Abbiamo assistito in questi giorni ad un dibattito sulla cancellazione delle Province intriso di demagogia e di superficialità.
I cittadini e le imprese ci chiedono di riformare con coraggio la pubblica amministrazione per renderla più snella ed efficiente e per consentire al Paese riforme ormai non più rinviabili. Tutto ciò è tema che riguarda seriamente il Partito Democratico e la sua capacità di collocarsi in modo convincente sul terreno delle riforme, spiegando ai cittadini ciò che intende fare e soprattutto ciò che farà al governo del Paese. Per questo la scelta del Partito di non sostenere l’ipotesi demagogica dell’Idv e dei centristi, volta solo all’incasso di un consenso a breve, ci convince.
Di fronte alla presa di posizione di autorevoli esponenti del nostro partito, per “amor di verità” crediamo di dover richiamare il nostro programma elettorale del 2008, che come Presidenti di Provincia abbiamo condiviso e che prevedeva l’eliminazione entro 1 anno di tutti gli ATO, settoriali e non, attribuendo le loro competenze alle Province. Si prevedeva inoltre l’eliminazione delle Province là dove si costituiranno le aree metropolitane.
Mai, come Presidenti di Provincia, abbiamo attestato l’associazione della quale facciamo parte, su posizioni di difesa acritica dell’attuale sistema istituzionale.
Crediamo però che un grande partito abbia il dovere di spiegare ai cittadini quale Paese ha in mente. Peraltro, mentre ragioniamo di tutto ciò, il Parlamento si appresta ad approvare la Carta delle Autonomie, testo fondamentale per l’attuazione del federalismo, perché in esso vengono definite le funzioni fondamentali di Comuni e Province; in pratica il “chi fa che cosa” nel sistema delle autonomie locali. Le Associazioni delle autonomie e le Regioni hanno suggerito soluzioni diverse, ognuna a difesa del livello di governo che rappresentano, ed il Governo ha compiuto una difficile mediazione. Siamo sicuri che quel testo non debba essere più preciso per evitare ogni sovrapposizione di competenze, definendo con esattezza il mestiere di ciascuno, per rendere la vita più semplice ai cittadini e alle imprese, e rendere possibili significativi risparmi, semplicemente evitando che tutti facciamo le stesse cose? E, visto che si parla solo di Comuni e Province, non è il caso che le Regioni facciano la stessa cosa, evitando di distribuire in modo irrazionale o, ancor peggio, di trattenere, funzioni che possono essere conferite agli enti più vicini ai cittadini, così che possano avere finalmente, per una loro esigenza, un solo interlocutore?
E allora qualche domanda è legittima.
L’abolizione delle Province porta con sé l’abolizione dei capoluoghi e quindi l’eliminazione di prefetture, questure, uffici decentrati dello Stato e delle Regioni?
Si vuole cioè concentrare il potere e l’economia pubblica in venti città e non più in cento città italiane?
Si vogliono eliminare soltanto le Province e lasciare organizzati lo Stato e le Regioni come adesso e quindi, di fatto, spostare a livello Regionale compiti, funzioni e personale, vista la oggettiva difficoltà di trasferire ai Comuni competenze di area vasta?
Se fosse così 50.000 dipendenti residenti in quasi tutti gli oltre 8.000 comuni italiani, che svolgono per la gran parte funzioni legate al territorio, rimarrebbero irrimediabilmente nelle Province e le Regioni non potrebbero far altro che costituire agenzie, società e sovrastrutture con costi facilmente immaginabili.
Al di là della demagogia è arrivato il tempo delle proposte serie. Su di esse i Presidenti di Provincia saranno al tavolo di chi vuole riformare profondamente l’Italia: presto, bene e con coraggio, senza posizioni pregiudiziali e pronti a condividere scelte che riguardino anche e soprattutto le Province. Quello che non è tollerabile è la continua delegittimazione di rappresentanti delle istituzioni, eletti dai cittadini e che in trincea si confrontano quotidianamente con le difficoltà che stiamo attraversando. Al Partito Democratico chiediamo di scegliere subito la strada da percorrere, strada di riforme profonde che può e deve riguardare tutti i livelli istituzionali del Paese. Il centrodestra in lunghi anni di governo non ne è stato capace, sta a noi dimostrare che riformare le istituzioni seriamente è possibile.
I Presidenti di provincia Pd dell’Unione delle province d’Italia: Antonio Saitta (Torino), Nicola Zingaretti (Roma), Fabio Melilli (Rieti), Andrea Barducci (Firenze), Beatrice Draghetti (Bologna), Giovanni Florido (Taranto), Piero Lacorazza (Potenza).
Una domanda:
ma le Città metropolitane non avrebbero dovuto essere costituite (e i confini amministrativi delle province sul territorio residuo ridisegnate) fin dal 1992?
Trattandosi d’una stazione ferroviaria, concorderete, ci sta tutto che le automobili vengano messe sotto, il verde possa specie all’esterno prendere spazio, un mezzo di trasporto alternativo diventi l’ascensore. Trattandosi poi della Centrale, già sottoposta ad ampia e articolata ristrutturazione interna è inevitabile— essendo ora la priorità il restyling fuori dalla stazione — non pensare all’Expo. E darci sotto, anzi intervenire lì dove si aspettava da decenni. Per esempio nei 33 mila metri quadrati degli ex magazzini di via Sammartini, infiniti tunnel coi binari che servivano per lo scalo merci oramai buio posto degradato. I tunnel potrebbero diventare una cittadella internazionale di ristoranti, locali e bar.
L’amministratore delegato di GrandiStazioni Fabio Battaggia ha pronto il dossier per il sindaco Giuliano Pisapia. Macchine, casse, Milano Novecento in piazza Luigi di Savoia e seicento in via Sammartini, con quattro piani interrati di parcheggi e conti presto fatti: verranno creati 1.500 posti auto sotterranei. Il progetto dev’essere prima approvato dal Comune; dopodiché vanno reperiti i fondi. Non pochi. Soltanto per i due parcheggi sono 25 milioni di euro. In più ci sono 30 milioni per la riqualificazione dei magazzini. Come fare? O con il Cipe, o con le casse del Comune oppure tirando dentro sponsor. Battaggia a Pisapia proporrà: parliamone, occupiamoci insieme della cosiddetta porta d’ingresso della città. Apriamoci alle professionalità, al talento, alle idee. Dice l’ad: «Dopo tutti i lavori fatti, dopo anche le difficoltà, non possiamo lasciare il grande cantiere Centrale a metà...» .
In via Sammartini dai parcheggi (ricavati sempre negli magazzini) vi saranno accessi diretti ai binari. Spegnere l’auto, salire, entrare nel treno. Manciata di azioni in breve lasso temporale. Accelerare, agevolare. Ritmo metropolitano. Dall’Est alle pensiline Fiera dell’Est Europa con il suo doloroso popolo: gli incontri domenicali fra badanti, le parrucchiere di strada con taglio e messa in piega per qualche spicciolo, i bivacchi di chi non aveva da dormire o era steso ubriaco, le corse verso lo scippo dei ladruncoli rom, e le risse, e le valigie rubate ai turisti... Ha la sua lunga storia piazza Luigi di Savoia, peraltro in rapido e progressivo miglioramento. E ne è pronta una nuova, di storia. Nei disegni degli architetti che hanno rivisitato il suo look, la piazza avrà ancora più verde. Olmi, platani, magnolie, ciliegi andranno a popolarla. Nessuna modifica geografica per l’area dei bus (per Malpensa, Orio al Serio e centro città): rimarrà dov’è.
Semmai saranno aggiunte pensiline e panchine, verrà dato un ordine maggiore, insomma sarà più chiaro orientarsi e sostare. La discarica e il jazz Biciclette di bimbi, frigoriferi senza l’anta, chilogrammi di amianto. Sacchetti di chiodi, una friggitrice. Lungo una delle gallerie stradali che collegano via Sammartini a via Ferrante Aporti ci sono accessi. Porticine. Che danno sugli antichi magazzini. Trasformati in discariche abusive. I binari servivano per movimentare vagoni, container, cassoni. Le potenzialità di quest’area sono enormi. Se non altro per le dimensioni. L’area ha ospitato — qualcuna sopravvive — pescherie di varia natura. C’è una naturale predisposizione architettonica ad accogliere locali pubblici. Il sogno l’abbiamo detto: cittadella commerciale. Battaggia suggerisce: all’insegna dell’anima internazionale di Milano, sorta di via parallela di cibo orientale e africano, sottofondo jazz e acuti delle sperimentazioni europee di musica elettronica.
postilla
Miracoli della compartimentalizzazione societaria: Grandi Stazioni occupandosi di valorizzazione immobiliare non ha la più pallida idea di cosa sia una Stazione, né ha alcun interesse a farsela. Lei valorizza immobili e il concetto di mobilità le sfugge per ragione sociale. Punto.
Quanto già ampiamente notato dai milioni di viaggiatori che sperimentano sulla loro pelle il cosiddetto refurbishment del nodo ormai ex ferroviario, perdendosi nei corridoi progettati come all’Ikea, per far fare più strada possibile tra le mirabolanti offerte commerciali, ora raggiungerà il sublime assoluto, allargandosi al quartiere manco fosse il morbillo. Si legge di migliaia e migliaia di posti auto, sopra e sotto terra, naturalmente come se quelle auto fossero pendagli ornamentali, che arrivano lì dal cielo, e non fabbriche di inquinamento costrette ad arrancare per ore attraverso l’intasamento cronico determinato proprio dal loro flusso. Probabilmente anche i treni svolgono un ruolo similmente virtuale in questa coreografia, simpatiche chiazze colorate complementari all’andirivieni di clienti da un negozio all’altro. Niente da fare: lo shopping mall è come un congegno a orologeria, una volta innescato fa il suo mestiere, incurante della città e del buon senso: chiamate gli artificieri!! (f.b.)
LA NOTIZIA/La giunta ha deciso "unanimemente nonostante gli approfondimenti di intraprendere la strada della revoca della delibera di approvazione del Pgt". Lo ha annunciato l'assessore all'Urbanistica Lucia De Cesaris dopo la riunione della giunta di palazzo Marino.
RUMORS
Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it, la riunione di giunta che ha portato alla decisione di riportare indietro le lancette al momento della pubblicazione del Pgt, rimettendo quindi sul piatto tutte le osservazioni che erano state presentate, è stata tutt'altro che tranquilla. La discussione è stata accesa, da una parte non solo Stefano Boeri e il gruppo del Pd ma anche altri assessori, hanno sostenuto con forza che la scelta del sindaco di tornare indietro alle osservazioni avrebbe comportato rischi enormi. Il primo, legato ai tempi: ridiscutere tutto vorrebbe dire tornare in aula per un anno e mezzo, con tutti i pericoli del caso. Il secondo rischio: andare a ridiscutere il Pgt senza un documento politico di indirizzo, già condiviso, sul piano di governo, vorrebbe dire non sapere quali osservazioni accettare e quali no. Il terzo rischio: che dopo 18 mesi di discussione, i cambiamenti all'impianto profondo del Pgt sarebbero comunque poco rilevanti. Il quarto rischio (che ha "colpito" soprattutto Tabacci): ridiscutere il Pgt vuol dire rinunciare agli oneri di urbanizzazione già iscritti a bilancio, aggravando così una situazione già difficile.
LA DICHIARAZIONE AD AFFARI
Carmela Rozza, capogruppo del Pd a Palazzo Marino, commenta così la decisione della Giunta: "Il Pd ha espresso al sindaco la propria preoccupazione, manteniamo la nostra preoccupazione pur rispettando la scelta del sindaco. Lavoreremo in aula per velocizzare il più possibile e creare meno disagio possibile, ripeto: rispettando la scelta del sindaco"
GIULIANO PISAPIA
La scelta della giunta sul Pgt "permette di impedire" la "carneficina di Milano". Lo ha detto il sindaco Giuliano Pisapia, spiegando la decisione dell'esecutivo di palazzo Marino di revocare la delibera di approvazione del Piano di governo del territorio votata il 4 febbraio dal consiglio comunale. Per Pisapia la scelta di oggi non "bloccherà" l'econmomia e lo sviluppo della città ma "esattamente il contrario. Se fosse stato pubblicato il Pgt adottato dal centrodestra ci sarebbero stati decine di ricorsi, del tutto fondati, sarebbero stati accolti e si sarebbe tornati indietro. Invece la scelta che abbiamo fatto - ha spiegato - permette di sviluppare economia a Milano, di continuare i lavori già fatti, di proseguire lavori già approvati o che possono essere approvati e soprattutto permette di impedire quella carneficina di Milano, scusate il termine, che significherebbe nuovi grattacieli e nuove case per soggetti che non sono in grado di pagarle. Noi invece vediamo la necessità che a Milano ci sia più verde, più housing sociale, più edilizia popolare, quello di cui hanno bisogno i cittadini di Milano".
MARIOLINA MOIOLI
“È una scelta irresponsabile quella di ridiscutere il Piano di Governo del territorio, pronto dopo la conclusione del suo iter burocratico per essere pubblicato”. Questa la prima reazione del capogruppo di Milano al Centro, Mariolina Moioli alla revoca della delibera di approvazione del Pgt. “Significa bloccare lo sviluppo della città a tempo indeterminato – incalza Moioli - rinunciare agli oneri di urbanizzazione già previsti in entrata di bilancio 2011, aggravare la situazione già difficile di tutte le imprese del settore e di tutto l’indotto. Ma quello che è più grave è il blocco dell’occupazione nei settori trainanti per l’economia”. “Si tratta – conclude - di una presa di posizione ideologica e contro gli interessi dei milanesi, della città, ma anche dello sviluppo di tutto il Paese. Non ci limiteremo a posizioni contrarie ma faremo, come opposizione, tutto quello che è possibile”.
Meno di mille euro al mese, meno che a inizio carriera, per quasi un giovane su due quando smetterà di lavorare. La relazione del Censis per Unipol traccia un quadro preoccupante dell’Italia che verrà.
Un’Italia di anziani poveri. Con il 42% dei dipendenti, oggi giovani fra i 25 e i 34 anni, che intorno al 2050 andrà in pensione con meno di mille euro al mese. I lavoratori in questa fascia di età sono attualmente il 31,9%, e guadagnano una cifra inferiore a mille euro. Ciò significa che molti di loro si troveranno ad avere dalla pensione pubblica un reddito addirittura più basso di quello che avevano a inizio carriera. E la previsione riguarda i più fortunati, cioè i 4 milioni di giovani oggi inseriti nel mercato del lavoro con contratti standard. Poi ci sono un milione di giovani autonomi o con contratti atipici e 2 milioni che non studiano né lavorano. Perchè, come ha certificato l’Istat solo qualche giorno fa, il tasso di disoccupazione giovanile è da tempo ormai sul 30%.
È questo il quadro che emerge dai risultati del primo anno di lavoro del progetto «Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali» realizzato da Censis e Unipol. Si parte da un assunto di base: il nodo pensioni si fa sempre più complicato. L’Italia resta uno dei paesi più vecchi e longevi al mondo. Nel 2030 gli over 64 anni saranno più del 26% della popolazione: ci saranno 4 milioni di persone non attive in più e 2 milioni di attivi in meno. Il sistema pensionistico, sottolinea il rapporto, dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità. Se le riforme delle pensioni degli anni ‘90 hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine, oggi a preoccupare è il costo sociale della riduzione delle tutele per le generazioni future. A fronte di un tasso di sostituzione del 72,7% calcolato per il 2010, nel 2040 i lavoratori dipendenti beneficeranno di una pensione pari a poco più del 60% dell’ultima retribuzione (andando in pensione a 67 anni con 37 di contributi); mentre i lavoratori autonomi vedranno ridursi il tasso fino a -40% (a 68 anni con 38 anni di contributi).
ZERO TUTELE
Dati che dovrebbero preoccupare, e molto, ma che invece non suonano affatto come un campanello d’allarme per il governo. Non per il ministro al Welfare Maurizio Sacconi, almeno: «Proiezioni di questo tipo credo che siano molto opinabili, scontano ipotesi di percorsi lavorativi che nessuno può disegnare in un tempo di così straordinari cambiamenti», commenta. E punta sulla «necessità di forme di previdenza e assistenza complementari». «Il tema c’è ed ha una dimensione importante», replica l’amministratore delegato di Unipol, Carlo Cimbri. «Una volta continua - il tasso di sostituzione era pari al 90% dell’ultima retribuzione. Oggi al 70% e calerà ancora». Fondamentale, quindi, anche per lui «trovare forme di integrazione della previdenza». Ma non è così semplice. La relazione del Censis, dicono Cgil, Cisl e Uil, è solo la conferma di un allarme lanciato più volte. «Tutti gli studi - spiega Susanna Camusso, leader Cgil - dicono che, a sistema invariato, con una crescita così bassa e sei i punti di Pil persi negli ultimi anni, le pensioni del futuro saranno troppo basse. E non vale - aggiunge - scaricarle in termini di responsabilità sui giovani, dicendo che non si fanno subito la previdenza complementare; il lavoratore precario non ha le risorse per farlo». Dati che «fanno rabbrividire» per il Pd, che proporrà come emendamento alla manovra la proposta che consente di trasferire le annualità di contribuzione versate oltre quelle necessarie per raggiungere l’età pensionabile dai genitori ai figli, già presentata alla Camera, come «nuovo patto generazionale».
