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Adesso non potrà più dire che mentre in America lo osannano qui in Italia gli tirano i gatti morti sul finestrino. Adesso anche da noi qualcuno lo ama. Sergio Marchionne, filosofo del Dopo Cristo, ha vinto su tutta la linea. Dopo aver cooptato Cisl e Uil alla sua corte, dopo aver dettato le regole alla Confindustria con un ricatto - o cambiate tutto come dico io o vi saluto - analogo a quello a cui sono stati sottoposti gli operai di Pomigliano - o rinunciate a diritti e dignità o chiudo e vi mando tutti a spasso - l'amministratore delegato della Chrysler-Fiat ha sbancato anche in Corso d'Italia. Incassa la resa della Cgil guidata da Susanna Camusso.

Adesso i contratti nazionali sono derogabili dunque non esistono più, siglando così la fine del basilare principio di solidarietà che ha regolato il lavoro nel secondo dopoguerra del Novecento. Adesso gli operai non possono più votare gli accordi e i contratti, firmati per loro conto da apparati sindacali sempre più organici al blocco di regime e dunque sempre meno sindacati. Adesso gli operai non possono scioperare, essendo stata sancita una «tregua». Come se il crollo di vendite di automobili Fiat in Italia e in Europa dipendesse da chi lavora alla catena di montaggio di Mirafiori o di Pomigliano, come se le tute blu avessero le braccia conserte per dimostrare la loro novecentesca aggressività e non perché non hanno nulla da costruire.

Tutto questo è avvenuto a Roma, nella dependance della Confindustria su cui erano puntati gli occhi dei lavoratori e di tutti quei cittadini e quelle cittadine che, insieme alla Fiom, avevano alzato il vento democratico del cambiamento. Adesso la strada si fa difficile e bisognerà riprendere a pedalare in salita tra le secchiate non di acqua rinfrescante ma di fango. Si è chiusa un'epoca, gridano gioiosi padroni e sindacati, plaudono i ministri, va fuori dalle righe persino il normalmente sobrio Sole 24 Ore, organo dei confindustriali che spara «Una firma per un'epoca nuova». Il Pd è contento, ma pensa un po'.

Siamo alla fine della storia? Lasciamo in pace Fukuyama, la storia non procede mai in modo rettilineo. Tra le parole di un accordo scritto nel fango e la realtà c'è di mezzo una variabile: le persone in carne e ossa, i lavoratori e tutti quelli che pensano al lavoro come a un bene comune e che non sono soli, hanno dalla loro la Fiom che «resiste ora e sempre all'invasore» come il villaggio gallico di Asterix e Obelix. Resiste e scompagina le carte ricordando a potenti e poveracci che ci sono diritti intangibili validi per tutti (sennò si trasformano in privilegi) che la dignità delle persone viene prima dei profitti. Bisognerà tenere i nervi a posto, tutti quelli che non intendono adeguarsi al modello sociale imposto da Marchionne dovranno tenere i nervi a posto. Perché la storia continua. La generosa battaglia della Fiom è una battaglia per la democrazia, perciò è una battaglia generale. Ma la Fiom, e gli operai, da soli non ce la possono fare. Non dobbiamo lasciarli soli.

Come salvare l´arte del Belpaese tra soldi privati e tagli pubblici

di Salvatore Settis

Si allunga ogni giorno la lista dei siti abbandonati, dei restauri mancati, dei musei in crisi, dei paesaggi devastati. Perciò è giusto che ogni iniezione di fondi privati ai beni culturali venga salutata da sospiri di sollievo e soprassalti di gratitudine. Senza nulla togliere alle iniziative più benemerite (come quella di Banca Intesa-San Paolo annunciata da Giovanni Bazoli), chiediamoci in quale contesto viene oggi rilanciata in Italia la figura del "mecenate". La politica di settore del governo ha avuto due momenti caratterizzanti: primo, il taglio di un miliardo e 300 milioni di euro ai fondi del Ministero dei Beni Culturali; secondo, l'iistituzione di una nuova direzione generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale. Il combinato disposto dei due provvedimenti delinea una strategia davvero inedita, made in Italy, secondo cui si valorizza disinvestendo. Conseguenza inevitabile della crisi? No: in Francia gli investimenti in cultura sono stati sanctuarisés, considerandoli sacri e non tagliando un centesimo. Il ministro Frédéric Mitterrand, per celebrare il ruolo civile della storia dell´arte e l´introduzione dell´insegnamento obbligatorio della materia in tutte le scuole francesi, ha promosso e finanziato (circa 700.000 euro) un grande Festival d´histoire de l´art che si è svolto poche settimane fa a Fontainebleau. La crisi economica è la stessa, le reazioni in Francia e in Italia sono opposte.

La carenza di fondi pubblici rende più preziosi i finanziamenti privati, in ogni caso utili e graditi. Non manca chi, ritenendo il patrimonio culturale di competenza esclusivamente pubblica, vede ogni intromissione del privato come una profanazione. Posizione insostenibile, ma lo è anche quella di chi propugna la veloce eutanasia dell´amministrazione pubblica del settore, e sogna (invano) bilanci museali subitamente in attivo non appena cali dal cielo il sospirato manager privato. La parola d´ordine di una "privatizzazione" sommaria, simmetrica ai tagli "lineari" (leggi: alla cieca) di Tremonti, fa leva sulla mitologia del "museo-azienda" all´americana, efficiente anzi produttore di reddito in quanto privato: singolare invenzione di ministri nostrani che dei musei americani ignorano rigorosamente tutto. Ma negli USA, come in tutto il mondo, tutti i musei (pubblici o privati) sono strutturalmente in passivo, e i loro introiti diretti (biglietteria, libreria, etc.), non coprono mai più del 15-20 % delle spese di gestione. Se il bilancio va in pari, è per via del proprio endowment (oltre 2 miliardi di dollari per il Metropolitan Museum), costruito con donazioni private, anche di poche centinaia o migliaia di dollari, favorite da meccanismi di detassazione che l´Italia ignora: in tal modo, i musei sono finanziati dallo Stato (federale) e dai singoli Stati, che per favorire le donazioni rinunciano a enormi introiti fiscali.

Nel sistema italiano (come in quello francese), nulla di simile è pensabile. È dunque impossibile il mecenatismo privato? Al contrario, l´approdo di fondi privati a dare un minimo di respiro a un settore vitale per il Paese, ma in grande sofferenza, va in ogni modo incoraggiato: purché non diventi un alibi per ulteriori tagli della spesa pubblica. Da esempio può servire la campagna di fund raising che il Louvre ha lanciato per acquistare le Tre Grazie di Cranach: un milione di euro raccolti in poche settimane, ma per integrare i tre milioni di euro di fondi pubblici che già il Louvre aveva gettato sul tavolo. Ma i privati potranno esercitare il loro ruolo in modo costruttivo e virtuoso, se lo Stato è in rotta? Troppo spesso in Italia l´intervento privato è concepito non in sussidio delle pubbliche istituzioni, ma per surrogarne l´assenza, ripianando i buchi di bilancio che lo Stato (su altri fronti assai spendaccione) crea borseggiando se stesso. Un esempio: è giusto cercare fondi (anche privati) per il Colosseo o per Pompei, per Brera o per gli Uffizi, purché non dimentichiamo che qualsiasi seria azione di tutela e valorizzazione (due aspetti inscindibili) richiede altissime competenze tecniche e continuità di azione conoscitiva e amministrativa. E come è possibile, se da anni la pubblica amministrazione dei beni culturali ha cessato di assumere, e il personale tecnico-scientifico in servizio oggi ha un´età media di oltre 55 anni?

Deve poter esistere un mecenatismo privato con alto senso culturale e civile: ma allora non può limitarsi ad aprire i cordoni della borsa (meno che mai cercando guadagni aziendali), ma deve esser capace di idee propositive, di cultura manageriale autentica, e dunque rispettosa delle competenze specifiche di archeologi e storici dell´arte. Deve sposarsi con una rifunzionalizzazione delle strutture pubbliche della tutela, che punti su numerose, urgentissime assunzioni, sulla base del merito, che immettano nei ruoli i moltissimi giovani che abbiamo, finora invano, formato nelle nostre università.

Il ruolo del pubblico e del privato, pur in un momento buio come questo, può e deve essere ridisegnato entro un grande patto nazionale per la tutela, che parta non dalla spartizione delle torte, ma dalle esigenze vitali del nostro patrimonio (paesaggi e monumenti "maggiori" e "minori", musei e siti naturali e archeologici) e includa Stato, regioni, enti locali, privati. Solo così potremo vincere il superficiale economicismo che svendendo la sostanza profondamente civica dei beni culturali produce una crescente usura dei valori simbolici che li permeano e che cementano la società, incrementandone la capacità di rinnovarsi e di vincere le sfide del futuro.

I filantropi invisibili

intervista di Francesco Erbani all’archeologo Wallace-Hadrill

Com´è un mecenate americano, il modello al quale tutti pensano ogni volta che invocano un mecenate? Non occorre andare a Los Angeles, ma basta fermarsi a Ercolano per vedere come si comporta David W. Packard, cognome fra i più altolocati dell´economia internazionale, che dal 2000 ha speso 16 milioni di euro nel sito vesuviano, ma senza che si sappia troppo in giro, niente pubblicità, niente logo appiccicato sui biglietti. Packard adora Ercolano, di cui è diventato cittadino onorario, adora l´Italia e la letteratura latina. Ma le vicende di questi ultimi anni –quattro soprintendenti in ventiquattro mesi, due commissari, fondi e personale ridotti all´osso – minacciano di mettere a rischio l´intero progetto. Sarebbe una iattura, di cui Andrew Wallace-Hadrill, archeologo, a lungo direttore della British School di Roma, ora alla guida del Sidney Sussex College di Cambridge, e responsabile dell´Herculaneum Conservation Project, l´organismo finanziato da Packard, neanche vuol sentir parlare. Packard, inutile dirlo, non incontra giornalisti.

Professor Wallace-Hadrill, che tipo di mecenate è Packard?

«Appartiene a una categoria ben riconoscibile in America, dove tante sono le fondazioni filantropiche senza scopo di lucro e che, per legge, non possono avere ritorni, né profitti né pubblicità».

Ma che cosa lo spinge a spendere in cultura?

«Oltre a dedicarsi all´azienda, ha fatto studi classici – latino, greco, storia antica. E nel 1987 ha fondato la Packard Humanities Institute. È parte di quel mondo di ricchi americani che ritengono un obbligo morale restituire in cultura o in beneficenza qualcosa dei tanti guadagni accumulati».

Sgravi fiscali?

«No. Una fondazione di questo tipo non è tassata, ma i soldi che vi si depositano possono essere solo destinati a scopi culturali o filantropici»

Dove interviene Packard?

«In varie parti del mondo. Archeologia, musica e cinema sono alcuni dei suoi campi di interesse. A Palo Alto ha ristrutturato un cinema degli anni Venti, che ora proietta solo film di quel periodo. Ha sostenuto progetti su Mozart e sul figlio di Bach. Ha pubblicato manoscritti musicali e ha digitalizzato le concordanze lessicali dell´Ab urbe condita di Tito Livio».

E nel 2000 è approdato a Ercolano.

«Un´antica passione. Ma determinante è stato lavorare in stretto rapporto con gli archeologi della Soprintendenza, allora guidati da Pietro Giovanni Guzzo, e con la direttrice degli scavi, Maria Paola Guidobaldi. Non l´azione autonoma di un privato, ma un intreccio sofisticato ed efficiente di pubblico e privato».

E insieme avete avviato restauri?

«Anche, ma soprattutto sottoscritto un impegno pluriennale, una gestione del sito che dura oltre la vita del progetto».

Mi fa un esempio?

«Abbiano recuperato la rete fognaria antica e allestito un sistema di grondaie che convoglino l´acqua nei condotti di età romana, evitando le infiltrazioni che provocano umidità e crolli».

Quei crolli che hanno funestato Pompei. Resterete a Ercolano?

«È nostra intenzione rimanere. Ma il ministero e lo Stato non si possono sottrarre ai loro compiti. C´è il progetto di togliere alla Soprintendenza il 25 per cento dei suoi fondi per distribuirlo altrove. Sarebbe un errore grave. Un´altra cosa: per ogni restauro paghiamo il 20 per cento di Iva. Siamo noi che finanziamo lo Stato, altro che sgravi fiscali».

La democrazia e il mercato

di Marc Fumaroli

Come è finita la pratica del dono disinteressato. Per secoli i sovrani e la chiesa hanno praticato la liberalità verso gli artisti. Per glorificare se stessi attraverso le opere e mostrarsi munifici Oggi il valore economico ha prevalso su tutto

La figura di Mecenate, discendente da una dinastia reale etrusca, amico e ministro di Augusto, celebrato dal poeta Orazio come un fratello spirituale oltre che proprio benefattore, è certamente uno degli esempi più fecondi di cui la Roma antica abbia fatto dono alla civiltà europea, sia pagana sia cristiana.

La Roma repubblicana si era sempre mostrata ostile alle lettere e alle arti dei graeculi e per questo, milleottocento anni dopo, Rousseau la additò come esempio per le repubbliche a venire. Rousseau vuole ignorare gli Scipioni, grandi cittadini della Repubblica romana e tuttavia amici delle lettere e delle arti. Preferisce la Roma di Catone e la Sparta di Licurgo all´Atene di Pericle, i cui ricchi cittadini praticavano in larga scala l´evergetismo, la forma greca del "potlach" degli Indiani d´America cari a Marcel Mauss e a Aby Warburg, finanziando generosamente lo splendore delle feste religiose, tra cui il culto di Dioniso e la tragedia ma anche la bellezza apollinea dei templi e delle statue. Passando sotto silenzio Mecenate, che simboleggiava l´alleanza della Roma imperiale con le arti della pace, Rousseau escludeva che un impero o una monarchia, a cominciare da quella della Francia del XVIII secolo, potesse non essere una tirannia o un dispotismo.

Il Terrore rivoluzionario del 1792-1794, russoviano, soppresse in Francia ogni traccia di mecenatismo alla romana e di evergetismo alla greca. Solo David, il pittore eletto dalla volontà generale, ne diresse l´espressione artistica. L´Impero napoleonico, e sulla sua scia i successivi regimi francesi del XIX secolo, a cominciare dalla III Repubblica che doveva allontanare da sé ogni sospetto di terrorismo russoviano, tornarono a essere mecenati pubblici e diedero l´esempio per il mecenatismo dei privati, per sottolineare la loro distanza da dispotismi e tirannie. Per molti aspetti, la supplenza assicurata per molti secoli dalla Chiesa romana al mecenatismo augusteo e all´evergetismo greco nell´Europa occidentale ha fortemente contribuito ad aumentare la parentela tra il mecenatismo delle lettere e delle arti e il potlach delle società prepolitiche e a preservare lo spirito disinteressato della bellezza artistica, dell´emozione poetica e della contemplazione mistica: tutti contrappesi alla predazione e alla sete del male. Il "rovesciamento di valori" che da mezzo secolo avvicina sempre più il mecenatismo artistico e letterario al calcolo cinico da pubblicità commerciale, l´artista e l´uomo di lettere a uno spirito commerciale senza scrupoli, l´"Arte" a una collezione di titoli di credito quotati in borsa e il cui corso è garantito da un eterno "insider trading", è un altro modo di seguire il terrorista Rousseau. L´austera iconofobia puritana si è trasformata in ignobile iconolatria del kitsch.

Contrariamente alla III Repubblica francese, che si ispirava al modello ateniese e ha vincolato il suo liberalismo politico al rispetto delle lettere e delle arti, le democrazie attuali tendono a svalutare le arti e le lettere riducendoli a prodotti di mercato, rinunciando a vedere in esse il principio del dono disinteressato che per tanto tempo ha reso fecondo il mecenatismo della Chiesa, dello Stato e di istituzioni e persone private. Eppure proprio questo principio ha potuto impedire a ciascuno dei regimi descritti e definiti da Aristotele – la monarchia, l´aristocrazia e la democrazia – di ruzzolare giù per la china del conformismo tirannico del gusto e dalla bassezza di spirito nelle lettere e nelle arti. L´etica del mecenatismo e la spiritualità del suo esercizio sono oggi questioni di altissima importanza, tanto politica quanto estetica.

(traduzione di Elda Volterrani)

Molte volte le proteste “ambientaliste” sono state vistosamente strumentali, e hanno ottenuto solo di far crescere di molto i costi delle opere: nel complesso degli investimenti italiani della rete di Alta velocità questo è stato un caso frequentissimo. E smettiamo di chiamarla Alta Capacità: una ridicola foglia di fico, i treni merci non ci viaggeranno mai, come in Francia e Spagna. Questo investimento appare difficilissimo da giustificare, anche stando solo alle cifre ufficiali, ovviamente “ottimistiche” (sia sui costi che sul traffico). Vediamo innanzitutto gli aspetti “strategici”, e smontiamo una serie di luoghi comuni insensati.

1. “Fa parte dei corridoi europei”: vero, ma ridicolo. Questi corridoi prioritari sono cresciuti talmente di numero che oggi sono 30, e coprono fittamente tutta l’Europa: nessun paese o regione poteva essere scontentata. Di priorità non si può proprio più parlare.

2. “Crea sviluppo e occupazione”: falso. Per euro pubblico speso, le grandi opere occupano pochissima gente rispetto a quelle piccole, o alle manutenzioni, di cui c’è estremo bisogno. Il cemento è una tecnologia matura, non è certo l’informatica o la microbiologia genetica.

3. “Perdiamo i soldi europei”: vero, ma di nuovo ridicolo. Se va bene, ma proprio bene, perdiamo 3 miliardi su 22 di costo totale dell’opera... e si tratta di costi preventivi! In realtà, risparmieremmo 11 miliardi (quota italiana) di soldi pubblici non costruendola. Infatti se si chiedesse agli utenti (merci e passeggeri) tariffe che coprano parte dell’investimento, queste diventerebbero così alte che non ci passerebbe su nessuno. Merci e passeggeri pagano volentieri i costi di costruzione delle autostrade, ma in generale non ne vogliono sapere di pagare quelli dell’Alta velocità (pagano al massimo i costi di esercizio).

