Si scoprono colori, suoni e profumi del paesaggio lombardo. Si viaggia da Nord a Sud, dalla montagna alla pianura, passando per la collina. Circumnavigando i laghi e costeggiando i fiumi. Niente auto, moto, camion. Solo due ruote, pedali e sudore lungo i 2.439 chilometri di piste ciclabili che si snodano dalla Valtellina al Po, dal Ticino al Mincio, dal lago di Varese al Garda. Una rete di strisce d’asfalto ma anche di tratti sterrati, sicuri e protetti. Un paradiso per chi vuole stare all’aria aperta, godersi il sole, cercare un po’ di benessere, ammirare borghi storici e artistici di una Lombardia nascosta, rilassarsi nel verde. Fuori dalle città, lungo le ciclabili delle dodici province si incrociano tutte le età. Coppie, amici e famiglie. Operai, casalinghe, manager e imprenditori.
Un popolo in crescita, per lo più soggetti metropolitani, che macinano chilometri con la bici sportiva, o la mountain bike. In Valtellina, lungo i 97 km del tracciato che parte da Grosio e scende fino a Colico, sul lago di Como. Da dividere in due tappe, con tanto di pernottamento in valle, per chi non è sufficientemente allenato. Chi ha buone gambe può cimentarsi anche con le salite del Bergamasco: tappe da non perdere in Val Brembana (20 km da Zogno a Piazza Brembana), in un paesaggio mozzafiato di gallerie, ponti, saliscendi. Da non perdere anche il percorso della Valganna (17 km da Ponte Tresa a Miniera di Valsassera) nel Varesotto, lungo l’antica via di pellegrini, re e mercenari. Si pedala per passione, per turismo, per passatempo lungo l’anello del lago di Varese, 28 km con partenza e arrivo a Gavirate. Oppure lungo corsi d’acqua e canali. A cominciare dall’ Adda, 29,3 km da Garlate (Lc) a Trezzo d’Adda (Mi): un itinerario dal retrogusto manzoniano, uno spettacolare corridoio verde con canyon, ponti e i resti dei castelli di Brivio, Trezzo, Cassano, che si annoda poi con la pista della Martesana, che arriva fino a Milano.
Gli innamorati delle due ruote non possono rinunciare al Ticino e al Naviglio Grande, 73 km da Sesto Calende a Milano, con un paesaggio che racconta tanta storia di Lombardia. Come i 33 km della ciclabile del Naviglio Pavese, con una deviazione irrinunciabile verso la Certosa di Pavia. Due percorsi meritano, infine, una citazione: la ciclabile del Parco delle Groane, 20,8 km da Lazzate e Bollate; e la Peschiera del Garda-Mantova, 43,5 km, dove un’atmosfera rinascimentale si sposa con l’anima più vera della Pianura Padana.
In questa rassegna delle bellezze lombarde e del modo più intelligente per godersele, c’è un passaggio (giusto alla fine del penultimo paragrafo) che a modo suo apre e frettolosamente richiude il vero cuore di tenebra della faccenda: sono anni e anni che abbiamo fatto trenta, ma il trentuno no, quello mai! Nel senso che, quando dalle vertigini sportive e turistiche si passa alla vita normale cominciano i dolori. E dolori non tanto dovuti all’ovvia ripresa del tran tran quotidiano, ma alla scomparsa da sotto il sedere del ciclista di quel percorso che sin lì l’aveva guidato tra fiumi valli e monumenti. C’è davvero da chiedersi il perché, di questa relativa rarefazione infrastrutturale proprio quando invece tutte le altre reti improvvisamente si infittiscono e integrano.
L’architetto Jan Gehl, vero e proprio guru internazionale in materia di progettazione di sistemi integrati di mobilità dolce locale coordinati alle reti più tradizionali, nel suo ultimo Cities for People (Island Press, 2010) osserva sulla scorta delle infinite consulenze in materia come esista un criterio infallibile per valutare la civiltà – un assessore in campagna elettorale direbbe “misura d’uomo” – di un insediamento urbano moderno. Un criterio semplice e pratico, lo possiamo usare tutti mettendoci in un momento qualunque a osservare i ciclisti che passano: la civiltà cresce man mano diminuisce la percentuale dei maschi giovani con mezzo high-tech e tutine fosforescenti, e aumenta quella di donne, bambini, anziani con zainetti e borse della spesa.
Perché succeda questo, ovviamente, oltre a buona volontà e spirito di adattamento ci vogliono un minimo di infrastrutture e organizzazione. E invece?
Invece, ad esempio (solo per farne uno) proprio dove il percorso turistico “si annoda poi con la pista della Martesana, che arriva fino a Milano”, e iniziano a comparire vistose strade, quartieri a organizzazione fortemente automobilistica, barriere, ferrovie, tangenziali, le stazioni della MM2 … la pista ciclabile resta più o meno identica al percorso che si stava seguendo dai paesaggi manzoniani dell’addio ai monti parecchi chilometri prima. Vietato svoltare di qui o di là, salvo nei centri storici dove qualche piccola zona pedonale e comunque il traffico scoraggiato dalle stradine aiutano da soli. Vietato portarsi la bici in metropolitana, per i soliti ostacoli burocratici cretini, che però nessuno affronta MAI. Poi, superati nei soliti cunicoli un po’ puzzolenti gli svincoli autostradali, l’ex percorso turistico entra in Milano. E qui, parafrasando il mitico Peppino, “ho detto tutto”. Posso solo richiamare la vicenda del piano cosiddetto Grande Gronda, sperando che magari i feroci comunisti della giunta Pisapia, o qualcun altro, provino un po’ a far diminuire quella percentuale di ciclisti testosteronici che malgrado loro sono sicuro indice di inciviltà (f.b.)
