE, specialmente in materia di qualità delle acque. In altre parole, qualunque gestore, pubblico o privato, avrebbe dovuto realizzare le opere e programmare nuovi investimenti. La seconda, che negli ultimi anni di gestione pubblica (dalla metà degli anni ’80), dopo un periodo precedente di stallo, il ciclo d’investimenti era già ripartito ad un tasso di crescita medio persino superiore a quello riscontrato nei successivi anni di gestione privata.

Ma gli elementi importanti che Hall e Lobina evidenziano sono molteplici. Prima di tutto mostrano come nei primi dieci anni di privatizzazione un terzo degli investimenti siano stati in realtà finanziati da un insieme di “sussidi pubblici”. Anche in Italia le associazioni di categoria che riuniscono le Spa dell’acqua continuano a chiedere finanziamenti pubblici a fondo perduto –quindi denaro della fiscalità - a favore dei gestori privati per effettuare investimenti straordinari, in violazione della normativa europea e del meccanismo del full cost recovery (implicita ammissione, fra l’altro, che il meccanismo della privatizzazione della fonte di finanziamento e della gestione non sta funzionando) [4]. Insomma, socializzare i costi e privatizzare gli utili.

I due autori ricordano anche come, dopo il picco raggiunto nel 1992, gli investimenti delle gestioni privatizzate abbiano iniziato a calare costantemente, mentre non scendono affatto le tariffe pagate dai cittadini che anzi continuano a lievitare, malgrado il loro andamento debba essere teoricamente legato agli investimenti. Nelle tariffe i cittadini inglesi e gallesi pagano per decenni investimenti in gran parte mai realizzati. Gli operatori privati ottengono continuamente da Ofwat l’applicazione di tariffe più salate, gonfiando con regolarità le spese per investimento previste, salvo poi ridistribuire agli azionisti, sotto forma di dividendi, la differenza fra investimenti programmati e investimenti effettivamente realizzati. Un furto scandalosamente spacciato per capacità dei privati di risparmiare sulle spese previste migliorando in corso d’opera l’“efficienza del capitale” (fulgido esempio di cosa s’ intenda per “efficienza” della gestione privata). Di fatto, si tratta di milioni di extra-profitti che passano dalle tasche dei cittadini a quelle degli azionisti privati delle società di gestione, malgrado l’esistenza della mitica Authority a regolare e vigilare, con aplomb britannico. Hall e Lobina portano dati precisi su questa impennata di profitti ed extra-dividendi distribuiti dalle società privatizzate dell’acqua: nel 2005-6 l’ammontare del “risparmio” tocca il miliardo di sterline (il 22% di spesa in meno rispetto alla stima degli investimenti su cui Ofwat aveva stabilito la tariffa).

Così i privati hanno continuato ad intascare dividendi da favola mentre le tariffe dei cittadini hanno continuato a crescere senza sosta. Gli studi citati concordano nel rilevare una relazione diretta fra aumenti delle tariffe ed incremento dei profitti per i gestori. Nei primi 10 anni di privatizzazione i profitti delle principali dieci società idriche inglesi sono cresciuti del 147%: circa il 30% della bolletta pagata dal cittadino è intascata dagli azionisti privati sotto forma di dividendi. Nelle Spa dell’acqua italiane, quel 7% di “adeguata remunerazione del capitale investito” contro cui si è rivolta l’iniziativa referendaria [5] incide mediamente, nel 2011, per il 15% sul totale della bolletta pagata (senza mettere in conto extra-profitti e utili indiretti che i soci privati sono in grado di realizzare a danno dei cittadini). In Inghilterra e Galles all’impennata del 245% delle tariffe dal 1989 al 2006 (39% oltre il tasso d’inflazione), non è corrisposto nessun miglioramento del servizio, nessuna “efficienza” magicamente infusa nel sistema dai privati. L’analisi dei dati mostra come, in termini reali, i costi operativi siano rimasti gli stessi mentre l’aumento costante delle tariffe sia da imputare principalmente “a vari elementi associati al capitale – i costi del capitale, l’interesse, i profitti- che sono quasi raddoppiati in termini reali”. Vale la pena ricordare come vi sia universale accordo fra gli studiosi del settore sul fatto che un aumento dell’1% della remunerazione del capitale investito equivale a oltre il 10% di riduzione dei costi di gestione: il maggiore costo del capitale divora facilmente eventuali margini di efficienza, intesi come riduzione dei costi operativi. Le gestioni privatizzate costano di più e sono nella maggior parte dei casi tutt’altro che efficienti. Il mantra ideologico della maggior efficienza del privato rispetto al pubblico, ossessivamente ripetuto negli anni ’80 e ’90, ormai non è più intonato neppure da Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale, che pure avevano puntato molto sulla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, acqua in primis. Tutti gli studi sui servizi idrici ribadiscono che non esiste alcuna superiore efficienza delle gestioni private rispetto a quelle pubbliche, come ammette la stessa analisi pubblicata dalla Banca Mondiale nel 2005, opportunamente citata da Hall e Lobina: statisticamente “non c’è una differenza significativa fra l’andamento dell’efficienza degli operatori pubblici e quello dei privati”. A parità d’efficienza gestionale, però, l’ottimo privato costerà necessariamente alla collettività molto più dell’ottimo pubblico, data l’intrinseca necessità del privato di produrre profitti e remunerare i capitali investiti: l’obiettivo di una gestione privatistica del servizio idrico è, innanzi tutto, la creazione di valore per gli azionisti (non la garanzia del diritto d’accesso universale al bene acqua). Maggiori profitti si possono ottenere aumentando le tariffe, tagliando il costo del lavoro, riducendo la qualità del servizio. I profitti si possono incrementare anche aumentando i volumi d’acqua venduti (anziché incoraggiare il risparmio e la tutela della risorsa), riducendo gli investimenti effettivi rispetto a quelli programmati (e perciò pagati in tariffa), spacciando interventi d’ordinaria manutenzione per investimenti.

I dati e gli studi raccolti da Hall e Lobina compongono un quadro preoccupante- per quanto non inaspettato - degli effetti della privatizzazione, che va ben al di là degli impressionanti aumenti tariffari che hanno colpito i cittadini e in particolare le famiglie più povere (costrette a spendere il 4% del loro reddito per pagarsi l’acqua, se non a subire il “distacco” dal servizio per morosità). Mostrano gli impatti negativi sul lavoro e sui lavoratori, diminuiti nel settore del 21%, anche se le gestioni private hanno fatto in seguito massiccio ricorso ad esternalizzazioni e lavoro precario (meno pagato e meno qualificato), a danno della qualità del servizio. Mostrano il gran numero d’incidenti ambientali causati dalle società privatizzate, Suez ed Enron in testa. Mostrano infine come le reti idriche siano peggiorate e si siano deteriorate ad una velocità superiore alla capacità dei gestori di rinnovarle e come, a dieci anni dalla privatizzazione, la qualità dell’acqua potabile risultasse ormai al di sotto degli standard minimi, presentando quasi ovunque valori oltre i limiti consentiti rispetto a numerose sostanze dannose per la salute.

Scorrendo i dati raccolti si scopre come casi d’acqua razionata e di fornitura interrotta non riguardino solo alcune realtà del sud Italia (dove sono gli interessi mafiosi a condizionare il “governo” dell’acqua e la sua fornitura) ma, in occasioni di siccità, abbiano colpito persino aree dell’est inglese, a causa di incapacità gestionali delle società private dell’acqua, che in precedenza avevano preferito distribuire maggiori dividendi anziché realizzare importanti investimenti. A proposito delle perdite di rete (terreno su cui avrebbe dovuto misurarsi la capacità d’investimento privato), difficile non notare come la città più grande della Gran Bretagna, Londra - gestita dalla privatissima Thames Water - abbia perdite del 40%. Volendo fare un paragone con realtà comparabili del nostro paese, ossia con le città italiane più grandi, si osserverà come a Roma, gestita dalla Spa mista e quotata in borsa Acea (nel cui capitale sociale vi sono Suez, banche private e l’imprenditore delle costruzioni Caltagirone) si registrino perdite di rete del 35%. A Milano, dove si ha una gestione ancora a totale capitale pubblico che ha ereditato strutture e saperi dell’azienda municipalizzata, si registrano a tutt’oggi perdite del 10%, fra le più basse di tutta Europa. A Milano si registrano anche tariffe fra le più basse del continente, tra l’altro. Pure a Napoli l’acqua è gestita da una società a totale capitale pubblico: le tariffe sono basse e le perdite di rete sono del 18%, il miglior dato del paese subito dopo Milano, sempre secondo i dati dell’indagine Civicum-Mediobanca del 2010.

Il caso inglese-gallese impone dunque una riflessione complessiva sul capitolo degli investimenti. In Italia per anni è stato ripetuto che l’ingresso dei privati all’interno di Spa miste sarebbe stato indispensabile per ottenere i capitali freschi necessari per gli investimenti. In verità, ora che i soci privati fanno parte già da molti anni di un numero considerevole di Spa, l’esperienza indica alcune evidenze. La prima è che i privati sono entrati ottenendo, in cambio di basse capitalizzazioni (i capitali vengono conferiti per poter entrare nella compagine azionaria), la governance effettiva della società, a partire dalla nomina dell’amministratore delegato. La seconda è che i capitali utilizzati per gli investimenti derivano dall’autofinanziamento - la liquidità messa a disposizione dai cittadini attraverso le tariffe - ma soprattutto sono il frutto dei prestiti ottenuti a caro prezzo dalle banche (capitale di debito conseguito attraverso mutui o project financing), che saranno a loro volta ripagati dalle future bollette. Le banche che prestano il denaro alle società, a tassi d’interesse di mercato, sono a loro volta socie delle medesime Spa. Anche in Inghilterra e Galles la dinamica è stata la medesima: privatizzato il servizio, ben presto le principali fonti dei capitali per le società private sono state le banche. Il livello dell’indebitamento delle società con gli istituti di credito è cresciuto da un valore pressoché nullo ad un valore medio del 60% con punte del 75%.

Il costo del capitale privato è notoriamente molto più alto del costo del capitale ottenibile tramite finanza pubblica. Il modo in assoluto più costoso per finanziare gli investimenti è quello di ricorrere al capitale privato, vuoi che si tratti di capitale equity (azioni), vuoi che si tratti di capitale di debito (indebitamento con le banche). A maggior ragione ciò vale in un servizio come quello idrico, che necessita di notevoli quantità di denaro per realizzare gli investimenti e dove quindi il costo del capitale incide enormemente sul costo complessivo del servizio. Questa semplice verità è confermata ancora una volta dal caso inglese e gallese: quando si debba trovare denaro per far funzionare un servizio -mostrano le cifre e i grafici raccolti da Hall e Lobina- il finanziamento tramite capitale azionario si è rivelato il più costoso in assoluto (dividendi da pagare agli azionisti). Segue il finanziamento degli investimenti tramite prestito bancario, che è più conveniente dell’equity ma pur sempre costoso (interessi sul capitale prestato). Il modo in assoluto più conveniente per ottenere capitale per gli investimenti è, ovviamente, il ricorso a forme di finanza pubblica. In altre parole, se invece di finanziarsi attraverso l’equity, se invece di ricorrere alla borsa o di prendere prestiti in banca vi fossero aziende pubbliche dell’acqua, il passaggio a forme di finanziamento privo di rischi (titoli di debito pubblici) permetterebbe di risparmiare ogni anno cifre colossali.

Per gli stessi motivi anche in Italia la proposta alternativa di finanziamento del servizio idrico avanzata dal Forum italiano dei movimenti per l’acqua prevede, al posto della costosissima combinazione di capitale equity e capitale di terzi che la privatizzazione porta con sè, un insieme di strumenti di finanza pubblica e di fiscalità generale, nel contesto di una gestione del servizio tramite soggetti di diritto pubblico [6]. Ciò permette di fuoriuscire dalla morsa stritolante del grande capitale finanziario, che, per far funzionare servizi d’interesse generale, obbliga a ricorrere all’equity e al costosissimo mercato privato del credito, con l’unico fine di far fruttare il capitale. La tariffa dell’acqua si trasforma in “prezzo” e il cittadino si trasforma in consumatore, obbligato a finanziare la creazione di ricchezza per i detentori di capitale privato per poter accedere ad un bene vitale come l’acqua. E’ questo il senso profondo della trasformazione di un bene comune in “merce”.