4. “Altrimenti gli altri costruiscono un corridoio a nord delle Alpi”: questa è pura fantascienza, e qualcuno dovrebbe rispondere di queste frottole.

Vediamo ora gli aspetti più tecnici, non meno fantasiosi.

1. “Sposterà un sacco di camion via dalla strada, con grandi benefici ambientali”. Finora non è mai successo, nemmeno in Francia, patria dell’Alta velocità (i passeggeri ufficialmente previsti sulla nuova linea sono pochissimi, 16 treni al giorno su una capacità di 250 treni al giorno). Ma, paradossalmente, anche se ci riuscisse, le emissioni da cantiere sono tali che compenserebbero questi ipotetici risparmi per i prossimi vent’anni.

2.“ I treni merci italiani con questa linea potranno correre sull’Av francese” (articolo di prima pagina di qualche anno fa del Sole 24 Ore). Peccato che sulla rete AV francese e spagnola i treni merci non ci possono passare proprio; quelli, che di ferrovie ne capiscono, sanno che le merci che vanno in treno non sono interessate alla velocità, ma all’affidabilità e ai bassi costi.

3. “La linea attuale, quando la crisi economica finirà, sarà presto saturata dalla crescita del traffico”. Il traffico su quella direttrice era in calo già prima della crisi, anche sull’autostrada. Figuriamoci dopo che ci sarà la concorrenza della nuova linea del Sempione via Svizzera. Ma meglio stare sui numeri ufficiali: oggi passano 3 milioni di tonnellate sulla linea esistente, che, recentemente rimodernata, ne può portare 20 milioni. E le previsioni ufficiali della crescita del traffico ferroviario risultano in media sovrastimate del 40%, a livello internazionale. Ma immaginiamo che ci sia davvero questa crescita vorticosa: se è così, andranno molto prima in crisi le direttrici e le aree già congestionate adesso, e quindi questo investimento rimarrebbe comunque a priorità bassissima, soprattutto se i soldi pubblici sono scarsi.

Si ricorda per concludere che il 75% del traffico, della congestione, dei costi per le imprese e per l’ambiente sono nelle aree metropolitane, mica sulle lunghe distanze. Quindi di cose più urgenti da fare ce ne sono davvero tantissime. Se l’opera avesse qualche sensatezza, i valligiani “protestanti” dovrebbero prendersi gli indennizzi e star buoni, per il maggior interesse collettivo. Ma in questo caso sembra proprio che abbiano qualche ragione. Certo se si buttano in questo modo i soldi pubblici per ragioni di visibilità politica e di lobby poco illuminate, la Grecia anche per questo verso non può che avvicinarsi. Tuttavia sembra in vista un progetto ancora di dubbia priorità, ma più mirato al traffico merci (l’unico che c’è) e molto meno costoso, forse ad una canna sola.

Ma il punto politico non è questo: bisogna salvare la faccia (anzi, le facce, visto l’incomprensibile appoggio “bipartisan” al progetto). Tanto pagheranno i contribuenti, e i cantieri intanto si inaugurano.

«La nuova Santa Giulia avrà la caratteristiche della cittadina di campagna e i servizi della metropoli» . Un mega quartiere «vivo, sano, moderno, ecosostenibile, a impatto zero» , progettato «da giovani talenti italiani» e non da archistar alla Norman Foster: «Le residenze avranno un costo accessibile per le giovani coppie, attorno ai 4 mila-4.500 euro al metro» . Palazzine di nove piani al massimo, zero grattacieli, un parco di 236 mila metri quadri: «È un progetto libero da logiche speculative. Io non sono un immobiliarista, né un palazzinaro» .

Lui è Stefano Stroppiana, 51 anni, toscano-milanese, imprenditore del real estate, noto «costruttore» di outlet, un passato in McArthurGlenn e in Premium Retail, l’imprenditore che guida la cordata pronta a rilevare da Risanamento il mai decollato piano di sviluppo del quartiere Santa Giulia: «Presenteremo la nostra offerta entro il 30 giugno, per chiudere l’accordo definitivo a luglio. È un’offerta vincolante, legata ad alcune condizioni, a partire del dissequestro dell’area» . La zona Montecity-Rogoredo, sul confine Sudest di Milano, è stata sigillata dal Tribunale il 20 luglio 2010 a valle di un’inchiesta sugli appalti, le mancate bonifiche ambientali e i veleni scivolati nella falda.

I costi delle operazioni di ripristino dei terreni, secondo l’intesa, spetteranno a Risanamento: «È necessario un intervento serio per garantire l’assoluta salubrità ambientale — insiste il manager —. Non accettiamo scorciatoie di alcun tipo. E ci riserviamo un ruolo di primaria importanza» . È un’operazione da 2 miliardi di euro. La cordata comprende il fondo di Shanghai Super Ocean Re, le società di costruzioni Cogeim spa, Geo Holding srl, Ettore e Guido Di Veroli, Santo Versace.

Il masterplan stato già delineato, prevede 120 mila metri quadri di negozi (ai piani terra), altrettanti di uffici (in posizione di «filtro» ai livelli intermedi dei palazzi) e 180 mila metri quadri di residenze (ai piani alti): «Le modifiche sono profonde rispetto al piano di Foster — osserva Stroppiana —. Realizzeremo la più grande isola pedonale d’Europa: Santa Giulia sarà un luogo per abitare, lavorare, fare shopping. A differenza del progetto di Risanamento, non inseguiremo un lusso edonistico» .

Nota: si sottolineava nell'occhiello come ci sia un rapporto stretto fra questa ennesima (dai tempi di Montecity & Gardini) proposta per il riuso del sito industriale ribattezzato Santa Giulia e le operazioni dei villaggi della moda spuntati inopinatamente in tutto il paese da una decina d'anni. Si spera solo che, a differenza del rapporto sempre squilibrato fra capitali, operatori, e piccole amministrazioni locali, a Milano possa emergere una valida gestione pubblica in grado di garantire davvero tutti i vantaggi collettivi giurati e spergiurati dagli anni '80. Su queste pagine ovviamente abbondano le ricostruzioni dei "casi outlet" a partire dal primissimo di Serravalle (f.b.)

Una crisi finanziaria di dimensioni globali è di nuovo alle porte. E non sarà l'ultima. Il mondo si sta avvitando intorno ai suoi debiti. Con liberismo e globalizzazione («finanzcapitalismo», orribile termine introdotto da Luciano Gallino) gli Stati hanno ceduto il potere di creare il denaro - il diritto di «battere moneta» - al capitale finanziario. Quasi tutti gli Stati dei paesi sviluppati si sono pesantemente indebitati con il sistema finanziario (quelli dell'ex Terzo Mondo lo sono da sempre). Lo hanno fatto in parte per salvare banche o aziende sull'orlo del crack; in parte per finanziare spese sia essenziali (infrastrutture, «welfare» o stipendi del Pubblico impiego non sostenuti da sufficienti entrate fiscali), sia illegittime (costi della corruzione e dell'evasione fiscale), sia inutili e dannose (armamenti, costi della «politica», di grandi opere o di «grandi eventi»). Per esempio, gran parte del debito che sta portando la Grecia al fallimento è dovuto, oltre che alla corruzione e dall'evasione fiscale, alle spese sostenute (senza adeguati ritorni) per le Olimpiadi di Atene e per l'acquisto - da Francia e Germania, gli Stati che oggi la stanno strangolando - di armamenti per «difendersi» dalla Turchia: due paesi della Nato che si armano l'un contro l'altro, comprando le stesse armi dagli stessi paesi e addestrandosi a farsi la guerra (c'è di mezzo il petrolio dell'Egeo) nelle scuole militari degli stessi fornitori.

Gli Stati si indebitano perché di nuovo denaro non ne possono creare più di tanto. In parte se lo sono vietato, con leggi nazionali (come negli Usa) o accordi internazionali (come le regole di governo della Bce e il Patto di stabilità dell'Unione Europea). In parte hanno già una montagna di debiti contratti perché per molto tempo indebitarsi era più facile che imporre nuove tasse o sostenere l'economia con l'emissione di nuova moneta e un'inflazione controllata. Quello che gli Stati nazionali hanno perseguito indebitandosi (evitare nuove tasse o maggiore inflazione) adesso li strangola; e oggi i paesi europei, anche se potessero tornare alla moneta nazionale e svalutarla, difficilmente otterrebbero un aumento di competitività con cui accrescere le esportazioni e ripagare parte del loro debito, come recita l'ortodossia economia (quella che consiglia alla Grecia di «uscire dall'euro»); si ritroverebbero solo con un debito in valuta estera ancora più pesante. Se invece, come consiglia, anche in questo caso, l'ortodossia economica, tagliano la spesa pubblica - mettendo alle strette o alla fame una parte crescente dei propri cittadini - e svendono servizi, demanio e beni comuni per ottenere un avanzo primario, soffocano ancora di più l'economia e non saranno mai più in grado di pagare né debito né interessi. È una strada senza uscita.

Se la cosa riguardasse solo la Grecia, che è un piccolo paese, una soluzione forse si troverebbe; ma riguarda anche l'Irlanda, il Portogallo, la Spagna, l'Italia, il Belgio e in prospettiva la Francia, che adesso fa invece la voce grossa. E riguarda anche gli Stati Uniti (anche il loro debito rischia un ribasso del rating), gli unici che finora avevano potuto continuare a «creare moneta» perché i loro dollari non li rifiutava nessuno. Ma crisi, salvataggi e sconti fiscali per i più ricchi (quelli che neanche Obama osa toccare) hanno moltiplicato per due il loro debito, che è quasi tutto in mani altrui; e poiché ora ne devono rinegoziare una quota consistente si trovano anche loro alle strette. La retorica - mai suffragata dai fatti - secondo cui ridurre le tasse «crea sviluppo» ha messo tutti nei guai. Poi ci sono le rivoluzioni dei paesi arabi, che a breve porranno inderogabili scadenze al sistema finanziario mondiale. Insomma, qualunque cosa venga decisa per la Grecia, si tratterà solo di tamponare una falla per rinviare un crack inevitabile.

Gli Stati non «comandano» più il denaro perché i cordoni della borsa sono ora nelle mani della finanza internazionale: basta la minaccia di un ribasso del rating ed è come se dal bilancio di uno Stato si volatilizzassero di colpo miliardi di euro. E per un paese che va in rovina c'è sempre, da qualche altra parte, qualcuno che guadagna miliardi. È la finanza internazionale, bellezza! Quella che ha riempito di titoli fasulli banche e risparmiatori rivendendo un numero infinito di volte i propri crediti dopo averli impacchettati in titoli derivati di cui era - ed è, perche sono ancora in circolazione - impossibile conoscere origine e composizione. A certificare che quei mucchi di carte, ma ormai anche solo di bit, sono moneta sonante ci pensavano e pensano tre agenzia mondiali interamente possedute da alcune delle banche che quei certificati li vendono. Ora, e sempre con denaro fittizio, la speculazione si è spostata sulle materie prime e sulle derrate alimentari, mettendo alla fame mezzo mondo. E minaccia di far fallire, uno dopo l'altro, un buon numero di Stati. Ma dobbiamo per forza continuare a lasciare in mano a costoro le redini dell'economia?

C'è un altro modo per affrontare la situazione: imporre ai propri governi un cambio di rotta. Il che richiede certo «rigore fiscale», ma non quello che ci vorrebbero imporre Tremonti. Il rigore, cioè i tagli nel bilancio, vanno imposti ai costi della politica, alla corruzione, all'evasione fiscale, alle rendite finanziarie, agli armamenti, alle guerre contro paesi che abbiamo contribuito ad armare fino a ieri, alle grandi opere, ai grandi eventi, alla burocrazia (ma senza segare l'albero del Pubblico impiego; curandolo invece ramo per ramo, coinvolgendo che ci lavora, perché dia frutti migliori). Ma un cambio di rotta richiede anche una montagna di nuove spese: in ricerca, in istruzione (scolastica e permanente), in manutenzione del territorio, in riconversione delle fabbriche obsolete o senza mercato, in promozione di una conversione energetica che ci liberi gradualmente dalla dipendenza dall'estero e dai combustibili fossili, in un'agricoltura che restituisca fertilità ai suoli e cibo sano ai consumatori. E soprattutto per garantire a tutti e ciascuno possibilità di non dipendere giorno per giorno dai capricci di un mercato globale fuori controllo e dall'arbitrio di imprese attente solo alle quotazioni del loro capitale.

Sono in gran parte le stesse rivendicazioni (e persino le stesse parole: «non vogliamo pagare la vostra crisi») delle rivolte che infiammano le strade della Grecia e delle manifestazioni che riempiono quelle della Spagna - e ora anche del Belgio - e che hanno un unico sbocco possibile: in prima istanza, l'annullamento del patto di stabilità e della stretta sui bilanci degli Stati membri. Poi la garanzia di un reddito decente per tutti. Ma fin da subito c'è da adoperarsi per coinvolgere il maggior numero di soggetti, ciascuno con le sue competenze e a partire dai luoghi dove abita, vive e lavora, nella costruzione dal basso di un piano di interventi articolato su cui esigere l'impegno dei governi, quali che siano, sia a livello locale che nazionale. Oggi programmi del genere non ci sono: troppo pochi ci pensano e quasi nessuno ne parla, perché cambiare radicalmente il paese sembra ancora un sogno. Ma l'Europa di domani, nel pieno di una crisi finanziaria che coinvolgerà l'intero continente e nel mezzo di una crisi ambientale che sta investendo l'intero pianeta, non sarà mai più come quella che abbiamo conosciuto fino a oggi. Se non vogliamo precipitare nel caos che si sta avvicinando, bisogna cominciare a discutere concretamente, caso per caso, delle cose che vogliamo, senza aver paura della sproporzione delle forze in campo. Il vento sta cambiando. «Prepariamoci» titola il suo ultimo libro Luca Mercalli, parlando delle condizioni in cui dovremo a vivere nella crisi ambientale. Prepariamoci anche a una nuova crisi finanziaria che cambierà radicalmente i rapporti di forza nelle situazioni in cui ci troveremo a operare.

Le chiamano guerre senza uomini, unmanned wars, e stanno stravolgendo il nostro rapporto con i conflitti militari e anche col potere. Protagonista è un velivolo che non ha bisogno di pilota perché basta schiacciare da lontano un bottone, e l´aggeggio parte: si chiama drone. A seconda della convenienza esplora terreni oppure decima persone: è un proiettile che varca oceani. Traiettoria, bersaglio, funzioni sono decisi da impenetrabili cerchie di tecnici e politici. Dopo aver bramato per anni guerre a zero morti, adesso Washington predilige guerre a zero uomini. Costano meno, e soprattutto non sono politicamente dannose: l´avversario stramazza, ma svanisce il rischio di veder tornare le salme dei nostri soldati. La connessione tra potere e opinione pubblica si spezza, così come si spezza il nesso tra guerra, legge, democrazia. Non solo. Hai l´impressione che il mondo non sia che un video con playstation, azionato da ignoti individui al servizio di un centro sfuggente che s´avvale impunemente dell´extraterritorialità: come la smisurata mappa di Borges, che «aveva l´immensità dell´impero e coincideva perfettamente con esso». Parte il proiettile, colpisce, e non resta che un ronzio (questo significa drone: il ronzio di un´ape maschio).

In Afghanistan queste offensive sono cominciate da tempo ma adesso sono estese a Pakistan, Yemen, Libia. Dieci anni fa Washington disponeva di 50 droni, oggi di 7 mila. Il drone è diventato una panacea, a partire dal momento in cui le guerre al terrore sono finite in vicoli ciechi. Una dopo l´altra, quasi tutte naufragano. In Afghanistan, dove sono schierati circa 4000 soldati italiani, la sconfitta è data per certa anche se non ammessa: l´aumento delle truppe deciso da Obama ha eccitato gli insorti, accrescendo l´odio delle popolazioni e consegnando a talebani e Al Qaeda terre sempre più vaste (l´intera cintura attorno a Kabul, le regioni ai confini col Pakistan: l´80 per cento circa del paese). Un rapporto pubblicato lunedì dall´International Crisis Group conferma l´esistenza di un´«oligarchia criminale di affaristi tra loro connessi, comprendente governanti corrotti e malavita, che domina l´economia usando gli aiuti occidentali».

Questo il lido desolato cui è approdata la quasi decennale guerra afghana; a questo son serviti i 2.547 caduti della coalizione, i morti civili (tra 14.000 e 34.000), i milioni di profughi, e un costo, per l´Occidente, di oltre 500 miliardi di dollari. La sola America spende ogni mese 10 miliardi. Ecco perché sono nate le trattative Usa coi talebani: cioè con l´avversario che si pretende di combattere, sterminandolo magari con i droni. Il cambio di strategia avviene senza partecipazione degli europei, e senza che essi chiedano conto. Tutte le guerre, anche in Yemen e Libia, sono concepite come brevi e regolarmente s´impantanano. Il fallimento è immenso, l´idea delle missioni umanitarie è a pezzi. Il vocabolo stesso - umanitario - nella migliore delle ipotesi non dice più nulla. Nella peggiore è svilito, giustificando dentro e fuori casa una diffusa e orgogliosa indifferenza al soffrire e morire dell´altro.

È a questo punto che è apparso il drone, cui Obama ricorre assai più sistematicamente di Bush: in Afghanistan e Libia ma anche in paesi come lo Yemen, dove pretende di non guerreggiare, o come il Pakistan, col quale Washington formalmente è alleato. Muovendosi nell´aria come predatori, i droni rappresentano una novità da molti punti di vista: politici, legali, etici. Negli Stati Uniti non è l´esercito a gestirli ma la Cia: difficilissimo chiamarla a rispondere democraticamente delle sue cacce extraterritoriali. E pressoché impossibile, per cittadini e Parlamenti, arginare i governi che danno ordini. Che si sia aperto un baratro tra popolo e potere, storcendo la democrazia, lo si è visto quando Obama si è rifiutato di sottoporre l´intervento libico all´approvazione parlamentare: la guerra condotta con droni e senza uomini non è guerra, ha obiettato. «Non è ostilità». La legge del 1973 che obbliga i Presidenti a smettere dopo 60 giorni i conflitti, salvo autorizzazione del Congresso, non vale più.