Caro direttore, «Io avrei affrontato la questione del Lido in altro modo», dice il sindaco Giorgio Orsoni, «ma se avessi bloccato la vendita dell’ospedale a mare avrei rischiato di violare il patto di stabilità e mettere a rischio anche i 40 di euro promessi dal Comitatone». È indubbio che Venezia, come tanti altri comuni, sia costretta a vendere quote di patrimonio, ma davvero non c’era altra strada che distruggere una parte del Lido e arricchire i soci di EstCapital e le imprese che costruiscono il Mose?
Il Comune possiede il 14,6 per cento delle azioni di Save, l’azienda che gestisce l’aeroporto di Tessera. In Borsa quelle azioni valgono circa 60 milioni di euro, venti più di quelli promessi dal Comitatone (solo promessi in quanto la decisione definitiva spetta al Ministro dell’economia che a quella riunione non c’era e che forse ha altre priorità).
È davvero necessario che il Comune possegga il 75% di un’azienda informatica, Venis, che vende servizi acquistabili sul mercato, forse a condizioni più convenienti? Ho citato Save perché sorge un dubbio. La società reclama dal Comune 17 milioni per realizzare il progetto ideato da Frank Gehry: «Siamo finalmente a buon punto per avere quei famosi 17 milioni di euro. E’ una condizione sine qua non per la sostenibilità di Venice Gateway», ha detto recentemente il presidente Marchi.
Ricordo l’origine di quei 17 milioni: inizialmente il Comune li aveva destinati alla costruzione di una bretella autostradale per collegare l’aeroporto con Tessera City (destinazione curiosa, in quanto di solito sono i privati a pagare gli oneri di urbanizzazione a fronte del permesso a edificare). Slittato quel progetto, Save vuole ora utilizzare quei 17 milioni per costruire un albergo e un centro congressi. Davvero c’è bisogno di denaro pubblico per sovvenzionare redditizie attività private? Qualora Tremonti approvasse i 40 milioni non è che 17 finiranno alla Save?
Mi preoccupo perché è una vicenda che ricorda da vicino quanto è accaduto al Lido. Si era partiti per costruire il nuovo palazzo del Cinema; ora quello non si fa più e a guadagnarci saranno solo EstCapital e i suoi azionisti, i quali soppianteranno anche la Sacaim ottenendo l’appalto per la sala cinematografica che si realizzerà al posto del grande progetto del centenario. (Il tutto sotto la regia del Commissario Spaziante. Venuta meno la ragione per cui era stato nominato, costruire il nuovo palazzo del Cinema, come giustifica, in un momento di difficoltà economiche, la sua permanenza in quell’incarico?). Il sindaco dice di essere stretto in una morsa infernale, senza sapere come far quadrare i conti. Io penso che se ne esca solo riaffermando il «primato della politica», come si diceva un tempo. I cittadini di Venezia hanno eletto sindaco Giorgio Orsoni. Non hanno eletto né EstCapital, né il dottor Marchi, né l’impresa Mantovani.
Torna lo scontro in Regione sulla legge ammazza-parchi
di Andrea Montanari
Torna in consiglio regionale la battaglia sulla nuova legge sui parchi dell’assessore regionale pidiellino Alessandro Colucci. A nemmeno un mese dall’ultimo scivolone del centrodestra quando, a sorpresa, undici franchi tiratori (tra leghisti e pidiellini) avevano rinviato il testo in commissione, la maggioranza che governa il Pirellone ci riprova. Anzi, giovedì ripresenterà in aula la stessa legge nonostante le proteste degli ambientalisti che temono l’arrivo di una nuova colata di cemento sui parchi lombardi. «Non nego che anche al nostro interno ci siano stati dei mal di pancia - ammette il capogruppo del Pdl in Regione Paolo Valentini - ma ora sono superati. Non è assolutamente vero che questa legge non tutela i parchi.
Le opere di interesse pubblico come le autostrade si potevano costruire nel verde anche prima. Se non passa questa volta, tutti i parchi saranno commissariati dalla Regione. Se qualcuno ha intenzione di farla saltare si dovrà assumere anche questa responsabilità». Un provvedimento inserito dal ministro per la Semplificazione leghista Roberto Calderoli nel decreto Milleproroghe, infatti, prevede l’abolizione degli attuali consorzi che governano i parchi. Senza un nuovo testo, saranno tutti commissariati dal Pirellone.
L’opposizione di centrosinistra non ci sta. Annuncia che scenderà in piazza e presenterà centinaia di emendamenti. «È un pasticcio - attacca il consigliere regionale del Pd Agostino Alloni - abbiamo bisogno di una riforma che rilanci i parchi, non di una legge che crea ancora più confusione. C’è tutto il tempo nei prossimi mesi per approvare una riforma vera per mettere ordine. Invece, si vuole fare in fretta solo perché la Regione vuole avere il controllo per poter costruire nei parchi. È vero che le opere di interesse pubblico come le autostrade sono già consentite, ma attraverso un percorso di confronto. Se passa la legge, deciderà solo la giunta del Pirellone».