Gli strumenti di finanza pubblica in grado di mettere a disposizione risorse per gli investimenti ad un costo notevolmente più basso sono molteplici, dai titoli di debito classici a quelli più innovativi, dai “Bot di scopo” di lunga o lunghissima scadenza ai bond irredimibili (che possono esser emessi anche localmente). Il “prestito irredimibile” non prevede la restituzione del capitale -non incide quindi sul debito pubblico- e in cambio garantisce al prestatore una rendita perpetua ad un tasso d’interesse congruo. Questo strumento, il cui costo sarebbe pagato attraverso le tariffe, potrebbe esser utilizzato per coprire gli investimenti necessari a ristrutturare le reti. Allo stesso tempo occorre quantomeno ripensare la funzione delle banche pubbliche, o di ciò che ne resta (Cassa depositi e prestiti), se non proporsi di progettare una nuova generazione d’istituti di credito pubblici, che potrebbe contemplare anche l’istituzione di una specifica banca dell’acqua, sul modello dell’olandese Nederlandse Waterschapsbank.

La logica autentica del servizio pubblico si sposa in modo naturale e automatico con gli strumenti della finanza pubblica perché rifiuta ogni finalità speculativa: non è orientata alla distribuzione di dividendi e di profitti, ossia alla remunerazione dei capitali, bensì alla copertura dei costi attraverso i ricavi e alla necessità di reinvestire nel servizio tutti gli “avanzi di bilancio” (che per questo non possono essere definiti “utili”). In altre parole, la logica pubblica si pone il problema del costo del capitale ma non quello della sua remunerazione in termini speculativi. In tal senso sono pensati gli strumenti della finanza pubblica per reperire fondi per gli investimenti al minor costo possibile. Affinché si dia questo cambio di paradigma, però, occorre uscire definitivamente dal quadro delle società di capitali, che sono per loro natura costrette a ricorrere al mercato privato del credito per finanziarsi.

Ma è ineludibile un altro nodo. E’ necessario anche il parziale ricorso alla fiscalità generale per finanziare l’accesso al minimo vitale d’acqua cui ha diritto ciascuna persona (indipendentemente dalla sua condizione sociale) e per effettuare gli investimenti in nuove infrastrutture. Il full cost recovery, viceversa, è il meccanismo che pretende di caricare sulle tariffe tutti gli investimenti, oltre ai consumi, ai costi di gestione del servizio, ai profitti e ai dividendi per gli azionisti. Un meccanismo che, peraltro, non sta funzionando: in Italia, da quando è stato adottato circa a metà degli anni ’90, gli investimenti sono crollati di due terzi ed oggi vengono realizzate poco più della metà delle opere programmate. La domanda di fondo è: chi deve pagare gli investimenti per nuove infrastrutture, solo il cliente-utente o anche il cittadino-contribuente? I costi di una nuova infrastruttura acquedottistica o di un nuovo depuratore (esattamente come un nuovo ospedale o una nuova scuola) se costruiti grazie a fondi provenienti dalla fiscalità generale saranno pagati, in proporzione, in misura maggiore dai contribuenti più ricchi. In altri termini, le aree più avanzate di un paese o di una regione sosterranno quelle più povere e i cittadini più facoltosi parteciperanno alla realizzazione dei diritti dei concittadini meno abbienti, dato che l’imposizione fiscale è progressiva. All’opposto, caricare tutti i costi infrastrutturali in tariffa significa costruire un meccanismo di finanziamento fortemente regressivo dal punto di vista distributivo. Insomma, quando un bene essenziale come l’acqua viene interamente finanziato tramite tariffa, compresi gli investimenti infrastrutturali straordinari, ricchi e poveri si trovano a pagare l’investimento senza nessuna proporzione al reddito percepito e senza alcun meccanismo di solidarietà sociale. Inoltre -dato che ricchi e poveri hanno bisogno della stessa quantità d’acqua per bere, cucinare, lavarsi- tariffe più salate incideranno in misura molto diversa sui redditi, come ben mostra il capitolo che Hall e Lobina dedicano all’impatto della privatizzazioni sulle fasce deboli.

C’è chi taglia corto e sostiene che privatizzare interamente la fonte di finanziamento del servizio attraverso il full cost recovery, pur con i suoi effetti socialmente regressivi, è una necessità dei tempi: i soldi pubblici sono scarsi ed è inevitabile scegliere fra sanità e acquedotti, fra scuole e depuratori, come se si potesse vivere senza diritto alla salute o senza accesso all’acqua potabile, come se qualcuno ci chiedesse di scegliere se preferiamo smettere di dormire o smettere di respirare. Certamente se oggi vi è un problema di priorità di spesa questo non si pone fra acquedotti e ospedali bensì, più probabilmente, fra servizi essenziali e spese per armamenti, ad esempio. Se gli italiani potessero scegliere direttamente se considerano prioritaria l’acqua o l’acquisto dei nuovi caccia F35, la cui spesa assorbirà nei prossimi anni circa 13,5 miliardi di euro, l’esito della consultazione sarebbe scontato. Insomma, altre sarebbero le priorità o le alternative su cui dovremmo interrogarci come cittadini, dato che la fiscalità generale viene impiegata direttamente o indirettamente per cofinanziare tante delle inutili “grandi opere” previste nella così detta legge obiettivo. Senza aerei da guerra o senza nuove autostrade si può vivere, persino meglio, ma non senz’acqua. Se poi venisse rafforzata la lotta all’evasione fiscale, al contrario incoraggiata dai governi attraverso condoni di ogni genere, e se si studiassero specifiche “tasse di scopo” (ad esempio una tassa sulle bottiglie in plastica per le acque minerali) sarebbe possibile ricostruire a perfezione l’intero sistema idrico integrato del paese, grande opera utile e necessaria, senza incidere sul debito e sul deficit pubblico.

Infine, la vera vittima della privatizzazione è la democrazia. I nodi sono l’assenza di qualsiasi controllo democratico sul bene acqua una volta che ne sia stata privatizzata la gestione e la perdita di ogni potere decisionale da parte dei cittadini. Amministrazioni locali, consigli elettivi e cittadini sono allontanati dal governo del bene e le scelte si trasferiscono nelle società di gestione private e nei loro consigli d’amministrazione. Persino la proprietà del bene acqua, che formalmente resta bene demaniale e pubblico (tanto in Inghilterra quanto in Italia) passa sostanzialmente nelle mani di chi gestisce il servizio idrico: si tratta della differenza fra proprietà formale e sostanziale del bene. Il reale proprietario del bene diviene il soggetto che gestisce ed eroga il servizio. Hall e Lobina mostrano come in Inghilterra e Galles il deficit democratico investa tanto le società di gestione quanto l’ente regolatore, l’Ofwat: né le prime né quest’ultimo sono responsabili davanti agli organi rappresentativi, locali o nazionali. L’ Ofwat è talmente indipendente da essere indipendente persino dai cittadini, si potrebbe dire. Pur in un quadro differente, anche in Italia la privatizzazione ha necessariamente condotto allo stesso esito: le Spa che gestiscono il servizio idrico integrato sono divenute vere e proprie istituzioni post-democratiche, arene decisionali chiuse e opache in cui si è spostato il governo del territorio. Le Spa, guidate dalla logica della massimizzazione del valore per gli azionisti, rappresentano il nuovo luogo d’elaborazione e definizione delle politiche territoriali. Gestiscono beni comuni fondamentali come l’acqua, spesso assieme ad altri servizi pubblici locali (Multiutilities). La Spa mista pubblico-privata, declinazione su scala territoriale delle forme post-democratiche della governance globale, è in Italia il modello prevalente di privatizzazione: la Spa mista è un tavolo di concertazione a-democratico cui siedono cordate di soggetti privati (fra cui multinazionali italiane e straniere, banche, imprenditori del cemento) e personale nominato dai sindaci, senza alcun legame con i consigli elettivi. Ricostruire le catene di responsabilità all’interno dei meccanismi decisionali delle Spa è impossibile, la privatizzazione delle decisioni e delle scelte è definitiva: non vi è più nulla di pubblico nè di democratico in questo sistema di governance locale.

Sarebbe lungo ripercorrere come si sia giunti fin qui. Certo è che all’origine di questi processi di privatizzazione e “de-democratizzazione” vi sono precise scelte politiche, in buona parte legate ai cicli di riforma della pubblica amministrazione avviati negli anni ’90. In Italia le responsabilità della politica nell’erosione del pubblico sono spesso anche precedenti: non di rado élites politiche si sono surrettiziamente appropriate dei beni di tutti, considerando i beni comuni come loro beni privati e trasformando la gestione pubblica in una gestione clientelare o lottizzata. Le Spa miste – le partnership pubblico-private – rappresentano l’esito finale e il perfetto connubio di questa doppia forma di privatizzazione del bene comune: emancipatesi dal diritto pubblico per abbracciare il diritto privato, allontanatesi da ogni partecipazione e controllo dei cittadini, élites politiche e cordate di soggetti privati hanno dato vita ad un nuovo luogo di governance opaco e a-democratico. A queste istituzioni viene consegnato il governo dell’acqua e dei beni comuni, ossia de facto il governo del territorio e l’elaborazione concreta delle politiche pubbliche locali. Queste istituzioni sono fortezze senza porte né finestre, in cui privatezza e segretezza si fondono nell’opposto di ciò che dovrebbe essere una gestione pubblica, trasparente e democraticamente partecipata dei beni comuni.

Hall e Lobina ricordano come alla fine degli anni ’80 fu Margareth Thatcher, dunque ancora una volta la politica, a decidere la privatizzazione di servizi e beni che, essendo “comuni”, non avrebbero dovuto essere alienabili, in quanto non a disposizione delle maggioranze politiche e del princeps di turno. In quell’epoca le aziende private furono persino fatte entrare nella governance dello stato, ottenendo voce in capitolo nella stesura di alcune leggi (attraverso la creazione delle istituzioni così dette “quasi governative”, spiegano Hall e Lobina). Uno studio sul peso delle Spa privatizzate nella definizione delle leggi nazionali e regionali sui servizi pubblici probabilmente rivelerebbe elementi interessanti anche sul potere effettivo assunto in Italia – nella definizione del quadro giuridico – da soggetti privati e dalle loro organizzazioni di categoria. Potenti amministratori delegati si sono vantati, in alcune occasioni pubbliche, di avere “ispirato”, se non direttamente scritto, questo o quel determinato articolo di legge relativo alle privatizzazioni.

Nel passato remoto, in Italia come in gran parte dei paesi europei, le prime strutture e le prime gestioni del servizio idrico erano private. Gestioni la cui inefficienza, il cui costo e la cui incapacità di assicurare l’universalità del servizio – e di conseguenza di garantire la salute pubblica – spinsero a compiere una scelta di civiltà: all’inizio del ‘900 un’ondata di municipalizzazioni condusse alla gestione pubblica dell’acqua, per garantire a tutti l’accesso a questo bene fondamentale. Chi pensa alla privatizzazione come ad un sinonimo di “modernizzazione” ha un concetto molto antico e regressivo di modernità. I nuovi cicli di privatizzazione costituiscono un ritorno al passato, a logiche di profitto e d’esclusione, non certo un passo avanti. Il futuro deve essere certamente “pubblico”, come ricorda il titolo del saggio di Hall e Lobina, ma il pubblico deve essere ripubblicizzato. Se infatti la gestione pubblica è una condizione necessaria, perché consente di escludere i profitti di pochi da un bene di tutti, non è però una condizione di per sé sufficiente. Il nuovo pubblico deve essere trasparente e partecipato democraticamente dai cittadini, non espropriato da oligarchie politiche. Clientelismi, lottizzazioni, degenerazioni burocratiche e tecnocratiche sono state il primo stadio della “privatizzazione” e del sequestro dei beni di tutti da parte degli interessi di pochi. In futuro la gestione dell’acqua e dei beni comuni dovrà essere “comune”: gli esempi in questo senso si stanno moltiplicando, da Siviglia a Parigi. Beni comuni e ripubblicizzazione del pubblico sono la sostanza di una nuova politica per il XXI secolo, come insegnano i movimenti per l’acqua di tutto il pianeta.