I droni annientano postazioni libiche e uomini, l´operazione è già costata al Pentagono 716 milioni di dollari e se continua costerà entro settembre 1,1 miliardi, ma appunto: è un ibrido. Stephen Walt, professore di relazioni internazionali a Harvard, denuncia l´inaudito sotterfugio. Che stiamo facendo in Libia - domanda nel suo blog - se non una guerra? «Quel che sappiamo, è che abbiamo inviato missili Cruise e droni per colpire vari bersagli militari; che più volte abbiamo attaccato il quartier generale di Gheddafi; che diamo informazioni agli alleati Nato che compiono raid per proprio conto».

Quando Bush s´armò contro il terrore molti lo criticarono, in America ed Europa. Era sbagliato il termine guerra: dava ai terroristi il nobile statuto di belligerante. Meglio escogitare una politica che riconoscesse le radici del male, accompagnandola a sequestri bancari e azioni di polizia come si fa con le mafie. Lo scacco in Iraq e Afghanistan non ha tuttavia insegnato alcunché e la vecchia strategia continua, solo che s´acquatta e mimetizza: i droni rivoluzionano la tecnica, i cervelli, la democrazia, ma a fini conservatori. La politica di ieri vien resa più efficace eludendo la legge internazionale, sottraendola a controlli democratici. La parola guerra scompare, ma guerra resta: per chi viene ucciso non è una differenza enorme, farsi ammazzare da velivoli con piloti o senza. In patria, saranno ricordati come morti in guerra. Dominiamo forse la mappa immaginaria di Borges. Non i vocaboli del mondo reale.

La nuova guerra viene condotta nel frattempo in Pakistan e Yemen. Anche qui, è stato Obama a incrementare le occulte guerre senza equipaggi. In Yemen, l´offensiva è condotta nella convinzione che né il governo locale né gli istruttori militari Usa siano capaci. La guerra senza uomini è clandestina, opaca, mortifera: nessuno è responsabile. Lo Stato israeliano è ricorso ripetutamente agli UAV (unmanned aerial vehicles) nella guerra in Libano del 1982 e a Gaza (Piombo Fuso) nel 2008. È l´arma perfetta per un occupante che si finge non occupante.

Lo scandalo è che nessuna discussione seria è iniziata, tra europei e americani, sul futuro in cui stiamo entrando. Da tempo le amministrazioni Usa sprezzano la Nato, che richiede troppe consultazioni pubbliche ed è vista come residuo fastidioso della guerra fredda. Solo gli Stati europei, governi italiani compresi, s´aggrappano accidiosamente al residuo sfilacciato. Eppure ce ne sarebbero, di cose da ripensare. L´articolo 11 della nostra Costituzione ripudia la guerra ma non l´esclude, visto che «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità» imposte da organismi internazionali di cui siamo parte e che promuoviamo. Ma queste istituzioni dove sono, quando si tratta di pace e guerra? L´Europa non ha il fegato né per chiederlo, né per osare una propria risposta.

Non rimane che questo ronzio d´api in cielo, ma nessuno sa chi spari, chi sia giuridicamente imputabile. Spesso non si sa neanche il volto dell´ucciso, nonostante l´anonimato sia vietato dal diritto internazionale. È proibito anche seppellire la vittima in fosse comuni o luoghi non identificabili, come il mare nel quale è stato immerso Bin Laden: perché se scoppia una controversia, come riesumare la salma?

Cosa significa l´articolo 11, in tali condizioni? La guerra dei droni è a immagine della mappa di Borges, e arriverà il momento in cui i cartografi la riterranno inutile: «Non senza empietà, l´abbandoneranno alle inclemenze del Sole e degli Inverni. Nei Deserti dell´Ovest sopravvivono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendicanti».

In questi giorni in molti parlano di Alta velocità, e per questo è utile ripercorrere, per sommi capi, la storia di questa scelta. Il progetto Tav comincia ad essere pensato e progettato dentro le Fs oltre vent' anni fa. Subito si apre un dibattito serio e ampio, cui parteciparono trasportisti, urbanisti, economisti, le associazioni ambientaliste tutte, gli ambientalisti del Pci e poi Ds (che io dirigevo), i verdi, la Rifondazione appena nata, i sindacati.

Due le proposte che si confrontavano: da una parte il progetto Tav che prevedeva una direttrice verticale Napoli-Milano e una orizzontale Venezia-Torino-Lione. Treni super veloci, su binari diversi da quelli normali, con molte gallerie e dunque molti scavi, costi alti e tempi lunghi di realizzazione. A sostegno di questo progetto non solo le Ferrovie ma i governi dell'epoca, i poteri forti, l'Impregilo e la Fiat in primis ma anche alcune cooperative, diverse banche. E i sindacati, che pensavano ne potesse venire lavoro e occupazione.

Dall'altra parte, il nostro progetto alternativo prevedeva il raddoppio della rete esistente, l'utilizzo della vecchia per le merci in modo da arrivare a standard europei nel trasporto su ferro. La nuova rete doveva viaggiare in parallelo un po' più veloce per le persone, ma per tutti, pendolari in primis. Un progetto fattibile in 6/8 anni e che costava la metà. La prima proposta metteva al centro la velocità, e per questo veniva spacciata come più moderna. Noi mettevamo al centro lo spostamento delle merci dalla gomma al ferro (come la Germania stava già facendo) e l'esigenza di dare a tutti i cittadini un servizio più rapido ma non super veloce. Questo secondo progetto avrebbe diminuito le emissioni perché avrebbe diminuito del 30/40 per cento i mezzi pesanti, con impatti ambientali minimi.

Alla fine ebbe la meglio il progetto Tav, sostenuto non solo dai sindacati ma anche da tutti i partiti più grandi, compresi i Ds dove solo gli ambientalisti si schierarono contro.

Persa quella battaglia, gli ambientalisti (ma anche molti sindaci, amministratori, cittadini) si dedicarono a migliorare l'impatto ambientale dell'opera ormai decisa. Se qualcuno avesse la pazienza di andare a vedere come erano i primi progetti tra Firenze e Bologna e Roma e Napoli vedrebbe come sono cambiati, pur restando dentro una logica che non abbiamo mai condiviso. Cercammo di minimizzare i danni. Nel frattempo i costi della Tav lievitavano di giorno in giorno. E i tempi: le merci continuavano a girare in gran parte su gomma, cresceva il disagio dei viaggiatori normali, e dei pendolari che usano il treno per andare al lavoro. Furono chiuse diverse linee piccole. Ogni tratta aveva i suoi problemi e quella della Valle Susa ne proponeva di enormi, per la fragilità del territorio, per l'attraversamento della valle che già da parte di una grande arteria con migliaia di mezzi pesanti su gomma ogni giorno. Anche su quella tratta si sono apportati cambiamenti, ma resta un'opera ambientalmente molto impattante e di dubbia utilità per diminuire il traffico pesante.

Così è andata. Gli anni ci diranno chi aveva ragione. Penso e temo che alla fine, come per il nucleare, la ragione stia dalla nostra parte. Ecco perché continuare a porre dubbi su quella scelta è legittimo, non è eversivo e soprattutto non è irresponsabile, come qualcuno dice. Anche sul nucleare eravamo irresponsabili noi che non lo volevamo dall'inizio.

Quante discussioni ho fatto con Pier Luigi Bersani quando eravamo ancora nello stesso partito sia sulla Tav sia sul nucleare. Sul nucleare ho avuto ragione io, e non lui che era favorevole. Sulla Tav lo diranno gli anni. Ma anche sul Ponte sullo stretto abbiamo avuto ragione noi ambientalisti, e anche su quell'opera il Pci prima e poi i Ds erano in gran parte favorevoli. Ora il Pd ha cambiato idea. E anche sull'acqua vedo con piacere che la posizione del Pd e di Bersani è cambiata.

Discutere dunque serve. E serve la partecipazione dei cittadini. Noi non abbiamo mai discusso solo per dire no. Abbiamo controproposto altre strade, perché il nostro ambientalismo è serio e propositivo. Quanto al fatto che in ogni lotta alcuni gruppi e centri sociali si infilino dentro è fenomeno normale, può non piacere ma non è una buona ragione per scatenare la repressione più dura.

Da ultimo il direttore di Europa scrive che noi di Sel [l’Autrice è dirigente di Sel-n.d.r.] non saremmo alleati affidabili e che non abbiamo una cultura di governo perché abbiamo sollevato dubbi sulla Tav. Trasecolo: proprio perché abbiamo una cultura di governo li abbiamo sollevati. Vogliamo ferrovie efficienti e popolari, e treni umani per i pendolari. Lavoriamo perché il sistema trasportistico italiano diventi europeo e dunque porti una buona metà delle sue merci su ferro. Questi obiettivi la Tav non li ha garantiti dove è stata fatta, e non li garantirà in futuro. Ci vuole coraggio nelle scelte, anche quello di cambiare strada se quella intrapresa non risponde alle esigenze di un paese e dei suoi cittadini. Convinceteci del contrario, siamo disponibili ad ascoltare. Ma randellare non è discutere.

I No Tav.
Un movimento «comune»

di Pierluigi Sullo

In Valle di Susa si scontrano il passato e il futuro. La mobilitazione militare di migliaia di poliziotti, di tutti i media, di pressoché tutti i partiti e delle istituzioni locali e nazionali, di Confindustria e di plotoni di parlatori televisivi di centro-qualcosa non è riuscita a capovolgere la realtà: il passato è il preteso "sviluppo", la vantata modernità del mega-tunnel che distruggerebbe la valle; il futuro sta nelle azioni, nei progetti, nelle proposte dei valsusini che si oppongono a questa "grande opera", i No Tav.

Ieri, sulla Repubblica, Ilvo Diamanti ha scritto, a proposito dei referendum: «C'era nell'aria una domanda di valori... diversi da quelli propagandati dal "pensiero unico"», e, aggiungeva, in occasione dei referendum «è avvenuta "la scoperta del movimento"... una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate». Chiediamoci quale sia il movente, anzi la cultura, che anima, in modo diffuso e articolato anch'essa, queste esperienze. E perché risulta che nel referendum le motivazioni "politiche", ossia dare una lezione a Berlusconi, e lo stesso quesito sul legittimo impedimento, fossero di gran lunga meno importanti, agli occhi di chi è andato a votare, dell'oggetto dei referendum: la tutela dell'acqua dalla privatizzazione e il rifiuto del nucleare. Ovvero, la ripulsa di due capisaldi di un modo - irrimediabilmente vecchio, ormai gravemente dannoso - di guardare alla vita della società. Un modo che, con uno stile e un linguaggio che i partiti e gli opinion maker cominciano a scoprire solo ora, la nuova società organizzata respinge - cambiando anche en passant i sindaci di grandi città e le percentuali di partecipazione ai voti referendari. I beni comuni non sono commerciabili, privatizzabili, sottoponibili alla logica inesorabile della massima profittabilità. E per conseguire questo scopo si deve creare una nuova forma della democrazia, dato che quella vecchia è ormai pienamente nelle mani di chi i beni comuni vuole a tutti i costi commerciare e privatizzare. Qui sta la frattura sempre più profonda tra i "rappresentanti" e i cittadini.

Questo "movimento" - più che altro un cambio progressivo di civilizzazione e di mentalità, di relazioni tra persone e dentro le comunità - non è "nuovo". Viene ora a compimento un processo iniziato alla fine del secolo scorso, che ha avuto le sue tappe nell'opposizione alle guerre - quella contro la Serbia e quella contro l'Iraq - e nelle manifestazioni come quella di Seattle, nei Forum sociali mondiali, nello zapatismo e nell'insorgenza indigena latinoamericana, nel grande movimento che a Genova, dieci anni fa, fu aggredito in modo feroce. E lo fu, come ora i valsusini, perché il potere ha perso la sua legittimità, qualcuno direbbe la sua egemonia: il suo discorso sullo "sviluppo" che certo costa ma che frutterà inevitabilmente benessere suona ora come una brutta favole in cui il lupo divora l'agnello. Perché nel frattempo l'espressione "beni comuni" si è allargata a tutta la vita della società: tale è l'acqua, tale l'energia, ma lo è anche il suolo, quello agricolo e quello urbano, lo sono l'aria e il paesaggio, il mutuo aiuto sociale (o welfare), bene comune è evitare che i sottoprodotti di un modo di vivere dissennato riempiano le strade come a Napoli, lo sono il lavoro (il buon lavoro utile alla società) e la stessa democrazia.

Di questo rinascimento, in fondo al tunnel di trent'anni di liberismo, ossia del capitalismo più cinico nei confronti del contesto sociale e ambientale, i cittadini della Val di Susa sono padri fondatori. La loro opposizione alla Tav è iniziata vent'anni fa, e in questo periodo hanno resistito ad ogni sorta di minaccia e di tentativi di corruzione, hanno argomentato e conquistato non solo la partecipazione dei loro concittadini ma la simpatia di chiunque, in Italia, si trovi alle prese con quel genere di "sviluppo", si tratti di un'ennesima autostrada, di un rigassificatore, di una speculazione fondiaria in città già esauste. I No Tav sono i fratelli della «molteplicità di esperienze» di cui parla Diamanti. Perciò nel 2005, quando le truppe di un altro ministro degli interni li invasero, furono decine di migliaia a migrare verso l'ultima valle in alto a sinistra, dove formarono un corteo lungo 80 mila persone e insieme ai valsusini si ripresero Venaus. Lo facevano per se stessi, non solo per solidarietà, e gettavano le fondamenta di quella bella casa comune che è il solo no sancito da un voto popolare, in tutto il mondo, al furto dell'acqua.

Ora risulta che la valle sia bloccata, che gli operai - chiamati dalla Fiom - siano in sciopero. Nonostante la conquista della Maddalena e il ridicolo atteggiamento da "veni, vidi, vici" di Maroni, quello che "fa casino" nella Lega nord. Sanno anche loro, Fassino, Marcegaglia e il capo della polizia ferroviaria di Torino, Spartaco Mortola, condannato per la "mattanza" alla Diaz e quindi promosso, che non si può fare un tunnel di quel genere contro un'intera popolazione. Vogliono solo mettere le mani su un po' di soldi europei e aprire un cantiere, fare qualche buco per terra e battersi il petto come gorilla soddisfatti. Lo stesso Castelli, quello che da ministro della giustizia visitò nel 2001 la caserma di Bolzaneto mentre i ragazzi venivano torturati, e non notò nulla di strano, e che ora dice che gli argomenti dei No Tav sono "tutte balle" (è il loro stile), ha dovuto ammettere, da viceministro alle infrastrutture, che il mega-tunnel è del tutto inutile, ai fini del traffico ferroviario, che piuttosto diminuisce. Ma sappiamo che è molto utile a imprese, a politici, alla mafia, ad arraffare denaro. E a spezzare le reni, colpendo i valsusini, a quelli che in tutto il paese pretendono di fare politica a modo loro, ad esempio umiliando la Lega a casa sua, a Milano.

Non sappiamo cosa decideranno di fare adesso i valsusini. Se chiameranno a una manifestazione, è probabile che sarà anche più grande di quella del 2005. Ma sarebbe un grande segnale se, come nel 2003 milioni di balconi furono decorati con i colori della pace, e come in primavera molte finestre esposero la bandiera blu dell'acqua, ora si producessero, distribuissero ed esponessero ovunque le bandiere bianche con la scritta rossa "No Tav", come si vede da anni in Val di Susa. È un'idea come un'altra: la fantasia non manca di sicuro, al movimento dei beni comuni.



Alla Maddalena la società dei beni comuni

di Ugo Mattei

Una bellissima serata estiva. Automobili parcheggiate in ordine su chilometri di strada tra Gravere e Chiomonte. Un serpente illuminato, lunghissimo, fiaccole in fila che procedono silenziose dal primo cancello della Libera Repubblica della Maddalena, fondata sui beni comuni, fino al campo base. Tende in bell'ordine, un'organizzazione attenta a ogni dettaglio. Una tenda con i medici, un presidio di avvocati, un'attenzione assoluta alla legalità formale e sostanziale. Il campo base regolarmente concesso dal Comune; regole condivise, attente al rispetto della natura. Nessuno può buttare per terra neppure un mozzicone spento. 5000, forse 8000 persone raccolte nella serata di domenica sera. Un palco allestito dal quale parlano intellettuali, artisti, sindacalisti, il leader di Rifondazione Paolo Ferrero, quello del Partito Comunista dei lavoratori Marco Ferrando, quello storico del movimento No Tav Alberto Perino, recentemente inquisito per reati d'opinione: autorevolissimo e rassicurante.

Viene letto un appello a fermarsi che avevamo messo insieme affannosamente nel pomeriggio (fra i firmatari anche due magistrati); viene portata la solidarietà dei compagni del Valle occupato, anche loro in lotta per un bene comune. Il popolo dei beni comuni, impegnato nelle battaglia contro lo scempio legale, sociale e politico della Tav, discute e condivide. C'è consapevolezza di essere dalla parte della ragione, tanto formale quanto sostanziale. La strategia di resistenza fondata sulla non violenza ma sulla fisicità "con la schiena dritta" è ribadita, ma non c'era neppure bisogno di farlo. È la conseguenza naturale della prosecuzione in Val Susa di quella lotta per la difesa dei beni comuni che implacabilmente sta cambiando gli assetti politici del nostro paese. I beni comuni sono concepibili soltanto in una logica ecologica, sono legittimati da un grande progetto costituente di lungo periodo, il solo che potrebbe salvare la vita sul pianeta. Questa logica collettiva, a differenza di quella individualizzante della proprietà privata e dello Stato sovrano, include e non esclude, diffonde il potere, sconfigge ogni sopraffazione.

Tutto è condivisione a Chiomonte. La Libera Repubblica della Maddalena è stata, e ancora sarà, una buona pratica globale di governo locale dei beni comuni. Alla Maddalena c'era la parte migliore dell'Italia, quella che sconfiggerà un modello di sviluppo scellerato, imposto senza alternative da un pensiero unico bipartisan. Il potere se ne accorge. Ha paura perché vede messa in discussione la sua legittimità formale e sostanziale. Per questo risponde con la violenza dei suoi blindati, dei suoi lacrimogeni, dei suoi arresti. Il potere (di maggioranza e opposizione parlamentare) sa di essere oggi privo del sostegno politico della maggior parte del paese.