«Complementare» (leggi: privata), peraltro, oltre alla previdenza rischia di essere sempre di più pure la sanità. L’indagine Censis parla anche di questo: le famiglie spendono in media mille euro l’anno per visite mediche private, fino a 1.400 euro se qualcuno ha bisogno del dentista. Aumentano quindi i servizi sanitari pagati di «tasca propria». Nell’ultimo anno solo il 19,4% delle famiglie ne ha potuto fare a meno, mentre oltre il 70% ha acquistato medicinali a prezzo pieno in farmacia, il 40% ha fatto ricorso a sedute odontoiatriche, il 35% a visite mediche specialistiche e più del 18% a prestazioni diagnostiche.❖
Immersa nella nube di «cupio dissolvi» che troppo spesso la acceca, la sinistra ha perso una formidabile occasione. Astenersi alla Camera, nel dibattito sul disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, è stato un errore imperdonabile. È come se l´opposizione, dopo aver trovato un prorompente e promettente varco politico dentro la società italiana che ha votato alle amministrative e ai referendum, gli avesse improvvisamente e inopinatamente voltato le spalle.
Dilettantismo? Opportunismo? Masochismo? Forse tutte e tre le cose. Sta di fatto che la politica, come la vita, è attraversata da fasi. L´esito della doppia tornata elettorale di maggio e di giugno imponeva una scelta inequivoca, che rendesse manifesta la capacità della sinistra di saper «leggere» la fase, e di saperla cogliere con tempestività e mettere a frutto con intelligenza. La fase suggerisce l´esistenza di un´opinione pubblica sempre più stanca delle menzogne di un governo mediocre e inaffidabile, e sempre più stufa delle inadempienze di una «Casta» ricca e irresponsabile. Il ddl sull´abolizione delle province era la prima opportunità utile, offerta soprattutto al Partito democratico, per dimostrare di saper stare «dentro la fase».
C´era in ballo una ragione tattica, innanzi tutto. Tra molti mal di pancia, l´altroieri il Pdl e la Lega hanno votato contro il testo proposto dall´Idv, rinnegando l´ennesima promessa tradita della campagna elettorale del 2008. La soppressione delle province era nel programma di governo del centrodestra, che ora se la rimangia allegramente, non solo rinunciando a cancellare le province esistenti, ma creandone di nuove. Sbarrargli la strada con un voto compatto di tutte le opposizioni avrebbe significato una quasi certa vittoria parlamentare, una clamorosa sconfitta della resistibile armata forzaleghista e un palese disvelamento delle sue contraddizioni interne.
Ma c´era in ballo soprattutto una ragione strategica. Il «movimento invisibile» che attraversa il Paese (secondo la felice metafora di Ilvo Diamanti) invoca da tempo un sussulto di dignità dall´establishment. Un taglio credibile ai costi della politica (tanto più di fronte all´ennesima burla prevista sul tema dalla manovra anti-deficit da 40 miliardi) resta uno dei temi più sensibili per una quota crescente di opinione pubblica, che subisce con disagio una condizione sociale sempre più dura e insicura e reagisce con indignazione di fronte ai privilegi sempre più intollerabili delle classi dirigenti. Auto blu, aerei blu, stipendi blu, pensioni blu. Tutto è blu, nel meraviglioso mondo del Palazzo.
Gli italiani chiedono alla politica efficienza, produttività, equità. Le misure appena varate dal ministro del Tesoro non gli offrono nulla di tutto questo. L´abolizione delle province era invece il primo test, sia pure collocato su un piano parzialmente diverso, per dare una risposta a questa domanda degli italiani. Il Pd quella risposta gliel´ha negata. E non ha capito che cogliere un «attimo» come questo è il modo migliore per evitare che monti ancora l´onda dell´antipolitica. È il metodo più efficace per contenerla, senza lasciarsi travolgere e poi essere costretti a subirla e a inseguirla. Com´è successo tante volte alla sinistra, dai girotondi di Nanni Moretti ai raduni di Beppe Grillo.
Ai riformisti non si richiede l´agio di lasciarsi «etero-dirigere» dalle masse, rifiutando la fatica necessaria di provare invece a guidarle. Il voto favorevole alla soppressione delle province poteva essere motivato senza cedimenti al populismo e al qualunquismo, perché la buona politica non deve mai ridursi a un´alzata di mano o alla x su una scheda. Il Pd aveva strumenti per inquadrare quel voto in uno schema di riordino complessivo dell´architettura istituzionale, dove non si punta a picconare a casaccio un sistema di autonomie locali codificato dalla Costituzione. Quello che non doveva fare è trincerarsi dietro la difesa di questo sistema, per giustificare la sua codina astensione. Ed è invece esattamente quello che ha fatto. Legittimando così i peggiori sospetti di chi vede in questa mossa malsana l´intenzione malcelata e maldestra di salvare le solite guarentigie e le solite poltrone.
Le province italiane sono 110. Costano al contribuente circa 17 miliardi di euro, cioè quasi la metà dell´importo della stangata a orologeria di Tremonti. Le presidenze di provincia occupate dal Pd sono 40, contro le 36 del Pdl, le 13 della Lega, le 5 dell´Udc. Tutti tengono famiglia. Ma se la sinistra non ha la forza e il coraggio di dimostrare agli italiani che non tutti sono uguali, la partita dell´alternativa non comincia nemmeno. Siamo fermi a Nenni: le piazze si riempiono, ma le urne si risvuotano.
Ha ragione Giannini a denunciare la mancanza di coraggio della sinistra. Ma la sinistra (Giannini si riferisce alla sinistra parlamentare, cioè al PD) non ha sbagliato perché si è astenuta sulla proposta Di Pietro. Proposta che era anch’essa sbagliata, ancora più radicalmente, come è sbagliata la critica alla mancata abrogazione della provincia che è venuta da altre parti della “sinistra coraggiosa”, a cominciare dal suo più interessante rappresentante, Nichi Vendola. La sinistra, quella “senza coraggio” e quella coraggiosa, hanno sbagliato per un’altra ragione.
In realtà la denuncia di Giannini e la critica di Vendola dimostrano quanta distanza c’è tra la puntuale denuncia e critica di ciò che avviene sul territorio (consumo di suolo, frane e alluvioni, malfunzionamenti delle reti delle comunicazioni, della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della gestione dell’edilizia pubblica e privata, dell’organizzazione dei servizi di livello territoriale, dell’organizzazione del ciclo alimentare dell’uomo e così via) e la conoscenza degli strumenti mediante i quali quei malanni possono essere sanati.
In tempi nei quali l’attenzione della sinistra (e non solo) era meno miope e più colta, nei quali la strategia non era meno importante della tattica e non ne era schiava, si rifletté a lungo, in Parlamento e fuori, su due versanti paralleli: che cosa fare della provincia, e che cosa fare per risolvere alcuni problemi del territorio. Si trattava appunto dei problemi dai quali cominciavano a nascere quei malanni che ho sopra elencato: malanni che vengono deprecati quando si manifestano, e dei quali si dimostra di ignorare le cause e gli strumenti che permettano di rimuoverle.
Il legislatore di allora comprese ciò che quelli attuali (e i loro suggeritori) hanno dimenticato: che per governare efficacemente il territorio non bastano le competenze dei comuni e quelle delle regioni. Esistono problemi per i quali il comune è troppo piccolo e frammentato, e la regione troppo grande e lontana. Occorre, come in altri paesi, una dimensione intermedia alla quale affidare il governo di “area vasta” . Si tentò una strada in alcune regioni (il Piemonte, la Lombardia, l’Umbria tra gli altri), e in alcuni esperimenti a livello statale (la legge speciale per Venezia del 1973): si inventarono i “comprensori”. I comprensori non funzionarono anche perché, non essendo i loro organi eletti direttamente dai cittadini (allora si credeva fino in fondo alla democrazia, almeno a quella rappresentativa), non riuscivano a decidere quando gli interessi generali confliggevano con quelli del singolo comune. Allora si ebbe un’idea convincente: anziché inventare un nuovo ente elettivo di primo grado, ciò che implicherebbe una modifica della costituzione, perché non utilizzare, modificandone radicalmente competenze e organizzazione, un istituto esistente e allora poco utile, appunto la provincia? Così si fece, con la legge 142 del 1990, al termine di una lunga riflessione e sperimentazione.
Ma i tempi erano cambiati. Era cambiata la politica, era cominciata un’epoca di cui il caxismo è stato” la fase infantile”, il berlusconismo quella matura. La fiducia nella pianificazione, nel pubblico, nel “noi” era scemata. Nell’ombra affilavano i loro dentini i Lupi e i Brunetta. La sinistra era «parassitizzata» (per adoperare la metafora entomologica di Piero Bevilacqua) dall’ideologia neoliberista. La cultura urbanistica ufficiale invitava a praticare la “facilitazione” delle operazioni immobiliari. Anziché essere intelligentemente riformate per adempiere i loro nuovi compiti vennero utilizzate così come lo erano stato, regioni, comuni – e l’ampia e crescente pletora del mondo parastatale. Quasi dappertutto, ma non dappertutto: alcune lavorarono seriamente, nel silenzio dei media; e se il parlamento fosse ancora una cosa seria provvederebbe a studiarne l’operato, prima di discuterne l’eliminazione.
E allora, chiediamo a Massimo Giannini, a Nichi Vendola e agli altri, vogliamo risolvere il problema dando un segnale demagogico e illusorio con l’abolire le province? Oppure decidiamo di impegnare le nostre risorse (e magari, dove li abbiamo, i nostri poteri democratici) per riformarle davvero? Se alla domanda di pulire la politica e ridurne le spese rispondiamo con la demagogia e il pressapochismo, non andremo certo lontano. Aspettiamo risposte.
Vale la pena meditare su cosa significhi precisamente partito degli onesti, visto che a proporlo è stato il nuovo segretario del Pdl. ossia della formazione che sin qui non aveva la rettitudine come stella polare. Può darsi che Alfano abbia emesso un mero suono, un flatus vocis senza rapporto alcuno con la realtà, ma i realisti che credono nella consistenza delle parole hanno tutto l´interesse a ripensare vocaboli come onestà, morale pubblica, virtù politica. A meno di non essere incosciente, il ministro della Giustizia non può infatti ignorarlo: i passati diciassette anni non sono stati propriamente intrisi di probità (lui stesso ne è la prova vivente, avendo aiutato Berlusconi a inserire nella manovra economica un codicillo ad personam, che tutelando il premier dalla sentenza sul Lodo Mondadori nobilita a tutti gli effetti il concetto di insolvenza nel privato). Alle spalle abbiamo un´epoca corrotta, molto simile al periodo dei torbidi che Mosca conobbe fra il XVI e il XVII secolo, prima che i Romanov salissero al trono e mettessero fine all´usurpazione di Boris Godunov.
Meditare sull´onestà dei politici significa che da quest´epoca usciremo - se ne usciremo - a condizione di capire in concreto cosa sia la morale pubblica, e come la sua cronica violazione abbia prodotto una propensione al vizio quasi naturale, che va ben oltre la disubbidienza alle leggi. Soprattutto, significa guardare al fenomeno Berlusconi come a qualcosa che è dentro, non fuori di noi: la cultura dell´illegalità, i conflitti d´interesse vissuti non come imbarazzo ma come risorsa, non sono qualcosa che nasce con lui ma hanno radici più profonde, non ancora estirpate. Sono un male italiano di cui il premier è il sintomo acutizzato: chiusa la parentesi non l´avremo curato ma solo preteso d´averlo fatto. L´inferno non sono gli altri, ogni giorno lo constatiamo: dal dramma dei rifiuti a Napoli alle vicende che scuotono il partito di Bersani e D´Alema.
Il fatto è che ci stiamo abituando a restringere la nozione di morale pubblica. L´assimiliamo a una condotta certamente cruciale – l´osservanza delle leggi, sorvegliata dai tribunali – ma del tutto insufficiente. Perché esistano partiti onesti, altri ingredienti sono indispensabili: più personali, meno palpabili, non sempre scritti. Attinenti alle virtù politiche, più che a un dover-essere codificato in norme scritte. Precedenti le stesse Costituzioni.
Di che c´è bisogno dunque, per metter fine alla leggerezza del vizio che riproduce sempre nuovi boiardi e nuovi disastri trasversali come la monnezza napoletana e la corruttela? Gli ingredienti mancanti sono sostanzialmente due: una memoria lunga della storia italiana, e un´idea chiara di quelle che devono essere le virtù politiche a prescindere dalle norme scritte nel codice penale.
La memoria, in primo luogo. Non si parla qui di un semplice rammemorare. Le celebrazioni ci inondano e forse anche ci svuotano; esistono date che evochi continuamente proprio perché sono stelle morte. Per memoria intendo la correlazione stretta, e vincolante, tra ieri e oggi: ogni atto passato (come ogni omissione) ha effetti sul presente e come tale andrebbe analizzato. Diveniamo responsabili verso il futuro perché lo siamo del passato, di come abbiamo o non abbiamo agito. Il ragionamento di Tocqueville sull´individuo democratico vale anche per le sue azioni, specialmente politiche: la «catena aristocratica delle generazioni» viene spezzata, e lascia ogni anello per conto suo. Così come avviene per l´individuo, l´atto – sconnesso dalla vasta trama dei tempi – «non deve più nulla a nessuno, si abitua a considerarsi sempre isolatamente (...) Ciascuno smarrisce le tracce delle idee dei suoi antenati o non se ne preoccupa affatto. Ogni nuova generazione è un nuovo popolo (...) La democrazia non solo fa dimenticare a ogni uomo (a ogni azione) i suoi avi, ma gli nasconde i suoi discendenti e lo separa dai suoi contemporanei: lo riconduce incessantemente a se stesso e minaccia di rinchiuderlo per intero nella solitudine del suo cuore».
La citazione si applica perfettamente alla calamità napoletana. Sono settimane che i leghisti sbraitano, negando la solidarietà con una città che precipita. Se la memoria funzionasse, non potrebbero. Dovrebbero dire, a se stessi e agli italiani, la verità: se Napoli e la Campania sono diventate un´immensa mefitica discarica di rifiuti tossici e non tossici, è perché il Nord da vent´anni ha perpetuato quello che Tommaso Sodano, ex senatore e oggi vice di de Magistris, chiama lo «stupro del Sud»: una «specie di guerra etnica, giocata con l´arma del rifiuto, alimentata dalla camorra, ma anche da una catena di falsificazione e di enti di controllo assenti». Il Nord è responsabile di quanto avviene a Sud, quali che siano le colpe delle amministrazioni campane. La sua industrializzazione ha prodotto rifiuti tossici smaltiti senza trattamento nel Sud, sancendo con la connivenza di clan camorristi la morte del Mezzogiorno, e avvelenando uomini, animali, fiumi, piantagioni (Tommaso Sodano, «La Peste«, Rizzoli 2010).
Il secondo ingrediente, essenziale, è la virtù personale del politico. Indipendentemente dal codice penale, essa dovrebbe escludere frequentazioni di mafiosi, connivenze con personaggi come Cosentino, assuefazione infine alla droga che è il conflitto d´interessi. Piano piano cominciamo a capire come mai, sul conflitto d´interessi berlusconiano, la sinistra non ha mai fatto nulla, anche quando governava: il conflitto era droga anche per lei. Come definire altrimenti il caso Franco Pronzato? Ecco infatti un uomo, vicinissimo ai vertici Pd, che nello stesso momento in cui agiva nel consiglio d´amministrazione dell´Enac (Ente nazionale per l´aviazione civile), era coordinatore nazionale del trasporto aereo nel Pd. Pronzato ha percepito tangenti sulla rotta Roma-Isola d´Elba e il suo corruttore, Morichini, ha fatto favori finanziari a D´Alema. «L´incarico pubblico assegnato senza neppure mascherare la sua finalità lottizzatoria viene notato ora solo perché Pronzato va in carcere», ha scritto Gad Lerner su «Repubblica« (30 giugno).
Lo scandalo esiste solo quando la magistratura interviene: qui è il male italiano che precede Berlusconi, e per questo è urgente pensare la morale pubblica. Il mondo si rimette nei cardini così: individuando il punto dove la legge non arriva, e però cominciano le indecenze, le cattive frequentazioni, la triviale leggerezza del politico. Non tutte le condotte sono perseguibili penalmente (il doppio incarico di Pronzato non è illegale) ma politicamente non denotano né probità né prudenza: due virtù fra loro legate. Si parla di giustizialismo, del potere dei giudici sulla politica. Se questo accade, è perché la morale pubblica ha come unico recinto la magistratura, e non anche la coscienza.
Borsellino ha detto, in proposito, cose che restano una bussola: «La magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire: ci sono sospetti, anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica (...) Però siccome dalle indagini sono emersi fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi». Se le conseguenze non sono state tratte, «è perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza». (La presenza di grossi sospetti) «dovrebbe quantomeno indurre, soprattutto i partiti politici, non soltanto a essere onesti ma a apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche non costituenti reati». Era questo il fresco profumo di libertà che augurava all´Italia, prima d´esser ammazzato. Non era flatus vocis, il suo, anche se è stato preso per tale da un´intera classe politica.
Dopo Berlusconi, la morale pubblica sarà da reinventare: non uscirà come Afrodite dalle acque. S´imporranno farmaci forti, perché gli italiani osino fidarsi del Politico. Oggi non si fidano: i No-Tav pacifisti di Val di Susa dicono questo. Possiamo sprezzarli, possiamo denunciare la sindrome Nimby (Not In My Backyard, «non nel mio cortile»). Ma non senza dire, prima, che tutti soffrono la stessa sindrome, a cominciare dal Nord di Bossi.