Il progetto prevede non solo la trasformazione dei consorzi dei parchi lombardi in enti di diritto pubblico ma anche la semplificazione delle procedure per la pianificazione delle aree protette; la ridefinizione dei confini dei parchi, escludendo le zone limitrofe ai centri abitati che sono già state parzialmente edificate; la designazione di un componente della Regione nei nuovi comitati di gestione dei parchi che prima erano eletti solo dai comuni; la possibilità di realizzare infrastrutture come strade e autostrade nei parchi «se previsti negli strumenti di programmazione regionale».
Si tratta delle cosiddette deroghe, che erano ancora più esplicite nel testo della legge che fu bloccato al termine della scorsa legislatura. All’epoca in cui l’assessore regionale al Territorio era il leghista Davide Boni, oggi presidente del consiglio regionale.
Proprio dai banchi del Carroccio questa volta erano arrivate le perplessità sul nuovo testo. «La legge ci vuole, ma non vogliamo nuove cadreghe» aveva tuonato Renzo Bossi, figlio del Senatùr. «Non vogliamo una legge per lottizzare nuove poltrone. Siamo grati a chi ha bloccato una legge antifederalista» ha scritto sul suo blog il consigliere regionale leghista Giacomo Longoni.
Il capogruppo del Carroccio in Regione, Stefano Galli, ammette che si tratta solo «di una legge tampone», ma in vista del nuovo passaggio in aula non ha dubbi: «Il gruppo voterà compatto. Spero che lo abbiano capito anche loro. Abbiamo avuto il via libera anche del segretario nazionale Giancarlo Giorgetti. Il testo è stato profondamente modificato. Domani incontrerò l’assessore Colucci per un ultimo chiarimento, ma c’è tutto il tempo per fare la riforma».
L’alleanza tra sindaci e costruttori per il cemento con vista sul verde
di Franco Vanni
Mentre decine di Comuni seguono con apprensione l’evoluzione della legge sui parchi, c’è chi stappa champagne. Letteralmente. «Il parco è una prigione, qui per fare una veranda in cortile aspetti vent’anni, adesso basta», dice un imprenditore di Gambolò, provincia di Pavia. E a Gambolò, come nelle vicine Bereguardo e Gropello, l’amministrazione spinge per il cemento. «Con la nuova norma – dice un sindaco della zona – diventeremo un posto normale». E ha ragione: il parco del Ticino fino a oggi non è stato mai un posto normale.
Il parco del Ticino non è un posto normale per volere di 30mila abitanti che nel 1974 firmarono perché lungo il fiume fosse creata la prima zona a tutela regionale d’Italia. L’eccezionalità del parco, che ospita 4.932 specie viventi in 91.410 ettari di terreno, è riconosciuta dall’Unesco: è l’unica area protetta regionale che ingloba l’intero territorio dei 58 Comuni che la compongono, comprese abitazioni, chiese, parcheggi e capannoni. E per questo rischia più di tutti. «La previsione della legge per cui i confini del parco potranno essere rivisti - dice Domenico Finiguerra, sindaco di Cassinetta di Lugagnano - è cucita sul nostro caso. Se ogni sindaco decide dove si può costruire, è la fine».
E la nuova norma, nonostante le smussature chieste da Pd e Lega, dice proprio questo. Rimarrebbe inviolabile la porzione di 22.249 ettari (meno di un quarto del totale) di Parco naturale: le sponde e poco altro. Ed è proprio la labilità dei confini fra parco e "aree di iniziativa comunale", disciplinate dai piani regolatori dei Comuni, a spaventare gli ambientalisti.
Oltre al parco del Ticino, un altro contesto che sarebbe stravolto dalla «ridefinizione dei confini di area» è il parco delle Groane, ente fragile, già al centro di inchieste giudiziarie. Bollate e Garbagnate spingono per costruire abitazioni "vista verde" sul terreno tutelato, ma l’opposizione dell’ente parco - formato dai Comuni e dalle Province del territorio - frena.
«Alle Groane è successo un miracolo - dice Paola Brambilla, presidente del Wwf lombardo - nonostante la fame di terreni edificabili, la zona tutelata si è estesa verso Senago. Ora il rischio è che si scateni la gara a fare marcia indietro». E a minacciare il verde non sono solo le abitazioni.
Il secondo allarme per chi sostiene l’integrità dei parchi è l’introduzione delle deroghe ai vincoli ambientali e paesaggistici per costruire opere di «interesse pubblico», non per forza di interesse nazionale. E cambia tutto. L’esempio è l’impatto che la strada Pedemontana potrebbe avere sulla Pineta di Appiano Gentile, nel Comasco. Se la strada è ritenuta di interesse nazionale - e si sarebbe fatta comunque - lo stesso non vale per gli svincoli che dovrebbero affiancarsi alle strade locali esistenti. «Gli svincoli sarebbero potuti essere fermati dai Comuni - spiega Brambilla - ma essendo nel Piano territoriale regionale guadagneranno quell’interesse pubblico che permetterà di asfaltare le aree protette».
Stessa storia al parco Adda Nord, 34 Comuni in quattro province, interessato dalla Bre-Be-Mi: «All’opera si potrebbero aggiungere bretelle di collegamento, previste dalla Regione, e non ci potremmo fare nulla», dice il presidente del parco, Agostino Agostinelli. La Provincia di Milano, grazie al "bollino" regionale, potrebbe tirare fuori dal cassetto il progetto della tangenziale Ovest nel parco agricolo Sud, bocciato dai Comuni. Ma anche sulle deroghe la partita vera si gioca nel parco del Ticino. E riguarda la terza pista all’aeroporto di Malpensa.