Tutti quei temi referendari che solo due settimane fa si sono rivelati maggioritari nel paese sono declinati, come in un minilaboratorio, in Val di Susa. Negli scorsi mesi la resistenza di fronte all'implacabile tenaglia dell'alleanza fra Stato e capitale privato, che produce saccheggio in nome della legalità, ha reso naturalmente coerenti (e vincenti) la battaglia per l'acqua e quella contro il nucleare. Oggi si tratta di far capire a tutto il paese che quello stesso scontro, con tutti gli stessi protagonisti sull'uno e sull'altro fronte, è in corso intorno alla Tav, un nuovo grande progetto di saccheggio. Farlo capire è difficile ora come allora, perché il blocco mediatico oscura la verità, confonde la ragione e il torto, asserisce falsità con la stessa violenza fascista (le cose vanno chiamate col loro nome) con la quale migliaia di uomini armati ed equipaggiati di tutto punto hanno brutalizzato, nelle prime ore del mattino, quella mirabile simbiosi fra uomo e territorio che è la Libera Repubblica della Maddalena. Da oggi questo territorio, questo primo esperimento di "Società dei beni comuni" è occupato illegalmente, governato dalla logica brutale della sopraffazione sull'uomo e sulla natura. La lotta sembra impari. Anche il referendum sull'acqua sembrava una battaglia impossibile da vincere.

É opportuno ricordare che il movimento No Tav non si batte solo (con altissima civiltà e competenza) per la salvezza della valle, ma anche contro un’opera che, al di là della retorica di cui la maggioranza dei potenti (della politica, dell’economia e della comunicazione) la ammanta, è inutile, dannosa e costosa per il bilancio pubblico (cioè per i cittadini). Rinviamo ai molti articoli in questa cartella che dimostrano come e perché quell’opera è una truffa. Per esempio, Che siate pro o contro la TAV, forse volete sapere chi la paga, oppure volete sapere perchè L'analisi costi-benefici boccia la Torino - Lione, oppure volete sentire il parere del prof. Marco Ponti che vi racconta perchà I costi dell'alta velocità corrono più dei treni. E per venire ai più recenti, ancora il parere di Marco Ponti, e i numeri ricordati da Luca Mercalli

Grande è il disordine sotto il nostro cielo. Due mesi di consultazioni - elezioni amministrative e referendum - hanno rivelato un cambiamento profondo nel clima d´opinione. Ma non è ancora chiaro come e perché sia avvenuto. I dati dell´Atlante Politico, raccolti da Demos nel sondaggio condotto nei giorni scorsi, offrono al proposito molte indicazioni. Utili a decifrare i motori della svolta elettorale - e politica - di questa fase. 


1. La prima causa è la delusione. Nei confronti del governo, di Berlusconi, ma anche della Lega. Il giudizio sul governo non è mai stato così negativo, da quando è in carica. Come, d´altronde, quello su Berlusconi. Apprezzato dal 26% degli elettori. Quasi 10 punti in meno rispetto a sei mesi fa. Perfino Bossi lo supera, seppur di poco. Tuttavia, i suoi elettori sono insoddisfatti. Tanto che, tra i motivi della partecipazione al referendum, i leghisti indicano la volontà di "punire il (loro) governo" in misura maggiore rispetto a tutti gli altri elettorati (43%; 10 punti in più della media generale). D´altronde, non è un caso che il leader più apprezzato sia Tremonti. Cioè: l´alternativa a Berlusconi. 


2. La "delusione" verso il governo si riflette negli orientamenti elettorali. Il Pdl, infatti, è superato dal PD. In generale, peraltro, il vantaggio dei partiti di Centrosinistra su quelli della Maggioranza supera ormai i 7 punti. D´altronde, Bossi l´ha detto chiaramente, a Pontida. Se si votasse oggi, la Sinistra vincerebbe. Per cui conviene "resistere". Asserragliati nel Palazzo. 


3. Tuttavia, il cambiamento del clima d´opinione ha altre ragioni, oltre la delusione. Anzitutto, la voglia di partecipazione, che ha spinto quasi il 60% degli elettori a votare, in occasione del referendum. Nonostante l´indifferenza o l´ostilità dei partiti di maggioranza. Nonostante il silenzio di MediaRai. O forse proprio per questo. D´altra parte, ha votato oltre un quarto degli elettori del PdL, ma quasi metà (il 42%, per la precisione) di quelli della Lega. Un orientamento favorito dall´emergere di nuove domande e nuovi valori. Il quesito relativo al "legittimo impedimento" risulta, infatti, il meno importante, secondo l´opinione degli elettori. Scelto dal 13% dei votanti (intervistati da Demos). Molto più larga la componente di quanti attribuiscono maggiore significato ai quesiti sul "nucleare" e sulla "privatizzazione dell´acqua". Segno che la mobilitazione ha intercettato sentimenti che vanno ben oltre l´antiberlusconismo. C´era nell´aria una domanda di valori (e anche "timori") diversi da quelli propagati dal "pensiero unico" del nostro tempo. Il referendum ha fornito loro l´occasione di "rivelarsi" ed esprimersi.


4. Tuttavia, il clima d´opinione non cambia da solo. Non bastano la "delusione" e le "nuove paure" - relative all´ambiente, alla salute, al lavoro - a modificarlo. Ci vogliono nuovi "attori", in grado di ri-scrivere l´agenda pubblica. Imponendo all´attenzione dei cittadini nuovi temi.
Ciò è avvenuto in occasione del referendum - e prima delle amministrative. In questo esatto momento è avvenuta la "scoperta del movimento". Formula semplice e un po´ semplificatoria, attraverso cui si è cercato di definire la mobilitazione sociale - inattesa - alle amministrative e ai referendum. In effetti, non di "un" movimento, si tratta. Ma di una molteplicità di esperienze: diverse, diffuse e articolate. Nella società e sul territorio. Hanno agito e scavato per - e da - molto tempo, in modo carsico. Oltrepassando l´area tradizionalmente "impegnata", prevalentemente composta da uomini, di età matura.

I dati dell´Atlante politico di Demos tratteggiano, al proposito, una radiografia piuttosto precisa e chiara. Diversa dalla tradizione. Proviamo a ricostruirla, risalendo (o ri-scendendo), un ramo dopo l´altro, "l´albero della partecipazione".
a) Se il 57% degli elettori italiani ha votato al referendum, il 16% ha fatto campagna elettorale. Oltre un quarto dei votanti. Tanti, se si pensa agli stereotipi che vorrebbero la società amorfa e conformista. 
b) In secondo luogo: quasi il 60% di chi ha partecipato alla campagna elettorale (il 9% dell´elettorato) non l´aveva mai fatto prima. Si tratta di una partecipazione "nuova", caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all´impegno politico. In primo luogo e in particolare, le donne e i giovani. Un terzo dei "nuovi" impegnati, infatti, ha meno di trent´anni. Una misura doppia rispetto a quel che si osserva nell´ambito degli impegnati di "lungo corso". Parallelamente, nell´area della "nuova" partecipazione appare molto ampio il contributo degli studenti - ma anche degli operai. La partecipazione "tradizionale", invece, è ancora animata da pensionati e impiegati pubblici.
c) Quanto alle modalità e ai canali di partecipazione, solo il 18% circa delle persone impegnate in campagna elettorale ha adottato modelli di "militanza" esclusivamente tradizionali. Partecipando a comizi, manifestazioni, distribuendo volantini, ecc. 
Metà di coloro che si sono impegnati nel referendum, invece, ha praticato una sorta di "campagna leggera". Realizzata attraverso contatti personali. Con amici, genitori, nonni, zii, cugini. Parenti e conoscenti. Infine, la rimanente parte dei cittadini impegnati (circa un terzo) ha seguito un modello "reticolare". Ha, cioè, utilizzato le nuove tecnologie della comunicazione e in particolare la Rete. 
Si tratta di due modelli altrettanto importanti. Il primo perché penetra nelle pieghe della vita quotidiana. Plasma il senso comune. Coinvolge persone altrimenti escluse dai messaggi politici. L´altro modello, invece, sfida la - e si sottrae alla - comunicazione tradizionale. In particolare, al/la televisione e a/i suoi padroni. Pubblici e privati. 
Entrambe queste modalità di partecipazione, peraltro, sono poco visibili. E per questo non sono state colte per tempo. 
I "nuovi" protagonisti dell´impegno politico - donne, giovani e studenti - si sono caratterizzati per un elevatissimo utilizzo del modello "reticolare". 


5. Quelli che hanno votato al referendum, quelli che si sono impegnati per militanza consolidata o per la prima volta. Hanno un orientamento politico trasversale. Prevalentemente di Centrosinistra. Ma molti di essi sono di Centro e di Destra. Oppure incerti e disillusi. Canalizzarne il consenso: non sarà facile per nessuno. Non può venire dato per scontato da nessuno. Neppure nel Centrosinistra. Dove si sono già accese le liti e le dispute - partigiane e personali. Per contendere il "nuovo" clima d´opinione. Per intercettare le molecole della "nuova" partecipazione. Largamente inattesa e invisibile. Anche a Centrosinistra

Per finanziare la costruzione a Venezia di un nuovo Palazzo del Cinema da cento milioni (iniziali), è stata concepita una complessa operazione immobiliare con la dismissione di un vecchio ospedale, anomalie e procedure poco trasparenti, nomina di un commissario governativo e aste vinte dalle aziende che già costruiscono le dighe del Mose. Alla fine, in un crescendo dei costi e cambi di progetto, verrà cementificata l'intera isola del Lido. Senza che sia costruito alcun Palazzo del Cinema. Una storia esemplare di sprechi, ma con un probabile utile record per il fondo privato che ha realizzato l'operazione.

Il progetto del Palazzo del Cinema di Venezia

Sette anni fa la Biennale, allora presieduta da Davide Croff, lanciò un concorso internazionale per realizzare il nuovo Palazzo del Cinema al Lido di Venezia. Il progetto vincente sarebbe costato circa cento milioni di euro. L’anno successivo (era il 2006) il Governo si impegnò a cofinanziare l’opera nell'ambito delle celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia con un contributo di circa 40 milioni. La cifra non finanziata dal Governo sarebbe stata a carico del Comune di Venezia e della Regione Veneto. A gestire tutta l’operazione venne chiamato non il sindaco di Venezia, ma un commissario governativo con poteri inizialmente limitati al nuovo palazzo del cinema e poi via via estesi a tutta l’isola del Lido.

Vecchi ospedali e nuovi fondi

Per reperire i fondi necessari, che Comune e Regione certo non avevano, si mise in piedi un'operazione immobiliare. Con la regia del commissario, il Comune (a quel tempo retto dal sindaco Massimo Cacciari) avrebbe acquistato dalla Ulss (Unità locale socio sanitaria) 12 del Veneto (e quindi dalla Regione) il vecchio ospedale del Lido. Una variante del piano regolatore, approvata in anni precedenti, già consentiva un cambio di destinazione di alcuni edifici del complesso ospedaliero. Il Comune avrebbe esteso questo cambio di destinazione a tutta l’area dell’ospedale e lo avrebbe venduto moltiplicandone il valore.

Così avvenne. Per arrivare alla vendita furono necessarie due gare delle quali la prima andò deserta, mentre la seconda -indetta con tempi brevissimi, meno di tre mesi, in modo da rendere pressoché impossibile la partecipazione di grandi gruppi immobiliari esteri - si concluse con un prezzo di circa 72 milioni di euro. L’acquirente è il fondo immobiliare Real Venice gestito dalla società EstCapital del quale sono azionisti alcune delle imprese che stanno costruendo le dighe del Mose: Mantovani e Condotte. Del prezzo di vendita, 32 milioni sarebbero andati alla Ulss, il resto al Comune, una cifra non lontana da quanto necessario per contribuire alla costruzione del nuovo Palazzo del Cinema, sebbene ancora insufficiente.

In base a queste premesse venne fatto l’appalto per la costruzione del Palazzo del Cinema.

Errori procedurali

In questa semplice sequenza vi è già una serie di errori procedurali: (i) un commissario senza che vi sia nessun motivo di emergenza; (ii) l’estensione dei poteri del commissario (nel frattempo era stato nominato Vincenzo Spaziante, un funzionario della Protezione civile) cui vengono accordati pieni poteri su tutto il Lido, anche in deroga alla normativa vigente e nonostante l’opposizione del nuovo sindaco di Venezia Giorgio Orsoni; (iii) la distrazione di risorse Ulss per fini non sanitari: l’ospedale è stato venduto dall’Ulss al Comune per 32 milioni e da questi rivenduto per 72 - un’incauta vendita da parte dell’Ulss: infatti il piano regolatore già prevedeva, almeno in parte, il cambio di destinazione.

…E anomalie

Comunque, fatto l'appalto, iniziano i lavori per il nuovo Palazzo del Cinema e il commissario, in attesa che il Comune incassi, comincia l’opera utilizzando i fondi destinati dallo Stato. Rapidamente, ma non prima di aver speso 37 milioni, come dichiarato da Spaziante il 16 giugno scorso (nessuno sembra stupirsi di come sia stato possibile spendere 37 milioni di euro per fare un buco, se pur grande) si scoprono, nel sottosuolo dell’area, dei rifiuti in amianto. Evidentemente, le cose erano state fatte così in fretta che nessuno aveva pensato di fare delle verifiche. I costi lievitano al di là dei 100 milioni inizialmente previsti. Poiché i soldi nessuno li ha, il commissario abbandona il progetto. "Non c’è altra via, con la sola finanza pubblica non saremmo riusciti ad arrivare alla fine, visti i costi aggiuntivi dovuti alla presenza dell’amianto – spiega all’Ansa il ministro Galan – finora sono stati spesi 37 milioni e quello che è stato realizzato con quei 37 milioni dovrà essere ricompreso nel nuovo progetto". Non mi è ovvio come, dato che verrà costruita una sala cinematografica, invece di un grande Palazzo del Cinema.Sacaim, l’impresa che si vede cancellare i lavori per il Palazzo del Cinema, chiede al commissario un risarcimento di 50 milioni. Come scrive La Nuova Venezia l’impresa “non ci sta a fare da capro espiatorio per il grande pasticcio del PalaCinema”.

Il progetto cambia ancora

Le disavventure del progetto non finiscono qui. La cubatura promessa al fondo di EstCapital consentiva la costruzione di due grandi torri: nessuno aveva osservato che dietro all'ospedale c'è un aeroporto, che con quelle torri avrebbe dovuto esser chiuso. Conclusione: le torri non si possono fare. EstCapital chiede di essere compensata. Il commissario, interpretando in modo un po’ lato i suoi poteri, acconsente alla costruzione di una darsena per imbarcazioni turistiche, lungo una delle bocche di porto del Lido - proprio là dove si sta costruendo il Mose, con evidenti economie di scala, essendo gli azionisti di EstCapital, e quindi le imprese che presumibilmente costruiranno nell’area del vecchio ospedale, le stesse che stanno costruendo il Mose. Una darsena per un migliaio di barche, la cui dimensione sarebbe analoga all’isola della Giudecca. La rinegoziazione del contratto consente al commissario di alzare il prezzo e ottenere una cifra più vicina a quella di cui il Comune avrebbe dovuto disporre se si fosse costruito il Palazzo del Cinema. Dai 72 milioni iniziali il prezzo di vendita dell’area dell’ospedale lievita a 81 milioni: alla Ulss sempre 32, al Comune 49.

Ma agli acquirenti la compensazione non basta: chiedono al commissario di poter acquistare ed edificare anche il bel parco della Favorita, adiacente all'ospedale. Il commissario fissa un prezzo, 20 milioni, che EstCapital ritiene troppo elevato: quell’asta va deserta (per ora).

Conclusione: l'isola del Lido verrà stravolta senza alcun motivo perché non si costruirà alcun palazzo del cinema. Il Comune (se la Corte dei Conti non obietterà) incasserà 49 milioni, dai quali occorre detrarre i 37 pagati dai contribuenti per fare il buco. Potrebbe andare a finire che l’isola del Lido è stata cementificata per un incasso netto di soli 12 milioni - o con una perdita netta di 38 milioni, se il giudice obbligherà il commissario a pagare alla Saicam il risarcimento chiesto dall’impresa.

Quanto guadagna l’immobiliarista privato?

La cosa straordinaria è che queste cifre sono briciole rispetto all’utile presumibile del fondo che ha fatto l’operazione immobiliare. Azzarderò un calcolo, premettendo che i numeri sono solo stime, ma non credo lontanissime dal vero. I metri quadrati realizzabili nell’area dell’ospedale sono, come detto, circa 70mila; il valore atteso della vendita è stimabile intorno ai 7mila euro/mq, il che porta ad un valore lordo complessivo della vendita vicino a 500 milioni di euro; il costo di realizzazione è stimabile in 140 milioni di euro (2mila euro/mq), ai quali si possono aggiungere oneri vari per 20 milioni di euro, per un totale di 160 milioni di euro; il costo di acquisto dell’area, come detto, è stato 81 milioni di euro; il costo complessivo dell’operazione è quindi 240 milioni di euro circa; l’utile atteso dell’ordine di 260 milioni di euro, senza contare la darsena e i profitti delle imprese che costruiranno.

Signor sindaco, non sarebbe opportuno che Lei usasse i poteri autorizzativi in capo al Comune per impedire questa operazione disastrosa per Venezia?

Postilla

É la logica dei commissari straordinari, baby. Vincenzo Spaziante è stato nominato commissario straordinario, con pieno consenso bipartisan, per la realizzazione del Palazzo del cinema e dei convegni, inserito nell’elenco delle opere celebrative del 150° anniversario dell’unità d’Italia. I suoi poteri sono stati estesi, con pieno consenso bipartisan, a tutte le opere necessarie per lo sviluppo economico del Lido di Venezia. É una logica devastante (condivisa dai riformisti di destra e di sinistra) che ha visto spesso quelli che dovrebbero essere i garanti dei diritti democratici (i sindaci, e in generale gli eletti) complici o promotori dell’abolizione della democrazia. Si veda il libretto del sottoscritto, Lo scandalo del Lido, nella fortunata collana Occhi aperti su Venezia dell’editore Corte del Fontego. (e.s.)

