la Repubblica
Pgt, domani l´ok alla trasformazione
di Alessia Gallione
Pgt: si riparte dalla osservazioni. Domani la delibera che cancellerà l'approvazione del Piano di governo del territorio arriverà in giunta. La proposta dell’assessore all’Urbanistica De Cesaris è quella di riprendere in mano le osservazioni, valutarle e, dove necessario, modificare il documento. «Sulla base di queste osservazioni - spiega Pisapia - ci sarà un Pgt sicuramente migliorato rispetto a quello attuale». Una scelta che non piace al Pd. Pur appoggiando la necessità di rivedere il piano anche in maniera sostanziale, il partito propone di non bloccarne l’entrata in vigore. «Le modifiche si possono fare anche a Pgt pubblicato» commenta il capogruppo Rozza.
La trasformazione delle regole urbanistiche arriverà sul tavolo della giunta già domani: la prima importante decisione dell’era-Pisapia. Perché è lì che l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris condividerà con gli altri assessori la delibera che, di fatto, cancellerà l’approvazione del Piano di governo del territorio. Un passo indietro per riaprire l’ascolto con la città che, per modificare il Piano, aveva presentato 4.765 richieste di cambiamento. «Si tornerà alla possibilità per il consiglio comunale di esaminare e votare le osservazioni dei cittadini», ha ribadito ieri il sindaco. Disegnando anche il nuovo orizzonte che potrà delinearsi per lo strumento urbanistico. E per la Milano dei prossimi vent’anni: «Sulla base di queste osservazioni - ha aggiunto Giuliano Pisapia - ci sarà un Pgt sicuramente migliorato rispetto a quello attuale».
Dopo l’ex assessore Carlo Masseroli, che del Pgt è il padre e che ha già ipotizzato una difficile «stagione di ricorsi e controricorsi», anche il capogruppo del Pdl Giulio Gallera promette battaglia in aula: «Difenderemo il Piano. Questa è una scelta irresponsabile che creerà un danno e un buco di bilancio e bloccherà lo sviluppo della città. L’ascolto della città è una finzione. Si vuole solo stravolgere il Pgt». D’accordo con la possibilità di riprendere in considerazione le richieste di modifica, invece, è il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo. Che dice: «La mia posizione non cambia rispetto a quella che avevo come consigliere dell’opposizione: anche ora ritengo necessario che la politica ascolti e valorizzi le osservazioni dei cittadini».
Il documento, approvato lo scorso febbraio, secondo la tabella di marcia della precedente amministrazione avrebbe dovuto essere pubblicato il prossimo lunedì. Per ora, quindi, non è ancora entrato in vigore. Ed è proprio da questa certezza che riparte la giunta Pisapia. Da un Piano adottato (il primo passo in aula) e da una delibera che riporta indietro le lancette al momento della valutazione delle osservazioni: una scelta che, dopo il voto della giunta, dovrà arrivare in consiglio comunale per il via libera. Da questo momento gli uffici dovranno riprendere in mano le 4.765 richieste e, dopo averle riconsiderate, accorparle in gruppi «omogenei e di identico contenuto» e sottoporle nuovamente al voto dell’aula: non soltanto otto blocchi, come fece l’allora maggioranza. Una decisione duramente contestata dal centrosinistra che aprì lo scontro e presentò un ricorso al Tar.
la Repubblica
Il Pd tenta di fermare lo stop totale "Piano in vigore, poi le modifiche"
di Teresa Monestiroli
Il primo passo della giunta Pisapia fa accendere le scintille con il Partito democratico. Se infatti il maggior gruppo della coalizione che sostiene il neo sindaco è totalmente d’accordo sulla necessità di rivedere il Piano di governo del territorio varato dalla precedente amministrazione, dando valore alle osservazioni presentate dai cittadini, non c’è sintonia sulla modalità che sembra aver scelto l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris per procedere. A spiegare le divergenze è Carmela Rozza, il nuovo capogruppo dal Pd: «Sono perplessa sull’ipotesi di ritirare la delibera di approvazione del Piano e ritornare allo step precedente, quello della valutazione delle osservazioni - racconta il consigliere comunale - . Forse sarebbe più appropriato tenere in piedi lo strumento e valutare contemporaneamente le osservazioni introducendo delle modifiche là dove lo ritenessimo necessario».
È il regolamento urbanistico della Milano dei prossimi vent’anni il primo banco di prova della tenuta della squadra di Pisapia, scelta esplicitamente senza seguire le vecchie logiche della spartizione delle poltrone tra i partiti. Di questo si parlerà in una riunione già chiesta dal partito a sindaco e assessore: «Ci sarà un momento di confronto - prosegue la Rozza - per discutere come affrontare il problema delle osservazioni. Personalmente ritengo che il Piano non vada fermato. La legge 12 della Regione dà la possibilità ai Comuni di apportare delle modifiche anche a Piano in vigore. Quindi la mia proposta è quella di pubblicarlo nei tempi previsti e poi in consiglio comunale discutere le osservazioni e valutare, strada facendo, i punti da rivedere». Una posizione, quella di procedere con le varianti mantenendo attivo il Piano, che anche Stefano Boeri, oggi assessore alla Cultura, aveva sposato in campagna elettorale quando parlò davanti a una platea di immobiliaristi e costruttori che difendevano a spada tratta il Pgt.
Ma è una proposta totalmente diversa quella che la De Cesaris sembra portare avanti: fermare le macchine e, prima di far entrare in vigore le nuove regole, riportare in aula le richieste di cambiamento dei cittadini, tenendo conto che la data massima di approvazione fissata dalla Regione Lombardia è il 31 dicembre 2012. Scelta appoggiata anche da Sel, con il consigliere Patrizia Quartieri che spiega: «Non dobbiamo avere nessuna fretta di pubblicare e quindi far entrare in vigore il nuovo Piano. Prima rivediamolo e correggiamo quello che c’è da correggere. Sono totalmente d’accordo con la decisione di Pisapia perché l’iter seguito dal centrodestra a gennaio era stato improprio, e perché è necessario ridare voce ai cittadini che con le osservazioni hanno dato un importante contributo al Piano».
Corriere della Sera
Urbanistica scontro Moratti-Pd
di Maurizio Giannattasio e Elisabetta Soglio
Urbanistica e Pgt, in Comune è subito scontro tra Letizia Moratti e il Partito democratico. L’ex sindaco Letizia Moratti: «Ci spieghino le intenzioni» . Il capogruppo del Pd Carmela Rozza: «Da noi le scelte non si fanno nei salotti».
Prima riunione dei capigruppo e primo botta e risposta tra l’ex sindaco, Letizia Moratti e la capogruppo del Pd, Carmela Rozza. La questione è di quelle roventi: il Piano di governo del territorio. Martedì scorso, l’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris ha annunciato che Palazzo Marino revocherà «per autotutela» l’approvazione del Pgt per tornare alla discussione delle 4.765 osservazioni presentate a suo tempo dai cittadini. Ieri, il sindaco Giuliano Pisapia ha confermato che questa sarà la strada maestra: «Per il Pgt si tornerà alla possibilità per il Consiglio Comunale di esaminare e votare le osservazioni dei cittadini. Sulla base di queste osservazioni ci sarà un Pgt sicuramente migliorato rispetto all’attuale» .
Non l’ha presa bene Letizia Moratti che ieri durante la riunione dei capigruppo ha chiesto con forza la presenza dell’assessore De Cesaris: «Abbiamo appreso la decisione dai giornali. Chiediamo che l’assessore venga a spiegarci cosa intende fare del Pgt» . La replica secca arriva da Carmela Rozza, neocapogruppo del Pd: «È necessario attendere prima la riunione di giunta con la relativa delibera e la nomina delle commissioni e poi ci confronteremo con l’assessore. È questa la prassi giusta. Non quella che avevate messo in pratica voi con le riunioni in casa Moratti, quando anche noi apprendevamo le notizie dai giornali» . La vicenda Pgt sta preoccupando anche i costruttori, che avevano sostenuto il documento dell’allora assessore Carlo Masseroli. Il presidente di Assimpredil, Claudio De Albertis per ora è cauto: «Stiamo cercando di capire che cosa significhi questa decisione e che cosa comporti» .
Di certo, c’è una diffusa preoccupazione sui tempi, dal momento che la Regione ha dato ai Comuni come termine massimo per l’approvazione dei Pgt il 31 dicembre 2011. L’ex assessore Masseroli insiste: «Stanno scegliendo una strada che dà l’impressione di portare all’impantanamento dell’iter amministrativo del piano, con effetti di impoverimento per i singoli cittadini e per la città intera» . Continua intanto a far discutere anche il tema dell’austerity che Palazzo Marino sta imponendo, in attesa della relazione sul bilancio che l’assessore Bruno Tabacci porterà domani in giunta. Il giro di vite riguarderà nel frattempo l’ufficio stampa che, come annunciato ieri dal capo di gabinetto Maurizio Baruffi a tutti i dipendenti di questo settore con contratto a tempo determinato, sarà ridotto di un terzo e diversamente organizzato.
Tagli anche ai budget a disposizione degli assessori: da una spesa di 70mila euro per i 16 assessorati dell’amministrazione Moratti (1.120.000 euro in totale) a una spesa di 86 mila euro per i 12 assessorati attuali (1.032.000 euro in totale) con una riduzione della spesa complessiva del 7,86 per cento. L’opposizione attacca con il capogruppo pdl Giulio Gallera: «Continuano le bugie del sindaco Pisapia. Dopo quelle sui tagli delle auto blu, già fatti dalla giunta Moratti, ecco quella sui budget. Peccato che si tratti solo di una colossale bugia: ogni assessore infatti potrà spendere 86 mila euro, il 23 per cento in più rispetto alla scorsa amministrazione. Il governo di centrodestra ha tagliato il numero dei consiglieri e degli assessori per ridurre i costi della politica, la giunta Pisapia li aumenta incrementando la spesa per i consulenti degli assessori» .
Ma da Palazzo Marino viene fatto notare che «la riduzione degli assessorati ha portato a un conseguente accorpamento delle deleghe, nel mantenimento delle stesse funzioni da parte del Comune» . Ma piovono critiche anche dalla Provincia: «Troverei ipocrita — commenta il presidente del consiglio provinciale, Bruno Dapei — un Comune che si attribuisse il merito di una diminuzione del 20%del costo degli staff degli assessori, naturale conseguenza del taglio operato dalla legge. Qui poi c’è addirittura un incremento delle spese: come cittadino, mi sento cornuto e mazziato» .
Erano undici anni che un ministro per i Beni culturali non metteva piede sull'Appia Antica. Ieri Giancarlo Galan ha rotto questa tradizione, ha affrontato con un pizzico di amarezza tutta la storia dell'abusivismo edilizio consumatosi dal 1965 ad oggi ai danni della Regina Viarum, che documenta la bella e tragica mostra "La Mia Appia. Laboratorio di mondi possibili tra ferite ancora aperte" in scena a Capo di Bove. E ha preso formalmente un doppio impegno: l'istituzione del parco archeologico dell'Appia Antica e la disponibilità a risorse per acquisire monumenti antichi di proprietà privata.
Una risposta doverosa, quella del ministro, agli appelli lanciati dalla soprintendente ai beni archeologici Anna Maria Moretti e dalla direttrice dell'Appia Antica Rita Paris, applauditissima quest'ultima per il suo discorso dai tanti studiosi, archeologi e appassionati accorsi per l'evento, tra cui l'ex soprintendente Angelo Bottini e l'attore Giuseppe Cederna, figlio del grande ambientalista Antonio Cederna il cui archivio trova sede a Capo di Bove, e che già nel 1953 denunciava in un suo storico articolo "I Gangsters dell'Appia".
"Non sono nello spirito giusto, non sono contento: ho visto cose che mai si sarebbero dovute verificare in Italia - dichiara Galan - Immagini che testimoniano brutalmente tutta la negligenza, distrazione e disinteresse di generazioni di amministratori italiani". E non si dice ottimista, il ministro, "perché nel nostro paese è più presente lo spirito che ha deturpato l'Appia che non quello che anima questi appassionati archeologi". E' tempo di "attrezzarci a fare battaglia", incalza Galan. "Non è concepibile che un ente come quello dell'Appia Antica non abbia uno status giuridico e competenza di tipo archeologico. Bisogna assolutamente lavorare per trovare una soluzione condivisa con la Regione Lazio e il Comune di Roma".
Quanto agli straordinari monumenti privati, come il Mausoleo degli Equinozi del I secolo a. C., e il Sepolcro di Sant'Urbano d'età imperiale, le cui trattative per l'acquisizione si sono arenate per mancanza di risorse nelle casse della Soprintendenza archeologica, Galan avverte: "Ogni euro che abbiamo deve andare nella direzione di acquisire i beni culturali che i privati sono disposti a vendere. Noi dovremmo agevolarli dal punto di vista fiscale e burocratico. Chi dice che non ci sono i soldi per farlo, con poca lungimiranza, dice il vero se ci si limita a guardare lo status quo. Ma se ci sono buone idee e volontà, i soldi si trovano".
MAN mano che si moltiplicano crisi e bancarotte degli Stati, crescono in Europa le rivolte degli indignati: in Grecia, Spagna, anche in Italia dove il tracollo è per ora solo temuto. I governi tendono a vedere il lato oscuro delle rivolte: il faticoso riconoscimento della realtà, la rabbia quasi cieca. Ma la cecità spiega in piccola parte una ribellione che ha come bersaglio non solo i contenuti, ma le forme di comportamento (dunque l´etica) dei governi: l´abitudine a una vista sempre corta, abbarbicata al prossimo voto o sondaggio; la vocazione a nascondere conti squassati. A non dire la verità su immigrazione o deficit, ad accusare i giornali, le Banche centrali, l´Europa: tutti sospettati di spandere brutte notizie.
L´Italia in questo è all´avamposto. Da quando è tornato al governo, Berlusconi ripete lo stesso ritornello: lo squasso è nelle vostre teste disfattiste, noi ce la facciamo meglio di tanti paesi virtuosi. Lunedì ha detto d´un tratto, ai microfoni: «La crisi non è finita». Non ne aveva mai annunciato l´inizio. Come si spiega l´allarme dei mercati sulla nostra economia e sulla paralisi governativa, se le cose andavano nel migliore dei modi? Il governo se lo spiega probabilmente con le gag del ministro Brunetta: se milioni di precari sono «l´Italia peggiore», vuol dire che c´è del marcio in chi soffre la crisi invece di creare ricchezza.
Non dimentichiamo che una delle iniziative più trascinanti degli indignados spagnoli concerne l´informazione. L´ha presa Antòn Losada, professore di Scienze politiche, e s´intitola "Sinpreguntasnocobertura" (senza domande niente copertura). Migliaia di giornalisti hanno aderito. Se una conferenza stampa non ammette quesiti scomodi sarà boicottata, e il potere resterà solo con i suoi barcollanti giuramenti. È segno che nelle rivolte c´è una domanda, possente, di verità e giustizia. Alla crisi non si risponde solo imponendo la cinghia più stretta, e instillando nel popolo paure incongrue. Si risponde con la trasparenza d´informazioni: sulle tasse che non si possono abbassare, sul calo demografico che solo l´immigrazione frenerà, sugli ingredienti della crescita che sono la giustizia, la legalità, il merito, il prezzo che possono pagare i più fortunati e ricchi.
Alle rivolte generate dalla crisi, i governanti italiani reagiscono con tagli che colpiscono tutti indiscriminatamente, e soprattutto con false promesse. Tremonti stesso, oggi considerato uomo del rigore, ha mal tollerato lungo gli anni i moniti della Banca d´Italia, permettendo che nella Lega e nella destra montasse l´irresponsabilità. In un editoriale di mercoledì sul giornale greco Kathimerini, il direttore Nikos Konstandaras parla del «fascino impossibile della solitudine»: è l´illusione che la crisi non scoppierà, se gli Stati chiudono gli occhi all´Europa, al mondo, ai mercati. Certo, i mercati sono strane bestie: possono scatenarsi istericamente - hanno sete di sangue - e in questo non sono molto diversi dai militanti leghisti che reclamano meno tasse e secessione (verso quale paese del balocchi, dove non ti chiedono nulla ed è sempre domenica?). Hanno la vista corta, ma non anticipano del tutto a casaccio le catastrofi: scattano foto istantanee di governi istantanei, e ne traggono conclusioni. Accanto all´urna elettorale, sono un nostro secondo tribunale. Saranno loro, se non lo fanno altri, ad «aprire la crisi»: quella vera, che screditerà Berlusconi, che sfiderà anche l´opposizione, e metterà a nudo la presente non-politica italiana.