La Cgil è in campo. Minato
di Loris Campetti
Contratti. Quelli nazionali si possono derogare, la «tregua» sospende il diritto di sciopero e i lavoratori non possono più votare accordi e delegati. Il direttivo approva l'accordo con Cisl, Uil e Confindustria con 117 sì, 21 no e un astenuto. Ora la consultazione degli iscritti. Fiom e minoranza denunciano una svolta pericolosa per democrazia e i diritti dei lavoratori
Il direttivo nazionale della Cgil ha approvato a larga maggioranza il dispositivo con cui si sottoscrive l'accordo siglato con Cisl, Uil e Confindustria con cui si modificano profondamente le norme che regolano democrazia e rappresentanza nei posti di lavoro, la natura e il valore dei contratti nazionali e persino alcuni diritti fondamentali, come quello di sciopero. 117 voti favorevoli, 21 contrari e un solo astenuto sanciscono un cambiamento di stagione e - secondo chi si è opposto alla firma - la natura stessa del sindacato. Dato l'investimento fatto dalla segreteria e personalmente da Susanna Camusso sul «ritorno alla normalità» della Cgil nel rapporto con le altre confederazioni chiamate fino a ieri «complici» e con la Confindustria, il voto di ieri è stato di fatto un «voto di fiducia» alla segretaria generale. Anche i dubbi e i mal di pancia, che non mancano, sono stati messi da parte e le percentuali raccolte dai sì e dai no rispecchiano gli schieramenti usciti dal congresso nazionale.
Ora, il testo dell'accordo insieme al dispositivo approvato che lo «interpreta» saranno messi a disposizione di tutti gli iscritti alla Cgil che entro il 17 di settembre dovranno esprimersi anch'essi con un voto. Sembra escluso che Cisl e Uil accettino una consultazione generale dei loro iscritti e a nessuno - tranne alle minoranze Cgil - è venuto in mente di consegnare la decisione finale a tutti i lavoratori interessati, con o senza tessere sindacali. Il «perimetro» interessato, cioè gli iscritti alla Cgil che potranno dire la loro, comprende i dipendenti delle aziende che aderiscono a Confindustria. Quel che gli iscritti non potranno conoscere è il documento della minoranza congressuale, perché nelle assemblee nelle fabbriche e negli uffici il loro documento non avrà cittadinanza. In teoria, il segretario della Fiom Maurizio Landini dovrebbe andare alla Fiat o in Fincantieri a difendere la posizione contro cui ha votato e si è battuto. O forse alle assemblee la relazione sarà fatta solo dai dirigenti fedeli alla linea. Sembra di leggere Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler: «La vostra fazione, cittadino Rubasciov, è stata battuta e disfatta. Volevate spezzare il Partito, pur dovendo sapere che una scissione nel Partito avrebbe significato la guerra civile. Sapete dello scontento fra i contadini, che non hanno ancora imparato a comprendere il senso dei sacrifici imposti loro. In una guerra che può scoppiare da qui a qualche mese, tali correnti possono portare a una catastrofe. D'onde la necessità imperiosa per il Partito di essere unito. Esso deve essere come fuso in una colata, tutto cieca disciplina e fiducia assoluta. Voi e i vostri amici, cittadino Rubasciov, avete creato una frattura nel Partito. Se il vostro pentimento è sincero, dovete aiutarci a sanare questa frattura. Come vi ho detto, è l'ultimo servizio che il Partito vi chiede».
A decidere le modalità della consultazione saranno le categorie interessate (quelle del «perimetro») e le assemblee dovranno svolgersi entro il 17 di settembre, per consentire l'elaborazione dei risultati non oltre il 20 e, dunque, la formalizzazione della firma della Cgil in calce all'accordo. Susanna Camusso ha sostenuto il testo sottoscritto con la motivazione che finalmente si chiude la stagione degli accordi separati. Tesi contestata dalla Fiom e dalla minoranza, secondo cui l'unica garanzia per evitare che si continuino a firmare contratti e accordi di parte è il diritto di voto di tutti i lavoratori interessati. È proprio questo uno dei punti critici dell'accordo, un punto che concerne la democrazia: mentre si raccolgono le firme per un referendum che restituisca ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, questo diritto viene negato ai lavoratori. «Forse i lavoratori non sono cittadini? si chiede il segretario generale della Fiom Maurizio Landini. Il portavocie della «Cgil che vogliamo», Gianni Rinaldini, aveva chiesto una gestione «più democratica» della consultazione tra gli iscritti ma è stato respinto con perdite.
Dal principio «una testa un voto» si passa alla mediazione sindacale ma, sostiene Susanna Camusso, «c'è sempre una relazione con i lavoratori e la loro rappresentanza». Più difficile invece sostenere che il contratto nazionale non si tocca, visto che le deroghe sono previste in tutti i casi di crisi, ristrutturazione e investimenti. Cioè sempre. Inoltre, ricorda Rinaldini, se nel 2009, quando fu siglato un accordo separato sul sistema contrattuale da tutti tranne la Cgil, si fossero applicate le regole previste con l'accordo unitario varato ieri dal direttivo, anche senza la firma della Cgil che non ha il 50% più uno della rappresentanza sarebbe passato e avrebbe avuto valore generale. La «tregua» (il divieto di sciopero), sostiene il dispositivo, impegna «soltanto» le organizzazioni firmatarie dell'accordo e non i singoli lavoratori.
Ieri di fronte alla sede nazionale della Cgil, in Corso d'Italia a Roma, un gruppo di delegati «autocovocati» ha manifestato contro l'accordo con uno striscione in cui era scritto «No al patto di resa finale, il sindacato non si deve suicidare». In alcune fabbriche, in Toscana e in Lombardia, c'è anche chi ha scioperato contro l'accordo unitario.
L'ex segretario generale Guglielmo Epifani ha dato il suo appoggio alla scelta della segreteria, al contrario di Giorgio Cremaschi che ha messo in fila tutte le ragioni di un voto contrario al direttivo.
Gallino: «Così si va a destra»
intervista di Francesco Paternò
Il sociologo: «Contratto sempre derogabile, la "tregua" è un colpo ai diritti»
Il sociologo Luciano Gallino non ha dubbi: l'intesa sul lavoro firmata dalla Cgil il 28 giugno scorso «rappresenta uno spostamento a destra». E continua a pensare anche che alla Fiat non dispiacerebbe avere un «pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia».
L'accordo interconfederale con la Confindustria riavvia un processo di contrattazione unitario che pare però preoccupante. Il contratto nazionale non diventa così sempre derogabile?
In effetti il secondo comma dell'art. 7 dell'accordo prevede che in presenza di «situazioni di crisi» o di «investimenti significativi» si possono modificare gli istituti del CCNL. Sia le une che gli altri possono venire definiti in cento modi diversi, in specie nelle piccole e medie imprese. Perciò, di fatto, in tema di prestazioni lavorative, orari e organizzazione del lavoro, il CCNL è derogabile praticamente senza limiti.
L'accordo non toglie quasi definitivamente la possibilità per i lavoratori di votare intese firmate dai vertici sindacali?
Non mi pare vi siano dubbi. Quando un accordo aziendale è firmato da una rappresentanza certificata, i lavoratori non hanno più la possibilità di esprimere il loro consenso o dissenso in merito ad esso. In astratto, potrebbero anche organizzarsi per esprimerlo, ma stando all'accordo interconfederale esso non avrebbe alcun valore. Paradossalmente, il principio per cui i lavoratori hanno comunque il diritto di esprimersi mediante il voto è ribadito con particolare forza dallo statuto della stessa Cgil.
Secondo lei, perché la Cgil oggi ha firmato quel che nella sostanza è la stessa cosa che non ha firmato nel 2009?
Da anni la Cgil ha tutti contro: le altre due confederazioni, il governo, il 90 per cento degli accademici che si occupano di lavoro, i media, perfino gran parte dei politici del centro-sinistra. L'accordo in parola rappresenta senza dubbio uno spostamento verso destra, ma in un contesto politico e culturale che nonostante la crisi, o meglio proprio per sfruttare la crisi, appare sempre più virare a destra, un'organizzazione così vasta e complessa non può non avvertire anche al proprio interno spinte per portarsi su posizioni meno distanti da quelle dominanti.
Quale è il suo giudizio sulle Rsa?
I membri delle Rsu sono eletti dai lavoratori. I membri delle Rsa sono designati dai sindacati, anche se minoritari. In altre parole le Rsu sono una forma, imperfetta quanto si vuole, di democrazia diretta o partecipativa. Le Rsa sono un'ennesima forma di democrazia per delega dall'alto. Sono per la prima forma di democrazia.
La centralità che assume sempre di più la contrattazione aziendale non rischia di accentuare la tendenza alla frammentazione del sistema industriale italiano?
Su questo non c'è il minimo dubbio. Un sistema che è già di per sé il più frammentato della Unione europea a 17 ed è molto meno organizzato, ad onta delle infinite discussioni su distretti in forme di cooperazione interaziendali come avviene invece con i «poli di competitività» in Francia, le «reti di competenza» in Germania, ecc.
Come valuta la «tregua», in sostanza la sospensione del diritto di sciopero?
E' un altro colpo inferto alla libertà di associazione e di azione sindacale.
Cosa prevede nelle relazioni fra Fiat e Fiom, se il prossimo 18 luglio il tribunale desse ragione al sindacato sul contratto di Pomigliano?
Ho l'impressione che alla Fiat non spiacerebbe avere un pretesto per ridurre o rinunciare agli investimenti in Italia. Il suo centro produttivo è ormai in Brasile e in Messico, dove a Toluca vengono costruite sia la 500 che i macchinoni Chrysler da vendere in Italia e in Europa con la placchetta Lancia o Alfa Romeo. Nel 2010 la Fiat ha prodotto in Italia meno auto di quante non ne abbiano prodotte al loro interno Germania, Francia, Regno Unito, Spagna, Polonia, Repubblica Ceca e Serbia. Ritornare ad essere, dall'ottavo, anche solo uno dei primi tre costruttori è un impegno di enorme portata. Se ai lavoratori italiani e alla Fiom potesse venire appioppata definitivamente l'accusa di essere inaffidabili, poco produttivi, renitenti alle forme moderne di organizzazione del lavoro, il disegno americanocentrico del Lingotto ne sarebbe facilitato.
Spostare la Consob da Roma a Milano. A più riprese la Lega Nord è tornata alla carica con questa proposta, presentata alla Camera lo scorso 23 giugno. L'ultima volta lo ha fatto l'excapogruppo del Carroccio a Palazzo Marino Matteo Salvinialla vigilia delle elezioni comunali di Milano,poi perse nettamente dal centro-destra. In linea di principio avrebbe senso che l'autorità di controllo dei mercati avesse sede nella città della Borsa. La proposta leghista ha tuttavia incontrato dure critiche da parte di addetti ai lavori e sindacati. Questi ultimi per esempio hanno stimato in 50 milioni di euro l'aggravio che il trasferimento comporterebbe per il bilancio della Consob.
La classifica
A supporto dei contrari allo spostamento al nord della sede principale dell'authority arriva un recente studio di Simon-Kucher & Partners. La società di consulenza ha stilato una classifica delle città italiane in base alla capitalizzazione delle società che vi hanno sede. Dallo studio, che prende in esame 38 società quotate del paniereFTSE MIB(mancanoTenaris, che ha sede in Lussemburgo, ed Stm, che ha base in Svizzera) emerge che la capitalizzazione delle società che hanno sede a Roma è di gran lunga superiore a quella delle milanesi. In base alla chiusura di borsa del 26 maggio 2011, quella delle romane ammonta a 175 miliardi e 340 milioni di euro mentre quella delle milanesi è di 43 miliardi e 150 milioni.
Il peso delle big
La ragione di tale sproporzione sta nel fatto che a Roma hanno sede le due maggiori società quotate italiane:Eni (oltre 65 miliardi di market cap) edEnel (43,73). A queste poi si aggiunge un colosso del calibro diUnicredit(29 miliardi e 720 milioni di capitalizzazione). La banca ha ufficialmente sede legale in via Alessandro Specchi 16 a Roma e non, come in molti potrebbero pensare, nella più nota Piazza Cordusio a Milano ,dove invece c'è quella operativa. Altre romane sonoAtlantia(9,66 miliardi), Bulgari(3,68),Enel Green Power(9,25),Finmeccanica(4,94),Lottomatica(2,45) eTerna(6,75).
Milano e Torino
La quotate di maggior peso a Milano sonoLuxottica Group(10 miliardi e 310 milioni) eTelecom Italia(12,99 mld). AggiungendoMediaset,Mediobanca,Pirelli & C,Banca Popolare di Milano; AzimuteImpregilosi arriva a 43 miliardi e 150 milioni di euro. Milano è distanziata poco da Torino, la città diFiat(7,72 miliardi)Fiat Industrial(10.06) e della controllanteExor(3,64). Con la banca Intesa Sanpaolola capitalizzazione delle torinesi arriva a 41 miliardi e 690 milioni di euro.
Al terzo posto San Donato Milanese
Al terzo posto di questa classifica c'è San Donato Milanese, comune alle porte di Milano dove sorge Metanopoli, la "città del metano" voluta da Enrico Mattei nel secondo dopoguerra per i lavoratori dell'Eni. Qui hanno sedeSaipemeSnam Rete Gasche insieme fanno 30 miliardi e 290 milioni di euro di capitalizzazione. Nella classifica compaiono anche piccoli centri come Sant'Elpidio al Mare (provincia di Fermo) dove ha sede laTod's(2,75 miliardi di market cap).
MILANO - Le province, per ora, non si toccano. Con i voti contrari del Pdl e la decisiva astensione del Pd, la Camera dice infatti «no» alla proposta di legge sulla loro soppressione presentata dall'Idv. Un risultato che accende la polemica all'interno delle opposizioni, visto che non solo il partito di Antonio Di Pietro ma anche il Terzo Polo ha invece votato a favore.
I NUMERI - Più in dettaglio, la Camera ha respinto innanzitutto il mantenimento del primo articolo del testo, quello che cancellava le parole «le province» dal Titolo V della Costituzione (225 i voti contrari, 83 quelli a favore, 240 gli astenuti). Poi, è stata bocciata l'intera proposta di legge dell'Idv.
LA POLEMICA - «Si è verificato un tradimento generalizzato degli impegni e dei programmi elettorali fatti da destra a sinistra - attacca Di Pietro -. Tutti hanno fatto a gara nel far sognare gli italiani sul fatto che si sarebbe tagliata la "casta" eliminando le province e poi non hanno mantenuto gli impegni. In aula si è verificata una maggioranza trasversale: la maggioranza della "casta"». «Mi dispiace molto perché il Pd ha perso l'occasione per fare una cosa saggia, visto che se avessero votato a favore il governo sarebbe andato in minoranza» rincara la dose il leader dell'Udc, Pier Ferdinando Casini. Il Pd risponde con Pier Luigi Bersani: «Non ci facciano per favore tirate demagogiche, noi abbiamo una nostra proposta che prevede di ridurre e accorpare le Province ma bisogna anche dire come si fa, perché le Province gestiscono un certo numero di cose importanti, come ad esempio i permessi per l'urbanistica».
La proposta di legge costituzionale dell'Idv proponeva la semplice cancellazione delle province dalla Costituzione, rinviando a una futura legge la definizione degli istituti e strumenti che avrebbero dovuto sostiituirle. Qui gli argomenti con cui Di Pietro ha motivato la richiesta di cancellazione dalla Costituzione delle province quali livelli di governo della Repubblica, quali sono oggi insieme allo stato, alle regioni, alle aree metropolitane (?) e ai comuni. Li si mettano a confronto con il dibattito politico-culturale che si svolse in preparazione alla legge sugli enti locali, soprattutto in relazione ai problemi di assetto urbanistico e territoriale di area vasta. Ma le questioni di merito, soprattutto quando riguardano l'assetto del territorio, interessano poco. Salvo piangere e protestare dopo, quando il territorio si ribella.
Siamo proprio certi che tocchi alla Puglia il ruolo di campo di battaglia post-referendario? E' Acquedotto pugliese e la sua ripubblicizzazione l'emblema del male che il referendum ha spazzato via? Più passano i giorni e più mi accorgo che in questa disputa contro la Puglia stanno godendo di un'insopportabile coltre di silenzio omissivo tutti i gestori idrici italiani, pubblici e privati, mai interpellati per adeguarsi ai tempi nuovi aperti con la consultazione elettorale. Accade quindi che i privatisti sconfitti stanno approfittando e consolandosi attraverso il fratricidio culturale che mi vuole colpire, e mentre ciò accade stiamo rischiando di far risvegliare gli italiani in un mondo che non cambia di una virgola.
Oggi decido per questo di tirare fuori dall'ombra e puntare un riflettore esigente su tutti gli ambiti idrici italiani, che ad oggi non paiono smuoversi per rivolgere una richiesta esigente nei confronti dei propri gestori (Acea, Arin, Publiacqua, Hera, ecc.), affinché valutino la possibilità di adeguarsi al risultato referendario. Per far questo ho quindi la necessità di declinare le mie generalità: il mio impegno e le mie decisioni per Acquedotto pugliese.