L´artiglieria pesante non tace: il proposito del sindaco di non approvare il Pgt ma riportare indietro le lancette dell´orologio e riesaminare le quattromila e più osservazioni non piace all´opposizione e nemmeno ad altri, vedi il fuoco amico. Ingrati. Il sindaco avrebbe potuto scegliere la via maestra. Revocare in autotutela anche la delibera di adozione in Consiglio e ricominciare tutto da capo. Le ragioni ci sarebbero state: il contenuto dell´attuale Pgt non è in alcun modo ritrovabile nel programma col quale Letizia Moratti si è presentata agli elettori durante la sua prima campagna elettorale, dunque i primi a essere scavalcati sono stati anche i suoi elettori di allora. La verità è che il Pgt rappresenta le idee solo di una parte del partito di maggioranza relativa: quella che fa riferimento a Cl e quindi nemmeno da tutta la vecchia maggioranza; il Pgt in moltissime parti deborda dai limiti di un documento urbanistico per occupare spazi che non gli sono propri, in particolare laddove si parla di attività di servizi normalmente svolti dalla mano pubblica e si indica invece una chiara preferenza per l´intervento dei privati (vedi tutti gli accenni alla "sussidiarietà"); il documento è ambiguo e foriero di mille diverse interpretazioni e quindi di cause e di ricorsi; il documento, a essere generosi, rispecchia una cultura urbanistica inadeguata rispetto ai tempi e ai progressi che la sociologia urbana ha fatto recentemente soprattutto sui temi della convivenza e della sicurezza; il documento considera Milano un´isola del tutto avulsa dal territorio che la circonda salvo considerarlo una sorta di serbatoio di potenziali nuovi residenti; il documento non ha contenuti tali da garantire la soluzione dei problemi tante volte evocati: la casa e il verde. Questo per citare solo alcuni degli aspetti che suggerirebbero la totale ristesura, necessaria poi comunque, per non voler parlare dell´italiano che sembra poco noto, quanto meno nelle norme della punteggiatura. Dunque se il sindaco ha preso la decisione che ha preso, l´ha fatto per non essere accusato - strumentalmente - di fermare il "prorompente" mercato dell´edilizia. Non mi permetto di dare consigli a nessuno ma, se fossi il sindaco, chiamerei gli scontenti, quelli che temono la paralisi e terrei un breve discorso: «Cari amici, non vorrei proprio danneggiarvi e dunque fatemi un elenco delle operazioni urgenti che avevate in animo di far partire e che questo modesto rinvio dell´approvazione del Pgt - qualche mese - inchiodano al palo. Fatemi l´elenco e corredatelo di una seria analisi dell´offerta e della domanda di mercato e non è detto che a fronte di un´evidenza drammatica io non possa accedere alle vostre urgenze». Sarebbe un discorso giusto e che reintrodurrebbe nel dibattito il concetto di mercato, tanto estraneo al documento del Pgt. Sia ben chiaro che stiamo parlando del mercato del mattone e non del mercato finanziario o del salvataggio di bilanci pericolanti di società immobiliari o dell´edificabilità dei demani pubblici (ferroviari e altro) che alimentano solo l´oligopolio immobiliare del quale già Milano è vittima.

Non è concepibile che la Val di Susa divenga di colpo una specie di Palestina per un'opera pubblica.

Qui non si tratta più di essere favorevoli o meno alla Tav, è semplicemente assurdo che il governo e i manifestanti arrivino a questa specie di Intifada, coi blindati, i lacrimogeni, i feriti e le barricate. Finché lo fanno in medioriente per questioni territoriali e religiose (e nemmeno lì è ormai più perdonabile), ma qui stiamo parlando di una ferrovia di un paese che si presuppone civile ed evoluto. Non ci si può ridurre in questo stato.

Non è pensabile che un governo legittimo e le legittime richieste delle comunità locali non trovino un punto di incontro e di dialogo.

È folle un paese in cui un governo ha bisogno di schierare le forze di polizia in guerriglia per attuare una decisione importante ma non epocale, ma è anche vero che è altrettanto folle prendere decisioni contro una comunità locale alla quale si chiede solo di subirle. Non si tratta più di questioni di merito, ma di metodo. Una situazione per certi versi analoga a quella che c'è a Napoli attorno alla spazzatura e alle discariche.

A rendere ancora più demenziale la situazione c'è poi il fatto che in Val di Susa una parte dei manifestanti non è gente della zona, ma ragazzi dei centri sociali del nord, che infatti nel corso della guerriglia hanno invocato l'arrivo dei locali non sapendosi muovere con disinvoltura nella valle. Se infatti accanto alle ragioni pratiche ci si mettono anche questioni ideologiche è la fine.

Quando si arriva all'uso della forza vuol dire che hanno perso tutti, anzi che abbiamo perso già tutti perché quel che accade in Val di Susa potrebbe accadere domani in qualunque zona del paese e per una qualunque opera pubblica. Quando partono i lacrimogeni e la battaglia sul campo vuol dire che non si è riusciti a far prevalere l'arma principe della democrazia: la parola, il dialogo, il consenso. In Val di Susa non ci sono vincitori e vinti: siamo tutti sconfitti.

Apre il 22 giugno a Capo di Bove (Roma), che dal 2008 ospita il prezioso Archivio Cederna, “La via/mia Appia. Laboratorio di mondi possibili tra ferite ancora aperte”, piccola mostra militante allestita fino a dicembre che ripercorre la storia della tutela dell’Appia antica da Luigi Canina (metà ‘800) a oggi, attraverso una settantina di foto storiche dell’Archivio Cederna e attuali. Una grande parete ricuce le tappe principali: iniziative, proposte di legge, piante storiche, documenti.

“Credo sia necessario fare il punto, in un momento di grande incertezza per il destino di questo territorio che non ha trovato ancora una sua definizione”, spiega Rita paris da anni responsabile della regina viarum. Oggi l’Appia è un Parco regionale naturalistico e non archeologico, ha leggi di tutela evidentemente insufficienti, la Soprintendenza fatica a contrastare il continuo fiorire di iniziative private, vivai, ristoranti, piscine, matrimoni, feste ecc. Al contrario l’area da proteggere è stata definita da tempo, i confini ribaditi fin dal piano regolatore del 1931 e dal vincolo paesaggistico del 1953. La sua storia è fatta di abusi continui, in parte condonati e irreversibili, ma anche di battaglie vinte, acquisizioni, scavi e scoperte, splendidi recuperi come quello di Capo di Bove. Con la mostra, Electa pubblica nella collana “Pesci Rossi” gli scritti di Paris, Guermandi, La Regina, Insolera e l’album delle fotografie.

Chi, per propria ammissione, fa una «porcata» è un porco (soprattutto se la porcata è una legge elettorale che priva il popolo della propria sovranità). Il ministro Calderoli sta dando attuazione al ruolo che si è autonomamente assunto bloccando il trasferimento dei rifiuti che ingombrano le strade di Napoli in altre regioni. Non tutte: mentre Toscana, Emilia e Puglia, che si sono dichiarate pronte ad accoglierli - temporaneamente, e per solidarietà - non possono riceverli, Padova, cioè il Veneto, che ovviamente è contrario, ma dove è in progetto, contro gli impegni dell'amministrazione e la volontà popolare, la costruzione di una quarta linea di un inceneritore che ne doveva avere solo due, accoglie e brucia da tempo parecchi rifiuti di provenienza campana a 200 euro la tonnellata.

Quello che il ministro Calderoli cerca di promuovere dal suo scranno romano, tenendo sotto tiro la mummia di Berlusconi, è il caos a Napoli e uno scacco del suo nuovo sindaco, per compensare gli smacchi subiti dalla Lega nei «territori» che considera suoi feudi. Non ci riuscirà. Intanto, i rifiuti bruciati nelle strade di Napoli sono a tutti gli effetti rifiuti «speciali»: quelli che possono viaggiare per tutta l'Italia senza accordi tra le regioni, come da tre decenni viaggiano i rifiuti industriali e ospedalieri con cui le regioni della «Padania» hanno riempito e devastato i suoli e i corsi d'acqua della Campania (e di molte altre regioni del Mezzogiorno). Qualcuno, al Tar del Lazio dovrà pur accorgersene. Poi De Magistris ha dalla sua, oltre a una straordinaria mobilitazione popolare, che lo aiuterà a venir a capo del problema, la voce di Napolitano.

Contro di lui ci sono, nell'immediato, Governo e camorra, impersonata, per l'occasione, dalle bande di ragazzi che impediscono la raccolta dei rifiuti e che li vanno a sparpagliare nelle strade e nelle piazze che sono state appena ripulite. Un po' più defilate, ci sono Regione e Provincia, che non fanno niente per trovare uno sfogo ai rifiuti raccolti, di cui hanno per legge la responsabilità; una responsabilità che il Comune di Napoli invece non ha e non può avere. Ma la fila dei beneficiari del caos è molto lunga, e non finisce né a Napoli né in Campania. Intanto c'è A2A, azienda di Milano e Brescia, che gestisce - controvoglia: glielo ha imposto Berlusconi - un ferravecchio: l'inceneritore di Acerra, che funziona a metà, e male, un giorno sì e l'altro no.

Poi c'è Impregilo - sede sociale a Sesto San Giovanni, provincia di Milano - che l'ha costruito e che ha riempito la Campagna con 8 o 10 milioni di tonnellate di ecoballe indistruttibili, con l'intento di lucrare sugli incentivi concessi all'incenerimento. Poi c'è la Protezione Civile del fu Bertolaso, che ha ereditato, insieme a quelle montagne di ecoballe e al «ferrovecchio», sette Stir (ex-Cdr) che avrebbero potuto liberare la regione dalla necessità di fare nuove discariche, più l'impegno a costruire altri tre - poi quattro - inceneritori oltre che undici discariche; e che ne ha realizzata invece una sola, quella di Chiaiano, controllata dalla camorra, dopo aver governato la regione per oltre due anni con l'aiuto dell'esercito e lasciato in eredità un disastro tre volte peggiore di quello che aveva trovato al suo arrivo. Ma permettendo per due anni - e ancora adesso - a Berlusconi di menar vanto di aver liberato la Campania dai rifiuti. Tutto questo Napoli e la Campania lo devono anche alla Lega.

Il programma di De Magistris non fa una piega. Se Salerno ha raggiunto il 75% di raccolta differenziata in meno di un anno, non si vede perché non lo possa fare anche Napoli, dove la nuova Giunta può contare su una straordinaria mobilitazione popolare, sul concorso di parrocchie, associazioni e comitati e sulla nausea per 16 anni di commissariamento trascorsi in mezzo ai rifiuti. Quanto agli inceneritori, se persino l'avv. Pecorella, Presidente della Commissione parlamentate sul crimine organizzato nel settore dei rifiuti, quando va in Germania scopre che gli inceneritori non si fanno più e sono una tecnologia del secolo scorso, i lamenti dei mille columnist che invocano nuovi inceneritori per risolvere un problema che è solo il frutto di una malagestione - che ha coinvolto, in misura gravissima, anche la società Asìa e la passata amministrazione comunale - sono un ennesimo esempio di ignoranza, disinformazione e malafede dei media italiani.

Ma come affrontare l'emergenza attuale? Dove sversare i rifiuti delle strade di Napoli in attesa che la raccolta differenziata li riduca di tre quarti e compostaggio, trattamento meccanico ed estrusione (un sistema che permette di recuperare fino all'ultimo grammo il residuo) realizzino un riciclo totale? In provincia di Caserta, a Parco Saurino, terreno riconducibile alla proprietà della famiglia Schiavone, c'è da anni - ne ha parlato anche Report - una discarica vuota da 300mila metri cubi (estensibile a 600mila) che nessuno osa toccare. Non l'ha fatto De Gennaro (ex capo della Polizia e futuro capo dei Servizi segreti, mandato a Napoli da Prodi), che ha preferito aprire due nuove discariche illegali, che stanno franando, nelle province di Benevento e di Avellino e trasformare in «depositi temporanei», ma perpetui come le ecoballe, numerosi edifici, tra cui un impianto di compostaggio nuovo di zecca nella vicina San Tammaro; che in questo modo è stato mandato in malora. Non lo ha fatto Bertolaso, che aveva a disposizione l'esercito, miliardi di euro, e che ha preferito aprire una nuova discarica - di 11 che ne aveva in programma - nel cuore di un'area urbana protetta, accanto a un ospedale e a un insediamento residenziale grande come una città. Non lo hanno fatto Bassolino, né Caldoro, né i quattro prefetti che si sono succeduti al comando del commissariato, né lo ha mai chiesto la Jervolino. Eppure, anche se la soluzione del decennale problema dei rifiuti campani non si risolve certo con una discarica, le molteplici «emergenze» che hanno tormentato la regione avrebbero potuto essere evitate utilizzandone una che esiste già. Perché nessuno ha mai proposto di usare quella discarica? E non è il caso che ora De Magistris ne chieda conto al Governo? E non è il caso di fare almeno una interrogazione parlamentare?

L'accordo di programma che dovrebbe definire gli impegni di enti pubblici e soggetti privati per lo svolgimento di Expo, prevede invece anche gli impegni sulla riqualificazione urbanistica e il riutilizzo delle aree interessate. Espropria cioè i comuni di Milano e Rho della loro funzione di pianificazione urbanistica. È dunque necessario stralciare dall'accordo le competenze illegittimamente introdotte ed escludere dalle decisioni sull'assetto del territorio quella parte privata che ha solo la funzione strumentale di assicurare la disponibilità dei terreni.

Mi è capitato di scorrere la versione del 10.6.2011 dell’accordo di programma(Adp) che, una volta sottoscritto dalle parti, credo sarà sottoposto alla ratifica dei consigli comunali diMilanoe diRho; l’accordo, per propria statuizione (art. 3), definisce gli impegni “degli enti pubblici sottoscrittori e dei soggetti aderenti al fine di (…) consentire lo svolgimento dell’Esposizione Universale 2015”. Ma l’accordo pretende di definire anche gli impegni “tra i medesimi soggetti” “atti a favorire, nel periodo successivo allo svolgimento” dell’Expo “la riqualificazione urbanistica delle aree interessate dall’evento espositivo nonché il loro riutilizzo per l’insediamento di funzioni pubbliche o private”.

CHI PIANIFICA IL TERRITORIO

Quest’ultimo obiettivo, tipicamentepianificatorio ed urbanistico, è però del tutto estraneo all’oggetto proprio dell’Adp che viene perciò illegittimamente utilizzato non “per la definizione e l'attuazione di opere, di interventi o di programmi di intervento che richiedono, per la loro completa realizzazione, l'azione integrata e coordinata di Comuni, di Province e Regioni, di amministrazioni statali e di altri soggetti pubblici, (...) per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento” (art. 34 decreto legislativo n. 267/2000), bensì per definire ed in parte affidare anche a terzi (per di più privati) l’attività pianificatoria urbanistica necessaria per disciplinare l’assetto post-Expo dell’intero comparto.

Infatti, la bozza di Adp contiene, tra l’altro, la previsione (puramente urbanistica, per il post-Expo) dell’insediamento, nel comparto, anche di uncomplesso residenziale privatodeterminato nella sua consistenza (30mila m2 di pavimento) stabilendo (art. 10) che una quota (edilizia “sociale”) dello stesso non vada computata nell’indice di fabbricabilità territoriale, indice di cui non conosco la fonte originaria (contrattuale?), ma che viene così aumentato.

Ma vi è di più: l’Adp stabilisce che la disciplina urbanistica più puntuale dell’intero comparto, per il post-Expo, sarà dettata “mediante unprogramma integrato di intervento(Pii: ndr) unitario (…) che definirà lo sviluppo delle aree in ottemperanza ai contenuti della Variante urbanistica” “allegata al presente accordo” (art. 4), variante che riguarda non opere, interventi o programmi destinati a dar vita all’Expo, bensì l’assetto successivo dell’intero comparto. Così, cogliendo l’occasione dell’Expo, i comuni di Milano e di Rho vengono espropriati di una loro funzione che viene assunta anche da un gruppo di soggetti pubblici e privati, i quali non hannonessuna competenzaper disciplinare l’assetto del territorio dei due comuni, in assenza di un programma di opere o di interventi pubblici da realizzare nella fase post-Expo.

Si tratta, cioè, di contenuti esclusivamente pianificatori urbanistici che non possono essere legittimamente veicolati a mezzo di un Adp, dovendo avere, allo stato, la propria sede esclusiva negli strumenti comunali. Peraltro, i comuni di Rho e di Milano sono addirittura chiamati (art. 11) ad impegnarsi ad “approvare tempestivamente il Pii”, senza conoscerne, al momento, né i contenuti né la portata modificativa rispetto allo strumento generale e rispetto alla stessa variante allegata all’Adp. All’esproprio di potere si aggiunge anche l’obbligo di fare in fretta.

L’Adp, insomma, non può delineare la disciplina urbanistica di parti del territorio per futuri interventi (anche) privati. Può, invece, produrre - con la ratifica del Consiglio comunale (art. 34, 5° comma) - l’effetto di variare lo strumento urbanistico generale solo se ed in quanto la variante stessa consegua necessariamente alla sistemazione delle opere e degli interventi pubblici costituenti, nel nostro caso, la sede dell’Expo.

DUE PREVISIONI ILLEGITTIME

Altre due brevi considerazioni:

A) l’Adp è sottoscritto, per adesione, anche da soggetti di natura giuridica privata (l’uno – forse – ad esclusiva partecipazione pubblica, l’altro – pare – a partecipazione mista) ed attribuisce (art. 9) ai soggetti medesimi funzioni proprie di enti pubblici, quali quella urbanistica di coordinare il processo di sviluppo dell’area, nella fase post-Expo, attraverso la proposizione di un Pii, e quella di “assicurare il coordinamento e l’integrazione delle scelte progettuali con la riqualificazione dell’area medesima, anche nella fase post-Expo”. Ma l’adesione di soggetti privati e, ancor più, la loro assunzione di specifiche funzioni ed obbligazioni è esclusadall’art. 34 Dlgs n. 267/2000 che, perciò, viene violato anche sotto questo profilo. Nemmeno ove fossero utilizzabili le disposizioni in materia di Adp promossi dalla Regione (art. 6 Lr n. 2/2003, erroneamente richiamato nell’Adp), la partecipazione di soggetti privati consentirebbe loro di assumere (come avviene nel testo in esame) la qualifica di vere e proprie parti dell’Adp e del procedimento organizzatorio, riservata esclusivamente ai soggetti pubblici.