Giacché non è politica nascondersi, fingersi Stati sovrani che decidono da soli, ignorare l´esistenza di uno spazio pubblico europeo verso cui siamo responsabili come verso la nazione. Esiste ormai una res publica che oltrepassa i nostri confini, che ha sue regole, e i cui dirigenti non sono emanazioni dei governi ma rispondono a geografie più vaste. Valga come esempio la nomina di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. Una scelta ineccepibile, ma fatta nella più sgangherata e vecchia delle maniere. In cambio della nomina, Sarkozy ha chiesto che venisse liberato un posto per Parigi nell´esecutivo Bce e Berlusconi gli ha dato la testa di Lorenzo Bini Smaghi, come se quest´ultimo fosse un suo uomo, non un dirigente dell´Unione. Il mandato di Bini Smaghi, prescelto nel 2005 per otto anni, scade il 31-5-2013 e non può esser revocato né da Stati né da accordi tra Stati. Non è uno schiaffo a lui, ma alle istituzioni europee verso cui va la sua lealtà. Il caso crea peraltro un precedente ominoso: ogni governo potrà decidere da ora in poi di sottrarre mandati e regole alla giurisdizione europea.
La reazione di Bini Smaghi è stata rigorosa, da questo punto di vista. In un discorso tenuto in Vaticano su etica e affari, il 16 giugno, ha spiegato la ferita alle istituzioni europee con parole chiare e vere: «Non è un caso che i banchieri centrali abbiano adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell´interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII, del quale era stato il più stretto consigliere (...) fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e condannato a morte». Tommaso Moro volle servire Dio piuttosto che il re cui prima sottostava. L´interesse pubblico cui allude Bini Smaghi è quello, superiore agli Stati, dell´Unione: è solo quest´ultima a poterlo «dimettere». La violazione del Trattato di Maastricht, giustificata con la presunta «regola non scritta tra gli Stati», è palese. Anche Mario Monti, ex commissario europeo, ha mostrato irritazione: il governo, ha detto domenica a Lucia Annunziata, si è comportato in modo «dilettantesco» e «paradossale», disponendo di Bini Smaghi come di una propria pedina («Le decisioni spettano a Bini Smaghi e alla sua coscienza. È sbagliato aspettarsi giuridicamente e moralmente che avrebbe dato le dimissioni, se non si è parlato prima con lui di questo tema»).
Anche qui, sono mancati informazione trasparente e riconoscimento dello spazio pubblico europeo. Così come non c´è trasparenza sulle tasse che non si possono abbassare, sull´immigrazione di cui abbiamo bisogno, economicamente e demograficamente. È stato calcolato che i flussi migratori si eleveranno a 4,4 milioni nel 2011, che supereranno 8 milioni nel 2031 e 10 nel 2051: « Il valore finale - scrive l´economista Nicola Sartor - è inferiore di 8 milioni a quanto necessario, secondo l´Onu, a compensare la flessione della popolazione nazionale in età attiva» (Invecchiamento, immigrazione, economia, Il Mulino 2010).
Gran parte degli equivoci sono imputabili all´Unione: all´inerzia dei suoi dirigenti, succubi degli Stati. Ancora una volta, è il parlar vero che manca: è per un eccesso di false cortesie e per l´assurda deferenza verso i grandi Paesi che l´Europa è giunta alle odierne bancarotte, scrive Monti in un illuminante articolo sul Financial Times di ieri. Sono tante le politiche su cui l´Unione potrebbe far valere la sua parola: a cominciare dalle missioni di guerra, abusivamente dette «di pace». L´articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ripudia la guerra, prevede limitazioni volontarie della sovranità nazionale e azioni congiunte con organi internazionali. Le guerre che sta consentendo andrebbero oggi ridiscusse dall´Europa, alla luce di una politica Usa che comincia a trattare unilateralmente con i talebani e a dubitare dell´utilità della Nato.
Una Commissione europea autonoma, conscia della propria autorità, reagirebbe a tutti questi eventi (caso Bini Smaghi, debiti sovrani, guerre) come ai tempi di Walter Hallstein. Il primo capo dell´esecutivo di Bruxelles non esitò a confutare De Gaulle, alla fine degli anni ‘60, in nome della nascente res publica europea. Fu un «perdente designato», scrive lo storico Corrado Malandrino in una bella biografia pubblicata dal Mulino: ma ci sono sconfitte che salvano, se le si vuol salvare, le istituzioni umiliate.
Centosedici milioni di euro: è l’astronomico risarcimento chiesto dai proprietari dell’hotel Baia delle ginestre al Comune di Teulada e alla Regione Sardegna, colpevoli a loro dire di un misfatto. Quale? Fecero abbattere una caterva di opere abusive riconosciute tali da varie sentenze comprese due della Cassazione. La storia, definita dagli ambientalisti del Gruppo d’intervento giuridico come un incredibile esempio di faccia tosta, è illuminante per capire come mai l’Italia sia il Paese europeo marcato dall’abusivismo più devastante. Tutto inizia nei primi anni 90, quando i fratelli Guido, Emilio, Fernando e Renato Antonioli tirano su a Portu Malu, sulla costa di Teulada, un albergone che la stessa pubblicità attuale su Internet declama con parole esaustive: «Il Resort Hotel Baia delle ginestre sorge direttamente sul mare in posizione panoramica» .
Hanno una licenza per un tot di metri cubi. Già che ci sono, diranno i verdetti della magistratura, si fanno prendere un po’ la mano. Aggiungendo illegalmente, denunciano gli ambientalisti, «un parcheggio coperto, un fabbricato-alloggio del personale, un campo da tennis, un ampliamento del ristorante, un vascone, una cabina Enel, locali-servizio, la reception del complesso alberghiero, un comparto alberghiero da 100 camere, una piscina con locale-filtri, una piattaforma-pizzeria, tre baracche di legno, una pista di accesso alla spiaggia, tre pontili galleggianti, una barriera frangiflutti per complessivi metri cubi 15.600» . Prima se ne occupa il pretore: demolizione e ripristino ambientale. Poi la Corte d’appello di Cagliari: demolizione e ripristino ambientale. Poi la Cassazione: demolizione e ripristino ambientale.
A quel punto, ricorda il Gruppo d’intervento giuridico, «le strutture abusive vennero dissequestrate per consentire la demolizione da parte dei condannati. Risultato: come se niente fosse, il complesso venne riaperto e la società di gestione lucrò per anni miliardi di vecchie lire su un patrimonio ormai divenuto pubblico» . Cinque anni di battaglie legali, politiche, ambientaliste e finalmente nel giugno del 2001, dopo una seconda sentenza della Cassazione che spazzava via gli ultimi ricorsi contro le demolizioni, ecco in azione le ruspe e l’abbattimento delle opere abusive. I padroni dell’albergone, però, sapevano bene che in Italia, paese del cavillo, non è definitiva neppure una sentenza definitiva della Cassazione. Ed ecco che l’anno dopo un altro verdetto della stessa Cassazione aggiungeva un’altra puntata tormentone, rinviando nuovamente gli atti alla Corte d’appello di Cagliari. E si apriva una nuova battaglia legale su chi doveva pagare il ripristino dell’ambiente stravolto dal calcestruzzo.
Morale: 15 anni dopo la prima ordinanza di demolizione, 13 dopo il fallimento della società «Baia delle ginestre s. p. a.» (rilevata nel 2006 nella gara fallimentare dalla Regina Pacis s. r. l. appartenente per pura coincidenza allo stesso gruppo Antonioli), 10 dopo gli abbattimenti, 9 dopo la terza sentenza della Cassazione, la faccenda è ancora aperta. E lancia agli abusivi e agli speculatori il seguente messaggio: costruite, costruite, costruite. E poi fate ricorsi su ricorsi su ricorsi. Tanto la giustizia italiana è un colabrodo... E di chi sarebbe la colpa: delle solite toghe rosse? Ma per favore!
Le prime mosse di Matteo Renzi appena eletto sindaco di Firenze furono molto efficaci. In molte dichiarazioni affermò che la sua città non doveva consumare più neppure un metro quadrato di territorio: era già sufficiente la grande periferia metropolitana. Poi criticò la svendita del patrimonio pubblico voluta dal governo affermando che nelle caserme localizzate nel centro della città sarebbero sorte case pubbliche invece di alberghi a cinque stelle. Chiuse infine al transito delle auto piazza del Duomo, restituendola alla città.
E il suo atteggiamento era tanto più importante per quante ombre erano rimaste sull’immagine della precedente giunta comunale: dal pranzo del sindaco Domenici con Ligresti e Della Valle in cui confessava di preferire il cemento all’ipotesi del parco della piana; dal nuovo piano urbanistico che aggrediva le meravigliose colline tutelate da tanti amministratori e urbanisti del passato; dallo scandalo della scuola dei Marescialli; la cricca degli architetti “pigliatutto”. Sembrava dunque che Renzi, facendo tesoro della bocciatura del piano strutturale volesse voltare pagina. Ma evidentemente il cemento armato deve avere il suo fascino se nel breve volgere di due anni, il sindaco vuol fare approvare dal consiglio comunale un piano strutturale della città che non è a “crescita zero”.
Già in questi due anni la società civile e il valido gruppo che ruota intorno a Ornella De Zordo, consigliera comunale già protagonista nella lotta contro gli scempi urbanistici e ambientali della passata amministrazione, avevano svelato che anche nella nuova stesura di quel piano c’erano scempi ben mimetizzati a prima vista. C’era ancora la possibilità di aggredire le colline realizzando di attività sportive o sanitarie; la cementificazione della pianura verso Prato; l’accordo con le Ferrovie dello Stato per l’inutile tunnel dell’alta velocità in cambio di enormi cubature. Ma la pressione della società civile era riuscita ad attenuare i danni del piano ereditato dai precedenti cementificatori. Nelle osservazioni dei comitati e del gruppo “perunaltracittà” si denuncia la costruzione di qualche milione di metri cubi di cemento solo in parte localizzato in aree industriali dismesse. Il resto è un’ulteriore sciagurata fase di espansione urbana.
Il sindaco Renzi vuole far approvare oggi dal consiglio comunale un piano ancora peggiore di quello di Domenici. E’ già stato infatti approvato anche un “provvedimento dirigenziale” che consente l’attuazione in deroga dei piani di recupero urbano presentati fin quì. Renzi, insomma, con una mano approva e con l’altra apre a una nuova fase di deroghe e contrattazioni!
Se non ci saranno ripensamenti, in due anni si è mestamente consumata la parabola del sindaco decisionista legato alla sua città. I segnali premonitori di quanto stava per accadere li abbiamo visti pochi giorni fa, quando Renzi si è schierato contro il referendum per l’acqua pubblica. Quando argomentava a favore della privatizzazione (la Toscana e Firenze sono aree di conquista della romana Acea) aveva lo stesso piglio che userà oggi, per convincere il consiglio comunale a votare un provvedimento che renderà ancora più invivibile Firenze.
Speriamo che perda anche stavolta. E per scongiurare questo voto, i movimenti fiorentini che si battono per una città come bene comune si sono dati appuntamento questa mattina alle 12 sotto Palazzo Vecchio. Firenze non merita di diventare un immenso campo di speculazioni come la scuola dei Marescialli.
Pgt, la giunta ricomincia da capo "Discutiamo tutte le osservazioni"
di Alessia Gallione
Palazzo Marino è pronto a riavvolgere il nastro del Piano di governo del territorio. E ad annullare l’ultimo passaggio del lungo iter che ha portato, lo scorso febbraio, il consiglio comunale a dare il via libera finale al documento destinato a cambiare le regole urbanistiche della Milano dei prossimi vent’anni. Riaprendo così la procedura, allora duramente contestata dal centrosinistra, della valutazione e della discussione delle 4.765 osservazioni presentate da cittadini e associazioni. E, soprattutto, rimettendo in gioco la possibilità di cambiare, anche in modo sostanziale, il Pgt. Un passo importante da compiere in fretta: la revoca dell’approvazione del "libro mastro dell’urbanistica" potrebbe arrivare in giunta già alla prossima riunione, per poi sbarcare in aula. E far ricominciare la nuova corsa verso il "sì" del consiglio comunale.
Il Piano sarebbe pronto per essere pubblicato e diventare legge: lunedì 27, aveva annunciato l’ex amministrazione. Ma non sarà così, anche se la strada scelta dalla nuova giunta non fa ripartire il percorso dall’inizio. È stato Giuliano Pisapia, nel suo discorso alla città, ad annunciarlo: «Ci impegniamo a esaminare e a valutare con attenzione le osservazioni dei cittadini e delle associazioni: non solo per rispetto di quella democrazia partecipativa alla quale crediamo fermamente, ma anche perché siamo profondamente convinti che in quelle osservazioni vi sia una grande ricchezza per il futuro della città».
Adesso è l’assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris, a spiegare come verrà riaperto questo capitolo: tecnicamente la giunta proporrà al consiglio comunale una delibera di revoca in autotutela che dovrebbe arrivare entro l’estate. E, in questo modo, le lancette dell’orologio torneranno indietro alla fase dell’esame delle osservazioni «per ridare voce a tutti coloro, soggetti pubblici o privati, che si erano espressi» dice l’assessore. Che spiega: «Dopo un’attenta valutazione con gli uffici e l’avvocatura per ricostituire la legittimità del procedimento, si ritorna alle osservazioni per valutarle con l’attenzione dovuta e richiesta dalla legge». Ed è proprio la riconsiderazione di quelle migliaia di richieste che «ci potrà aiutare a modificare alcune parti». A questo punto, senza cancellare il Piano, gli uffici torneranno ad analizzare le osservazioni e poi si riaprirà la discussione in aula. Quanto ci vorrà? De Cesaris assicura tempi rapidi. L’unica scadenza stringente per legge è il 31 dicembre del 2012, fissata dalla Regione per l’approvazione dei Pgt. «Ma noi non impiegheremo così tanto tempo» assicura l’assessore.
Per contestare la discussione lampo sulle osservazioni, decisa dalla giunta Moratti, e l’accorpamento delle richieste, un gruppo di consiglieri allora all’opposizione presentò ricorso al Tar. «Con gli uffici e gli avvocati del Comune - spiega la De Cesaris - invece di rischiare una pronuncia del Tar abbiamo ritenuto che questa fosse la scelta più opportuna. Indipendentemente dal ricorso, però, siamo convinti che ci fossero gravi lacune nel procedimento». Eppure, l’ex assessore Carlo Masseroli non solo critica la scelta, ma prefigura grane: «Attendo di vedere la delibera, ma temo che si apra una stagione di ricorsi e controricorsi che potrebbero essere presentati da chi ritiene di avere acquisito diritti. Questa scelta mi sembra di improbabile efficacia e un tentativo di mediazione tra chi, come me, vorrebbe vedere il Piano depositato e chi vorrebbe vederlo cancellato».
Plaude all’iniziativa, invece, il presidente di Legambiente Damiano Di Simine: «Bene fa Pisapia a mettere mano al Pgt, Trovo la scelta di ripartire dalle osservazioni un atteggiamento responsabile. Non bisogna buttare tutto ai rovi, ma ci sono alcune cose che devono cambiare in maniera sostanziale».
Meno cemento, più spazio al verde oltre 4.700 le ipotesi di modifica
di Teresa Monestiroli
Le più articolate sono senza dubbio quelle presentate da Legambiente, Libertà e Giustizia, Acli e Arci: sedici osservazioni per chiedere regole più certe, meno cemento, la salvaguardia del Parco Sud, più alloggi a basso costo e la tutela dei servizi pubblici al cittadino. Poi ci sono quelle presentate dai soggetti direttamente interessati, come gli imprenditori - Salvatore Ligresti, i Cabassi, Caprotti - , o i costruttori - Assimpredil - , le squadre di calcio - Inter e Milan - fino ai comitati di quartiere e ai singoli cittadini.