L'acqua che distribuiamo non sgorga in Puglia ma nelle regioni vicine, alle quali paghiamo il costo industriale della risorsa e il risarcimento ambientale. Ditemi se in giro esiste una dinamica idraulica simile. Il lungo percorso per giungere nelle case del pugliesi ha generato, nell'ultimo secolo, una rete di oltre 21.000 chilometri. Il mondo accademico studia in Puglia gli acquedotti interconnessi e unicursali. Ma non basta. La morfologia generalmente pianeggiante ha escluso dai testi di fisica letti in Puglia il concetto di spostamento per gravità e da quelli di idraulica il movimento a pelo libero. Ci tocca sollevare, spingere, cioè fare la felicità delle imprese elettriche. Il percorso dell'acqua non finisce all'imbocco dello scarico del lavandino: abbiamo il bisogno di depurarla e il nostro unico corpo idrico è il mare. Altre regioni possono beatamente usare i fiumi e i torrenti, come lavatrici naturali, noi no. Pensate a Milano: il primo impianto di trattamento è del 2005, prima scaricava i propri liquami nell'agonizzante fiume Lambro. Scaricare in mare? Apriti cielo. La balneazione, il turismo e quindi l'economia ne può soffrire. Ecco la risposta, originalità nell'originalità: l'affinamento. Si avvia il processo di affinamento dei reflui per il riutilizzo in agricoltura. In Puglia, con legge approvata durante il mio mandato, l'affinamento è misura di qualità e quantità del servizio idrico integrato, e su google alla voce affinamento emergono solo links pugliesi.
Questo è il contesto storico, idraulico e geomorfologico entro cui la Puglia è costretta ad operare, e vi prego di dirmi se ci sono altri casi che pur lontanamente possono somigliare, in termini di efficienza ed economicità da assicurare. In questo contesto mi ritrovavo ad operare quando i pugliesi mi elessero e nello stesso mi muovo oggi: con minori problemi, lasciatemelo dire, grazie ad una gestione oculata ed efficiente che ho imposto subito, e che però mi espone ingiustamente a dare risposte che ho già dato con le leggi e gli atti del mio mandato. E' un'ingiustizia per la storia tribolata della Puglia, la quale - e costi quel che deve - non diverrà mai lo scalpo per tacitare i privatisti, che così facendo, altrove e senza il fastidio del clamore, continueranno a favore i loro comodi, o far vincere la demagogia. Ho cominciato il mio mandato con Acquedotto pugliese che registrava perdite per mancata fatturazione, frutto di disorganizzazione e disimpegno, e perdite fisiche pur nella media italiana ma insopportabili per una regione che paga l'acqua alle regioni vicine. Oggi sono ridotte le une e le altre.
Il primo scoglio che ho dovuto superare quando sono arrivato era un bond che abbiamo rinegoziato al 6,92 % annui, eliminando dal paniere il pericoloso titolo (tra gli altri) General Motors. Se non l'avessimo fatto oggi Aqp sarebbe fallita.
La depurazione era affidata a società esterne, oggi è internalizzata. I fanghi della depurazione erano smaltiti con notevoli costi, oggi una sensibile percentuale è trasformata in concime dalla stessa Acquedotto. Gli investimenti erano al rango di una qualsiasi azienda idrica con poche centinaia di chilometri di rete, oggi si fanno nella misura di 200 milioni l'anno per corrispondere ad un piano d'investimenti di 1 miliardo e 500milioni fino al 2018, di cui 500 di contributo regionale ed 1 miliardo ottenuto dal credito bancario. Il credito bancario. Quando sono arrivato le banche non aprivano le loro porte con sollecitudine agli amministratori di Aqp, oggi il rating è maggiore di Fiat, Wind, Piaggio ed altri, e ci fanno trovare le porte aperte per invogliarci a diventare clienti. Con questa "rivoluzione" il mio governo e la mia maggioranza hanno approvato una legge per la ripublicizzazione, superando subito l'ostacolo di dover reperire 12.200.000 di euro per acquistare le azioni detenute dalla Basilicata. Senza questa operazione finanziaria non avremmo potuto fare alcuna ripublicizzazione, ed oggi mi addolora chi si manifesta perplesso sulla ripublicizzazione, pensando alla mia maggioranza ed ai funzionari regionali che hanno dato il meglio per resistere alle critiche e per fare in modo che la somma utilizzata potesse rientrare nel massacrato bilancio regionale attraverso le riserve straordinarie di Aqp. Mentre tutto ciò accadeva e nello spirito del referendum, mi accoglie una richiesta di eliminare il 7% della remunerazione dalla tariffa, con la mala fede di chi sa che questa richiesta va inoltrata all'autorità regolatrice, cioè ai sindaci pugliesi.
Questa richiesta non è tecnicamente perorabile perché in Puglia la remunerazione non è "profitto", serve a pagare gli interessi alle banche per accedere al miliardo di euro di investimenti già programmati e lo sciagurato bond su cui mi aspetto una class action nei confronti di chi se ne rese protagonista. Io non mi aspetto che i sindaci autorizzino una riduzione tariffaria del 7%, anche perché a ciò corrisponderebbe almeno la proporzionale riduzione degli investimenti: cioè l'acqua, la fogna e la salute per i pugliesi, ed in particolare per quelli più deboli.
L'unico motivo reale di dibattito, e me ne duole non aver potuto soddisfare la richiesta, attiene al quantitativo minimo vitale, che il bilancio regionale non è in grado di assicurare, perché il costo ammonterebbe a circa 70 milioni di euro. Non abbiamo la disponibilità di questa cifra anche grazie al governo nazionale che ha falcidiato le finanze delle regioni, e ciò nonostante stiamo per approvare in consiglio regionale un ordine del giorno per garantire il minimo vitale, attraverso una richiesta ai sindaci di rimodulazione tariffaria, incentrata sul pagamento gradualistico in base al reddito e al principio chi spreca paga, senza modificare il piano degli investimenti.
E' l'unica soluzione in questo momento, ed è l'unica a causa dei tagli del governo, quegli stessi che mi inducono a chiedere quando arriverà il giorno in cui capiremo che la battaglia generale contro il governo sui tagli appartiene anche ai sostenitori di battaglie settoriali? Quando capiterà che di fronte ad una battaglia settoriale di vitale importanza, come in questo caso, la voce dei sostenitori si leverà più forte, determinata e chiara? Devo aspettare ancora molto per vedermi accompagnato da un presidio permanente aperto sotto Palazzo Chigi?
Avrei potuto trincerarmi dietro la competenza dei sindaci sulla tariffa le sue modifiche, o magari mettermi alla testa di chi ha il diritto di reclamare anche l'impossibile nei confronti dell'autorità regolatrice delle tariffe (sempre i sindaci): vi prego di credermi, avrei saputo fare bene. Ma non è il mio costume. Ho promesso una stagione di riforme e le riforme non si raggiungono prendendo in giro, o eccitando l'orgoglio di una battaglia e così calpestando chi come me vuole soltanto raggiungere per davvero l'approdo comune.
5 luglio 2011
Come buttare 14 miliardi senza fare quasi nulla
di Sergio Rizzo
Sono passati più di dieci anni da quando Silvio Berlusconi disegnò a Porta a Porta il grande piano infrastrutturale che avrebbe dovuto modernizzare l’Italia. Per fare un paragone storico, nel decennio compreso fra il 1861 e il 1872 vennero costruiti in Italia circa 5 mila chilometri di ferrovie. Ma senza andare tanto a ritroso, la realizzazione dei 754 chilometri dell’Autostrada del sole, fra il 1956 e il 1964, richiese appena otto anni di lavori.
A un ritmo di 94 chilometri l’anno il Paese cambiò faccia. Non siamo nell’Ottocento e nemmeno negli anni del boom, d’accordo. Resta il fatto che dal 2001 a oggi è cambiato poco o nulla. Tranne qualche eccezione, come il Passante di Mestre (fatto in regime di commissariamento e tuttora commissariato) quelle infrastrutture del sogno berlusconiano sono rimaste segni di pennarello nero su un foglio bianco. A dispetto delle promesse e delle favole che ci vengono frequentemente raccontate. Il 10 dicembre 2010 il presidente del Consiglio ha detto: «Nei prossimi due anni di legislatura apriremo cantieri e ne completeremo per 55 miliardi di euro» .
Due mesi dopo ha ammesso che in Italia «c’è il 50%in meno di infrastrutture rispetto a Francia e Germania» , aggiungendo che è colpa tanto del nostro enorme debito pubblico quanto degli «ecologisti di sinistra» . Difficile dire se i protagonisti degli scontri con la polizia in Val di Susa siano qualificabili come «ecologisti di sinistra» . Di solito quando si sconfina nel codice penale la passione politica c’entra poco. Che però spesso un pregiudizio radicale, travestito da malinteso e ottuso ambientalismo, abbia complicato la vita a ferrovie e autostrade, è innegabile. Ma la paralisi delle infrastrutture e il conseguente rischio di perdere anche cospicui finanziamenti europei (come nel caso, appunto della Tav in Val di Susa) non possono essere naturalmente addebitati solo alle pressioni ecologiste. Indipendentemente dalle ragioni, in molti casi legittime, di chi si oppone per motivi ambientali, l’Italia si è trasformata nel «Paese del non fare» .
Non fare, naturalmente, le infrastrutture: perché in questi ultimi dieci anni abbiamo comunque consumato territorio a una velocità, accusa Salvatore Settis in Paesaggio Costituzione Cemento, di 161 ettari al giorno, pari a 251 campi di calcio. Si continua ad allagare le nostre pianure con orrendi capannoni industriali e centri commerciali e a distruggere il paesaggio con colate di costruzioni abusive o legali, mentre è diventato quasi impossibile fare un’autostrada o una ferrovia. Per le opere pubbliche non ci sono i soldi, è il ritornello. Ma un bel contributo lo dà anche il nostro curioso federalismo al contrario, con le sue competenze polverizzate fra miriadi di enti locali e le Regioni che a colpi di ricorsi al Tar o alla Corte costituzionale sono in grado di bloccare tutto. Senza citare il colpevole principale: l’assenza della politica. Perché un conto sono le promesse da campagna elettorale e le dichiarazioni per finire sui titoli dei giornali, un altro impegnarsi a far marciare i cantieri.
Emblematico è il caso del controverso Ponte sullo Stretto di Messina: ci sono i costruttori pronti, i denari per cominciare e il progetto definitivo. Ma non c’è la volontà politica ed è tutto fermo. Il risultato di questa situazione è sotto gli occhi di tutti. Nel 1970 l’Italia era il Paese con la maggiore dotazione autostradale d’Europa, seconda soltanto alla Germania. Oggi è in fondo alla lista. I nostri 6.588 chilometri sono circa metà degli 11.400 della Spagna, Paese che nel 1970 ne aveva appena 387. L’Italia è oggi al top della congestione europea, con 6 mila autoveicoli per ogni chilometro di autostrada, contro i 2.300 della Spagna e i 3.300 della Francia. Per tacere delle ferrovie (rispetto al 1970 la rete è aumentata di appena il 4%mentre i passeggeri sono aumentati del 50%) e della condizione angosciante nella quale un Paese con 8 mila chilometri di coste abbandona infrastrutture strategiche come i propri porti.
E si continua così, complice anche lo stato malandato delle nostre finanze pubbliche. L’Ance denuncia che il governo non ha previsto alcun contributo per gli investimenti dell’Anas e ha tagliato di 922 milioni i fondi destinati alle ferrovie. Uno studio condotto da Agici-finanza d’impresa (di cui è partner l’Associazione dei costruttori) ha calcolato che soltanto negli ultimi due anni il costo per il Paese della «ritardata realizzazione delle infrastrutture programmate» avrebbe toccato 14,7 miliardi di euro. Un terzo della manovra che ci apprestiamo a digerire.
6 luglio 2011
L’elenco (lungo) dei cantieri
di Altero Matteoli
Caro Direttore, Sergio Rizzo nell’articolo «Come buttare 14 miliardi per non fare nulla. Più cemento, meno infrastrutture. Benvenuti nel Paese del non fare» , pubblicato ieri, mette insieme una serie di fattori e di cause che avrebbero ritardato l’infrastrutturazione del Paese. Non entro nel merito di tutte le ragioni addotte sui ritardi, alcune condivisibili altre no. Non sono invece certamente condivisibili le conclusioni a cui giunge («in dieci anni non si è fatto quasi nulla» ) ed i toni disfattistici di Rizzo. Mi preme invece comunicare, almeno per flash, ai lettori del «Corriere della Sera» , che poi potranno liberamente giudicare, quanto fatto in concreto nel settore dei lavori pubblici da questo governo di cui mi onoro di far parte.
Sono stati aperti i cantieri della Tav Torino-Lione, avviati il primo lotto dell’Alta Velocità Milano-Verona, tratto Brescia-Treviglio, e il primo lotto costruttivo del tunnel ferroviario del Brennero. La Bre. be. mi. è in corso di realizzazione, sono stati aperti i cantieri del nodo ferroviario di Genova, e partiti i lavori dell’autostrada Cisa e della Cecina-Civitavecchia. Proseguono a ritmo intenso i lavori del Mo. s. e. di Venezia (completati al 70%), si sta lavorando per le metropolitane di Milano e di Roma, prosegue l’ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, dove saranno operativi a fine luglio 230 km circa dei 443 complessivi.
Sono state avviate le gare di appalto per l’asse stradale Olbia-Sassari ed è stata completata l’autostrada Catania-Siracusa. Mentre, come è noto, abbiamo completato a febbraio 2009 il Passante di Mestre. Sono solo alcuni esempi molto significativi di tre anni di intenso e produttivo lavoro. L’elenco completo è per fortuna molto più lungo e verificabile. Infine, non comprendo lo scetticismo di Rizzo sulla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina. Dopo aver riavviato i motori dell’opera, bloccati dal precedente governo Prodi, è disponibile il progetto definitivo che sarà approvato secondo i tempi che ci siamo dati all’inizio della legislatura.
Non è tutto fermo e non è vero che manchi la volontà politica, andremo avanti nella realizzazione del Ponte che il governo ritiene prioritario e importante non solo per il Sud ma per tutto il Paese. Cordialmente Altero Matteoli Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti.
Trecentosettantamila euro. Con questi soldi ci si paga a malapena un mese di stipendio (lordo) all’amministratore delegato dell’Eni o della Finmeccanica. Oppure due mesi e mezzo a quello delle Poste. Ebbene, di trecentosettantamila euro ci si dovrà accontentare quest’anno per la manutenzione di uno dei siti archeologici più vasti e preziosi del mondo: la villa dell’imperatore Adriano a Tivoli. La Soprintendenza aveva spiegato che due milioni e mezzo, viste le condizioni, era il minimo. Ma dal ministero dei Beni culturali hanno risposto picche: le casse languono, e 370 mila euro devono bastare. Ormai è un classico. In tre anni, a fronte di richieste per 6,7 milioni, è arrivato un milione e mezzo. Inutile meravigliarsi che le aree chiuse al pubblico con il cartello «pericolo di crollo» (un cartello rigorosamente ed esclusivamente in italiano, nonostante una maggioranza di visitatori stranieri) siano sempre più numerose, come documentano le immagini in questa pagina.
Eppure Villa Adriana è uno dei 45 luoghi italiani che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’umanità. Forse la testimonianza architettonica di epoca romana più complessa e importante arrivata fino a noi: basta dire che si estende su una superficie di 80 ettari, più vasta di quella di Pompei. Sito che per le sua particolare situazione (i resti sono esposti alle intemperie, senza coperture) avrebbe bisogno di una manutenzione profonda e continua. Non per nulla l’archeologo di fama mondiale Andrea Carandini, subito dopo il crollo della Schola Armaturarum di Pompei aveva dichiarato al Corriere: «Tutti i luoghi come Pompei, Ercolano e Villa Adriana sono a rischio permanente». Un allarme che cozza con il trionfalismo di iniziative propagandistiche come quella che ha avuto come interprete nientemeno che il premier Silvio Berlusconi. Protagonista qualche mese fa di uno spot sul sito internet Italia.it, esordiva testualmente così: «L’Italia è il Paese che ha regalato al mondo il 50 per cento dei beni artistici tutelati dall’Unesco…» . Una sparata che avrà fatto fare un salto sulla sedia ai signori delle Nazioni Unite. E non soltanto a loro, se è vero che, pur detenendo il record mondiale di beni Unesco per un singolo Paese, ne abbiamo 45 su un totale di 911 sparsi per tutto il pianeta. Ovvero, il 5 per cento.
Ci sono poi i risultati impietosi di un dossier stilato nel 2010 da PricewaterhouseCoopers. Secondo il quale, fatta 100 la capacità di sfruttamento ai fini turistici dei beni italiani tutelati dalle Nazioni Unite, quelli spagnoli e brasiliani si collocano a 130, i francesi a 190 e i cinesi addirittura a 270. La Cina, insomma, utilizza i propri siti Unesco quasi tre volte meglio di noi. E si capiscono allora certi numeri. Villa Adriana è stata dichiarata Patrimonio dell’umanità nel dicembre 1999. Da allora ha perduto il 41,8 per cento dei visitatori paganti. Erano 187.202 nel 2000, sono stati appena 108.811 nel 2010: 46 mila in meno di quelli registrati nel 2008 dallo zoo di Pistoia. Non meno imponente è stata l’emorragia complessiva considerando anche i non paganti. Dai 323.231 visitatori del 2000 si è scesi ai 229.885 del 2010. Le ragioni del male oscuro? Secondo la studiosa Federica Chiappetta, autrice del saggio «I percorsi antichi di Villa Adriana» esiste un serio deficit di divulgazione «del suo straordinario significato storico e architettonico». Carandini sottolinea anche l’accesso «terribilmente scoraggiante» alla Villa e a Tivoli. Di fondo c’è l’incapacità di fare sistema: in nessun altro Paese del mondo la dimora di uno dei personaggi più importanti nella storia dell’umanità sarebbe così tagliata fuori dai circuiti turistici. E ridotta a raccattare le briciole dei fondi pubblici per evitare di andare in rovina.