B) L’Adp istituisce (art.12) uncollegio di vigilanzacon potere non solo di vigilare sull’attuazione dell’accordo, ma anche, tra l’altro, di “dirimere in via bonaria le controversie che dovessero insorgere tra le parti” e di “approvare eventuali integrazioni o modifiche” dell’Adp, funzioni queste ultime non previste dalla legge, nemmeno da quella - inapplicabile al caso di specie - regionale. Si tratta pertanto di previsioni illegittime che sottraggono ulteriore potere ai comuni.

Senza voler adesso considerare il tema (sconcertante ed insidioso) dell’acquisizione delle areeper l’Expo e dei relativi vantaggi pubblici e privati, posso concludere queste brevi considerazioni prospettando di stralciare dall’Adp quanto in esso illegittimamente introdotto così da preservare il perseguimento, con esso, delle finalità relative all’organizzazione dell’Expo e di escludere almeno quella parte privata (Arexpo spa) che, essendosi assunta, per volontà della Regione, una funzione strumentale, non ha altro spazio se non quello di assicurare la disponibilità dei terreni.

Qui i Napolitano nascono come funghi. Ci è nato anche il presidente della Repubblica. Area nolana, a nord-est di Napoli, terrà di civiltà antica e di dinastie di camorra. Oggi ci si vive senz’altro meglio di ieri, quando Carmine Alfieri e il suo clan la facevano da padroni. Perfino la civiltà antica vi è stata riportata alla luce e ha smesso di essere retorica o libri di storia. Ma nessuno pensi alla lungimiranza di qualche ministro che ha investito sui celebri giacimenti culturali o a sovrintendenze in lotta per restituirci antichi tesori. All’origine di questo recupero di arte e di storia c’è un gruppo di cittadini senza potere, si chiamano “Obiettivo III millennio”. “Eravamo partiti in tanti, ma a resistere sempre siamo in venti”, dicono Ferdinando e Pellegrino, “quaranta pensando alle coppie”, ridono, “perché poi si fa così, la moglie o il marito lavora e l’altro aiuta a ruota”.

Il patrimonio incalcolabile riportato alla luce grazie alla loro mobilitazione civile è il complesso delle basiliche di Cimitile, un comune di seimila abitanti cresciuto accanto a Nola. Sette edifici di culto cristiano che partono dal terzo secolo e avanzano verso la fine del millennio, che si incrociano e si sovrappongono e si affiancano in un gioco turbinoso e suggestivo di stili, sopra una specie di necropoli tardo-antica. Qui è sepolto San Felice, qui si stabilì alla fine del Trecento Paolino di Nola governatore della Campania e poi vescovo di Nola. Un autentico polo della cultura paleocristiana passato per alluvioni e crolli repentini che hanno cambiato mappe e architetture. Quelli dell’associazione conducono con orgoglio e gentilezza i loro ospiti a vedere i posti dell’incanto: qui le antiche tombe, qui i fazzoletti sbiaditi e meravigliosi degli affreschi di un tempo, qui i capitelli eccentrici, qui le geometrie solenni. Può essere un avvocato coltissimo, Elia Alaia si chiama, il presidente, ad accompagnarvi . Ma può anche essere, lo ha fatto per molto tempo, un ragazzino quattordicenne che lasciava di sasso i turisti cimentandosi con disinvoltura anche con i dettagli più arditi. Un giorno tutto questo non valeva una lira.

Il patrimonio di storia di cui raccontiamo era nascosto tra le erbacce, recintato e lasciato in abbandono dalle amministrazioni. Finché i “nostri” cittadini, invece di lamentarsi dello Stato, si rimboccarono le maniche e iniziarono ad agire come un gruppo di pressione: non per sé ma per la loro terra. Un convegno iniziale su “Basiliche paleocristiane: sentimento e burocrazia”, per denunciare le inerzie degli uffici comunali. Poi “Nola-Cimitile. Apriti Sesamo”, contro la chiusura al pubblico del parco. E ora finalmente eccole qui le basiliche. Eccole diventate luogo di rispetto e di cultura; non più rovine inaccessibili, dove i ragazzini andavano a giocare a pallone. “Lo choc in paese ci fu quando arrivò in visita papa Wojtyla. Venne qui proprio perché considerava questo sito uno dei simboli della cristianità. Si dovette fare in fretta e furia quel che non si era mai fatto, venne sistemato perfino un prato artificiale. Era il maggio del ’92. Poi venne tutto richiuso. Noi nascemmo nel ‘94”.

L’associazione pensò presto di collegare il parco con qualche evento pubblico e si inventò un premio letterario lanciando lo slogan “il libro incontra le basiliche”. Nacque una fondazione “premio Cimitile”, con dentro Regione, Provincia e Comune, e con l’”alto patronato del presidente della Repubblica”. Lo presiede, verrebbe da dire naturalmente, un Napolitano: il dottor Felice, informatore farmaceutico, il primo attivissimo presidente dell’associazione. Altri due Napolitano tra i sostenitori. Una settimana di appuntamenti con la cerimonia finale tenuta nella spettacolare cornice serale delle basiliche illuminate. Allora le istituzioni, i politici si mobilitano. Arrivano le tivù e ogni maligno potrebbe pensare all’ennesimo spreco di soldi pubblici, ignaro della fatica e della passione quasi ventennale di un gruppo di volontari. Premio per la migliore opera di narrativa inedita, che viene pubblicata dall’editore Guida. E poi le migliori opere di narrativa , saggistica e attualità. Premio di giornalismo, premio speciale e anche - pensate l’audacia - per la migliore opera edita di “archeologia e cultura artistica in età paleocristiana e altomedievale”.

Il premio, un campanile d’argento per ricordare che qui venne inventata la campana, è arrivato alla sedicesima edizione. Il presidente del comitato scientifico è Ermanno Corsi, gloria del giornalismo campano dalla schiena dritta. Tra i premiati Sergio Zavoli, Miriam Mafai, Luca Goldoni, Giulio Andreotti, Antonio Ghirelli, Michele Santoro, Giampaolo Pansa, Massimo Cacciari, Michele Prisco, Luciano De Crescenzo, Lucia Annunziata. Felice Napolitano presenta allora il tutto dal palco con una disinvoltura conquistata sul campo (“doveva vederlo le prime volte”, sorridono gli amici, “si emozionava e faceva le pause”). Poi passa la palla ai professionisti, alla musica e ai libri. “Perché lo facciamo? Per valorizzare la nostra storia”, risponde lui, “Per promuovere il nostro territorio tutto l’anno. Per fare diventare queste terre un’attrazione culturale, anche se oggi si parla solo dei rifiuti. Per promuovere la lettura, perché sono 28 su cento i campani che leggono un libro all’anno, contro i 44 della media nazionale”. Sembra quasi un programma di governo. E invece, stringi stringi, sono solo venti civilissimi cittadini. Contando le coppie, quaranta.

sono solo venti civilissimi cittadini. Contando le coppie, quaranta.

«Ma in quali mani si trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?» . Così scriveva, nel 1775, Alphonse de Sade, inorridito dalle condizioni in cui erano i capolavori di Pompei. «Ma in quali mani si trovano, gran Dio!» , ripetono oggi i giudici della Procura di Torre Annunziata che hanno sequestrato, finalmente, il teatro di Pompei. Sottoposto l’anno scorso a una ristrutturazione con il calcestruzzo che lo ha letteralmente stuprato. Come fosse fino al 2009 il teatro della città annientata dall’eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. descritta da Plinio il Giovane, si può vedere nelle foto di milioni di visitatori passati in questi decenni e ancora presenti in Internet: i gradini erano stati erosi dal tempo e coperti di erba. Amedeo Maiuri, grande archeologo e «protettore» di Pompei (un uomo di valore tale che quando Mario Resca, già a capo della McDonald’s Italia, si insediò come nuovo direttore generale dei Beni culturali gli spedì una richiesta di collaborare nonostante fosse morto da 47 anni) aveva avuto un’idea. Per consentire nella stagione estiva qualche spettacolo che restituisse la vita all’arena al posto dei gradini era stata collocata una struttura di ferro leggera. Quando c’era un’esibizione, ci posavano sopra delle tavole che, finita la rappresentazione, venivano rimosse lasciando tutto come prima. Finché non arrivò, imposto dall’allora ministro Sandro Bondi, il commissario straordinario Marcello Fiori, stretto collaboratore di Guido Bertolaso. Una decisione contestata dalla Corte dei conti in una delibera che ricordava come per legge la Protezione civile può intervenire nel caso in cui sia necessario difendere «l’integrità della vita, dei beni, degli insediamenti e dell’ambiente dai danni o dal pericolo di danni derivanti da calamità naturali, da catastrofi e da altri grandi eventi» . Tutte cose che con Pompei non c’entravano niente. La reazione della «Protezione» fu irritata: «A nostro avviso la Corte dei conti ha deliberato riconoscendo la legittimità del nostro operato» . No, replicò la Corte spingendosi a fare addirittura un affilato comunicato ufficiale: «Come si evince dalla lettura della delibera, la Corte ha escluso che nel caso dell’area archeologica di Pompei sussistessero i presupposti per la dichiarazione dello stato d’emergenza. Pertanto non appare corretta l’affermazione che la Corte dei conti avrebbe riconosciuto la legittimità dell’operato della Protezione civile» . Come siano stati spesi 79 milioni di euro in due anni (soprattutto nei 18 mesi della gestione Fiori) è da tempo oggetto di inchieste giornalistiche, come quella di Emiliano Fittipaldi e Claudio Pappaianni su l’Espresso, e di amare risate. Per i 55.000 euro spesi per comprare mille bottiglie di vino (mille!) con l’etichetta Villa dei Misteri», della cantina Mastroberardino e per un terzo spedite in giro per le ambasciate e i consolati nel mondo e per due terzi lasciate in un magazzino. Per i 102.963 euro spesi nel «censimento» di 55 randagi al modico costo di quasi duemila euro per ogni cane non allontanato ma «censito» e messo in Internet con una scheda «autobiografica» : «Mi chiamo Menade, ho appena compiuto un anno e, come ogni sacerdotessa del dio del vino, vivo davanti alla casa del mio unico sposo: Bacco. Sono nera e lucida come la notte. Quando danzo alle stelle per lui piena del suo nettare...» . Per non dire dei 3.164.282 euro dati alla Wind per il progetto «Pompeiviva» il cui cuore è, nell’omonimo sito internet, un video stupefacente dove un ragazzo entra nella magica «Villa dei Misteri» , scatta una foto a una donna dipinta sulla parete e tutti i personaggi affrescati si mettono a fare un coretto cantando una cover (in inglese) di «I Will Survive» di Gloria Gaynor. O ancora degli 81.275 euro spesi per la visita (poi annullata!) di Silvio Berlusconi, preparativi che avevano visto il loro surreale capolavoro nella posa, lungo il cardo che porta alla domus di Lucrezio Frontone, di una «moquette» di stoffa poi coperta da un po’ di carriole di ghiaia lavica. Ma fino a qui, con rabbia, si ride. Assai più grave, invece, è la scelta denunciata da Antonio Irlando (presidente dell’Osservatorio archeologico che tenta di arginare gli stupri sulla meravigliosa città d’arte) di avviare la costruzione, ad esempio, tra porta Vesuvio e porta di Nola, in piena area vincolata, di un mostruoso hangar di cemento armato definito «deposito di materiale archeologico e spogliatoi per il personale» . Il tutto 35 anni dopo l’inizio dei lavori dell’Antiquarium, chiuso per restauro nel lontano 1975 in cui Steve Jobs fondava la Apple e si separavano Ike &Tina Turner, e non ancora riaperto. È in questo contesto che il Corriere, con un articolo di Alessandra Arachi, denuncia il 25 maggio 2010 lo scempio oggi al centro dell’indagine della magistratura: «Già il rumore non lascerebbe dubbi: i martelli pneumatici producono quelle vibrazioni perforanti inequivocabili. Ma poi basta scavalcare una piccola recinzione ed ecco che sì, diventa complicato credere ai propri occhi. I martelli pneumatici diventano quasi un dettaglio nel terribile cantiere del Teatro Grande di Pompei, invaso da betoniere, bobcat, ruspe, cavi, levigatrici e chi più ne ha ne metta. Nel condominio sotto casa vostra sarebbero più prudenti nel fare i lavori. E invece qui, roba di archeologia del II secolo avanti Cristo, gli operai si muovono in mezzo alle rovine come elefanti dentro una cristalleria» . Foto alla mano, alla fine di maggio Irlando scrive a Bondi una lettera allarmatissima: «Sono in corso nell’area archeologica lavori definiti nella tabella di cantiere "Restauro e sistemazione per spettacoli del complesso dei teatri in Pompei Scavi"che hanno sin qui comportato evidenti stravolgimenti dello stato originario dei monumenti e dei luoghi archeologici, con gravi danni al loro stato di conservazione. L’evidenza della gravità degli interventi è facilmente e banalmente dimostrabile attraverso una rapida ricognizione dell’attuale consistenza del teatro, in particolare della cavea, che, rispetto a una qualsiasi foto o disegno di diversi momenti della vita degli scavi, risulta completamente costruita ex novo con mattoni in tufo di moderna fattura» . Risposta del ministero? Zero: zero carbonella. Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: il teatro lasciato fino a due anni fa così come era stato trovato, è stato stravolto. Gradino per gradino sono stati gettati dei cordoli di cemento armato e su questi sono stati posati mattoni di tufo giallognoli che somigliano a quelli usati nell’Appennino meridionale per costruire i tuguri di campagna e i ricoveri per le bestie. I lavori di «restauro» dovevano costare 449.882 euro più Iva: sono costati undici volte di più, cioè 5 milioni 966 mila. Appalto dato (senza gara) a un raggruppamento temporaneo di imprese trainato dalla Caccavo Srl di Pontecagnano, scelta in meno di due anni dal commissario per 26 interventi per un totale di 16 milioni e mezzo di euro. «In quali mani, Gran Dio...» .

Di Pietro dice a Bersani di darsi una mossa e convocarvi. E a voi di Sel, Vendola, di non anteporre le primarie al programma.

Non mi piace l'atteggiamento di chi ha sempre addosso una toga e un dito puntato. Propongo a tutti una clausola di stile: evitiamo gli effetti speciali. Capisco il problema di Di Pietro: vede esaurito lo spazio della rincorsa a sinistra. E sceglie di ricollocarsi come ala destra del centrosinistra. In sostanza torna al moderatismo radicale delle origini. Intendiamoci, non è trasformismo, solo un riposizionamento. Ma è inaccettabile il modo: offre un argomento formidabile a una maggioranza allo sbando, attacca Bersani e me dicendo che non c'è l'alternativa. E propone il tema del programma nella forma più vecchia e politicistica: lui, io e il leader Pd dovremmo riunirci in una stanza per scrivere il libro del futuro?

Non ci sta?

Ma sarebbe capovolgere il significato di quello che è accaduto in Italia nelle ultime settimane. Sottrarre alla partecipazione democratica, a quel diritto di ingerenza che ha scompaginato i giochi ai referendum, l'oggetto vero del cambiamento, e cioè le scelte che devono riguardare la vita, il lavoro, la scuola, l'ambiente, la parità di genere. Facendo leva su un punto vero, il ritardo di tutti noi a mettere in campo quel processo e quel cantiere oggi maturi.

Ecco, nel merito l'ex pm ha ragione.

Non se riduce l'alternativa a un problema di agreement fra stati maggiori.

Quando invece chiedete primarie di programma che proponete nei fatti?

Faccio un esempio che mi riguarda: se nelle primarie pugliesi avesse vinto Francesco Boccia (deputato Pd, due volte sconfitto da Vendola, ndr) il più grande acquedotto d'Europa, il nostro, sarebbe stato privatizzato. Era immaginabile decidere del sì o no alla privatizzazione in un incontro riservato del centrosinistra? Invece ha deciso il popolo. E per piacere, non facciamo un'inutile disputa nominalistica sulla nozione di popolo. Ma il Pd alla direzione di oggi (ieri, ndr) ha fatto scelte importanti. Ha superato il dibattito su primarie sì o no, oggi siamo al come e al quando. E se posso dire una cosa a Bersani sul come, più vasta è la platea più rappresentano il cambiamento.

Insisto: in concreto cosa sono le primarie sul programma?

Nella contesa bella, spero, incassiamo le convergenze, penso alla tassazione delle rendite, e discutiamo alla luce del sole sui punti di divergenza. Per esempio di cosa significa fuoriuscire dal contratto nazionale con il rischio di far schiantare la condizione di lavoratrici e lavoratori. Di questi temi, ormai liberi da ipoteche ideologiche, non è forse giusto parlare dentro la piazza, perché la politica non sia un discorso calato dall'alto?

Parlate di una nuova sinistra unitaria, ma Bersani non risponde.

Il popolo del centrosinistra è mescolato, arricchito dalle competenze e dalle passioni di tanti senza tessere in tasca. La politica non si esaurisce nel recinto dei partiti. E la forza di alcune questioni, sottovalutate anche dal centrosinistra, è evocare una nuova fondazione della res publica, la trama dei beni comuni, il primato dell'interesse collettivo, un'idea forte di socialità.

Non è rischioso convocare i gazebo prima di sapere quando si vota?

Ormai è possibile mettere le primarie in calendario. Senza paura del confronto tra noi. Non ho la sindrome del vampiro, non ho l'ossessione di erodere consensi al Pd. Ho lavorato a costruire un soggetto politico il cui obiettivo non fosse l'autosufficienza. E lo stile non fosse la boria di partito.

Lei definisce Sinistra ecologia libertà 'movimento', non partito. Non a tutti piace, in Sel.

Movimento è più importante, comprende il partito, ma più tante altre cose. Bisogna essere laici, non avere atteggiamenti feticistici verso i luoghi che costruiamo. Sono solo strumenti.

Ma se non chiedete un tavolo dei leader, dove dovranno essere decise le primarie e il programma?