Milena Bertani, presidente del parco, si oppone all’ipotesi cara al Pirellone di dotare lo scalo varesino di un’altra pista: il Cda, nominato dagli enti locali, ha espresso all’unanimità parere negativo. Ora i 16 Comuni interessati dall’opera sperano in uno stop. In particolare, sperano gli abitanti di Lonate Pozzolo, che all’aeroporto dovrebbe cedere 400 ettari. Ma cosa succederebbe se nel Cda del Ticino sedesse uno uomo della Regione, come prevede la nuova legge? «È probabile che il consiglio si sarebbe diviso sul parere, perdendo forza», dice Bertani. Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia, attacca: «Se la Regione entra nel Cda dovrebbe assicurare fondi, ma non sembra così». Per Carlo Borghetti, consigliere regionale del Pd, «Comuni e comunità montane passeranno in secondo piano».
Come nel parco delle Orobie bergamasche, dove i Comuni sono arrivati a fare combaciare esigenze di caccia, sci, tutela e urbanizzazione. Sono pronti a scrivere («in tempi lunghi, tribali», scherza un sindaco) il documento di pianificazione del parco, che manca. «Con il dirigente regionale e l’obbligo di votare uno statuto litigheremo - racconta il sindaco - saremo commissariati, perderemo la nostra identità e qui comanderà la gente di pianura».
L’allarme del Fai: così si rischia di massacrare il paesaggio lombardo
intervista aIlaria Borletti Buitoni, di Franco Vanni
Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fondo ambientale italiano, che cosa cambierà nella gestione dei parchi con la legge che la Regione si prepara a votare?
«Se sarà approvato il testo licenziato in commissione saranno ridotte le tutele per il patrimonio naturale e paesaggistico, nel malcontento degli enti locali. Non si capisce per quale necessità sia fatta una simile legge».
La Regione sostiene che sia il decreto Milleproroghe a prevedere il riordino degli enti che governano i parchi
«Lo sostiene, ma non è vero. I nostri legali hanno analizzato la materia e i parchi lombardi non rientrano fra gli enti di cui andava rivista la governance».
Avete intenzione di opporvi?
«Vedremo se sarà possibile rendere l’applicazione della legge difficile o impossibile, se necessario anche con azioni legali».
Significa che comincerete a fare ricorsi al Tar il giorno dopo l’approvazione?
«Il tribunale è l’ultima delle possibilità che prendiamo in considerazione. La speranza è che la politica riesca quantomeno a evitare il peggio».
E cos’è il peggio, in questo testo di riordino dei parchi?
«Un cambio radicale delle regole sarebbe dovuto essere sostenuto da investimenti. Così non è una riforma, ma un contenitore vuoto. E la possibilità di revisione dei confini dei parchi è quantomeno inopportuna».
Quale rischio immagina nella facoltà di restringere le aree di parco da parte dei Comuni?
«Il rischio è che i parchi vadano riducendo la propria estensione, e che a forza di deroghe nelle zone protette il paesaggio sia massacrato. Bisogna evitare che succeda altrove quello che già è accaduto in Brianza».
Che cosa è successo in Brianza?
«A forza di permessi ed eccezioni si è costruito senza freni. Stendhal definiva la Brianza come il giardino d’Europa, la meraviglia dell’intero continente. Oggi non penso userebbe le stesse parole».
Guardando al futuro, qual è l’area a maggior rischio di cementificazione in Lombardia?
«Un fronte aperto è quello del Parco agricolo Sud Milano, a cui teniamo molto. La sua dignità culturale dovrebbe essere tutelata, invece le costruzioni mangiano territorio. E nessuno si premura di dichiararlo parco regionale. Ma il problema è generale, in Lombardia è avvenuto il più ampio scempio paesaggistico in Italia».
Ha mai rappresentato le sue preoccupazioni a Formigoni, proponendo una collaborazione con il Fai?
«È stata una delle prime cose che ho fatto un anno fa, quando ho assunto la presidenza. Ma da allora non mi sembra che la Regione si sia occupata molto di paesaggio, anzi».
Non crede che entrando negli organi di gestione dei parchi la Regione voglia farsi carico del problema ambientale?
«Di per sé la presenza della Regione nel governo dei parchi non è negativa, ma il timore è che sia un’accelerazione verso una minor tutela, e allora l’ingerenza sarebbe insopportabile. Sono troppi i casi in cui il Pirellone spinge per grandi trasformazioni infrastrutturali. Sulla terza pista di Malpensa, cara alla Regione, abbiamo presentato ricorsi insieme con il Wwf».
Da qualche tempo, in nome della necessità di ridurre i «costi della politica» , ha ripreso vigore l’idea di abolire le Province come enti locali. Ma davvero sarebbe una buona idea? Naturalmente non basta l’argomento che le Province «costano» . Tutte le istituzioni «costano» . Il problema è se «servono» . Le Province «enti inutili» ? È vero che alla Costituente si era pensato che la creazione delle Regioni le avrebbe reso superflue. Ma poi l’idea rientrò; e l’esperienza successiva ha condotto viceversa ad un progressivo rafforzamento delle funzioni del livello di governo provinciale, pur dopo l’istituzione delle Regioni.
Sono lontani i tempi in cui si diceva che le Province servivano solo per strade, manicomi e assistenza agli illegittimi. Le Province continuano ad occuparsi di strade, ma le loro funzioni sono andate crescendo. Nella legge del 1990 sulle autonomie locali e nel testo unico del 2000 la Provincia è definita come l’ «ente locale intermedio tra Comune e Regione» , che «rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi, ne promuove e ne coordina lo sviluppo» . Tra le funzioni delle Province vi sono quelle riguardanti «vaste aree intercomunali o l’intero territorio provinciale» , nei settori della difesa del suolo, della difesa dell’ambiente, dei trasporti, dello smaltimento dei rifiuti, dell’istruzione secondaria di secondo grado.