Direte: se questo è il trattamento che viene riservato alla dimora che l’imperatore Adriano fece costruire a partire dal 117 dopo Cristo, figuriamoci che cosa succede agli altri nostri patrimoni… Invece qualche eccezione c’è. Il 9 maggio 2011 il ministro del Turismo Michela Vittoria Brambilla ha annunciato che il suo ministero finanzierà con 7,3 milioni di euro «i progetti di eccellenza della Regione Lombardia» , fra cui «la valorizzazione del ramo lecchese del Lago di Como» e del «sito Unesco di Ossuccio» . È una cifra venti volte superiore a quella destinata per il 2011 a Villa Adriana. Inevitabile notare come Michela Vittoria Brambilla sia originaria di Calolziocorte, in provincia di Lecco. Particolare che fa ironizzare un alto funzionario dei Beni culturali: «Forse per salvare Villa Adriana basterebbe spostarla in Lombardia» . Magari insieme a qualche ministero…Le aree chiuse con il cartello «pericolo di crollo» (scritto solo in italiano, nonostante una maggioranza di visitatori stranieri) sono sempre più numerose. Eppure, per restaurare Villa Adriana, uno dei 45 luoghi italiani che l’Unesco ha dichiarato Patrimonio dell’umanità, sono stati stanziati appena 370 mila euro. Ne servirebbero 2 milioni e mezzo.
Il tema della libertà in Rete attraversa il mondo, mobilita ovunque il popolo di Internet e oggi troverà una sua particolare manifestazione a Roma con una "notte bianca" per protestare contro un provvedimento dell´Autorità per la garanzia nelle comunicazioni in materia di diritto d'autore.
Provvedimento che potrebbe essere approvato domani. Il punto chiave della delibera riguarda il potere che l´Agicom assumerebbe di oscurare, anche in via cautelare, con un semplice procedimento amministrativo e senza le necessarie garanzie, l´accesso a siti e servizi web per presunte violazioni del diritto d´autore.
Bisogna dire subito che il modello tradizionale del diritto d´autore sta strettissimo alla rete, ne ignora le caratteristiche. Un legislatore consapevole dovrebbe in primo luogo prendere atto di questo dato di realtà, partire dalla premessa che la Rete è un luogo di condivisione del sapere, che il diritto di manifestazione del pensiero ha trovato strade nuove, sì che provvedimenti puramente repressivi legati ai vecchi schemi concretamente possono diventare uno strumento che, con il pretesto della tutela del diritto d´autore, introducono una nuova e inammissibile forma di censura.
Non si nega la necessità di dare tutele alla creazione artistica, di perseguire i comportamenti illegali. Ma non si può entrare nel futuro con la testa rivolta al passato. Abbarbicati a un modello di diritto d´autore di cui pure i liberisti contestano ormai l´efficienza, non vogliamo renderci conto che oggi il vero tema è quello che Lawrence Lessig ha chiamato "il futuro delle idee" nel tempo di Internet, legato alla diffusione delle tecnologie digitali, alla generalizzazione delle pratiche di condivisione del sapere, alle nuove modalità di creazione rese possibili dalla Rete. E ricordiamo pure che due anni fa il premio Nobel per l´economia è stato attribuito a Elinor Ostrom proprio per i suoi studi sulla conoscenza come bene comune, e che qualche settimana fa all´Onu è stato presentato un documento che definisce l´accesso a Internet come un diritto fondamentale d´ogni persona.
Da qui bisogna partire, come fa, ad esempio, il "programme numérique" appena presentato dal Partito socialista francese, che indica come obiettivi l´abrogazione della legge Hadopi (che ha finalità censorie analoghe a quelle della delibera dell´Agicom), la fine della "guerra alla condivisione" dei contenuti presenti su Internet, l´accettazione dello scambio dei beni culturali al di fuori del mercato, nuove forme di gestione dei diritti degli autori. Si condividano o no questi obiettivi, e le specificazioni che li accompagnano, è comunque evidente che si impone un cambiamento di registro per affrontare il tema della conoscenza in Rete, partendo proprio dalla premessa che siamo di fronte alla necessità di inventare nuove forme giuridiche, come già sta avvenendo, ad esempio attraverso la possibilità dell´autore di gestire la propria opera con la tecnica dei "creative commons" (cinque milioni di casi anche in Italia).
L´Agicom deve prendere atto di tutto questo, rinunciando alla frettolosa approvazione di regole censorie e aprendo una vera consultazione in materia. Ma il punto centrale di una vera riflessione collettiva deve essere un altro e partire da un interrogativo molto semplice. Si può ammettere che in una materia cruciale per l´assetto delle libertà e dei diritti, per lo sviluppo complessivo e le dinamiche della società, le regole vengano da una autorità indipendente? Questo è materia di stretta competenza del Parlamento, che non può sfuggire ad una responsabilità davvero di natura costituzionale. Inammissibile, comunque, è la pretesa di imporre sanzioni con un semplice provvedimento amministrativo quando sono in questione diritti fondamentali, cancellando una competenza propria della magistratura, come prevede la Costituzione e come ha ricordato in Francia il Conseil constitutionnel, dichiarando illegittima una norma che affidava ad una autorità amministrativa, e non ai giudici, la competenza in materia.
Non possiamo dire che la libertà in Rete è un bene prezioso, con una scappellata alle primavere arabe, e poi accettare spensieratamente logiche che possono ridurre al silenzio chi si esprime su Internet.
Ieri ho partecipato alla manifestazione in Val di Susa. Eravamo in migliaia, a manifestare pacificamente il nostro dissenso. Sui giornali e dalla politica solo menzogne Sono appena rientrato dopo 6 ore di marcia a Chiomonte. Incredibile, un serpente umano colorato e festante proveniente da tutta Italia percorreva i boschi verdeggianti della media Valsusa in una giornata calda e luminosissima. La stima minima è di 50.000 persone, quella massima 100.000, fate voi... Statale del Monginevro bloccata e autostrada pure.
In queste ore ancora si sparano lacrimogeni, un teatro osceno per un Paese civile nel museo archeologico del villaggio neolitico della Maddalena di Chiomonte, che la polizia ha usurpato come suo quartier generale. Lì, nel punto di contatto tra manifestanti e poliziotti io non sono stato, e qualche ferito c'è, qualche sasso è volato, qualche episodio da deplorare può darsi che ci sia, ma aspettiamo a parlare quando avremo sentito i racconti e visto i video di chi era lì... Il 412 della polizia ha volato sopra di noi come fossimo stati in Afghanistan, dalle 8 alle 18 almeno, e sono 100 euro al minuto... io non ci sto, è uno scenario surreale per aprire un cantiere.
Ciò che vi vorrei dire a caldo è:
1) già ora le prime pagine dei giornali titolano di guerriglia, di back bloc e altre amenità simili: si tratta di elementi del tutto marginali della giornata, ciò che conta, e che doveva essere oggetto dei titoli, è l'enormità della gente normale qui confluita, cittadini italiani ed europei, famiglie con bambini, pensionati, professionisti, docenti, medici, artigiani, studenti che da tutta italia (pullman da Pisa, Macerata, Udine, Bologna, Genova...) hanno affrontato levatacce e disagi, per venire a passare una domenica di civile indignazione insieme a noi. Chapeau a tutti loro, che dimostrano come vi sia una presa di coscienza sempre più vasta del problema dei beni comuni e una voglia individuale di "contare" qualcosa sul piano delle scelte. Mi sembra che politica e giornalisti siano terribilmente indietro, impegnati a proteggere i loro privilegi o tremebondi a sperare che il loro servilismo porti una promozione sulla scala sociale. Ma la gente sta correndo più veloce di loro. Ho parlato con centinaia di persone e ne ho tratto una grande impressione di competenza, di coraggio, di onestà, di passione. Altro che black-bloc!
2) tutti hanno ben chiaro, per vivere ogni giorno sulla propria pelle altre simili usurpazioni sui loro territori, che le priorità per il Paese sono altre, che nessuno vuole questi monumenti faraonici ma desidera interventi semplici, evidenti e efficaci sulla quotidianità. Tutti hanno ben chiaro che i tempi stanno cambiando in fretta. Nelle ore di marcia sotto il sole, i discorsi che sentivo fare erano dei rapporti dell'Asia con il mondo occidentale, della crisi delle risorse, dell'opposizione economia capitalistica-benessere, dell'impossibiltà della crescita continua, della crisi petrolifera... insomma, un campione interessante di pubbliche riflessioni sul presente e sul futuro.
3) speriamo che ognuno di loro stasera su facebook dica: "c'ero anch'io e vi spiego quali menzogne i giornali e la tv diffondono su di noi e su questa faccenda".
4) fino al 12 luglio 1980 non c'era il traforo autostradale, quindi sulla ferrovia attuale passavano tutte le merci e i passeggeri per la Francia, inclusa la navetta per le automobili Bardonecchia-Modane. Nel 1980 eravamo forse all'età della pietra? La ferrovia attuale bastava allora, basterebbe a maggior ragione in un mondo futuro con meno risorse. Ma Chiamparino è al delirio sviluppista e vede il Tav Valsusa come una fede: o il Tav o la terribile decrescita! Allora Tav sia. Aggiungo che un'opera di questo genere avrebbe un overhead di sistema enorme rispetto a opere più semplici e resilienti. In un'epoca postpicco petrolifero, l'imponente infrastruttura tecnologica ed energetica necessaria a garantire la sicurezza di un tunnel di 54 km con temperature interne di oltre 50 C, collasserebbe dopo pochi mesi, anche solo per via dei costi. Vedere Rutilio Namaziano... le mitiche strade di Roma, poco dopo la caduta dell'impero erano impraticabili per mancanza di manutenzione e si preferiva il periglioso viaggio via mare da Roma alla Liguria piuttosto che affrontare il fango dei tratturi maremmani...
5) finanziamento europeo: per ora, a inizio cantiere, si parla di sbloccare 671 milioni di euro, pari a circa il 4,5% del valore del progetto (calcolato dell'ordine dei 15 miliardi di euro, anche qui non ci sono mai numeri trasparenti). In caso di realizzazione successiva, si parla di ulteriore finanziamento EU del 30% della sola tratta internazionale, che escluderebbe quindi i circa 2 miliardi di euro della tratta di adduzione Torino-Chiomonte, interamente a carico italiano. Sono dati vaghi perchè è quel poco che si riesce a leggere sui giornali locali. Anche questo fatto dovrebbe indignare tutti: non c'è uno straccio di rapporto ufficiale che faccia chiarezza verso i cittadini. I promotori, che i dati immagino li avranno, con fior di tecnici pagati per far solo quello, tacciono, lasciando tutti noi a baloccarci con stime e supposizioni. Anche questo è strano: se avessero dati seri, certi e inoppugnabili a sostegno dell'opera, non pensate che avrebbero già convocato una conferenza stampa internazionale, spazzando via ogni nostra chiacchiera? Invece stanno nascosti nelle gallerie, lasciando che la gente si arrabbi, che i politici sfornino la loro retorica, che i pochi come noi che tentano di ragionare si spacchino la testa su dati faticosamente estratti qua e là.
6) la stretta alleanza politica bipartisan che mostra un tenacissimo blocco favorevole all'opera, è un altro elemento di sospetto. In genere il politico, massimamente quello italico, quando trova un muro invalicabile nei propri affari, lo aggira, scantona, sceglie altri obiettivi più facili, ma non si mette contro una marea montante di rabbia popolare che sta diventando un elemento incognito estremamente instabile. Qui invece sono passati vent'anni di proteste e continuano tutti imperterriti ad andare in rotta di collisione contro il massiccio d'Ambin. Butto lì, non è che devono aver fatto tante e tali facili promesse sulla divisione di questa appetitosa torta, che ora qualcuno ha la canna di fucile puntata dietro la schiena se non le mantiene e non paga pegno?
Ciao a tutti dalla Valsusa, qui comunque è una serata ancora molto calda. Speriamo che serva a qualcosa.
Vicente Gonzales Loscertales, il segretario del Bie, si è svegliato improvvisamente: è venuto a Milano a dirci non tanto e non solo che siamo in ritardo sia nell´avviare le opere sia nel risolvere il problema delle aree, ma che l’Expo sin qui proposto non va affatto bene. Perché non lo ha detto prima? Il masterplan del quale eravamo a conoscenza noi mortali è in Internet da un paio d’anni e da altrettanto tempo nel sito di Expo 2011. Non ne sapeva nulla? Siamo poco credibili noi all’estero ma anche il Bie dopo questa tardiva uscita milanese del suo segretario non ci fa una bella figura.
Allora piano piano si delinea un nuovo scenario partendo dall’affermazione del nostro bravo segretario: «La gente non fa centinaia di chilometri per vedere coltivare le melanzane». Noi pronti, e si capisce bene il perché visti i personaggi in campo, felici e festanti cogliamo al balzo l’idea di un tuffo nell’Ottocento: un’Esposizione internazionale fatta di padiglioni vieux style dove ognuno mostri le sue meraviglie. Sempre il nostro segretario tuttavia dichiara di essere "entusiasta" dell’idea guida dell’Expo milanese, "Nutrire il pianeta", ma siccome il problema della "fame" alimentare non gli pare abbastanza ampio, lo allarga alla fame di energia e al problema della sostenibilità.
Buona idea, quella di Loscertales, nuova soprattutto. E per concludere il suo pensiero lancia un messaggio a tutti i milanesi: «L’eredità dell’Expo sarà la sostenibilità. La sfida è lasciare in eredità un messaggio culturale nuovo». Aria fritta. Come disse il vecchio Bartali: «Gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare!». Intanto cominciamo a mettere i puntini sulle "i". La soluzione del problema della fame nel mondo è principalmente un cambiamento delle abitudini alimentari della parte ricca dell’umanità, così come il problema dell’energia concerne il risparmio energetico e le fonti alternative. Per l’alimentazione non c’è scampo: cambiare le abitudini alimentari e pensare al cosiddetto "chilometro zero". Possiamo aspettarci che nel padiglione della Germania venga mostrata una campagna di pubblicità progresso in cui s’invitano i tedeschi a mangiare meno maiale? Gli inglesi a mangiare meno roast beef? Gli argentini a produrre meno carne, visto che è il cibo che consuma più risorse di ogni altro?
Tanto per concludere ci troviamo di fronte a un’operazione senza alcuna idea forte (e nemmeno debole), così a nessuno verrà in mente che il cibo e la sua produzione sono l’arma politica più forte per dominare il mondo. Avremo un gruppo di edifici eterogeneo che non passeranno certo alla storia dell’architettura - visto l’imperante "facciamoceli da noi" - che, di fatto, esclude i concorsi di progettazione. Ma ci sono alcune certezze. Avremo un ponte che raccorda l’area dell’Expo con l’operazione immobiliare di Cascina Merlata, dove ci sono tutti gli operatori milanesi: "il club del mattone". Avremo gli appalti affidati alla gestione di Infrastrutture Lombarde, una società della Regione nota per la preferenza ai tipi di appalto che lasciano maggior discrezionalità di scelta; non vi sarà una sola vera gara. Tutto chiuso col solito lucchetto di marca Cl. Perché? Perché siamo in ritardo. Emergenza, necessità assoluta: è nel bisogno che si riconoscono gli amici! Favoriamoli!
Un convegno al teatro Argentina di Roma organizzato da Montezemolo, guest star l'industriale delle calzature Diego Della Valle, che traccia il futuro dei beni culturali dopo Berlusconi: privati e affaristi all'assalto del nostro patrimonio.
Il livello e la qualità del dibattito sono stati definiti con estrema precisione da una frase del critico d'arte Francesco Bonami: «Abbiamo la fortuna di fare un buco per terra e trovare magari i Bronzi di Riace». È un po' come se un sovrintendente di teatro d'opera pensasse alla tetralogia wagneriana perché gli mancano tre spettacoli con i quali chiudere il cartellone. Naturalmente non è che Bonami non sappia che le due statue sono state ritrovate in fondo al mare, ma sono i meccanismi automatici della competenza che non hanno funzionato. Senonché, nella cifra di un pressapochismo travestito da professionalità e autorevolezza s'è iscritto l'intero convegno voluto da Luca di Montezemolo che attraverso la sua fondazione Italia futura ha organizzato l'altro giorno al teatro Argentina di Roma una giornata dal titolo retorico e nazionalista: "Cultura. orgoglio italiano”. Il tema, non dichiarato ovviamente, nascosto nelle strategie più o meno confessabili di un blocco sociale degli affari e del denaro che si sta preparando al post berlusconismo, è in buona sostanza la privatizzazione della cultura, idea resa glamour e attraente dalla magnificazione dell'impegno finanziario di 25 milioni di euro da parte di Diego Della Valle per il restauro del Colosseo. Probabilmente a muovere il fabbricante di scarpe marchigiano non sono solo la pubblicità e il marketing.
