Referendum sulla “Grande Milano”
di Guido Podestà
Gentile Sindaco Giuliano Pisapia, intendo, come già feci con Letizia Moratti, lavorare con lei, unitamente con gli altri sindaci del Milanese, alla costruzione «dal basso» della Città metropolitana. L’obiettivo è quello di garantire ai cittadini più efficienza amministrativa e maggiore razionalizzazione dei cosiddetti «costi della politica» .
Le propongo, quindi, di dare seguito all’impegno di operare in questa direzione, così come ci siamo detti nel nostro primo incontro e come abbiamo riaffermato davanti alle assemblee di Confcommercio e di Assolombarda. Sarei felice, pertanto, se lei, assieme a una rappresentanza degli altri 133 sindaci della Provincia, accettasse di entrare nel Comitato promotore del referendum sull’istituzione del nuovo Ente, che, tramite questa lettera aperta, propongo di celebrare entro il 2012 in tutti i 134 Comuni del territorio.
L’entrata in attività del Comitato, nel quale andrebbero coinvolti esponenti della società civile, delle associazioni datoriali e dei sindacati, dovrebbe, a mio avviso, avvenire in ottobre previa convocazione, a settembre, di Stati generali.
Il quadro normativo ci offre, nel rispetto delle prerogative riconosciute al Parlamento, la possibilità di formulare un progetto di Città metropolitana e di chiamare alle urne i cittadini allo scopo di verificarne il consenso. Su quest’aspetto, suggerisco il 2016 del dopo Expo. Ma non voglio dettare una road-map.
Desidero, piuttosto, fornire, in sintonia con lei, risposte all’esigenza di accelerare la nascita della Città metropolitana. A tale Ente dovrebbero essere affidate competenze di area vasta in ordine a infrastrutture, trasporti, mobilità, ambiente, ciclo idrico integrato, pianificazione urbanistica, sviluppo economico e occupazione. Il nostro territorio, capace di contribuire per il 10%alla formazione del Pil, teatro dei più importanti processi politici italiani e caratterizzato da un continuum urbanistico tra il capoluogo e i Comuni di prima e seconda cintura, risulta un laboratorio ideale.
Si tratta di una convinzione della quale ho messo al corrente sia i presidenti delle Province destinate a trasformarsi in Città metropolitane, durante un incontro risalente al luglio 2010, sia il capo dello Stato, nell’ambito del colloquio svoltosi a Palazzo Isimbardi nell’aprile 2010. Il presidente Giorgio Napolitano concordò sulla necessità di velocizzare l’iter e sottolineò le similitudini di sviluppo territoriale ininterrotto di Milano e di Napoli. L’esigenza da me avvertita di trasporre il nuovo Ente dall’architettura costituzionale alla realtà non è riconducibile a polemiche e campagne giornalistiche legate alle ipotesi di abolire tout-court le Province.
La mia posizione, al riguardo, è nota. Credo che la cancellazione indifferenziata di moltissimi Enti amministrati con rigore, come tutti quelli lombardi, non comporterebbe un risparmio ma, semmai, un incremento di costi e una frammentazione di competenze tra Comuni e Regioni in contrasto con il bene dei cittadini. La Provincia di Milano, che, già agli inizi del ’ 900, il sindaco del capoluogo Emilio Caldara voleva cancellare, risponde in pieno ai requisiti della Città metropolitana.
Questa circostanza è confermata non solo dai lavori della Commissione di ex sindaci di Milano (Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri, Piero Borghini, Marco Formentini e Gabriele Albertini), che, all’indomani del mio insediamento e rispettando un impegno assunto in campagna elettorale, ho incaricato di formulare una proposta di Città metropolitana, ma pure dagli studi dell’Isap, sostenuto dalla Provincia e dal Comune nonché presieduto prima da Tognoli e oggi da Ugo Finetti.
Il nostro Ente, che persino i più convinti assertori dell’abolizione delle Province riconoscono non costare un euro allo Stato ma, anzi, assicurare, unico tra quelli italiani, un saldo positivo all’Erario (oltre 16 milioni di euro), amministra, del resto, il territorio motore dell’economia italiana proiettato verso Expo con realizzazioni infrastrutturali e prospettive di crescita occupazionale traguardanti il 2015. Chiudo questa lettera aperta invitandola a Palazzo Isimbardi per procedere, già dalla prossima settimana, a un nuovo confronto sui passi da muovere insieme verso la meta, indicata dai residenti, della Città metropolitana.
Grande Milano, partiamo dal 2016
di Giuliano Pisapia
Gentile Presidente Guido Podestà, ho letto con attenzione e interesse la sua lettera pubblicata ieri e condivido la volontà di un lavoro comune tra le istituzioni milanesi per dare concretezza alla nascita della Città metropolitana di Milano, che porterebbe al superamento dei nostri attuali enti locali. È questo un tema a me così caro da averlo già affrontato durante la mia attività parlamentare.
Mi trovo d'accordo sugli obiettivi di una maggiore efficienza amministrativa, di migliori servizi ai cittadini e della razionalizzazione dei costi, soprattutto in un momento di crisi economica quale quello che ha investito il nostro Paese. Abbiamo il dovere di essere buoni amministratori, rispettando la fiducia che i milanesi hanno riposto in noi. La realizzazione della Città metropolitana, peraltro inserita in Costituzione e prevista dalla Legge delega 42/2009, è un passo fondamentale in questa direzione.
Certo non si tratta di un'azione concretizzabile in un giorno, ma possiamo aprire un percorso serio per far si che già tra cinque anni si possa votare per il nuovo Ente. Il 2016 è una buona data, sulla quale è possibile dare già oggi rassicurazioni. Ma non si possono, e non si debbono, trovare più alibi. Oltre alle iniziative referendarie, è possibile ripartire dal contenuto del Disegno di Legge depositato in Senato nel 2009 sull'istituzione della Città metropolitana di Milano. Il documento è collegato alla Carta delle Autonomie ed è già all'esame della Commissione Affari Costituzionali.
Si tratta però di un percorso lento che va assolutamente reso più veloce. Sono quindi più che disponibile a un incontro con lei e con i rappresentanti degli altri Comuni per valutare le iniziative per dare attuazione ad azioni virtuose per il bene del nostro territorio e dei nostri cittadini. A partire da una sollecitazione nei confronti del Parlamento richiamando il senso di responsabilità e di forte volontà riformatrice per una nuova architettura costituzionale, che non deve ricadere nel taglio ai servizi, ma in una maggiore efficienza.
Ma fin da subito, in attesa di un legislatore talvolta troppo lento, è possibile operare insieme per trovare e dare risposte concrete su temi per definizione sovracomunali come quelli, tra gli altri, dell'inquinamento, della mobilità e della cultura. Da parte del Comune ribadisco che c'è il massimo impegno a far si che la Città metropolitana di Milano diventi realtà. Lo conferma il fatto che abbiamo già dato il via, come dichiarato in campagna elettorale, al processo di trasformazione dei Consigli di Zona. Si tratta di un segnale fortissimo che consentirà ai "parlamentini"di diventare vere e proprie municipalità in grado di operare autonomamente e in condizioni di equilibrio rispetto ai Comuni dell'Area, preparando di fatto il terreno alla nascita della Città metropolitana di Milano, tanto attesa a parole, ma ancora lontana nei fatti.
Un impegno che avevamo preso con molti sindaci e amministratori della Provincia, nel corso di vari incontri che si erano svolti ancora prima che diventassi sindaco. Di questo sarò felice di riparlarne con lei nei prossimi giorni.
Postilla
Meglio tardi che mai. Ma ripetiamo la nostra domanda: le Città metropolitane non avrebbero dovuto essere costituite, e i confini amministrativi delle Province sul territorio residuo ridisegnate, fin dal 1992? Chi ha impedito ai soggetti politici che oggi vogliono abolire province (e le connesse Città metropolitane) di fare il loro dovere?
Il Comune di Venezia vuole approvare il Pat entro fine estate, massimo per settembre. Ma ha fatto i conti senza la Provincia. »Il Pat che ci hanno presentato, così com'è non lo approveremo mai». E siccome la Provincia da gennaio di quest'anno ha tutte le competenze urbanistiche (mentre prima c'entrava anche la Regione), o le due istituzioni trovano un accordo, oppure il Piano di assetto del territorio (Pat appunto), Venezia se lo può sognare. La settimana prossima ci sarà un incontro molto importante sulla vicenda: si ritroveranno da un lato la presidente della Provincia, Francesca Zaccariotto e il vicepresidente, Mario Dalla Tor con i loro tecnici, dall'altro il sindaco Giorgio Orsoni, l'assessore all'Urbanistica, Ezio Micelli, e i tecnici di Ca' Farsetti. La Provincia verificherà se le richieste di modifica e di inserimento avanzate negli ultimi incontri sono state accolte modificando il Pat. La Provincia non può pretendere di fare la programmazione urbanistica del Comune, è un'invasione di campo impropria. «Però può e deve pretendere che i vari Pat dei comuni siano armonizzati tra loro - spiega il vicepresidente Mario Dalla Tor -. Questo stiamo facendo, questo abbiamo l'obbligo di fare».
Avete chiesto delle modifiche al Comune di Venezia, quindi non vi piace il Pat che sindaco e giunta vogliono, invece, approvare. «Ci sono questioni tecniche che stridono e, se posso permettermi, c'è anche un'impostazione vecchia che sta dietro a quel documento di programmazione urbanistica. Sembra un Prg, un banale piano regolatore, e invece un Pat deve essere uno strumento che vola alto che ha il coraggio di fare scelte per i prossimi 20 o 30 anni. Non certo le scelte di far costruire qui o li. Dev'essere il sogno per la città che sarà».
Tecnicamente cosa c'è che non va? «La "Super Castellana" che finisce nel nulla, Porto Marghera che non ha identità, il Quadrante Tessera che non si capisce come e quando partirà, interi quartieri di Mestre da riqualificare, il collegamento mancato tra aree verdi con i Comuni vicini. E, soprattutto, si prevede troppa nuova cubatura, mentre quella nuova già realizzata è per la maggior parte di scarsa qualità». Volete impedire che Venezia costruisca nuovi edifici, ma intanto approvate Veneto City. «Noi vogliamo che in tutta la provincia si finisca di consumare territorio agricolo. Quindi, progetti già approvati a parte, pretendiamo che non si costruisca più un metro cubo su superfici libere. Mestre ha interi quartieri con edifici degli anni Cinquanta o Sessanta. Potrebbe favorire i crediti edilizi, dare incentivi per demolire e ricostruire mentre, in cambio, il privato realizza un'area verde ai confini del centro.
Se la città diventa bella, se Porto Marghera guarda al futuro, il costruttore e l'imprenditore vengono volentieri, altrimenti scappano anche quelli che ci sono. E, d'altro canto, ci sono già intere aree ferme, l'ex Umberto I, Todini in via Ulloa, Campus in via Torino... Nessuno costruisce. In Provincia siamo 860 mila abitanti e c'è già cubatura approvata per 300 mila nuove persone, mentre le previsioni ottimistiche parlano di 80 mila nuovi residenti. Venezia, in queste condizioni, conta di concedere nuova edificazione?».
Milano, via libera all’accordo sulle aree di Expo
Tregua armata tra Boeri e Pisapia
di Gianni Barbacetto
La rottura tra il sindaco di Milano Giuliano Pisapia e il suo assessore più ingombrante, Stefano Boeri, diventa ufficiale nel giorno in cui trova una composizione provvisoria. Ieri, la riunione straordinaria di giunta sull’Expo si è conclusa con l’approvazione all’unanimità dell’Accordo di programma per le aree di Expo 2015, sottoscritto martedì da Comune e Provincia di Milano, Regione Lombardia, Comune di Rho e Poste Italiane.
Boeri, che aveva già convocato una conferenza stampa dopo la giunta per comunicare il suo disaccordo su un Expo trasformato in mera operazione immobiliare, l’ha fatta saltare dopo aver incassato l’impegno di Pisapia a far sorgere sull’area il più grande parco d’Europa, con almeno il 56 per cento dei terreni destinati al verde, e l’incarico di stilare il testo di un ordine del giorno e di un documento di indirizzo che accompagnerà la ratifica dell’Accordo di programma.
Che tra Pisapia e Boeri ci sia un disaccordo pesante sull’Expo è un segreto di Pulcinella. Loro negano, ma è chiaro che sull’esposizione universale del 2015 hanno idee ben diverse. Pisapia, ereditato l’evento da Letizia Moratti, ha subito trovato un accordo con il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, per approvare l’Expo del cemento. Indice di edificabilità 0,52: un diluvio di circa 750 mila metri quadri.
Per Formigoni è un’operazione immobiliare necessaria per far quadrare i conti della Fondazione Fiera, proprietaria di due terzi dell’area. Per Pisapia è una proposta che non si può rifiutare: o così o niente, gli ha fatto intendere Formigoni. L’alternativa è passare alla storia come il sindaco che appena arrivato a Palazzo Marino fa perdere l’Expo a Milano. Boeri, che da architetto aveva progettato l’Expo del grande parco planetario delle biodiversità, è andato in questi giorni sostenendo che è invece ancora possibile cambiare rotta. Ridurre il volume di cemento innanzitutto. E poi cercare di portare sull’area funzioni pubbliche (dalla nuova facoltà di Agraria all’Ortomercato), invece che residenza privata e uffici. Gli hanno fatto eco Carlin Petrini, di Slowfood, e anche Elio (di Elio e le Storie tese), che ha rivolto un appello a Pisapia proprio sul Fatto affinché non cadesse “nel tranello di Formigoni”. Legambiente aveva poi ricordato al sindaco che i milanesi si sono espressi per il parco con il referendum consultivo del 12 e 13 giugno. Vedremo se Boeri riuscirà a far quadrare il cerchio.
Smiracolo a Milano
di Marco Travaglio
Era il 4 novembre 2010 quando Giuliano Pisapia ruppe gli indugi e annunciò al corriere.it la sua candidatura alle primarie di Milano per l’aspirante sindaco del centrosinistra. Disse di farlo per “far tornare Milano una città che sorride, che dà case e lavoro, dove l’aria è respirabile e le esigenze di tutti hanno diritto di cittadinanza”. Quando gli domandarono che differenza c’era fra lui e l’architetto-urbanista Stefano Boeri, candidato ufficiale del Pd, Pisapia dichiarò: “Boeri parla molto bene di progetti e di cose; io parlo delle persone e dei loro bisogni, delle loro necessità: su questo ho impegnato tutta la mia vita”. Chissà se immaginava che, di lì a sette mesi, una volta vinte le primarie e poi le comunali, avrebbe nominato proprio Stefano Boeri, quello che parla molto bene di progetti e molto meno delle persone, ad assessore alla Cultura, Moda, Design ed Expo. Un omonimo dello Stefano Boeri che aveva seguito il “concept plan” dell’Expo 2015, regolarmente retribuito per il suo incarico professionale? No, proprio lui.
Si dirà: almeno Boeri di Expo se ne intende. Certo, almeno quanto s’intende Berlusconi di televisioni, visto che ne controlla tre da trent’anni. Il che non è un buon motivo per fargli fare il concessore e il concessionario delle stesse. Ora l’assessore Boeri deve pronunciarsi su un progetto di Expo fatto (anche) dall’architetto Boeri. E, guarda un po’, esplode fra il sindaco e il suo assessore un conflitto, solo apparentemente superato ieri, proprio sul destino dei terreni dell’Expo.
L’oggetto del contendere è noto (ne abbiamo parlato più volte sul Fatto, con gli articoli di Gianni Barbacetto e con l’appello al sindaco del cantante Elio): da un lato l’idea tradizionale e speculativa di un’esposizione tutta cemento e asfalto, caldeggiata dalla lobby dei costruttori e subìta passivamente da Pisapia, nel solco delle decisioni già prese dal duo Formigoni-Moratti e dall’amministratore delegato della società Expo 2015, Giuseppe Sala; dall’altro il progetto, davvero affascinante e innovativo, degli “orti planetari” sostenuto da Boeri: un gigantesco parco verde, unico al mondo, destinato a ospitare per sempre una rassegna delle “biodiversità” esposte da tutti i paesi ospiti. Chiunque abbia un minimo di sale in zucca, a meno che non si chiami Cabassi o Ligresti o non abbia interessi nella mega-colata di cemento del piano Formigoni-Moratti, non può che auspicare la seconda soluzione. Ma ecco il paradosso: il principale alfiere della soluzione di gran lunga migliore è proprio l’assessore Boeri, che aveva collaborato a pensarla e a disegnarla nella Consulta di Architettura dell’Expo, affidandola poi ai professionisti della società che trasformarono il concept plan in masterplan.
Cioè: Boeri ha ragione da vendere a difendere il parco contro il cemento, ma è l’unica persona che non ne dovrebbe parlare. Un paradosso che, è inutile girarci intorno, si chiama “conflitto di interessi” (non di soldi, ma d’immagine e gloria personale). L’altroieri Boeri ha scritto nella sua bacheca Facebook: “Stasera sono in grande difficoltà. Mi aspetta una giunta su Expo, una giunta in cui credo moltissimo che deve decidere su un accordo di programma che non condivido. Difficile”. Si era pensato che avrebbe rimesso almeno la delega all’Expo. Invece l’ha mantenuta e, pur borbottando, ha votato pure lui, insieme al resto della giunta Pisapia, l’accordo di programma sulle aree espositive (che fino all’altroieri non condivideva) che è una penosa resa senza condizioni ai poteri forti e alla linea Formigoni-Moratti. Linea clamorosamente bocciata dai milanesi non solo alle amministrative, ma anche al referendum comunale sulla destinazione a parco di quelle aree anche dopo la fine dell’Expo. Un mese dopo la cosiddetta “rivoluzione arancione”, sulle speranze di cambiamento dei milanesi cala una doccia gelata. Cambiare la faccia del sindaco è una bella cosa. Uscire dal berlusconismo, che divora la politica tutta, resta un sogno.
Un rapporto-fantasma su Pompei, Ercolano e Torre Annunziata circola al ministero dei Beni Culturali. Esiste, ma è come se non ci fosse. Autori tre illustri studiosi, due francesi e un inglese. Promotori l´Unesco, l´organizzazione dell´Onu per l´educazione e il patrimonio culturale, in collaborazione con l´Icomos, altro organismo internazionale per la conservazione storico-artistica. Periodo dell´indagine: tre giorni a dicembre 2010, tre a gennaio 2011. Scopo: accertare lo stato degli scavi vesuviani dopo il crollo della Schola Armaturarum. L´esito è stato moderatamente positivo: i tre siti non finiranno nella lista dei luoghi a rischio, ma fra due anni subiranno un nuovo esame. Tutto bene, quindi? Non proprio.
Quel rapporto, cinquantuno pagine scritte in un inglese fluido, è, appunto, un fantasma. Qualche dirigente del ministero dice di non sapere neanche se è arrivato. Il motivo del riserbo, si sente ripetere, è uno: il documento contiene critiche agli interventi adottati negli ultimi tre anni e indica soluzioni diverse.
Il rapporto è stato consegnato alle autorità italiane, le quali possono rispondere e fare osservazioni. Ma di un lavoro di integrazione non c´è traccia. I tre relatori, Jean-Pierre Adam e Alix Barbet, archeologi con una ricca bibliografia pompeiana, e Christopher Young, una lunga esperienza di gestione presso il World Heritage Centre, rilevano come sia fondamentale per Pompei un lavoro capillare e programmato di manutenzione e restauro. Le strutture tecniche, aggiungono, vanno rinforzate e non svuotate come sta accadendo (709 unità nel 2004, 505 ora: depauperati il settore dei restauratori e le fasce intermedie, quelle che svolgono il monitoraggio). Parole sferzanti i tre relatori dedicano all´entertainment archaeology, l´ossessione per la valorizzazione del sito con mezzi virtuali, verso la quale sono stati dirottati molti fondi durante la gestione commissariale, che tanto stava a cuore all´ex ministro Sandro Bondi. Pompei, si legge nel documento, non ha bisogno di «theatrical presentation»: Pompei «naked in all its glory is enough» (Pompei, nuda nella sua gloria basta a se stessa). In sostanza l´Unesco chiede che si torni al piano avviato nel 1997, soprintendente Pier Giovanni Guzzo, messo da parte nel 2008.
Il rapporto, poi, segnala il caso dell´Herculaneum Conservation Project - l´organismo finanziato dal magnate americano David Packard, che da dieci anni opera a Ercolano, dove ha speso 16 milioni - come esemplare di una buona relazione fra pubblico e privato. Peccato, però, che la collaborazione fra la Soprintendenza, la direttrice degli scavi, Maria Paola Guidobaldi, e gli studiosi guidati dall´archeologo Andrew Wallace-Hadrill e dall´architetta Jane Thompson, entrambi inglesi, non goda di molte attenzioni al ministero. Anzi, sia trascurata fino a irritare i vertici dell´Herculaneum Conservation Project, mettendo a rischio la loro permanenza a Ercolano.
Un brutto colpo per i Beni culturali. Che arriva mentre per Pompei si vara un piano di 105 milioni di cui si sa ancora poco. Sono previste sofisticate indagini geologiche (8 milioni) che il preside della facoltà di Architettura di Napoli 2, Carmine Gambardella, sostiene di aver già compiuto e aggiunge di poterle offrire gratis. Il piano di interventi sul campo, invece, è stato stilato dalla Soprintendenza e delinea operazioni di manutenzione e il restauro di 39 domus. Ma le assunzioni di nuovo personale sono incerte (si parla di una trentina di persone, ma non sono chiari i profili professionali). A Pompei si ipotizza anche che un gruppo di imprenditori francesi finanzi progetti di restauro (le trattative sono ancora in corso). Mentre fuori delle mura c´è il rischio di una cementificazione alla quale sarebbero interessati imprenditori napoletani: un piccolo comma prevede interventi in deroga alle norme urbanistiche. E, quasi lo presagissero, gli esperti Unesco raccomandano di mantenere integre le visuali dentro e fuori gli scavi (su questo c´è un allarmato intervento di Italia Nostra).
La situazione non è gravissima, dicono gli estensori del rapporto, che suggeriscono quindici raccomandazioni. Fra queste, insistere con il lavoro che l´Herculaneum Conservation Project sta realizzando a Ercolano ed estenderlo altrove. Packard scansa i riflettori e non vuole ritorni d´immagine. Non è uno sponsor classico come Diego Della Valle al Colosseo. In compenso mette a disposizione uomini, competenze e soldi per fare manutenzione e restauri. Il lavoro è svolto fianco a fianco con gli archeologi e gli architetti del posto. Con loro, insiste Wallace-Hadrill, si sperimenta un metodo di gestione del sito che, una volta concluso il progetto, le strutture pubbliche possano poi proseguire. Ma con quali mezzi e con quali risorse, se entrambe scarseggiano? Wallace-Hadrill cita preoccupato la decisione di stornare da Pompei il 25 per cento dei suoi fondi per dirottarli altrove.
Ercolano trae grandi benefici dalla cura Packard. Ma in questi giorni è stato ingaggiato un braccio di ferro con i vertici del ministero. Motivo: il finanziamento con poche decine di migliaia di euro, di Fasti Online, l´archivio elettronico degli scavi compiuti in tutto il mondo sostenuto da Packard e dal ministero. Che ora potrebbe non metterci più un soldo, irritando ulteriormente Packard.
Mentre vengono ulteriormente ridotte le risorse di comuni e regioni, alla faccia del tanto sbandierato federalismo che da quest´ultima manovra riceve l´ultimo colpo, Tremonti promette che i futuri risparmi derivanti dai tagli ai costi della politica saranno destinati all´8 per mille per finanziare il terzo settore. Questa promessa è insieme peculiare dal punto di vista formale e molto insidiosa da quello sostanziale. Dal punto di vista formale non si capisce il meccanismo istituzionale che ha in mente Tremonti. L´8 per mille non è alimentato da trasferimenti diretti dello Stato. Il suo ammontare è deciso dalle scelte dei contribuenti, pur all´interno di un meccanismo poco trasparente che fa sì che la quota totale dell´8 per mille del gettito da assegnare allo Stato piuttosto che a una o l´altra confessione religiosa sia deciso dalla piccola minoranza che opera una scelta esplicita. Lo Stato, poi, fa più o meno quello che vuole con la propria quota, utilizzata di solito come sorta di fondo di riserva per finanziare le cose più varie. Basterebbe impegnarsi a finanziare il terzo settore, peraltro già destinatario del 5 per mille, senza dirottarvi altri fondi.