Alla Provincia fanno poi capo rilevanti funzioni di programmazione, in particolare il piano territoriale di coordinamento che determina gli indirizzi generali di assetto del territorio. Chi dovrebbe svolgere queste funzioni, se venissero soppresse le Province? Non è pensabile che compiti di «area vasta» possano essere attribuiti agli oltre 8.000 Comuni (dei quali circa 7.500 con meno di 15.000 abitanti): dunque essi andrebbero in gran parte alle Regioni. In teoria sarebbe anche possibile immaginare un sistema di «enti intermedi» costituiti da associazioni di Comuni, con uffici e strutture condivisi.
Ma l’esperienza dice che mettere d’accordo fra loro 20 o 100 Comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato, e non è detto costi meno che affidare tali funzioni ad un ente autonomo come la Provincia. Né, ovviamente, è proponibile un accorpamento massiccio dei piccoli Comuni: l’autonomia comunale si nutre della storia e del senso di autoidentificazione delle comunità, grandi e piccole, sul quale è destinato ad infrangersi ogni disegno «razionalizzatore» astratto.
Sarebbe anche possibile immaginare che la Regione decentri i suoi uffici nel territorio. Le unità organizzative (e il personale) però non diminuirebbero. Si «risparmierebbe» solo l’elezione di presidenti e di consigli: ma siamo sicuri che l’accentramento politico in capo alla Regione, che ne risulterebbe, sia una soluzione soddisfacente? Uno dei timori e dei rischi che da sempre caratterizzano il nostro sistema delle autonomie è quello del «centralismo» regionale. Non è affatto detto che un semplice decentramento amministrativo della Regione sia in grado di soddisfare le aspirazioni di autogoverno delle popolazioni.
Il punto, semmai, è un altro. Le realtà regionali non sono tutte eguali. La Lombardia ha 9 milioni di abitanti e oltre 1.500 Comuni: immaginare che tutte le funzioni di «area vasta» siano governate dal Pirellone sarebbe follia pura: provate a dire agli abitanti dei piccoli e grandi Comuni del Comasco o del Bresciano che tutto ciò che è sovracomunale deve dipendere politicamente da Milano! Non è lo stesso se si tratta di una Regione piccola o piccolissima. La Valle d’Aosta (125.000 abitanti e 74 Comuni) non è suddivisa in Province. Si può discutere se davvero il Molise (320.000 abitanti e 136 Comuni) debba essere articolato in due Province.
Ma nelle grandi Regioni l’esigenza di avere enti intermedi rappresentativi delle popolazioni è difficilmente negabile. Allora non si tratta di abolire tout court le Province, programma irragionevole e impraticabile. Semmai di limitare le spinte localistiche impedendo che nascano sempre nuove piccole Province (come le otto in cui da ultimo si è frammentata la Sardegna). E, viceversa, di dare vita finalmente, nelle aree metropolitane, a cominciare da Milano, a un vero ente di governo (elettivo) di dimensione corrispondente, che sostituisca la Provincia e riunisca in sé non meno, ma più funzioni rispetto ad essa. È la Città metropolitana, prevista da dieci anni nella Costituzione e mai realizzata (mentre si è costituita la nuova Provincia di Monza e della Brianza).
Si eviterebbe così che i problemi del territorio della «grande Milano» — dalla pianificazione territoriale dei grandi insediamenti agli interventi per evitare le periodiche esondazioni del Seveso — restino affidati all’asimmetrico rapporto fra un Comune capoluogo dai confini ristretti ma che ogni giorno è «usato» anche da centinaia di migliaia di abitanti dell’hinterland, e un gran numero di Comuni piccoli o medi privi di voce in capitolo. Meno retorica dell’antipolitica, e più capacità di affrontare i problemi con razionalità: è chiedere troppo, nell’Italia di oggi?
L’articolo espone, con la massima chiarezza e puntualità, le ragioni della Provincia. Ci sarebbe solo da aggiungere una riflessione sul ruolo (suicida) della politica dei partiti. Quando si discusse sui modi di affrontare le nuove esigenze dell’”area vasta”, si constatò, come ricorda Onida, che «mettere d’accordo fra loro 20 o 100 Comuni della stessa area per esercitare insieme delle funzioni è assai complicato», come l’esperienza insegnava. Si decise allora di procedere al “recupero delle istituzioni esistenti” (è il titolo di un editoriale di Urbanistica informazioni), di riutilizzare le province in ragione delle nuove esigenze, di formare le “città metropolitana” in alcune aree e contestualmente di dotare di nuove funzioni di “governo del territorio” le province nel resto del territorio nazionale.
L’attuazione della legge (la 142/1990) avrebbe dovuto comportare un forte impegno politico per trasformare il suo dettato in una radicale azione per ridisegnare i confini delle amministrazioni subregionali, per rendere adeguati i gruppi dirigenti delle province (e delle città metropolitane) ai nuovi compiti, e insomma per svolgere un’operazione politico-amministrativa analoga a quella che altri paesi (per esempio la Francia) avevano posto sul tema del riordino delle competenze amministrative.