In tutto sono 4.765 le richieste di cambiamento del Piano di governo del territorio che ora Palazzo Marino ha deciso di riprendere in mano e discutere di nuovo, una ad una. Osservazioni al nuovo strumento urbanistico che avrebbe dovuto regolamentare, da qui al 2030, lo sviluppo della città e che lo scorso gennaio l’allora maggioranza di centrodestra scelse di accorpare in otto gruppi tematici detti "omogenei" - termine su cui si spesero ore di dibattito in aula - per arrivare all’approvazione del Piano entro i termini di legge, il 14 febbraio. Un metodo contestato dal centrosinistra che invece chiedeva di discutere le osservazioni singolarmente, eliminando solo i doppioni.
Ma cosa c’è scritto in quelle migliaia di pagine che gli uffici comunali hanno analizzato lo scorso autunno? Un po’ di tutto, dalle precisazioni pretestuose di chi ha cercato di boicottare il Pgt alle osservazioni di merito che chiedono sostanziali modifiche alle nuove regole. La maggior parte riguarda gli ambiti di trasformazione urbana, quelle aree in attesa di una radicale riqualificazione come gli ex scali ferroviari: il Comune ha catalogato in questo ambito 1.539 osservazioni, di cui solo 32 sono state accolte, anche solo parzialmente. Tutte quelle respinte rientrano nella categoria delle "proposte discordanti con lo strumento" perché, secondo l’amministrazione, mettono in discussione i pilastri su cui poggia l’intero Pgt.
L’altro maxi gruppo è quello che riguarda la perequazione, il meccanismo che permette lo spostamento delle volumetrie da una parte all’altra della città: in questo ambito sono state catalogate 1.366 richieste di modifica, solo 138 quelle accolte. Seguono, per grandezza, il gruppo dedicato ai servizi (606 osservazioni, di cui 550 non accolte), le infrastrutture e la mobilità (573, di cui 549 respinte), il verde (320, con 243 rifiutate), le varie (225, con 206 non accolte) e l’housing sociale (71 osservazioni con 69 rifiuti). In questo marasma di richieste i firmatari sono i più disparati. Ma quel che conta è che le risposte degli uffici comunali (le controdeduzioni) sono nella stragrande maggioranza dei casi negative. Solo 349 osservazioni, infatti, sono state accolte, e sono tutte annotazioni di carattere tecnico. Di sostanziale non è stato cambiato nulla, in nessuna direzione.
Il Comune, infatti, ha rifiutato sia la richiesta delle quattro associazioni (Legambiente, Libertà e Giustizia, Acli e Arci) di diminuire le volumetrie negli ex scali ferroviari per aumentare la quantità di verde e le case low cost, sia quella presentata da Ferrovie dello Stato (proprietario delle aree) che chiedeva esattamente l’opposto: la possibilità di costruire di più, di abbassare la percentuale di housing sociale e di rivedere la grandezza dei parchi. Sono state respinte anche le osservazioni di Ligresti e Cabassi, entrambi proprietari di aree strategiche per lo sviluppo dei prossimi anni: il Parco Sud e i terreni di Expo. In particolare, Ligresti contestava all’ex assessore Masseroli uno dei punti cardine del piano, lo spostamento delle volumetrie che sarebbero state assegnate al parco nell’area dell’ex Macello dietro Porta Vittoria. La risposta del Comune è stata negativa.
E proprio intorno alla questione del Parco Sud è ruotata la dura contestazione delle associazioni ambientaliste e del centrosinistra a Palazzo Marino. Una delle più sentite richieste era infatti quella di escludere i terreni del Parco dall’assegnazione di volumetrie. Il fatto che restasse il divieto di costruire nelle zone agricole, per loro, non era sufficiente a tutelare la zona e creava comunque dei pericolosi precedenti. Inoltre, per gli ambientalisti, le quantità di costruito previsto in alcune aree di trasformazione urbana strategiche come via Stephenson - la futura Défense milanese, nei sogni di Masseroli - e Cascina Merlata «sono davvero mostruosi» scrivevano.
Fra le migliaia di osservazioni che ora il consiglio comunale dovrà riprendere in mano ci sono anche quella presentata dal patròn di Esselunga, Bernardo Caprotti, che vorrebbe costruire un ipermercato alla Bovisa, quella di una cooperativa (La Liberazione) che chiede l’immediata bonifica della zona dietro Porta Vittoria e dell’apertura di un giardino temporaneo in attesa di conoscere le sorti della Biblioteca universale e quella di Inter e Milan che hanno contestato la destinazione d’uso dell’area davanti al Meazza stabilita dal Pgt in «infrastrutture viarie esistenti». Dicitura che, per loro, escluderebbe in futuro la costruzione di residenze ed edifici per l’intrattenimento.
A me pare che 25 milioni di euro per il restauro del Colosseo, il "totem", cioè il monumento più visitato e più "visto" della romanità in cambio dell'"esclusiva" del medesimo da ogni punto di vista mi sembra un ottimo affare per Diego Della Valle e un mediocre affare, per contro, per il Ministero dei Beni Culturali, in particolare per la Soprintendenza archeologica di Roma, ancora commissariata nonostante non vi sia alcuna reale emergenza né a Roma né a Ostia antica. Parecchi anni fa, quando c'era ancora la lira, la Banca di Roma propose all'allora soprintendente Adriano la Regina una quarantina di miliardi di lire, ma, da allora, il valore della moneta è molto cambiato... Ora, che il Colosseo abbia bisogno di restauri seri e diffusi non v'è dubbio da anni: sono rilevanti e profondi i danni inferti dalle intemperie, dai fulmini, dai terremoti in zone vicine, dal traffico anche pesante che prima lo circondava e che oggi comunque gli passa accanto e dal solo passare dei secoli. Ma da quando c'è un ticket da pagare l'area archeologica del Colosseo e dintorni frutta al MiBAC un terzo degli incassi di tutti i Musei e monumenti statali. Una gallina dalle uova d'oro, da curare a fondo e bene. Siamo proprio sicuri che 25 milioni di euro siano sufficienti in cambio di una esclusiva per un quindicennio su tutto ciò che riguarda il Colosseo, anche fotografie, anche immagini televisive in movimento e il loro utilizzo, mentre Della Valle potrà mettere il proprio marchio sui biglietti d'ingresso (oltre 5 milioni l'anno i visitatori), sui tendaggi che copriranno i restauri degli archi di tutto il primo ordine e così via? Inoltre il marchio Colosseo potrà finire sui prodotti delle aziende Della Valle. Qualcuno, il segretario della Uil-Bac, Giafranco Cerasoli, ha valutato il ritorno di immagine e altro superiore ai 200 milioni di euro. Non so se la cifra sia esatta, però i 25 milioni sembrano davvero pochini. Tanto più che se non saranno sufficienti per coprire tutte le spese di restauro (quando la si comincia non si sa mai bene quanto costerà un'operazione colossale del genere), dovrà pensarci lo Stato, il MiBAC con le sue risorse: 25 milioni sono e 25 restano. Infine, se il ticket per il Colosseo fosse stato aumentato di 0,50 euro "pro-restauro", in un anno il MiBAC avrebbe incassato (tenuto conto di anziani e bambini, riducendo quindi da 5 a 3 milioni gli ingressi annui) 1 milione e mezzo di euro l'anno che moltiplicato per 15 dà 22,5 milioni di euro, ma sarebbe stato libero di affittare per campagne limitate, giornate, convention, la vista del Colosseo e altro a industrie ed enti di vario genere ricavando sicuramente di più, nel complesso, dei 25 milioni di Della Valle, che invece gli legano totalmente le mani.
Un nuovo grido di dolore dall'Appia antica. Che fare di questo straordinario territorio archeologico che nonostante la bellezza e la ricchezza dei suoi tesori appare progressivamente assediato dal degrado e dagli abusi? Se lo torna a chiedere la Soprintendenza archeologica di Roma che in quel piccolo gioiello che è Capo di Bove (via Appia 222) ha deciso di allestire una bella mostra sulla «scoperta» dell'Appia e su ciò che ne resta. La mostra con 70 foto e pannelli vari si inaugura oggi, presente il neoministro dei beni culturali Giancarlo Galan, e resterà aperta fino all'11 dicembre. Le foto innanzitutto, di tre epoche: quelle della scoperta di fine '800-primi '900, poi le immagini del degrado denunciato negli anni '60 da uomini di cultura come Antonio Cederna, infine qualche sprazzo d'oggi col degrado sotto gli occhi di tutti. «Il territorio attraversato dalla via Appia nel tratto romano si sviluppa per chilometri, un cuneo ben riconoscibile all'interno dell'espansione edilizia della città, cresciuta in modo esuberante negli ultimi decenni e ancora in crescita - spiega Rita Paris, l'archeologa responsabile dell'Appia, che firma uno dei contributi riuniti nel libro accluso alla mostra "La via Appia, il bianco e il nero di un patrimonio italiano" (gli altri sono di Maria Pia Guermandi, Adriano La Regina e Italo Insolera). La città costruita assedia l'Appia e su essa e le altre strade del territorio, come l'Ardeatina e l'Appia Pignatelli, riversa un traffico veicolare intenso, dannoso alla conservazione del patrimonio archeologico, ambientale e naturalistico e decisamente limitativo per ogni iniziativa di fruizione. II fenomeno dell'abusivismo, che qui ha trovato una delle sue espressioni più clamorose e sfrontate, è stato ed è la vera legge per l'Appia, ossia la regola dell'interesse privato a danno di quello pubblico». Come appaiono dunque lontane le immagini quasi idilliache di Rodolfo Lanciani ed Ester Boise ritratti dal fotografo Thomas Ashby all'inizio del secolo scorso. L'Appia è ai suoi albori, la riscoperta di un tesoro ineguagliabile. E ora eccola qui, invece, tra abusi vecchi e nuovi, abusi consolidati, moltiplicazioni di feste e fuochi d'artificio, piscine che continuano a nascere qua e là... «Il problema principale dell'Appia è la sua definizione - prosegue Rita Paris -. A tutti l'Appia evoca qualcosa, una strada antica, conservata con i suoi monumenti, un parco dove poter trascorrere del tempo tra natura e monumenti, decenni di battaglie ricordate da grandi titoli sulla stampa, residenze esclusive di personaggi famosi, la metafora della deturpazione dei monumenti antichi». Che fare allora? Ripristinare innanzitutto la legalità, rispettare le regole, risolvere il problema dei condoni, definire infine il territorio in modo chiaro (naturalistico? archeologico?). «Occorre un progetto di ampia portata e condivisione, a cui può contribuire il Piano Territoriale Paesistico della Regione di recente approvazione. Altrimenti l'Appia rischia di scomparire senza grande clamore». Scriveva Adriano La Regina una quindicina di anni fa: «E stato più volte sottolineato come per giungere alla reale costituzione di un parco di tale rilevanza culturale e urbanistica, quale è potenzialmente quello della via Appia nel suburbio romano, sia necessaria una legge dello Stato. Con essa si può inoltre pervenire all'istituzione di adeguate forme di tutela dell' antica strada e delle relative pertinenze monumentali e ambientali in tutta la sua estensione, da Roma a Brindisi. Solo tramite una legge, infatti, è possibile ottenere in tempi ragionevoli il riconoscimento dell'interesse pubblico di ambiti territoriali così estesi...». Nel 2011 siamo però ancora al grido di dolore.
Promette una città «a misura di bambino», dove «nessuno si senta solo o straniero». Una città «più verde e più vivibile» in cui il tema della sicurezza «rientrerà nel registro della normalità e non in quello dell´emergenza perenne». Una città «in cui non vi siano più abitanti senza casa e case senza abitanti» e che diventi «la capitale di un welfare che non lasci ai margini le persone anziane e quelle in difficoltà». È questa la Milano che il neo sindaco Giuliano Pisapia immagina per i prossimi cinque anni perché, spiega nel suo primo discorso alla città, «i milanesi hanno deciso di aprire una nuova stagione politica» e lui, insieme alla sua giunta, ha tutta l´intenzione di non deluderli. «Lavoreremo con impegno per ridare speranza a una Milano che vuole riprendere a crescere e alle famiglie che domandano nuove politiche sociali».
Sono le otto meno un quarto di sera quando Pisapia prende la parola nell´aula del Consiglio di Palazzo Marino di fronte alla nuova assemblea, insediatasi un paio di ore prima. Fra i banchi dei consiglieri, che hanno appena eletto Basilio Rizzo nuovo presidente dell´aula con l´appoggio compatto di tutta la maggioranza, solo due assenti: Riccardo De Corato per il Pdl e Francesco De Lisi per il Pd. In piedi, Pisapia scandisce le promesse del suo mandato. «Milano vuole ritrovarsi di nuovo unita intorno a un obiettivo comune - spiega - , vuole trasformare il sogno in realtà, vuole tornare a essere la capitale morale ed economica del nostro Paese». Per questo Pisapia si impegna a siglare un «nuovo patto per la città», definendo quella appena aperta «una legislatura costituente».
Un discorso ampio in cui, dopo aver ringraziato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il cardinale Dionigi Tettamanzi, il sindaco annuncia un vero e proprio cambio di passo rispetto alla precedente amministrazione: «Riprenderemo in mano le osservazioni al Piano di governo del territorio presentate dai cittadini», «tradurremo in atti di governo» gli indirizzi espressi dai milanesi ai cinque referendum ambientali, «rilanceremo i Consigli di zona e le scuole civiche». Fino alla stilettata conclusiva sulla disastrosa situazione economica del Comune: «Il primo esame conferma quanto già i revisori del Comune di Milano avevano rilevato e cioè che dal controllo sugli equilibri di bilancio emerge un andamento assai negativo delle entrate, che compromette l´equilibrio di bilancio sia di parte corrente che dei saldi utili ai fini del rispetto del patto di stabilità». E in materia di bilancio, ricorda che la sua squadra non avrà più auto blu, ma solo «piccole utilitarie in condivisione, utilizzate con la dovuta sobrietà» perché la scelta è quella «di rinunciare a quei piccoli privilegi che hanno contribuito a un fossato tra cittadini e i loro rappresentanti».
Alla fine l´aula, almeno la parte della maggioranza, applaude fragorosamente. «Siamo orgogliosi di vedere il centrosinistra al governo dopo 20 anni - commenta Carmela Rozza, nuovo capogruppo del Pd - . Lo spirito con cui affronteremo la nuova legislatura sarà quella del dialogo». Il grillino Mattia Calise, alla sua prima seduta, porta avanti i temi cari ai suoi sostenitori chiedendo «la diretta Internet non solo del Consiglio ma anche dei luoghi dove si prendono le decisione, come le commissioni consiliari». Manfredi Palmeri promette «una opposizione senza pregiudizi, ma che entri nel merito di tutte le questioni che interessano la città», mentre Matteo Salvini, capogruppo della Lega, attacca: «Pisapia comincia male prendendo in giro i milanesi con una bugia enorme sulle auto blu. Grazie alla Lega erano già state tolte, se si vuole fare di più che la giunta si impegni ad andare in metropolitana».
La Provincia dia retta ai sindaci della zona sulla questione Toem, la futura tangenziale ovest esterna in progetto. Lo dice il Fai, Fondo ambiente italiano: «Sono loro, i sindaci, la reale testimonianza del patrimonio del Parco agricolo sud che il Fai con loro vorrebbe strenuamente tutelare: a nome degli agricoltori e degli appassionati del Parco chiedo di dare a questi soggetti il massimo ascolto, accettando le loro istanze in quanto depositari di esigenze reali e della cultura del territorio, per avviare un reale processo partecipativo».