Ma è soprattutto dal punto di vista sostanziale che questa promessa appare molto insidiosa, proseguendo nella linea già tracciata dal libro bianco sul welfare, in cui si è evocata esplicitamente la carità e gli istituti caritativi come risorsa principe del welfare dopo la famiglia, e poi dalla finanziaria 2011 ove la, miseranda, social card per alcune categorie di poveri è stata data in gestione, appunto, a istituti caritativi e di terzo settore. Tra una finanziaria e una manovra di aggiustamento dopo l´altra, le possibilità dei comuni di fornire servizi essenziali ai cittadini sono state progressivamente ridotte in modo drastico. Per il terzo settore (categoria molto eterogenea), invece, si ha un occhio di riguardo, sperando che faccia un po´ di supplenza, ma anche produca consenso. E´ un meccanismo simile a quello messo in opera nella scuola, dove ai tagli nella scuola pubblica non hanno fatto seguito quelli alle scuole private (cattoliche).
Il sospetto è che con questa promessa, che non costa nulla perché a futura memoria (mentre i tagli agli enti locali colpiscono subito), Tremonti prosegua la sua campagna personale presso le gerarchie e il mondo cattolico, per ottenere lo status di politico di riferimento. E´ una campagna che sta avendo successo, come testimoniato dalle motivazioni del premio che gli è stato recentemente assegnato dall´Università Cattolica. Ma è fatta a spese del ruolo degli enti locali e delle stesse condizioni di cittadinanza sociale nel nostro paese. Le organizzazioni di terzo settore, così come quelle di volontariato, sono una grande ricchezza. Ma non possono essere loro a garantire diritti di base e criteri universalistici. Neppure possono diventare una sorta di strumento dello Stato, pena la loro perdita di autonomia. Se ciò può andare bene a qualcuna di queste associazioni, forti della colonizzazione dello spazio pubblico che sono riuscite a operare con il sostegno dei politici, come avviene, ad esempio, con Comunione e Liberazione in Lombardia, ad altre questa possibile deriva desta legittime preoccupazioni.
Pessima giornata, ieri, per la civiltà giuridica di questo paese. Pessima giornata per la legittimazione sociale del Parlamento, che si allontana vertiginosamente dalle persone, da anni favorevoli quasi all´80% al diritto di ciascuno di decidere liberamente sulle modalità del morire.
Questo ci dice il voto con il quale la Camera dei deputati ha approvato le norme sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento" che espropriano ciascuno di noi del potere di decidere sul morire. Non è ancora una legge della Repubblica, perché il testo dovrà di nuovo essere esaminato dal Senato. Ma, dopo che si è riusciti a peggiorare un testo orribile già all´origine, ogni speranza che i senatori possano avere qualche ripensamento sembra del tutto infondata.
Al posto della volontà della persona compare ormai, violenta e invadente, quella del legislatore.
Perdiamo il diritto all´autodeterminazione, che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 438 del 2008, ha riconosciuto come diritto fondamentale della persona. Si esclude, infatti, che la persona possa liberamente stabilire quali siano i trattamenti che intende rifiutare qualora, in futuro, si trovi in situazione di incapacità. Le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante, vita e corpo della persona sono sottratti al governo dell´interessato e affidate a regole autoritarie, alla pretesa del legislatore di farsi scienziato, ed alla decisione del medico. La persona scompare, altri soggetti compaiono al suo posto. La dignità nel morire è cancellata.
Invece di rispettare la persona quando riflette sul momento più difficile e intimo della sua esistenza, si dà voce ad uno spirito vendicativo, esplicitamente dichiarato da quelli che hanno attribuito al testo votato ieri la funzione di chiudere la fase aperta dalla decisione della Corte di Cassazione nel caso di Eluana Englaro.
Una rivincita contro una sentenza definita "giacobina" (quale approssimazione culturale in questo modo di esprimersi!), mentre si è trattato di una sentenza così accuratamente argomentata da mettere la nostra giurisprudenza al livello della miglior riflessione giuridica internazionale su questi temi.
Ieri, al contrario, ci siamo allontanati dall´Europa e dal mondo, spinti dal medesimo, cieco furore ideologico che ha prodotto la pessima legge sulla procreazione assistita, che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima in alcuni dei suoi punti più significativi e di cui si occuperà anche la Corte europea dei diritti dell´uomo.
Questo è il destino al quale va incontro la legge sul testamento biologico. Ed è inquietante che nel dibattito parlamentare siano state usate parole quasi intimidatorie, quando si detto che sarebbe un brutto giorno per la democrazia quello in cui la Corte costituzionale decidesse contro la maggioranza del Parlamento, una volta investita del giudizio sulla nuova legge.
Possibile che ogni volta si debba ricordare ai parlamentari che le corti costituzionali sono appunto "giudici delle leggi", che hanno proprio il compito di vegliare sul rispetto dovuto dal Parlamento alla Costituzione? Possibile che ignorino che la discrezionalità del legislatore incontra limiti precisi in particolare quando sono in questione la vita, la salute, la dignità della persona?
La verità è che il testo votato ieri non chiuderà le polemiche, ma avvierà una lacerante stagione di conflitti. Si è detto che si voleva sottrarre ai giudici il potere di decidere sulla vita. Accadrà il contrario, perché siamo di fronte a norme che apriranno la via a contestazioni, a ricorsi, a eccezioni di incostituzionalità.
Si è imposta una logica che rende le persone prigioniere proprio di quelle costrizioni dalle quali, con un testo semplicemente ricognitivo del diritto all´autodeterminazione, avrebbero potuto liberarsi. Si corre il rischio di vie traverse, di sotterfugi. Esattamente il contrario della lezione civile di Beppino Englaro, che ha accettato la via aspra e lunga della legalità, e che ieri, per questo, è stato insultato nell´aula di Montecitorio. Si incentiverà il terribile "turismo eutanasico" verso altri paesi, un cammino che già più d´uno ha cominciato dolorosamente a percorrere.
Questi sono i frutti amari dell´ideologia, della pretesa di sottomettere ai propri convincimenti "le vite degli altri", proprio quelle che dovrebbe essere massimamente rispettate. E´ quel che accade in tutti i paesi che hanno approvato leggi in questa materia, è quel che hanno fatto, con vera carità cristiana, la Conferenza episcopale tedesca e il Consiglio delle Chiese evangeliche nell´opuscolo con il quale hanno dato ai fedeli le istruzioni sul testamento biologico, che legittimano quasi tutto quello che in Italia viene vietato.
Ma questo è pure il frutto amaro di un bipolarismo distruttivo, di una cieca obbedienza di parlamentari ormai senza relazione alcuna con il mondo che li circonda, di una appartenenza imposta dal fatto che il loro destino personale e politico è solo nelle mani del padrone della maggioranza.
Nella vituperata Prima Repubblica la civiltà del confronto non venne meno neppure nella discussione di leggi assai più dirompenti per i problemi di fede che ponevano, come quelle sul divorzio e, soprattutto, sull´aborto. Oggi che si prospetta il ritorno di un partito cattolico, con imprimatur cardinalizio, la vicenda del testamento biologico non è l'auspicio migliore.
La Repubblica
Una pietanza indigesta
di Roberto Rho
La variante che consentirà ai futuri proprietari dei terreni dell’Expo di costruire su oltre 400mila metri quadrati (quasi metà dell’intera area) con un indice di edificabilità pari a 0,52 metri quadrati di cemento per ogni metro quadrato e che, sulla base di questi coefficienti, moltiplica il valore di quei terreni acquistati dagli attuali proprietari come terreni agricoli, era una pietanza indigeribile quando a servirla erano Letizia Moratti e Roberto Formigoni e non ha cambiato sapore oggi che in fondo al menu c’è pure la firma di Giuliano Pisapia.
Davvero non si poteva intervenire per modificare quell’accordo, che è il fiocco sul pacco regalo da diverse decine di milioni di euro per i Cabassi e per Fondazione Fiera, e che – chiunque ne sia il proprietario – dopo il 2015 affollerà di palazzoni alti e invadenti quelle terre alle porte di Milano? Davvero non c’era qualche mese di tempo per studiare una soluzione migliore, dopo che per tre anni e mezzo i signori del Bie si sono bevuti senza fare una piega le menzogne e le eterne promesse non mantenute della Moratti, inzuppate con i veleni della sorda guerra di potere tutta interna alle amministrazioni di centrodestra?
La giunta Pisapia, che ha dimostrato coraggio scegliendo di fermare e riavvolgere il nastro del Pgt per ascoltare e discutere le osservazioni dei cittadini cestinate dalla Moratti, nel caso dell’Expo ha deciso di deglutire tutto d’un colpo, senza neppure rimasticarlo, il boccone immangiabile cucinato dall’ex sindaco e, soprattutto, da Formigoni. Che è già oggi il dominus incontrastato dell’Expo.
Dice Pisapia che il Comune metterà «paletti fortissimi», che «intende salvaguardare il territorio da qualsiasi tipo di speculazione edilizia», che nella governance della società proprietaria dei terreni (Arexpo) «i soggetti istituzionali dovranno avere quote uguali per avere nella governance le stesse possibilità di intervento». Ma al di là delle buone intenzioni, che non sono in discussione, dopo la firma dell’accordo di programma e la sua approvazione in giunta (oggi) e in Consiglio comunale, il sentiero per evitare che il dopo-Expo si trasformi in una colossale operazione immobiliare diventerà strettissimo e tortuoso. Per non dire impraticabile.
Formigoni – che questa soluzione ha fortemente voluto, a costo di grigliare la Moratti per mesi – ha ormai in mano tutte le leve. Partecipa alla società Expo 2015, che gestirà l’evento. Presiede il tavolo infrastrutture, con una dotazione superiore alla decina di miliardi di euro. Partecipa alla società che sta acquistando i terreni dai Cabassi e, comunque vadano le cose, resterà il socio dominante. Per due ragioni. Alla quota della Regione, quale che ne sia la dimensione, si sommerà di fatto quella della Fondazione Fiera: è pur vero che Cantoni (berlusconiano) non è Roth (appendice del governatore), ma l’infrastruttura dirigenziale della Fondazione risponde a Formigoni, e comunque la Fondazione ha interesse a massimizzare il reddito del suo investimento. La seconda: tra gli azionisti di Arexpo (così come di Expo 2015) Formigoni è l’unico che ha fieno (soldi) in cascina. In Comune c’è aria di carestia, in Provincia già muoiono le vacche.
Il resto è appeso alle nuvole. Quale società immobiliare, potendo costruire con un indice di 0,52 (più o meno lo stesso che il Pgt morattiano prevedeva come media per le nuove aree di sviluppo urbano) si accontenterebbe di meno? Quale soluzione consentirà un più facile realizzo delle plusvalenze (350-400 milioni) previste dal piano d’investimento? Una bella infilata di palazzi residenziali o commerciali, oppure un insediamento immobiliare destinato a funzioni pubbliche? L’ipotesi del centro di produzione Rai, ventilata ancora ieri, è realistica? Quali sono le alternative? E che ne sarà del grande parco agroalimentare, già decurtato di orti e serre a vantaggio dei padiglioni?
Comunque la si rigiri, incrociare il percorso imboccato da Regione e Comune con quello indicato dai risultati del referendum di metà giugno, nel quale 470mila milanesi hanno esplicitamente chiesto che l’area Expo non sia cementificata e che il parco agroalimentare resti in eredità alla città, pare veramente una scommessa temeraria.
Corriere della Sera
Pisapia firma per Expo, la sinistra lo attacca
di Andrea Senesi
Almeno su una cosa, tutti d’accordo: «È il passo della svolta» . I cantieri apriranno in ottobre, la corsa contro il tempo è scattata. L’accordo di programma farà nascere un parco pubblico da 400 ettari («Il più grande d’Europa» , secondo i protagonisti dell’accordo), «che s’estenderà sul 56 per cento delle aree a disposizione» . Ma anche un nuovo quartiere residenziale con un indice di edificabilità piuttosto alto: 0,52. «Senza questa firma avremmo affossato Expo» , spiega Pisapia. Che davanti a telecamere e taccuini difende la «linea» e rassicura: «Non ci saranno né speculazioni né colate di cemento» . A Palazzo Marino la speranza è che la partita, quella vera, inizi con la costituzione della società che acquisirà i terreni e nella quale il Comune avrà una quota identica a quelle della Regione, con un significativo potere d’interdizione (la Provincia entrerà invece con una quota molto bassa, inferiore al cinque per cento). Roberto Formigoni rivendica il (lungo) percorso fatto.
La scelta della newCo al 100 per cento pubblica («I privati li abbiamo tenuti fuori dai piedi, più di così?» ), soprattutto. E però, con buona dose di realismo, il governatore disegna pure uno scenario post 2105 non esattamente «bucolico» : «Oltre al grande parco urbano nascerà un nuovo quartiere. D’altra parte dovremo pur rientrare dagli investimenti sostenuti?» . Il rischio, spiega il governatore, è quello di Torino, che dopo le sue Olimpiadi si è svegliata con le casse pubbliche vuote. Stamani la giunta di Palazzo Marino è chiamata a ratificare l’accordo. In sofferenza, oltre agli assessori della sinistra radicale, c’è Stefano Boeri, che oggi potrebbe addirittura rimettere sul piatto le deleghe ad Expo, conservando invece quelle alla Cultura. La battaglia si trasferirà poi in aula, lunedì 25 luglio. Lì i malumori della sinistra radicale e di parte del Pd si faranno sentire. L’antipasto è però tutto nelle primissime reazioni alla notizia dell’accordo firmato.
I referendari sono i più delusi. Secondo il radicale Marco Cappato, per dire, «mancano garanzie contro la speculazione» . Del tutto analoga la posizione di Edoardo Croci, ex assessore alla Mobilità della giunta Moratti e presidente del comitato per i referendum milanesi. «Oltre all’elevato indice di edificabilità, costituisce un elemento di preoccupazione l’indeterminatezza del piano complessivo sul futuro dell’area, per quanto riguarda la tipologia degli insediamenti e la distribuzione dei volumi» . «Preoccupato» anche Antonello Patta, della Federazione della Sinistra: «Se lo 0,52 fosse realizzato, rappresenterebbe una gigantesca speculazione rispetto ad un'area agricola dal valore dieci volte inferiore a quanto convenuto. Ma anche prendendo come buono il valore delle aree definito dall’agenzia delle entrate, un indice intorno allo 0,15 sarebbe stato più che sufficiente a remunerare il valore stabilito per i terreni di 120 milioni» .
Il sindaco incassa invece in serata il sostegno a distanza di Nichi Vendola: «Sta resuscitando il cadavere di Expo» Sul fronte opposto, «stuzzica» il capogruppo della Lega Matteo Salvini: «Pisapia inganna i cittadini. Che fine hanno fatto gli ambientalisti e i loro referendum?» . La discontinuità c’è, assicura Pisapia. Per i risultati raggiunti, non fosse altro: «La Moratti per tre anni ha litigato, noi in un mese abbiamo fatto partire Expo» . Chiusura affidata a Diana Bracco, presidente della società che gestirà l’appuntamento del 2015: «Con la firma di oggi , Expo non è più un sogno. È un fatto» .
Il Sole 24 Ore
«In agosto partono le gare Expo»
di Attilio Geroni
Expo 2015 al giro di boa? Giuseppe Sala, manager, amministratore delegato della società di gestione dell'evento internazionale, ne è convinto. Soprattutto dopo la firma (si veda l'articolo a fianco) dell'Accordo di programma, che formalizza il conferimento dei terreni alla newco Arexpo: «Una questione, quella dei terreni – ammette Sala in questa intervista al Sole 24 Ore – che in passato ha dato qualche mal di pancia ai funzionari del Bie, ma la cui soluzione ci permette di passare finalmente alla fase operativa».
Ed è fatta di numeri inediti – date e impegni finanziari – questa fase che prenderà il via in agosto, più o meno in linea con i tempi sollecitati dal segretario generale del Bureau International des Exposition, Vicente Loscertales. Aveva chiesto entro luglio, in tono più o meno perentorio, quand'era venuto in visita nei giorni scorsi a Milano, per l'avvio delle prime gare. Stavolta ci siamo, giorno più giorno meno: il "d-day" per il passaggio dalla fase di una gestazione faticosa a quella dell'operatività è stato fissato. E non solo quello.
Dottor Sala, la suspence eterna sui terreni è finita, almeno quella. Siete pronti a partire con le gare, come richiesto dal Bie?
Siglato l'Accordo di programma entriamo nel vivo della fase operativa di Expo 2015. Da qui a fine anno abbiamo preparato tre momenti fondamentali. Il primo è fissato per il 5 agosto, giorno in cui, ufficialmente, pubblicheremo la prima gara, quella sulle interferenze, per un valore complessivo di 91 milioni. Pensiamo che l'assegnazione possa arrivare ai primi di ottobre. Dopodiché, il 25 dello stesso mese, in concomitanza con l'International Participant Meeting che si terrà a Milano con i Paesi aderenti all'Expo, organizzeremo una cerimonia simbolica di posa della prima pietra. Quel giorno daremo formalmente il via ai lavori di Expo 2015. Terzo momento importante, entro la fine di novembre, quando lanceremo la seconda gara, da 310 milioni.
È la gara per la realizzazione della piastra, di tutto ciò che riguarda i lavori di superficie e i servizi collegati, quindi sistemi energetici e tecnologici, per preparare la piattaforma sulla quale poggeranno le strutture.
Il calendario è impegnativo e soprattutto in passato si è spesso avuta l'impressione di un certo affanno nel rispettare i tempi. Cosa la porta a dire, oggi, che Expo 2015 rispetterà i tempi?
Prima di tutto il nostro piano di lavoro, tarato per farci arrivare all'Expo nei tempi giusti. Poi il fatto che gran parte delle architetture che vedremo saranno architetture leggere: molte opere, una volta chiuso l'evento, saranno smontate. L'aspetto più complesso è nella preparazione della base, della cosiddetta piastra, ma anche lì non dobbiamo pensare a opere mastodontiche da un punto di vista infrastrutturale.
Nota: per farsi un'idea, la Variante Urbanistica disponibile sul sito del Comune di Milano (f.b.)
La Grecia, dunque, non èl’unica area di crisi. E il problemanon è più circoscritto al Portogallo e all’Irlanda. Ora che le locuste della speculazione hanno messo nel mirino il bersaglio grosso, cioè il nostro Paese ma anche la Francia, la Spagna e la stessa istituzione dell’Euro, ci accorgiamo di come fossero stati sottovalutati i segnali di instabilità in Europa indotti dagli effetti della crisi finanziaria americana e poi dalla recessione. A tre anni dal terremoto finanziario degli Stati Uniti, dalla rottura del sistema dei mutui subprime fino al fallimento di storiche banche, non abbiano imparato nulla, la lezione nonè servita a nessuno. Siamo ancora qui vittime della speculazione e della finanza, assistiamo al trionfo della rendita e alla sconfitta della politica e del lavoro. E la Consob fa quasi tenerezza quando “impone” la comunicazione delle posizioni al ribasso, mentre sul mercato si scatenano i cavalieri dell’Apocalisse.
L’Italia ha creduto, anzi si è illusa, che Berlusconi e Tremonti avessero davvero la situazione sotto controllo, che nessuno avrebbe osato attaccarci perchè «noi stiamo meglio degli altri», perchè «la crisi non esiste» e se c’è «l’abbiamo ormai superata». Tutte citazioni del nostro premier (oggi atteso alla “prima” del Milan... speriamo che non ci vada) e del ministro dell’Economia. Adesso è arrivato il conto, ed è un conto che pagherà l’intero Paese.
I mercati non hanno creduto al valore della manovra di rientro del debito, non hanno condiviso i tempi, non hanno fiducia che questo governo con una maggioranza così sfilacciata e litigiosa possa davvero risanare i conti. L’attacco all’Italia è partito la scorsa settimana, è esploso ieri facendo vittime illustri in Borsa e nei titoli del debito pubblico, e continuerà. Continuerà perchè le locuste si fermeranno solo quando vedranno scorrere lacrime e sangue e potranno incassare i loro profitti per poi trasferire le loro offensive su altri obiettivi. Oggi i mercati vogliono solo una cosa dal nostro Paese: l’approvazione immediata dalla manovra da parte del parlamento e l’anticipazione al 2012 e 2013 dell’obiettivo di pareggio. E se quelli della manovra di Tremonti non sono 40 e passa miliardi, allora ci vorrà qualcuno in grado di trovarli.
Il clima che si respira, piaccio o no, è lo stesso dell’estate 1992 quando Giuliano Amato si presentò al tg della sera per informare gli italiani della svalutazione della lira e del varo di una manovra da 90mila miliardi di lire, compreso il prelievo una tantum dal nostro conto corrente bancario. L’Italia si rimise in pista, la svalutazione competitiva della lira fornì fiato alle imprese e poi l’accordo del ‘93 tra le parti sociali fece il resto. Ci vorrebbe un altro Ciampi, o il Prodi che ci portò in Europa, ma non è aria. Ci possiamo aggrappare alla telefonata del cancelliere Merkel che, dopo aver ritardato per interessi elettorali gli aiuti ad Atene, è in ansia per l’attacco all’Italia che, nonostante tutto, ha la seconda industria manifatturiera d’Europa, assai integrata con quella tedesca.
Quello che è accaduto ieri sui mercati non è un episodio isolato diun sistema sbagliato, anzi malato. La crisi è sistemica. Siamo ostaggi e impotenti davanti ai movimenti di capitali speculativi, i governi per difendersi dovrebbero chiudere le borse,temiamo i giudizi delle agenzie di rating dopo averle finanziate e valorizzate (e certi leader laburisti e progressisti del passato che ostentavano le “medaglie” di Moody’s o Standard & Poor’s, oggi dovrebbe sparire). L’affronto degli speculatori, che non sono qualche cosa di estraneo a questo sistema ma ne sono parte integrante, è senza pudore. Il Wall street journal ha tributato gli onori a Mario Draghi, nuovo presidente della Bce,come garante della stabilità della moneta unica. E ieri l’euro è stato preso a sberle sui mercati. A Londra viene premiata Intesa- San Paolo come miglior banca italiana, nelle stesse ore il titolo dell’istituto perde il 7% in Borsa. Non cambia mai nulla. Tre anni fa, quando a New York fallì la Lehman Brothers “ la banca che non poteva fallire”, quando la crisi travolse il mondo industrializzato, con la perdita di milioni di posti di lavoro, governi e leader politici di ogni colore si impegnarono a limitare le invasioni della finanza, a difendere il risparmio e l’occupazione contro la rendita, a tagliare le retribuzioni dei manager. Ma non è cambiato niente.
Così va il mondo.
Una classe politica non è sempre il riflesso del paese, non solo perché, come ben sappiamo, i sistemi elettorali possono facilmente falsarla, ma anche perché è molto probabile che dopo la sua investitura elettorale le opinioni dei cittadini cambino anche se si tratta di un mutamento solo sentito e percepito. Dalla primavera del 2008 ad oggi molte cose sono avvenute che hanno incrinato il consenso alla maggioranza. Elencarle vorrebbe dire fare una lunga lista di scandali e casi di corruzione ai quali sono seguiti pochissimi casi di dimissioni e invece molte dichiarazioni diffamanti e attacchi agli organi giudiziari e alla stampa o alle istituzioni che osavano bloccare provvedimenti o limitare i danni di decisioni prese. Dopo tre anni gli italiani hanno dimostrato di non gradire più la politica e i comportamenti di questa maggioranza. Lo hanno dimostrato indirettamente nelle elezioni amministrative e con i quattro referendum. La loro voce aveva un senso assai chiaro, ma la classe politica nazionale ha adottato la strategia della sordità e dell´indifferenza. Siccome non si è trattato di elezioni politiche, si è detto, tutto deve e può continuare come prima, e se possibile più spavaldamente di prima. I tiri mancini tra i membri del governo e il clima da rissa di cui la maggioranza ha dato spettacolo in Parlamento e fuori (salvo ripetere ai fedeli inossidabili che tutto va per il meglio e questo è il migliore dei governi possibili) ha del surreale e del tragicomico. Non migliora l´immagine della nostra classe politica il comportamento di pusillanime codardia di un Pd che non mantiene saldo neppure il suo programma politico (abolizione delle Province) e sembra quasi che abbia timore di essere maggioranza nell´opinione del paese.