Questo impegno politico non ci fu, da parte di nessuno dei partiti delle Prima Repubblica. E’ davvero difficile pensare che sappia fare di più il personale politico della Seconda Repubblica, che ha addirittura moltiplicato le province, aggiungendone 8 nuove tra il 1992 e il 2000, e altre 7 successivamente: tra queste, la BAT-provincia (Barletta, Andria, Trani) il cui stemma onora questo articolo. (e.s.)
Via libera all'Ospedale al Mare, alla darsena e al nuovo Piano sanitario con íl trasferimento di servizi all'ex Ginecologia e la riabilitazione con le piscine al Carlo Steeb. Tutto come da copione nella riunione della Conferenza dei servizi convocata ieri in municipio dal commissario Vincenzo Spaziante. I grandi progetti dell'isola sono stati approvati senza particolari osservazioni. Adesso si attende la concessione dello spazio acqueo di circa 550 mila metri quadrati da parte della Regione. Poi la società Real Venice 2 verserà la seconda tranche dell'acconto al Comune per l'acquisto dell'ex nosocomio. Il rogito definitivo — e il versamento del saldo, prezioso per il bilancio comunale — è previsto per il 31 dicembre.
Ma intanto i progetti vanno avanti. L'ex Ospedale diventerà un centro turistico e commerciale con villette, centro benessere, la spiaggia che avrà anch'essa una nuova concessione e si aggiungerà a quelle vicine del Comune, San Nicolò e Zona A. La novità più importante è che dopo le proteste del Comune il progetto ha accolto la richiesta di «permeabilità» del' area. Gli spazi dell'ex Ospedale saranno dunque fruibili anche dal pubblico e non diventeranno un villaggio turistico privato. Piccola consolazione per i comitati, che annunciano azioni di protesta. «Una vergogna», dice il portavoce Salvatore Lihard, «la gente vuole sapere perché si sono spesi 35 milioni di euro per fare un buco nell'amianto. E perché il Palazzo del Cinema, che aveva dato origine a tutto questo, non si farà più. E poi la riabilitazione spostata agli Alberoni prelude secondo noi alla privatizzazione di questi servizi fondamentali per i cittadini». La battaglia dunque continua. Anche se il commissario Vincenzo Spaziante ha annunciato ieri di voler gradualmente «restituire» al Comune le procedure ordinarie, come richiesto da un ordine del giorno del Consiglio comunale un mese fa. Licenze edilizie, concessioni e autorizzazioni per la darsena e i progetti edilizi saranno dunque rilasciate da Ca' Farsetti. «Al Comune spettano anche i controlli ambientali sulla darsena», dice Spaziante. Che aggiunge: «Non è vero che il Palacinema non si farà più. nei prossimi giorni riceveremo il nuovo progetto che sarà valutato. Se non andrà bene i lavori che abbiamo sospeso per mancanza di fondi potranno riprendere».
Vedi altri articoli in questa cartella; in particolare: Lo scandalo bipartisan del Lido di Venezia
Per il benessere dell'umanità sembra che niente sia meglio delle grandi opere. L'economia cresce e diventiamo più ricchi. Forse è stato così all'inizio, quando l'Inghilterra lanciava nel mondo macchine a vapore e il maresciallo Rondon attraversava il Brasile piantando pali del telegrafo, ma oggi ne conosciamo anche i giganteschi effetti negativi. Le grandi dighe, ad esempio, le opere simbolo dello sviluppo, sconvolgono territori e vite quotidiane, distruggono comunità, sommergono foreste, luoghi sacri e siti archeologici, cancellano memorie storiche. Danni documentati dagli ambientalisti - tre volumi curati da Teddy Goldsmith, direttore della nota rivista inglese The Ecologist, e le inchieste dell'International River Network, organizzazione con base in California - ma non solo. Agli inizi degli anni Novanta fece scalpore il rapporto indipendente sul complesso faraonico che imbrigliava il fiume Narmada, in India, così negativo da costringere la Banca mondiale a ritirare i finanziamenti. Nel 2000, a Londra, una commissione di esperti di 36 Paesi su otto grandi dighe concluse che i costi erano maggiori dei benefici.
Di quest'anno le prime ammissioni preoccupate del governo cinese sulla colossale Tre Gole: scomparsi i laghi della valle dello Yangtzee, aumentati i sedimenti e l'inquinamento, siccità e gravi problemi per la vita del milione e mezzo di sfollati.
Un altro esempio che i pro Tav preferiscono ignorare è la storia economica disastrosa del tunnel sotto la Manica che unisce via ferrovia Londra e Parigi, costruito da un consorzio privato che l'ha in gestione. Sbagliate le previsioni di traffico passeggeri e merci, sottovalutati i rischi. Sempre sull'orlo del fallimento, una volta sono i piccoli azionisti a cacciare i manager e un'altra sono le banche a bocciare i piani di ristrutturazione del debito. Perché si insiste?
Una stessa convinzione, diventata ormai un'ideologia, muove governi e istituzioni finanziarie internazionali, prima fra tutte la Banca mondiale: salvare il mondo attraverso grandi progetti, i soli che possono sradicare la povertà e sviluppare l'economia. I governi vogliono grandi opere che servono grandi affari a grandi imprese e la Banca le sostiene, elargendo finanziamenti che vengono in gran parte dai governi stessi, sono cioè i nostri soldi, senza alcun controllo democratico. Nessun popolo elegge i direttori della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, organismi che decidono il destino di intere nazioni. Gioca poi un immaginario ancora acceso da un mito ottocentesco che innerva ogni pagina "Affari e Finanza": la locomotiva. La Germania è la locomotiva d'Europa...Un motore va e trascina i vagoni.