NOTE

(1) Rimando a Tommaso Fattori, Impero Spa: i mercanti d’acqua, 2008 disponibile all’indirizzo http://www.perunaltracitta.org/images/quaderni/fattori.pdf

(2) Si tratta del “Decreto Ronchi”, oggetto del primo dei due quesiti referendari del 12/13 giugno 2011 (abrogazione dell’art.23 bis della legge 133/08 e successive modifiche, appunto quelle introdotte da Ronchi nel 2009).

(3) E’ possibile scaricare qui la delibera del 22 novembre del 2007 dell’autorità garante della concorrenza e del mercato: http://www.acquabenecomunetoscana.it/IMG/pdf/Sentenza_antitrust_Acea-Suez_Nov_2007.pdf

(4) Nella primavera del 2010 Federutility ha scritto al governo chiedendo senza giri di parole lo stanziamento di “fondi pubblici di accompagnamento e sostegno per cofinanziare gli interventi previsti” nel settore idrico. Nella stessa direzione anche le richieste di Cispel alla regione Toscana, regione in cui il servizio idrico integrato in 5 Ato su 6 è gestito da Spa miste.

(5) Si tratta del secondo quesito sottoposto a referendum popolare il 12/13 giugno 2011: abrogazione parziale dell’art. 154 del D.lgs 152/06 (decreto ambientale)

(6) La proposta è consultabile all’indirizzo http://www.acquabenecomune.org/investimenti.pdf

La domanda sarebbe stata: «In che rapporti è con lo studio Nespor (che ha firmato i ricorsi contro il Pgt)? Non teme che qualcuno sventoli il conflitto di interessi?» . Ma Ada Lucia De Cesaris, neo assessore all’Urbanistica e all’Edilizia privata, non lascia il tempo di articolarla. Gioca d’anticipo e stoppa con quattro parole le polemiche presenti e future.

«Non siamo soci di studio» .

Non per niente è avvocato. E aggiunge:

«Non nego che da due anni condividiamo i locali dello studio, dividiamo l’affitto, e che in alcune vicende che riguardano alcuni ricorsi siamo stati insieme in mandato» .

In tema di ricorsi contro il Pgt?

«Non ero nella squadra che ha ricorso contro il Piano di governo del territorio, né mi è stato chiesto di esserci. Non facevo il politico ma l’avvocato. E sono amministrativista, quindi ciò che mi interessa è capire se un provvedimento è legittimo oppure illegittimo. Difendo e ho difeso molte amministrazioni, anche amministrate dalla destra, come il Comune di Brescia, da molti anni. E anche molte imprese. Ho una lunga storia di consulenza con Assolombarda» .

Assessore bastano un acronimo, Pgt, e una sigla, Expo, per capire che dai suoi uffici passerà lo sviluppo della città. Quanto tempo ha riflettuto prima di accettare l’incarico?

«Ventiquattro ore. E da quel momento ho smesso di dormire. Ma nella vita mi occupo di diritto amministrativo, perché mi piace la macchina amministrativa, e per chi ha una formazione come la mia questa un’occasione straordinaria. Come si fa non partecipare, a tirarsi indietro?» .

La macchina amministrativa però non ha un grande appeal sui cittadini.

«Ha molti difetti, ma è una macchina straordinaria e può funzionare bene. Credo molto nella possibilità che possa garantire la qualità della vita delle persone» .

Uno dei suoi obbiettivi prioritari?

«Garantire che gli interventi siano fatti nel totale rispetto delle leggi. Costruendo la semplificazione senza tuttavia rinunciare ai controlli. Non dobbiamo avere paura della semplificazione, ma non deve diventare un alibi per non controllare» .

Il tema dei ricorsi sul Pgt è bollente. Preoccupata?

«No, lo affronteremo. E se l’amministrazione precedente ha compiuto degli errori noi li correggeremo» .

Un secondo dopo la pubblicazione del Pgt nell’albo pretorio e in gazzetta. Come superare l’inevitabile empasse?

«Prenderemo una decisone dopo aver approfondito ogni questione» .

Quale delle due ipotesi, non pubblicarlo o ritirarlo, ritiene più verosimile?

«Sono possibili diverse soluzioni» .

Quindi?

«Troveremo la giusta via, sceglieremo la soluzione che riterremo migliore. Cercheremo di fare ciò che è nell’interesse del territorio e della collettività, anche tenendo conto delle esigenze degli operatori privati» .

Tra i suoi interlocutori ci saranno gli imprenditori.

«Abbiamo bisogno degli imprenditori di questo settore, insieme a loro dobbiamo costruire una città bella, vivibile e moderna. Anche loro devono essere tutelati. E proprio per questo l’amministrazione deve funzionare bene, avere regole certe. Se elimineremo ciò che impedisce il buon funzionamento della macchina, ne avranno agio tutti, e quindi anche gli operatori economici del settore» .

Postilla

Si spera che la cautela del neo assessore all’Urbanistica e all’Edilizia privata non nasconda un pesante passo indietro rispetto agli impegni assunti dal sindaco Pisapia nella campagna elettorale. Ricordiamo quando affermò che «un gruppo di lavoro molto robusto - uno di quelli della mia officina - che raccoglie grandissime professionalità del mondo dell’università e del lavoro», stava già lavorando al nuovo Pgt, il quale sarebbe stato pronto in sei mesi su basi radicalmente alternative a quelle dominanti nel Pgt Moratti (si veda la sua intervista intitolata da la Repubblica, il 29 gennaio scorso, In sei mesi faremo un nuovo piano per i cittadini, non per i poteri forti”) .

Se nessuno ha indotto Pisapia a cambiare idea, sembra ovvio che il Pgt, approvato dal disciolto consiglio comunale con procedure di dubbia legittimità e indiscutibile frettolosità, non deve essere ratificato dalla nuova maggioranza, né quindi pubblicato sul BUR. Altrimenti sarà chiaro che gli “imprenditori” cui si riferisce Ada Lucia De Cesaris non sono quelli che mirano al profitto ottenibile dalle attività costruttive, ma semplicemente i soliti immobiliaristi pronti a guidare le decisioni pubbliche per mietere rendite sempre più alte.

Questo governo Berlusconi sostenuto dai cosiddetti “responsabili” (ma di che?) continua a commettere atti irresponsabili nei confronti del paesaggio: urbano, extra-urbano, agrario, marittimo che sia. Pesa ancora la totale latitanza dell’ex ministro dei Beni culturali Sandro Bondi, “il fantasma del Collegio Romano”, il quale ha lasciato marcire, fra le tante cose, la co-pianificazione Stato-Regioni imposta dal Codice per il Paesaggio. Dopo che aveva ceduto a tagli, indebolimenti, ridimensionamenti e commissariamenti straordinari. Ora, sempre in nome del “rilancio dell’economia” – per il quale la sola ricetta berlusconiana sembra essere il sempiterno binomio Cemento&Asfalto – il Decreto legge n.70 del 13 maggio prevede almeno due pozioni avvelenate per il nostro già deperito patrimonio. La prima riguarda l’edilizia del Novecento di proprietà pubblica (ma anche religiosa e no-profit) evidentemente per dare un robusto aperitivo “federalista” agli Enti locali ai quali, soprattutto nell’ultima fase del fascismo e in quella della ricostruzioni postbellica è andata una cospicua eredità immobiliare. L’altra concerne le spiagge demaniali soggette a concessione per le quali si è ridotto il periodo inizialmente previsto dagli scandalosi 90 anni a 20 anni (che comunque non sono poco) introducendo però il diritto di superficie e quindi la possibilità di nuove edificazioni.

Dalla legge Nasi del 1902 alla legge Rosadi del 1909, alla legge Bottai del ’39 (che inglobò in gran parte le norme giolittiane), fino all’ultima versione del Codice per il Paesaggio (prima Urbani, poi Buttiglione, infine Rutelli-Settis) si è sempre prevista una tutela specifica per gli edifici di pregio architettonico con almeno 50 anni di vita non ancora vincolati. Improvvisamente questa linea normativa è stata cancellata dal solito Tremonti il quale, con decreto legge n.70, ha allungato i termini a 70 anni. In tal modo viene esposta a gravi pericoli di manomissione, trasformazione o vendita una parte fondamentale dell’architettura italiana fra guerra e dopoguerra. Le “firme” di pregio che rischiano seriamente sono quelle di Franco Albini, Giovanni Astengo, Giancarlo De Carlo, Ignazio Gardella, Studio BBPR (Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rosers), Adalberto Libera, Pier Luigi Nervi, Ludovico Quaroni, Giuseppe Samonà e di tanti altri ancora.

Si tratta spesso di interi quartieri come il QT8 di Milano, il Quartiere INA di Cesate (Milano), la Falchera di Torino, l’INA-Casa del Tiburtino a Roma, le Torri INA di viale Etiopia sempre a Roma, il Borgo La Martella (Unnra Casa) di Matera, ecc. E ci sono in ballo le grandi opere predisposte per le Olimpiadi di Roma 1960 con due capolavori di Nervi come il Palazzetto dello Sport e lo Stadio Flaminio (inaugurato nel ’59), lo stesso Palazzone all’EUR (Nervi e Piacentini), o come l’interessante Villaggio Olimpico di Libera, Luccichenti, Cafiero e Monaco.

In un appello rivolto al ministro Giancarlo Galan dall’Associazione fra i tecnici del Ministero, dalla “Bianchi Bandinelli” e dal Comitato per la Bellezza, si chiede che il nuovo titolare del Collegio Romano dia concretamente corso, in sede parlamentare, all’impegno preso davanti al Consiglio Superiore dei Beni Culturali di “fare il possibile” per eliminare le trappole del Decreto legge n.70. Anzitutto, riportando ai 50 anni il periodo dal quale far scattare la salvaguardia. Poi eliminando la norma in base alla quale i detentori di beni immobili vincolati vengono sottratti all’obbligo di notificare alle Soprintendenze il trasferimento ad altri di quegli stessi beni al fine di consentire agli uffici dello Stato di averne una mappa aggiornata. Infine cancellando il solito silenzio/assenso (una vera fissazione dei governi Berlusconi) rispolverato dal decreto qualora in 90 giorni gli uffici di tutela non rispondano alla richiesta di autorizzazione per progetti che ricadano in zone con vincolo paesaggistico. E’ vero che tale disastrosa innovazione entrerà in funzione quando saranno stati approvati i piani paesaggistici e il parere delle Soprintendenze da vincolanti diverranno obbligatori, e però la regola del silenzio/assenso va respinta, oggi, a priori.

C’è un altro “pilastro” del confuso e avvelenato Decreto Tremonti che occorre modificare a fondo: quella sugli arenili demaniali a privati. Il governo aveva “sparato” l’assurda durata di 90 anni. L’intervento del Capo dello Stato l’ha ridotta a 20 anni e però è rimasto quel diritto di superficie – in luogo del diritto di concessione - che promette soltanto altro cemento sui nostri già tanto compromessi litorali. Si pensi che in Adriatico, su 1.240 Km di spiagge, le dune sopravvissute, a uno o più cordoni, rappresentano appena il 9 % del litorale, pur ricomprendendovi il delta del Po e il Conero, che a Ostia il 90 % delle sponde risulta, legalmente o abusivamente, cementificato e sbarrato e che fra Palermo e Punta Raisi non c’è da anni un solo accesso al mare…Cosa si vuole di più e di peggio?

Appello al ministro dei Beni Culturali Giancarlo Galan: salvare l’architettura italiana del secondo Novecento

Gli edifici costruiti in Italia a partire dagli anni ’40 sottratti, in pratica, alla tutela delle Soprintendenze. Mano libera agli enti proprietari (Comuni e altri enti pubblici, anche religiosi, no profit) di manomettere o vendere stabili anche di alto pregio architettonico. Parere non più vincolante degli organismi di tutela e introduzione del silenzio/assenso sui progetti di modifica scaduti i 90 giorni dal ricevimento dei progetti. Ecco alcuni degli effetti disastrosi del Decreto legge per il rilancio dell’economia che consente, di fatto, alle proprietà immobiliari di fare quello che vogliono anche dell’architettura “firmata”che abbia meno di 70 anni (contro i 50 prescritti della legislazione precedente, dalla legge Nasi del 1902 alla legge Bottai del 1939, al recente Codice per i beni paesaggistici).