Ci deve anche essere il desiderio di passare alla storia, come quel signore della Roma antica che nel primo secolo avanti Cristo guadagnò un sacco di soldi come organizzatore di banchetti pubblici e si fece costruire a mo' di tomba nientemeno che la Piramide Cestia. Il tempo è spietato, dell'antico imprenditore del catering oggi nessuno ricorda il nome (Caio Cestio Epulone). Proprio Della Valle, socio di Montezemolo nella società Ntv di treni privati ad alta velocità, ha aperto la giornata esibendosi in una specie di assolo con protagonismo leggermente ribassato dalla presenza di due "spalle", l'archeologo Andrea Carandini e un giornalista moderatore, Antonio Monda. Della Valle esordisce con la proposizione più luogocomunista dell'anno, «sono orgogliosissimo di essere italiano», e prosegue con una chiamata di tutti gli imprenditori nostrani a impegnarsi per questo Paese che ha «la leadership turistica e culturale: si tratta di una questione pratica perché vuol dire un'Italia che funziona, significa lavoro per i giovani».
C'era quindi una quantità di bella gente all'Argentina, esponenti del mondo dell'editoria, dell'arte, del cinema, della musica, del turismo, fra gli altri Francesca Cappelletti (docente del dipartimento di scienze storiche all'università di Ferrara), Luca De Michelis (amministratore delegato della Marsilio), il direttore del Piccolo di Milano Sergio Escobar, il direttore d'orchestra Daniele Gatti, l'archeologo e consigliere del Quirinale per la conservazione del patrimonio artistico Louis Godart, Roberto Grossi presidente di Federculture, il regista Daniele Luchetti. Soprattutto c'erano un po' di businessmen e manager: oltre a Montezemolo e Della Valle, Paolo Pininfarina, il produttore e presidente Anica Riccardo Tozzi, Stefano Ceci presidente di Gh Group (una rete di imprese per lo sviluppo del turismo), la produttrice discografica Caterina Caselli, l'ex capo della Mondadori e potente presidente del Centro per il libro Gian Arturo Ferrari, oltre alla presidente del Fondo ambiente italiano (il Fai) Ilaria Borletti Buitoni, una delle signore dell'alta borghesia industriale milanese.
Sul binomio cultura-turismo, la nuova parola d'ordine degli uomini d'affari sembra "conquista": occupazione dell'ultimo pascolo ricco e sfruttabile di un Paese economicamente e produttivamente in declino. Pressoché unanimemente rifiutata dagli oratori l'odiosa definizione di "petrolio" per i nostri beni culturali, poco politically correct in tempi di ambientalismo spinto. Quindi adesso, aggiustata la terminologia, incomincia lo sfruttamento da parte dei privati. Un quadro che Carandini implicitamente conferma con la prima frase del suo discorso, «Ringrazio Della Valle per quello che sta facendo per il Colosseo», per poi affermare: «Dobbiamo attrezzarci per ricevere le masse asiatiche». Il resto sostanzialmente è contorno, ripetizioni, considerazioni spicciole, un po' di cifre per dare corpo statistico alle affermazioni, acquiescenza temperata dai distinguo, e su tutto in sintesi la considerazione: signori fatevene una ragione, lo Stato non ha più soldi. «I denari verranno dai privati» - osserva Gian Arturo Ferrari - E lo Stato deve facilitare il loro impegno finanziario». D'altronde l'architetto Roberto Cecchi, segretario generale del ministero dei Beni culturali, anche lui fiero di essere italiano e testimone dell'orgoglio dei lavoratori del Collegio Romano, l'aveva detto poco prima che "la priorità sono gli investimenti in cultura e che ci vuole semplificazione amministrativa». Gli risponde, contenta di sentire «le parole-chiave cultura, orgoglio, Italia» (s'imparava al liceo fino a pochi anni fa che la cultura era internazionale, apolide addirittura e apparteneva a tutti gli uomini: saranno cambiate le cose), Ilaria Borletti Buitoni che chiede «di agevolare le donazioni private e non creare impacci burocratici». Ciascuno a suo modo, per buoni motivi o ambigui, chiedono allo Stato di tirarsi indietro dai Beni culturali, manco si trattasse delle privatizzazioni anni Novanta che hanno contribuito a ridurre l'Italia al rango di Paese più industrializzato del Terzo mondo.
Quindi voilà Stefano Ceci, il presidente di Gh, che ha già scritto per il sito della fondazione di Montezemolo, spiegare al pubblico: «La cultura non è un'industria ma è la più potente infrastruttura italiana». Che vuol dire? Vuol dire, secondo Ceci, che la nuova economia italiana «non può che essere tessile. Un filato, una nuova tessitura capace di produrre valore. Un'economia che mette in rete luoghi, territori, imprese. Una nuova economia che fruisce dell'infrastruttura culturale». Ergo una postmoderna industria "tessile" in cui la cultura fungerebbe da telaio ed evidentemente gli artisti, la gente di teatro e di cinema, i restauratori, i cantanti, gli orchestrali sarebbero gli operai del ventunesimo secolo necessari alla produzione di merci - l'arte, il bello, lo spettacolo, la musica, la conservazione dei beni culturali - da vendere attraverso una catena commerciale chiamata turismo. A Paolo Pininfarina piace «la cultura del fare» (slogan che negli ultimi anni non sembra aver portato tanta fortuna alla Nazione) e approfitta dell'occasione per incensare l'amico Luca: «Montezemolo è un grande creativo e un grande presidente». Presidente di che? Ovviamente Pininfarina non specifica.
Gli interventi erano divisi in blocchi tematici - La cultura in Italia, Cinema ed editoria, arte e design - e siccome tutta questa bella gente parlava da uno dei più importanti palcoscenici di prosa italiani, l'ultimo tema era, the last and the least, Teatro e musica, tanto per ricordare a chi dava ospitalità quanto conta. Fin dall'inizio della passerella si era capito che aria tira presso coloro che si preparano a governare il post berlusconismo: sul palco diciotto poltrone bianche minacciosamente simili a quelle di "Porta a Porta", in platea metà dei posti riservati al potere (attuale, futuro, possibile, sperato, rivendicato), comunicazione autoritaria di tipo unidirezionale da chi parla a chi ascolta senza nessuna possibilità di interazione e di dialogo, concione quasi finale del monarca locale (Montezemolo): «Improcrastinabile una maggiore integrazione tra flussi turistici e valorizzazione dei beni culturali»; «l'obiettivo deve essere trasformare le imprese in protagonisti dell'innovazione dell'offerta turistico culturale»; «le responsabilità del pubblico e quelle dei privati devono trovare un modo per lavorare insieme meglio».
Chiusura con ospitata di Giancarlo Galan che si esibisce nell'uso di un vecchio arnese della retorica: dice tutto quello che un ministro dovrebbe fare, facendo finta di non essere lui il ministro. Applausi.
A nessuno viene in mente un'altra soluzione: studiare un modo di dare dei soldi a quanti si occupano d'arte e lasciarli lavorare in pace. A proposito del Mibac, ne ha chiesto sabato scorso la soppressione sic et simpliciter la presidente di Confcultura Patrizia Asproni, che parlava all'Auditorium di Roma nel quadro di un convegno intitolato "Vivere di cultura'', organizzato da Baier, consorzio costituito da cinque istituti culturali italiani (la Treccani, l'Istituto Luigi Sturzo, la Fondazione Lelio e Lisli Basso, la Società Geografica Italiana e la Fondazione Gramsci). «Sono stanca del Mibac - ha tuonato la signora - non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nell'area di competenza del ministero dello sviluppo economico».
Tuttavia, più interessanti delle idee delle Asproni, sono le informazioni che fornisce. Dice la presidentessa di Confculture che fino a un po' di tempo fa la sua confederazione era considerata nella Confindustria di cui fa parte poco più di uno scherzo. Ora invece da un po' di tempo in qua gli imprenditori stanno facendo la fila per capire come si può trarre denaro dai beni culturali. La Asproni è di chiacchiera schietta: «Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping». Verissimo, infatti da quando lo sport è finito in mano al denaro è degenerato. Da quando la grande industria si è impossessata della moda, soppiantando progressivamente gli artigiani, anche questo ambiente s'è inabissato nella cocaina e nella corruzione. Quanto più certi imprenditori si sono occupati di politica, tanto più il Parlamento è diventato una prateria per le scorribande dei comitati d'affari. Adesso sembra proprio arrivato il momento dei beni culturali: ecco la nuova pista del denaro, del saccheggio, del riciclaggio e della coca? Visto l'andazzo, forse tornerà in auge un vecchio e famoso aforisma di Goebbels: «Quando sento la parola cultura, la mia mano va alla Luger».
Le tracce cercatele a Siena, il 9 e il 10 luglio. Perché si sono date appuntamento lì, a Santa Maria della Scala. Sono le donne che una domenica di febbraio sono scese in piazza alzando per bandiera una frase di Primo Levi, «Se non ora quando?». Non è un partito: per un giorno è sembrato un grande, grande movimento. Lo è davvero? Avrà gambe per camminare? E che fine ha fatto in questi mesi, dove si è disperso dentro questa Italia di pubblicità volgari, escort, donne licenziate dalle fabbriche, precariati spinti, ragazze immigrate costrette a matrimoni combinati, futuri incerti e crisi? Per rispondere a questa domanda bisogna andare a Siena, ascoltare, guardare, cercare di capire, contarsi.
Le rappresentanti dei 120 comitati di «Se non ora quando?» si ritrovano a Santa Maria della Scala e con loro molte altre donne: sono già quasi 900 le adesioni. Da Napoli verranno con un pullman, da Parma idem. Tante, dieci volte quel che si poteva prevedere alla vigilia e le richieste di partecipazione continuano sul blog (http://senonoraquandosiena910luglio.wordpress.com). «Mi era sembrata perfetta Santa Maria come simbolo dell´accoglienza - racconta Tatiana Campioni, direttrice del complesso museale che dava tetto e conforto ai pellegrini sulla via Francigena - ma mi sa che ci sta forse stretta».
Le adesioni piovono da tutta Italia e non sono soltanto donne. «Uomini e donne che si sono riconosciuti nella mobilitazione trasversale e apartitica del 13 febbraio potranno prendere la parola per scrivere insieme - dicono le organizzatrici - l´agenda delle richieste femminili per l´Italia di domani». Centinaia di prenotazioni ad alberghi e bed & breakfast, poi una rete di accoglienza allestita su due piedi dalle donne del comitato senese, cinquanta posti letto offerti gratis e già spazzati via. Ne servono altri. Parecchi altri. «Facciamo un appello alle famiglie di Siena, soprattutto del centro storico, perché aprano le loro case e si facciano avanti per ospitare il 9 luglio, a dormire, conoscersi e incontrarsi le donne che verranno in città» spiega Carla Fronteddu, 26 anni, un dottorato di ricerca di Filosofia politica.
«E´ bellissimo sapere che ci sono molte più adesioni del previsto, significa che c´è una grande energia e voglia di impegnarsi su questi argomenti - prosegue Tatiana Campioni - Quando Francesca Comencini, una delle ideatrici della manifestazione di febbraio, è venuta a Siena a presentare il suo libro abbiamo parlato di «Se non ora quando?» e di dove organizzare un incontro nazionale. Non volevamo una grande città perché sembrava troppo dispersiva così io ho proposto Santa Maria della Scala e a Siena il sindaco Franco Ceccuzzi ha subito accolto l´iniziativa offrendo la collaborazione del Comune». Tutto apparentemente perfetto. Il fatto è che i numeri lievitano di giorno in giorno (chi volesse partecipare deve compilare la scheda sul blog) e probabilmente se le adesioni si trasformeranno in presenze fisiche, bisognerà presto trovare soluzioni alternative al complesso museale. La macchina organizzativa è al lavoro: nei prossimi giorni dovrebbe esserci un incontro con il sindaco per fissare meglio la logistica.
Il programma invece è già abbastanza definito: i temi attorno ai quali si svilupperà questa due giorni, saranno corpo, maternità, lavoro e rappresentazione della donna. Si comincia il 9 luglio poco prima di mezzogiorno con le proiezioni video del 13 febbraio, poi aprirà i lavori Linda Laura Sabbadini direttrice centrale dell´Istat e l´economista Tindara Abbado. Una rappresentante della stampa estera racconterà perché la manifestazione di febbraio ha conquistato le prime pagine dei giornali in mezzo mondo e come viene letta oltre frontiera la questione femminile nel nostro Paese. Quindi spazio agli interventi. La regista Francesca Comencini ha girato alcuni spot che si possono trovare online sull´incontro di Siena. A sera, la festa probabilmente (ma la cosa è tutta ancora da definire) in qualche piazza. E il giorno successivo proposte e contenuti.
Per sfamare le partecipanti è stato chiamato un catering declinato al femminile, la cooperativa Mondomangione che aiuta donne disagiate: sul blog di «Snoq» (acronimo di «Se non ora quando?») si possono prenotare i pasti. E´ stata avviata anche una sottoscrizione per far fronte ai costi di un´organizzazione che si sta facendo sempre più complessa (bonifico Associazione Promozione Sociale «Se non ora quando?» Nazionale-IBAN: IT13Y0501803200000000155055 presso Banca Etica, Roma).
L´incontro nazionale sarà un momento importante per capire gli umori di questo eterogeneo neo-movimento che sta ponendo con forza domande sul ruolo della donna nel futuro dell´Italia. Per ascoltarne le tante voci, per elencare gli argomenti e cominciare da stilare una specie di patto, cominciare a mettere in agenda le battaglie, stabilendo delle priorità. Dai comitati di base dell´università, alle femministe che hanno solcato le strade nei cortei degli Anni Settanta, dalle immigrate di seconda generazione, alle donne espulse come esuberi dal mondo del lavoro. Il fronte è molto ampio e diversificato, anche politicamente sono tante le anime che si sono trovate nel corteo di «Se non ora quando?». Le prove di dialogo non saranno scontate: andranno comunque in scena dal 9 al 10 luglio e bisognerà capire se c´è e quanto è forte il collante che tiene unito il movimento. «Le donne non sono una questione, sono la maggioranza del Paese» sottolinea Carla Fronteddu del comitato senese. Da lì bisognerà partire.
Neanche il "Generale Agosto" potrà farla dimenticare. La stangata d´estate, imperniata sul combinato disposto della manovra da 47 miliardi varata giovedì scorso, gli effetti degli aumenti delle tasse locali ai quali ha aperto la strada il federalismo fiscale, e gli interventi spot come quelli sulle accise per la benzina per finanziare l´emergenza Libia e le spese per la cultura, rischia di essere dolorosa. Per la Cgia di Mestre la correzione per il solo anno in corso costerà 741 euro per ciascun italiano. la Federconsumatori, che valuta le misure in termini di perdita di potere d´acquisto, prevede un salasso di 927 euro a famiglia.
La via dolorosa è già iniziata con l´aumento delle accise sulla benzina scattate nell´ultima settimana: in tutto 6 centesimi al litro, Iva compresa, che hanno già fatto lievitare il costo del pieno. La data del 30 giugno ha anche consentito di fare il bilancio degli aumenti delle addizionali Irpef comunali, consentite dal decreto sul federalismo: 55 municipi, tra i quali Brescia e Venezia, hanno messo in campo aumenti fin da quest´anno dello 0,2 per cento. Anche le Province sono sul piede di guerra: 29, un terzo del totale, hanno approvato l´aumento dell´aliquota sulla Rc auto del 3,5 per cento, come stabilito dal federalismo, portandosi a quota 16 per cento. Si attende - a giorni - solo il decreto attuativo per far partire gli aumenti della base imponibile dell´Ipt, l´imposta sui passaggi di proprietà che potrà essere elevata del 30 per cento e sarà legata alla potenza fiscale. Ed è solo l´inizio della danza, perché i rincari potranno essere reiterati dal 1° gennaio del 2012.
I tagli di 9,3 miliardi agli enti locali imposti dalla manovra saranno la miccia che renderà inevitabili gli aumenti delle tasse locali, ad esempio nei 2.500 comuni che hanno ancora l´addizionale Irpef a quota zero. Senza contare che le Regioni, negli anni topici dell´impatto della manovra potranno aumentare le addizionali Irpef fino al 3 per cento.
E ancora: dal primo gennaio del prossimo anno tornerà il ticket di 10 euro sulla diagnostica e sulla specialistica, mentre i «codici bianchi» al pronto soccorso pagheranno 25 euro. Nemmeno due anni e, nel 2014, come previsto dalla manovra di giovedì scorso, scatterà la possibilità di un aumento della quota nazionale dei ticket sulla farmaceutica. Secondo le stime dell´Università di Tor Vergata, la manovra comporterà un taglio di 10 miliardi in tre anni alla sanità pubblica, innescando aumenti dei ticket e tasse regionali (500 euro all´anno a famiglia).
La tassa sulle auto più potenti è stata ridimensionata, ma aumenti pendono sugli automobilisti se passerà la contrastata norma sul «pedaggiamento» dei tratti stradali Anas come il Gra e e la Salerno-Reggio. Brutte sorprese, inoltre, per i risparmiatori e coloro che hanno un dossier titoli: schivato all´ultimo momento il ritorno del fissato bollato su ogni transazione, arriva però l´aumento del bollo sui dossier titoli che viene più che triplicato e passa a 120 euro.
Senza considerare che il governo nei prossimi tre anni avrà in mano una delega che gli consente di aumentare, seppure gradualmente, l´Iva: una misura che nessuno può escludere che arrivi prima dei tre anni previsti. Del resto i rincari camminano a passo veloce, da due giorni sono scattati aumenti di luce e gas: la norma che avrebbe potuto compensare i rincari e ammorbidire la bolletta energetica del 3-4 per cento con un taglio degli incentivi è scomparsa dalla manovra. Mentre si profila un nuovo rischio: le grandi aziende concessionarie di beni pubblici, come le autostrade, gli aeroporti e le ferrovie, subiranno una stretta nei bilanci sulle politiche di ammortamento e non è escluso che si vedano costrette a chiedere nuovi aumenti tariffari.