Uno Stato con il Pil che cresce, un settore produttivo nuovo o uno vecchio consolidato, una serie di grandi opere sono il traino di un'economia che scorre su percorsi fissati in precedenza da cui è impossibile deviare, pena il deragliamento. Solo che nel secolo dell'ipotesi Gaia e delle tecnologie pioniere, locomotive e carburanti rinviano a un modello-mondo da prima rivoluzione industriale. Idee inadeguate per la contemporaneità, che ha bisogno di inventiva, collegialità, senso del vivente. Ma i miti muoiono lentamente.
Con la manovra finanziaria approvata la settimana scorsa, il reddito delle famiglie con figli è stato preso in ostaggio in vista della futura riforma fiscale e assistenziale. Solo se quest’ultima verrà approvata entro il 2013, infatti, non verranno attuate le previste riduzioni lineari dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale di cui possono attualmente godere le famiglie, in particolare quelle con figli.
L’impatto di quelle riduzioni è fortemente regressivo: inciderebbe maggiormente sulle famiglie a reddito più modesto. Ma anche se la riforma fiscale e assistenziale venisse approvata in tempo le cose non cambierebbero molto per le famiglie con figli. La riforma, infatti, ha lo scopo non tanto di razionalizzare e rendere maggiormente equo il coacervo di istituti - oltre 400 - che si sono accumulati senza logica nel tempo. Ha lo scopo pressoché esclusivo di ridurre la spesa, ovvero di determinare un risparmio non inferiore a 4.000 milioni nel 2013 e 20.000 milioni annui a decorrere dal 2014. Un obiettivo solo mascherato dal richiamo alla libertà di scelta dei cittadini. La bozza di delega, infatti, all’articolo 2 recita che il "criterio base della delega" è quello di applicare le nuove aliquote rispettivamente del 20%, 30% e 40% "su di un imponibile per quanto possibile non eroso dai regimi fiscali che nel corso degli anni sono stati introdotti per indirizzare le scelte e i comportamenti del contribuente verso obiettivi che lo Stato considerava costruttivisticamente meritevoli, lasciando invece alle persone e alle famiglie libertà di scelta in ordine all’uso del loro denaro. A questo effetto il governo è delegato ad eliminare o ridurre in tutto od in parte i regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale".
Il fatto è che molte delle misure che si vogliono eliminare sono destinate alle famiglie. E si tratta di misure che si ispirano al principio fiscale della redistribuzione: a parità di reddito riducono il prelievo sui nuclei familiari più numerosi. È il caso delle detrazioni per i figli a carico. Non è chiaro in che consista la libertà di scelta se l’eliminazione di queste facilitazioni non è sostituita da nulla e anzi si auspica un ancor maggiore coinvolgimento della famiglia nel far fronte ai bisogni economici e di cura dei propri componenti. Il potere d’acquisto di un’ampia fetta delle famiglie verrà semplicemente ridotto, comprimendo ulteriormente i consumi e quindi anche le stesse possibilità di ripresa. Non vi è dubbio che occorre mettere mano a una razionalizzazione complessiva del frammentato e carente welfare italiano, riducendo le iniquità per cui, a parità di reddito e bisogno, vi è chi può godere di più misure di sostegno (ad esempio assegni per i figli e detrazioni) e altri di nessuna (gli incapienti e coloro che non hanno un reddito da lavoro dipendente). E certo vi sono persone che godono impropriamente dell’assegno di accompagnamento. Ma ce ne sono molte altre che dovrebbero riceverlo, o avere servizi sostitutivi, ma non ricevono nulla. Così come non vi è un vero reddito minimo per chi si trova in povertà. Il welfare per le famiglie e per chi si trova in povertà è troppo risicato, oltre che ineguale, per pensare di effettuare risparmi in questo settore. Sarebbe già ottimo se si riuscisse a spendere meglio, più equamente e con maggiore efficacia. Ma i risparmi vanno cercati altrove. Sembra che anche i mercati la pensino in questo modo, non ritenendo realistica una manovra e un progetto di riforma non solo rimandati di due anni, ma che, nella loro regressività, tolgono fiato a chi già è in difficoltà. In questo contesto, anche l’opposizione e i sindacati dovrebbero avanzare proposte precise, non limitandosi a evocare la lotta all’evasione come sorta di magica lampada di Aladino che tutto risolverebbe. La lista del possibile è lunga, dalle liberalizzazioni sin qui efficacemente bloccate dagli interessi costituiti, al taglio, da domani e non in futuro, dei privilegi e dei redditi dei parlamentari ed ex parlamentari fino a quelli delle amministrazioni locali, dei grandi dirigenti pubblici e del parastato e, perché no, di alcuni conduttori televisivi. Dalla eliminazione di tutti i privilegi fiscali che favoriscono esclusivamente gli abbienti alla eliminazione tout court delle detrazioni, sempre regressive, a favore di trasferimenti diretti selettivi. Dall’anticipo dell’innalzamento dell’età pensionistica delle donne nel settore privato alla flessibilizzazione dell’età alla pensione per tutti
Sopite nel crepuscolo della giunta Moratti, le idee sul futuro del Meazza e dei due ippodromi tornano a fermentare. Trovando i primi punti di contatto, tra Consorzio San Siro e Trenno, e tra gestori e giunta. Che mostra di gradire, già ieri alla presentazione della seconda "Notte Bianca dello stadio" (si farà la sera del 2 settembre), la volontà di Milan e Inter di rilanciare l’area esterna alla vecchia Scala del calcio, figlia di quel vecchio progetto del "quarto anello" commerciale che aveva in Stefano Boeri uno dei suoi padri. «Il progetto di rilancio dell’area c’è, il Comune lo seguirà - assicura proprio l’assessore alla Cultura, sfidando le possibili accuse di conflitto d’interessi - e sarà coinvolto nell’Expo anche perché l’area è in un punto strategico nell’asse tra il sito di Rho-Pero e il centro di Milano. Arriveranno fra poco la metropolitana, servizi ricettivi, sportivi e commerciali, può essere il volano di un parco molto più ampio per tutti i cittadini».