Tutto porta ad allargare invece che accorciare il distacco tra la politica dentro e la politica fuori delle istituzioni. Un segno nemmeno troppo criptico di una rappresentanza politica malata e zoppa, alla quale si adatta bene la descrizione di Lewis Namier della classe politica inglese alla vigilia dell´indipendenza americana: faziosa, corrotta, famelica e indifferente all´opinione del paese. Ora, se è vero che sono le elezioni a dare autorevolezza sovrana all´opinione dei cittadini, è altresì vero che nel tempo che intercorre tra due tornate elettorali non sta scritto da nessuna parte che gli eletti e il governo possano fare e disfare a loro piacimento ciò che vogliono (facendo grande affidamento sulla memoria corta dell´opinione mediatica). Tra un´elezione e l´altra la rappresentanza dovrebbe mantenere un dialogo informale con la società, registrarne gli umori, anche quelli sfavorevoli, interessarsi insomma non solo del voto dei cittadini ma anche delle loro opinioni. L´impressione invece è che a chi governa interessi davvero soltanto far sì che l´opinione venga via via riportata nell´alveo dell´accondiscendenza, che essa sia da ascoltare solo quando è addomesticata. Anche a costo di mettere un macigno tra i fatti e le parole.
Un esempio: la discussione sulla manovra che dissanguerà le amministrazioni locali, il servizio sanitario nazionale e tutto ciò che è pubblico, a cominciare ovviamente dalla scuola (la perenne punita di questo governo) e dai servizi sociali di sostegno a chi ha più bisogno come anziani e handicappati, ebbene questa discussione non ha mostrato grande interesse per ciò che gli italiani saranno costretti ancora una volta a subire senza possibilità alcuna di far sentire la loro voce e, anzi, contraddetti dal Presidente del Consiglio (che ha voce potentissima) il quale continua imperterrito a ripetere che il governo, contrariamente a quello di altri paesi europei, "non metterà le mani delle tasche degli italiani". Ma come giustificare questa affermazione con i tagli che toglieranno molti soldi dalle tasche degli italiani togliendo loro servizi e sostengo senza dare loro alcuna certezza dell´efficacia dei loro sacrifici, come ha spiegato Tito Boeri su questo giornale? Non si giustifica infatti, ma lo si ignora e lo si nega. E come giustificarla con la riforma che scippa alle donne i risparmi derivanti dall´aumento dell´età della pensione nel pubblico impiego (3 miliardi e mezzo nei prossimi sette anni) senza alcuna politica programmatica che si impegni se non altro a usare queste risorse a beneficio del lavoro delle donne?
Non pare esserci rispondenza tra parole e interessi di chi governa e interessi e vita di chi opera e lavora. Una schizofrenia che raggiunge l´apice nelle parole del Presidente del Consiglio nell´intervista rilasciata a Repubblica, una riprova ulteriore di assenza di dimestichezza con la politica democratica. È infatti il leader che decide chi andrà e dove, descrivendo la geografia umana e politica delle istituzioni di domani: dal Quirinale al Governo. Come se a lui spetti preparare il nostro futuro: non quello del suo partito, si badi bene, ma il nostro. L´Italia come una sua azienda della quale l´amministratore delegato disegna l´organigramma, dove poco o nulla conta che ci sia una cittadinanza, salvo il fatto che è "un mercato di consenso e di voti". E perché il mercato risponda a chi investe secondo le aspettative tutte le energie verranno messe in moto; c´è chi parla "per gli elettori" (ovvero dice ciò che è conveniente dire, non ciò che è per noi conveniente sapere) e c´è chi parla "per i mercati": un ministro per le orecchie del popolo e uno per quelle degli investitori. Dove stia il vero è e resta un rebus. L´accountability, il rendere conto, da cui dipende la differenza tra democrazia elettorale e oligarchia eletta, è violata senza alcun scrupolo. Se la classe politica alla quale il governo rappresentativo e costituzionale da vita è, come ci spiega Peter Oborne, una leadership che ha internalizzato l´idea di dovere pubblico perché ha gradualmente appreso a distinguere ciò che è nell´interesse di sé come gruppo o partito da ciò che è nell´interesse del paese, l´Italia di oggi non ha una classe politica.
La vicenda delle province e del tanto chiacchierato voto alla Camera un merito ce l’ha, ed è quello di avere finalmente riportato in primo piano aspetti rimasti finora sullo sfondo o del tutto ignorati. Intendiamoci, non poche reazioni di autorevoli esponenti politici anche del centro sinistra non brillano e non aiutano molto a dare risposte serie e non demagogiche. Quasi si fosse finalmente scoperto dove si annidano i famigerati centri di poteri di una casta insaziabile, superstipendiata e spendacciona, come la pipa che stavamo cercando e l’avevamo in bocca; le province. Il tutto accompagnato da dichiarazioni tipo; servono le unioni comunali, si potrebbe pensare anche ad una elezione non diretta, dimenticando o ignorando che queste ipotesi e esigenze che, abbiano o no qualche validità, non hanno certo il pregio della novità e in qualche caso sono anche già state sperimentate.
Il punto, infatti, che stenta ancora ad emergere è che non stiamo parlando solo di gestione su cui si dicono anche cose strambe come quella che le province gestirebbero solo le strade; questo era vero negli anni 70, ma non lo è più da tempo. In ogni caso anche gli esempi che ricorrono più spesso sono i consorzi, gli enti e così via che gestiscono generalmente specifici aspetti settoriali dalla bonifica agli ATO e che potrebbero essere sciolti per affidare i loro compiti alle province o alle unioni dei comuni. Ma da quando sono state istituite le regioni, rinnovate le leggi degli enti locali, diversamente ripartite le competenze su una diversa e nuova scala istituzionale statale, regionale e locale e spesso in rapporto con le nuove competenze comunitarie, è il governo complessivo del territorio che ha registrato la maggiori innovazioni prima con la legge 183 sul suolo e poi dal 91 la legge quadro sui parchi preceduta peraltro da importanti e innovative leggi regionali. E’ anche - se non soprattutto - in conseguenza di questo nuovo ingresso istituzionale nella gestione del territorio e dell’ambiente che anche gli enti locali non hanno dovuto occuparsi più solo di strade o di manicomi. Le autorità di bacino con i loro piani idrogeologici e i parchi ugualmente con i loro piani non urbanistici ma ambientali, aprono un nuovo capitolo anche per gli enti locali, oltre che per le regioni e lo stato che devono agire su dimensioni e scale ormai non più soltanto intercomunali o interprovinciali ma anche interregionali e internazionali. Colpisce non poco perciò, che questo improvviso riaccendersi di polemiche sull’area vasta ignori che quelle dimensioni ineludibili dei bacini come dei parchi, non coincidono quasi mai con i confini amministrativi persino statali; vedi Santuario dei cetacei, vedi Convenzione alpina. Lo stesso si può dire per il paesaggio che il nuovo codice è tornato a separare da quella connessione e integrazione sancita dalla Convenzione europea, ma anche da quelle leggi prima richiamate. Sarà un caso, ma in queste roventi polemiche dopo il voto della Camera, che sembra abbia fatto scoprire a più d’uno che avevamo deciso da tempo - ma non è vero - di abrogare le province, nessuno di quelli che straparlano di strade non citino mai i piano territoriale di coordinamento, ossia strumenti preposti a quel governo del territorio di cui si sono perse le tracce e non solo a Pontida. Che l’area vasta abbia così perso smalto e in troppe situazioni abbia lasciato il passo a dimensioni assai meno vaste, è dovuto anche al fatto che quelle nuove scale di governo del territorio ricordate, sono state penalizzate, azzoppate, modificate senza che nessuno o quasi - anche di quelli che oggi si sbracciano sulle province - battessero ciglio, a cominciare dal parlamento.
Che il bacino del Magra sia unico ma riguardi due regioni, Toscana e Liguria e che due dei tre parchi nazionali - sempre in Toscana - siano interregionali ossia tosco-emiliani, che Liguria e Toscana con la Sardegna siano nel Santuario dei cetacei con la Francia e il principato di Monaco, non pone qualche problema anche alle aggregazioni intercomunali o a quelle aggregazioni di più province di cui si sta parlando senza per la verità molto coinvolgimento nonostante la nostra legge regionale sulla partecipazione?
Prima di votare in consiglio regionale non sarebbe stato preferibile - tanto più che talune questioni hanno dimensione nazionale - coinvolgere più soggetti per evitare quello che teme Marras, e cioè che il tutto serva a poco? Ecco perché il riordino o se si preferisce la riforma delle istituzioni non può essere confinata nel capitolo della lotta alla casta e dei privilegi della politica. Qui è facile fare demagogia, sul resto non perché servono idee serie e non bastano di sicuro le battute sulla rottamazione.
Il progetto di trasformazione della centrale termoelettrica di Porto Tolle da olio combustibile a carbone sta vivendo fasi concitate degne di un thriller giudiziario ad altissima tensione. In questo caso, però, la posta in gioco non è virtuale, ma è la salute dei cittadini e la qualità ambientale di una delle zone di maggior rilievo naturalistico d’Europa. Parliamo del Parco del delta del Po, che già aveva dovuto subire, a partire dagli anni ’70, un disastroso impatto ambientale per la costruzione della centrale tuttora esistente.
Incuranti delle normative che prescrivono, per le centrali ubicate nei territori dei Comuni del Parco l’uso del metano o di altro combustile a minore impatto e per superare la sentenza del Consiglio di Stato che , su ricorso di Italia Nostra e di altre Associazioni, ha recentemente (23 maggio 2011) annullato una scandalosa valutazione di impatto ambientale sottoscritta dal Ministero dell’Ambiente e favorevole alla trasformazione, Enel e Regione Veneto propugnano ora un disegno di legge che dovrebbe modificare la LR istitutiva del Parco.
Ma non solo, da una verifica sul recentissimo testo del Decreto legge “Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria” risultano, all’art. 35, due provvidenziali commi studiati appositamente per rendere possibile il progetto di trasformazione: siamo alla versione energetica delle leggi ad aziendam!
Italia Nostra si schiera contro questo progetto per difendere un’area ambientale preziosissima e fragile, riaffermare le ragioni di una politica energetica che si fondi su studi scientifici chiari e rigorosi e non sui pressapochismi ossimorici del carbone “pulito” e ribadire, con forza, la necessità di un ripristino della legalità.
Come ormai troppo spesso succede anche in altre situazioni analoghe, infatti, questa vicenda è accompagnata da palesi abusi normativi, da omissioni e da ripetuti tentativi di addomesticamento delle leggi: ogni attentato alla legalità è una ferita alla democrazia.
Ferita ribadita, peraltro, dalle distorsioni informative di questi mesi e, in particolare, di queste ultime settimane, operate da chi, per coprire gli interessi economici in gioco, non ha esitato ad oscurare le ragioni di chi come Italia Nostra si oppone al progetto e ad usare tutta la panoplia ricattatoria relativa alla perdita dei posti di lavoro in caso di annullamento della riconversione a carbone.
Eppure a fianco di Italia Nostra si sono schierati, da subito, gli operatori turistici, i pescatori, gli agricoltori, tutti i cittadini consapevoli che esistono modelli di sviluppo alternativi ed ecosostenibili in grado di garantire un grado di benessere e di qualità della vita e dell’ambiente incomparabilmente superiore e duraturo nel tempo rispetto a quello arcaico, ecologicamente e tecnologicamente, proposto da Enel.
Per illustrare le proprie ragioni assieme alle altre Associazioni (Legambiente, WWF, Greenpeace) e comitati che condivono questa battaglia, Italia Nostra organizza per martedì 12 luglio a Rovigo un incontro pubblico a cui sono invitati tutti i cittadini.
Sul sito nazionale di Italia Nostra, inoltre, è possibile consultare, con aggiornamenti costanti, documenti e la rassegna stampa relativa all’intera vicenda.
Lasciateci i vostri commenti: Porto Tolle rappresenta un caso esemplare di disinformazione e di prevaricazione dei nostri diritti ambientali e sociali, in questo senso ci riguarda tutti.
La Repubblica
Se sui campi dell´Expo nascerà solo cemento
di Carlo Petrini
L’hidalgo Vicente Loscertales, segretario generale del Bie in visita a Milano qualche giorno fa, avrebbe «messo una pietra tombale» sul masterplan dell’Expo 2015, il progetto che contemplava tanti orti e altri esempi di produzioni alimentari per rappresentare la biodiversità globale e come si nutre il Pianeta. «No a una ripetizione di campi», ha detto. Ha usato queste parole: «Non è per vedere tanti orti tutti uguali che 150mila visitatori al giorno pagheranno un biglietto. Le distese di melanzane sono uguali in Italia o in Togo. Il tema di Expo, "Nutrire il Pianeta", è più complesso: per vivere serve più di un orto, non vuol dire che dobbiamo essere tutti vegetariani». Detto da uno che si è sempre occupato di cooperazione internazionale e ha approvato il tema con cui Milano ha vinto l’Expo a Parigi nell’ormai lontano 2008 suona come una rivelazione d’incompetenza, sufficienza e ignoranza colossale.
Non aver capito niente del masterplan dopo così tanto tempo è sconcertante, ma bisogna prenderne atto. Siccome al Bie l’unica cosa che interessa sono le royalties che prenderanno su ogni biglietto staccato durante l’Expo, è chiaro che la sua visionarietà - e quella di tutti coloro che gli sono andati dietro sottoscrivendo la sua pochezza - si riduce a quello: pecunia. Ciò che ha guidato sin qui ogni mossa, ogni parola, ogni intendimento lasciando la macchina organizzativa senza uno straccio d’idea su come si farà questa imponente manifestazione. E i tempi stringono come non mai.
«Bisogna dare un’accelerata», dicono, e infatti nel mese di luglio consiglio comunale e giunta milanese dovranno fare alcuni passaggi decisivi e molto delicati per quei nuovi equilibri politici che hanno fatto sognare molti milanesi nel dopo-elezioni. L’area dove sorgerà l’Expo, a meno di quattro anni dalla manifestazione, è ancora in mano ai privati. Il Comune dovrebbe cambiare l’indice di edificabilità, perché altrimenti il prezzo sarebbe quello agricolo: si propone un indice che calcolato sugli ettari totali darebbe origine, nel dopo-Expo, o a una piccola Manhattan (se edificata in altezza) o alla costruzione su tutta l’area di un nuovo quartiere. Peccato che questo vada contro la volontà dei cittadini, che si sono espressi con un referendum che parla chiaro: i milanesi lì sopra ci vogliono un parco agroalimentare e la salvaguardia dalla cementificazione. La patata in mano al consiglio comunale non è bollente, di più. I contratti vanno fatti adesso perché le ruspe dovranno entrare in azione a ottobre.
Questa fretta nel decidere e le casse vuote del Comune non sono imputabili ai nuovi eletti. Perché dovrebbero digerire la polpetta avvelenata di una becera speculazione che non rappresenta il nuovo corso milanese? Intanto, gli abitanti di Milano stanno iniziando a mobilitarsi. È difficile prevedere cosa succederà, ed è anche comprensibile che nessuno stia paventando di lasciar perdere l’Expo (cosa che pur avrebbe i suoi perché): sarebbe una sconfitta politica e sarebbe come dire che ci sono soltanto due alternative, le speculazioni edilizie o il nulla. La terza via invece c’era sin dall’inizio, e non era soltanto un orto. Un parco complesso come complesso è il tema che si è data la manifestazione, un nodo cruciale per il futuro di tutto il Pianeta. Era l’occasione unica per l’Expo di diventare qualcosa di nuovo in un mondo che ha bisogno di nuovi paradigmi. Si è persa l’occasione per mobilitare grandi masse di giovani e meno giovani per interrogarsi sulla domanda crescente di cibo, sul cambiamento del clima e sull’avanzare delle zone aride, sulla sicurezza alimentare, sul complesso rapporto città-campagna; tutto questo non in una dimensione bucolica o poetica, ma con il pieno coinvolgimento della piccola produzione, dell’artigianato e dell’industria alimentare. Chiamando in causa anche il mondo della ricerca, delle nuove tecnologie, e garantendo comunque quel piacere alimentare che tutte le comunità del mondo hanno saputo esprimere nei secoli. Questo era l’Expo da auspicare, che avrebbe fatto di Milano un laboratorio del futuro.
Ma sono mancate la politica, la cultura, il progetto, il coraggio, e con il falso pragmatismo che chiede di costruire una kermesse turistica e intanto si sono persi il tempo e il sogno. L’Expo è così diventata una mastodontica macchina invecchiata su se stessa, valida per le masse cinesi, ma che ha perso da decenni la capacità di essere fulcro d’innovazione.
Giunti a questo punto, chiederei che almeno cambino il tema e che ognuno faccia il suo mestiere. Perché c’è spazio per un grande progetto politico nella nuova Milano, partendo dall’agricoltura periurbana di questa grande città, per poi guardare al mondo nel 2015 con una grande chiamata alle reti di donne, giovani, contadini e cittadini che rivolgono lo sguardo a un futuro basato su un concetto di alimentazione che rispetti la terra e i suoi figli. Il giocattolo Expo sarà altra cosa e, viste le figure che stanno facendo mentre il tempo passa e resta un vuoto colossale d’idee, la figura da peraccottai diventerà presto globale. Quella sì, è uguale in Italia come in Togo.
La Repubblica
Pisapia firma l’Expo della Moratti
di Alessia Galione
La firma all’accordo urbanistico di Expo verrà firmato oggi: nella variante c’è lo stesso indice e la stessa quota di costruzioni (400mila metri quadrati) già previste ai tempi della giunta Moratti. Il Pdl esulta: «Scelta la continuità». Basilio Rizzo annuncia, se non ci saranno cambiamenti, un voto contrario. Ma è proprio sull’eredità del 2015 che Giuliano Pisapia inizierà la vera trattativa anche attraverso le quote della newco: «L’importante - dice il sindaco - è che la maggior parte dell’area resti verde». Il Pd presenterà un ordine del giorno per limitare l’impatto del cemento.
E a siglare il verbale conclusivo del documento che darà il via libera alla trasformazione dei terreni di Rho-Pero e ai cantieri del 2015 saranno tutti i protagonisti della partita: da Palazzo Marino alla Regione, dal Comune di Rho alla Provincia fino alle Poste. È il passo atteso, dopo l’ultimatum del Bie, per far partire la macchina dell’Esposizione, sbloccare le gare e permettere l’arrivo (a ottobre) delle ruspe su quel milione di metri quadrati.
Eccolo, il documento atteso che oggi verrà siglato e che, domani, dovrà essere votato dalla giunta comunale per poi (entro 30 giorni) sbarcare in Consiglio per l’approvazione finale. «Arriva a termine un altro percorso essenziale per la realizzazione di Expo - dice il presidente della Regione Roberto Formigoni - l’accordo è forte, solido e va nella direzione giusta». In tutto sono 35 pagine di articoli e premesse e 11 allegati tra cui uno fondamentale: è la variante urbanistica che rende edificabile il milione di metri quadrati oggi agricoli e mette le basi per «la riqualificazione dell’area successivamente allo svolgimento dell’evento». Ed è proprio attorno a questa variante che si è giocata e si giocherà una battaglia politica. Impossibile, dicono da Palazzo Marino, cambiarla in corsa: troppo il pericolo di bloccare tutto l’Expo. Anche se la corsa non è finita qui. Ma cosa si prevede per il post-2015? Quando i padiglioni verranno smontati, su quell’area si potrà costruire sfruttando un indice di edificabilità di 0,52 metri quadrati su metro quadrato: in tutto oltre 400mila metri quadrati, senza contare gli edifici dell’Esposizione permanenti. Le costruzioni non potranno essere distribuite sull’intera superficie, ma il 56 per cento dei terreni dovrà essere mantenuto a verde. Contenuti identici a quelli studiati dalla giunta di centrodestra, sottolinea l’ex assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli: «È una decisione positiva di continuità con il passato. Finalmente un passo indietro dell’estrema sinistra e di Boeri». Anche l’ex sindaco Letizia Moratti lo sottolinea non senza un fondo polemico: «Vuol dire che avevamo fatto le cose per bene». Dal Pd, la capogruppo in consiglio comunale Carmela Rozza in questo momento punta però sull’importanza di non bloccare il percorso verso il 2015: «La strada maestra è fare in modo che Expo parta il prima possibile perché sono stati già persi tre anni», dice. Ma, dopo la giunta che si riunirà domani per dare il via libera all’accordo, la discussione è destinata a spostarsi in Consiglio.
Il documento che verrà siglato oggi nella sede di Expo è considerato da tutti il passo concreto verso le gare e le ruspe. All’interno si cita anche la newco che dovrà acquisire i terreni e si mettono le basi dell’interno percorso. A vigilare su impegni e accordi sarà un "Collegio di vigilanza" presieduto dal sindaco Giuliano Pisapia che potrà apportare anche modifiche in corso. A firmare sarà anche il neo sindaco di centrosinistra di Rho, Pietro Romano. Che esprime la soddisfazione per una serie di nodi - dalla viabilità ai parcheggi - che si sono sciolti. «Sono state rispettate le condizioni che il territorio aveva richiesto», dice. E sulla variante urbanistica: «Non c’era più tempo per cambiarla, ma la vera partita sul dopo-Expo si giocherà successivamente attraverso la newco».
Pisapia gioca l’ultima carta "Nella newco la vera trattativa"
Si giocherà tutta sul post-2015 la partita di Expo. Su quanto cemento colerà sul milione di metri quadrati di Rho-Pero e, soprattutto, su cosa verrà realizzato dopo che i padiglioni verranno smontati. Perché è quello il nodo centrale attorno a cui ruotano anche tutti i dubbi e i tormenti di pezzi importanti del centrosinistra. E perché è lì, sull’eredità che l’Esposizione dovrà lasciare la città, che Giuliano Pisapia punterà per lanciare un segnale di discontinuità rispetto alla giunta Moratti. Un tentativo di migliorare tutto quello che si potrà migliorare, salvaguardando il parco e vincolando il futuro a una funzione pubblica per tutta la città. Che viene affidato, però, a due passi successivi rispetto all’accordo di programma che verrà firmato oggi: il voto in consiglio comunale e, soprattutto, le trattative all’interno della società a maggioranza pubblica che acquisirà le aree. Ed è proprio la newco la vera chiave per decidere le sorti di Expo.
Alla fine è toccato al sindaco, ieri pomeriggio, scandire una rassicurazione politica sullo sviluppo dell’area. Un messaggio che Giuliano Pisapia ha voluto dare alla sua maggioranza che avrebbe voluto un cambiamento più profondo sulla variante urbanistica avviata dalla Moratti. È toccato a lui ribadire: «L’importante è che la maggior parte delle aree resti a verde: una quota dal 52 al 58 per cento, come hanno chiesto i milanesi con il referendum e come dicono le linee politiche dell’attuale maggioranza». La promessa di una discussione (futura) sulla quantità di costruzioni del post 2015: quello 0,52 previsto nell’accordo «è un indice massimo, ma non significa che sarà quello utilizzato». Sarà oggetto di trattative all’interno della newco. Perché, spiega ancora Pisapia, «chi ha la proprietà dei terreni farà le valutazioni sugli indici di edificabilità». Ed è per questo che sarà importante «avere lo stesso potere di veto» degli altri soggetti. Affidata al futuro è anche la decisione su cosa potrà essere costruito dopo: nell’accordo si parla di 30mila metri quadrati - su 400mila - di housing sociale. Ma per il resto? Arriverà la Rai? Torneranno in ballo le ipotesi di trasferimento dell’Ortomercato e della Cittadella della giustizia?