Rivolgiamo pertanto un pressante appello al ministro per i Beni e le Attività culturali Giancarlo Galan affinché faccia tutto il possibile – come ha assicurato in sede di Consiglio Superiore a fronte della denuncia del presidente del Comitato di settore Paolo Portoghesi – per evitare questo ulteriore gravissimo indebolimento di regole e tutele a danno del paesaggio e dell’architettura italiana di qualità.

Un periodo fondamentale della storia dell’architettura verrebbe altrimenti sottratto alla tutela. Rischiano di essere manomesse o demolite opere importanti di autori quali Gardella, BBPR, Libera, Moretti, Quaroni, Scarpa, Michelucci, solo per citare i nomi più noti, cioè la testimonianza materiale della ricostruzione del Paese e che rappresentano l’originale via italiana all’architettura moderna oggi

Per effetto di tali modifiche, infatti, alcuni tra gli interventi più significativi dell’architettura contemporanea, riferita sostanzialmente al secondo Dopoguerra, qualora non siano già stati sottoposti a tutela prima del 14 maggio 2011, risulterebbero esclusi, per legge, dal regime di salvaguardia finora vigente, tra cui i notevoli, numerosi e significativi interventi realizzati in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960, con opere dell'ingegno riconosciute in ambito internazionale, tra cui, solo a titolo esemplificativo:

- il Palazzo dello Sport dell'Eur (1956-1960) di Marcello Piacentini e Pier Luigi Nervi;

- il Palazzetto dello Sport in Viale Tiziano (1958-1960) di Annibale Vitellozzi e Pier Luigi Nervi;

- lo Stadio Flaminio (inaugurato nel 1959) di Antonio e Pier Luigi Nervi;

- il Villaggio olimpico (1958) di Vittorio Cafiero, Adalberto Libera, Amedeo Luccichenti e Vittorio Monaco;

Altra modifica nefasta al Codice, la soppressione dell’obbligo di denunciare il trasferimento della detenzione di beni immobili vincolati. Articolo della legge Bottai che viene improvvisamente cancellato togliendo all’Amministrazione dei Beni culturali la possibilità di sapere, in ogni momento, chi è il soggetto che ha la materiale disponibilità di un bene vincolato, e quindi è responsabile del rispetto delle regole di corretta conservazione dello stesso. E quindi di esercitare le funzioni istituzionali di vigilanza sugli immobili vincolati,

Infine, con la lettera e) del comma 16 dell’articolo 4 del Decreto legge n. 70/2011, è stata introdotta la modifica forse più rilevante al Codice, che incide sull’articolo 146 in materia di autorizzazione paesaggistica.

Come si sa, al momento, il parere che il Soprintendente è chiamato a dare per gli interventi da attuarsi in aree sottoposte a vincolo paesaggistico è vincolante, e passerà da vincolante ad obbligatorio una volta che i vincoli paesaggistici siano stati dotati delle prescrizioni d’uso, ovvero che le Regioni abbiano provveduto a rivedere, d’intesa con le Soprintendenze, le loro pianificazioni paesistiche per adeguarle alle nuove prescrizioni dettate dal Codice in materia (ed i Comuni abbiano poi adeguato le loro pianificazioni urbanistiche). La nuova disposizione stabilisce che il parere del Soprintendente, una volta che sia divenuto obbligatorio, debba essere reso nel termine di 90 giorni dalla ricezione del progetto, altrimenti esso è da intendersi reso in senso favorevole. In pratica, è stato introdotto il silenzio-assenso in materia di autorizzazione paesaggistica, sia pure dopo che si sarà provveduto a tutte le incombenze procedurali sopra richiamate.

Rivolgiamo pertanto un pressante appello al ministro Galan affinché vengano eliminate queste disastrose modifiche al Codice, e si torni a garantire piena ed efficace tutela, per legge, ad un ricchissimo patrimonio di beni pubblici e di paesaggi di qualità, diffuso in tutto il Paese, riconoscendo piena dignità storico-artistica all’architettura italiana del secondo Novecento (che è, largamente, di proprietà pubblica o no-profit).

Irene Berlingò, presidente di Assotecnici,

Marisa Dalai, presidente dell’Associazione R. Bianchi Bandinelli,

Vittorio Emiliani, presidente del Comitato per la Bellezza

La battaglia dell'acqua in corso da alcuni anni nel nostro Paese ha già prodotto due risultati di grande importanza storica sul piano politico-culturale. Il primo riguarda l'affermazione in seno alla società italiana di milioni di persone che pensano che le nostre società, per funzionare in maniera giusta e corretta, devono essere fondate su una reale partecipazione dei cittadini al governo della res publica. Il notevole successo popolare, spontaneo, della campagna di raccolta delle firme per la legge regionale toscana sull'acqua di iniziativa popolare, poi per la legge nazionale e infine per i referendum, insieme alle lotte dei No Tav, contro il nucleare, del movimento viola, del movimento 5 stelle, dei Gas, di Altraeconomia, Altrafinanza, dei Comuni virtuosi, dimostrano che i cittadini italiani vogliono cessare di essere trattati come dei sudditi da mantenere tali grazie a un sistema nazionale di media asserviti e di proprietà dei potenti. Non vogliono più essere ridotti a consumatori beati, a degli indivualisti profittatori (evasori, abusivi...), ma vogliono (ri)diventare cittadini nel pieno senso della parola.

La battaglia per l'acqua pubblica rivela che gli italiani non desiderano affatto ritornare allo Stato di prima, ma vogliono partecipare alla costruzione di un altro Stato, di una maniera differente di vivere e far funzionare i comuni, le province, le regioni. Vogliono un altro pubblico, giusto, efficace, trasparente, dove i cittadini sono partecipanti attivi. Quel che nei referendum (nucleare ed impedimento inclusi, ovviamente) è fonte di paura per i gruppi al potere (anche della sinistra autodefinitasi moderata) è proprio questo gran desiderio di voler essere cittadini.

Dopo quarant'anni di politiche che hanno deliberatamente distrutto il welfare non clientelare, in Italia soprattutto, il senso dello Stato e della comunità «cittadina»; dopo quasi tre generazioni di giovani educati a considerare le istituzioni pubbliche - i comuni, le regioni, lo Stato - come degli enti inutili, dilapidatori delle risorse pubbliche; e dopo l'enorme propaganda ideologica che per anni ha fatto credere che solo l'impresa privata possiede le competenze e i saperi adeguati per gestire tutti i servizi pubblici detti «locali» e che solo la finanza privata dispone delle risorse per fare gli investimenti necessari, la voglia di essere cittadini rappresenta un fatto notevole, esplosivo. Si può dire che i referendum rappresentano il momento simbolico di una «rivoluzione dei cittadini» dal basso, come è accaduto nel mondo arabo, in Spagna, in America latina.

Negli ultimi anni, a partire dalla difesa dell'acqua pubblica, centinaia di migliaia di italiani sono scesi nelle strade e nelle piazze di centinaia di città con i loro banchetti, le marce, gli spettacoli, i dibattiti per dire «non vogliamo né più Stato, né più Stato corrotto, né più privato , né più privato corrotto e predatore (prendi e scappa), né potentati finanziari, partitici o sindacali, né istituzioni politiche inefficaci, né parlamenti composti da persone che non meritano di essere rappresentanti dei cittadini. L'acqua pubblica significa non solo l'acqua dei cittadini , ma anzitutto l'acqua ai cittadini, per i cittadini e dai cittadini». L'acqua pubblica diventa uno degli strumenti più importanti per ricittadinare la città del vivere insieme.

Centralità dei beni comuni

Il secondo risultato non è da meno. Concerne la (ri)scoperta della centralità dei beni comuni in una società che pretende di essere efficace, di ottimizzare il vivere insieme in termini di «progresso» economico, sociale e civile. Chi mai l'avrebbe detto solo pochi anni orsono che i «beni comuni» sarebbero diventati un'idea cosi popolare nel nostro Paese? Una moda? Un fuoco di paglia? Per il momento, la realtà è che si contano a centinaia, in tutte le regioni d'Italia, i gruppi territoriali «acqua bene comune» nati spontaneamente.

Senza alcun dubbio, l'acqua è all'origine del fenomeno. Chi dice «beni comuni» dice beni essenziali ed insostituibili per la vita, dice beni cui corrispondono intrinsecamente diritti (e doveri) individuali e collettivi, beni che esprimono la ricchezza comune messa al servizio del diritto ad una vita decente per tutti, beni che richiedono la responsabilità di tutti i cittadini. Quando si parla di beni comuni ci si inserisce in un visione del mondo e della società profondamente diversa da quella imposta negli ultimi quarant'anni. Con i beni comuni si afferma il primato del vivere insieme sulla logica di sopravvivenza individuale, dei più forti, dei più prepotenti, dei più furbi. In Italia la battaglia per l'acqua bene comune ha largamente contribuito a (ri)dare il loro titolo di nobiltà di bene comune anche al sole, all'aria, alla conoscenza, alla terra, all'informazione, all'educazione, alla salute, la cui mercificazione e privatizzazione si sono affermate con forza, e con la condiscendenza di tutte le classi dirigenti, a partire dagli anni '80. Molto verosimilmente è grazie all'acqua che i beni ora menzionati sono nuovamente, in quanto beni comuni, all'ordine del giorno dei dibattiti e dell'agenda politica concreta nazionale e soprattutto delle collettività locali.

Una spallata al liberismo

Per concludere, il vivere insieme è diventato un nodo centrale della politica italiana tout court. In questo senso i referendum rivelano problemi, sfide e scelte non imprigionabili in sacchetti per uso immediato. Leggere i referendum nei termini di una nuova spallata contro il governo Berlusconi è una tendenza facile cui molti non hanno resistito. In realtà essi debbono essere letti contemporaneamente come simbolo e sintomo di un rigetto, sempre più diffuso in Italia, del sistema economico capitalista di mercato, che ha condotto alla mercificazione di ogni forma di vita, alla privatizzazione del potere politico e alla confisca del ruolo di cittadini.

Voler (ri)diventare cittadini per la propria dignità e anche per vivere insieme agli altri nel contesto di una umanità da inventare è il secondo risultato della battaglia per l'acqua in Italia. La vita è un diritto per tutti. L'acqua, in quanto elemento essenziale e insostituibile per la vita, è anch'essa un diritto per tutti. È tempo di concretizzare i principi. La vittoria aprirà le vie a nuovi percorsi di rinnovamento, d'innovazione e di sviluppo di nuove «città».

L’Autore è fondatore del Comitato italiano per il Contratto mondiale dell'acqua, Presidente dell'Institut européen de recherche sur la politique de l'eau (Ierpe) a Bruxelles

Stefano Boeri, coordinatore degli architetti che hanno elaborato il masterplan di Expo 2015, vota sì al terzo quesito dei referendum ambientali milanesi, quello che chiede "la conservazione integrale del parco agroalimentare" che sarà realizzato sul sito dell´Esposizione universale. Perché?

«Un investimento pubblico di grande rilievo come quello previsto per Expo deve potersi trasformare in un regalo per la città e il territorio milanese. La realizzazione di un parco agroalimentare sarebbe la migliore eredità che l’Esposizione può lasciare a Milano, non solo come risorsa ambientale, ma anche culturale, turistica e produttiva».

L’intesa tra il neosindaco Giuliano Pisapia e il presidente della Regione Roberto Formigoni di procedere con la newco per acquistare i terreni da Fondazione Fiera e Cabassi va in questa direzione?