Siamo tra i sottoscrittori dell'appello finalizzato ad evitare, in Val Susa, soluzioni militari contro il movimento No Tav. L'appello non è stato accolto e ha vinto, momentaneamente, la forza. Hanno vinto il partito degli affari, un governo agonizzante e la lobby del cemento del Partito democratico torinese. Ma la partita non finisce qui. Anzi, l'improvvido intervento di polizia avrà un effetto boomerang determinando ulteriori mobilitazioni (come dimostrano le adesioni al nostro appello).
Il movimento No Tav continuerà - non ci sono dubbi - a fare la sua parte con la costanza e l'intelligenza politica che lo hanno caratterizzato in oltre venti anni. Ma crescerà, al suo fianco, l'impegno delle donne e degli uomini che, costruendo il successo referendario, hanno affermato la centralità del bene comune contro gli interessi di pochi.
Da oggi incalzeremo, in tutte le sedi possibili, i sostenitori della nuova linea ferroviaria con alcune domande, sfidandoli a quel confronto pubblico con il movimento No Tav che hanno sempre evitato (nascondendosi dietro slogan e luoghi comuni). Le domande sono queste:
1. La linea ferroviaria ad alta capacità Torino-Lione servirà - si dice - ad assicurare che l'Italia non sia tagliata fuori dall'Europa nel trasporto delle merci. Ora, è vero o non è vero che l'attuale linea internazionale a doppio binario, che corre nella valle utilizzando il traforo del Frejus, è tuttora perfettamente operativa e utilizzata al di sotto del 30% delle sue potenzialità? Ed è vero o non è vero che negli ultimi anni il traffico merci lungo l'asse Francia-Italia è in calo costante? In forza di quali previsioni si ritiene che questo trend sia destinato a subire una inversione nei prossimi anni? E perché non potenziare la linea esistente (la cui minore velocità non è certo decisiva per il trasporto di merci), rinegoziando, come altri Paesi hanno fatto, i possibili contributi europei?
2. I costi della nuova linea ferroviaria sono stimati in 16-17 miliardi di euro, da impiegare nei prossimi dieci anni, e il famoso contributo europeo è una parte minima. Ora, anche a prescindere dal fatto che non c'è grande opera nel nostro Paese i cui costi non siano lievitati strada facendo, la questione è ineludibile: in tempi di grave crisi economica dove si pensa di trovare quei fondi? Forse con ulteriori tagli a scuola, salute, assistenza? Impiegare gli attuali finanziamenti europei per un cunicolo preparatorio (di oltre 7 chilometri: sic!) non è irresponsabile se non si hanno certezze in ordine all'opera finale?
3. La linea ferroviaria ad alta capacità consentirà - si afferma - uno spostamento del traffico merci dalla gomma alla rotaia, notoriamente meno inquinante. Il confronto tra trasporto stradale e trasporto ferroviario è, in astratto, condivisibile, ma vale tra reti già esistenti o di agevole costruzione. Siamo proprio sicuri, invece che la realizzazione un'opera colossale, con oltre 70 chilometri complessivi di gallerie, dieci anni (se va bene) di lavori e di cantieri, un numero incalcolabile di viaggi di camion, enormi materiali di scavo (ricchi di uranio e di altre sostanze nocive) da smaltire e il corrispondente consumo di energia non finirebbero per vanificare i vantaggi del trasferimento (per di più ipotetico) dal trasporto stradale a quello ferroviario?
4. La costruzione della «grande opera» - si continua - darà lavoro e benessere alla valle e a tutta l'area circostante. Ma ne siamo davvero sicuri? Non si era detto altrettanto per l'Olimpiade invernale del 2006 che ha interessato la stessa valle? Non dubitiamo della necessità di interventi diretti a incentivare l'occupazione, ma non sarebbe più utile cominciare dal risanamento del territorio, dalla messa a punto delle risorse idriche, dalla tutela del patrimonio artistico? E siamo certi che progetti del genere non avrebbero adeguato sostegno a livello europeo?
5. Da quando si è cominciato a parlare della ferrovia ampi settori della popolazione locale (e i loro rappresentanti, i sindaci) hanno chiesto confronti pubblici e predisposto, con l'aiuto di tecnici di livello internazionale, proposte alternative. Ora, è vero o non è vero che questo confronto è stato eluso e che si è accettato di discutere solo sul come realizzare l'opera e non anche sulla sua effettiva utilità? È questo il modello di partecipazione praticato da chi parla quotidianamente di democrazia e di legalità (modello che ha come suggello finale l'uso della forza contro chi, non essendo stato ascoltato e coinvolto, si oppone)?
Su queste domande continueremo a chiedere un confronto pubblico e trasparente. E, in assenza di risposte convincenti, ad opporci al Tav sul piano della iniziativa politica, del diritto, della informazione. Non si illuda chi ha sgomberato il presidio della Maddalena: la linea ferroviaria Torino-Lione è ancora di là da venire.
Corriere della Sera
La meta nobile di Milano
di Nicola Zanardi
A meno di 1.400 giorni dall'inizio di Expo 2015, nei giorni degli esami di maturità, abbiamo riletto Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita sul sito www. expo2015. org. Invitiamo tutti i cittadini a farlo, vista la bellezza e la contemporaneità del tema, anche se, forse, meriterebbe una riscrittura più ponderata e attenta rispetto a quella attuale. Una prima associazione porta ad un grande «educatore» e intellettuale milanese, Riccardo Bauer, motore inesauribile di quella grande officina sociale, e non solo, che è stata ed è la Società Umanitaria, vero e proprio serbatoio di intelligenza della Milano da ricostruire e sviluppare nel secondo dopoguerra. Educare alla democrazia e alla pace è una bellissima antologia dei suoi pensieri, dove la passione civile diventa la materia prima per diffondere la cultura tra i lavoratori, creare scuole professionali, integrare i più deboli.
In tempi in cui il tema della crescita si intreccia con moltissime discipline, senza una educazione alla pace e alla giustizia, il Pianeta non troverà alimento per tutti. E da Bauer, educatore locale su temi globali, a Eric Hobsbawm, storico globale sensibile ai temi locali, il passo è breve. Che cosa ci insegna lo storico, peraltro oggetto di una traccia dell'esame di maturità di quest'anno? Tra le tante, una davvero fondamentale: la fine delle civiltà contadine è la conclusione di un modello evolutivo durato per migliaia di anni, nonché il momento sociale più drammatico degli ultimi cinquanta anni. Nella seconda parte del «secolo breve» , per citare il suo libro più famoso, la cultura agraria si trasforma in società industriale.
Europa e Giappone prima, poi il Sudamerica e, infine, i Paesi Asiatici abbandonano la cultura contadina, unico collante non industriale globale. Da queste due figure molto lontane emergono il concetto di limite e quello di rispetto. Limiti all'uomo e al suo potere, rispetto dell'altro e dei suoi diritti. La crescita, nello scenario che si è delineato in questi anni, è un oggetto a più facce: ci saranno circa due miliardi di persone in più entro il 2050, ci dicono i demografi. Occorrerà utilizzare saperi, tecnologie, innovazione e tanta formazione per consumare molte meno energie e materie prime. Nutrire il pianeta di democrazia, formazione e salute sarà l'unico modo affinché l'alimentazione, la prevenzione e le economie raggiungano un punto di equilibrio.
I padiglioni di Expo 2015 possono essere i nuovi perimetri delle tante culture che l'uomo ha saputo creare dove modelli di democrazia, di formazione, di sanità dovranno conquistare il palcoscenico più grande. Un grande software universale fatto da una sapienza millenaria e dalla conoscenza applicata del terzo Millennio. Modelli da scambiare, da esportare, da importare. Chiediamo a tutti i Paesi di portarci queste esperienze. Troviamo il modo di chiederlo anche a chi ha meno potere: le associazioni, le Ong, i tanti utopisti del mondo che trovano un riscontro quotidiano alle loro idee nelle diverse realtà quotidiane. Nutrire vuol dire soddisfare necessità vitali ma anche alimentare e arricchire lo spirito. Milano, nei prossimi anni, ha una meta nobile e precisa verso cui tendere.
Il Fatto Quotidiano
Expo 2015: lo strano caso Boeri-Pisapia
di Gianni Barbacetto
Che strana coppia, Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. Quando si sono scontrati alle primarie per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra a Milano, Pisapia era, per la stampa, il candidato molto di sinistra amico di Nichi Vendola e Boeri era invece l’uomo del Pd che parlava con Pier Luigi Bersani e lavorava per l’immobiliarista Salvatore Ligresti. Ora, dopo il trionfo arancione e l’ingresso di Pisapia a Palazzo Marino, le parti in commedia sembrano essersi invertite. Tema: l’Expo, naturalmente, cioè il primo dossier di peso che il nuovo sindaco ha trovato sulla scrivania finora occupata da Letizia Moratti.
Ora Pisapia sembra diventato realista e moderato, disponibile a realizzare il progetto, molto immobiliare, imposto dal presidente della Regione Roberto Formigoni; mentre Boeri ha provato a insistere sulla sua idea, secondo cui le aree dell’Expo devono ospitare un grande parco permanente degli orti planetari, mica essere sommerse dal cemento.
Bella grana, per il sindaco appena insediato in piazza della Scala, tra l’entusiasmo della Milano di sinistra e la soddisfazione di quella moderata. Non aveva neppure completato il trasloco, che si è trovato il dossier Expo sul tavolo, con la soluzione già decisa da Formigoni: le aree su cui realizzare l’Esposizione universale del 2015 (un milione di metri quadri, due terzi della Fondazione Fiera, controllata dalla Regione di Formigoni, un terzo del gruppo Cabassi) dovranno essere comprate da una società appositamente costituita, la Arexpo spa, che poi le metterà a disposizione della società Expo spa per realizzare l’evento. Costo dell’operazione aree: 120 milioni di euro, 80 alla Fondazione Fiera, 40 a Cabassi, sborsati dal Comune di Milano (38 milioni per avere il 51 per cento di Arexpo), dalla Regione (9,5 milioni per il suo 12,7) e dalla Fondazione Fiera (che ottiene il 34,9 per cento di Arexpo senza versare un soldo, ma conferendo i suoi terreni). Qualche euro lo metteranno anche la Provincia di Milano e il Comune di Rho, che nella nuova società avranno lo 0,7 per cento.
Qual è il problema che preoccupa Pisapia? Che dopo averci messo tutti questi soldi, l’Expo dell’orto planetario progettato da Boeri diventa impossibile. Per rientrare dell’investimento, Comune e Regione dovranno tirar su case e uffici, altro che aree agricole e orti. Lo dice chiaro l’Accordo di programma: la Arexpo dovrà realizzare “la riqualificazione del sito espositivo privilegiando progetti mirati a realizzare una più elevata qualità del contesto sociale, economico e territoriale” (pag.13). Lo dovrà fare “al termine dell’esposizione universale mediante un intervento di trasformazione urbanistica” ( pag. 17 ). Chiuso l’Expo, arriverà il cemento. Lo permette l’indice urbanistico previsto, 0,52: almeno 520 mi-la metri quadri, concentrati sulla metà dell’area (l’altra metà dovrebbe restare a verde), che si aggiungeranno ai 230 mila metri quadri comunque previsti nel piano Expo. Totale, 750 mila metri quadri.
L’Expo naturale e tecnologico delle biodiversità si trasforma in un’operazione immobiliare, a tutto vantaggio dei bilanci della Fondazione Fiera. Formigoni ha detto a Pisapia: prendere o lasciare. E Pisapia non vuole e non può passare come il sindaco che appena arrivato fa perdere l’Expo a Milano.
Ora però sta riflettendo: non può neanche passare come il sindaco del cemento. Gliel’ha ribadito anche Legambiente, con un comunicato che ricorda l’esito di uno dei cinque referendum cittadini votati il 12 e 13 giugno a Milano: il parco dell’Expo deve rimanere parco anche dopo l’esposizione. “La richiesta di un parco dell’Expo, espressa dai cittadini due settimane fa, è chiara”, scrive Legambiente, “e non può essere elusa. Siamo consapevoli delle esigenze dell’evento, ma non possiamo far finta di non sapere che in quell’area si stanno accumulando previsioni per milioni di metri cubi di nuovi edifici, non solo nel recinto di Expo, ma anche a Cascina Merlata, Stephenson, Città della Salute. Il risultato non sarà la ‘Défense’ milanese, ma una bolgia di cemento . La città viene prima di Expo e degli interessi, pur legittimi, dei proprietari dei terreni”.
A questo punto, Pisapia sta riconsiderando la questione e si è riavvicinato a Boeri, che un paio di proposte continua a farle. La prima è abbassare l’indice di edificabilità: troppo alto quello 0,52. Ormai sembra impossibile trovare soluzioni alternative all’acquisto delle aree. Mantenerle agricole appare un’utopia. Ma si può almeno limare quel numeretto, riducendo la quantità di cemento.
La seconda idea di Boeri è trasferire sull’area Expo, dopo il 2015, l’Ortomercato. Nascerebbe così un grande polo agricolo e alimentare, con il parco delle biodiversità, il nuovo mercato all’ingrosso di frutta e verdura, la “Città del gusto”, la nuova facoltà di Agraria...
Su questo progetto Pisapia e Boeri stanno lavorando, di nuovo fianco a fianco, come sul palco di piazza Duomo dopo la vittoria comune su Letizia Moratti.
Un caso così non si trova nemmeno nel manuale del perfetto maschio-padrone dell'800. Ma i manuali non servono, quando il senso comune del terzo millennio rotola all'indietro e detta comportamenti senza vergogna. Del resto, perché vergognarsi? Dev'essere stato per buon cuore che i dirigenti della Ma Vib hanno scelto fra i loro 30 dipendenti 13 donne, tutte donne e solo donne, da mandare prima in cassa integrazione e poi a casa, «così possono stare a curare i bambini», tanto «in famiglia il loro è comunque un secondo stipendio». In altre parole, un optional. Di lusso. Come è un optional, di lusso, che le donne, che i bambini li curano comunque, pretendano pure di lavorare. Ma in tempi di crisi, i lussi non ce li possiamo più permettere. Un capitombolo e oplà, si torna all'antico: uomo-capofamiglia-lavoratore, donna-madre-moglie (cureranno meglio anche i mariti se stanno a casa, no?), e un solo stipendio che basta e avanza. Com'erano belli e ordinati gli anni 50.
Non ci si crede. E si stenta a credere pure che intervistata da un tg, una delle operaie licenziate parli di spalle per paura di ritorsioni. Più di tutto, si stenta a credere il fatto che chiude il cerchio: gli operai, maschi, che decidono un presidio di solidarietà con le colleghe, ma al dunque si sottraggono e tornano zelanti e obbedienti al lavoro. E' solo il ricatto della crisi? O il miraggio di poter tornare a essere dei veri uomini con le mogli al seguito e la pastasciutta in tavola?
Licenziare le donne quando sono incinta è ridiventata un'abitudine. Licenziarle con la giustificazione che così i figli staranno meglio può diventare una bestemmia. E un oltraggio a quell'erogazione gratuita del lavoro di cura che le donne svolgono regolarmente insieme al lavoro retribuito, senza che l'uno risenta dell'altro e spesso con migliori risultati degli uomini. L'assurdo è che mentre tutto questo accade nel civile e profondo Nord, a Roma si decida di alzare l'età pensionabile femminile. Sarà perché a 60 anni non ci sono più bambini da accudire. E per i genitori anziani basta una badante. Da pagare, va da sé, col secondo stipendio.
In base a quale criterio, mi chiedo, il manager Franco Pronzato poteva fare il consigliere d´amministrazione dell´Enac, ricoprendo contemporaneamente l´incarico di "coordinatore nazionale del trasporto aereo" nel Pd? Una circostanza come questa basta e avanza per evidenziare il rapporto patologico instaurato fra partiti e società civile nella nostra democrazia malata. L´incarico pubblico assegnato senza neppure mascherare la sua finalità lottizzatoria, viene notato ora solo perché Pronzato va in carcere, accusato di avere percepito una tangente sull´appalto per la rotta aerea Roma-Isola d´Elba. Emergono contiguità con altri "facilitatori" d´affari, come Vincenzo Morichini, che intercedeva nella raccolta di contributi privati per la Fondazione Italianieuropei, dopo aver ceduto a Massimo D´Alema la sua quota di comproprietà della barca a vela Ikarus. Per constatare quanto Franco Pronzato ci tenesse a rivendicare la sua vicinanza al segretario del Pd, Pierluigi Bersani, è sufficiente un clic alla voce "Curriculum" del suo sito, dove campeggiano due foto con "l´amico". A poco vale obiettare che tale prassi è ordinaria amministrazione nel centrodestra. Basti pensare a due esponenti di rilievo del Pdl come Maurizio Lupi e Giampiero Cantoni, che presiedono altrettante società della Fiera di Milano, con relativi emolumenti. Gli esempi di doppi incarichi consentiti dalla legge, ma non dalla pubblica decenza, occuperebbero purtroppo molte pagine di giornale.