Parole necessarie, quelle del sindaco. Perché i dubbi del centrosinistra hanno tormentato un’altra vigilia di Expo. Il presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo lo dice chiaramente: «Se l’accordo è quello del sindaco Moratti contro cui mi ero battuto, non penso che potrò cambiare opinione. Spero che si possano introdurre cambiamenti significativi perché non possono nascere operazioni speculative». In pratica: se sull’area arriverà un quartiere residenziale di lusso, lui non voterà l’accordo. Ma anche il Pd, con in testa Stefano Boeri, da tempo sta cercando margini di miglioramento. Un piano che la giunta Pisapia ha ereditato e che sembrava impossibile bloccare senza paralizzare gare e cantieri. Con un’unica via d’uscita per il sindaco: puntare le carte su passi successivi. Si inizia dal consiglio comunale, dove il Pd presenterà un ordine del giorno che impegnerà politicamente la giunta a vincolare lo sviluppo futuro a una funzione pubblica, riducendo il più possibile l’indice edificatorio.
La Repubblica
Ermolli: niente rischi per il 2015 ma bisogna comunicare meglio
intervista a Bruno Ermolli della Camera di Commercio,
di Andrea Montanari
Bruno Ermolli, presidente di Promos, l’azienda speciale della Camera di Commercio, e uno dei consiglieri più ascoltati da Silvio Berlusconi, coglie l’occasione della conferenza euro-araba sulle piccole e medie imprese, per fare il punto su Expo 2015.
Presidente Ermolli, il Bie di recente ha lanciato una sorta di allarme. Bisogna nominare un nuovo commissario?
«In politica preferisco sempre non entrare. Esiste una società di gestione. Però, se c’è stato prima un commissario, o era inutile e io non credo o è utile anche oggi. Il fatto che ci sia è benvenuto. Perché dovrebbe avere dei poteri per accelerare ciò che è ritenuto indispensabile».
Il Bie, però, per la prima volta sembra preoccupato.
«Non siamo in ritardo. Andiamo a vedere che cosa è successo in Cina. Abbiamo iniziato a dire che eravamo in ritardo quasi a sette anni data. Poi a sei, a cinque. In realtà, è un discorso sistemico. Se c’è una progettazione esecutiva estremamente chiara la realizzazione fisica si fa in un anno e mezzo come a
Shanghai. Noi magari ce ne metteremo due e mezzo, ma non precipitiamo».
Parigi dice che le prime gare devono partire entro luglio.
«È una deadline che viene posta dal Bie e dobbiamo rispettarla. Ma in chiave organizzativa non siamo in ritardo».
Vede dei rischi?
«C’è la necessità di comunicare di più e meglio. Bisogna far metabolizzare l’importanza dell’organizzazione di un’Expo di questo genere ai milanesi e poi se possibile al resto degli italiani. Non si tratta solo di una grande fiera, ma di una grandissima occasione di vetrina per tutte le nostre eccellenze che possono essere presentate al mondo in un modo molto più facile».
Che cosa intende dire?
«Ci si sofferma sempre sul numero dei visitatori, ma è l’indotto quello che conta. La ricaduta che potrà avere. Le imprese che potranno nascere».
Per esempio?
«L’alimentazione italiana è salubre. Se la paragoniamo a quella statunitense ci rendiamo subito conto che la nostra sembra quasi predisposta da un dietologo. In questo campo noi possiamo diventare ufficialmente i leader nel mondo. È un’occasione da cogliere. Altro esempio. Abbiamo una Milano inquinata. Con i nove tavoli spontanei che abbiamo organizzato abbiamo coniato lo slogan Milano come Saint Moritz nel 2030. Ci sono dei brevetti che non sarebbero mai nati se non ci fossimo posti il problemi di come sarà il traffico all’epoca di Expo. A2A si è addirittura fatta coinvolgere in un progetto per produrre di aria pulita. Queste sono le ricadute. Invece si continua solo a parlare del resto».
Cioè?
«Ora che la vicenda dei terreni è stata risolta, bisogna concentrarsi su come saper cogliere tutte le ricadute economiche e culturali dell’Expo».
Corriere della Sera
Continuità per Expo Ma la sinistra critica Pisapia
di Andrea Senesi
L' ex sindaco Letizia Moratti lo dice con una punta di perfidia: «Stanno per firmare un accordo di programma che ricalca gli impegni presi dalla mia amministrazione. Evidentemente non abbiamo lavorato così male» . La firma è attesa per stamani alle nove in via Rovello, la sede della società Expo 2015.
L’accordo che le parti sottoscriveranno e che servirà a modificare la destinazione d’uso dei terreni di Rho-Pero prevede certo la realizzazione del grande parco urbano da 800 ettari, ma allo stesso modo mette nero su bianco la quantità di volumetrie da edificare dopo l’evento del 2015. Con l’indice dello 0,52 come tetto massimo.
«Expo non si può fermare, gli impegni presi davanti al Bie vanno rispettati» , è la linea scelta da Palazzo Marino. Dove però si conta di modificare in corso d’opera alcuni contenuti del protocollo. Anche perché dietro la firma di stamani si nasconde una vigilia di tensioni, anche all’interno del Pd. Alla fine il compromesso raggiunto è che si lavorerà in Consiglio per emendare alcune passaggi dell’accordo. Il presidente dell’aula, Basilio Rizzo (Federazione della Sinistra), mette però le mani avanti: «Se fossero confermati i contenuti di aprile, io per coerenza non potrei votare la delibera» . Il sindaco Giuliano Pisapia preferisce invece mettere l’accento sulla futura governance della società che acquisirà i terreni.
Conferma che il Comune entrerà con una quota di minoranza, tra il 25 e il 33, ma sottolinea l’opportunità di ottenere dagli altri soci un significativo potere di veto all’interno della newCo. «Noi lavoriamo per avere lo stesso potere di veto degli altri soggetti su qualsiasi decisione, indipendentemente dalla percentuale di partecipazione nella società» . Lo strumento per ottenere il potere di veto, ha aggiunto ieri Pisapia a margine del Consiglio comunale, «possono essere patti parasociali, così come accordi sulla governance» . Anche il neocapogruppo del Pdl (ed ex assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli) plaude però alla scelta dell’amministrazione Pisapia: «Finalmente un passo indietro dell’estrema sinistra e di Boeri. Siamo contenti che si sia scelta la continuità con il passato» .
Expo 2015, Elio scrive a Pisapia:
“Niente cemento, o si finisce all’inferno”
In un articolo scritto per il Fatto, il cantante degli Elio e le storie Tese invita il sindaco di Milano e Roberto Formigoni a non snaturare il progetto dell'esposizione del 2015 e a realizzare gli orti planetari
Nei prossimi giorni, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e il presidente della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, firmeranno l’Accordo di programma per l’Expo. Elio, di Elio e le Storie tese, lancia a Pisapia questo appello: non accetti il cemento, non cada nella trappola che sta snaturando il progetto degli orti planetari per trasformare l’Expo 2015 in affari cementificazione.
Roberto Formigoni andrà all’inferno. Uno come lui, che appartiene a Comunione e liberazione e dice di credere in Dio, deve sapere che la cementificazione è uno dei peccati più gravi che possono essere commessi. Certo, quando sono state scritte le Tavole della Legge, quel peccato non esisteva ancora e non era neppure immaginabile, ma se fossero scritte oggi, le Tavole della Legge, la cementificazione sarebbe uno dei peccati più gravi in assoluto, perché ha conseguenze pesanti sulla vita nostra, dei nostri figli e dei figli dei figli.
Io sono nato in una zona di Milano in cui negli anni Ottanta sono state costruite quattro torri, orribili. Sono ancora lì. E sono vuote. Vogliamo continuare così? L’Expo di Milano 2015 era nato con una idea bellissima: creare degli orti planetari con le coltivazioni di tutto il mondo. Finita l’esposizione universale, sarebbe rimasto alla città un grande parco con le biodiversità del pianeta: una cosa che non esiste in nessuna altra parte del mondo. Ma ora l’Expo si sta invece dimostrando un trucco: prendere aree che oggi sono agricole e trasformarle in aree edificabili, cementificando e costruendo l’equivalente di venti nuovi Pirelloni, il grattacielo di via Melchiorre Gioia detto Formigone, costruito come nuova sede della Regione dopo aver abbattuto il Parco di Gioia, altro grave crimine o peccato.
La volontà dei cittadini milanesi si è espressa in modo molto chiaro nel referendum del 12 e 13 giugno. Oltre ai quattro referendum nazionali, a Milano ce n’erano altri cinque, consultivi, sull’ambiente. Uno di questi chiedeva: volete che resti a parco l’area dell’Expo, una volta finito l’evento del 2015? Hanno vinto i sì. Dunque Formigoni non può andare contro la volontà dei cittadini. I milanesi che hanno espresso la loro volontà in modo tanto chiaro, adesso devono farsi sentire.
Altrimenti continuerà a succedere quello che è successo in questi vent’anni di cattiva amministrazione della città. In questi decenni sono scomparse tante cose che caratterizzavano Milano: la Centrale del latte, la Fiera campionaria… E la Scala? È stata oltraggiata dal restauro. Non è stata restaurata: le hanno aggiunto sul tetto una clinica svizzera. L’anima di una città è fatta di tante cose concrete. Ebbene, la cosa più grave successa a Milano in questi anni è che ha perso la sua anima. E i cittadini hanno così perso il legame con la loro città.
La grandezza della idea dell’Expo era poter fare qualcosa che mostrasse la città com’era, collegandola alla città che sarà. Invece si è passati alla furbata di prendere prati e trasformarli in cantieri e poi in palazzi e grattacieli. Così un’area che valeva uno viene trasformata in un affare che vale mille. Soldi e cemento. Ma chi ci guadagna? Non certo noi cittadini, non certo i nostri figli e i figli dei nostri figli. Allora, milanesi, alzate la voce! Facciamo rispettare la nostra volontà espressa nel referendum. E tu, caro sindaco Giuliano Pisapia, non cadere nel tranello di Formigoni, che ti dice: o fai come dico io, oppure l’Expo non si fa e Milano farà una figuraccia planetaria. Così dicono: o si fa come vogliono loro, o niente. Ma è possibile? Non si riesce davvero a salvare il parco degli orti, o almeno a costruire di meno? Io credo che se i cittadini faranno sentire la loro voce, potremo evitare una nuova, inutile supercementificazione, fatta con la scusa dell’Expo. Formigonideve pensarci, altrimenti l’inferno lo aspetta.
Affaritaliani.it
Aree Expo, la firma dell'accordo. Pd: ormai è tardi per cambiarlo
"L'Expo è una partita in corsa, ormai è tardi per cambiare il programma".Carmela Rozza, capogruppo del Pd o in Consiglio, spiega adAffaritaliani.itla posizione del partito rispetto all'accordo sui terreni Expo firmato da Comune e Regione.
Malumori nel Pd?
"La questione è un'altra: non ci sono i tempi per fare grandi cambiamenti. E' la stessa posizione di coerenza che ho preso anche sul Pgt. L'Expo è un treno in corsa, abbiamo già buttato via tre anni. Oggi non ci sono i tempi per fare le cose come avremmo voluto. Piuttosto che arrivare tardi o non farla proprio si fa avanti così. Poi il Pd abbinerà alla delibera un ordine del giorno dove cercheremo di stabilire degli impegni per la giunta nella fase posteriore al progetto il cui obiettivo sarà il rispetto dell'ultizzo dell'area per una grande funzione pubblica. Cercando di dare un senso migliore. E poi...".
Dica?
"Anche attraverso il Pgt si può cercare di limare l'accordo di programma".
Che cosa pensa dei 400 metri quadrati edificabili?
"Potrebbe farsi housing sociale che è una grande funzione pubblica".
Stessa quota di cemento e stessa percentuale di verde pubblico.
Il sindaco Pisapia e il governatore Roberto Formigoni firmano l'accordo sui terreni dell'Expo. È il passo atteso, dopo l’ultimatum del Bie, per far partire la macchina dell’Esposizione,sbloccare le gare e permettere l’arrivo (a ottobre) delle ruspe su quel milione di metri quadrati. Ma che cosa prevede l'accordo? Dopo l'Expo su quell’area si potrà costruire sfruttando un indice di edificabilità di 0,52 metri quadrati su metro quadrato: in tutto oltre 400mila metri quadrati, senza contare gli edifici dell’Esposizione permanenti. Le costruzioni non potranno essere distribuite sull’intera superficie, ma il 56 per cento dei terreni dovrà essere mantenuto a verde.
Contenuti identici a quelli studiati dalla giunta di centrodestra
Lo sottolinea l’ex assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli: "È una decisione positiva di continuità con il passato. Finalmente un passo indietro dell’estrema sinistra e di Boeri". Anche l’ex sindaco Letizia Moratti lo sottolinea non senza un fondo polemico: "Vuol dire che avevamo fatto le cose per bene".
Malumori a sinistra e nel Pd.
La capogruppo democratica in consiglio comunale Carmela Rozza punta sull’importanza di non bloccare il percorso verso il 2015: "La strada maestra è fare in modo che Expo parta il prima possibile perché sono stati già persi tre anni", afferma. IL presidente dell'Aula Basilio Rizzo (Federazione della Sinistra) non è però dello stesso avviso e mette le mani avanti: "Se fossero confermati i contenuti di aprile, io per coerenza non potrei votare la delibera", precisa. La partita Expo è solo all'inizio.
il Giornale
Expo, Pd e sinistra vogliono demolire l’intesa sull’edificabilità delle aree
Expo? «Abbiamo ancora dei punti di criticità ma io sono convinto che si possano risolvere oggi stesso». Parola di Giuliano Pisapia, alla vigilia della firma dell’accordo di programma sulle aree che ospiteranno la manifestazione del 2015. L’«oggi» di Pisapia era ieri, perché questa mattina in via Rovello è attesa la sigla finale sugli impegni. Promotore il Comune di Milano con Regione, Provincia, Comune di Rho e Poste Italiane spa, aderiscono la società di gestione Expo 2015 e Arexpo, la newco a maggioranza pubblica al momento interamente della Regione. Poi mercoledì il testo arriverà in giunta e infine in consiglio comunale per l’approvazione finale. Ma il tempo promette burrasca.
Così com’è, l’accordo non piace al Pd, che è pronto a dare battaglia in giunta, né al suo assessore Stefano Boeri e neanche alla sinistra radicale. Tutti chiedono modifiche. Basilio Rizzo, presidente del consiglio comunale, annuncia il suo voto contrario: «Se, e sottolineo se, il testo è uguale a quello di aprile della Moratti, io voterò no per coerenza». Il capogruppo del Pdl, Carlo Masseroli, ironizza: «Ho l’impressione che si arrampichino sui vetri inventando soluzioni inopportune. Qualsiasi passo indietro sarebbe fatale per l’Expo».
L’indice edificatorio di 0,52, cioè 400mila metri quadrati edificabili, i 30mila metri quadri destinati all’edilizia privata, i 42 milioni di euro da versare ai Cabassi per l’acquisto delle aree sono i numeri più importanti sul piatto. Pd e Boeri sono a caccia di una soluzione per non cedere su tutta la linea. Il problema riguarda il dopo Expo e la linea Boeri-Pd sarebbe destinare le aree a una funzione pubblica. Tra le ipotesi, il trasferimento dell’Ortomercato e della Facoltà d’Agraria.
Lo 0,52, ovvero l’indice edificatorio, è ritenuto difficilmente modificabile, anche se il referendum ha chiesto di mantenere integralmente il parco agroalimentare dell’Expo. Pisapia dice che si tratta di «un limite massimo, non è detto che sarà quello utilizzato successivamente». Ma se si acquistano le aree dai Cabassi e poi si abbassa l’indice, facendo perdere di valore all’area, si rischia una contestazione da parte della Corte dei conti. Si sta anche valutando di ricorrere alla perequazione, strumento urbanistico che prevede di trasferire altrove il diritto di costruire. In quel caso, però, bisognerebbe indicare l’area in cui si vuole costruire. E sarebbero nuovi guai.
La Repubblica
Verde e nuovi grattacieli un anno per cambiare il Pgt
di Teresa Monestiroli
Il Piano di governo del territorio «non rispecchia l´idea di città dell´attuale maggioranza». Quindi, all´unanimità, la giunta ha deciso «di mettere alcuni paletti al documento» prima che entri in vigore, in attesa di «riscrivere le regole dello sviluppo del territorio». In particolare: verrà tutelato di più il Parco Sud, verrà data priorità al verde, saranno rivisti i volumi previsti all´interno degli ex scali ferroviari e gli indici di costruzione negli ambiti di trasformazione urbana perché «in alcuni casi spaventano». Un anno per la revisione. Nel frattempo, il Comune lavorerà a un nuovo Piano che «rispecchi meglio «la città dei nostri sogni».
È Ada Lucia De Cesaris, il nuovo assessore all´Urbanistica, a illustrare la strada che ieri la nuova amministrazione ha scelto per modificare il Pgt, ancora in attesa di pubblicazione. Scartate le ipotesi di revocare l´adozione - ci vorrebbe troppo tempo - e di pubblicare il Piano avviando contestualmente le procedure per la variante - come chiesto da una parte del Pd - , la giunta Pisapia torna alla valutazione dei pareri degli enti e delle 4.765 osservazioni presentate dai cittadini per modificare, dove è possibile, il documento il più in fretta possibile in modo da rispettare la scadenza del 31 dicembre 2012 fissata dalla Regione.
La revoca dell´approvazione, che prima sarà votata dalla giunta poi passerà al vaglio del consiglio comunale, «ripristina il diritto di partecipazione dei cittadini - spiega De Cesaris - e consente di superare i ricorsi presentati al Tar», permettendo al contempo «di apportare alcune importanti modifiche al Piano, anche tenendo conto degli indirizzi usciti dai recenti referendum cittadini». Un processo che prenderà tempo ed energie. Il primo passo sarà quello di rileggere tutte le osservazione e stabilire quali accogliere. Il secondo il passaggio in consiglio comunale, seguendo il metodo dell´accorpamento per gruppi questa volta «davvero omogenei» assicura l´assessore. Un iter lungo e che preoccupa il Pd, con il capogruppo Carmela Rozza che dice: «Continuiamo ad avere le preoccupazioni evidenziate al sindaco sui tempi di questo percorso, ma prendiamo atto della decisione e sosterremo i provvedimenti lavorando affinché siano approvati nei tempi più brevi possibili».
Timori a cui risponde lo stesso Pisapia: «Ci impegniamo a concludere entro la prossima estate - garantisce - . La nostra decisione non bloccherà lo sviluppo dell´economia né i lavori già approvati o che possono essere approvati, ma soprattutto impedirà quella carneficina che avrebbe significato nuovi grattacieli e nuove case per soggetti che non sono in grado di pagarle». Al contrario, «sarà un passo avanti perché eviterà quei ricorsi, del tutto fondati, che sarebbero arrivati se il Pgt fosse stato pubblicato così come l´ha pensato il centrodestra». Non a caso, conclude Pisapia, la precedente amministrazione ha deciso di rinviare l´atto di pubblicazione. «O erano convinti di perdere le elezioni - ironizza - oppure non erano convinti del Piano». «La scelta della giunta - commenta Basilio Rizzo, presidente del consiglio comunale - corrisponde bene alla doppia esigenza di consentire agli operatori di svolgere la loro attività in un sistema garantito di regole e rispettare l´impegno assunto da Pisapia con i cittadini».
La Repubblica
Coraggio
di Roberto Rho
Con il primo gesto di coraggio di un inizio mandato guardingo, la giunta Pisapia ha ufficializzato lo stop al Piano di governo del territorio. Annunciando contestualmente il riesame delle osservazioni dei cittadini e soprattutto l´avvio di una riflessione per redigere un piano radicalmente nuovo. È una scelta equilibrata e coraggiosa insieme, che supera d´un balzo l´obiezione falsa e strumentale della destra – che da mesi continua a camuffare la fretta di immobiliaristi e costruttori di veder subito in vigore il Piano, confezionato su misura dei loro interessi, come una necessità imprescindibile della città – e anche le molte resistenze di un´ala del centrosinistra (del Pd, in particolare), che ancora ieri preferiva sottolineare le perplessità per il percorso scelto dalla giunta. È la stessa ala che più o meno dodici mesi orsono, assecondando probabilmente le pressioni degli interessi immobiliari "rossi", lasciò cadere centinaia di emendamenti spianando la via all´adozione del Pgt in Consiglio Comunale. I milanesi, con il voto di metà e fine maggio e con i referendum di metà giugno, hanno detto esplicitamente come la pensano.
Il Pgt Masseroli-Moratti, che attribuisce indici di edificazione anche alle aree agricole del Parco Sud, salvo poi trasferire i diritti in altre zone della città (con ciò regalando rivalutazioni milionarie ai proprietari) non va. Gli indici di edificazione attribuiti agli ex scali ferroviari e ad altre zone di prossima cementificazione non vanno. Ma non va l´intero Pgt, perché è costruito su principi sbagliati: la previsione di un aumento della popolazione di diverse centinaia di migliaia, l´assunto secondo cui sarà l´offerta (esorbitante) a muovere la domanda, e non viceversa, la sproporzione tra nuove costruzioni di fascia alta – largamente prevalenti – e nuovi alloggi a prezzi popolari o calmierati, il disinteresse per le migliaia di appartamenti e uffici vuoti, perché sfitti o invenduti.
Dunque, revocare l´approvazione del Pgt e riesaminare le osservazioni dei cittadini frettolosamente cestinate dalla Moratti è, oltre che doveroso, utile per intervenire chirurgicamente sui punti nevralgici del Pgt. Ma è politicamente ancor più rilevante l´intenzione espressa dal sindaco di voler scrivere un Pgt nuovo, costruito su un´idea di città radicalmente diversa da quello della Moratti (ammesso e non concesso che ne avesse una). È il mandato che la maggioranza dei milanesi – con la loro partecipazione al voto entusiasta e contagiosa – hanno affidato al nuovo sindaco. E sarebbe bene che tutti i partiti di centrosinistra ne tenessero conto.
La Repubblica
"Hanno deciso di fermare tutto così saranno travolti dai ricorsi"
Intervista all’ex assessore Carlo Masseroli, di Rodolfo Sala
«Tra le scelte possibili, hanno fatto quella peggiore». È il commento a caldo dell´ex assessore all´Urbanistica Carlo Masseroli, padre del Pgt revocato dalla nuova giunta. «Così - aggiunge - ha vinto l´élite borghese e ha perso la politica».
Spieghiamo, consigliere Masseroli?
«Il nostro Piano non piace al sindaco e ai suoi assessori? Bene, allora sarebbe stato molto più onesto da parte loro buttarlo via e rifarlo daccapo. E invece non dicono che cosa vogliono cambiare del Pgt, lo modificheranno in base alle osservazioni che sono pervenute. Si va alle calende greche».
Anche riscrivere daccapo il Pgt comporta tempi molto lunghi.
«C´era un´altra strada, la stessa che aveva suggerito il Pd. In sintesi: alcune cose le condivido, altre voglio cambiarle, quindi si può depositare il Pgt approvato dalla vecchia giunta e fare una variante».
Però Pisapia assicura che Milano avrà il nuovo Pgt entro il termine di legge del 31 dicembre 2012...
«Mi sembra alquanto improbabile. Non solo si allungano i tempi, ma si apre una fase di ricorsi da parte degli operatori che non potranno cominciare a lavorare. Quando prevalgono gli aspetti giuridici, la politica è finita, si ferma tutto e vince l´élite borghese composta da quanti non hanno alcun interesse all´housing sociale».
Scusi, ma allora perché il Pgt non l´ha fatto entrare in vigore lei?
«Perché, come scrive il nuovo assessore De Cesaris nella sua informativa, non si è ancora concluso il lavoro di adeguamento dei documenti alla luce delle osservazioni arrivate in Comune. La verità è un´altra».
E cioè?
«Può anche starci che alla nuova giunta non piaccia la modalità con la quale noi volevamo restituire il Parco Sud alla città, attraverso il meccanismo delle perequazione. Ma quel metodo era stato condiviso almeno dal Pd. E poi i grattacieli: vanno bene solo i due progettati da Boeri a Porta Garibaldi? Ripeto, era meglio la variante. Ma non l´hanno fatta per ragioni politiche».
Quali?
«Avrebbero dovuto far ritirare il ricorso contro il nostro Pgt presentato da Rizzo e compagni. Non sono stati in grado di convincerli, vuol dire che non sono compatti. E che il Pd è stato sconfitto».