«Nel dossier di Expo la somma delle costruzioni permanenti arrivava a un tetto massimo di 220mila metri quadrati, che equivale a un indice di edificazione di 0,2, una cifra ragionevole. Ora la valutazione di vendita delle aree è stata fatta su un indice di 0,52 che farebbe crescere le volumetrie a 720mila metri quadrati. Mi pare una strada diversa da quella di costruire un grande parco agroalimentare da lasciare a Milano».

È ancora possibile cambiare rotta?

«Certo. Per questo invito tutti i milanesi a votare sì al terzo quesito dei referendum in modo da dare un segnale chiaro: correggere ogni ipotesi di stravolgimento del progetto originale ed eccessiva costruzione».

Si riferisce alla decisione di abbandonare l’idea iniziale di orto planetario?

«La scelta recente della società Expo di cambiare il progetto rende difficile realizzare il parco un domani».

Come dovrebbe essere questo parco agroalimentare?

«Lo immagino come un parco che in larga parte mantiene le caratteristiche del progetto presentato e approvato a novembre scorso al Bie di Parigi. Una zona di serre bioclimatiche dove si fa ricerca e divulgazione sul rapporto tra agricoltura e natura, e un’area di coltivazione dove al posto delle filiere dei 130 paesi ospiti di Expo ci saranno le 21 regioni italiane con i loro prodotti. Questa come base di partenza su cui si possono costruire diverse iniziative».

Per esempio?

«La cosa più bella sarebbe trasformare i lotti di terreno coltivato in luoghi per mostrare le eccellenze delle filiere italiane e come location per un Salone internazionale dell’agroalimentare che potrebbe svolgersi in ottobre, come contraltare del Salone del mobile di aprile. Sarebbe un’occasione per far venire ogni anno il mondo dell’alimentazione a Milano, favorire il commercio e i rapporti internazionali. Si potrebbe pensare anche a un fuori salone che coinvolga la ristorazione e il sistema del commercio».

Fare di Expo un evento permanente, quindi?

«Perché no? Un parco agroalimentare sarebbe un’attrazione in ogni giorno dell’anno».

Chi dovrebbe gestire il parco? E con quali risorse?

«Durante la stesura del masterplan abbiamo fatto uno studio attento del mercato e abbiamo già attivato i contatti con alcuni gestori di parchi a tema. In Cornovaglia, per esempio, c’è un parco simile, l’Eden Park, che registra un milione e mezzo di visitatori l’anno ed è in capo al mondo. Per la parte invece degli orti regionali credo che non sarà difficile trovare la collaborazione degli enti locali».

Qualcosa sta probabilmente cambiando nella politica italiana, e un assaggio di questo mutamento lo si è avuto con le elezioni amministrative. Abbiamo già messo in luce la grande novità rappresentata dal l´uso dei media online per aggirare il macigno delle reti televisive e del loro silenzio censorio sui problemi e le condizioni della società italiana. Si tratta non soltanto di un mutamento negli strumenti, ma anche nello stile della politica.

Alle roboanti e rozze abitudini dei politici a usare la parola come arma di offesa e a praticare il killeraggio sistematico della personalità dell´avversario, a un modo incivile di fare politica al quale questa maggioranza ci aveva abituato, a questi fenomeni di imbarbarimento della comunicazione pubblica i cittadini hanno risposto con una girate di spalle. Preferendo leader che parlano poco e quasi sottovoce, campagne elettorali sobrie e senza teatralità, focalizzate sui contenuti invece che sulle frasi fatte. Mentre i leader della maggioranza riempivano il teatro della politica coi loro faccioni sorridenti a rassicurare del futuro, i cittadini andavano alla ricerca di quei candidati che finalmente parlassero di loro, dei problemi del loro quotidiano, dalla disoccupazione, al degrado delle periferie, alla solitudine dei più deboli. Il voto ha rovesciato un ordine del linguaggio e ha messo in luce uno scollamento radicale tra la politica politicata e la politica ordinaria e vissuta. Non contro la politica, quindi, ma contro la politica in uso presso la classe dirigente ufficiale e di governo. Il voto é stato un formidabile atto di disobbedienza: un NO fragoroso a tutto quanto é stato propagandato dall´ufficialità. Una disobbedienza al messaggio politico e ai disvalori della maggioranza. Un´espressione di dissenso forte e radicale tanto quanto radicale é apparso essere il bisogno di moderazione dei toni e dello stile dei politici. E il referendum si appresta ad essere, c´è da giurarsi (e da augurarsi), un secondo round, un altro tassello di questa opera di ricostruzione della dignità della politica. L´uso del diritto di voto come un arma potente per ricordare a chi lo avesse dimenticato dove sta la fonte della legittimità democratica.

La virtù del dissenso, forse la sola virtù che la democrazia coltiva, tende a essere contagiosa e può travalicare i confini dell´opposizione, nella quale si trova più naturalmente accasata. Questo mutamento di clima e l´apertura di nuove possibilità sono un segno di come l´opinione nella democrazia possa variare e mettere in discussione posizioni ideologiche e lealtà a leader e a partiti. Un voto, scriveva Engels, é come "un sasso di carta", un´arma non violenta che riesce a mandare al tappeto l´avversario. È la registrazione inconfutabile della mutabilità dell´opinione, un aspetto che non piace ai conservatori ma che dá il senso del gioco sempre aperto che la democrazia garantisce. Il dissenso é figlio della sovranità del giudizio individuale; non ha solo una funzione negativa, come reazione al potere della maggioranza, ma anche positiva, come affermazione di dignità e autonomia. Ancorché corrodere i sentimenti sociali, rafforza la solidarietà e la cooperazione tra i cittadini poiché come tutti ben sappiamo, discutiamo e ci appassioniamo (e quindi anche dissentiamo) per cose che amiamo e alle quali siamo legati da vincoli profondi.

È probabile che questo spirito di libertà e di dissenso filtri oltre le fila dell´opposizione. A giudicare dalle frenetiche dichiarazioni del dopo voto seguite da una foga riorganizzativa molto eloquente del clima di crisi che si respira al di là della cortina che sigilla le istituzioni dalla società si direbbe che la stessa maggioranza sia stata investita dal vento del dissenso. Pdl e Lega si sono interrogati sulla posizione da tenere circa i referendum, molti di loro hanno messo in conto di poter andare a votare, e si sono spesi perfino in considerazioni su come votare per alcuni dei referendum, e in particolare quello contro l´installazione delle centrali nucleari. Se l´inquilino di Palazzo Chigi ripete che sono referendum inutili e senza senso (proprio perché di senso ne hanno tanto, e non solo simbolico visto che tra i quesiti c´è quello sulla famigerata legge che istituisce il legittimo impedimento) molti dei suoi alleati sono meno certi di lui e sembra anzi che considerino importante andare a votare. Anche questi sono segni eloquenti che qualcosa sta cambiando, malgrado l´assicurazione del nuovo responsabile Pdl che nulla cambia e che tutto si rinsalda, come prima, più di prima. Ma così non pare che sia se é vero che nemmeno le televisioni riescono a mettere sotto silenzio l´informazione sul diritto sovrano che si eserciterà il 12 e 13 giugno. Questi sfilacciamenti del regime di consenso-obbedienza sono un segno degli effetti salutari del dissenso-disobbedienza; dell´importanza che esso svolge nel tenere sveglia la consapevolezza della forza della cittadinanza, capace di mettere in serissima discussione maggioranze che si pensavano granitiche.

Il Parco Agricolo Sud è minacciato dalla speculazione Il Fondo ambiente italiano in campo per salvarlo - Sentieri segreti, corsi d´acqua e antiche abbazie in un´area di quasi 50mila ettari - Una lettera di Pisapia: "Cari amici, difendiamo insieme questo tesoro"

C´è uno straordinario immenso parco agricolo, ricco di cascine, abbazie, vecchie stalle e antichi fontanili, piccoli centri storici, corsi d´acqua, sentieri segreti e meravigliosi campi coltivati, praticamente sconosciuto nonostante si trovi alle porte di Milano. E che proprio per questo potrebbe diventare un modello europeo di parco agricolo culturale periurbano, in vista dell´Expo 2015 il cui tema è «Nutrire il pianeta. Energia per la vita».

A lanciare la sfida perché i 47 mila ettari del dimenticato Parco Agricolo Sud, che comprende 61 comuni della provincia di Milano, capoluogo compreso, vengano valorizzati e soprattutto difesi, con il lancio di un grande progetto di riscoperta, battezzato «La strada del latte e dei formaggi», è il Fai, il Fondo Ambiente Italiano, appoggiato dalla maggioranza dei sindaci della zona. «Grandi pericoli incombono su questo gioiello ambientale, che miracolosamente si è salvato fino ad oggi, nonostante la vicinanza con la città - denuncia combattiva Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai - Primi fra tutti le cosiddette «infrastrutture»: un´immensa nuova tangenziale esterna, bretelle autostradali, strade, autostrade, raccordi. Sarebbe la fine del parco agricolo, la sua frantumazione, il disfacimento del suo tessuto, l´impossibilità di disporre di aree omogenee. Per non parlare dell´inquinamento ai bordi dei campi coltivati».

La fondatrice del Fai ce l´ha in modo particolare col presidente berlusconiano della Provincia, Guido Podestà, che ha giustificato i nuovi progetti autostradali dichiarando: «Il parco Agricolo Sud non è un totem». «Si sbaglia di grosso - tuona Giulia Maria Mozzoni Crespi - Questo parco invece deve diventare proprio un totem per Milano. Il simbolo di un paesaggio finalmente da salvare». Una posizione ambientalista che sembra godere dell´appoggio del nuovo sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, che ha inviato ieri una lettera significativa: «Cari amici del Fai, difenderemo insieme il Parco Sud dalla speculazione, dalla cementificazione, da un modello vecchio di sviluppo economico basato sul consumo indiscriminato di quanto abbiamo di più prezioso».

Sabato 1 e domenica 2 ottobre prossimi partirà il progetto quinquennale "La strada del latte e dei formaggi" in collaborazione con Expo 2015 spa e Cia Lombardia, la Confederazione italiana agricoltori, che accompagnerà i cittadini con eventi e iniziative dedicate, fino al 2015, per valorizzare le attività agricole tipiche, aprire alla visita le cascine, far apprezzare i prodotti, promuovere una rete di piste ciclabili nella zona e sostenere la cultura del territorio. Sarà possibile conoscere lo straordinario sistema delle acque del parco. Una rete di rogge derivate dai navigli e dal canale Villoresi. E poi gli antichi fontanili, ecosistemi unici e preziosi sia dal punto di vista ecologico che da quello storico-culturale.

Ce lo ripetono in tutte le salse: l'economia italiana per riprendere a marciare ha bisogno di semplificazioni. Bisogna ingaggiare una guerra senza frontiere alla burocrazia. Troppi lacci e vincoli frenano la ripresa, troppe tasse gravano sulle imprese, troppi controlli «rallentano la catena della produzione di valore». Così parlano gli imprenditori e il loro cavalier servente di turno al governo prende appunti e fa scempio non della burocrazia, ma delle norme che tutelano chi lavora.

Il primo atto di questo governo dopo il suo insediamento è stato un attacco al Testo unico della sicurezza del lavoro, una delle non moltissime tracce positive lasciate ai posteri dal governo Prodi. Obiettivo dichiarato, la depenalizzazione dei reati previsti dal Testo. Poi ci si meraviglia, o addirittura ci si scandalizza, quando l'onorata assise degli imprenditori applaude calorosamente l'amministratore delegato della Thyssen Krupp appena condannato per omicidio volontario nel rogo torinese in cui furono bruciati 7 operai metalmeccanici. Più di 16 anni in primo grado, che esagerazione. Così si allontano i capitali stranieri dall'Italia. L'ultimo atto in ordine di tempo messo in scena dal governo Berlusconi è il varo di misure volte a destrutturare il sistema ispettivo.

Un'azienda che abbia «subìto » un'ispezione da parte di una qualsivoglia struttura pubblica preposta al controllo della regolarità e del rispetto delle normative, anche inmateria di sicurezza, potrà vivere in pace per sei mesi e nessun ispettore potrà rimettere il naso nei suoi uffici e officine. Una libertà di saccheggio, come quella concessa ai soldati che hanno conquistato un obiettivo. Una libertà di sei mesi con la possibilità di violare leggi e vite umane nella più completa impunità. È scritto nell'articolo 7 del «decreto sviluppo» - il decreto legge pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il 13 maggio che dovrà essere convertito in legge entro 60 giorni.