Parole di Giulia Maria Mozzoni Crespi, che del Fai è presidente onorario. L’appello è rivolto al presidente della Provincia, Guido Podestà, che giovedì assieme agli assessori competenti incontrerà una ventina di sindaci dell’est Ticino e del sud milanese: amministratori bipartisan ma tutti ostinatamente contrari al progetto Toem. Una cinquantina di chilometri di asfalto da Melegnano a Magenta, a chiusura del raddoppio dell’anello delle tangenziali nei piani futuri di Palazzo Isimbardi, ma non voluti dal territorio. Il Fai si schiera dunque con i Comuni mobilitati da mesi tra assemblee e mozioni per dire no all’opera:
«I terreni agricoli - aggiunge Mozzoni Crespi - quando vengono frammentati da infrastrutture vedono crollare drammaticamente il loro valore e la loro qualità produttiva, fino a morire. Polmone verde, fonte di prodotti agricoli fondamentali, luogo di svago e di ristoro dalla vita cittadina, ricco di luoghi di alto valore ambientale e culturale: troppo spesso i vincoli che tutelano il Parco sono stati calpestati in nome di un dubbio progresso che non ha favorito il bene comune. Piuttosto, il grave problema della viabilità potrebbe venire risolto con l’impegno a fornire nuovi mezzi pubblici, come a Londra e a Parigi».
Rincarano la dose i sindaci del no, guidati da quello di Albairate, Luigi Tarantola: «Alla Provincia chiederemo di stralciare l’opera proprio perché non è condivisa con il territorio: chiederemo su quali basi sia stata ipotizzata e, in alternativa, se non sarebbe meglio riqualificare le strade già esistenti. Se sarà picche, partiremo con la raccolta firme e continueremo nella battaglia». La Provincia si mostra disponibile al confronto sul progetto di sei corsie pensate per togliere traffico anche dalla Statale dei Giovi, in project financing e con caselli per il pedaggio: «Ascolteremo le richieste dei sindaci - anticipa l’assessore ai Trasporti, Giovanni De Nicola - oggi c’è solo un disegno e vanno ancora trovati i fondi»
Nota: altro che "c'è solo un disegno" quello è un micidiale " piano" (f.b.)
Due referendum hanno giustamente sepolto la pessima legge sull’acqua voluta a colpi di voti di fiducia dal governo Berlusconi nel 2009, che, fra l’altro, imponeva la privatizzazione obbligatoria delle aziende pubbliche di servizi locali in nome dell’Europa. Un falso. La Ue ha optato per una politica di liberalizzazioni volte a creare una concorrenza fra i vari gestori. Ma il centrodestra non ha liberalizzato, ha semplicemente fatto entrare i privati nelle aziende municipalizzate sostanzialmente per comandare (si pensi a Caltagirone nella più che centenaria Acea di Roma creata dalla Giunta Nathan con referendum). Anche perché quelle stesse imprese locali, un tempo gestite con rigore da un personale competente, sono state riempite – si pensi alla recente vicenda di Parentopoli a Roma – di dirigenti senza competenze specifiche, i quali si sono portati dietro gente ancor più mediocre.
Lo stesso centrodestra che ha teso a privatizzare le imprese pubbliche locali, ha accuratamente evitato di creare una vera concorrenza fra le grandi imprese nazionali e i loro servizi (si pensi soltanto alle ferrovie coi pendolari abbandonati a se stessi). I due referendum hanno quindi azzerato delle pessime regole e riportato l’acqua fra i beni pubblici da gestire in forma coerentemente pubblicistica e non privatistica. Come invece stavano facendo, in gran fretta, le prime aziende acquedottistiche privatizzate intascando dei bei sovraprofitti.
Ora però bisogna riscrivere accuratamente le regole e la sinistra deve concorrere con proposte chiare e responsabili, in ogni settore e in particolare per l’acqua. Dove la situazione italiana è tanto seria quanto anomala. Siamo infatti il Paese che consuma più acqua al mondo per abitante dopo Usa e Canada, il primo in Europa. Con una quota fortissima, il 65 %, in agricoltura, e in particolare al Nord (irrigazione e allevamenti), con consumi industriali almeno in apparenza più ridotti, ma con tanti, troppi prelievi (e scarichi) direttamente in falda, e con sprechi inaccettabili anche negli usi domestici. Si ricicla ancora poco l’acqua già utilizzata, rari sono gli acquedotti industriali e così via. Si dissipa insomma l’acqua potabile. Anche in forza delle tariffe troppo basse di numerose città italiane: il consumo più alto lo si registra a Torino con 291 litri/abitante al giorno i più bassi a Firenze e a Forlì (130 litri/abitante). A Torino, guarda caso, l’acqua la si paga pochissimo. A Firenze e a Forlì la si paga un bel po’ di più. E’ interessante osservare che dove l’acqua costa poco, la si spreca; dove costa, la si economizza. Succede lo stesso in Europa: ad Atene l’acqua costa il doppio di Torino e Milano e se ne consuma, per abitante, meno della metà. Analogamente a Bruxelles, a Zurigo o a Berlino.
Si obietterà: in quelle città straniere gli acquedotti non registrano le perdite sovente ingenti dei nostri. Per la verità le regioni italiane nelle quali si registrano, secondo stime di Lergambiente, le minori perdite e quindi alte efficienze sono quelle – Emilia-Romagna, Umbria e Marche – dove le tariffe non sono “stracciate”, da svendita. Voglio dire che, dove le tariffe remunerano in modo equo costi e investimenti consentendo ammortamenti e miglioramenti delle infrastrutture, la rete risulta più efficiente. Come deve essere in un’azienda di pubblici servizi che si rispetti. Certo, poi ci sono i disastri di Cosenza col 70% di acqua persa per strada, di Campobasso col 65%, di Latina col 66%, ma pure di Trieste, a Palermo, a Catania, a Messina o a Cagliari dove si arriva ad un 40%. Casi in cui, temo, occorrerà un piano straordinario di investimenti. Secondo il geologo Mario Tozzi, i Km di rete idrica da rifare sono almeno 50.000 sui 291.000. Ma è una balla del centrodestra che i 60 miliardi ritenuti necessari per questo adeguamento possano (o meglio, potessero) metterceli soltanto i privati. In generale, come ha scritto di recente l’economista Marco Causi, deputato del Pd, “andrà scritta nuovamente la norma tariffaria, riportandola ai parametri del costo dell’investimento e della remunerazione della gestione industriale” evitando così gli extraprofitti. Lo stesso cantiere riformatore va esteso ad altri servizi lasciati da anni nel limbo, probabilmente per favorire così speculazioni ed ecomafie: per esempio nel campo strategico dei rifiuti urbani e del loro corretto smaltimento. Insomma, dopo questi referendum c’è tanto da proporre e da fare per rimediare alle pessime leggi e alle prolungate inerzie dei governi Berlusconi mascherate con quei commissariamenti straordinari che hanno prodotto la “cricca” con relative speculazioni a danno delle nostre tasche. Ma ci vuole, credo, un nuovo governo, davvero “responsabile”.
Acquedotti
Le Regioni più “virtuose”: Emilia-Romagna, Umbria e Marche perdono meno di 3.000 mc/ Km
La meno “virtuosa”: Campania perde quasi 25.000 mc/km
Dati Legambiente
Tariffe e consumi
Forli’ 1,29 euro/mc 130 litri/giorno abitante
Milano 0,47 euro/mc 280 litri/giorno abitante
Dati 2002 Federgasacqua
Pozzi illegali
Italia 1,5 milioni (300.000 solo in Puglia)
Spagna 510.000
Dati Wwf Italia
Tariffe acqua potabile e ciclo idrico completo*
(in euro/mc calcolate su consumi medi di 200 mc/anno)
Amburgo 1,8 4,2
Bruxelles 1,4 1,8
Barcellona 0,6 1,4
Bologna 0,7 1,3
Brescia 0,5 0,8
Roma 0,4 0,7
Milano 0,2 0,5
* Comprensivo di spese per depurazione, fognature, ecc.
Dati Federgasacqua da SMAT Torino
Classifica mondiale consumi di acqua minerale
(litri a testa/anno)
Emirati Arabi 260
Messico 205
Italia 194
Postilla
E ricordiamo anche quanta parte dello spreco dell’acqua dipende dalla cattiva pianificazione del territorio, e dalle briglie sciolte che sono state lasciate, attraverso deroghe, abusivismo, illeggittimità e altre forme di deregulation (=sregolatezza) nell’uso del suolo. Accanto alle colpe di quanti erano stati eletti per garantire il bene comune e difenderlo dalle mani rapaci dei poteri economici e hanno tradito, ci sono quelle di quanti hanno sostenuto – con le parole o le opere – l’abbandono dell’”urbanistica regolativa” e incoraggiato lo spontaneismo nell’uso del suolo.
Non sosterremo uno sviluppo astratto. Milano deve fare i conti con la realtà». Il nuovo assessore comunale all'Urbanistica, Lucia De Cesaris, al terzo piano di via Pirelli 39 si è subito messa al lavoro per risolvere la questione Pgt. Avvocato amministrativista, 51 anni, sa bene che gli operatori immobiliari attendono risposte certe sul destino del Piano di governo del territorio, approvato dalla giunta Moratti e in attesa di pubblicazione.
Ancora senza una scrivania (il predecessore, Carlo Masseroli, preferiva un tavolo per le riunioni), ha già incontrato il suo team di dirigenti: «Stiamo cercando di correggere alcuni errori che sono stati fatti. Entro la fine della settimana, dopo le verifiche di legittimità tecnica, comunicheremo la nostra scelta procedurale», spiega l'assessore, alla sua prima intervista dopo le elezioni. Dalla finestra può controllare di persona l'avanzamento del grande cantiere di Porta Nuova.
Crede ci sia stata una sovraprogrammazione edilizia negli ultimi anni a Milano?
Credo si sia un po' confusa la volontà di costruire una città moderna con la necessità di rapportarla alle esigenze reali dei cittadini e di chi la vive. Vediamo alcuni progetti, forse molto belli, ma che rischiano di rimanere in parte vuoti, per molto tempo. Stiamo costruendo case con valori inaccessibili ai cittadini medi. Amo la nuova architettura e le sfide urbanistiche, ma dobbiamo fare i conti con la realtà, e questa città si sta spopolando, proprio perchè per molti non è più accessibile. In giro per Milano si vedono una quantità di "Affittasi" che fa paura. Ci dobbiamo fermare un attimo e fare i conti con la crisi.
Parliamo del tanto discusso Pgt. Lo pubblicherete così com'è stato approvato?
In realtà quando abbiamo ricevuto la fiducia dei cittadini non vi erano ancora le condizioni per la sua pubblicazione. L'iter richiedeva ancora tutta una serie di sistemazioni e poi il passaggio procedurale in Regione. Ora l'amministrazione sta facendo alcune riflessioni: in accordo con gli uffici e la dirigenza vedremo se prima della pubblicazione è possibile apportare alcune correzioni. Non possiamo negarci che ci sono due ricorsi pendenti sul Pgt: se sarà possibile in qualche modo prevenirli faremmo un servizio all'amministrazione.
Pensate a una rivalutazione delle osservazioni?
Stiamo studiando la soluzione procedurale per fare in modo che questo piano venga approvato in modo legittimo, tendendo conto delle numerose osservazioni fatte e che non sono state valutate con la giusta attenzione. Rivalutando le osservazioni si potrebbero apportare alcune modifiche. Senza stravolgere il testo, il nostro interesse è arrivare comunque alla sua pubblicazione quanto prima.
Con questa procedura, però, non sono possibili modifiche sostanziali...
L'istituto delle osservazioni consente di riprendere in mano alcune problematiche e, comunque, di ricominciare un colloquio con la città. Sapendo che, poi, come accade in qualsiasi città moderna, dopo la pubblicazione del Pgt si aprirà un nuovo dibattito per migliorare ulteriormente le scelte territoriali. Gli operatori già lo sanno, perché la normativa prevede la modifica dell'indirizzo politico.
Doppio step, dunque: prima le osservazioni e poi, dopo la pubblicazione, inizierete a lavorare per una variante?
Quale sarà la mia scelta procedurale ancora non lo so. Forse, però, abbiamo trovato un iter possibile che consentirebbe di operare in modo ragionevole. Dobbiamo vedere se è possibile salvare questo piano, migliorandolo.
Cosa pensa di un superpiano integrativo, che detti delle priorità per i prossimi 5 anni?
Credo ci si possa lavorare. Anche perché noi abbiamo delle priorità. Dobbiamo risolvere il problema delle cittadelle universitarie, del rapporto con i servizi. Dobbiamo consolidare e preservare lo storico, ma dentro lo storico dobbiamo sostituire nel tempo ciò che non funziona e non è più operativo. Sicuramente dovremmo lavorare sulle priorità, stabiliremo insieme delle linee e degli obiettivi di intervento che consentiranno il miglioramento.
Intendete rimodulare gli indici edificatori?
Alcune cose effettivamente vanno sistemate. Spero addirittura di riuscire fin da ora a inserire delle misure che consentano il riequilibrio. Forse è possibile correggere anche lo strumento della perequazione in questa fase, dandogli dei riferimenti certi. Questo Pgt non verrà stravolto, ma corretto in base alle nuove linee programmatiche. Milano deve fare i conti con la difficoltà di assegnare alloggi nuovi e con la desertificazione di alcune parti della città. Su questo dobbiamo riflettere molto, introducendo poi elementi di qualità della vità, come un giusto rapporto tra l'abitato e il verde, e un giusto rapporto con i servizi.
Spesso ci indigniamo (e giustamente) quando nei campi fra un centro urbano e l’altro iniziano a sorgere fabbricati, strade, capannoni, che poi non vengono terminati, restano lì per anni coi cartelli VENDESI o AFFITTASI a scolorirsi al sole di troppe stagioni. Mentre la campagna e il paesaggio sono cancellati per sempre.
Beh, non siamo i soli, in Cina riescono a fare di molto peggio, almeno in quanto a dimensioni delle scatole vuote e dei territori inopinatamente occupati: appartamenti, uffici, commercio, c’è di tutto, in una surreale serie di immagini Google Earth raccolte dal sito Business Insider
Come ci hanno raccontato recentemente i giornali, la Brianza operosa sta operando a spron battuto anche per accogliere stuoli di nuovi immigrati. Stupiti? Certo, ma solo se per caso non avete ascoltato Bossi dal palco di Pontida ringhiare che da un momento all’altro caleranno su Monza impiegati ministeriali a più non posso. Caleranno a lavorare nelle fiammanti sedi che l’alacrità padana sta già predisponendo, anche se questo fa incazzare quei reazionari corporativi romani, tipo Napolitano, chi sarà mai. E caleranno anche a dormire da qualche parte, dopo il duro lavoro amministrativo (perché qui si lavora, mica sempre a bere il caffè come nella capitale corrotta).
Dove alloggiare gli auspicabili futuri impiegati di Trota Primo, quando a secessione avvenuta i loro ranghi fisiologicamente cresceranno ancora? La necessaria efficienza di questa soluzione alloggiativa di certo mal si concilia con una dispersione nei pur abbondantissimi alloggi sfitti e invenduti della città, o magari portando a termine certi cantieri lasciati lì da anni e anni. Non sia mai! Come pure enunciato dal Lider Maximo sul palco bergamasco, non è ancora il momento di troncare i rapporti con l’alleato tattico Berlusconi, e quale miglior suggello di alleanza del solido brick & mortar, di quella cosa che a tutti piace, che fa tirare sempre l’economia e tutto il resto? Ma si, il sacro metro cubo nuovo di zecca, su greenfield tonalità padana di proprietà adeguata.
La Cascinazza appunto, un bel triangolo verde, uno di quei cunei che abbondano là dove la crescita spontanea delle nostre vitali metropoli avviene dove è più conveniente, ovvero lungo le strade, e lascia quei bei fazzolettini liberi per gli investimenti di lungo termine di chi ha un respiro strategico, che guarda oltre. La famiglia Berlusconi guarda così oltre da aver addirittura venduto a prezzo di realizzo (così ci dice la stampa) quel terreno a un altro operatore, a patto di incassare il giusto prezzo una volta che sia fatta giustizia, ovvero che il piano regolatore ne riconosca il ruolo strategico per lo sviluppo urbano. Ruolo a lungo negato dai comunisti, sin da quando quell’oscuro burocrate, tale Luigi Piccinato, negli anni ’60 pur con una crescita stimata a 300.000 abitanti diceva che lì doveva starci un parco. Ma quale parco, al massimo uno di quei central park ideati nel terzo millennio dall’amministratore di condominio sindaco di Milano: tante, tantissime case, e poi un paesaggista californaino che ci disegna in mezzo eleganti panchine e aiuole.