La solita obiezione del "così fan tutti" non può essere accampata però dal Partito democratico, che fin dalla sua nascita s´impegnò a contrastare il malcostume della lottizzazione e la prassi conseguente del favoritismo negli appalti. Ricordo bene, per aver partecipato ai lavori della commissione incaricata di elaborare il Codice etico del Pd, talune resistenze sul capitolo delle incompatibilità. Ci veniva ricordato sottovoce che gli incarichi assegnati nei cda di aziende pubbliche e semipubbliche, o nelle Fondazioni, a consiglieri comunali, provinciali, regionali, consentivano una loro retribuzione surrettizia altrimenti impossibile. Ma il principio dell´incompatibilità alla fine s´impose; sebbene largamente disapplicato.
Il caso di Franco Pronzato, al di là dei risvolti penali legati a un´ipotesi di vera e propria corruzione che la magistratura dovrà giudicare, si segnala per la sua smaccata evidenza. Il manager genovese da decenni legato al gruppo dirigente Pci-Pds-Ds-Pd, infatti, sedeva già inserito nel cda dell´ente pubblico più importante del settore aereo quando venne nominato responsabile del partito sulla medesima materia. Per intenderci, è come se Nino Rizzo Nervo o Giorgio Van Straten, consiglieri d´amministrazione Rai "in quota" al centrosinistra, assumessero pure la guida dell´ufficio comunicazione del Pd. E ciò mentre il segretario Bersani va promettendo in tv che non ci saranno mai più dei lottizzati del suo partito in Rai.
Ben si capisce che qui non è in causa la diatriba fra il partito e gli antipartito. Ma il protagonismo della nuova cittadinanza democratica senza cui il centrosinistra non avrebbe mai conseguito le vittorie di maggio, può instaurare un relazione proficua con i gruppi dirigenti dei partiti solo alla condizione che questi siano disponibili a rimettere in discussione la loro sovranità e i loro comportamenti. Il verticismo dei "nominati" e l´affarismo dei lottizzati sono degenerazioni che si tengono l´una con l´altra. Non a caso hanno spesso come protagoniste le medesime personalità che non dissimulano la propria idiosincrasia nei confronti delle associazioni della società civile. Ora che la nuova politica non è più una mera suggestione, e anzi le dobbiamo la concreta speranza di un cambiamento d´epoca, tocca in primo luogo al Pd correggersi e dare il buon esempio.
Il centro è cieco, la verità si vede dai margini. Quest'affermazione di metodo, propria degli studi post-coloniali e anche della più recente "antropologia di prossimità", mi è tornata in mente la mattina del 27 giugno alla Maddalena, frazione di Chiomonte, quando visto da lassù - da quel fazzoletto di terra sulla colletta che divide il paese dall'autostrada del Frejus - il mainstream che ha segnato ossessivamente la vicenda della Tav è apparso di colpo per quello che è: vuota somma di affermazioni prive di senso reale. E si è affermata una realtà totalmente altra rispetto a quella che viene raccontata nei "luoghi che contano", nei palazzi del potere, nelle redazioni dei giornali, dagli opinion leaders metropolitani.
Prendiamo la questione dei soldi. Il mantra che viene recitato "al centro" - e "in alto" - ripete che l'Italia rischia di perdere i 680 milioni di euro dell'Europa se non aprirà il fatidico cantiere. Qui, in questa estrema periferia, tutti sanno che, al contrario, l'Italia potrà guadagnare (o risparmiare, se si preferisce) qualcosa come una ventina di miliardi di euro se quel cantiere non aprirà. Se la follia della Tav in Val Susa non si compirà. Tanto si calcola che sarà il costo finale dell'opera per il nostro Paese, comprensivo dei quasi 11 miliardi della tratta internazionale, a cui vanno aggiunti i quasi 6 miliardi (a prezzi 2006) della tratta italiana.
Una cifra enorme, pari a quasi la metà della manovra "lacrime e sangue" che il governo sta varando per tentare di sanare il bilancio pubblico, frutto di un calcolo del tutto prudenziale (c'è chi, sulla base dell'esperienza, calcola un costo finale superiore ai 30 miliardi!), per un'opera marchianamente, spudoratamente, inutile. Un'opera concepita e progettata in un altro tempo (gli anni '90 del turbo-capitalismo trionfante) e in un altro mondo (quello della globalizzazione mercantile e dell'interconnessione sistemica di un pianeta votato al benessere). Sulla base di previsioni di crescita dei flussi di traffico fuori misura e tendenzialmente illimitate, frutto dell'estrapolazione di un trend contingente ed eccezionale (i tardi anni '80 e i primi anni '90, quando effettivamente la circolazione internazionale e a medio-lungo raggio delle merci subì una brusca accelerazione), rivelatesi poi fallaci.
Si ipotizzò allora un rapido raddoppio dei circa 10 milioni di tonnellate transitate nel 1997 sulla linea ferroviaria Torino-Modane (la cosiddetta linea storica), che avrebbero portato rapidamente a saturarne la capacità (calcolata in circa 20 milioni di tonnellate) entro il 2020, con una crescita lineare ed esponenziale del flusso. Si sostenne (delirando, possiamo ben dire oggi) la necessità di garantire, con la nuova linea, una capacità di transito pari ad almeno 40 milioni di tonnellate, al fine di trasferire su rotaia buona parte dei volumi di traffico su gomma. Non si sapeva, allora, che il 1997 era stato il culmine di una curva che, esattamente dall'anno successivo, avrebbe incominciato a scendere, senza più fermarsi: era già scesa a 8,6 milioni di tonnellate nel 2000. Cadrà ancora a 6,4 nel 2004, a 4,6 nel 2008 per giungere infine al livello minimo di 2,4 milioni di tonnellate nel 2009 (anno in cui, secondo quelle proiezioni folle, avrebbe dovuto sfiorare i 15 milioni)! Oggi, la sola "linea storica" (sfruttata a meno di un terzo delle sue possibilità), sarebbe tranquillamente in grado non solo di garantire l'intero flusso di merci attraverso il confine con la Francia, ma di assorbire addirittura (cosa puramente teorica) l'intero traffico su gomma (all'incirca 10 milioni di tonnellate annue, anch'esso in costante calo), senza significativi costi aggiuntivi (se non le irrisorie cifre necessarie a realizzare il maquillage della linea esistente).
Sono numeri ben presenti a qualsiasi anziano valsusino seduto sull'erba del prato della Maddalena, a ogni ragazzo accampato (fino a lunedì) nelle tende del bivacco, a ogni casalinga di Bussoleno o di Venaus. Solo i "decisori" centrali, i politici di lungo corso, gli addetti all'informazione nazionale continuano a ripetere, come organetti rotti, le cifre di ieri, imbozzolati nel cavo del loro mondo scaduto, ciechi ad ogni evidenza, compresa quella mostrata dalle loro stesse statistiche ufficiali.
Oppure prendiamo un altro tema caldo, nella discussione attuale sulla Valle di Susa: il tema della legalità. Dal "centro del centro" - dal Viminale - il ministro Maroni proclama, mentre i suoi 2000 uomini si avvicinano alle barriere che difendono la Libera repubblica della Maddalena: «Di là ci possono essere i professionisti della violenza, di qua ci sono i professionisti della legalità, dell'antiviolenza, professionisti che sanno cosa fare, abituati a combattere il terrorismo, la criminalità organizzata, a combattere chi usa i kalashnikov e la lupara». Qui, invece, nella periferia delle periferie, sul ponticello della strada che da Chiomonte porta al sito archeologico sulla collina, la gente della valle guarda le ruspe che avanzano circondate - embedded - dai plotoni di agenti in assetto antisommossa, e grida «mafia». Sanno che la storia di alcune di quelle ditte che hanno messo a disposizione i propri mezzi è disseminata di vicende giudiziarie, d'indagini della magistratura e della Guardia di finanza per reati come «associazione a delinquere», «turbativa d'asta», falsa fatturazione, corruzione... Ci sono i ritagli dei giornali con le notizie degli arresti d'imprenditori, a più riprese, nei tardi anni '80, all'inizio dello scorso decennio... Basterebbe poco ai cronisti "centrali" - uno sguardo ai propri archivi, de La Stampa, di Repubblica - per documentarsi. E se è vero che i trascorsi giudiziari non bastano per emettere una sentenza di colpevolezza attuale, è pur anche vero che l'impatto di quello strano mix di Stato e di sospetto "antistato" ha un effetto devastante sui sentimenti collettivi di una popolazione che dallo Stato vorrebbe essere protetta e non attaccata. È il mondo che appare alla rovescia. E insieme terribilmente vero.
Possiamo chiederci il perché di questa distonia ottica, che rende così cieco (e ottuso) il "centro" e così lungimirante il "margine". Che acceca chi in teoria avrebbe tutti gli strumenti per guardare ad ampio raggio, e al contrario rende visionario chi in teoria dovrebbe essere "tagliato fuori". Una risposta - ineccepibile - la offre la letteratura più radicale della galassia post-coloniale statunitense, quella ascrivibile al femminismo nero, capace di muoversi acrobaticamente tra esclusione estrema e inclusione letteraria, ben testimoniata da Bell Hooks con il suo Elogio del margine. Qui la capacità di aprire il tempo dello sguardo laterale è ascritta al suo carattere di "spazio di resistenza". Alla bi-direzionalità di quello sguardo, rivolto contemporaneamente verso l'interno e l'esterno: libero dunque. Non prigioniero. E alla sua irriducibilità al mainstream e al peso falso che lo connota. Chi se ne fa portatore sa, durissimamente, chi è e cosa non intende diventare. A lui si addicono le strofe di Bob Marley: «We refuse to be what you wont us to be, we are what we are, and that's the way it's going to be» («rifiutiamo di essere ciò che voi volete farci essere, siamo quel che siamo e voi non ci potete fare proprio niente»). Ma è possibile affiancare a questa anche un'altra ipotesi. Ed è che il centro è cieco perché sta crollando. Perché il mondo di cui si è fatto centro sta "venendo giù". E come nella Bisanzio cantata da Guccini - «sospesa tra due mondi e tra due ere» - sono i barbari dei confini, non i senatori del Campidoglio, a sapere già la verità.
Corriere della Sera
Maran boccia il tunnel Linate-Expo: non è una priorità
Il maxi-tunnel Linate-Expo? Un’opera «che va realizzata» . A sostenere la necessità della «sotterranea» che dovrà collegare il sito dell’esposizione con l’aeroporto cittadino è Paolo Berlusconi. In un convegno sulla mobilità sostenibile il fratello del premier ha richiamato ieri il neoassessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran. «Il tunnel— ha spiegato l’editore del Giornale— dovrebbe cambiare le abitudini e la viabilità della città, facendo risparmiare un'ora di tempo per attraversare da est a ovest Milano» .
Berlusconi ha poi affermato che «i soldi dei privati sembra che ci siano» . Risposta a strettissimo giro di posta di Maran: «Non è nelle priorità. Il tunnel non è stato inserito nel Pgt neanche dal centrodestra quando era al governo della città» . Per la nuova amministrazione «le risorse vanno invece investite in metropolitane e nel trasporto dei pendolari» . Il tunnel infine, ha sottolineato l'assessore, «non era destinato ad essere un servizio di massa» .
la Repubblica
Paolo Berlusconi sponsor del maxitunnel
di Teresa Monestiroli
Premesso che «né io né la mia famiglia abbiamo niente a che vedere con il progetto, ritengo che il tunnel Linate-Expo su cui stava lavorando la giunta Moratti, sia un bel progetto e sarebbe un peccato lasciarlo cadere». A sponsorizzare la maxigalleria che avrebbe dovuto essere costruita in project financing dalla società Condotte è Paolo Berlusconi. Un endorsement a sorpresa che ha lasciato di stucco anche il neo assessore alla Mobilità Pierfrancesco Maran, presente anche lui al convegno sulla mobilità sostenibile organizzato ieri dal quotidiano della famiglia Berlusconi. «Il tunnel dovrebbe cambiare le abitudini e la viabilità della città - ha spiegato il fratello del premier - , facendo risparmiare un’ora di tempo per attraversare da est a ovest la città. Mi pare che i soldi dei privati ci siano».
«Non è una priorità - risponde l’assessore Maran - . In questo momento bisogna investire su metropolitane e trasporto per i pendolari. Inoltre non mi pare che il tunnel, così com’è stato pensato, sia destinato a essere un servizio di massa visto che percorrerlo tutto costava circa 10 euro». Il centrosinistra, d’altronde, non ha mai nascosto la sua contrarietà all’opera mastodontica che dovrebbe attraversare la città sotto terra. Ed è proprio grazie alla battaglia fatta dall’allora opposizione in consiglio comunale che il progetto fu inserito nel Pgt, ma vincolato al Piano urbano della mobilità ancora da preparare. Edoardo Croci, promotore dei referendum ambientali, commenta: «La congestion charge prevista dall’esito dei referendum richiede di rivedere le valutazioni sul traffico e dunque anche sui proventi tariffari del tunnel».
la Repubblica
È elettrico il futuro del car sharing
di Ilaria Carra
Lasciare l’auto che inquina fuori da Milano ed entrare in città con un mezzo a zero emissioni. È sfruttando le case cantoniere milanesi, oggi quasi tutte inutilizzate, che nascerà il progetto del primo car sharing elettrico. L’idea è della Provincia, che possiede trenta strutture distribuite sul territorio, come a Liscate, Locate Triulzi, Melegnano, Paderno Dugnano, Paullo, Palazzolo, Rosate, Lainate, Castano Primo, Vaprio d’Adda, Corbetta, Cernusco sul Naviglio, Gorgonzola, Cassano d’Adda, Binasco, Cusago, Santo Stefano Ticino, Busto Garolfo e Ossona. Ex depositi per la manutenzione delle strade di circa 350 metri quadri l’una e migliaia di metri quadri di terreno che si è deciso di trasformare in centri servizi polifunzionali. In pratica, il pendolare arriverà con la sua auto, potrà parcheggiarla all’interno e ripartire a bordo di un mezzo elettrico, auto o moto. La casa cantoniera sarà parcheggio ma anche bar e punto di ristoro, con un albergo low cost e un servizio di manutenzione per le auto.
Un sistema che nelle intenzioni della Provincia sarà a pagamento e si alimenterà grazie agli abbonamenti e ad eventuali partner privati, mentre per i mezzi sono già in corso trattative con case automobiliste produttrici come Renault e Mitsubishi e non è escluso che al progetto possa partecipare anche Enel.
«L’obiettivo - ha spiegato l’assessore provinciale ai Trasporti Giovanni De Nicola al convegno "Una scossa alla città" - è rispondere a un’esigenza espressa dai cittadini di abbattere il Pm10 e ridurre gli ingressi a Milano di veicoli inquinanti». E scoraggiare i milanesi a raggiungere la grande città con veicoli che inquinano, intercettando i grandi volumi di traffico: a Nord sono 110mila le auto che ogni giorno fanno avanti e indietro sulla Milano-Meda, 70mila sulla Rivoltana e Cassanese a Est, 44mila sulla Val Tidone a Sud e 31mila sulla Vecchia Vigevanese a ovest. Un sistema che sarà compatibile con le auto in condivisione già presenti nelle città e che, nelle intenzioni di Palazzo Isimbardi, potrebbe vedere la luce dalla prossima estate. Per Matteo Mauri, capogruppo Pd in Provincia «è un’idea interessante e decisamente di sinistra, non possiamo che sostenerla. Vogliamo sperare che non sia uno dei soliti annunci di questa giunta poi non concretizzati».
postilla
Come riecheggia ormai da lustri il classico mantra: non c’è differenza tra destra e sinistra! Prendiamolo per buono una volta tanto, giusto per trovarne un’altra, di differenza, ovvero quella fra chi va in una direzione e chi in un’altra, con la democratica possibilità di giudicare quale sia quella giusta, o più accettabile.
Il megatunnel Linate-Expo porta automobili dall’estremità est della circoscrizione comunale di Milano a quella occidentale; risucchia enormi risorse sottraendole ad altri investimenti; induce automaticamente processi di sbrigativo urban renewal in stile quasi ottocentesco (se togliamo dalla bilancia il glamour comunicativo di architetti e uffici di pubbliche relazioni); rafforza la logica perversa al tempo stesso centripeta e centrifuga che produce sprawl classico sul modello distretti centrali terziarizzati – o gentrificati, che è quasi la stessa cosa – e fasce suburbane socialmente segregate; conferma e rilancia strategie di urbanizzazione sicuramente insostenibili come quelle suggerite dagli anelli concentrici delle Tangenziali, e relative “colmate” della fascia agricola intermedia.
Il car-sharing in teoria, elettrico a vela o a carbone che lo si voglia pensare, sembrerebbe complementare alla medesima logica, almeno per i nemici giurati delle quattro ruote a motore. Ma non lo è affatto, perché va nella direzione opposta. Certo non si propone come una di quelle copertine di Urania disegnate da Karel Thole, con un mondo improvvisamente ribaltato fatto di biciclette, prati verdi dove splende sempre il sole, uccellini che cantano, dove pare non si lavori e non si crepi mai. Ma va sicuramente nella direzione opposta perché introduce una discontinuità: arrivi dallo sprawl metropolitano, dove ti hanno forzato a vivere in villetta più giardino con lavori forzati e coda rituale al sabato per il centro commerciale? Ecco, adesso molli la tua macchinina e entri in un altro universo, dove girano altre macchinine però un po’ diverse. Dove si gira anche a piedi, se le distanze lo consentono, o in bici, o coi mezzi. Dove le trasformazioni urbanistiche avvengono in modo coordinato a questo genere di mobilità, e le localizzazioni funzionali pure …
Concludendo: c’è differenza fra destra e sinistra? Scegliete la direzione preferita (f.b.)