Non dico che gli incontri fra noi non siano importanti. Ma dobbiamo dare segnali all'altezza dell'attesa che si è creata nel paese. Si tratta di costruire anche momenti simbolici.

Come si immagina questi 'momenti' simbolici?

Non voglio immaginare niente, non mi interessa avere il copyright di nulla. Tanta Italia ci guarda con molta speranza e qualche ansia. Dobbiamo interrogarla, continuare a farla sentire protagonista, chiederle di aiutarci a scrivere l'agenda del cambiamento. Faccio un esempio: le mobilitazioni nella scuola, nell'università, nella cultura hanno squadernato una straordinaria dimensione di competenze a cui è indispensabile attingere. Oppure: ora tutti si accorgono di quanto sia catastrofica la dimensione della precarietà. Il mondo dei precari racconta storie, propone scelte. Vogliamo ascoltarli? Ho in testa la stagione milanese: una riappropriazione della politica come dello strumento che ti fa capire dove siamo finiti. Il berlusconismo è stato la più grave forma di privatizzazione della politica. Gramsci avrebbe detto 'rivoluzione passiva'. Il centrosinistra non può che essere il contrario della passivizzazione.

Questa piazza comune include la Federazione della sinistra? Loro temono che vogliate tenerli fuori.

Figuriamoci se è mia intenzione escluderli. Sono io oggetto di un atteggiamento schizofrenico: un giorno la proposta unitaria, un altro la contumelia. Mi piacerebbe tornare a discutere con loro. Vedo che anche nel dibattito interno si sollevano critiche alla marginalità e all'orgoglioso sconfittismo a cui sembrano candidarsi. Per quanto mi riguarda, chi declina la radicalità in termini di minoritarismo non sta sulla mia strada. Detto questo, lotterò perché non ci siano esclusioni a sinistra. Ma il tema è l'autoesclusione di chi considera il terreno del governo come una sorta di perdizione e quello dell'opposizione una salvazione.

Non le dispiace essere considerato un populista di sinistra?

Se posso fare la parte del vanitoso, no. Faccio tendenza. Le espressioni che ho inventato, dalla «rivoluzione gentile» all'«Italia migliore», alla «narrazione», sono state imitate e emulate. Ma lascerei correre questa discussione stucchevole. Oggi (ieri, ndr) Massimo Mucchetti, economista rigoroso, elogia sul Corriere della sera il lavoro del presidente Vendola sull'acquedotto pugliese. Ecco cosa intendo: sento il dovere di sottrarmi alla scorciatoia della bella sconfitta. Siamo chiamati a organizzare la speranza e a trasformarla in un blocco sociale, una nuova egemonia culturale.

Bene ha fatto Luigi de Magistris a lanciare il cuore oltre l'ostacolo, anche se l'ostacolo è una montagna di spazzatura enorme. Ho sentito molti amici, sostenitori di De Magistris della prima ora, scorati e arrabbiati per la gaffe del sindaco con la sua promessa di superare l'emergenza rifiuti nel giro di cinque giorni.

Personalmente credo che il sindaco di Napoli non abbia nulla di cui pentirsi, nemmeno dell'annuncio. Aveva le carte in regola per farlo, data l'esistenza di un preciso accordo con la Provincia di e la Regione, accordo che non ha avuto seguito non certo per sua responsabilità non avendo l'autorità per controllare e garantire l'effettiva apertura dei siti fuori dal Comune.

Voglio invece insistere sulla legittimità dell'annuncio per due ordini di motivi. Il primo: sottolineare la differenza con gli annunci di soluzioni miracolistiche sistematicamente fatti da Berlusconi. Il secondo è più sottile, forse irrilevante, ma interessante dal punto di vista culturale. Comincio da questo. Dalla scuola di quel grande sociologo e filosofo che era Massimo Troisi ho scoperto l'importanza della scaramanzia, del non dare per scontate anche cose sicure, del non fidarsi del fato e degli uomini perché non si sa mai. Insomma una sorta di pessimismo che lascia solo un angolino alla speranza che l'evento giusto e fortunato si realizzi. Troisi ne diede una lezione magistrale in occasione dello scudetto al Napoli ai tempi di Maradona. Lo scudetto era già stato vinto aritmeticamente con tre domeniche di anticipo e Troisi in una celeberrima intervista a Gianni Minà affermava: «Questa volta penso proprio che forse ce la possiamo fare». La scaramanzia è un dato culturale napoletano - del quale forse faremmo bene a liberarci - nel quale io stesso purtroppo mi ritrovo.

Non così De Magistris. Poteva non fidarsi degli accordi o, per scaramanzia, non parlare troppo, non annunciare la soluzione concordata. Ma perché? Poteva mostrare maggior cautela: forse sarebbe stato più utile e opportuno, o forse no. Comunque, dato il personaggio, non c'era proprio da aspettarselo. Poteva solo con determinazione insistere sul suo progetto e il suo programma e chiedere, a testa alta e senza vittimismi, la collaborazione di chi ha il potere di affrontare l'emergenza (garantendo da parte sua quanto è di competenza del Comune). Questo è ciò che ha fatto. E dobbiamo solo augurarci che Governo, Regione e Provincia facciano la loro doverosa parte, controllando gli attacchi eversivi della Lega.

In questo consiste la differenza con gli annunci miracolistici berlusconiani. Non c'è la genialità di un capo. C'è - e soprattutto ci dovrà essere - il rispetto dei compiti istituzionali di ciascuna delle parti in causa in questo dramma. Più di una volta Berlusconi e Bertolaso hanno affrontato l'emergenza rifiuti "in modo definitivo" (salvo vederla ricomparire a ogni pie' sospinto) manu militari ed extra legem. Gli interventi di Bertolaso e Berlusconi (con la incredibile fiducia accordata al primo anche dalle amministrazioni di sinistra) hanno rappresentato un disastro immane oltre che una pratica diseducativa. Penso a questo riguardo al perennemente richiamato intervento dell'esercito. Ma penso soprattutto alla pratica di operare fuori da ogni regola e ogni norma di legge. I grandi interventi di Berlusconi sono consistiti sostanzialmente nel nascondere la spazzatura sotto il tappeto. Fuor di metafora, la spazzatura - vorrei pregare di non usare il termine monnezza - venne collocata in discariche il cui uso era stato vietato per motivi ambientali o di altro genere dalla magistratura, grazie al controllo militare delle operazioni. Purtroppo, quando questo accadde anche all'epoca del passaggio dal secondo governo Prodi all'ultimo governo Berlusconi molti nella sinistra plaudirono all'iniziativa con una grande e malcelata ammirazione per la virilità con la quale era stata condotta l'operazione. Anche a Caivano e ad Acerra (i siti indicati nell'accordo con la Provincia) si poteva fare la stessa cosa. O no?

Meglio di no. E c'è da auspicare che i nuovi accordi, con il governo e il ministro competente, per il trasporto dei rifiuti fuori dalla regione in questa fase di emergenza siano rispettati. Non sarà facile. Da una parte abbiamo le dichiarazioni di impegno da parte del ministro dell'ambiente per "l'emergenza" e per "l'ordinarietà", dall'altro abbiamo la Lega, altro partito di governo, che butta benzina sul fuoco minacciando dura opposizione a interventi per il trasferimento dei rifiuti fuori della Campania. Benzina sui cassonetti è gettata anche dalle squadracce che cercano di far esplodere la situazione e di delegittimare De Magistris. E qui è bene ricordare che le montagne di rifiuti si sono accumulate a Napoli ben prima delle ultime elezioni, mentre l'incapacità di gestione dello smaltimento dei rifiuti all'interno della regione va attribuita alla giunta regionale (ormai da un bel po') in mano alla destra.

Certo, ci sono colpe e responsabilità antiche. In primo luogo quella di Antonio Bassolino per non aver voluto denunciare subito, appena eletto presidente della regione, lo scandaloso accordo con Impregilo per il monopolio dello smaltimento di tutti i rifiuti della regione tramite un unico - sempre malfunzionante - inceneritore. Se si fosse provveduto a denunciare subito quell'accordo capestro, si sarebbe potuto dare inizio a una nuova politica di gestione dei rifiuti in chiave ambientalista. Ma si è preferito non farlo. Ci sono poi i problemi connessi alla mancata scelta della raccolta differenziata che, tra l'altro, non riguarda solo il comune di Napoli. Su questo c'è l'impegno realistico a operare da parte della nuova giunta. E l'obiettivo di procedere in tal senso evitando il ricorso agli inceneritori - tra lo scetticismo di tutti - non era solo del programma di De Magistris ma finanche in quello del prefetto Morcone.

Su questa linea bisogna andare avanti nella Napoli assediata in primo luogo dalla Lega, ma non solo. La destra sta tentando di organizzare "quinte colonne" sulle quali c'è necessità di investigare. Non si tratta solo di camorra. Ad esempio - mi suggerisce un amico napoletano - una ditta subappaltatrice della Asìa (l'Azienda per la raccolta dei rifiuti) si sarebbe rifiutata di procedere alla raccolta nel centro storico a partire dai giorni dell'elezione di De Magistris. Sarà un caso, ma è significativo dell'assedio. Le clientele napoletane e nazionali di ogni ordine e grado non apprezzano il nuovo stile di governo

Delegittimare il nuovo sindaco ora serve a dare un colpo alla possibilità di affrontare in prospettiva e nell'emergenza la questione dei rifiuti, ma anche a rendere più difficile la possibilità di rinnovamento. De Magistris ha vinto contro le clientele di destra (e la camorra) ma anche contro le clientele di sinistra. La serietà del suo operato nei primi giorni si può vedere dalle nomine per il governo del Comune e degli apparati tecnici, a partire proprio da quelle che riguardano la gestione del problema ambientale e dei rifiuti in particolare. E per ora c'è solo da apprezzarle.

Per dirla ancora una volta con Troisi, «forse questa volta ce la possiamo fare», nonostante l'assedio.

“Oggi so che la mia voce è la voce di ciascun siciliano sensato, di ciascun italiano di buon senso, di ciascun uomo al mondo consapevole se dico: non si può continuare così. Il vecchio mondo è finito (..). Con tutto il rispetto, l'affetto e la gratitudine per chi ha faticato e pensato prima di noi cercando di rendere più civile il mondo, migliorare la vita, non possiamo non vedere che un nuovo mondo ci occorre.” (D. Dolci, 11 marzo 1967, piazza Kalsa, Palermo).

Con queste parole, si concluse nel 1967 un lungo corteo conosciuto come “marcia della protesta e della speranza per la pace e lo sviluppo della Sicilia Occidentale”. Parteciparono, con Danilo Dolci e Lorenzo Barbera decine di centinai di contadini, famiglie e lavoratori, intellettuali come Carlo Levi, Bruno Zevi, Lucio Lombardo Radice, Ernesto Treccani. La marcia del 1967 fu il culmine di un lavoro di pianificazione dal basso che per anni aveva coinvolto pubbliche amministrazioni, sindacati, lavoratori, donne e uomini, nell'elaborazione di un “Piano di sviluppo condiviso per le Valli del Belice, del Carboj e dello Jato”.Fu un evento storico di partecipazione e mobilitazione popolare per i diritti. Una di quelle storie italiane che si devono non solo ricordare ma riprendere e portare avanti, nella loro forza e attualità.

Per questo nel 2011 un gruppo molto variegato di associazioni e persone ha deciso, insieme al laboratorio Stalker, di ripercorrere il tragitto in sei tappe a piedi da Menfi (Agrigento) a Palermo passando per Santa Margherita, Montevago, Salaparuta, Poggioreale, Camporeale, Partinico, Borgetto, S. Martino delle Scale. Una nuova camminata per attraversare il territorio, ascoltarne le istanze, tessere nuove relazioni e sviluppare un agire comune.

I temi su cui lavorare sono quelli dei beni comuni e della difesa dei diritti inalienabili della persona, come scelte etiche che mettono al centro la collettività. Oggi come ieri rimane centrale il tema dell'acqua, nel 1967 si trattava della costruzione delle dighe oggi l’impegno è contro la privatizzazione dei servizi idrici. Si affronteranno temi come l'accoglienza ai rifugiati, la tutela del paesaggio, la salute pubblica e i rischi ambientali, le soluzioni possibili per la crisi dell'agricoltura, il sostegno alla magistratura nella lotta alla mafia.

L'arrivo a Trappeto, dove Danilo Dolci iniziò negli anni ‘50 la sua azione non violenta, vuole essere un punto di inizio per rimettere al centro temi oggi fondamentali come la mobilitazione popolare, la pianificazione partecipata, la cittadinanza attiva proponendo un progetto di recupero del Borgo di Dio affinché possa diventare di nuovo un centro di ricerca e azione sulla democrazia partecipativa e l'economia solidale.

Vuole essere un'occasione nuova per tutti coloro che a diverso titolo sono impegnati in forme di resistenza per chiedersi insieme quale può essere il presente e il futuro dei diversi movimenti e per partecipare a un evento collettivo di interazione e ricerca.

La crisi greca rappresenta in modo impietoso come il sistema finanziario di fatto governi ormai la Ue mediante i suoi bracci operativi: la Commissione europea, il Fmi e la Bce. I governi eletti dal popolo hanno scelto da tempo di fungere da rimorchio al sistema finanziario. Avrebbero dovuto riformarlo dopo l´esplosione della crisi nell´autunno del 2008, quando, con le parole del ministro tedesco dell´economia di allora, Peer Steinbruck, «abbiamo visto il fondo dell´abisso». È vero che a Bruxelles si discute da due anni di riforme finanziarie, ma dinanzi alla natura ed alle dimensioni del problema si tratta del solito secchiello per vuotare il mare.

Non avendo riformato il sistema finanziario, ed avendolo anzi aiutato a diventare più potente di prima, i governi Ue si trovano ora esposti alle sue pretese. Giusto come è avvenuto negli Stati Uniti. Al momento esso pretende siano salvate le banche dalla crisi del debito greco, in vista di altre richieste analoghe che nei prossimi mesi potrebbero riguardare il Portogallo, la Spagna, l´Italia. Fedeli al loro ruolo di organi democraticamente eletti che non vedono alternative se non quella di soggiacere al dettato di organi mai eletti da nessuno, quali sono la Ce, la Bce e l´Fmi , i governi Ue sono unanimi nell´esigere dalla Grecia di ridurre drasticamente il suo debito pubblico. Ha vissuto al disopra dei suoi mezzi, affermano, e ora deve imboccare un severo percorso di austerità. Come sia formato tale percorso lo sanno tutti, anche perché è lo stesso che quasi tutti i governi Ue, compreso quello italiano, stanno proponendo ai loro cittadini: tagliare i salari, le pensioni, la sanità, la scuola; privatizzare tutto, i trasporti, le spiagge, i servizi collettivi, le isole, i porti, e perché no, il Partenone.

Ciò che si tace in merito alla crisi greca è che le sue cause non sono quelle di solito addotte; che i rimedi finora proposti in sede Ue sono peggiori del male; e che la paralisi politica cui è stato ridotto il governo greco, privato della possibilità di decidere alcunché in tema di politica economica, costituisce uno svilimento della democrazia di importanza mondiale. Innanzitutto la causa prima dell´elevato debito pubblico non risiede affatto in un eccesso di spesa sociale, bensì in un flusso troppo ridotto di entrate fiscali, imputabile a un alto tasso di evasione durato parecchi anni. Adesso il governo greco, pressato dalla Ue, chiede ai pensionati, ai lavoratori, agli insegnanti, agli impiegati pubblici, di restituire al bilancio dello stato i miliardi di euro, in moneta attuale, sottratti col tempo ad esso da una minoranza che percepisce un reddito centinaia di volte superiore al loro. Dopo averli pure incolpati – il governo tedesco per primo – di lavorare poco, andare in pensione prima degli altri cittadini Ue, percepire pensioni d´oro, fare troppe ferie: laddove tutti i dati disponibili, per chi voglia appena informarsi, attestano che si tratta di affermazioni false.

Ma a quanto ammonta realmente il debito pubblico della Grecia, di cui si dice che potrebbe far saltare l´intera zona euro? Si tratta di 350 miliardi di euro. È certo una bella somma. La quale però rappresenta soltanto il 3,7% del Pil dell´intera zona euro, esclusa quindi una grande economia come il Regno Unito. Non soltanto: il 43% di tale debito è in mano a creditori greci, che per metà sono banche. Dal totale vanno ancora tolti 7 miliardi di debiti verso gli Usa, 3 verso la Svizzera, circa 2 nei confronti del Giappone. Il debito greco verso la Ue (banche e stati compresi) consistente soprattutto in obbligazioni e altri titoli, ammonta dunque a meno di 190 miliardi di euro, di cui circa 35 sono dovuti alla Bce. Ora, dal 2008 ad oggi i Paesi Ue, a parte la Svizzera, hanno speso o accantonato oltre 3.000 miliardi di euro (tre trilioni) per salvare le proprie istituzioni finanziarie. Ed ora davvero tremano perché un´economia tutto sommato periferica è in difficoltà per ripagare, a rate, poco più del 6% di tale somma? Il y a quelque chose qui cloche, dicono i francesi, qualcosa che non va nell´intera faccenda.

Le cose che non vanno sono principalmente due. La crisi greca è in primo luogo un´anteprima di quel che potrebbe succedere ad altri Paesi, Italia compresa, se i governi Ue non la smettono di subire le manovre del sistema finanziario, ivi comprese le agenzie di valutazione, e non provano sul serio a regolarlo, anche per evitare che ci piombi addosso tra breve una crisi peggiore di quella del 2008. Lo scenario comprende com´è ovvio il rinnovo potenziato di manovre speculative che i maggiori gruppi finanziari costruiscono scientemente per estrarne il maggior profitto possibile in forma di interessi e plusvalenze; il che implica, come insegnano i modelli di gestione del rischio, il far correre un rischio elevato non già ai gruppi stessi, bensì ai cittadini oggi greci, domani spagnoli o italiani. Ma comprende anche una spinta selvaggia alle privatizzazioni, che essendo condotte sotto la sferza della troika Ce, Fmi e Bce, consisteranno al caso in vere e proprie svendite di immensi patrimoni nazionali. L´Italia, dopotutto, ha ottomila chilometri di coste e centinaia di isole da mettere all´asta, più il Colosseo e magari l´intera Venezia; altro che la Grecia.