La Repubblica
Il Parco Sud appeso a un indice la giunta prepara il salvataggio
di Teresa Monestiroli
Se si vuole preservare il Parco Sud come area agricola, perché assegnare ai terreni verdi un indice volumetrico da riversare altrove? E ancora: tutto quel cemento "in potenza" accumulato nel parco dove atterrerà? La città sarà in grado di assorbirlo? Il futuro del Parco Sud si gioca tutto intorno a queste domande, riassunte in una delle tante osservazione al Pgt che la giunta Moratti ha respinto.
Osservazione che ora la nuova amministrazione vuole riprendere in mano e valutare di nuovo. Perché se l´obiettivo è quello di «tutelare la vocazione agricola del Parco Sud», come dichiarato dal sindaco Pisapia e dal suo assessore all´Urbanistica Ada Lucia De Cesaris, la prima cosa da fare sarà quella di rivedere una ad una le decine di richieste di modifiche al Piano che riguardano proprio l´area verde alle porte della città. E se le risposte alle richieste di privati, come Salvatore Ligresti e la Fondazione Policlinico, che vogliono costruire all´interno del Parco non cambieranno - le respinse anche la giunta Moratti - sarà accolta quella presentata da Legambiente, Libertà e Giustizia, Acli e Arci che pone proprio quelle domande, centrali per la salvaguardia dell´area. Chiedendo l´azzeramento dei diritti volumetrici generati dai singoli proprietari, in cambio della cessione dei terreni al Comune di Milano.
Per salvare il polmone verde alle porte della città, dunque, e rilanciare l´agricoltura bisogna partire da lì, dall´esclusione del Parco Sud dal meccanismo della perequazione che permette lo spostamento delle volumetrie da una parte all´altra di Milano. A chiederlo sono proprio le associazioni che, in una delle sedici osservazioni al Piano presentate (e respinte), scrivono: «Del tutto incomprensibile e irrazionale appare in particolare l´applicazione di indici trasferibili generati da superfici agricole che, in seguito a cessione di tali edificabilità, divengono patrimonio pubblico». Che in termini meno tecnici significa semplicemente che non ha senso assegnare un diritto volumetrico là dove comunque resta il divieto di costruire, solo per incentivare i privati a cedere all´amministrazione degli appezzamenti di terre affinché vi si svolga un´attività agricola.
L´intenzione della nuova giunta, ora, è quella di una marcia indietro radicale, nel limite delle possibilità previste dalla legge. Se infatti non sarà possibile cancellare completamente la perequazione nelle aree del parco - gli uffici stanno verificando tutte le ipotesi - , si cercherà comunque di limitare il più possibile l´assegnazione delle volumetrie. Rivedendo comunque quell´indice assegnato dall´ex assessore Carlo Masseroli (0,15) pari a venti volte quello attuale. «La perequazione nel parco è stata pensata per regalare diritti di costruzione - commenta Stefano Pareglio, del consiglio di presidenza di Libertà e Giustizia - e non per realizzare un progetto organico di città e di parco. Il Parco Sud invece ha bisogno di una valutazione complessiva, magari prevedendo anche una perequazione differenziata a seconda delle aree e della loro vocazione». Un esempio? «A Est, nella zona del fiume Lambro, dove non c´è molta agricoltura, si potrebbe mantenere anche un piccolo indice volumetrico, mentre a Sud bisognerebbe spingere solo l´agricoltura».
Una sola osservazione, dunque, che se verrà accolta potrebbe stravolgere completamente i piani della precedente giunta e di tutti gli imprenditori - in primis Ligresti - che con il giochino della perequazione avrebbero guadagnato "diritti" dal nulla. Una strategia che l´ex sindaco Moratti ha concordato con il presidente della Provincia Guido Podestà che, nel dare il suo benestare al Pgt pochi giorni prima dell´approvazione in consiglio comunale, ci tenne a sottolineare che l´ultima parola sul futuro del parco spetta al direttivo del Parco Agricolo Sud di cui è il presidente. Un dettaglio che ora potrebbe trasformarsi in uno scontro tra il nuovo sindaco e la Provincia, dal momento che i Piani di cintura urbana, di competenza appunto di Palazzo Isimbardi e ancora in via di definizione, comprendono anche quelle aree del Parco all´interno del Comune di Milano.
Corriere della Sera
Pisapia blocca il Pgt della Moratti
di Rossella Verga
Il Pgt riparte dalle osservazioni dei cittadini, ma per la giunta non è un passaggio indolore. Alla fine vince la linea Pisapia-De Cesaris: revoca dell’approvazione per correggere dove possibile lo strumento ereditato dall’amministrazione Moratti e dare a Milano, entro un anno, un piano «partecipato» . Non mancano malumori da parte del Pd preoccupato per i ritardi ma costretto a battere in ritirata per intervento del sindaco. Timori sui tempi sono stati espressi anche dall’assessore Bruno Tabacci, che nei prossimi mesi impegnerà l’aula con una discussione non facile sul bilancio.
La giunta, dopo la relazione dell’assessore all’Urbanistica, Lucia De Cesaris, ha deciso «all’unanimità» di revocare la delibera di approvazione del piano di governo del territorio e di rivalutare le 4.765 osservazioni presentate dai cittadini, senza ammetterne tuttavia di nuove. La delibera di revoca arriverà in giunta la prossima settimana e poi passerà all’esame del consiglio comunale. Obiettivo finale: inserire alcuni paletti, come il fatto che non verranno assegnati indici volumetrici, sia pure da spalmare altrove, al parco Sud, che manterrà in tutto e per tutto la caratteristica agricola.
Più tutele e riduzioni dei volumi per scali ferroviari (per esempio Farini e Romana) e negli ambiti di trasformazione urbana. Tutto ciò, promette la giunta, rispettando la scadenza di legge, cioè la necessità di varare il nuovo piano entro il 31 dicembre 2012, data oltre la quale si rischierebbe il commissariamento. «Il nostro impegno — precisa il sindaco, Giuliano Pisapia— è fare molto più in fretta, per avere il nuovo piano entro l’estate del prossimo anno» . Per ora, insomma, sul Pgt si mette una toppa, ma si comincia già a lavorare a un nuovo piano (magari sotto forma di variante) che rifletta l’idea di sviluppo della città del centrosinistra e tenga anche conto del risultato dei referendum. «Il verde è una priorità» , ribadisce l’assessore.
E ancora: più housing sociale, indici volumetrici più bassi e ritorno alle destinazioni d’uso. «Questo piano — sottolinea Lucia De Cesaris — sicuramente non esprime la nostra visione di città» . E in ogni caso, non essendo pubblicato «non è efficace» , quindi nessuno può vantare diritti. La scelta di rivalutare le osservazioni, rincara il sindaco, permette di impedire la «carneficina di Milano» limitando i grattacieli, nonché di tener fede alle promesse di ascolto fatte in campagna elettorale.
Senza «bloccare l’economia e lo sviluppo della città— assicura Pisapia—. Esattamente il contrario, perché, se fosse stato pubblicato il Pgt adottato dal centrodestra, i ricorsi, del tutto fondati, sarebbero stati accolti e si sarebbe tornati indietro» . L’assessore Stefano Boeri, reduce da una riunione con il Pd che avrebbe preferito una scelta diversa (pubblicazione per non rischiare ritardi e variante di piano), insiste sulla fase due: «Abbiamo concordato — sottolinea — di elaborare un documento di indirizzo che deve essere la stella polare delle politiche del territorio e dovrà essere presentato a ottobre» .
Ma la capogruppo del Pd, Carmela Rozza, conferma le sue «preoccupazioni» sui tempi. «Comunque prendiamo atto della decisione del sindaco— dice— sosterremo i provvedimenti in aula e lavoreremo perché siano approvati nei tempi più brevi possibili» . Plaude alla decisione il presidente del consiglio comunale, Basilio Rizzo: «Risponde bene — commenta— alla doppia esigenza di consentire agli operatori di svolgere senza ostacoli la loro attività in un sistema garantito di regole e di rispettare l’impegno esaminare le osservazioni» . Bocciatura totale da Pdl e Lega. «E’ una scelta irresponsabile — attacca anche MariolinaMoioli, capogruppo di Milano al Centro — Significa bloccare la città e rinunciare agli oneri di urbanizzazione» .
Corriere della Sera
«Si cambi una volta sola oppure la città si blocca»
Intervista a Claudio De Albertis rappresentante del costruttori, di Sacchi
«Cambino pure, ma una volta sola e in tempi certi» . Lo ripete più volte, chiede che «non ci siano ritardi o altri intoppi» , che il quadro normativo sia chiaro e definitivo nel giro di un anno. Claudio De Albertis, presidente di Assimpredil, numero uno dei costruttori milanesi (nella foto), è visibilmente preoccupato.
Non si aspettava questa svolta da parte della giunta? «In realtà un cambio di rotta era previsto, prevedibile e legittimo. Milano ha una nuova amministrazione ed è giusto che voglia dare una sua impronta al governo del territorio. Però una volta sola» .
Teme una serie di modifiche in corsa?
«Se vogliono riaprire l’iter di variante, significa che per un anno, un anno e mezzo, avremo un periodo di salvaguardia in cui valgono le norme più restrittive tra vecchio Prg e nuovo Pgt. Poi si passerà alle regole del "Pgt con osservazioni"e, infine, si avrà una terza rivoluzione con altre norme» . Troppo? «E insomma... Se tutta questa operazione avviene in cinque anni e noi operatori dobbiamo confrontarci su tre regolamenti diversi, la prospettiva diventa davvero preoccupante» .
Per chi?
«Per tutti. Per i costruttori e per gli investitori» .
Ha ragione chi dice che la città si blocca?
«Se non c’è più una certezza di riferimento, allora il rischio c’è» .
Auspicio?
«Lo ripeto, cambino le cose una volta sola, rispettando le scadenze e senza ulteriori colpi di scena. Milano ha bisogno di stabilità. Anche da questo punto di vista» .
Guai a chiamarlo blocco. Quello sul Pgt è «un passo avanti». E il sindaco Pisapia ci tiene perfino a scandire il concetto: «A-van-ti». Sarà. Di fatto la revoca della delibera di approvazione del piano di governo del territorio provoca uno slittamento di un anno. Se va bene. Di un anno e mezzo se le discussioni si prolungheranno, come è prevedibile. Si ferma tutto, compresi gli investimenti immobiliari. La città potrà avere il suo Pgt la prossima estate e ci saranno solo due anni di tempo per prepararsi ad Expo.
Alla fine è prevalsa la linea strong sostenuta dall’assessore all’Urbanistica Lucia De Cesaris, autrice dell’informativa presentata ieri alla giunta: da avvocato aveva paralizzato l’attività del Comune con 150 ricorsi, da assessore blocca tutto fermando la delibera sul Pgt. A nulla sono serviti i tentativi del Pd più moderato per evitare l’azzeramento del piano. La linea prudente è stata scalzata da quella più estremista creando non pochi mal di pancia nella maggioranza.
«Manteniamo la nostra preoccupazione - spiega il capogruppo del Pd Carmela Rozza - pur rispettando la scelta del sindaco. Lavoreremo in aula per velocizzare il più possibile e creare meno disagio possibile». Entro la fine dell’anno il Pgt dovrebbe tornare in aula. Se il piano non dovesse essere pubblicato entro la fine del 2012, il Comune rischierebbe infatti il commissariamento.
In questi mesi non sarà scritto un nuovo documento ma verrà rivisto e corretto quello esistente, ripartendo dalla fase delle 4.765 osservazioni dei cittadini e dai pareri degli enti. Poteva andare peggio. Cioè, si poteva rifare tutto daccapo revocando il piano per riscriverlo. «Il nostro - spiega il sindaco Giuliano Pisapia - è un passo avanti e non indietro. Ci sono infatti due ricorsi che pendono sul Pgt che avrebbero allungato i tempi molto di più. Assicuro che non bloccheremo la città». I due ricorsi contestano uno il metodo con cui sono state accorpate le osservazioni sul piano, e l’altro il procedimento con cui si è arrivati all’approvazione.
E se dovessero essere presentati nuovi ricorsi? «Cercheremo di operare nel massimo rispetto della legittimità» puntualizza Pisapia che, da avvocato, si appella a un «vizio di forma»: «I ricorsi saranno tutti inammissibili perché si riferiscono a un testo mai pubblicato. La legge ci consente di fare tutto ciò e vogliamo anche lanciare un grande messaggio agli imprenditori». La De Cesaris, che già (a amministrazione appena cominciata) pensa a un nuovo piano territoriale, ammette: «Non avremo mai il Pgt dei nostri sogni, ma almeno qualcosa che ci assomigli, che valorizzerà di più il verde».
Tra i punti cardine su cui la giunta intende lavorare ci sono il Parco Sud («l’indice di edificabilità indicato da pgt ci spaventa»), gli scali ferroviari e gli indici volumetrici: niente grattacieli e un ritorno all’indicazione delle destinazioni d’uso dei terreni.
Il Sole 24 Ore
La Giunta Pisapia revoca il Pgt varato dalla Moratti. Il Pd è «preoccupato», ma appoggia il sindaco
di Sara Bianchi
LaGiunta Pisapiaha deciso la strada da seguire per modificare, come promesso in campagna elettorale, il Piano di governo del territorio della passata amministrazione: il provvedimento di approvazione sarà revocato -come anticipava sul nostro sito Lucia De Cesaris, assessore all'urbanistica del Comune di Milano - e si tornerà alle osservazioni dei milanesi che verranno rivalutate. La decisione è stata presa all'unanimità. La proposta di delibera di revoca sarà portata in Giunta già la prossima settimana e sottoposta successivamente all'esame del Consiglio comunale.
Lo hanno comunicato il sindacoGiuliano Pisapiae l'assessore all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris. La quale ha sottolineato che il piano «non è stato pubblicato dalla precedente amministrazione e non era neppure pubblicabile. È stata una loro scelta». Adempimenti che erano «necessari affinchè il piano potesse acquisire efficacia e quindi divenire operativo esplicando i suoi effetti». Secondo il sindaco Pisapia l'ex maggioranza di centrodestra «ha fatto degli errori che avrebbero comportato l'annullamento» del piano. Se fosse stato pubblicato il Pgt adottato dal centrodestra «ci sarebbero stati decine di ricorsi, del tutto fondati - ha sostenuto Pisapia - e sarebbero stati accolti, facendoci tornare indietro».
Non si ricomincia da capo, ma si torna comunque indietro. Per riportare in aula il nuovo documento, si dovrà attendere la fine dell'anno, mentre per l'approvazione definitiva, secondoil sindaco Giuliano Pisapia, «il nostro impegno é quello di arrivare quantomeno entro l'estate del 2012». Se così fosse i tempi globali di approvazione del documento sarebbero rispettati, essendo la scadenza di legge fissata al 31 dicembre 2012, scadenza oltre la quale si rischierebbe il commissariamento. Nel frattempo vigerà il regime di salvaguardia e il vecchio Piano regolatore generale.
Il comune dovrà tenere conto anche del rischio di possibili ricorsi, specialmente riaprendo la fase delle osservazioni di cittadini ed enti, anche se, ha sottolineato il sindaco, «due ricorsi già pendevano sul vecchio piano di governo presso il Tar, due ricorsi - ha detto Pisapia - che secondo i nostri rilievi sono fondati».
Nelle intenzioni della Giunta, gli uffici comunali dovranno rileggere e rivalutare le 4.765 osservazioni giunte dai milanesi entro l'autunno, per poi portare il nuovo pacchetto in Consiglio, con le modifiche proposte dai cittadini accorpate per uniformità tematica, entro fine anno. «Il nostro impegno è di fare molto in fretta e di approvarlo entro l'estate prossima», è stata l'assicurazione di Pisapia. Nel mirino delle osservazioni al pgt ci sono in particolare l'indice di edificabilità nel parco Sud, la partita degli scali ferroviari e l'indice unico volumetrico.
Una decisione che il Pd non ha preso a cuor leggero. Il capogruppo democratico a Palazzo Marino, Carmela Rozza precisa che il partito ha espresso la propria preoccupazione a Pisapia. Preoccupazione, dice Rozza che «manteniamo pur rispettando la scelta del sindaco». A questo punto «lavoreremo in aula - ha aggiunto - per velocizzare il più possibile» i tempi. Faccenda alla quale guarda con attenzione anche il segretario metropolitano dei democratici,Roberto Cornelli. «Per il Pd - precisa -la questione veramente cruciale è quella dei tempi».
Per l'ex assessore Mariolina Moioli, oggi all'opposizione come consigliere comunale di Milano al Centro si tratta di «una scelta irresponsabile». Che significa «bloccare lo sviluppo della città a tempo indeterminato», ma anche rinunciare nel bilancio di quest'anno ai soldi che sarebbero arrivati dagli oneri urbanistici. Secondo l'ex assessore è «una presa di posizione ideologica e contro gli interessi dei milanesi, della città, ma anche dello sviluppo di tutto il Paese».
Per una questione che si apre, il sindaco prova a chiuderne un'altra, quella con il ministro della Difesa,Ignazio La Russa, sulla presenza dei militari in città. Che rimarranno per presidiare i siti sensibili, mentre per il resto la sicurezza sarà garantita dalla polizia e da una maggiore presenza dei vigili sul territorio con 500 nuovi vigili di quartiere. Al riguardo, «alla prossima riunione con il prefetto e con i soggetti interessati porteremo la nostra indicazione», ha spiegato Pisapia.
Poco prima il ministro La Russa aveva annunciato che i militari a Milano passeranno dagli attuali 653 a poco più di 200.
Claudio Lotito ha parlato chiaro: il Colosseo sarà il nuovo marchio della sua Polisportiva Lazio. Temo che Lotito non legga molto i giornali. Un suo diretto concorrente, il patron della Fiorentina Diego Della Valle, re delle scarpe, lo ha largamente preceduto stringendo col commissario straordinario (eterno?) all’archeologia di Roma e di Ostia, Roberto Cecchi, un contratto di sponsorizzazione, che riserva per quindici anni il marchio del Colosseo a lui. Che, inoltre, potrà stampigliare il proprio logo aziendale sugli oltre 5 milioni di biglietti annuali. In quindici anni, coi prevedibili incrementi, 80-90 milioni. Souvenirs che andranno in tutto il mondo. Il marchio Tod’s campeggerà pure sui tendoni di 2 metri e 40 che nasconderanno i restauri, non brevi. A fronte di 25 milioni di euro, il Ministero apparecchia una ricco set di ritorni pubblicitari.
Della Valle, alla conferenza-stampa, è stato molto corretto: “Noi non facciamo beneficenza”. Cioè questa non è una donazione liberale. Poi – forse per l’assenza quasi totale di rilievi critici sulla convenzione genuflessa predisposta dal MiBAC – è montata l’euforia. Al convegno organizzato in materia al Teatro Argentina la responsabile di Confculture (Confindustria), Patrizia Asproni è partita bene: “Noi siamo imprenditori e vogliamo fare profitti. Della Valle prima investiva nello sport, ora nel Colosseo. Lo sport non ha più appeal a causa della corruzione e del doping”. Poi ha calato l’asso di bastoni: “Sono stanca del Ministero per i Beni e le Attività culturali. Non ne abbiamo più bisogno. Il patrimonio culturale del Paese deve entrare nella competenza del Ministero dello sviluppo economico”. Insomma, è la redditività dei beni culturali a dettare l’agenda. Non più la ricerca: scientifica, artistica, archeologica. Non più il valore “in sé e per sé” della cultura. I professori studino pure; priorità e usi spettano al profitto. E la tutela del patrimonio? Un bel fastidio, oggettivamente. Roba da “talebani della tutela”, come disse Andrea Carandini nel sostituire (in 4’) Salvatore Settis, dimissionario, alla presidenza del Consiglio Superiore dei Beni Culturali.
L’operazione-Colosseo come modello per l’ingresso in forze dei privati nei beni culturali? Un po’ di milioni versati a fronte di “esclusive” pluriennali per l’utilizzo fotografico, televisivo, commerciale, ecc. In qualche caso – vedi Palazzo delle Esposizioni e Scuderie del Quirinale (ne ha parlato ieri il “Corriere della Sera” nella pagine romane) – si accenna a far gestire a privati quegli spazi pubblici restaurati con ingenti fondi statali e comunali, Per sdemanializzarli e rinsanguare le esauste casse municipali? Forse. Riecco due spettri: a) la Patrimonio SpA di Tremonti creata per dismettere edifici pubblici anche di pregio storico; b) la privatizzazione dei musei avanzata da Giuliano Urbani, sommerso dall’unanime sollevazione dei direttori di musei del mondo intero.
Della Valle aggiunge: “Speriamo di dare presto notizie concrete di restauri anche a Pompei, Venezia, dove bisogna pensare al Canal Grande, e di un grande intervento anche a Firenze. Voglio fare un bel regalo al sindaco Renzi”. Sino a ieri la famiglia era molto interessata al business del nuovo Stadio, condizione essenziale per tenersi la Fiorentina, e già sull’area prescelta s’erano accese fiere polemiche. Aspettiamo e vediamo ‘sto regalo. In questi giorni è riemersa una parola magica: mecenatismo. Qui bisogna chiarirsi le idee: queste sono sponsorizzazioni con un chiaro profitto privato sotto forma di ritorno di immagine; il mecenatismo è altra cosa. Lo si può capire con una gita ad Ercolano. Qui opera da anni la donazione di David W. Packard, dell’omonimo gigante dell’informatica. Che, in silenzio, finanzia, attraverso la Packard Humanities Insititute, manutenzione ordinaria e straordinaria di quel magnifico sito, sulla base di un’intesa progettuale con l’ottimo soprintendente del tempo, Piero Guzzo (lo stesso messo in croce a Pompei da un commissariamento che ha stravolto il grande teatro romano, ed ora in pensione). Sono state ripristinate le fogne e le canalizzazioni della città antica.
Packard – come ha scritto Francesco Erbani su “Repubblica” – è il figlio del fondatore dell’azienda, viene da studi classici e si è fidato in pieno degli archeologi a cominciare da Guzzo, lavorando con loro (e non con pretesi manager) a sbrogliare l’intrico burocratico al fine di riparare subito i danni, sempre gravi nelle città antiche, prodotti dalle acque piovane che ruscellano dai tetti, o dal guano dei piccioni, oppure dagli scarichi intasati sottoterra da materiali remoti. E’ stato messo norma l’impianto elettrico dando ad Ercolano una efficiente illuminazione notturna. Senza contropartite? Esatto. Questo si chiama mecenatismo.
"Quando Olivetti inventò il pc", un documentario che vorremmo tutti vedessero, non fosse che per riflettere sul patrimonio di genialità ma anche sugli abissi d´insipienza che la nostra Italia si porta dentro. La storia che Sky ci ha raccontato – a cura di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto – svela a spettatori certamente ignari come il primo personal computer, la macchina più innovativa della nostra epoca che rivoluzionerà l’agire dell’umanità intera e da cui scaturiranno fino ad oggi infinite evoluzioni, venne ideato, progettato, disegnato e materialmente fabbricato in un capannone di Ivrea da un gruppetto di fantasiosi ingegneri italiani, tecnici della nuova scienza. Con loro non più di 400 fra designer, economisti, esperti di materiali, operai e tecnici altamente specializzati, animati dal figlio di Adriano, Roberto Olivetti, (di cui nel documentario purtroppo si parla troppo poco, come si tace sul geniale capo progetto, Mario Tchou, un cinese nato a Roma, morto in un incidente d´auto dopo l´avvio dell´impresa).
Alle loro spalle, nume tutelare di riferimento, Enrico Fermi, che credette fin dall´inizio nella possibilità di trasformare i mastodontici calcolatori elettronici, bisognosi per l´uso di addetti informatici in camice bianco, in oggetti portatili a disposizione di ogni tipo di consumatore. Un sogno impossibile, dicevano i più o, al massimo, un progetto destinato a restare allo stadio del prototipo avveniristico. Gli unici a crederci eravamo un gruppetto di amici di Roberto Olivetti, incantati dalla sua fantasia progettuale.