Giustamente la Cgil chiede correzioni radicali a un testo che denuncia la subalternità politica agli spiriti animali dei nostri imprenditori. La vita di chi lavora non vale niente, prima viene il diritto al profitto. Non era questo lo spirito dei nostri costituenti, o di chi ha stilato quello Statuto dei lavoratori che non a caso il ministro Sacconi vuole gettare alle ortiche senza neppure provocare troppo scandalo. In campo padronale, la sterilizzazione de facto dei delegati dei lavoratori che devono tutelare la sicurezza produce effetti disastrosi. La crisi è un'occasione straordinaria per trasferire tutti i poteri nelle mani dell'impresa utilizzando il ricatto del lavoro.

Se questo è il processo in atto, non possono sorprenderci i dati sull'aumento terribile degli «infortuni» e dei morti sul lavoro nei primi mesi dell'anno, più 22% rispetto allo stesso periodo del 2010. Fermando le lancette della morte a lunedì scorso, 266 lavoratori hanno già pagato con la vita dal 1° di gennaio. Si muore nei cantieri edili e nelle campagne, si muore in fabbrica. Si muore anche andando o tornando dal lavoro in bicicletta travolti dalle automobili alla fine del turno di notte. Ieri è toccato sulla via Emilia a un operaio cingalese, succede sempre più spesso ai sik che tornano dalla campagna laziale pedalando sulla via Pontina. Succede ai metalmeccanici che smontano dal turno alla Fiat di Melfi e si lanciano verso casa distante anche cento chilometri. Ma chi muore così non viene conteggiato, non fa statistica. Se i numeri di questa strage non sorprendono, però, devono continuare a indignare gli uomini e le donne di buona volontà. Ma questi padroni, e questi legislatori, forse non sono uomini di buona volontà. Forse non sono uomini.

Improvvisamente, come se per quasi vent´anni non avesse costruito il proprio potere sulla concitazione degli animi, Berlusconi invita alla calma, sul nucleare. È il perno della campagna contro i referendum: non si può decidere, «sull´onda dell´emozione» causata da Fukushima, con il necessario distacco. Lo spavento, ripetono i suoi ministri, «impedisce ogni discussione serena».

La parola chiave è serenità: serve a svilire alle radici il voto del 12-13 giugno. È serenamente che Berlusconi proclama, proprio mentre Germania e Svizzera annunciano la chiusura progressiva delle loro centrali: «Il nucleare è il futuro per tutto il mondo». È una delle sue tante contro-verità: la Germania cominciò a investire sulle energie alternative fin da Chernobyl, e il piano adottato il 6 giugno non si limita a programmare la chiusura di tutti gli impianti entro il 2022: la parte delle rinnovabili, di qui al 2020, passerà dal 17 per cento al 38, per raggiungere l´80 nel 2050. È emotività? Panico? Non sembra. È il calcolo razionale, freddo, di chi apprende dai disastri e non li nasconde né a sé né ai cittadini. È una presa di coscienza completamente assente nel governo italiano, aggrappato all´ipocrita nuovo dogma: «Non si può far politica con l´emozione».

Si può invece, e l´esempio tedesco mostra che si deve. La politica è una pasta il cui lievito è l´emozione che persevera, non c´è svolta storica che non sia stata originata e nutrita da passioni tenaci, trasformatrici. L´emozione può iniettare nel cuore fatalismo ma può anche rimettere in moto quello che è immobile, aprire gli occhi quando hanno voglia di chiudersi, e tanto più disturba tanto più scuote, sveglia. Le catastrofi (naturali o fabbricate) hanno quest´effetto spaesante. D´altronde lo sconquasso giapponese non è il primo. C´è stato quello di Three Mile Island nel 1979; poi di Chernobyl nell´86. Berlusconi salta tre decenni, e censura il punto critico che è stato Fukushima, quando afferma che tutto il pianeta prosegue tranquillo la sua navigazione nucleare.

La serenità presentata d´un tratto come via aurea non ha nulla a vedere con le virtù della calma politica: con la paziente rettifica di errori, con la saggezza dell´imperturbabilità. È un invito al torpore, alla non conoscenza dei fatti, alla non vigilanza su presente e futuro. Sembra una rottura di continuità nell´arte comunicativa del premier ma ne è il prolungamento. Ancora una volta gioca con passioni oscure: con la tendenza viziosa degli umani a procrastinare, a nutrire rancore verso chi fa domande scomode, a non farsi carico di difficili correzioni concernenti l´energia, gli stili di vita, la terra che lasceremo alle prossime generazioni. L´emozione accesa da Fukushima obbliga a guardare in faccia i rischi, a studiarli. Lo stesso obbligo è racchiuso nel referendum sulla gestione privata dell´acqua, e in quello sulla legge non eguale per tutti. Di Pietro ha ragione: mettere sui referendum il cappello di destra o sinistra è un insulto agli elettori, chiamati a compiere scelte che dureranno ben più di una legislatura. È sminuire la forza che può avere l´emozione, quando non finisce in passività e rinuncia.

Anche lo spavento - la più intensa forse tra le emozioni - ha questa ambivalenza. Può schiacciare ma anche sollevare, rendere visibile quel che viene tenuto invisibile. La responsabilità per il futuro, su cui ha lungamente meditato il filosofo Hans Jonas, è imperniata sulle virtù costruttive - proprio perché perturbanti - che può avere la paura. Di fronte al clima degradato e al rapporto perverso che si crea fra le crescenti capacità tecnologiche dell´uomo e il potere, lo spavento è sentinella benefica: «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità non intendiamo la paura che dissuade dall´azione, ma quella che esorta a compierla».

Temere i pericoli significa pensare l´azione come anello di una catena di conseguenze: vicine e lontane, per il nucleare, l´acqua e anche la legge. Per paura ci nascondiamo, ma per paura si cerca anche la via d´uscita. Un affastellarsi di emozioni generò nel ´700 i Lumi, che sono essenzialmente riscoperta del pensiero critico, rifiuto della piatta calma dei dogmi. Per Kant, illuminismo e modernità nascono con un atto di inaudito coraggio: Sapere aude! osa sapere! La filosofia comincia con la meraviglia e il dubbio, secondo Aristotele, perché chi prova queste emozioni riconosce di non sapere e, invece di gettare la spugna, osa.

La modernità, non come epoca ma come atteggiamento, è questo continuo osare, dunque farsi coraggio nel mezzo d´una paura. È ancora Jonas a parlare: «Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità, altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo perorarne la causa, perché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici».

La paura non è l´unica emozione trasformatrice. La malinconia possiede analoga energia, e anche lo sdegno per l´ingiustizia, il dolore per chi perisce nella violenza. Claudio Magris ha descritto con parole vere l´indifferenza con cui releghiamo negli scantinati della coscienza i cadaveri finiti a migliaia nel mare di Sicilia (Corriere della sera, 4-6-11). Sono parole vere perché disvelano quel che si cela nella tanto incensata serenità: l´assuefazione, la stanca abitudine, «l´incolmabile distanza fra chi soffre e muore e quasi tutti gli altri, che per continuare a vivere non possono esser troppo assorbiti da quei gorghi che trascinano a fondo». Tuttavia in quei gorghi bisogna discendere, quei morti non vanno solo onorati ma ci intimano ad agire, a far politica alta.

Berlusconi ironizza spesso sulla tristezza. Sostiene che le sinistre ne sono irrimediabilmente afflitte, e paralizzate. Non sa che Ercole, il più forte, è archetipo della malinconia. In uno dei suoi racconti (Disordine e dolore precoce) Thomas Mann si spinge oltre, scrivendo a proposito della giustizia: «Non è ardore giovanile e decisione energica e impetuosa: giustizia è malinconia».

Emozionarsi è salare la vita e la politica, toglier loro l'insipido. Evocando i naufraghi dimenticati, Magris si ribella e scrive: «Il cumulo di dolori e disgrazie, oltre una certa soglia, non sconvolge più. A differenza di Cristo, non possiamo soffrire per tutti». Non siamo Cristo, ma possiamo avere un orientamento che ricorda le sue virtù, le sue indignazioni, il suo pathos. Herman Melville dice: Gesù vive secondo i tempi del cielo, per noi impraticabili; noi siamo orologi mentre lui è cronometro, costantemente orientato sul grande meridiano di Greenwich. Ricordare il cronometro significa avere a cuore i morti con spavento, perché spaventandoci cercheremo vie nuove. Nella Bibbia come nel Corano il cuore è sede della mente che ragiona.

È vero, per agire dobbiamo evitare che i disastri ci travolgano. Ma non è detto che la soluzione sia ignorarli, non commuoversi più. Il 15 aprile scorso, a Gaza, un giornalista e cooperante italiano, Vittorio Arrigoni, è stato strangolato (da estremisti salafiti, è stato detto). L'omicidio fu condannato dall'Onu, da Napolitano, dal governo. Ma alle sue esequie, il 24 aprile a Bulciago, non c'era un solo rappresentante dello Stato, generalmente così zelante nei funerali. L'unica corona di fiori fu inviata dal manifesto. Piangere l'assassinio di Arrigoni era politicamente scorretto, non sereno. Ma onorare i morti è passione nobile; come la paura, la malinconia e non per ultima la vergogna: l'emozione sociale e trasformatrice per eccellenza. Lo riscopriamo alla vigilia dei referendum, ma lo sappiamo da quando Zeus, nell'Agamennone di Eschilo, indica la strada d'equilibrio: «Patire, è capire».

MILANO - Due faldoni di delibere. Sono decine di progetti, di tutti gli assessorati e arrivati a diversi stadi di avanzamento, su cui il nuovo sindaco Giuliano Pisapia dovrà ora mettere mano: per decidere se confermare le intenzioni della giunta precedente e, soprattutto, verificare che in cassa ci siano i soldi per sostenerli.

Come il lavoro, avviato assieme alla Camera di Commercio, per la Galleria: in marzo, la giunta Moratti ha dato il via libera al bando che affida in concessione per 18 anni a un unico gestore la superficie lorda di circa 5 mila metri quadrati della zona di via Foscolo, da McDonald's (cui non è stato rinnovato il contratto di affitto) ai palazzi in parte ancora abitati. L'idea è di pensare uno sviluppo in verticale, sfruttando anche i piani alti e affidandosi ad un solo gestore: al bando hanno risposto Apple, Prada e Gucci. In teoria va costituita una commissione che valuti le proposte.

Altro progetto è quello del cambio di molte sedi del Comune, oggi sparse in diversi immobili, che andrebbero trasferite negli immobili di viale Jenner o in via Bernina: lì traslocherebbero gli uffici attualmente dislocati in largo Treves, in via Porpora e in via Santomaso. E farebbero gli scatoloni anche i vigili urbani, perché uno dei progetti per recuperare entrate era quello di mettere in vendita l'immobile di piazzale Beccaria, storica sede dei ghisa.

E i parcheggi? In campagna elettorale,Pisapia ha annunciato che non si realizzeranno quelli di piazza Sant'Ambrogio e di piazzale Lavater. Ma gli impegni con i costruttori sono molto avanzati e quindi inevitabilmente si arriverà a contenziosi legali: qualcuno ha già stimato che questa decisione potrebbe costare al Comune una decina di milioni di euro.

La Moratti aveva anche dato grande risalto al progetto per il wi-fi, che del resto è stato anche uno dei punti di forza della campagna elettorale del centrosinistra. È partita la sperimentazione di piazza Duomo, che dovrebbe espandersi sulla città: ma il centrosinistra potrebbe rispolverare il progetto presentato a inizio legislatura.

Altro tema è quello delle politiche sociali. I bilanci del Comune dimostrano che dal 2007 ad oggi in questo settore sono stati investiti circa 800 milioni di euro in più all'anno, con l'ampliamento dei custodi sociali, la distribuzione a pioggia dei buoni bebè, dei buoni libro per i ragazzi che frequentano le medie e così via. Pisapia manterrà inalterati i servizi, considerata la crisi del bilancio?