Là il parco ci stava, oltre che per confermare l’ideologia totalitaria comunista, anche per via del fiume: lui, il fiume, quando piove esce dagli argini, e tecnicamente le aree che si bagnano in quel modo di solito non si costruiscono. Orrore! Ecco che per decreto il fiume non esonderà più, aiutato da grandi opere idrauliche, per ora solo sulla carta e di dubbia efficacia, ma solo per chi non ha fede. Per chi la fede ce l’ha, rigorosamente nella tasca interna della giacca, arriva anche la variante al piano regolatore. Di cui si allega di seguito l’estratto relativo agli Ambiti di Trasformazione strategici, in cui la Cascinazza occupa la ancor più simbolica e strategica posizione P4 (leggere per credere). Si rinvia appunto alla lettura diretta del documento, con un paio di premesse:
1) I Poli strategici sono tutti tematici tranne uno, la Cascinazza appunto. Vuol forse dire che gli altri hanno un senso funzionale, mentre il P4 ha senso assoluto, in sé e per sé?
2) Il central park impanato alla milanese qui assume anche ufficialmente (leggere per credere) una veste del tutto virtuale e ideologica, diventando “parco tematico”. Insomma basta con tutta questa storia del verde che aggiunge qualità all’ambiente urbano, roba da sinistra novecentesca di cui non sappiamo che fare. Meglio, molto meglio ispirarsi a Walt Disney, o a Gardaland, a Mirabilandia, è questo il tipo di parco, con comodo parcheggio, che piace ai sudditi del Trota Primo.
Insomma vedi allegato, notare e confermare che quel triangolo a sud a cavallo del fiume è una vera colmata, e speriamo davvero che la piena se li porti via, questi qui.
A Londra si accettano scommesse. Si farà davvero l'Expo a Milano nel 2015? Le quote di gioco cambieranno mercoledì prossimo, quando il segretario generale del Bie Vicente Lascertales sarà in Italia "per fare chiarezza", visto che in questi anni "si è fatta troppa confusione". Anni sì, perché dal 31 marzo del 2008, giorno in cui l'Italia si aggiudicò l'esposizione contro Smirne, nel generale tripudio, sono ormai passati quasi 1.200 giorni di scontri, ricatti, furbizie, lotte di potere. Regione contro Comune, Formigoni contro Moratti, Tremonti, scettico fin dall'inizio, contro tutti, restio ad aprire i cordoni della borsa dinanzi a una simile baraonda. E Berlusconi interessato soltanto a controllare, attraverso gli uomini disastrosamente delegati all'inizio della partita e rapidamente bruciati, l'utilità dell'Expo per i suoi interessi immobiliari in Lombardia. Sullo sfondo gli interessi monetari: prima ancora degli investimenti miliardari previsti, boccone ghiotto per la 'ndrangeta, il valore dei terreni su cui sorgeranno gli impianti dell'Expo, un milione di metri quadri, che frutteranno 50 milioni alla famiglia Cabassi e 120 alla Fondazione Fiera, oltre agli indici di edificabilità per il dopo.
Troppo poco o troppo, come ritiene il neo assessore della giunta Pisapia Stefano Boeri, che vorrebbe rivedere gli uni e gli altri ? Su questo aspetto è in atto una bella diatriba con l'amministratore delegato dell'Expo Giuseppe Sala. E il nuovo sindaco si trova già tra le mani un fuocherello che rischia di diventare un incendio per la giunta arancione, salutata come l'evento che cambierà l'intero destino politico dell'Italia liberandoci dopo tre lustri dal berlusconismo.
Per gli scommettitori sono suonate come campane a morto le parole del presidente della Commissione del Bie Steen Christensen: se non si perfeziona l'acquisto, chiudendo anche quello delle aree di alcuni piccoli proprietari, se non partono subito le gare e se non cominciano i lavori entro ottobre nei siti previsti, "se ne dovranno trarre le conseguenze". Una formula che si può tradurre: "Expo di Milano addio".
La grana è così acuta che il presidente della Lombardia Formigoni, la cui religione oltre a quella di Comunione e Liberazione è quella del potere, sta riflettendo se gli conviene prendere il ruolo di commissario al posto della dimissionaria Letizia Moratti o se la faccenda può trasformarsi in un boomerang per il suo sogno a occhi aperti: succedere a Berlusconi a palazzo Chigi. Tanto più che oltre alla questione dell'acquisto dei terreni, dei finanziamenti che Tremonti non vuole sganciare, delle gare e dell'inizio dei lavori tra poco più di novanta giorni, l'architetto Boeri, iniziale progettista, non ha mollato sulla sua idea iniziale di un "orto planetario" nel quale i paesi partecipanti dovrebbero coltivare dall'inizio alla fine dell'Expo i loro prodotti per esporli. Sala non ne vuol sapere, preferisce le future cementificazioni. Ma questa è una partita interna al centrosinistra che dovrà giocarsi tutta il sindaco arancione Giuliano Pisapia. Un altro prezioso indizio per gli scommettitori londinesi.
La sonante affermazione del quorum e dei sì nei quattro referendum di domenica scorsa, congiunta ai risultati delle ultime elezioni amministrative, costituisce senza ombra di dubbio la base di quel potenziale passaggio storico, al quale molti in passato avevano guardato e per cui avevano lavorato. In attesa di tornarci su per un'analisi più circostanziata, io mi sentirei di fare questa preliminare osservazione.
Tale affermazione è il frutto di diecimila rivoli diversi, che si sono congiunti quando l'occasione propizia si è presentata. Persino a determinare l'occasione propizia stessa avevano trovato una loro convergenza protagonisti diversi, non sempre in precedenza convergenti. Questa, fra le tante cose che non so o dico male, posso dirla con sufficiente certezza. Presiedo da diversi anni un'organizzazione ambientalista di base, la «Rete dei Comitati per la difesa del territorio», attiva soprattutto in Toscana, ma presente anche altrove. Ebbene, abbiamo combattuto in tale veste battaglie alla morte con le organizzazioni storiche della politica italiana, in particolare il Pd, a livello regionale, provinciale e municipale, per impedire scempi e abusi di ogni natura (ora va un po' meglio).
La stessa cosa si potrebbe dire, in molti casi a miglior ragione, per i Comitati per l'acqua e contro l'energia nucleare. E tuttavia su questo punto determinato le divergenze e persino gli scontri si sono fusi in una scelta unica. Potrebbe essere un buon monito per il futuro: a patto che nessuno si precipiti ora a mettere il cappello sul risultato referendario, come già troppe volte sta accadendo. Il risultato è entusiasmante, ma non è ancora una proposta politica unitaria né tanto meno un progetto di cambiamento. Le condizioni sono state poste dal popolo sovrano; ma per riempirle di contenuti e renderle effettuali e operative bisognerà lavorarci, e parecchio.
Più in generale è la questione della democrazia (criteri di funzionamento, valori, identità, sorprese positive ma anche, non dimentichiamolo, paurose regressioni) che viene in tal modo riproposta. Con opportuna sincronia - che non è difficile immaginare involontaria, ma non priva tuttavia di una sua logica relazione con lo spirito e i bisogni del tempo - è apparsa in questa settimane La felicità della democrazia, un «dialogo» fra Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky (Bari, Laterza, 2011), che, come dicono gli autori, ingenera molti «dubbi» ma definisce anche molte «certezze»: per esempio quella secondo cui è a questa forma di governo e di Stato che va affidato, nel bene e nel male, nell'adesione sincera come nella critica spietata (non è detto che i due atteggiamenti siano totalmente in contrasto fra loro), il destino delle presenti e delle future generazioni, almeno fin quando il nostro sguardo è in grado di spingersi.
Ne ha ragionato su queste colonne con la consueta acutezza Ida Dominijanni (« Democrazia, il nome e la cosa», il manifesto, 25 maggio 2011 ), in un'ampia recensione, di cui condivido tutto, anche le virgole. Io invece trarrò occasione da questo bel libro per alcune osservazioni aggiuntive, spero non del tutto fuori del quadro.
La prima è, direi, di ordine prevalentemente personale. È per una coincidenza, senza dubbio, che a me è accaduto di scrivere e pubblicare un miliardo di anni fa un saggio intitolato La felicità e la politica («Laboratorio politico», 1981; poi in La repubblica immaginaria, Milano, Mondadori, 1988). Questo potrebbe voler dire, mi pare, che il tema ha una lunga storia, strettamente legata, nel nostro paese, con la storia da noi tutt'altro che infrequente, delle crisi della democrazia. Nel 1981, infatti, ossia in tardissima era comunista, appena prima del crollo e dello sfracello del sistema, invocare scandalosamente la sintesi, - meglio, il connubio - fra felicità e politica significava spezzare una lancia contro le perduranti - e fino all'ultimo in quell'ambito prevalenti - tendenze ideologico-virtualistiche. Io ancoravo quell'ipotesi a una nozione di democrazia come «governo dei mediocri» (dei «mediocri», non dei «peggiori», come giustamente precisa Zagrebelsky), ossia di quelle «masse» talvolta operose ma talvolta anche depravate, da cui è sempre più difficile oggi far emergere le «élites» (un altro dei grandi problemi di una democrazia che sia in grado di autoriformarsi). Sicché si potrebbe chiudere questa specie di disgressione, osservando che la parola d'ordine, l'obiettivo, l'aura della felicità, invocati da Mauro e Zagrebelsky, servono a far emergere «individui» dalla «massa» (ma è chiaramente la stessa cosa), ossia, oltre che a trasmettere «benessere» a ricostituire in forma nuova delle «élites» (per esempio, i giovani ci provano in questa fase più di altri, e si capisce perché: ne va della loro sopravvivenza) e dunque a garantire «un governo non mediocre delle mediocrità» («come governare non mediocremente un sistema delle mediocrità»).
La seconda osservazione riguarda il rapporto fra democrazia e legalità, che attraversa ovviamente tutto il «dialogo» di Mauro e Zagrebelsky, ma senza soffermarcisi in modo particolare. È per me del tutto evidente che Silvio Berlusconi, e le forze che rappresentava, e ancora oggi nonostante tutto rappesenta, sono entrati come un corpo estraneo nel meccanismo, già per suo conto precario, della democrazia italiana, agendo catastroficamente sul versante delle regole («legalità») e al tempo stesso cercando di adattare prepotentemente - ma, è questa l'anomalia italiana, con il consenso di maggioranze parlamentari comunque acquisite - i meccanismi istituzionali del sistema («democrazia») alla sua sistematica, permanente, «costituzionale» vocazione all'illegalità.
Si poteva fare di più, le istituzioni, tutte le istituzioni, potevano fare di più per impedire che il Cavaliere continuasse a sguazzare così a lungo nel suo brodo d'illegalità e di corruzione? Sì, io penso di sì, ed è questo uno dei punti su cui varrebbe la pena di tornare a riflettere a mente un poco più distesa: poiché i risultati referendari sono stati felicemente (è proprio il caso di dirlo) acquisiti, ma l'emblema dell'illegalità è ancora al potere, e intende restarci.
Ne potrei concludere che in Italia la battaglia per la democrazia è sempre stata più robusta e vitale della battaglia per la legalità, soprattutto quando la legalità riguarda i potenti. Invece mi limito a chiedere agli esperti, che ancora non hanno risposto, se l'assenza d'iniziativa in questo specifico campo è una conseguenza della mancanza di regole ad hoc oppure di una lassitudine (atavica?) di costumi che lascia passare come trascurabili o inaccostabili fenomeni e comportamenti che altrove in Europa verrebbero invece considerati semplicemente come impensabili (e che infatti, osservati da lì, ci espongono a un dileggio quotidiano al di là dell'immaginabile).
A puro titolo di amplificazione problematica del discorso - e anche a puri fini di divertissement intellettuale - aggiungo che altri paesi europei, passati come noi attraverso esperienze devastanti, più prudentemente di noi hanno pensato bene di mettersi al riparo dai rischi che noi invece corriamo (che abbiamo corso?). Penso alla Germania: più precisamente alla sua Costituzione democratica (ringrazio l'amico Enrico Ganni, tedeschista della Casa editrice Einaudi, per le preziose suggestioni). L'art. 79, comma 3, di tale Costituzione prevede che i primi venti articoli della medesima (i «Grundrecht»: insomma, grosso modo, i nostri «Principi fondamentali») siano immodificabili. Chiaro? Immodificabili: immodificabili da qualsiasi maggioranza parlamentare e in qualsiasi situazione. La Costituzione tedesca è stata messa dunque come in una corazza. Ma non basta. Fra i venti articoli ce n'è uno, forse non a caso proprio l'art. 20, che sembrerebbe fatto proprio al caso nostro (o al caso mio?): in esso, infatti, dopo aver definito la natura fondamentale della Repubblica tedesca («uno Stato federale, democratico e sociale») si enuncia il cosiddetto «diritto di resistenza». «Tutti i Tedeschi hanno diritto di resistere a chiunque tenti di rovesciare questo ordinamento, qualora non vi sia altro rimedio possibile». Chiaro anche questo? «Tutti i Tedeschi», «qualora non vi sia altro rimedio possibile».
Naturalmente non ci si può richiamare alla Costituzione di un altro paese per tutelare la legalità e la democrazia del proprio. E neanche sfuggono gli elementi di rischio potenziale che la norma contiene nei confronti di minoranze o di dissidenti. E però il richiamo ai «Grundrechte» della Costituzione tedesca può consentirci di tornare all'inizio del nostro discorso, e cioè, appunto, alla tutela su tutti i versanti, della nostra democrazia. La domanda è: qual è il limite, dov'è il limite, oltre il quale la «resistenza» all'arbitrio diviene legale, e in quali forme?
La democrazia italiana non è in grado di tollerare che il Governo del Capo illegalitario continui ancora: ogni giorno che passa sprofondiamo di più nella melma. Sarebbe bello - e felice - che a toglierlo rapidamente di mezzo concorressero ora insieme gli strumenti della democrazia rappresentativa e l'esercizio risoluto della legalità repubblicana. Sarebbe in ogni senso una buona «fin de partie».
Ci sono tanti luoghi ai quali l´osservatore delle cose italiane dovrebbe guardare in questi giorni: Milano e Napoli, per esempio, ma anche le piazze finanziarie e le capitali europee dove si affrontano i problemi del debito italiano e si dettano le regole che dovranno governare la nostra economia. Ma il luogo sul quale oggi si concentra l´attenzione dell´informazione politica è un piccolo comune in provincia di Bergamo con un nome che risvegliava un tempo solo gli echi scolastici di una brutta poesia di Guglielmo Berchet: Pontida.
È dal raduno annuale della Lega, con elmi e spadoni di un Medioevo di carta, che si attende una risposta importante. Intanto i gruppi dirigenti dei partiti, ben lungi dal seguire il saggio consiglio del Presidente Napolitano di cercare di «ritrovarsi uniti su grandi obiettivi comuni», sembrano uniti solo nello star fermi - uno spasmodico "surplace" in attesa che sia l´altro a fare la prima mossa. Così si è creata una speciale atmosfera di attesa della parola del Bossi: già, perché a parlare sarà solo lui. Alla sua parola il compito di ricreare quell´unione mistica tra il capo e un popolo che - a detta dei dirigenti della Lega - ha pur dato di recente ai suoi capi una sberla clamorosa. Dal verbo di Pontida è dunque lecito attendersi un segnale di svolta. Intanto qualcosa di nuovo c´è pur stato: di nuovo, anzi d´antico. Parliamo delle misure recenti prese a caldo dal ministro Maroni, l´uomo forte della Lega, il vero candidato a gestire un possibile governo di fine legislatura col benestare dell´azzoppato Berlusconi. Recano il suo sigillo personale. Un decreto fulminato a tambur battente ha triplicato d´un sol colpo, da sei mesi a diciotto, il periodo di detenzione dei clandestini nei Cie e ha introdotto una durissima procedura per i "respingimenti".