Il documentario scandisce le fasi del passaggio dall´utopia alla scienza applicata attraverso l´esperienza di un gruppetto di avanguardia guidato dall´inventore della scheda magnetica, precursora del floppy disk, ingegner Pier Giorgio Perotto, con i suoi più diretti collaboratori (Gastone Garziera, De Sandre, Faggin, inventore del microprocessore, l´architetto Mario Bellini che disegnerà la macchina). L´ultima fase di questa epopea tecnologica viene svolta in semi clandestinità. Quando, morto Adriano Olivetti, la società si trova in difficoltà, il gruppo d´intervento dei big dell´industria e delle banche, con alla testa Cuccia e Valletta. pongono, infatti, come condizione che la divisione elettronica venga venduta agli americani. Nessuno di loro capisce nulla di computer e Valletta afferma: "È stato un grande errore imbarcarsi in qualcosa di impossibile per gli europei. Del resto se nessuno ha costruito una macchina simile vuol dire che non serve a niente". L´ordine viene eseguito, ma Roberto ha un colpo di furberia. Dichiara che la Programma 101 non è un computer ma una piccola calcolatrice e la sottrae alla svendita. Il gruppetto dei "congiurati" seguita a lavorare in un capannone coi vetri oscurati per non farsi scoprire. Col fiato alla gola arrivano a costruirla in tempo per l´esposizione mondiale di New York del 1965.
Gli espositori della Olivetti la relegano in una stanzetta puntando tutto sulle calcolatrici elettromeccaniche. Fino a quando l´entusiasmo dei visitatori, che all´inizio non credono al miracolo e cercano invano i fili a cui il computer sia collegato, non li travolge e sono costretti a mettere la Programma 101 al centro del padiglione. Se ne vendono subito 40.000 esemplari. Ma la battaglia non è vinta. L´americana Hewlett Packard la copia moltiplicandone le potenzialità. Accusata di plagio sborsa 900.000 dollari per acquisire tutti i brevetti. Fatto fuori Roberto, i nuovi dirigenti di Ivrea sono ben lieti di liberarsi di questa eredità. A loro scusante vi è il fatto che la meccanica era ancora vincente sul mercato e la cultura elettronica non era neppure percepita da quella cultura industriale che non andrà al di là del " piccolo è bello" della futura Padania. I pionieri di Ivrea, colpevoli di aver capito tutto 15 anni prima di Bill Gates e che ogni paese avrebbe glorificato, furono sconfitti e irrisi in vita e dimenticati dopo la loro scomparsa.
«Un tram chiamato disastro» , «un treno fantasma» , «vagoni che portano al nulla» . Il progetto lanciato nel 2002 per attraversare la Città Santa su rotaie ancora una volta resta tale: il debutto previsto per il 19 agosto è stato rimandato di «qualche settimana o mese, almeno fino a dopo l’estate» . E le polemiche, puntualmente, sono riesplose sui media israeliani insieme ai titoli velenosi. Finiti i lavori che hanno disturbato un po’ tutti, molti abitanti si sono intanto rassegnati a quei vagoni argento con scritte luminose in ebraico, arabo e inglese, che a orari regolari passano per Gerusalemme. Tutti assolutamente vuoti. «Va avanti così da mesi, circola come se fosse in servizio ma con nessuno a bordo — commenta il proprietario di una libreria su Jaffa Road mentre il tram modernissimo e lucido passa per la via— Una cosa ben poco logica, ma non è certo l’unica di questi tempi» .
La logica dell’ennesimo ritardo — spiega Shmuel Elgrabli, portavoce della società pubblica Jtmt partner del progetto CityPass — sta in alcune questioni legali da risolvere con i nostri soci privati. Ma ci vuole pazienza, come per far nascere un bimbo» , anche se l’attesa è già stata di nove anni, non mesi. E aggiunge: «È un progetto enorme e poi Israele non ha esperienza sul fronte di treni e rotaie, non vi ha mai investito finora: forse perché alla generazione dell’Olocausto evocavano ricordi terribili» . Al di là delle questioni legali — l’investimento è ingente: 1,2 miliardi di dollari — il tram fantasma è oggetto di altre polemiche. Il percorso parte dal memoriale dello Yad Vashem, passa per il centro, davanti alle mura della Città Vecchia, poi punta a settentrione. Tagliando la Linea Verde che separa la Gerusalemme Ovest da quella Est, fino a Pisgat Ze’ev, considerato dai palestinesi un insediamento ebraico illegale. L’Autorità Nazionale Palestinese ha infatti definito il trenino parte dell’ «espansione criminale» di Israele nel suo territorio.
Oltre 170 Ong palestinesi hanno lanciato una campagna perché i partner francesi Alstom e Veolia abbandonassero il progetto e un’associazione franco-palestinese li ha perfino denunciati a Nanterre, perdendo però la causa pochi giorni fa. Le due società hanno intanto ridotto le partecipazioni, «ma solo per ragioni finanziarie» . E il contenzioso politico ha così causato, in sostanza, solo ulteriori ritardi. «Proteste inutili, il tram creerà una rete di comunicazione per tutti, indipendentemente dalla loro religione» , ha tagliato corto il sindaco della città, Nir Barkat, alle prese intanto con una questione di precedenza ai semafori per la nuova linea, banale ma a quanto pare fondamentale. Ma anche tra gli israeliani molti sono contrari.
Per problemi di sicurezza: con tutte quelle porte che si aprono insieme quali garanzie ci saranno che non salga un terrorista? Pollice verso pure dagli ecologisti, per i molti alberi abbattuti, e da chi ritiene «quel proiettile d’acciaio» uno spregio a questa città antica e bellissima. E infine c’è la questione dei «vagoni kosher» , ovvero riservati alle donne come chiedono con insistenza gli haredim, gli ebrei ultraortodossi che vivono soprattutto qui. Per il momento la richiesta non è stata accolta, ma le femministe e i laici sono comunque sul sentiero di guerra: «Accettare una simile idea sarebbe un chiaro invito a presentare innumerevoli altre domande di segregazione tra sessi, ognuna più estrema e selvaggia della precedente — ha scritto Tali Farkash su Ynet — Dobbiamo essere sicuri che il “ treno della segregazione” degli zeloti si fermi qui» .
Oggi, 2011, la laguna di Venezia, e con questa la stessa città, sono sotto attacco. Un sapiente governo delle trasformazioni ambientali, cominciato già dai primi abitanti del settimo secolo, ha fatto sopravvivere fino ai giorni nostri, sia pur profondamente mutato, un ecosistema lagunare, per propria costituzione fragile quant'altri mai. Un dato per tutti: nel 1600 c'erano 255 kmq. di barene (terre basse ciclicamente coperte dalle maree) che nel 1970 si erano ridotti a soli 64; ma il problema non è solo quantitativo; cercheremo di illustrare, connettere e motivare diversi fronti di un attacco che può essere mortale per questo bene dell'umanità.
Quanto alla città in sé, il rischio non è tanto la distruzione fisica di case e palazzi (“conservati” ma comunque strutturalmente e morfologicamente modificati) ma della perdita di una comunità vivente che li usi nella vita quotidiana perché violentemente espulsa da un turismo pervasivo e distruttivo. Per la laguna, il rischio è la sua trasformazione in un braccio di mare di omogenea profondità i cui rapporti col mare aperto si sono totalmente artificializzati. Artificiali sono divenute molte delle barene. Artificiali le loro sponde sommerse che, una volta costituite da fanghi organici, limi, sedimenti e vegetazione alofila, state trasformate, per proteggerle dall'erosione, in rive di sassi sommersi contenuti in sacchi di plastica quando non da palificate continue rinforzate con materiali sintetici. L'erosione delle sponde e la perdita dei sedimenti costituenti i fondali sono divenute potenti per le trasformazione fisiche che laguna ha subito in questi ultimi 150 anni ma anche per le nuove micidiali correnti provocate dalle sole opere complementari già realizzate per il MoSE., che promettono male per quando l'intera opera fosse mai realizzata. Di fatto è la fine di una vita biologica lagunare, capace anche di propria autodepurazione organica, una fine che costringerebbe anche alla formazione di un nuovo sistema artificiale, munito di grandi tubazioni e depuratori, per lo smaltimento dei reflui organici.
In questa precarietà per la conservazione di una civiltà e storia cittadina e di un ecosistema lagunare sapientemente antropizzato da secoli, si collocano e vanno valutate alcune attualissime proposte di modificazione del territorio:
− Tessera City, come impropriamente viene chiamata la mega lottizzazione di 1.800.000 metri cubi con i suoi “incentivi” edificatori: Tram, Metropolitana Sublagunare, fermata dell'Alta Velocità ( box 1);
− la Linea ad Alta Velocità (TAV), con fermata a Tessera ( box 2);
− la Metropolitana Sublagunare da Tessera alle Fondamente Nuove e Arsenale di Venezia e poi...( box 3).
I box allegati ne illustrano sinteticamente la storia ed i poteri che l'anno costruita. Valutiamone ora le conseguenze che potranno derivarne in relazione alla salvaguardia sia della città di Venezia che della laguna ed il comportamento dell'Amministrazione Comunale nell'esercizio di governo di queste trasformazioni.
Per quanto detto su Tessera City, appare con evidenza che il comune di Venezia, probabilmente con l'intento di potenziare i propri introiti tramite la controllata società del Casinò, ha innescato una procedura che lo ha condotto, per fare cassa, ad accettare il ricatto della società aeroportuale SAVE, e a consentire tutte le trasformazioni d'uso speculativo di territori di proprietà e acquisiti attorno all'aeroporto. Col cambio recente del Sindaco, che pur precedentemente si era espresso problematicamente sull'intera operazione, è stato deciso di approntare uno strumento pianificatorio (PAT) totalmente nuovo nel quale, riconosciuta l'illegittimità della precedente procedura, viene inserita a pieno titolo la trasformazione del quadrante Tessera per farne -come si dice- la città del divertimento e dello sport, con tutti gli annessi speculativi commerciali ed alberghieri. Tessera offrirà opzioni d'investi-mento speculativo assai competitive rispetto ad investimenti di bonifica e recupero dell'area ex industriale di Marghera, rendendo ancor più complesso il rilancio di una politica produttiva “vera”ed ecocompatibile da contrapporre a quella ormai distruttiva del turismo predatorio di Venezia. Un micidiale consumo di suolo ora agricolo ed un mancato recupero di aree già profondamente infrastrutturate che sono già coste enormi investimenti alla collettività.
Riguardo all'Alta Velocità ( TAV), il Comune, non approvando né bocciando il tracciato in galleria sotto il bordo della laguna, ne ha chiesto una comparazione con tracciati alternativi ma ha comunque inserito nel Piano Urbanistico (PAT) l'ipotesi di attraversamento con una linea ad Alta Velocità per sole persone senza valutare le procedure approssimative che hanno portato al progetto preliminare voluto dalla Regione, senza esprimersi sull'esclusione di una Alta Capacità che tolga traffico merci dalle strade e sull'assurdità di lasciare senza collegamento passeggeri la stazione di Mestre-Venezia per costituire una fermata all'aeroporto pur con un traffico passeggeri bassissimo e quando era già previsto un collegamento a Venezia e a tutta la regione ogni 10 minuti con la metropolitana di superficie.. Ma quel che più ambientalmente preoccupa è che se la TAV dovesse arrivare a Tessera, non potrebbe farlo che in una profonda galleria di 8-9 km. a 30 metri di profondità, tagliando trasversalmente tutte le falde d'acqua sotterranee che tengono in pressioni i terreni su cui posa Venezia. Ci sarà la ripresa di una subsidenza che già, per prelievi d'acqua per usi industriali degli anni '60, aveva sprofondata la città per più 10 cm.
Riguardo alla metropolitana sublagunare, il PAT traccia un ambiguo collegamento - che definisce primario - tra il lato nord di Venezia e Tessera, battezzando, per l'occasione, quest'ultima “Porta Est”. La nuova linea di collegamento, quasi esclusivamente per turisti, viene così riconosciuta come strategica. Ne deriverà un potenziamento senza controllo di questa attività ma soprattutto del turismo peggiore, quello definito “mordi e fuggi”, che potrà con questo mezzo arrivare in città il mattino ed uscirne la sera con un aggravio antropico insostenibile a discapito della mobilità e fruizione della città da parte dei residenti, dei pendolari per lavoro e degli studenti. Materialmente le carrozze, che sono quelle del tram, correranno, in una o due gallerie, sotto gli strati di argille fossili costipate (caranto) che reggono i fondali della laguna, le isole ed i suoi centri abitati, compromettendo definitivamente l'intera laguna. Basti ricordare che nell'unico punto dove il caranto è stato manomesso, il porto di Malamocco, si è creata una voragine di più di 40 metri di profondità. Ma altrettanto devastanti saranno gli sbarchi in città, le vie di fuga in centro alla laguna con manufatti innalzati molti metri sopra il livello dell'acqua per evitarne allagamenti. L'arrivo di milioni di turisti aggiuntivi, sbarcati di fronte a strade e calli larghe spesso meno di due metri, produrranno abbattimenti di porzioni intere di città. Quando nell'ottocento arrivò a Venezia il treno fu necessaria la costruzione della Strada Nova che, larga decine di metri, attraversa tutta la città fino a Rialto; quando ai primi del '900 si costruì il ponte automobilistico e Piazzale Roma, un pezzo intero di città fu abbattuto e fu aperto il Rio Novo.
Il territorio e la città costituiscono l'ambiente reale nel quale i cittadini vivono. Salvaguardia e sviluppo sono in sé parole vuote se non vengono calate all'interno di una strategia di governo delle trasformazioni. Il nuovo Piano Urbanistico (PAT) non si interroga sufficientemente sulle questioni dirimenti delle emergenze della laguna e della città di Venezia per le quali turismo, quadrante di Tessera, TAV e sublagunare sono tra le più rilevanti. Se non governate saggiamente, contribuiranno ad un'ulteriore trasformazione della laguna in un vero e proprio braccio di mare con la definitiva perdita anche della sua natura biologica.
Tessera City: la storia / box 1
Per Tessera City si intende una vasta area agricola da urbanizzare a lato dell'attuale aeroporto Marco Polo situato sulla gronda lagunare veneziana. Dovrebbe comprendere una seconda pista aeroportuale, uno stadio con tutti gli annessi per sport e fitness, un nuovo casinò con annesso albergo e attività ludiche: 1.800.000 metri cubi di cosiddette Attività Varie con alberghi, uffici, supermercati e quant'altro di commerciale e effimero.
Nel 1995 il Piano Regolatore di Venezia prevede a lato dell'aeroporto Marco Polo un'area per un nuovo stadio che avrebbe potuto essere costruito col credito sportivo. Nel 1999 una variante al Piano aumenta le funzioni insediabili nell'area e prevede una linea di metropolitana subacquea dall'aeroporto a Venezia, Fondamente Nuove e Arsenale. Nel 2004 una nuova variante al Piano Regolatore, prevede la costruzione comunale diretta dello stadio e per finanziarlo ne raddoppia l'area prevedendovi le cosiddette attività varie cioè tutte destinazioni speculative per innalzare il valore dei terreni e fare cassa e costruire, con la propria società partecipata, anche un nuovo Casinò con annesso grande albergo. Nel 2005 la SAVE, società proprietaria dell'aeroporto compra a prezzo agricolo le aree a lato del previsto Stadio per una possibile nuova pista aerea e attività speculative annesse. Nel contempo la Regione Veneto tiene bloccata la variante al PRG del 2004 del Comune. Nel 2007 le società SAVE e del Casino presentano direttamente in Regione una loro Variante al PRG che, spostando la collocazione dello Stadio, quadruplica ancora le aree edificabili in una zona che dovrebbe essere dichiarata inedificabile perché, con piogge abbondanti, vi si accumulano anche 172 cm. d'acqua. Si pensa di porvi “riparo” spostando un pezzo rilevante del costruendo bosco di Mestre che dovrebbe così sgrondare in area pubblica l'acqua della mega-lottizzazione privata. Questa procedura è assolutamente illegittima perché tale proposta sarebbe dovuta eventualmente arrivare al Comune che, se accettata, doveva inoltrarla alla Regione. Nel 2008 viene stipulato un accordo tra il sindaco Massimo Cacciari e il Governatore regionale Galan accettando di fatto le proposte SAVE-Casinò con lo spostamento dello Stadio. Si consente con ciò la quadruplicazione della cubatura speculativa edificabile (1.800.000 mc. su 500.000 mq.) e il possibile raddoppio della pista aeroportuale. Vengono sconvolti tutti i trasporti con l'arrivo di un tram cittadino che, dopo un percorso di 4 km. in piena campagna, entra nel mega tubo della sublagunare per Venezia a partire da una stazione interna all'aeroporto dove confluiscono l'Alta Velocità e la Metropolitana Regionale di superficie. Questo servizio da solo può connettere funzionalmente Venezia con l'intera regione rendendo così inutili tutte le altre modalità. L'insediamento, per la sua dimensione e caratteristiche d'uso, indurrà un pesante traffico automobilistico e, per la sua collocazione sulla bretella stradale che lo collega alla tangenziale di Mestre, lo riverserà inevitabilmente su questa strada appena decongestionata con la costruzione del passante autostradale. Italia Nostra nell'ultima seduta della Commissione Urbanistica Consiliare, dichiarò direttamente a Cacciari, la non liceità della procedura ma il Sindaco, incurante, la fece approvare dal Consiglio e la invia in Regione. Ora è tutto bloccato perché la Commissione di Salvaguardia di Venezia non ha approvato la Variante al Piano in assenza dell'istruttoria comunale, che i tecnici si sono rifiutati di fare, e di quella regionale con annessa dichiarazione ufficiale sulla legittimità delle procedure. Sulla stampa è apparsa una dichiarazione del nuovo Governatore Zaia alla SAVE che conferma l'impossibilità procedurale d'approvazione.
La TAV, treno ad Alta Velocità
nell'attraversamento dell'area veneziana: la storia /box 2
In Veneto nel 2004 riprende un dibattito sull'Alta Velocità che fa seguito all'intenso confronto degli anni '97-2000. La Regione, in vista della sua scadenza elettorale del 2005 produce una Bozza di Piano Regionale dei Trasporti, adottato in Giunta, mai portato in Consiglio e mai sottoposto a valutazione specialistica. Pur vigendo ancora il vecchio Piano, è a questa Bozza che tutti si riferiscono come facciamo anche noi. Per il superamento del nodo ferroviario assai complesso di Mestre con un tracciato per l' Alta Velocità (TAV) da Milano a Trieste, vengono fatte tre ipotesi:
− una, a Nord di Mestre, lungo una ferrovia dismessa, vecchio tronco militare solo in parte in uso, che raccoglie le radiali ferroviarie da Padova, Castelfranco, Treviso e San Donà;
− una sotterranea, diretta che collega Padova e Trieste;
− una che, superata la stazione di Mestre verso Venezia, punta a est entrando in galleria, sotto il bordo della laguna, per congiungersi alla Metropolitana Regionale di Superficie (SFMR) in una stazione dentro l'aeroporto e poi prosegue, a ridosso della città romana di Altino, per superare il Sile ed andare oltre.
Non fu operata alcuna comparazione e la Regione effettuò una scelta a favore della stazione all'aeroporto di Tessera finanziando un progetto preliminare alla società di progettazione Italfer. Si è configurata così una linea proveniente da Milano, per soli passeggeri e senza possibilità per le merci, fino alla fermata all'aeroporto. Tracciato che salta, secondo la società aeroportuale SAVE, la stazione Meste-Venezia. Successivamente prosegue nella bassa pianura quasi fino a Portogruaro; in Friuli si affianca all'autostrada e successivamente alla linea esistente fino a Monfalcone. Da qui, in due gallerie sotto il Carso, sconfina per la Slovenia a Divacia dove dovrebbe avvenire l'intersezione tra la linea Lubiana-Capo d'Istria e il così detto progetto ferroviario 6 Lione-Budapest, uno dei 30 progetti prioritari europei. Il progetto complessivo è assai composito (linee nuove ed affiancamenti all'esistente) ma non manifesta alcuna strategia per il futuro. Assai indicativa è una dichiarazione di Moretti, amministratore di FS, in risposta alla Regione, che così sintetizziamo: i treni TAV non sono un servizio pubblico ma treni per il business, collocati ove è possibile fare utili, che seguono il libro bianco dei trasporti della Comunità Europea nel privilegiare, per ottenere alta velocità, solo le grandi città. Chi vuole fermate ravvicinate - rivolto alla Regione Veneto-, se le faccia assieme ai treni! E poi: noi guardiamo a nord più che verso la Slovenia perché, con Belgrado, sarà importante forse per una integrazione della Turchia non prima degli anni 2050. Possiamo con serenità concludere che il grande progetto TAV, quando esce a est da Venezia, è ancora tutto da decidere.
Appaiono comunque opportune alcune considerazioni sull'Alta Capacità (trasporto di merci da dirottare dalle strade alla ferrovia) e Alta Velocità (trasporto veloce di passeggeri). L'intero progetto preliminare, non solo per quanto attiene al nodo di Venezia-Mestre ma per l'intera tratta, riguarda esclusivamente i passeggeri. L'offerta che viene fatta è infatti per un totale di 24 treni/giorno, ossia un treno ogni 2 ore per senso di marcia (sic!); di fatto una linea molto poco utilizzata quando per le merci si prevedere un servizio ben più sostanzioso di 116-138 treni/giorno. Si configura così un servizio di linea, in nuova sede, con impatti e costi conseguentemente alti ma debole per i pochissimi passeggeri trasportati. L'unica giustificazione tecnica potrebbe venire dall'utilizzo della linea anche per il traffico merci che invece viene assolutamente precluso dalla scelta dell'alta velocità a 240 km./ora. Al proposito appare viziosa ogni ambiguità: a oggi, in Italia, non è stato possibile utilizzare per il trasporto di merci nessuna linea realizzata per la TAV, specializzata a 240 km./ora,! E' bene comunque ricordare che queste sono solo offerte di traffico del progetto preliminare ma che non esistono in assoluto previsioni del traffico in numero di passeggeri o tonnellate di merci trasportate, carenza assai grave per una scelta ponderata. Appare comunque evidente come l'unica possibilità per le merci sia far passare i treni a nord di Mestre lungo la linea dismessa e parzialmente interrotta detta “dei Bivi”. Ma di questa possibilità, che dovrebbe prevedere modi e percorsi ristrutturativi, non c'è traccia alcuna nel progetto. Come non appare neppure l'ipotesi progettuale di utilizzare un'unica linea (di giorno per i passeggeri e di notte per le merci, con treni che viaggino alla media velocità di 130/140 km./ora) che potrebbe essere ricavata con opportune ristrutturazioni dai percorsi esistenti, con rilevanti risparmi e riduzione d'impatti. Per quanto riguarda le velocità infine, ecco un dato, che ci sembra eclatante, per tutti: i tempi di percorrenza per la tratta da Mestre-Venezia a Trieste, con velocità diversificate in ragione dei tracciati, per la TAV sono di 52 minuti contro i 58 utilizzando la vecchia linea rammodernata ! Sei soli minuti in più ma quale il risparmio economico e di suolo e quanto minori gli impatti sull'ambiente?
La metropolitana sublagunare: la storia/ box 3
L'idea di collegare in profondità la Venezia insulare con la terraferma ha una lunga storia che comincia con un comitato di studi che, all'inizio del secolo scorso, proponeva una galleria di 3.600 metri ad una profondità di 9-10 metri. Successivamente, dagli anni '60, si proposero altri diversi progetti prima di arrivare a quello odierno. Diversi, ma tutti accomunati dal non aver saputo cogliere, di Venezia, le diversità che ne configurano la cifra identificativa anche rispetto ad altre città pur belle. Una di queste diversità è il rapporto che essa intrattiene col tempo: un rapporto tutto speciale, che rifiuta ogni omologazione soprattutto basata sulla velocità.