Cultura. L'architetto Daniel Libeskind sta preparando il progetto esecutivo per il Museo dell'Arte Contemporanea che, come ha sostenuto la Moratti prima di lasciare il suo ufficio, Pisapia potrà inaugurare a costo zero. In realtà ci sono sempre le spese di allestimento e di gestione: stesso problema per il Museo delle Culture del Mondo, che sta nascendo nell'area ex Ansaldo su progetto dell'archistar inglese David Chipperfield e che dovrebbe essere inaugurato nel 2012: ma chi si occuperà (e come si pagheranno) gli eventuali allestimenti?

Le incognite sono decine: che fine farà il progetto di riqualificazione della piscina Caimi, che dovrebbe nascere dall'intesa fatta con la Fondazione Pier Lombardo? E il progetto di Sogemi (un piano industriale da 45 milioni di euro, già passato in consiglio) per riqualificare i mercati? E l'ipotesi di ampliare il Castello con ristorante e la ristrutturazione del Cortile della Rocchetta per rimettere a nuovo l'intera area? E Palazzo Dugnani che sarebbe dovuto essere concesso alla Camera della Moda? E l'Arengario-due, ovvero la realizzazione di una nuova struttura di fianco al Museo del Novecento con un passaggio sotterraneo? E il futuro del Parco delle Cave, ora che, eliminata Italia Nostra per la gestione di Boscoincittà, è in prorogatio l'accordo fatto con alcune associazioni a titolo sperimentale? Per non dire delle municipalizzate. Lasciando perdere i grossi nodi di A2A, Atm e Sea, entro il 2011 si deve decidere cosa fare di Milano Sport e di Milano Ristorazione: la normativa sui servizi pubblici locali prevede che o si mette a gara il servizio o si vende almeno il 40 per cento delle quote. Cosa deciderà il sindaco Pisapia?

postilla

Correttamente, mentre la gran parte della stampa nazionale e non (compresa la nostra legittima curiosità) si esercita nel toto-assessori, questo elenco delle questioni aperte prova a toccare un terreno più solido, almeno per capire se tira un venticello nuovo nell’idea di città, oppure se la tendenza più forte sarà una specie di business as usual rivestito di facce, toni, e slogan un po’ diversi.

Si nota come quasi tutti i “progetti” citati abbiano una forte valenza generale, per nulla simbolica: tanto per usare il primo caso, la trasformazione della Galleria da salotto di tutti i milanesi a shopping mall privatizzato non è esattamente un dettaglio insignificante, da derubricare a metodo più o meno efficiente di sfruttare economicamente gli immobili comunali. E gestirla e presentarla in questo modo potrebbe indurre a pensare a un approccio da “amministratore di condominio”, di cui non si sentiva il bisogno in modo particolare. Ovvero: che politica commerciale si intende perseguire per la città? Gli spazi, i tempi, l’accessibilità, la composizione dell’offerta, il rapporto col tessuto fisico e sociale, l’equilibrio fra centro e periferia, tutto si può ben riassumere (simbolicamente ma non solo) nel modo in cui sarà gestito il progetto Galleria.

Secondo caso quello dei progetti di parcheggi, che sarebbe da ciechi leggere esclusivamente come singoli interventi, casi più o meno eclatanti di sfregio estetico o impatto sulla qualità abitativa e simili. Non si possono leggere così, nella città del megatunnel, delle piste ciclabili taroccate, dei mezzi pubblici fantasma, dell’ecopass evanescente o solo punitivo. Ovvero: che si vuol fare della mobilità (la stessa per accedere al commercio di cui sopra)? Andare a pezzi e bocconi, magari con un po’ di attenzione in più alle proteste dei cittadini, o iniziare a pensare localizzazioni funzionali e flussi multimodali in modo più organico? Difficile non riuscire a far meglio della coppia comica Masseroli-Moratti, che verniciava biciclette sui marciapiedi spiegando ai pedoni che dovevano farsi da parte e lasciar spazio ai ciclisti, perché di ridurre la sezione stradale non se ne parlava proprio!

Infine, nella miriade di questioni aperte su completamenti e gestioni, si legge chiaro il ruolo più o meno attivo dell’amministrazione nel garantire una città viva, non solo nella libertà di far quattrini. Verde e cultura esistono davvero, anche nei quartieri, non solo nei comunicati stampa da mandare alle agenzie specializzate in ratings. Se c’è un’idea di città, insomma, deve battere anche piccoli colpi visibili. E se non c’è sarà meglio farsela venire (f.b.)

Risparmio energetico decisivo per il futuro

Mario Pirani

Fino all´ultimo, tra bugie e ricorsi, il governo tenta di impedire i referendum, in primis il nucleare. Ragioniamo come se non dovessero venire nuovi intoppi, cercando, comunque, di spiegare che la posta in gioco resta in ogni caso decisiva per il futuro dell´economia italiana. E non soltanto se permanesse la furbata della moratoria per un anno ma per l´esigenza in ogni caso di mettere in piedi una politica energetica che l´attuale governo si è dimostrato incapace di gestire. Quanto al nucleare, beati i tedeschi e gli svizzeri i cui governi hanno sottratto alla tanto bistrattata emotività dell´opinione pubblica l´onere della scelta, decidendo, senza bisogno di referendum, una marcia indietro su tutta la linea. In proposito, peraltro, è utile sottolineare che quei paesi fecero una scelta nucleare allorquando i costi di quel tipo di produzione dell´energia elettrica erano nettamente competitivi con le altre fonti. Oggi quelle centrali si avviano al compimento del loro ciclo di vita (alcune lo hanno già sorpassato) ma affrontare un piano per sostituirle comporterebbe una spesa enorme. Secondo un recente rapporto del Massachussets Istitute of Technology, dal 2003 in poi i costi stimati per la costruzione di un impianto nucleare sono cresciuti al tasso del 15% annuo che negli ultimi cinque anni è addirittura raddoppiato. Di conseguenza le industrie private, che un tempo vantavano nel settore la loro autosufficienza, richiedono oggi indispensabili sostegni pubblici. Infine l´aumento dei costi è destinato a incrementarsi ancora, non tanto per i problemi connessi al combustibile e alla produzione, quanto alle spese crescenti per adeguarsi a più avanzati criteri di sicurezza (peraltro mai assoluta), allo smaltimento delle scorie radioattive e allo smantellamento degli impianti dismessi.

Di fronte a un simile stato dell´arte dovrebbe essere considerata una fortuna l´uscita dell´Italia dal settore fin dal disastro di Cernobyl, il che ci permetterebbe oggi un ripensamento globale della politica energetica, riconsiderando alcune priorità recepite con troppa faciloneria. In particolare mi riferisco all´enfasi con cui alcune organizzazioni ambientaliste, sia lo stesso governo, elargendo gli incentivi pubblici più alti al mondo, hanno rappresentato come alternativa unica al nucleare l´incremento delle fonti alternative (eolico e fotovoltaico). In realtà il costo di queste tecnologie e le dimensioni finanziarie del sostegno pubblico (in bolletta o per altra strada), come anche le limitazioni all´utilizzo (quando non c´è vento o di notte, quando non c´è sole) dovrebbero consigliarne una utile da non trascurare ma in dimensioni ragionevolmente minori di quanto oggi sbandierato. Viceversa andrebbe affrontata con grande impegno una pianificazione mirante alla efficienza energetica, non solo per gli effetti ecologici ma come volàno di sviluppo industriale. Per quanto riguarda il primo punto un dossier degli Amici della Terra (l´organizzazione che si è più impegnata su questo settore) rileva che l´Agenzia internazionale dell´Energia prevede la possibilità per il 2050 di ridurre le emissioni di Co2 del 53% grazie a misure di efficienza energetica (mentre le fonti rinnovabili darebbero il 21% e l´atomo il 6%). Ancor più convincente il piano presentato dalla Confindustria, introdotto dalla Marcegaglia con queste parole: "L´efficienza energetica è il pilastro portante della green economy". Esso propugna lo sviluppo di prodotti di nuova tecnologia ad alto risparmio energetico, anche in rapporto a idrocarburi e carbone nei settori dell´illuminazione, dei trasporti, nelle pompe di calore, negli elettrodomestici, nell´edilizia residenziale, nei motori elettrici, nelle caldaie, ecc. Insomma il risparmio, o efficienza energetica che dir si voglia, implica un balzo in avanti di tutta l´economia italiana a costi minori e con calo netto dell´inquinamento. Finora il governo si è comportato come se significasse: "Spegnete la luce quando uscite di casa!".

La maschera del cavaliere

Adriano Prosperi

La settimana che si apre è quella del referendum. Non è un appuntamento pacifico. Si leggono ogni giorno interventi appassionati e opinioni molto diverse. Non è l’acqua il vero problema del referendum: e non lo è nemmeno il fuoco della fissione nucleare anche se proprio intorno al nucleare il governo ha ingaggiato una sorda battaglia: non sul merito, visto che il Pdl ha dichiarato di lasciare liberi i suoi seguaci, ma sulla questione preliminare se il quesito debba o no essere sottoposto al voto.

Domani la Corte Costituzionale dovrà rispondere al ricorso presentato dal governo attraverso l’Avvocatura di Stato, con l’argomento che la sospensione per dodici mesi del programma nucleare italiano varata dopo la tragedia giapponese del reattore di Fukushima avrebbe modificato sostanzialmente la situazione rendendo improponibile il referendum.

La matassa apparentemente complessa del ricorso si dipana facilmente. Il fatto è che nel contesto della tragedia di Fukushima, la domanda relativa al nucleare posta dai promotori del referendum si profila chiaramente come quella più capace di realizzare le due condizioni indicate dall’articolo 75 della Costituzione: che partecipi la maggioranza degli aventi diritto al voto e che la proposta soggetta a referendum ottenga la maggioranza dei voti validi. Ora, una cosa deve essere chiara. Che si realizzino o meno le centrali nucleari in Italia al nostro premier non potrebbe importare di meno. L’unico futuro che gli importa è il suo. Non le scorie nucleari ma quelle penali dei reati comuni di cui è accusato nei processi pendenti a suo carico sono i problemi che occupano il suo orizzonte. E il tentativo che ancora una volta lo impegna allo spasimo è quello di mascherare il fine dell’interesse suo privato dietro le nebbie di una confusa discussione sui problemi del paese. Il punto è che tra i quesiti del prossimo referendum ce n’è uno, il quarto e ultimo, che riguarda il "legittimo impedimento a comparire in udienza" fissato dall’art. 2 della legge 7 aprile 2010: grazie a questa legge, che più "ad personam" di così si muore, Berlusconi è stato autorizzato da una maggioranza asservita ai suoi bisogni a infischiarsene degli inviti a comparire in udienza nei processi nei quali figura come imputato. Se il referendum passasse, Berlusconi sarebbe riportato alla condizione di cittadino di un paese dove la legge vale per tutti. Dunque è necessario che la questione del nucleare esca dai quesiti del referendum se si vuole esorcizzare il rischio che venga abrogato anche il "legittimo impedimento". A questo scopo il premier ha giocato la carta della sospensiva.