Torneremo su questa parola. Ma intanto segnaliamo anche la proposta del ministro per la politica internazionale: in una intervista del 17 giugno Maroni ha chiesto che la Nato schieri le sue navi davanti alle coste libiche per impedire la partenza di profughi. Non sembra molto realistico agitare lo spettro dell´invasione di masse libiche in un paese dove alla data del 17 maggio scorso secondo l´alto commissario Onu per i rifugiati erano arrivate dalla Libia circa 14.000 persone in tutto. Quanto al decreto contro gli immigrati, si tratta di una misura di una durezza terrificante ma del tutto irrealistica. Intanto è basata su premesse false. Non è vero, come ha dichiarato il ministro dell´Interno, che il decreto è «coerente con le norme dell´Unione europea»: la direttiva europea sui rimpatri chiedeva gradualità nel percorso di rimpatrio dell´immigrato irregolare. Invece il decreto impone una espulsione immediata e colpisce chi non ottempera al primo ordine di espulsione con la galera da uno a quattro anni (da uno a cinque per i recidivi). Senza contare le sanzioni in danaro: l´immigrato irregolare dovrebbe pagare da tremila a diciottomila euro.
Pura irrealtà per l´economia degli immigrati: ma anche per il ministro. Lo dimostra il fatto che tutta la procedura dovrebbe passare attraverso il giudice di pace. Secondo l´avvocato Livio Cancelliere dell´Asgi (associazione studi giuridici sulle immigrazioni) nessun giudice di pace applicherà mai queste sanzioni. Dunque, si tratta solo di propaganda pre-Pontida.
Ma proviamo a leggere queste norme con lo sguardo dei disperati: quella parola "respingimento" è una bestemmia, come hanno ben compreso per primi molti commentatori del mondo cattolico, concordi nel condannarlo senza esitazione. È la cancellazione brutale di una tradizione antichissima ancora viva nelle nostre culture, quella che vedeva nell´esule, nel supplice una figura sacra agli dèi. Oggi "respingimento" significa essere ributtati nell´inferno senza che nessuno ti chieda se sei un perseguitato politico o religioso o se lo diventerai una volta respinto. Intanto, gli "irregolari" chiusi nei Cie penseranno a quel che li aspetta là dove saranno rimandati. Conosciamo i loro pensieri: saranno come quelli di Nabruka Mimuni, l´immigrata quarantenne da trent´anni in Italia (ma non italiana per la legge) che circa due anni fa si uccise impiccandosi nel Cie di Ponte Galeria a Roma.
Dunque, niente di più vecchio di queste novità: è ancora l´antica politica della paura. Colpire l´immigrazione, trattare il clandestino come un delinquente, vuol dire riproporre al Paese la ricetta usata finora per farne salire la febbre xenofoba. Per un po´ questa ricetta ha funzionato. Ma la massa di cittadini che ha riempito le piazze e si è messa ordinatamente in fila davanti ai seggi del referendum ha mandato un segno molto chiaro: le cose sono cambiate, il Paese sta guarendo. Ci vogliono paraocchi speciali per non vederlo. Le risposte plebiscitarie alle quattro domande hanno inviato ai governanti una richiesta di diritti e di solidarietà, contro l´appropriazione privatistica dei beni comuni, contro l´impunità per i potenti, contro scelte che mettono a rischio l´ambiente e il futuro delle giovani generazioni. E anche questo è stato, a suo modo, un "respingimento".
la Repubblica ed. Milano
Via al cemento sulla Cascinazza per Berlusconi affare da 60 milioni
di Gabriele Cereda
Un quartiere residenziale, insediamenti direzionali e commerciali per un totale di 420mila metri cubi su 120mila metri quadrati. È il futuro della Cascinazza, la più grande area ancora verde di Monza, vecchio pallino immobiliare di Berlusconi che meno di quattro anni fa ha ceduto la proprietà a Brioschi sviluppo Immobiliare e Axioma Real Estate.
Il consiglio comunale, guidato dall’accoppiata Lega-Pdl, seppur con qualche mal di pancia, ha bocciato l’emendamento del centrosinistra che mirava alla conservazione dell’area agricola. Ora il via libera alla colata di cemento è definitivo. Varato dal ministro dello Sviluppo Paolo Romani, plenipotenziario del premier in città, fino a un anno e mezzo fa regista dell’operazione nella veste di assessore all’Urbanistica monzese, il piano del governo del territorio ora marcia verso l’approvazione. Un affare anche per la vecchia proprietà, la Istedin di Paolo Berlusconi, che aveva ceduto i terreni per 40 milioni di euro. Nell’ottobre del 2007, nell’atto di compravendita venne inserita una clausola: nel caso in cui la zona fossa stata resa edificabile la vecchia proprietà avrebbe ricevuto altri 60 milioni.
«Sulla Cascinazza il sindaco Mariani, l’assessore-ministro Romani e tutta la destra hanno gettato la maschera dando il via libera ad uno scempio che cancellerà una zona di pregio e di esondazione del Lambro» dice Roberto Scanagatti, capogruppo del Pd a Monza. Bastano due gocce d’acqua e l’area, circondata dal fiume Lambro e dal Lambretto, finisce a mollo; lo dice il Pai, il piano di assetto idrogeologico della Regione Lombardia.
Un inconveniente "cancellato" nel 2004, durante il Berlusconi ter, quando il consiglio dei ministri approvò la progettazione di un canale scolmatore: 168 milioni di euro per tagliare in due la città, a partire dal Parco. «Non finisce qui - annuncia il capogruppo del Pd - utilizzeremo tutti gli strumenti amministrativi per salvare una delle aree più belle di Monza». Non è d’accordo il sindaco leghista Marco Mariani: «Adesso quella è una zona inutilizzata, con questo intervento la restituiremo ai cittadini. E bisogna sottolineare che accanto agli edifici verranno lasciati 330mila metri quadri di verde»
Vorrei, rivista online di Monza
Mariani paga la cambiale? 400.000 metri cubi di cemento sulla Cascinazza
Quando si candidò, nel 2007, con una campagna faraonica molti individuarono lo "sponsor" nella proprietà dell'area agricola a sud est di Monza. Giovedì 16 giugno 2011 il Consiglio comunale ha respinto un emendamento della minoranza e per la prima volta nella storia, per colpa della Giunta Mariani, arriverà una valanga di cemento sulla più grande area agricola della città
Giovedì sera quando Roberto Sacanagatti e Michele Fagliahanno presentato l’emendamento cherichiedeva di ripristinare la Cascinazza come area agricola. Si è andati al voto per chiamata nominale, in aula e fra i cittadini presenti è calato un silenzio d’attesa.
Per 22 voti contro l’emendamento e 15 a favore, dopo 50 anni la principale area verde della città è stata occupata, cementificata e svenduta.
Il paradosso politico è che i 2 voti che hanno determinato la differenza al numero legale, sono di due consiglieri (Dalla Muta e Boscarino) eletti nella Lista Città Persone della minoranza, mentre con Pd, Sel e Città Persone, coraggioso il voto di sostegno del Fli e incomprensibile la “fuga” dall’aula di “ambientalisti” dell’ultima ora di Forza Lombarda (Brioschi e Scotti) che non erano presenti al voto.
È bene ricordare cosa significa questa scelta: più di400 mila metri cubi di edificazione residenzialee aservizi dopo che ai tempi lo stesso Mariani con il Piano Benevolo prevedeva per l’area il parco di cinturaurbana (una voltafaccia da ricordare quella degli sbiaditi verdi padani) un affare che vale oltre 60milioni di euri.
Un voto in aula che paga così la cambiale elettorale del 2007.
Una cambiale pagata, in una situazione proprietaria non chiara e che dopo il pronunciamento del Consiglio di Stato contro i privati ricorrenti, dava la possibilità all’Amministrazione pubblica di dettare le regole e le tutele necessarie per quest’area agricola..
Una operazione che in nome dell’Expo smentisce nettamente gli obiettivi dell’Expo stesso:ambiente e alimentazione! Un affare che ha un mandante con nome e un cognome: l’attuale Ministro Paolo Romani regista sin dal 2007 di questa interessata operazione
Le timide repliche dell’Assessore Clerici agli intereventi argomentati di Scanagatti e Faglia si sono centrate (come per il resto della variante) sulla risibile e falsa motivazione che “tanto se va bene, se ne farà il 20% di quanto previsto”.
Ma chi si vuole prendere in giro?Se è vero che questa variante, per la sua quasi interezza sembra stata fatta solo per giustificare il principale obiettivo: la Cascinazza; è altrettanto vero che una volte assegnate, aree di questo valore permetteranno alla speculazioni finanziarie ed ediliziedevastanti per l’economia e per la mancata tutela ambientale monzese.
Nelle prossime serate Partito democratico e Lista Città Persone, resteranno ancora “in trincea” nel presentare le decine di emendamenti presentati sulla Cascinazza, per cercare almeno di ridurre il danno; ma il danno (gravissimo) il centrodestra con la scelta di ieri sera è stato fatto.
A pagare il prezzo sarà l’intera città e i cittadini che sono chiamati a far buona memoria di tali devastanti scelte; tra un anno infatti… giusto di questi tempi si andrà al voto!
Nota: su questo sito la vicenda è stata ampiamente documentata in tutta la sua evoluzione, basta cercare " Cascinazza" nel motore di ricerca interno
Tutto è cominciato poco più di un anno fa, quando la raccolta delle sottoscrizioni per i referendum sull´acqua come bene comune s´impennò fino a raggiungere il picco di un milione e quattrocentomila firme, record nella storia referendaria. Pochi si accorsero di quel che stava accadendo. Molti liquidarono quel fatto come una bizzarria di qualche professore e di uno di quei gruppi di "agitatori" che periodicamente compaiono sulla scena pubblica. O lo considerarono come un inciampo, un fastidio di cui bisognava liberarsi. Basta dare un´occhiata ai giornali di quei mesi.
E invece stava succedendo qualcosa di nuovo. Il travolgente successo nella raccolta delle firme era certamente il frutto di un lavoro da tempo cominciato da alcuni gruppi. In quel momento, però, incontrava una società che cambiava nel profondo, dove l´antipolitica cominciava a rovesciarsi in una rinnovata attenzione per la politica, per un´altra politica. Ai referendum sull´acqua si affiancarono quelli sul nucleare e sul legittimo impedimento. Nasceva così un´altra agenda politica, alla quale, di nuovo, non veniva riservata l´attenzione necessaria.
Mentre i referendari lavoravano per blindare giuridicamente i quesiti e farli dichiarare ammissibili dalla Corte costituzionale, le dinamiche sociali trovavano le loro strade, anzi le loro piazze. Sì, le piazze, perché tra l´autunno e l´inverno questi sono stati i luoghi dove i cittadini hanno ritrovato la loro voce e la loro presenza collettiva. Le donne, le ragazze e i ragazzi, i precari, i lavoratori, il mondo della scuola e della cultura hanno creato una lunga catena che univa luoghi diversi, che si distendeva nel tempo, che faceva crescere consenso sociale intorno a temi veri, nei quali si riconosceva un numero sempre maggiore di persone - il lavoro, la conoscenza, i beni comuni, i diritti fondamentali, la dignità di tutti, il rifiuto del mondo ridotto a merce.
Le piazze italiane prima di quelle che simboleggiano il cambiamento nel nord dell´Africa? Le reti sociali, Facebook e Twitter come motori delle mobilitazioni anche in Italia? Proprio questo è avvenuto, segno evidente di un rinnovamento dei modi della politica che non può essere inteso con le categorie tradizionali, che sfida le oligarchie, che rende inservibile la discussione da talk show televisivo. Forse è frettoloso parlare di un nuovo soggetto politico per una realtà frastagliata e mobile. Ma siamo sicuramente al di là di quei "ceti medi riflessivi" che segnarono un´altra stagione della società civile. Di fronte a noi sta un movimento che si dirama in tutta la società, prensile, capace di costruire una agenda politica e di imporla
Mentre tutto questo avveniva, le incomprensioni rimanevano tenaci. Patetici ci appaiono oggi i virtuosi appelli contro il "movimentismo", provenienti anche da persone e ambienti dell´opposizione, che oggi dovrebbe riflettere seriamente sulla realtà rivelata dalle elezioni amministrative e dai referendum invece di insistere nella ricerca di categorie astratte - il centro, i moderati. E se la maggioranza vuol cercare le radici della sua sconfitta, deve cercarle proprio nell´incapacità totale d´intendere il cambiamento, con un Presidente del consiglio che ci parlava di piazze piene di fannulloni, una ministra dell´Istruzione che non ha incontrato neppure uno studente, una maggioranza che pensava di domare il nuovo con la prepotente disinformazione del sistema televisivo.
Guardiamo alle novità, allora, e alle prospettive e ai problemi che abbiamo di fronte. Il voto di domenica e lunedì ha restituito agli italiani un istituto fondamentale della democrazia - il referendum, appunto. Ma ci dice anche che bisogna eliminare due anomalie che continuano a inquinarne il funzionamento. È indispensabile riscrivere la demagogica legge sul voto degli italiani all´estero, fonte di distorsioni, se non di vere e proprie manipolazione. È indispensabile ridurre almeno il quorum per la validità dei referendum. Pensato come strumento per evitare che l´abrogazione delle leggi finisse nelle mani di minoranze non rappresentative, il quorum ha finito con il divenire il mezzo attraverso il quale si cerca di utilizzare l´astensione per negare il diritto dei cittadini di agire come "legislatore negativo". Si svilisce così anche la virtù del referendum come promotore di discussione democratica su grandi questioni di interesse comune.
Ma il punto cruciale è rappresentato dal fatto che ai cittadini è stato chiesto di esprimersi su temi veri, che liberano la politica dallo sguardo corto, dal brevissimo periodo, e la obbligano finalmente a fare i conti con il futuro, con una idea di società, con il rinnovamento delle stesse categorie culturali. Un´altra agenda politica, dunque, che dà evidenza all´importanza dei principi, al rapporto nuovo e diverso tra le persone e il mondo che le circonda, all´uso dei beni necessari a garantire i diritti fondamentali di ognuno. La regressione culturale sembra arrestata, il risultati delle amministrative e dei referendum ci dicono che un´altra cultura politica è possibile.
Il voto sul nucleare non ipoteca negativamente il futuro dell´Italia. Al contrario, impone finalmente una seria discussione sul piano energetico, fino a ieri elusa proprio attraverso la cortina fumogena del ritorno alla costruzione di centrali nucleari. Il voto sul legittimo impedimento ci parla di legalità e di eguaglianza, esattamente il contrario della pratica politica di questi anni, fondata sul privilegio e il rifiuto delle regole. Il voto sull´acqua porta anche in Italia un tema che percorre l´intero mondo, quello dei beni comuni, e così parla di un´altra idea di "pubblico". Proprio intorno a quest´ultimo referendum si è registrato il massimo di disinformazione e di malafede. Si è ignorato quel che da decenni la cultura giuridica e quella economica mettono in evidenza, e cioè che la qualificazione di un bene come pubblico o privato non dipende dall´etichetta che gli viene appiccicata, ma da chi esercita il vero potere di gestione. Si sono imbrogliate le carte per quanto riguarda la gestione economica del bene, identificandola con il profitto. Si sono ignorate le dinamiche del controllo diffuso, garanzia contro pratiche clientelari, che possono essere sventate proprio dalla presenza dei nuovi soggetti collettivi emersi in questa fase.
Quell´agenda politica deve ora essere attuata ed integrata. È tempo di mettere mano ad una radicale riforma dei beni pubblici, per la quale già esistono in Parlamento proposte di legge. E bisogna guardare ad altre piazze. Quelle che affrontano il tema del lavoro partendo dal reddito universale di base. Quelle che ricordano che le persone omosessuale attendono almeno il riconoscimento delle loro unioni: un diritto fondamentale affermato nel 2009 dalla Corte costituzionale e che un Parlamento distratto e inadempiente non ha ancora tradotto in legge, com´è suo dovere.
La fuga dai referendum non è riuscita. Guai se, dopo un risultato così straordinario, qualcuno pensasse ad una fuga dai compiti e dalle responsabilità che milioni di elettori hanno indicato con assoluta chiarezza.