Ma è proprio per proporre una mobilità rapida, che alla fine del 1999 il Comune di Venezia e la Camera di Commercio, con un protocollo d'intesa, promuovono uno studio di fattibilità per una metropolitana subacquea da realizzare in project financing. Nel 2002 si costituisce un' Associazione di Imprese dietro all'ACTV, società per i trasporti locali partecipata dal Comune, che presenta un progetto di collegamento sublagunare Mestre-Venezia. Nel 2003, per cercare un finanziamento pubblico, la Giunta veneziana dichiara il progetto“di pubblico interesse” e nel 2004 viene considerato “infrastruttura strategica” e inserito nell'elenco CIPE come opera che si può realizzare direttamente in variante ad ogni diversa previsione urbanistica. Comincia da allora un percorso, contraddittorio e ondivago da parte del Comune che “convenziona” con i promotori, nel 2004, un progetto da 270 milioni, assumendosi fino al 90% del rischio per eventuali mancati introiti. Ma nel 2009 firma una nuova convenzione, su una previsione di spesa aumentato a 420 milioni, (+40%), affermando di essersi liberato così dall'obbligo del ripiano finanziario per possibili perdite d'esercizio. Nella verità il promotore è l' ACTV, sua partecipata al 36% e ogni sua perdita sarà, proporzionalmente, perdita dell'Amministrazione. L'autosufficienza gestionale è una controversia perenne dell'intera operazione, perché da tutte le analisi appare evidente come non sia economicamente sostenibile. Ma, per poter sottoscrivere una nuova convenzione che ne diminuisce il coinvolgimento economico, il Comune accetta tre pesantissime condizioni. I promotori, presentando un nuovo piano economico, potranno insindacabilmente aumentare il costo dei biglietti per i non residenti, potranno ottenere il prolungamento della Convenzione quarantennale e“modificare, migliorare, potenziare ed estendere” il piano dell'opera (di fatto farla come e dove vorranno). Il Comune inoltre si impegna a sostenere la macro speculazione immobiliare di Tessera con annessa fermata del treno ad alta velocità (TAV), per potenziare il bacino d'utenza del trasporto subacqueo. L'opera è di fatto economicamente insostenibile, a servizio quasi esclusivo dei turisti come rilevato anche dal Piano del Traffico del Comune e costringe il Comune a cedere la sua sovranità sul governo delle trasformazioni dell'intera area.
Costruttivamente la sublagunare si sviluppa su un percorso di 8 km., con 7 fermate: Favaro (est di Mestre), Aeroporto e Tessera (Tessera City), Murano, Fondamente Nuove e Ospedale, Arsenale (Venezia), prevedendo la possibilità di proseguire fino al Lido ed oltre. Tre sono i vettori che la percorrono , con frequenza di 7-8 minuti e capaci di 200-300 persone. Oltre alle stazioni di fermata, si prevedono 2 vie di fuga emergenti in piena laguna, molto elevate sul pelo dell'acqua, come anche le fermate veneziane, per evitare allagamenti. I mezzi corrono in una sola galleria a notevole profondità con possibilità di un punto di interscambio.
I Vigli del Fuoco si sono già espressi sulla sicurezza, bocciando l'unicità del tubo e geologi della Regione e della Provincia, in uno studio recente, hanno confermato il grave rischio di intaccare, con lo scavo in profondità, l'integrità della piattaforma di argille fossili (caranto) che, pur in maniera disomogenea, sostengono fondo lagunare, isole e costruzioni dei centri abitati.
La conferenza stampa di Italia nostra ha suscitato grande interesse sulla stamoa estera, e reazioni stizzite degli amministratori locali (i materiali sono presentati nel sito della sezione veneziana dell'associazione, che costituisce un ottimo riferimento alle vicende della città e del suoterritorio). La relazione di Gasparetto, insieme a quelle di Luigi d'Alpaos e di Lorenzo Bonometto, distribuite nell'occasione, hanno costitutito un ricco dossier sulle condizioni attuali della città cui la stamoa internazionale ha dato ampia rilevanza. Finalmente la questione di Venezia è tornata all'attenzione del mondo, non per decantare le "magnifiche sorti e progressive" del MoSE, ma per conoscere i problemi veri della città, i rischi che corre, il degrado che è in atto per colpa di politiche stupide, miopi ed espressive di quel neoliberismo straccione che prevale in Italia.
Alle tre emergenze cui dedica il suo dossier Gasparetto ce ne sarebbe da aggiunfgere una quarta: quella della democrazia . C'è da chiedersi infatti quale democrazia sopravviva in una città (e in una regione) dove decidono tutto i commissari speciali cui le istituzioni cedono i loro poteri (si veda il commissario Spaziante al Lido di Venezia) e i grandi gruppi privati vengono chiamati a fare i mecenati e in cambio comprano i pezzi strategici della città (vedi il libretto di Paola Somma, Benettown , della piccola e coraggiosa casa editrice Corte del Fontego).
Da Marrazzo a Carlino. “Le mani su Roccacencia
Il 19 maggio 2011 la giunta capitolina vara un provvedimento a firma dell’assessore alla casa Antoniozzi per acquisire cinque fabbricati di nuova costruzione da assegnare ai punti “numero dieci” delle graduatorie per le case popolari, ossia quelle persone con gravi necessità. Saranno 150 le abitazioni che il Comune comprerà alla “modica” cifra di 2598 euro al metro quadro, non appena l’iter dell’acquisto sarà terminato in Campidoglio.
Casualmente proprio all’angolo tra via Prenestina e via di Rocca Cencia, accanto al polo impiantistico per l’immondizia di Ama e Colari, sorgono cinque palazzi uguali, ultimati nell’estate 2010, su un terreno che il piano regolatore destinava a verde pubblico, poi sottratto ai cittadini per mezzo d’una variante approvata nel giugno 2007 dalla giunta regionale Marrazzo. Davanti vi campeggiano ancora gli annunci di vendita dell’Immobildream di Roberto Carlino, consigliere e presidente della commissione ambiente e cooperazione tra i popoli e membro della commissione urbanistica in Regione Lazio. Guarda il caso l’Immobildream ha già “chiuso” le vendite del complesso (per scoprirlo è bastato chiamare l’ufficio vendite dell’agenzia).
Nel dicembre del 2009 era stato pubblicato un bando dal Comune per acquisire 150 alloggi destinati all’emergenza abitativa. E’ scaduto ad aprile 2010 e la gara, stando a quanto riportano le agenzie, è stata vinta dalla “Tam Sas”, che ricaverà dalla vendita delle case circa 30 milioni di euro, una cifra esorbitante se pensiamo agli attuali prezzi di mercato dell’estrema periferia. La descrizione degli immobili fatta dall’assessore Antoniozzi coincide con i cinque fabbricati che la società Immobildream aveva inizialmente commercializzato come “complesso Le Gardenie”, oggi non più in vendita. Bisogna capire allora se ci sono collegamenti tra il proprietario dell’agenzia immobiliare, Roberto Carlino – con un conflitto di interessi grande come una casa – e la “Tam Sas”.
Chi c’e’ dietro la “Tam sas” e come si lega all’Immobildream? Risolto il mistero con una “web-inchiesta”
C’è una sola “Tam Sas” (fino ad aprile del 2009 “Tam Srl”) di Roma impegnata nelle costruzioni: è di Giuseppe Dell’Aguzzo. Un nome che ritroviamo in vari forum e blog dedicati alle lamentele dei cittadini verso costruttori e intermediari. Eccolo spuntare in una discussione del Torrino-Mezzocammino: il titolo è “Immobildream Marronaro… disavventure” e Dell’Aguzzo è membro della “Costruzioni Immobiliari 2005 srl”, che fa capo ai costruttori Marronaro. Il problema è la mancata consegna degli alloggi.
Un’altra denuncia in cui ritracciamo il responsabile della “Tam Sas” è rivolta da un blog di Lunghezza contro l’intermediaria “Progedil 90” (coinvolta nello scandalo “Coop Casa Lazio” e inquisita per una serie di truffe) e contro il costruttore “Immobiliare Lunghezza 2006 srl”: il 19/06/2008 è diventata “Immobiliare Lunghezza 2006 SAS con socio accomandatario Giuseppe Dell’Aguzzo. Ma le “magagne” di Immobildream e Marronaro non trovano sfogo solo nelle denuncie dei forum, e non sono estranee alle cronache che citano anche società oscure e “fortunate” come la “San Vitaliano 2003 srl”: negli articoli degli ultimi anni si parla, per esempio, dei residence per famiglie rom sia nel quadrante nord-ovest sia in quello orientale, pagati a peso d’oro dalla giunta Veltroni per far fronte all’emergenza abitativa (come succederà a via di Rocca Cencia oggi) oltre alle solite carenze dei lavori segnalate nei forum.
In sostanza i costruttori del “Gruppo Marronaro” hanno spesso beneficiato dell’intermediazione di Immobildream, e insieme a Marronaro ha lavorato, con le sue società di costruzioni dai molteplici nomi, anche Dell’Aguzzo, il titolare dell’impresa che si è aggiudicata l’appalto per vendere le case popolari a Rocca Cencia. Si possono ricostruire alcune parti del rapporto Dell’Aguzzo-Marronaro: la sede della “Tam Sas” di viale Bruno Buozzi 98 (un palazzo al centro di Roma, sede di molteplici società) è anche sede di altre attività di Dell’Aguzzo (come la citata “Immobiliare Lunghezza 2006 sas ”, “Investire 2009 sas ”, Marroimpresa sas ecc.). Tra le varie c’è anche la “Sviluppo Z36C società in accomandita semplice”che insieme a Marronaro era proprietaria dei terreni nella zona del Torrino-Mezzocammino (come si evince da vari documenti pubblicati online riguardanti i progetti delle costruzioni); sempre nel palazzo di viale Bruno Buozzi c’è la “Iris Costruzioni”di Dell’Aguzzo, e Marronaro Vincenzo è un dirigente della società.
Tornando all’angolo tra via di Rocca Cencia e la Prenestina, bisogna menzionare la “Marroimpresa srl (attualmente “Marroimpresa sas di Giuseppe Dell’Aguzzo” e diversi soci con il cognome Marronaro): stando a quanto riportato dalla Land srl, che effettua rilievi archeologici, la “Marroimpresa srl” le aveva commissionato delle “indagini archeologiche preliminari” proprio tra la Prenestina e Rocca Cencia: forse preliminari alla costruzione, effettuata da “Marronaro”, dei cinque palazzi venduti dall’Immobildream.
“In questa vicenda – dichiarano Simone Paoletti e Paolo Amarisse, presidente e vice del WWF Borghesiana – sembra emergere un fatto gravissimo e inquietante, ovvero che l’amministrazione pubblica, invece di tutelare gli interessi dei cittadini, abbia agito a solo vantaggio di pochi speculatori privati: dapprima nel 2007 consegnandogli un prezioso cuscinetto di verde pubblico di 5 ettari, tra il deposito AMA e la borgata Pratolungo, generando un profitto pazzesco per chi ha potuto costruire su un terreno non edificabile e successivamente nel 2010 ricomprando dallo stesso privato quelle abitazioni a circa 2.600 euro al metro quadro, in una zona dove i prezzi di mercato oscillano tra i 2000 e i 2400 euro/mq, come ci confermano le locali agenzie immobiliari”.
Insomma si prova a risolvere il problema delle classi più emarginate confinandole in un “ghetto” a ridosso della “monnezza”, pagato a peso d’oro grazie ai contribuenti.
Come per la vicenda dei residence veltroniani sopraccitati ci potrebbe essere stato un preciso disegno speculativo, oppure, come ipotizza il WWF Borghesiana, potrebbe essere accaduto che “in seguito alle difficoltà di trovare acquirenti, dovute da un lato all’eccessivo stock edilizio invenduto della zona, dall’altro all’aria insalubre proveniente dal vicinissimo deposito della “monnezza”, il Comune sia venuto in soccorso del privato, facendosi carico dell’acquisto per confinarvi cittadini bisognosi, che attendevano una casa popolare dal 2000. Il tutto a 20 Km dal centro città, senza servizi e con vista gabbiani”.
A questo punto bisogna ricordare cosa è successo prima in via di Rocca Cencia.
I precedenti: dalle case dell’Immobildream “erette” dalla variante del centrosinistra fino all’ annuncio di Antoniozzi
Nel 2007 l’Assessore all’urbanistica della giunta Marrazzo, Massimo Pompili (oggi deputato PD), dichiarava che era stata fatta qualche “concessione” ai meritevoli e caritatevoli costruttori, durante l’approvazione del “Piano Particolareggiato” della “Zona O n.86 Pratolugo”: cubature in cambio di servizi, addirittura un impianto sportivo. Poi, come immediatamente denunciato dagli attuali rappresentanti del WWF Borghesiana, cominciano a “crescere” proprio dov’era previsto “verde pubblico” le case rivendute dall’immobiliarista, presidente della commissione ambiente e membro di quella urbanistica, un ossimoro vivente!
Una storia degna di uno “sketch” di “Cettolaqualunque”, però ambientato a Roma: il verde pubblico si trasforma magicamente in “tronchi di cemento”. Il protagonista di questo “film” è un “trombato” (tradotto dal gergo giornalistico: “scartato”) delle elezioni europee 2009 e neoletto in regione: è lui, quello che aveva iniziato come agente immobiliare ed è divenuto esponente del partito con a capo Casini, il genero di Caltagirone. Roberto Carlino per quell’affare deve ringraziare i colleghi della Giunta Marrazzo.
Degne di nota sono anche le tre pubblicità dell’Immobildream per via di Rocca Cencia: in una prima campagna pubblicitaria si punta sul “fascino” della “Roma antica”, nonostante l’odore dell’impianto Ama ti riporti subito ai giorni nostri. Per non parlare di quella con lo slogan “a tu per tu con la natura” e l’immagine fuorviante di due giovani immersi nel verde, un picnic e un uomo con cavallo sullo sfondo; “non sogni” dice la voce di Carlino negli spot, ma “solide realtà”: forse bisognerebbe cambiare la denominazione sociale in “Immobilnightmare spa”.
Nel 2008 arriva un altro provvedimento riguardante “via di Roccacencia”: non sappiamo se abbia avuto seguito oppure no, ad ogni modo prevedeva variazioni di destinazione d’uso sulle cubature in possesso da una dozzina di soggetti per realizzare alloggi in tutta Roma. In cambio il Comune avrebbe ricevuto circa il 30% delle abitazioni, per destinarle a case popolari. L’atto era firmato nell’ambito dell’ “emergenza casa” dall’allora prefetto Mario Morcone, oggi candidato perdente a sindaco di Napoli e fallito anche come vertice dell’ Agenzia per i beni confiscati alle mafie (Maroni gli ha preferito il prefetto palermitano). In via di Rocca Cencia c’erano circa 7600 metri cubi della Sorain-Cecchini Due Srl (società del gruppo Sorain Cecchini comandato da Manlio Cerroni) pronti per ospitare 250 alloggi . E’ curioso notare almeno altri due beneficiari di questo provvedimento, oltre alla citata “Sorain”: la “Tribufrigo srl” (coinvolta nel 2005 in uno scandalo con protagonisti il figlio del craxiano Montali come rappresentante legale della società ed Enrico Nicoletti) e la “Cuma 6 srl” con Giuseppe Dell’Aguzzo in qualità di rappresentante legale.
Infine la notizia di un mese fa: cinque fabbricati, dopo un bando scaduto nel 2010, saranno comprati dal Comune. Si trovano in via di Rocca Cencia dal lato della Prenestina e l’appalto è stato vinto dalla “Tam Sas”. Questa la reazione delle opposizioni, riassunta da un comunicato di Stefano Pedica dell’Idv: “Leggendo gli annunci di compravendita immobiliare appare chiaro che il comune di Roma non ha fatto nessun buon affare. Si compra a botte di 150 alloggi allo stesso prezzo di quanto viene venduto un singolo appartamento, cercando poi fra le occasioni nella stessa via di Rocca Cencia, sulla Prenestina, il comune ha addirittura pagato di più. Non credo che l’emergenza abitativa si possa risolvere comprando case dai privati, serve invece un progetto di riqualificazione urbanistica di ampio respiro per risolvere la questione una volta per tutte ed evitare che fra dieci anni il problema si riproponga”.
Immobildream: non vende sogni ma… incubi che, invenduti, vengono comprati dal Comune per costruire ghetti, laddove c’era il verde pubblico.
Qui il tra il presidente dell'Immobildream (e consigliere regionale, presidente di commissione) e gli autori dell'articolo
L’accusa più falsa che viene veicolata dal gigantesco network in mano ai poteri forti, riguarda la “perdita” di 670 milioni di finanziamento europeo per realizzare la grande opera causata dalla cecità dei movimenti. Pochi giorni fa su Il Manifesto, Marco Revelli ha ribadito la verità: se si accetta di prendere il modesto finanziamento si perderanno i 20 miliardi di euro necessari a costruire una gigantesca e inutile grande opera.
20 miliardi di dollari è l’ammontare del debito contratto da Atene per coronare il grande sogno di perseguire la grande opera per eccellenza: le Olimpiadi che si svolsero nel 2004. Era il 1997 quando la capitale greca avanzò la candidatura e in breve tempo si creò il comitato d’affari necessario al raggiungimento del sogno. Grandi banche pronte a finanziare il debito, grandi imprese europee pronte a accaparrarsi i ghiotti appalti finanziati a debito con i soldi pubblici. Il fallimento economico dell’evento fu devastante. Le prime stime del 1997 parlavano solo di 1, 3 miliardi di dollari. Qualche anno dopo, il costo era quadruplicato, salendo a 5 miliardi. A consuntivo sono stati spesi 20 miliardi di euro. Alcuni economisti parlano di una voragine ancora maggiore. Dietro al sogno si nascondeva un incubo.
Le città - in quel caso la meravigliosa Atene - e i territori - in questo caso la val di Susa - sono diventati feudi di proprietà di un ristretto gruppo di istituti di credito, di grandi imprese, di società di rating pronte a seminare il panico sui mercati finanziari. Finanziano la spesa pubblica, se ne impadroniscono - guadagnando fiumi di denaro - e poi chiedono il conto all’intera società. In questi giorni sono stati concessi alla Grecia dall’Unione Europea 120 miliardi di euro di prestiti (il 20% circa serve per sanare il buco olimpico, dunque), e il motivo principale del prestito è che le banche europee rischiavano altrimenti di perdere parte del credito. Con la dilazione del credito riprenderanno i loro soldi e metteranno in vendita un’intera nazione.
La val di Susa sta dimostrando con studi concreti che il fallimento economico della realizzazione della Tav è certo. Non potranno esserci ritorni in termini di passeggeri perché il bacino d’utenza è oggettivamente ristretto. Non potranno esserci ritorni per il transito merci sia perché è dubbio che venga realizzata la linea ad alta capacità, sia perché in Svizzera sono già meglio attrezzati di noi. Nel caso dunque che l’opera andasse avanti per la cecità di chi ci governa e di un opposizione parlamentare culturalmente annientata, tra poco più di un decennio l’intero paese sarà costretto a pagare il debito che avremo contratto per finanziare le imprese e le banche che tengono in ostaggio il nostro ceto politico.
La battaglia della val di Susa assume dunque un valore straordinario. Azzerare l’opera significa risparmiare un fiume di soldi che potrà essere dislocato su altre poste di bilancio. Dal sostegno all’economie locali, ai progetti di messa in sicurezza del territorio e delle città, alla realizzazione dei servizi sociali che ancora mancano lì e in tante altre valli. Altre imprese beneficeranno dei finanziamenti oggi indirizzati solo a quelle poche che controllano il mondo dell’informazione. Un’altra agenda di lavoro, dunque: da un'unica inutile grande opera a tante piccole opere che nel loro insieme fanno un grande progetto di sviluppo. Il territorio come bene comune.
E di fronte a questa sfida, fa pena dover leggere il commento su quanto accade in val di Susa da parte del sindaco di Torino che ha affermato che essere contro la Tav è segno di “regressione culturale”. Parla per se stesso, ovviamente, e per coloro che ancora fanno finta di credere nella favola che le grandi opere portano sviluppo. Portano invece il mostruoso debito che oggi strozza la Grecia. Devono evidentemente nascondere quanto sta oggi avvenendo con spirito bipartisan. Quando Atene vinse la “sfida” olimpica che avrebbe contribuito al collasso economico del paese ellenico aveva di fronte la candidatura della Roma guidata dal centro sinistra. Non contento dello scampato pericolo, in questi ultimi due anni il sindaco Alemanno ha nuovamente candidato la città per le Olimpiadi del 2020 e maggioranza dell’opposizione capitolina rappresentata dal Pd non ha fatto battaglia. Anche ora che le intercettazioni telefoniche a carico di Bisignani e soci svela l’intreccio vergognoso degli interessi e delle speculazioni da parte di coloro che cantavano le lodi della candidatura, prima fra tutti l’Unione degli industriali laziale.
Evidentemente una parte della sinistra è ormai incapace di rompere la subalternità culturale con cui ha guardato alla globalizzazione e il futuro sta nell’intelligenza collettiva della val di Susa.
Caro Bersani, Conosci il mio lavoro ed i miei scritti sulle problematiche connesse col Progetto Tav. Come sai, sono fra i pochi ad aver dato conto del fatto che sei stato l'unico Ministro dei Trasporti che ha provato a rimettere sui binari della legalità il sistema di finanziamento e di affidamento delle infrastrutture per il treno ad AV. Ci hai provato nel 2001 con la legge finanziaria e ci hai riprovato nel 2006 con la cosiddetta lenzuolata. Il governo di centro-destra, in entrambi i casi, ha cancellato quelle norme ripristinando sic etsimpliciter i contratti affidati a trattativa privata da Tav Spa nel 1991, con i costi, nel frattempo, lievitati di oltre il 400%.
Come ti è noto, quel progetto di AV è stato costruito su di una architettura contrattuale e finanziaria truffaldina ed ha già prodotto uno scandaloso debito pubblico: 12.950 milioni di euro, accumulati dal 1994 al 2005 da Tav spa e da Infrastrutture spa, tenuti fuori dai conti pubblici. Come sai, con il comma 966 della legge finanziaria per il 2007, quei 26.000 miliardi di vecchie lire, millantati come finanziamento privato, sono stati tutti trasferiti nel debito pubblico. La Corte dei Conti è arrivata a definire questo accollo del debito una norma “anodina” nei confronti delle future generazioni. Questo dunque lo sfondo, non oscurabile, che ospita la rappresentazione odierna del “confronto” sul progetto della nuova linea Tav/Tac Torino-Lione. Il primo accordo del 2001 con i francesi porta la tua firma e sai bene che prevedeva la ripartizione dei costi per la tratta internazionale in modo paritario fra i due Paesi. Nel 2003 il Cipe, con le procedure speciali della legge obbiettivo, approvava il progetto preliminare della tratta internazionale, con delle previsioni di traffico passeggeri e merci a dir poco fantasiose. Proprio quelle previsioni inattendibili portavano la società ferroviaria nazionale SNCF a esprimere forti dubbi e comunque a valutare in modo negativo il rapporto costo/benefici. Per convincere i Francesi, nel maggio del 2005, Berlusconi e Lunardi sottoscrissero un nuovo accordo nel quale si stabilisce che il costo della tratta internazionale per due terzi sarà a carico dell'Italia.
Nel 2006, dopo le drammatiche vicende di Venaus, due governi, Berlusconi e Prodi, decisero di fare uscire la Torino-Lione dal perimetro delle norme speciali della legge obbiettivo. Proprio in virtù di questa decisione il Consiglio di Stato, con la sentenza n.4482del 23.8.2007,dichiarava “improcedibile per cessata materia del contendere il ricorso in appello proposto dalla Comunità Montana Bassa Valle di Susa e Val Cenischia, nel presupposto che il progetto di realizzazione per la realizzazione della linea ferroviaria Torino-Lione, approvato dal CIPE con la delibera 113/2003, sia stato stralciato dall'ambito applicativo della legge 443/2001 e ricondotto nell'alveo delle procedure ordinarie”. Oggi, in palese contrasto con decisioni politiche e sentenze, il progetto per la nuova galleria di servizio è stato approvato solo grazie alle norme speciali della legge obbiettivo, senza che nessuna autorità abbia mai fornito risposta ai ricorsi che la Comunità montana ha prodotto in proposito. Il nuovo progetto preliminare della tratta internazionale, per il quale non vi è ancora nessun cantiere aperto in Italia ed in Francia, prevede oggi un costo di 10,369 miliardi di euro. I francesi chiedono però che siano per intero a carico dell'Italia le modifiche apportate alla tratta in territorio italiano e ciò porterebbe a circa 8 miliardi la quota a carico del nostro Paese. Le mie stime, come sai le uniche risultate affidabili, valutano in capo al nostro Paese, considerando anche la tratta nazionale, un costo non inferiore ai 20 miliardi di euro. Il finanziamento europeo, stante il regolamento in essere, potrebbe coprire fra l'1,2 e l'1,6 miliardi di euro. Restano da trovare nelle casse dello Stato almeno 18,4 miliardi; cifra per la quale non vi è la benché minima ipotesi di copertura. Con il traffico merci realmente prevedibile, oggi il solo a motivare la realizzazione di questa infrastruttura, i ricavi consentirebbero a stento di coprire i costi di gestione e manutenzione della nuova infrastruttura.