L’esito delle recenti elezioni amministrative ha mandato un messaggio di estrema chiarezza. Per Berlusconi l’unico rimedio possibile davanti al disastro è "guadagnare il beneficio del tempo", come suggerivano i consiglieri dei sovrani degli staterelli italiani preunitari quando incombeva la minaccia di confronti militari con le grandi potenze europee. Il tempo, appunto: bisogna che per un po’ di tempo il popolo italiano sia tenuto lontano dalle urne, ora che ha dimostrato di essersi riscosso dall’incantesimo e di non essere più disposto a farsi trascinare dalle emergenze personali del premier. E il referendum imminente minaccia una grandinata che questo governo molto traballante non può sostenere. Da qui la necessità di ostacolare in ogni modo la regolarità della consultazione ricorrendo al tentativo disperato del bluff. Parliamo di disperazione e di bluff a ragion veduta. La sospensione del programma nucleare è stato il bluff di un giocatore disperato. E anche impudente. Nella conferenza stampa col presidente francese Sarkozy del 16 aprile scorso Berlusconi ha dichiarato apertamente che il governo italiano, cioè lui stesso, resta convinto che "l’energia nucleare sia il futuro del mondo". Dunque nella sostanza niente cambia negli orientamenti del governo. Ora, una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 68 del 1978) ha affermato chiaramente che "se l’intenzione del legislatore rimane fondamentalmente identica, malgrado le innovazioni formali o di dettaglio che siano state apportate dalle Camere, la corrispondente richiesta /referendaria/ non può essere bloccata, perchè diversamente la sovranità del popolo (attivata da quella iniziativa) verrebbe ridotta ad una mera apparenza". Ecco il punto decisivo: la sovranità del popolo, il cuore della democrazia, ha nell’istituto del referendum la sua manifestazione più alta, proprio per questo regolata in maniera particolarmente attenta dai padri costituenti. L’idea di democrazia implica l’assenza di capi, come ha scritto Kelsen e come ci ha ricordato di recente Luigi Ferrajoli. Implica anche che sia cancellato lo strappo al principio dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge (art.3): proprio di tutti, nessuno escluso.

Due, tre giorni dopo il terremoto dell'ultima consultazione amministrativa, il Cavaliere era di nuovo in giro fra i potenti della terra a mostrare con l'ostentazione del suo immarcescibile sorriso (in verità sempre più macabro) e con le pacche distribuite sulle spalle di Biden e di Medvedev che nulla era cambiato, che si andava avanti senza neanche guardarsi intorno, che la forza era ancora dalla loro parte. L'incoronazione del figlio prediletto, Angiolino Alfano, a Segretario (!) del Pdl colorava d'una tinta decisamente comica i lineamenti di quello che vorrebbe forse essere un lento e magari contrattato declino (come per l'amico Gheddafi non è da escludere che si pensi a un'uscita di scena con salvacondotto giudiziario e conservazione integrale del patrimonio male acquisito).

Però così non va bene. Il paese non è in grado di reggere altri due anni all'attuale, catastrofica conduzione governativa, con annessi e connessi di natura giudiziaria, etico-politica, ecc. ecc. Dunque, all'ordine del giorno oggi c'è innanzitutto e sopra tutto il disarcionamento del cavaliere dal suo decrepito ronzino nei prossimi mesi; la stesura di una nuova legge elettorale che restituisca agli elettori la libertà di scelta nella composizione delle liste e dei candidati; e l'indizione di nuove elezioni che consentano di avere un Parlamento non più soggetto, come questo vergognosamente lo è, al ricatto del denaro e dei favoritismi. Questo è il minimo: alla delineazione delle alleanze e alla formazione del nuovo Governo si può pensare cammin facendo. Ma intanto si deve chiedere alle forze politiche antiberlusconiane che s'impegnino, con la inventività giuridica e la forza contrattuale che sono loro proprie, a realizzare questo programma minimo, elementare: ora questi devono andarsene. Uso il plurale perché sia chiaro che ad uscire di scena dev'essere non il solo B ma l'intera sua squadra. L'idea che la fine della legislatura sia garantita da un centro destra non guidato dal Cav ma da un altro nome della sua parte politica, magari con il Pd che si assume «una quota di responsabilità» (Massimo D'Alema), mi sembra aberrante e risolutamente volta a depotenziare fin dall'inizio il processo positivo ora cominciato.

Affinché la richiesta non appaia troppo sforzata o velleitaria, occorre un minimo pronunziarsi sulla natura e sui caratteri del terremoto che si è manifestato fra il 28 e il 30 maggio scorsi. Non v'è ombra di dubbio, mi pare, che il paese si sia spostato verso il centro-sinistra. Ma contemporaneamente il centro-sinistra si è spostato verso sinistra.

Questi sono i due dati inconfutabili da cui quel terremoto è stato contraddistinto: tacerli o metterli tra parentesi significherebbe fare un passo all'indietro. Ma c'è dell'altro. Perché quei due dati si rivelassero così chiaramente sono state necessarie tre condizioni. Innanzi tutto restituire il più possibile alla cittadinanza il diritto della scelta (primarie, ma non solo: associazionismo, recupero di molteplici individualità negate, valorizzazione delle professionalità, e così via): è su questa strada che si è verificato uno straordinario recupero di energie giovanili. In secondo luogo pescare i candidati tra le facce meno note in politica e più rispondenti alla natura della scelta popolare precedentemente indicata. In terzo luogo il pronto allineamento delle forze democratiche sulle due scelte suddette anche là dove esse non coincidevano o addirittura configgevano con i propri stretti interessi e convenienze di partito.

Se si andrà avanti per questa strada anche a livello nazionale, l'insostenibilità di un Governo che non corrisponde più al paese emergerà con evidenza sempre maggiore. Si è detto più volte nei mesi passati: bisogna aprire una fase costituente con tutte le forze politiche che ci stanno. La parola d'ordine, per quanto non resti priva di una sua pertinenza e utilità, è stata superata dagli eventi: ormai la fase costituente s'è aperta nel paese, a Milano, Torino, Trieste, Napoli, Mantova, Pavia, Novara, Arcore, Orbetello, determinando un'inversione di rotta negli orientamenti politici e, io direi, culturali del paese, che forse ha dei precedenti solo nelle elezioni regionali e politiche del 1975 e '76. L'occasione non va perduta, anzi va praticata sino in fondo.

Quel che voglio dire è: siamo all’interno d’un solo, grande, entusiasmante processo. E perciò: i quattro referendum del 12-13 giugno, forse per una scelta imprevista della Provvidenza («La c’è, la c’è...!»), non sono stati fatti cadere nei medesimi giorni del voto amministrativo. Oggi, infatti, se è più difficile raggiungerne il quorum, il loro significato a posteriori è aumentato a dismisura. Essi rappresentano per se stessi delle buone cause, da condurre in porto senza esitazioni. Ma quanto è già avvenuto nel voto amministrativo li carica d’un signi- ficato ancora maggiore, e non parlo soltanto di quello che, una volta approvato, rappresenterebbe un altro sonoro invito al Cavaliere a scendere di sella e ad avviarsi finalmente, senza più oscene resistenze, verso le porte dei Tribunali che lo aspettano spalancate. Nel nucleare e nell’acqua sono esemplarmente radicate due delle fondamentali pretese della specie di una buona sopravvivenza umana. Dunque, democrazia e scelte di sopravvivenza e di destino tornano, come nei momenti migliori, ad avvicinarsi. Lo dicevamo anche la volta passata: tutti al voto, e tutti a votare bene

Sergio Marchionne ha affermato che l´Italia deve cambiare atteggiamento nei confronti di Fiat Auto. L´Italia dovrebbe diventare più comprensiva nei confronti delle sue strategie. Più aperta al nuovo che esse rappresentano in tema di relazioni industriali e di piani produttivi. Da ciò si dovrebbe anzitutto dedurre che i suoi uffici gli passano da tempo una rassegna stampa largamente incompleta. Una pur rapida scorsa agli articoli pubblicati nell´ultimo anno o due, alle dichiarazioni dei politici, ai comportamenti di due dei maggiori sindacati su tre, porta a concludere che nove articoli su dieci dei maggiori quotidiani, quattro quinti degli accademici, l´intero governo, e perfino gran parte dei politici di opposizione si sono espressi con fervore dalla parte delle strategie di Fiat. Tutti d´accordo: chi critica Fiat si oppone al nuovo che avanza, ai dettami della globalizzazione, allo sviluppo industriale del paese.

Quel che vuole l´ad più noto al mondo tra i costruttori d´auto (pochissimi tra il pubblico sanno chi sia l´ad di Volkswagen, del gruppo Peugeot-Citroen, di Ford, ma tutti sanno chi è il grande comunicatore a capo della Fiat-Chrysler) non è dunque un atteggiamento più favorevole del Paese: vuole semplicemente che nessuno lo critichi. Ora, dato che nessuno fa nulla per niente, si potrebbe chiedere a Sergio Marchionne che cosa sia lui disposto a fare affinché la minoranza che non lo applaude come invece fanno gli americani e la maggioranza dei commentatori italiani cambi atteggiamento. Tra le tante, vengono in mente due o tre cose.

Marchionne dovrebbe riconoscere in primo luogo che lo sviluppo del diritto del lavoro, ovvero dei diritti personali dei lavoratori ha rappresentato in Italia tra gli Anni 60 e l´inizio degli Anni 80, per milioni di persone, la porta di accesso a un mondo dove anche il più povero, il meno istruito, il più sprovvisto di mezzi, aveva diritto ad essere trattato come persona, poteva con i compagni levare la voce per migliorare la propria condizione, non era più soggetto agli umori ed agli arbitri dei caporali che con un cenno di mano reclutavano all´alba, oppure no, i braccianti a giornata.

Questo salto da un mondo dove uno non contava niente a uno in cui, attraverso i sindacati da un lato, e la legislazione del lavoro dall´altro, uno sentiva di contare qualcosa, è stato più ampio e significativo in Italia che non in altri paesi europei i quali o non avevano visto interrotta da una dittatura la crescita del movimento sindacale, come in Gran Bretagna e in Francia, oppure si erano trovati subito dopo la guerra con una legislazione imposta dai vincitori che assegnava notevole peso politico ed economico al sindacato, come in Germania. Un elemento essenziale di tale salto in avanti e all´insù nella scala dei diritti è stata, in Italia, la libertà di associazione sindacale e di contrattazione collettiva. Appunto quella che il piano di Pomigliano prima e quello di Mirafiori dopo appaiono voler eliminare alla radice.

In questa prospettiva il confronto che tanto la Fiat quanto i suoi sostenitori propongono con le relazioni industriali in Usa è del tutto privo di senso. Per tre ragioni concomitanti: sia la legislazione che la giurisprudenza americane sono molto più arretrate di quelle dell´Europa occidentale; i sindacati hanno subito a causa delle politiche neoliberali, da Reagan in poi, sconfitte catastrofiche; infine si trovano addosso il peso enorme delle pensioni e della sanità privata su basi aziendali, per salvare le quali debbono accettare qualunque compromesso al ribasso. Come hanno dovuto fare i sindacati della Chrysler.

In secondo luogo chi si permette di non festeggiare ogni mossa della Fiat potrebbe cambiare atteggiamento se l´ad si disponesse finalmente a diradare la coltre di nebbia che fino ad oggi grava sul piano chiamato Fabbrica Italia.

Con le sue 650.000 unità prodotte in patria nel 2010 l´Italia, come costruttore di auto, è stata ormai sopravanzata non solo da Germania e Francia, ma anche da Spagna, Regno Unito, Polonia, e perfino dalla Repubblica Ceca e dalla Serbia. Stando al piano sopra indicato, nel 2014 la Fiat dovrebbe tornare a produrre nel nostro Paese oltre un milione e mezzo di vetture. Ma dove, e come, con quali catene di fornitura dei diversi livelli? Tre quarti di un´auto sono costruiti fuori dagli stabilimenti in cui si effettua l´assemblaggio finale. Davvero uno può credere che Mirafiori, che oggi lavora una settimana al mese quando va bene, sarà definitivamente rilanciato assemblando grossi suv progettati e costruiti in gran parte in Usa? O che negli stabilimenti della ex Bertone, nel Torinese, saranno prodotte 50.000 Maserati, bellissime auto da 130.000 euro al pezzo, una quantità dieci volte superiore a quelli che si vendono attualmente? O, ancora, che Pomigliano ritornerà anch´essa a nuova vita producendo un modello di utilitaria ormai vecchiotto, che costa molto meno produrre in Polonia o in Brasile?

Ecco, se in merito a questo paio di punti l´atteggiamento della Fiat cambiasse, smettendo di presentare un balzo all´indietro in tema di libertà sindacali come il nuovo che avanza, e fornendo indicazioni realistiche su ciò che progetta di fare quanto a organizzazione complessiva delle sue produzioni, compreso il centralissimo capitolo della fornitura, anche coloro che per ora hanno più di una perplessità sia sul salto all´indietro che essa propone nel campo delle relazioni industriali, sia sul nebuloso piano Fabbrica Italia, potrebbero cambiare atteggiamento.

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