Una seconda cosa che non va è la Bce. Il suo limite fondamentale, imposto dal trattato istitutivo della Ue, sta nell´avere come massimo scopo statutario la stabilità dei prezzi, ossia la difesa dall´inflazione. Ciò spiega in parte la lentezza e la goffaggine con cui si è mossa a fronte della crisi greca. Ma un simile limite equivale a decidere per legge, poniamo, che il pronto soccorso del maggior ospedale cittadino si occupa soltanto di lesioni alla gamba sinistra. Le altre due banche centrali dell´Occidente, la Banca d´Inghilterra e la Fed, hanno tra i loro scopi statutari anche lo sviluppo e la crescita dell´occupazione. Scopi che perseguono pure creando esplicitamente nuovo denaro: una funzione fondamentale che gli stati Ue hanno ceduto alla Bce, ma che questa non sembra voler esercitare come, dove e quando più ne avrebbero bisogno. Per questo motivo nella Ue cominciano a moltiplicarsi le voci favorevoli a un ampliamento degli scopi statutari della Bce. La crisi greca potrebbe essere una buona occasione per passare dalle voci all´azione. Sempre che i governi non temano di disturbare la macchina di cui sono per ora a rimorchio

Un potere ormai terrorizzato da se stesso, dagli scandali che mettono a nudo la sua debolezza, dal consenso in fuga, decide di alzare il ponte levatoio e chiudersi nel Palazzo assediato, separandosi dai cittadini. È questa la vera ragione della legge bavaglio che per la seconda volta Berlusconi vuole calare sulla stampa e sulle inchieste con la cancellazione delle intercettazioni telefoniche, impedendo ai magistrati di indagare sul crimine e ai cittadini di conoscere, di capire e di giudicare.

È un´altra legge ad personam, costruita per proteggere il vertice del governo dall´inchiesta sulla P4, che infatti ieri il ministro Alfano ha attaccato come "irrilevante", dimenticandosi di essere Guardasigilli: perché l´inchiesta svela il malaffare di una centrale governativa di potere occulto e piduista per condizionare le istituzioni, l´economia e la Rai, minacciando, promettendo e proteggendo.

Un potere indebito, di fronte al quale si genuflettono incredibilmente ministri, grand commis e uomini di un falso establishment tarlato, incapace di autonomia e di dignità, valvassori che chiedono insieme protezione e libertà di saccheggio. Ma questa deviazione – ecco il punto – nasce nel cuore del berlusconismo, e riporta al vertice del governo, per conto del quale si promettono nomine, si minaccia fango, si imbandiscono affari. È questo che gli italiani non devono sapere. Dunque, legge bavaglio bis: i magistrati non potranno perseguire i reati secondo le procedure di tutti i Paesi civili. I cittadini potranno conoscere le notizie sui crimini nella misura che il governo vorrà.

Con ogni evidenza è un problema di democrazia, che riguarda tutti. Già una volta l´opinione pubblica ha bloccato il bavaglio, con la battaglia del post-it. Lo farà ancora, perché l´Italia di oggi non può accettare un abuso sui doveri dello Stato, sui diritti dei cittadini, sulla libertà.

ROMA— «Costruiremo il ponte di Messina, così se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto, potrà andarci anche alle quattro di notte, senza aspettare i traghetti...» Da quando Silvio Berlusconi ha pronunciato queste parole, era l’ 8 maggio 2005, sono trascorsi sei anni, e gli amanti siciliani e calabresi sono ancora costretti a fare la fila al traghetto fra Scilla e Cariddi. Sul ponte passeranno forse i loro pronipoti. Se saranno, o meno, fortunati (questo però dipende dai punti di vista). La storia infinita di questa «meraviglia del mondo» , meraviglia finora soltanto a parole, è nota, ma vale la pena di riassumerla. Del fantomatico ponte sullo Stretto di Messina si parla da secoli. Per limitarci al dopoguerra, la prima mossa concreta è un concorso per idee del 1969. Due anni dopo il parlamento approva una legge per l’attraversamento stabile dello Stretto. Quindi, dieci anni più tardi, viene costituita una società, la Stretto di Messina, controllata dall’Iri e affidata al visionario Gianfranco Gilardini.

Che ce la mette tutta. Coinvolge i migliori progettisti, e per convincere gli oppositori arriva a far dimostrare che il ponte potrebbe resistere anche alla bomba atomica. Passerà a miglior vita senza veder nascere la sua creatura. La quale, nel frattempo, è diventata un formidabile strumento di propaganda. Ma anche un oggetto di scontro politico: mai un ponte, che per definizione dovrebbe unire, ha diviso così tanto. Da una parte chi sostiene che sarebbe un formidabile volano per la ripresa del Mezzogiorno, se non addirittura una sensazionale attrazione turistica, dall’altra chi lo giudica una nuova cattedrale nel deserto che deturperà irrimediabilmente uno dei luoghi più belli del pianeta. Fra gli strali degli ambientalisti, Bettino Craxi ci fa la campagna elettorale del 1992. E i figli del leader socialista, Bobo e Stefania, proporranno in seguito di intestarlo a lui. Mentre l’ex presidente della Regione Calabria Giuseppe Nisticò avrebbe voluto chiamarlo Ponte «Carlo Magno» attribuendo il progetto di unire Scilla e Cariddi al fondatore del Sacro Romano Impero.

Nientemeno. Finché, per farla breve, arriva nel 2001 il governo Berlusconi con la sua legge obiettivo. Ma nemmeno quella serve a far decollare il ponte. Dopo cinque anni si arriva faticosamente a un passo dall’apertura dei cantieri, con l’affidamento dell’opera (fra polemiche e ricorsi) a un general contractor, l’Eurolink, di cui è azionista di riferimento Impregilo. Quando però cambia la maggioranza. Siamo nell’estate del 2006 e il ponte finisce su un binario morto. Il governo di centrosinistra vorrebbe addirittura liquidare la società Stretto di Messina, concessionaria dell’opera, ma il ministro delle Infrastrutture, Antonio Di Pietro, sventa la mossa in extremis. Nessuno lo ringrazierà: ma se l’operazione non si blocca il «merito» è suo. Nel 2008 torna dunque Berlusconi e il progetto, a quarant’anni dal suo debutto, riprende vita. Certo, nella maggioranza c’è qualcuno che continua a storcere il naso. Il ponte sullo Stretto di Messina, la Lega Nord di Umberto Bossi proprio non riesce a digerirlo. Ma tant’è. Nonostante le opposizioni interne ed esterne, la cosa va avanti sia pure lentamente. E si arriva finalmente, qualche mese fa, al progetto definitivo. Nel frattempo, sono stati già spesi almeno 250 milioni di euro.

Sarebbe niente, per un’opera tanto colossale, se però gli intoppi fossero finiti. Sulla carta, per aprire i cantieri, ora non mancherebbero che poche formalità, come la Conferenza dei servizi con gli enti locali e il bollino del Cipe, il Comitato interministeriale che deve sbloccare tutti i grandi investimenti pubblici. Sempre sulla carta, non sarebbe nemmeno più possibile tornare indietro e dire a Eurolink, come avrebbero voluto fare gli ambientalisti al tempo del precedente governo: «Scusate, abbiamo scherzato» . Il contratto infatti è blindato. Revocarlo significherebbe essere costretti a pagare penali stratosferiche. Parliamo di svariate centinaia di milioni. Ma nonostante questo il percorso si è fatto ancora una volta più che mai impervio. Non per colpa dei soliti ambientalisti. Nemmeno a causa della crisi economica, il che potrebbe essere perfino comprensibile. Piuttosto, per questioni politiche. Sia pure mascherate da difficoltà finanziarie.

Per dirne una, il «decreto sviluppo» ha materializzato un ostacolo imprevisto e insormontabile. Si è stabilito infatti che le cosiddette «opere compensative» , quelle che i Comuni e gli enti locali pretendono per non mettere i bastoni fra le ruote al ponte, non potranno superare il 2%del costo complessivo dell’opera. E considerando che parliamo di 6 e mezzo, forse 7 miliardi di euro, non si potrebbe andare oltre i 130-140 milioni. Una cifra che, rispetto agli 800– 900 milioni necessari per le opere già concordate con le amministrazioni locali, fa semplicemente ridere. Bretelle, stazioni ferroviarie, sistemazioni viarie…. Dovranno aspettare: non c’è trippa per gatti. Basta dire che il solo Comune di Messina aveva concordato con la società Stretto lavori per 231 milioni. Fra questi, una strada (la via del Mare) del costo di 65 milioni. Ma soprattutto il depuratore e la rete fognaria a servizio della parte nord della città, che ne è completamente priva: 80,7 milioni di investimento. Adesso, naturalmente, a rischio. Insieme a tutto il resto. Anche perché le opere compensative sono l’unica arma che resta in mano agli enti locali. Portarle a casa, per loro, è questione di vita o di morte. A remare contro c’è poi il clima politico.

Dopo la batosta elettorale alle amministrative la Lega Nord, che già di quest’opera faraonica non ne voleva sentire parlare, ha alzato la posta e questa è una difficoltà in più. Fa fede l’avvertimento lanciato dal leghista Giancarlo Gentilini, vicesindaco di Treviso: «La gente non vuole voli pindarici, non è interessata a opere come il ponte sullo Stretto di Messina perché è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Quindi anche tu, Bossi, quando appoggi questi programmi da fantascienza, ricordati piuttosto di restare con i piedi per terra, perché gli alpini mettono un piede dopo l’altro» . Con l’aria che tira nella maggioranza basterebbe forse questa specie di «de profundis» che viene dalla pancia del Carroccio per far finire nuovamente il ponte su un binario morto. Senza poi contare quello che è successo in Sicilia. Dove ora c’è un governo regionale aperto al centrosinistra, schieramento politico che al ponte fra Scilla e Cariddi è sempre stato fermamente contrario.

Una circostanza che rende estremamente complicato al governatore Raffaele Lombardo spingere sull’acceleratore. E questo nonostante i posti di lavoro che, secondo gli esperti, quell’opera potrebbe garantire. Sono in tutto 4.457: un numero enorme, per un’area nella quale la disoccupazione raggiunge livelli record. Ma il fatto ancora più preoccupante, per i sostenitori dell’infrastruttura, è il disinteresse che sembra ormai circondarlo anche negli ambienti governativi. Evidentemente concentrati su ben altre faccende. La società Stretto di Messina ha diramato ieri un comunicato ufficiale per dare notizia che «il consiglio di amministrazione ha avviato l’esame del progetto definitivo del ponte» . Un segnale che la cosa è ancora viva, magari nella speranza che Berlusconi si decida a rilanciare il ponte, annunciando l’ennesimo piano per il Sud? Forse. Vedremo quando e come l’esame si concluderà, e che cosa accadrà in seguito. Sempre che il governo vada avanti, sempre che si trovino i soldi per accontentare gli enti locali… Intanto nella sede messinese di Eurolink, dove lavoravano decine di persone, sembrano già cominciate le vacanze. Come avessero fiutato l’aria.

Le urne referendarie hanno sancito la nascita di un nuovo blocco sociale che sostiene un'idea di riforme opposta a quella che sostengono i partiti. Ma nel dibattito pubblico predomina ancora la vecchia politica

Brutte nubi si addensano sulla democrazia italiana. I rappresentanti del blocco sociale perdente a Napoli, Milano e soprattutto ai referendum fingono di non aver capito la lezione. La maggioranza parlamentare, sconfitta sonoramente alle urne, si arrocca intorno al Decreto Sviluppo che "passa" largamente, nonostante l'evidente fibrillazione politica di questi giorni. Bossi, che non sembra azzeccare più un colpo, potrebbe aver mollato il ministro dell'Economia, cosa che, per fortuna, dovrebbe mettere in soffitta l'ipotesiincubo ventilata da Ida Dominijanni su questo giornale, ossia di un Tremonti a maggioranza alternativa «tutti tranne Berlusconi» per «fare le riforme» alla greca (cioè dissanguare il popolo) prima del voto. La distorsione tipica di una democrazia rappresentativa che non rappresenta si presenta così in Italia come un caso di scuola. Il governo (ma direi in realtà la classe politica), quanto mai debole nel paese, si rafforza in Parlamento anche perché l'opposizione non ha alcuna voglia di mantenere alta la pressione. Per questo dobbiamo dire chiaro e forte che ad arroccarsi non è la maggioranza ma il "blocco sociale" sconfitto, fatto di uomini, figli della "fine della storia" che portano avanti un'idea di riforme ormai bocciata dalla maggioranza del paese.

Il "riformismo" dei Draghi, dei Catricalà e dei Bersani (ma ovviamente la lista è lunga e cito qui solo chi ha più rumorosamente esternato in questi giorni) di cui straparlano pure sovente gli sbracati esponenti della classe politica al governo, altro non è che la promozione ideologica di una politica reazionaria al servizio del più forte (la politica della crescita), di cui Confindustria ed i suoi sindacati gialli si illudono di poter essere i principali beneficiari. Il riformismo che liberalizzando privatizza, che flessibilizzando precarizza, che modernizzando scempia il territorio, è stato bocciato dalla maggioranza assoluta degli italiani al referendum. Si è costituito il 13 giugno un nuovo blocco sociale che genuinamente condivide preoccupazioni di lungo periodo e che sostiene un'idea di riforme radicalmente opposta a quella che ancora inquina il nostro dibattito pubblico ed i suoi stanchi protagonisti.

È un riformismo, quello emerso dai referendum, che vuole ridurre le diseguaglianze, ripensare il rapporto fra pubblico e privato in modo meno sbilanciato a favore di quest'ultimo, affrontare davvero le cause della crisi che ha determinato la fine della "fine della storia". Questo riformismo nuovo, maggioritario nel paese, gradualistico nel senso di Treves e di Salvemini, ha oggi un obiettivo diverso rispetto all'edificazione del socialismo: il suo obiettivo è contribuire alla salvezza rispetto all'imminente catastrofe ecologica, affrontando finalmente i nodi seri relativi all'organizzazione di una democrazia industriale complessa (seppur semiperiferica come l'Italia), che non può più sostenere il ricatto del complesso finanziario-militare. Questi sono temi e problemi che l'Italia condivide non certo solo con Spagna e Grecia ma con tutto il mondo industrializzato. Il nuovo blocco sociale riformista, che mette al primo posto la riduzione della diseguaglianza, vuole finalmente affrontare questi problemi e non nasconderli sotto il tappeto, passando tempo a cincischiare col folklore di Pontida.

Per chi si fa e si è fatto interprete di questo blocco sociale durante la campagna referendaria in cui così tante persone hanno potuto finalmente aprirsi e discutere di politica, è assai grave che la sola cosa sensata uscita da Pontida, ossia l'impossibilità di affrontare la crisi sociale se si continua a spendere denaro per la guerra, sia stata rintuzzata da Napolitano con la solidarietà piena di tutto il Pd. Uscire dalla dipendenza (tossica) da un modello di sviluppo fondato su guerre del tutto fini a se stesse ( se non direttamente predatorie) non può che essere la priorità indiscussa del nuovo riformismo uscito dalle urne referendarie. Quella è la strada principale per sanare i conti, tracciando al contempo un grande piano pubblico di cura del territorio, della natura, della qualità della vita di tutti fondato sulla valorizzazione dei beni comuni e sul recupero di un po' di etica pubblica.

I partiti, tutti quanti, si facciano una ragione che questo è il messaggio chiaro e forte uscito dalle urne! Un messaggio che certo premia i movimenti ma che adesso deve essere interpretato politicamente con una visione alta, riformista nel senso nuovo del termine capace di dare vera voce e soggettività politica al nuovo blocco sociale. Invece il Decreto sviluppo contiene l'Agenzia per l'acqua, un'idea bocciata dal popolo sovrano. Il Pd fa eco, riproponendo quella sua bruttissima legge sull'acqua che era stata proposta per pura iattanza all'inizio della raccolta delle firme e che, con il Decreto sviluppo, condivide la filosofia di fondo dello Stato regolatore. Ma l'idea di Stato regolatore che non agisce direttamente nell'economia e che si limita a dettare le regole per la concorrenza fra privati è stata spazzata dal referendum, dopo essere stata indebolita perfino in Europa dal Trattato di Lisbona. Il settore pubblico rafforzato , ristrutturato e democratizzato deve tornare a "fare" e a "saper fare": questo ha chiesto il popolo dei beni comuni.

Lo abbiamo detto e lo ripetiamo: il privato e la logica aziendalistica e finanziaria di breve periodo che necessariamente lo pervade non è la soluzione. Molto spesso, sempre nelle ipotesi di monopolio naturale come l'acqua, esso è il vero problema cui oggi tutti insieme dobbiamo far fronte. Il Pd ci dica chiaramente se vuole interpretare questa nuova visione o se resta legato alle lenzuolate bersaniane e agli estremismi della Lanzillotta. E se sta da questa parte, e vuole farsi interprete dell'esito referendario, si batta piuttosto per mettere all'ordine del giorno il disegno di legge riforma dei beni pubblici della Commissione Rodotà, che dà senso giuridico ai beni comuni e che giace da oltre un anno in Senato con Finocchiaro e Casson primi firmatari.

A dieci giorni dal referendum il connubio letale fra profitto (sperato) e rendita (certa), che determina il nostro sviluppo insostenibile fondato sulla religione della crescita, seguita a tenere in campo i suoi ventriloqui bipartisan. Si fa finta di niente e si ripete che, dopo il referendum, esiste la possibilità di scegliere fra pubblico, privato o misto. Finiamola prima che sia troppo tardi! Dopo il referendum c'è una sola via legittima: quella dei beni comuni che sono incompatibili con profitto e rendita. Il popolo sovrano rivuole tanto il rispetto democratico della sua chiara volontà quanto, nell'immediato, il 7% che sta pagando sulle sulle bollette idriche che da ormai 10 giorni costituisce un illecito bottino. Gli italiani votando in massa hanno difeso oltre all'acqua anche il referendum e la loro sovranità diretta. Se non vedranno subito l'esito in bolletta né avranno spiegazioni immediate e credibili su come quei soldi verranno spesi nel loro interesse, sapranno studiare le mosse e riprendersi direttamente quel denaro per spenderlo a favore del futuro di tutti. Poi ci riprenderemo anche la democrazia!

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