Il giorno successivo alla apertura manu militari del cantiere per la galleria di servizio per la nuova linea Torino-Lione, la cronaca ti ha attribuito queste dichiarazioni:“ Non possiamo accettare l'idea che il processo di decisione venga bloccato da frange violente. ..quello che è successo in Valdisusa è spiacevolissimo ma non si possono fermare i cantieri”. Ho sperato, nei giorni successivi, nella lettura di una riflessione meno banale di quella che ti è stata attribuita. Al contrario, alle tue si sono aggiunte quelle ancor più generiche e arroganti del sindaco e dell'ex sindaco di Torino. Attesa vana anche dopo il 3 luglio, grazie allo spettacolo degli scontri fra frange violente e forze di polizia che ha consentito di oscurare la più grande e ordinata manifestazione mai vista in Italia su di un tema così specifico.
Non credi sia da irresponsabili prendere a pretesto il comportamento di alcune frange violente e glissare totalmente sulle ragioni del NO di una intera comunità e dei loro rappresentanti? Non è da te per come ti conosco, non credo sia consentito al segretario del maggior partito di opposizione che ha fatto della consultazione popolare la sua ragion d'essere. La Comunità Montana della Valdisusa e Valsangone ha prodotto non solo osservazioni puntuali e dettagliate sui nuovi progetti della nuova galleria di servizio della Maddalena e della tratta internazionale Torino-Lione. Ha presentato anche esposti e ricorsi sulla illegittimità delle procedure di approvazione e sulle modalità di affidamento della nuova galleria di servizio della Maddalena alla cooperativa CMC di Ravenna (rigorosamente a trattativa privata, compresi i lavori fuori sacco affidati a tre piccoli imprenditori locali usati come scudo mediatico). Posso assicurarti, e sai quanto io sia rigoroso in queste valutazioni, che tutte le procedure e gli atti connessi adottati dalla società LTF sono quanto di peggio, e illegale forse, possa essere messo in atto a fronte delle norme europee e nazionali.
Non ho alcuna pretesa di essere creduto sulla parola, ma un partito importante come il PD credo abbia il dovere di confrontarsi nel merito delle ragioni del NO o del SI. Il NO a quel progetto è il frutto della conoscenza scientifica dei numeri usati per sostenerne la fattibilità: numeri che non hanno il minimo di credibilità, anzi clamorosamente smentiti dalla realtà. Nel 2003 transitavano su quella linea 1,5 milioni di passeggeri e 9,7 milioni di tonnellate di merci; il progetto preliminare approvato nello stesso anno dal Cipe prevedeva la saturazione della linea storica nel 2020 con oltre 6 milioni di passeggeri e 22 milioni di tonnellate di merci. Nel 2010 i passeggeri sono stati 700 mila e le merci 2,4 milioni di tonnellate. Previsioni sbagliate, no semplicemente false, oggi traslate di sette anni e riproposte pari pari. Conosco nel dettaglio quel progetto, essendo uno dei tecnici nominati, dalla Comunità montana, per valutarne il merito tecnico e le procedure per la sua realizzazione. Conosco la consapevolezza informata e diffusa delle ragioni del NO, dei Valsusini e di tutti i tecnici che hanno almeno una minima conoscenza di quel progetto. Posso sinceramente testimoniare che da quando mi occupo di questo progetto non ho mai avuto occasione di misurarmi con ragioni tecniche del SI minimamente affidabili.
I cantieri, se si apriranno, rischiano di tenere in piedi per decenni questo confronto dissociato fra le ragioni tecniche e scientifiche del NO ad un'opera inutile e le ragioni del NO alle frange violente. Dissociazione utile solo a chi, schierato per il SI, senza alcuna motivazione tecnica, si nasconde dietro il NO alle violenze vere e presunte di quattro gatti. Un paravento che solo l'occultazione della verità e la disinformazione può tenere in piedi.
La TAV Torino-Lione rischia di diventare per il PD e per la Politica, non solo in Valdisusa ed in Piemonte, ma in Italia, la questione dirimente della credibilità del tuo partito e della politica tutta, forse l'ultima occasione mancata per agganciare un rapporto con la nuova aria proposta dal popolo dei referendum dei beni pubblici e della legalità. Il NO al Tav, e non solo in quella Valle, è semplicemente una domanda di trasparenza e confronto nel merito. La politica, con la p maiuscola, non può disattenderla. La mia stima e la mia attesa fiduciosa.
Ivan Cicconi
I moribondi di Palazzo Montecitorio stanno per approvare una legge ideologica, violenta, bugiarda, sgrammaticata, incostituzionale. È la legge sul testamento biologico, altrimenti detta «dichiarazioni anticipate di trattamento». E faccio esplicito riferimento a un classico della critica parlamentare – I moribondi del Palazzo Carignano, scritto nel 1862 da Ferdinando Petruccelli della Gattina.
La maggioranza parlamentare sempre più delegittimata per gli scandali che l´attraversano, per l´impunita vocazione a secondare ogni pretesa del suo Capo, per la distanza abissale dal rispetto dovuto ai cittadini pretende di impadronirsi della vita stessa delle persone. Non si cura dei documenti analitici mandati a tutti i senatori e deputati da più di cento giuristi che mostrano i gravi limiti tecnici della legge. Disprezza l´opinione pubblica perché, come da anni ci dicono le periodiche rilevazioni dell´Eurispes, il 77% degli italiani è favorevole al diritto di decidere liberamente sulla fine della vita. Mentre ripetono la sempre più mendace formula "non mettiamo le mani nelle tasche degli italiani", il presidente del Consiglio e la sua docilissima schiera mettono le mani sul corpo di ciascuno di noi.
La legge è ideologica e violenta, quintessenza di un dispotismo etico che vuole imporre a tutti il parzialissimo, controverso punto di vista di una sola parte a chi ha convinzioni, fedi, stili di vita diversi. Afferma la «indisponibilità» della vita: ma questa è una affermazione in palese contrasto con l´ormai consolidato diritto al rifiuto e alla sospensione delle cure, che in moltissimi casi è già stato esercitato con la consapevolezza che si trattava di una decisione che avrebbe portato alla morte. Nega il diritto di rifiutare trattamenti come l´alimentazione e l´idratazione forzata, escludendone il carattere terapeutico in contrasto con l´opinione delle società scientifiche e con l´evidenza della pratica medica. Riflette un fondamentalismo cattolico incomprensibile: il muro alzato dalle gerarchie vaticane contrasta clamorosamente, ad esempio, con l´apertura mostrata dalla Conferenza episcopale tedesca Varcate le Alpi, quel che lì è materia di legittimo dibattito pubblico improvvisamente diventa questione di fede?
È bugiarda, perché il suo titolo – che si richiama al consenso informato, all´alleanza terapeutica tra medico e paziente, alla rilevanza delle dichiarazioni fatte dalla persona per decidere consapevolmente sul come morire – è clamorosamente contraddetto dal contenuto delle singole norme. Il consenso della persona è sostanzialmente vanificato, perché le sue dichiarazioni non hanno valore vincolante e non possono riguardare questioni essenziali come quelle dell´alimentazione e dell´idratazione forzata. L´alleanza terapeutica si risolve nello spostamento del potere della decisione tutto nella direzione del medico. Le «dichiarazioni anticipate di trattamento» sono vere macchine inutili, frutto di un delirio burocratico che impone faticose procedure alla fine delle quali vi è il nulla, visto che sono prive di ogni forza vincolante.
Siamo di fronte ad una vera "legge truffa", ad un testo clamorosamente incostituzionale. Legittimi punti di vista non possono essere trasformati in norme che si impongono alla volontà delle persone violando i loro diritti fondamentali. La discrezionalità del legislatore, in questi casi, è esclusa esplicitamente dall´articolo 32 della Costituzione: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E la Corte Costituzionale ha riconosciuto il diritto della persona di «disporre del proprio corpo»; ha severamente escluso che il legislatore possa arrogarsi il ruolo del medico e dello scienziato: e soprattutto ha affermato in modo nettissimo che l´autodeterminazione è un "diritto fondamentale" della persona. Proprio quell´autodeterminazione che il voto della Camera vuole cancellare.
Questo scempio si sta consumando nel più assoluto silenzio. Perché l´opposizione, oltre ad impegnarsi in una purtroppo vana battaglia di emendamenti, non ha praticato nemmeno per un minuto un ostruzionismo che avrebbe almeno avuto la funzione di informare l´opinione pubblica del gravissimo scippo che si sta consumando a danno di tutti? Il Pd continua a rimanere pr igioniero delle sue divisioni interne, che sono divenute un ostacolo alla cultura e alla ragione? Perché persiste il timore di dispiacere alle gerarchie vaticane, non al ricco e aperto mondo dei cattolici? Perché, soprattutto, a nulla è servita la lezione delle elezioni amministrative e dei referendum che mostrano una società viva, reattiva, alla quale bisogna fare appello tutte le volte che sono in questione i diritti fondamentali delle persone?
Ricordo una volta di più Montaigne: «la vita è un movimento ineguale, irregolare, multiforme». La legge deve abbandonare la pretesa di impadronirsi d´un oggetto così mobile, sfaccettato, legato all´irriducibile unicità di ciascuno. Quando ciò è avvenuto, libertà, dignità e umanità sono state sacrificate e gli ordinamenti giuridici hanno conosciuto una inquietante perversione. Non a caso «la rivoluzione del consenso informato» nasce come reazione alla pretesa della politica e della medicina di impadronirsi del corpo delle persone, che ha avuto nell´esperienza nazista la sua manifestazione più brutale. L´autoritarismo non si addice alla vita, né nelle sue forme aggressive, né in quelle «protettive». Riconoscere l´autonomia d´ogni persona, allora, non significa indulgere a derive individualistiche, ma disegnare un sistema di regole che mettano ciascuno nella condizione di poter decidere liberamente.
Abbiamo assistito in questi giorni ad un dibattito sulla cancellazione delle Province intriso di demagogia e di superficialità.
I cittadini e le imprese ci chiedono di riformare con coraggio la pubblica amministrazione per renderla più snella ed efficiente e per consentire al Paese riforme ormai non più rinviabili. Tutto ciò è tema che riguarda seriamente il Partito Democratico e la sua capacità di collocarsi in modo convincente sul terreno delle riforme, spiegando ai cittadini ciò che intende fare e soprattutto ciò che farà al governo del Paese. Per questo la scelta del Partito di non sostenere l’ipotesi demagogica dell’Idv e dei centristi, volta solo all’incasso di un consenso a breve, ci convince.
Di fronte alla presa di posizione di autorevoli esponenti del nostro partito, per “amor di verità” crediamo di dover richiamare il nostro programma elettorale del 2008, che come Presidenti di Provincia abbiamo condiviso e che prevedeva l’eliminazione entro 1 anno di tutti gli ATO, settoriali e non, attribuendo le loro competenze alle Province. Si prevedeva inoltre l’eliminazione delle Province là dove si costituiranno le aree metropolitane.
Mai, come Presidenti di Provincia, abbiamo attestato l’associazione della quale facciamo parte, su posizioni di difesa acritica dell’attuale sistema istituzionale.
Crediamo però che un grande partito abbia il dovere di spiegare ai cittadini quale Paese ha in mente. Peraltro, mentre ragioniamo di tutto ciò, il Parlamento si appresta ad approvare la Carta delle Autonomie, testo fondamentale per l’attuazione del federalismo, perché in esso vengono definite le funzioni fondamentali di Comuni e Province; in pratica il “chi fa che cosa” nel sistema delle autonomie locali. Le Associazioni delle autonomie e le Regioni hanno suggerito soluzioni diverse, ognuna a difesa del livello di governo che rappresentano, ed il Governo ha compiuto una difficile mediazione. Siamo sicuri che quel testo non debba essere più preciso per evitare ogni sovrapposizione di competenze, definendo con esattezza il mestiere di ciascuno, per rendere la vita più semplice ai cittadini e alle imprese, e rendere possibili significativi risparmi, semplicemente evitando che tutti facciamo le stesse cose? E, visto che si parla solo di Comuni e Province, non è il caso che le Regioni facciano la stessa cosa, evitando di distribuire in modo irrazionale o, ancor peggio, di trattenere, funzioni che possono essere conferite agli enti più vicini ai cittadini, così che possano avere finalmente, per una loro esigenza, un solo interlocutore?
E allora qualche domanda è legittima.
L’abolizione delle Province porta con sé l’abolizione dei capoluoghi e quindi l’eliminazione di prefetture, questure, uffici decentrati dello Stato e delle Regioni?
Si vuole cioè concentrare il potere e l’economia pubblica in venti città e non più in cento città italiane?
Si vogliono eliminare soltanto le Province e lasciare organizzati lo Stato e le Regioni come adesso e quindi, di fatto, spostare a livello Regionale compiti, funzioni e personale, vista la oggettiva difficoltà di trasferire ai Comuni competenze di area vasta?
Se fosse così 50.000 dipendenti residenti in quasi tutti gli oltre 8.000 comuni italiani, che svolgono per la gran parte funzioni legate al territorio, rimarrebbero irrimediabilmente nelle Province e le Regioni non potrebbero far altro che costituire agenzie, società e sovrastrutture con costi facilmente immaginabili.
Al di là della demagogia è arrivato il tempo delle proposte serie. Su di esse i Presidenti di Provincia saranno al tavolo di chi vuole riformare profondamente l’Italia: presto, bene e con coraggio, senza posizioni pregiudiziali e pronti a condividere scelte che riguardino anche e soprattutto le Province. Quello che non è tollerabile è la continua delegittimazione di rappresentanti delle istituzioni, eletti dai cittadini e che in trincea si confrontano quotidianamente con le difficoltà che stiamo attraversando. Al Partito Democratico chiediamo di scegliere subito la strada da percorrere, strada di riforme profonde che può e deve riguardare tutti i livelli istituzionali del Paese. Il centrodestra in lunghi anni di governo non ne è stato capace, sta a noi dimostrare che riformare le istituzioni seriamente è possibile.
I Presidenti di provincia Pd dell’Unione delle province d’Italia: Antonio Saitta (Torino), Nicola Zingaretti (Roma), Fabio Melilli (Rieti), Andrea Barducci (Firenze), Beatrice Draghetti (Bologna), Giovanni Florido (Taranto), Piero Lacorazza (Potenza).
Una domanda:
ma le Città metropolitane non avrebbero dovuto essere costituite (e i confini amministrativi delle province sul territorio residuo ridisegnate) fin dal 1992?
Trattandosi d’una stazione ferroviaria, concorderete, ci sta tutto che le automobili vengano messe sotto, il verde possa specie all’esterno prendere spazio, un mezzo di trasporto alternativo diventi l’ascensore. Trattandosi poi della Centrale, già sottoposta ad ampia e articolata ristrutturazione interna è inevitabile— essendo ora la priorità il restyling fuori dalla stazione — non pensare all’Expo. E darci sotto, anzi intervenire lì dove si aspettava da decenni. Per esempio nei 33 mila metri quadrati degli ex magazzini di via Sammartini, infiniti tunnel coi binari che servivano per lo scalo merci oramai buio posto degradato. I tunnel potrebbero diventare una cittadella internazionale di ristoranti, locali e bar.
L’amministratore delegato di GrandiStazioni Fabio Battaggia ha pronto il dossier per il sindaco Giuliano Pisapia. Macchine, casse, Milano Novecento in piazza Luigi di Savoia e seicento in via Sammartini, con quattro piani interrati di parcheggi e conti presto fatti: verranno creati 1.500 posti auto sotterranei. Il progetto dev’essere prima approvato dal Comune; dopodiché vanno reperiti i fondi. Non pochi. Soltanto per i due parcheggi sono 25 milioni di euro. In più ci sono 30 milioni per la riqualificazione dei magazzini. Come fare? O con il Cipe, o con le casse del Comune oppure tirando dentro sponsor. Battaggia a Pisapia proporrà: parliamone, occupiamoci insieme della cosiddetta porta d’ingresso della città. Apriamoci alle professionalità, al talento, alle idee. Dice l’ad: «Dopo tutti i lavori fatti, dopo anche le difficoltà, non possiamo lasciare il grande cantiere Centrale a metà...» .
In via Sammartini dai parcheggi (ricavati sempre negli magazzini) vi saranno accessi diretti ai binari. Spegnere l’auto, salire, entrare nel treno. Manciata di azioni in breve lasso temporale. Accelerare, agevolare. Ritmo metropolitano. Dall’Est alle pensiline Fiera dell’Est Europa con il suo doloroso popolo: gli incontri domenicali fra badanti, le parrucchiere di strada con taglio e messa in piega per qualche spicciolo, i bivacchi di chi non aveva da dormire o era steso ubriaco, le corse verso lo scippo dei ladruncoli rom, e le risse, e le valigie rubate ai turisti... Ha la sua lunga storia piazza Luigi di Savoia, peraltro in rapido e progressivo miglioramento. E ne è pronta una nuova, di storia. Nei disegni degli architetti che hanno rivisitato il suo look, la piazza avrà ancora più verde. Olmi, platani, magnolie, ciliegi andranno a popolarla. Nessuna modifica geografica per l’area dei bus (per Malpensa, Orio al Serio e centro città): rimarrà dov’è.
Semmai saranno aggiunte pensiline e panchine, verrà dato un ordine maggiore, insomma sarà più chiaro orientarsi e sostare. La discarica e il jazz Biciclette di bimbi, frigoriferi senza l’anta, chilogrammi di amianto. Sacchetti di chiodi, una friggitrice. Lungo una delle gallerie stradali che collegano via Sammartini a via Ferrante Aporti ci sono accessi. Porticine. Che danno sugli antichi magazzini. Trasformati in discariche abusive. I binari servivano per movimentare vagoni, container, cassoni. Le potenzialità di quest’area sono enormi. Se non altro per le dimensioni. L’area ha ospitato — qualcuna sopravvive — pescherie di varia natura. C’è una naturale predisposizione architettonica ad accogliere locali pubblici. Il sogno l’abbiamo detto: cittadella commerciale. Battaggia suggerisce: all’insegna dell’anima internazionale di Milano, sorta di via parallela di cibo orientale e africano, sottofondo jazz e acuti delle sperimentazioni europee di musica elettronica.
postilla
Miracoli della compartimentalizzazione societaria: Grandi Stazioni occupandosi di valorizzazione immobiliare non ha la più pallida idea di cosa sia una Stazione, né ha alcun interesse a farsela. Lei valorizza immobili e il concetto di mobilità le sfugge per ragione sociale. Punto.
Quanto già ampiamente notato dai milioni di viaggiatori che sperimentano sulla loro pelle il cosiddetto refurbishment del nodo ormai ex ferroviario, perdendosi nei corridoi progettati come all’Ikea, per far fare più strada possibile tra le mirabolanti offerte commerciali, ora raggiungerà il sublime assoluto, allargandosi al quartiere manco fosse il morbillo. Si legge di migliaia e migliaia di posti auto, sopra e sotto terra, naturalmente come se quelle auto fossero pendagli ornamentali, che arrivano lì dal cielo, e non fabbriche di inquinamento costrette ad arrancare per ore attraverso l’intasamento cronico determinato proprio dal loro flusso. Probabilmente anche i treni svolgono un ruolo similmente virtuale in questa coreografia, simpatiche chiazze colorate complementari all’andirivieni di clienti da un negozio all’altro. Niente da fare: lo shopping mall è come un congegno a orologeria, una volta innescato fa il suo mestiere, incurante della città e del buon senso: chiamate gli artificieri!! (f.b.)
LA NOTIZIA/La giunta ha deciso "unanimemente nonostante gli approfondimenti di intraprendere la strada della revoca della delibera di approvazione del Pgt". Lo ha annunciato l'assessore all'Urbanistica Lucia De Cesaris dopo la riunione della giunta di palazzo Marino.
RUMORS
Secondo quanto risulta ad Affaritaliani.it, la riunione di giunta che ha portato alla decisione di riportare indietro le lancette al momento della pubblicazione del Pgt, rimettendo quindi sul piatto tutte le osservazioni che erano state presentate, è stata tutt'altro che tranquilla. La discussione è stata accesa, da una parte non solo Stefano Boeri e il gruppo del Pd ma anche altri assessori, hanno sostenuto con forza che la scelta del sindaco di tornare indietro alle osservazioni avrebbe comportato rischi enormi. Il primo, legato ai tempi: ridiscutere tutto vorrebbe dire tornare in aula per un anno e mezzo, con tutti i pericoli del caso. Il secondo rischio: andare a ridiscutere il Pgt senza un documento politico di indirizzo, già condiviso, sul piano di governo, vorrebbe dire non sapere quali osservazioni accettare e quali no. Il terzo rischio: che dopo 18 mesi di discussione, i cambiamenti all'impianto profondo del Pgt sarebbero comunque poco rilevanti. Il quarto rischio (che ha "colpito" soprattutto Tabacci): ridiscutere il Pgt vuol dire rinunciare agli oneri di urbanizzazione già iscritti a bilancio, aggravando così una situazione già difficile.
LA DICHIARAZIONE AD AFFARI
Carmela Rozza, capogruppo del Pd a Palazzo Marino, commenta così la decisione della Giunta: "Il Pd ha espresso al sindaco la propria preoccupazione, manteniamo la nostra preoccupazione pur rispettando la scelta del sindaco. Lavoreremo in aula per velocizzare il più possibile e creare meno disagio possibile, ripeto: rispettando la scelta del sindaco"
GIULIANO PISAPIA
La scelta della giunta sul Pgt "permette di impedire" la "carneficina di Milano". Lo ha detto il sindaco Giuliano Pisapia, spiegando la decisione dell'esecutivo di palazzo Marino di revocare la delibera di approvazione del Piano di governo del territorio votata il 4 febbraio dal consiglio comunale. Per Pisapia la scelta di oggi non "bloccherà" l'econmomia e lo sviluppo della città ma "esattamente il contrario. Se fosse stato pubblicato il Pgt adottato dal centrodestra ci sarebbero stati decine di ricorsi, del tutto fondati, sarebbero stati accolti e si sarebbe tornati indietro. Invece la scelta che abbiamo fatto - ha spiegato - permette di sviluppare economia a Milano, di continuare i lavori già fatti, di proseguire lavori già approvati o che possono essere approvati e soprattutto permette di impedire quella carneficina di Milano, scusate il termine, che significherebbe nuovi grattacieli e nuove case per soggetti che non sono in grado di pagarle. Noi invece vediamo la necessità che a Milano ci sia più verde, più housing sociale, più edilizia popolare, quello di cui hanno bisogno i cittadini di Milano".
MARIOLINA MOIOLI
“È una scelta irresponsabile quella di ridiscutere il Piano di Governo del territorio, pronto dopo la conclusione del suo iter burocratico per essere pubblicato”. Questa la prima reazione del capogruppo di Milano al Centro, Mariolina Moioli alla revoca della delibera di approvazione del Pgt. “Significa bloccare lo sviluppo della città a tempo indeterminato – incalza Moioli - rinunciare agli oneri di urbanizzazione già previsti in entrata di bilancio 2011, aggravare la situazione già difficile di tutte le imprese del settore e di tutto l’indotto. Ma quello che è più grave è il blocco dell’occupazione nei settori trainanti per l’economia”. “Si tratta – conclude - di una presa di posizione ideologica e contro gli interessi dei milanesi, della città, ma anche dello sviluppo di tutto il Paese. Non ci limiteremo a posizioni contrarie ma faremo, come opposizione, tutto quello che è possibile”.