Il vento che ci ha portato all'esito delle elezioni amministrative e dei referendum continuerà a soffiare; bisogna cominciare a fare i conti con i problemi che ci troveremo di fronte a breve. A cominciare dai problemi economici. C'è ancora qualcuno che crede che la Grecia possa ripagare il suo debito (in gran parte nelle mani di banche francesi, tedesche e inglesi e ora anche della Bce) o anche solo rinegoziarlo a tassi accettabili mentre le politiche che le impone l'Unione Europea annientano qualsiasi possibilità di ripresa?
O c'è ancora qualcuno che crede che alla lunga possano sottrarsi a una sorte analoga gli altri paesi europei che si trovano più o meno nella stessa posizione della Grecia, a meno di una revisione radicale del "patto di stabilità"? E c'è ancora qualcuno che pensa che in un contesto simile l'economia italiana possa tornare a crescere, realizzando un avanzo primario sufficiente a riportare il suo debito al 60 per cento del Pil? E poi, di che crescita stiamo parlando? Di una crescita del Pil, cioè contabile, per soddisfare le società di rating, interamente controllate dai big della finanza internazionale.
Quella stessa finanza che - dopo aver mandato in rovina milioni di clienti irretiti da mutui fasulli, di risparmiatori ingannati da titoli di carta straccia, di imprese rimaste senza credito perché le banche continuano a investire sui derivati - sta ora scommettendo sul fallimento di quegli Stati che si sono svenati per salvarla, svenando a loro volta i propri cittadini.
E ancora, è forse possibile affrontare temi di ampio respiro - come il dibattito sul reddito di cittadinanza (su cui si appena svolto a Roma un incontro promosso dal Basic Income Network); o il finanziamento di scuola, università e ricerca; o un piano nazionale di lavori pubblici finalizzato alla manutenzione del territorio, degli edifici pubblici e di quelli dismessi (e non alle "grandi opere"), e molte altre cose ancora - ipotizzando un semplice spostamento da una posta di bilancio a un'altra di fondi in gran parte "virtuali", cioè inesistenti, e senza venir meno al patto di stabilità dell'Unione Europea (quello di cui si fa forte, e che rende forte, Tremonti)?
Il dibattito sul ritorno alla crescita, imperativo categorico di tutto l'establishment economico, politico e sindacale del paese - ma anche del resto del mondo - e che ha coinvolto anche, su questo giornale, Valentino Parlato e Pierluigi Ciocca, lascia perplessi.
Si parla, certo con approcci differenti e anche contrapposti, delle condizioni perché l'economia italiana torni a crescere: in due tempi, secondo alcuni; perché senza tagli di bilancio e "conti in ordine" non può esserci ripresa; con più ricerca, più investimenti, più occupazione, secondo altri; perché questa è la premessa per poter salvare i conti pubblici. Ma di quale ricerca, quali investimenti, quale occupazione, cioè di quale "crescita" non si parla mai.
Non sono un fautore della decrescita. Trovo questo concetto povero di contenuti; inutilizzabile, se non impresentabile, nelle situazioni di crisi (quando a essere messi in forse sono redditi e posti di lavoro); ambiguo (in quanto speculare, anche se opposto, a quanto ci viene proposto dagli economisti mainstream). Non credo che le otto "R" di Latouche (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) apportino al dibattito politico molto più di un chiarimento concettuale. Però, quando si scende - se mai si scende - sulle cose da fare o proporre è molto più facile ritrovarsi d'accordo al di là delle formulazioni dottrinarie. Ma questa diffidenza non significa certo accettazione del diktat della crescita.
Il problema è individuare prospettive e proposte praticabili secondo il principio "pensare globalmente e agire localmente"; dunque, in contesti in cui è possibile raccogliere le forze intorno a obiettivi condivisi. La campagna referendaria contro la privatizzazione dell'acqua, con tutti i significati di cui si è caricata nel corso del suo svolgimento, è l'esempio di un agire che da modeste dimensioni ha assunto un respiro generale. La costruzione di un Gas (gruppo di acquisto solidale) è l'esempio di una prassi che ha un valore paradigmatico, anche se effetti ancora circoscritti. In ogni caso, la "crescita" (un concetto largamente screditato: lo ricordo a Valentino Parlato) non può essere un obiettivo; e nemmeno lo "sviluppo"; lo è il governo o, meglio, l'autogoverno dei processi economici. La conversione ambientale (ecologica, diversificata, diffusa, solidale, partecipata, sostenuta dai saperi della cittadinanza attiva)nei settori decisivi dell'efficienza e dell'approvvigionamento energetico, dell'uso razionale delle risorse - di cui la gestione dei rifiuti è solo l'ultima fase - dell'agricoltura e dell'alimentazione, della gestione del territorio, edificato e non, dell'educazione e della ricerca, è una prima approssimazione al concetto di autogoverno. E qui ci si ferma; perché per le sue caratteristiche di processo che nasce dal basso e, pur armato di buone pratiche e dei saperi che scienza, cultura e tecnologia mettono a nostra disposizione, la conversione ecologica ha bisogno in ogni luogo della partecipazione e concorso degli organismi attraverso cui si esprime la cittadinanza attiva. Per questo ogni sua ulteriore definizione è in gran parte rimandata ai processi di auto organizzazione e di autogoverno.
Tuttavia, mano a mano che i processi molecolari si concretizzano, unificano e rafforzano, i movimenti vengono a confronto ed entrano in conflitto con il potere della finanza internazionale e dei governi che ne sono mandatari a livello statuale. La prima posta in gioco di questo confronto è il bilancio degli Stati. E lungo questo percorso, la strada della bancarotta della finanza statale, a meno di una revisione radicale del patto di stabilità, sembra essere una tappa obbligata. Si tratta solo di vedere chi e come la gestirà. Prendiamo la Grecia. Prima o poi farà default. Chi lo nega lo fa per scaramanzia; ma è come nascondere la testa sotto la sabbia. Il problema è se a questo passaggio obbligato si arriverà dopo aver spolpato lavoratori e popolo di tutto quello che hanno conquistato nel corso del secolo scorso, e dopo aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile (porti, utility, servizi pubblici, acqua, edifici, isole, spiagge,magari anche il Partenone); oppure se la dichiarazione di insolvibilità arriverà prima delle svendite, perché la mobilitazione popolare – e il timore della sua moltiplicazione in molti altri paesi - avrà imposto al governo greco o all'Unione europea un cambio di rotta. Il che ci ricollega alla mobilitazione in corso in Spagna, a un referente nelle rivolte dei popoli del Maghreb e del Medio Oriente e, finalmente, anche un po' al vento che ha preso a soffiare in Italia.
E da noi? Qualcuno ha cominciato a pensare come si governa l'economia di un paese insolvente? Magari in compagnia di altri paesi insolventi? Forse non è una prospettiva immediata, ma nemmeno una mera ipotesi di scuola; e meriterebbe qualche attenzione in più. Gli economisti che possono farlo non mancano. Gli esempi a cui rifarsi, nemmeno. L'ultimo in ordine di tempo è l'Argentina, che non ne è neanche uscita tanto male; anche grazie al fatto che lavoratori e comunità hanno presso in mano il destino di molte aziende altrimenti condannate alla chiusura.
Ma il secondo dopoguerra (quello del 1945) è ricco di Stati insolventi, e l'Italia è uno di questi. Il caso più interessante è forse la Germania, dove oltre al debito pubblico era stato azzerato anche il valore della moneta, distribuendo a tutti una piccola somma per "ripartire". Non che si debba ripercorrere strade già tracciate; oggi c'è l'euro e prima di affossarlo è probabile che si renda irrinunciabile l'azzeramento del patto di stabilità. Comunque, una maggiore apertura di spirito nel prospettare gli scenari di domani non farebbe male.
Il vento sta cambiando e bisogna attrezzarsi e mettersi al passo. Cambiare il mondo si può. Quando gli Stati Uniti sono entrati nella seconda guerra mondiale, in pochi mesi hanno convertito l'intero loro apparato produttivo (il più potente del mondo) per fare fronte alle esigenze della produzione bellica. Poi lo hanno di nuovo convertito (in poco tempo, e solo parzialmente) per fare fronte alle aspettative della pace. Oggi siamo in guerra contro una minaccia altrettanto se non più mortale: quella dei cambiamenti climatici. Molti governi - tra cui il nostro - non se ne curano affatto; quelli che se ne curano lo fanno in misura insufficiente. Ma la resa dei conti sta per arrivare e chi si sarà attrezzato per tempo si troverà meglio; o meno peggio. Ma una conversione ecologica del sistema produttivo e dei modelli di consumo dominanti non può avvenire senza liberarsi anche dalla cappa che la finanza internazionale ha steso sull'economia mondiale e sulla vita di tutti.
Soffia forte il vento ecologico nelle vele delle città italiane, rinforzato dai risultati dei Referendum. A Firenze il giovane sindaco rottamatore Matteo Renzi dopo aver pedonalizzato nell’ottobre 2009, fra parecchie polemiche, piazza Duomo dove passavano 1.850 bus al giorno, annuncia una nuova rivoluzione che con perfetto senso del marketing farà partire il 24 giugno, giorno di San Giovanni, patrono della città. Pedonalizzazione di tre aree, Piazza Pitti, via Tornabuoni e via Por Santa Maria, cancellando le auto da un’area di tre ettari e mezzo.
E a chi si lamenta per un centro solo a misura di turisti, e vorrebbe subito una rete di trasporti efficiente, potrà rispondere, senza paura di far la fine di Maria Antonietta, «il centro non è grande, intanto che ricomincino ad andare a piedi, a camminare e a pedalare» . E per essere chiaro scommette sulla fase tre dell’operazione: raddoppiare le piste ciclabili da 60 a 120, bloccare l’attraversamento della città da Ovest ad Est espellendo dal traffico cittadino 6 mila motorini e 3.400 auto. Lo spirito che percorre le amministrazioni italiane fa pensare a una possibile rivoluzione copernicana che faccia rifiatare gli intricati centri storici e riporti al centro della scena l’uomo, protagonista negletto e piegato da anni di subalternità alla macchina e ai miasmi che ne derivano.
È l’offensiva del pedone, che vede rivalutata la sua presenza, dopo esser stato obbligato, nella giungla cittadina, a camminare accostato ai muri per dribblare le auto sui marciapiedi, a respirare gas venefici, a schivare ruote di motorini. Costretto ultimamente addirittura a combattere una guerra dei poveri e quasi fratricida con i ciclisti che, anche loro incattiviti dai percorsi di guerra cittadini, sono diventati una nuova minaccia sfrecciando sui marciapiedi a danno della ruota più debole della catena, il solito pedone.
Due mesi fa sul Corriere.it nel Blog la 27esima ora ho scritto un Post dedicato al calpestato Orgoglio di chi cammina in città (Io, pedone, dico ai ciclisti: Siate meno arroganti!), in cui raccontavo le disavventure capitate a me e ad altri nel traffico cittadino invocando più educazione civica per tutti, articolo subito sommerso da commenti appassionati e molto civili ma polarizzati sulle accuse incrociate delle due schiere: pedoni che reclamavano le targhe per i velocipedi, e ciclisti che reclamavano le piste a loro riservate.
«Nelle città storiche il pedone deve stare a suo agio, deve poter trovare momenti di convivialità, anche di contemplazione del tanto bello che c’è. Da quando c’è l’area pedonalizzata a Firenze ho riscoperto, direi meglio "rivisto", la bellezza dell’abside di Santa Maria del Fiore. La città storica deve essere a misura d’uomo e anche la bici si deve adeguare, non può essere arrogante» dice Pier Luigi Cervellati, urbanista di lungo corso che è stato anche assessore al Comune di Bologna. Proprio a Bologna intanto anche il neo-sindaco Virginio Merola manda segnali ecologici. La prima delibera della nuova giunta è stata quella di eliminare 291 permessi di parcheggio a Palazzo d’Accursio, sede del Comune: piccoli privilegi «professionali» concessi ai consiglieri e ai giornalisti.
E Merola annuncia una macro-pedonalizzazione della cinta del Mille, la parte di centro che comprende anche le Due Torri chiusa entro le mura dell’anno Mille, e la revisione dei 75 mila pass concessi per entrare nell’area più ampia entro le mura medievali, già da tempo a traffico limitato. Più ondivaga ma sempre piena di buona volontà ecologica anche la giunta genovese che ha deciso di mettere mano a un’arteria nevralgica e delicata come quella di via Venti Settembre. In un primo tempo si è ispirata a Barcellona e ha aperto un canale verde al centro della strada per i pedoni, tappeto erboso per terra e due file di alberetti, lasciando i bus ai lati. Una specie di rambla, nelle intenzioni che però, date le dimensioni dell’arteria genovese, è stata subito ribattezzata «rambletta» .
Un po’ per l’ironia dei cittadini, un po’ per le proteste dei commercianti che vedevano i clienti passeggiare troppo lontano dai loro negozi, la giunta ha virato così verso un altro progetto, Boulevard, marciapiedi amplissimi ai lati e bus che scorrono al centro, ora allo studio. Stessi spiriti post-referendari a Milano dove si discute se pigiare l’acceleratore dell’Ecopass o quello delle isole pedonali. «La verità è che noi abbiamo stressato il modello centro-periferia invece di puntare su quello di un centro più tanti quartieri con anima e attrezzature autonome» analizza Cervellati di ritorno da Tokyo «modello virtuoso e contemporaneo, poche auto, sistema metropolitano fantastico, spazi larghi per bici e pedoni» . E conclude che non è questione di destra/sinistra, ma «di saper pianificare per il bene pubblico» . Impervio, ma chissà.
postilla
A quanto pare la mitica assessorile travolgente “misura d’uomo” colpisce ancora: tanta buona volontà e intenzioni rovesciate su ottimi progetti che rischiano di rivelarsi però controproducenti (e oggetto di motivate feroci critiche da parte non solo di lobbies ecc.) se non si tocca contemporaneamente la rete entro cui gi ambiti tanto gelosamente custoditi si inseriscono. È assolutamente vero che la città storica monumentale si costruisce su spazi che fanno a pugni, funzionalmente e percettivamente, con ogni forma di mobilità diversa da quella pedonale. È anche assolutamente vero, però, che in tutti i secoli in cui si sono accumulati e integrati, quegli spazi non erano circondati, diciamo per un raggio di qualche chilometro (diciamo, ragionevolmente, senza esagerare), da spazi, reti e aspettative del tutto diversi. Non si può per decreto trasformare né l’abitante né l’operatore né il city user del terzo millennio in un mitico viandante , magari consegnandogli all’ingresso dell’area contrassegnata un costume storico da indossare per l’occasione… No?
Dunque, contemporaneamente alle giuste e simboliche chiusure al traffico di qualche pregiata area delle città, vanno ripensati i sistemi di accesso, intermodalità, mix funzionali, incentivi e disincentivi. E onestamente partire dalla penalizzazione della bicicletta pare proprio l’estremismo dadaista più idiota: da penalizzare è invece l’idea ”autostradale” delle piste ciclabili, ma quella è un’altra storia (f.b.)
Le grandi opere non le vuole più nessuno, salvo chi le costruisce e la politica bipartisan che le sponsorizza con pubblico denaro. Dell’inutilità del Ponte sullo Stretto non vale più la pena di parlare, e dell’affaruccio miliardario delle centrali nucleari ci siamo forse sbarazzati con il referendum. Prendiamo invece il caso Tav Val di Susa. Per i promotori si tratterebbe di un progetto “strategico”, del quale l’Italia non può fare a meno, sembra che senza quel supertunnel ferroviario di oltre 50 km di lunghezza sotto le Alpi, l’Italia sia destinata a un declino epocale, tagliata fuori dall’Europa. Chiacchiere senza un solo numero a supporto, è da vent’anni che le ripetono e mai abbiamo visto supermercati vuoti perché mancava quel buco.
I numeri invece li hanno ben chiari i cittadini della Valsusa che costituiscono un modello di democrazia partecipata operante da decenni, decine di migliaia di persone, lavoratori, pubblici amministratori, imprenditori, docenti, studenti e pensionati, in una parola il movimento “No Tav”, spesso dipinto come minoranza facinorosa, retrograda e nemica del progresso. Numeri che l’Osservatorio tecnico sul Tav presieduto dall’architetto Mario Virano si rifiuta tenacemente di discutere. Proviamo qui a metterne in luce qualcuno.
Il primo assunto secondo il quale le merci dovrebbero spostarsi dalla gomma alla rotaia è di natura ambientale: il trasporto ferroviario, pur meno versatile di quello stradale, inquina meno. Il che è vero solo allorché si utilizza e si migliora una rete esistente. Se invece si progetta un’opera colossale, con oltre 70 chilometri di gallerie, dieci anni di cantiere, decine di migliaia di viaggi di camion, materiali di scavo da smaltire, talpe perforatrici, migliaia di tonnellate di ferro e calcestruzzo, oltre all’energia necessaria per farla poi funzionare, si scopre che il consumo di materie prime ed energia, nonché relative emissioni, è così elevato da vanificare l’ipotetico guadagno del parziale trasferimento merci da gomma a rotaia. I calcoli sono stati fatti dall’Università di Siena e dall’Università della California. In sostanza la cura è peggio del male. Veniamo ora all’essere tagliati fuori dall’Europa: detto così sembra che la Val di Susa sia un’insuperabile barriera orografica, invece è già percorsa dalla linea ferroviaria internazionale a doppio binario che utilizza il tunnel del Frejus, ancora perfettamente operativo dopo 140 anni, affiancato peraltro al tunnel autostradale. Questa ferrovia è attualmente molto sottoutilizzata rispetto alle sue capacità di trasporto merci e passeggeri, sarebbe dunque logico prima di progettare opere faraoniche, utilizzare al meglio l’infrastruttura esistente. Lyon-Turin Ferroviarie a sostegno della proposta di nuova linea ipotizza che il volume dell’interscambio di merci e persone attraverso la frontiera cresca senza limiti nei prossimi decenni. Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino dimostra che “assunzioni e conclusioni di questo tipo sono del tutto infondate”. I dati degli ultimi anni lungo l’asse Francia-Italia smentiscono infatti questo scenario: il transito merci è in calo e non ha ragione di esplodere in futuro. Un rapporto della Direction des Ponts et Chaussées francese predisposto per un audit all’Assemblea Nazionale nel 2003 afferma che riguardo al trasferimento modale tra gomma e rotaia, la Lione-Torino sarà ininfluente. E ora i costi di realizzazione a carico del governo italiano: 12-13 miliardi di euro, che considerando gli interessi sul decennio di cantiere portano il costo totale prima dell’entrata in servizio dell’opera a 16-17 miliardi di euro. Ma il bello è che anche quando funzionerà, la linea non sarà assolutamente in grado di ripagarsi e diventerà fonte di continua passività, trasformandosi per i cittadini in un cappio fiscale.
Ho qui sintetizzato una minima parte dei dati che riempiono decine di studi rigorosi, incluse le recenti 140 pagine di osservazioni della Comunità Montana Valle Susa e Val Sangone, dati sui quali si rifiuta sempre il confronto, adducendo banalità da comizio tipo “i cantieri porteranno lavoro”. Ma suvvia, ci sono tanti lavori più utili da fare! Piccole opere capillari di manutenzione delle infrastrutture italiane esistenti, ferrovie, acquedotti, ospedali, protezione idrogeologica, riqualificazione energetica degli edifici, energie rinnovabili. Non abbiamo bisogno di scavare buchi nelle montagne che a loro volta ne provocheranno altri nelle casse statali, altro che opera strategica!
Seguendo lo stesso criterio, anche l’Expo 2015 di Milano sarebbe semplicemente da non fare, chiuso il discorso. Sono eventi che andavano bene cent’anni fa. Se oggi in Italia tanti comitati si stanno organizzando per dire “no” alle grandi opere e per difendere i beni comuni e gli interessi del Paese, non è per sindrome Nimby (non nel mio cortile), bensì perché, come ho scritto nel mio “Prepariamoci” (Chiarelettere), per troppo tempo si sono detti dei “sì” che hanno devastato il paesaggio e minato la nostra salute fisica e mentale.
CASALE SUL SILE (TV) - Sedici miliardi da investire. Di cui oltre 14 ancora da trovare. La strada dell'Alta velocità ferroviaria in Veneto è tutta in salita e le magre disponibilità dei fondi pubblici non fanno pensare a soluzioni a breve. I protocolli d'intesa Governo-Regione si sprecano (l'ultimo è di ieri) ma i fondi sono un'altra cosa. E intanto la logistica locale scoppia, i costi di trasporto sono oltre la media europea, l'Expo 2015 è già un appuntamento perso.
Così gli imprenditori veneti decidono di alzare il pressing, facendosi parte attiva nel reperimento dei capitali per realizzare l'opera. Progetto ancora embrionale, che partirà avviando un tavolo con la Regione, e che tuttavia identifica un nuovo approccio ai problemi. «Non possiamo solo lamentarci - ricorda il leader di Confindustria Veneto Andrea Tomat - occorre anche un impegno diretto». Che però, per concretizzarsi in un disegno reale di project financing, richiede alla politica soprattutto certezze. Nelle regole di remunerazione del capitale, nella durata delle gare, nei costi da sostenere, nei tempi per la realizzazione dell'infrastruttura.
Tre ore da Milano a Treviso. Tre ore da Milano a Roma, con il doppio dei chilometri però. Il problema, in fondo, è tutto qui. È il motivo per cui gli imprenditori del Nord Est chiedono con forza che l'alta velocità ferroviaria coinvolga anche il territorio più industrializzato d'Italia, quello in cui però logistica ed efficienza dei trasporti non riescono a tenere il passo con le esigenze crescenti dell'economia. A Casale sul Sile, due passi da Treviso, imprenditori ed amministratori locali provano ad uscire dalla routine del solito dibattito per proporre un'azione autonoma.
'La Tav ce la facciamo da soli' è lo slogan della giornata, legato a un progetto proposto da Confindustria e Ance del Veneto che punta a coinvolgere i capitali privati nell'operazione. Impegno ciclopico, considerando che le tratte di binari mancanti, da Treviglio a Padova e da Mestre a Trieste prevedono 15,8 miliardi di investimenti, di cui - ricorda il vicepresidente di Confindustria Cesare Trevisani -, solo 1,4 miliardi già finanziati con risorse pubbliche. «Ma non sono i soldi a mancare - osserva -, i capitali privati si trovano, a patto di poter offrire agli investitori certezze su tempi, regole e costi. Per fare questo occorre ridurre l'impatto dei veti locali, sfoltire ulteriormente le conferenze dei servizi, garantire un ritorno sul capitale investito che possa convincere i privati della bontà dell'operazione».
Il primo passo le imprese venete lo compiono aprendo un tavolo di confronto con la Regione, già accettato da Zaia, per studiare una proposta «semplice e concreta sia sotto il profilo tecnico che finanziario». L'idea è quella di allargare il consenso, cercando anche sponde finanziarie dirette, come ad esempio Veneto Sviluppo. Nessun dubbio tra imprenditori ed enti locali sul fatto che la Tav a Nord Est debba essere considerata un'opera prioritaria dall'intero paese.
«Le infrastrutture - spiega il presidente di Ance Veneto Luigi Schiavo - sono il motore per l'intero territorio». «È il sistema dedicato all'export - rilancia il presidente dell'Autorità portuale di Venezia Paolo Costa - che chiede a gran voce di eliminare strozzature e colli di bottiglia». E i soldi? Possibilista è Mario Ciaccia, ad di Biis, il 'braccio' infrastrutturale di IntesaSanpaolo. «Pronti a strutturare un'operazione - spiega - e disponibili anche a prendere direttamente una piccola quota del progetto, per dare un segnale e invitare altri investitori a partecipare.
L'auspicio è l'avvio di uno schema di project financing, valutando magari la creazione di una società della mobilità del Nord Est per avere un'unica regia. A patto però che ci siano regole chiare e che si agisca in un'ottica di sistema per incrementare il traffico attuale». Tema fondamentale, quello dei volumi gestiti sui binari, anche per Trevisani.
«La domanda attuale non è sufficiente e la connessione con i sistemi portuali - chiarisce - diventa un tassello fondamentale per rendere conveniente l'operazione. In questo senso i progetti di sviluppo dei porti di Venezia e Trieste non sono e non devono essere considerati alternativi. Ecco perché a mio avviso occorre agire anche a livello costituzionale, riportando le infrastrutture strategiche all'interno della competenza statale».
E intanto? Qualche passo avanti in realtà c'è e proprio ieri la Regione ha siglato l'8° atto aggiuntivo all'accordo quadro Regione-Governo sulle opere strategiche, atto che prevede le priorità a cui destinare le risorse, tra cui appunto la Tav. L'Università Bocconi intanto stima che i costi del 'non fare' arrivano a 112 milioni per chilometro. Per la sola linea Milano-Verona si tratta di 16 miliardi, pagati in ritardi, inefficienze, appuntamenti mancati ecc.. E anche turisti che non arrivano. Per quanto il pressing delle imprese possa accelerare i tempi, è già chiaro che l'Expo 2015 sarà un lontano ricordo quando i primi cantieri inizieranno a operare.
E’ da diversi anni ormai che la pratica urbanistica si fa senza più pensare alla città, ai bisogni e ai problemi reali. I meccanismi di finanziarizzazione che hanno trasformato la città in merce di scambio nelle transazioni finanziarie sono ormai noti anche al grande pubblico. Tutti stiamo ancora vivendo in pieno gli effetti di una crisi che ha avuto origine proprio lì in quei meccanismi. E’ forse il caso di non parlare più di urbanistica, quello cui assistiamo, sono pratiche degradate, che hanno perso qualsiasi riferimento all’urbs e ancora di più alla civitas: sono faccende immobiliari tecnicamente assistite.
A Roma il divorzio tra l’urbanistica e la città è evidente, è palese. Negli ultimi anni in diversi modi abbiamo testimoniato di questa condizione parlando del disagio abitativo e di come i meccanismi di valorizzazione del patrimonio residenziale esistente, che soggiacciono ai meccanismi finanziari, hanno comportato l’impoverimento dell’ex ceto medio. La conseguenza, forse la più grave, è stata negare il diritto alla città a una fascia crescente di popolazione. Nel 2008 sono stati quasi 30 mila i residenti romani che si sono cancellati per andare a vivere nei comuni della provincia: da Orte in giù, in su e di lato, con una crescita del 14% rispetto all’anno precedente.
L’urbanistica “degradata” a leva economica e finanziaria è stata frequentata soprattutto dagli interessi privati e dalla necessità di fare leva per investimenti spesso a debito, è così che si sono realizzati plusvalori enormi da reinvestire nella ristrutturazione di imprese, nella riconversione, o in meccanismi di patrimonializzazione (si pensi solo a cosa è stata l’avventura Telecom Italia per la Pirelli).
Oggi il Comune di Roma si comporta allo stesso modo, l’urbanistica serve a fare cassa e “tentare” di salvare l’ATAC. L’azienda di trasporto pubblico, investita pochi mesi fa dallo scandalo parentopoli, ha un passivo di 319,1 milioni di euro, debiti in crescita e si rischia il fallimento. Così l’amministrazione ha deciso di mettere in “vendita” i depositi dei tram, degli autobus e tutti quegli immobili complementari al trasporto pubblico che non sono più necessari a svolgere il servizio. Un patrimonio importante, per volumi e superfici, che in molti casi è collocato in zone centrali della città. Questo della valorizzazione era un pensiero che aveva già fatto l’amministrazione Veltroni quando avviò la dismissione del deposito Atac di via della Lega Lombarda (un’area a pochi passa dalla stazione Tiburtina). Un pensiero che trova riscontro in una specifica norma del piano regolatore vigente, quello approvato nel 2008, che nel comma 4 dell’art.84 prevede che nel caso di dismissione di questi immobili è obbligatorio redigere un Programma generale che individui “la SUL massima consentita, ferma restando la volumetria (Vc) esistente e fatti salvi comunque i limiti e le condizioni derivanti dall’applicazione della disciplina di cui all’art. 94, commi 9 e 10”. Limiti che fissano l’indice di edificabilità territoriale al massimo “pari a 0,5 mq/mq, di cui almeno la metà da destinare a servizi o spazi pubblici d’interesse generale o locale”.
La norma afferma tre principi essenziali: nessun incremento di volume, superficie edificata, quindi la SUL, pari a non più di 0,5 mq/mq di suolo e individuazione delle funzioni da inserire avendo cura di guardare la compatibilità con l’intorno. Tre principi che però non sono quelli che la Giunta Alemanno ha intenzione di affermare: così nella delibera con cui si vuole approvare il Piano Generale per la dismissione del patrimonio immobiliare ATAC si legge che i limiti imposti dalla norma di piano, la volumetria esistente, la Sul max e l’obbligo di riservare almeno metà della nuova edificazione a servizi pubblici “limitano i potenziali ricavi derivanti dalla alienazione delle aree”. Insomma così non si fanno soldi e non si salva l’ATAC!
Al sindaco non viene il dubbio che in talune aree quella dotazione di servizi non solo è necessaria, ma forse è insufficiente per riuscire a dare vivibilità alla città esistente. Insomma i soldi prima di tutto! Così con questa premessa il “Piano generale per la riconversione funzionale degli immobili non strumentali al trasporto pubblico locale” in discussione, e forse in approvazione, nella seduta del Consiglio comunale di Roma del 16 Giugno (oggi) opera una sequenza di forzature e di interpretazioni delle norme di piano al solo fine di poter disporre della volumetria massima possibile in ogni area oggetto di valorizzazione. Il risultato finale (calcolato per difetto) è che sui 130.500 mq di superficie territoriale interessati dalla valorizzazione, dove si potevano fare, a norma di piano circa 65.000 mq di Sul, di cui la metà da dare a servizi per il quartiere, se ne vogliono fare 141.500 (più del doppio) senza più alcun vincolo per i servizi. Ad esempio, nell’ex rimessa di San Paolo si potranno fare 18.500 mq di SUL (secondo il piano dovevano essere 5.000 mq), e una parte sarà anche a residenza per 240 abitanti. L’ex Rimessa Vittoria, nel quartiere Prati, avrà una capacità edificatoria di 18.500 mq di Sul, invece di circa 8.000 mq consentiti dal piano vigente, e gli esempi potrebbero continuare.
Si può condividere che anche la norma vigente del piano deve essere oggetto rivista perché comporta un eccesso di meccanica algebrica lì dove invece i problemi sono complessi e articolati e dove ogni area fa storia a sé. Si vuole cambiare la norma? Lo si faccia, non è certo nella difesa acritica dell’attuale norma che ci si vuole attestare. Ma non la si può cambiare così, dichiarando per altro, la conformità al piano (sic!). Una procedura che rende debole il Piano e lo fa facile oggetto delle successive contestazioni. Se c’è una differenza con la giunta precedente forse è proprio qui, nei modi. Probabilmente si sarebbe arrivato a risultati non tanto diversi ma lo si sarebbe fatto con un po’ meno di superficialità di approssimazione e di inconsistenza tecnica.
Una città capitale non può trattare in questo modo processi di riconversione così importanti e decisivi per le sorti future della città, non può affidarsi a un così basso livello di pensiero dominato dal solo criterio della mercificazione della città. Si predisponga un piano serio, dettagliato per ogni area, si sottoponga ad una analisi attenta ogni area e il suo contesto potendone definire non solo le quantità ma anche la sostenibilità delle funzioni, la qualità delle trasformazioni che si vuole conseguire, si dia vita a una operazione di alto livello che possa essere di esempio per tutte le altre iniziative, e nei prossimi anni saranno sempre di più, che riguardano la riconversione e la trasformazione della città esistente.
Sindaco si fermi; se si vuole risanare l’ATAC questa è la strada peggiore: così si affossa l’azienda, si sperpera il suo patrimonio immobiliare e si aprono anni di contenziosi che saranno pagati a caro prezzo dal’azienda. Per non parlare delle conseguenze negative sulla città; ma questa non è più oggetto dell’urbanistica capitolina.