Schizzi, non ancora quadro completo, ma già le possibili intese tra i due club calcistici e Trenno per lo sfruttamento commerciale di alcuni spazi inutilizzati dell’ippodromo del trotto possono essere l’inizio di una saldatura. Milly Moratti, punto di congiunzione tra calcio e Palazzo Marino, benedice il progetto: «Questo è un quartiere che i milanesi non conoscono, dietro i muri e il grigio dello stadio c’è un polmone verde da riscoprire: potremmo rilanciare il progetto di un biglietto d’accesso per tutte le aree, ippodromi e Meazza».
Anche l’assessore a Benessere e Sport, Chiara Bisconti, alla prima uscita pubblica con i rappresentanti dello stadio, approva: «Proprio la Notte bianca è l’esempio più ficcante e nobile - spiega - di quello che intendiamo fare, aprendo gli spazi sportivi ai cittadini». L’evento è appunto il primo banco di prova della collaborazione tra consorzio e ippodromi, visto che quello del galoppo sarà aperto per mercatini, caccia al tesoro per i piccoli e discoteca per i grandi, e all’esterno sarà interamente ridisegnato: il chilometro di muro di cinta in viale Caprilli sarà interamente colorato da 12 crew di writers dell’associazione Stradedarts.
Novità anche dentro lo stadio: «Partirà Radio San Siro - annuncia Pierfrancesco Barletta, ad del consorzio in quota Inter - che trasmetterà musica in settimana e sarà personalizzata per le squadre la domenica». Nella Notte bianca anche tornei di biliardino e trisball, la mostra "Scatti a San Siro" dei fotografi di Contrasto, corsi di guida sicura e stand di Slow Food. «Ovviamente - aggiunge Barletta - sarà aperto il museo. Che quest’anno ha portato i suoi visitatori da 94mila, al 90% stranieri, a 153mila con un 30% di italiani». Museo il cui ampliamento è imminente. «Sempre con l’idea - chiude Alfonso Cefaliello, l’ad dello stadio in quota Milan - di restituire l’area alle famiglie, anche se noi ci occupiamo di pallone e cavalli».
postilla
Nonostante il trionfale concerto a sostegno della candidatura di Giuliano Pisapia, per fortuna ci sono orientamenti del cantante Roberto Vecchioni non tradotti in realtà, come l’inopinato spostamento del polo sportivo-servizi altrove, dove non darebbe fastidio agli abitanti. Magari qualche abitante dei quartieri a ridosso dello stadio poteva anche esserne entusiasta, della proposta di decentramento, ma molto, molto meno, il resto della popolazione metropolitana. Spostare gli impianti, soprattutto ma non solo nella nuova logica del complesso multifunzionale sportivo-commercial eccetera, da un lato avrebbe aperto la strada a chissà quali ingovernabili trasformazioni nell’area dismessa, dall’altro innescato (accoppiato all’idea del nuovo anello di tangenziali) un doppione del caso Cerba. E polo di eccellenza dopo polo di eccellenza, addio fascia agricola metropolitana, sostituita al massimo da un po’ di parchi con piste ciclabili e cascine trasformate in centri congressi. Teniamoci stretti, con tutte le contraddizioni del caso, la localizzazione centrale, con buona pace degli abitanti inferociti per il rumore e il traffico: a quelle cose un rimedio si trova, alla scomparsa della terra su cui mettere i piedi no (f.b.)
L'acciaio incombe sulla Domus Aurea
Luca Del Fra
La damnatio memoriae rischia di abbattersi nuovamente sulla Domus Aurea di Nerone: se negli anni successivi al suicidio dell’imperatore avvenuto nel 68 d.C. per dimenticarlo i suoi concittadini ne sotterrarono la reggia, stavolta a sommergerla rischia di essere una colata di metallo. È quanto prevede il nuovo progetto di restauro, che porta la firma del commissario Luciano Marchetti e lo sponsor politico del sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Maria Giro (PdL): ben 45 pali d’acciaio confitti nella carne viva delle antiche vestigia, la presenza di tre ascensori e addirittura un museo pensile. Uno stupro archeologico o, se volete, un progetto in stile Las Vegas, dai costi altissimi e non risolutivo dei problemi che hanno portato alla chiusura e al commissariamento del monumento.
Dopo 19 secoli di interramento la Domus è riaperta nel 1999 grazie a uno scavo dal basso, senza alleggerire la collina sopra l’edificio che, svuotato, non è più in grado di sostenerla. L’incongruità strutturale è nota ma si pensa di aprire ai visitatori e in breve di avviare i lavori di alleggerimento, da allora però i cantieri restano chiusi. Presto la legge di gravità e le intemperie bussano alla reggia neroniana, che nel 2005 viene chiusa per le infiltrazioni d’acqua e gli evidenti segni di cedimento. L’anno dopo l’allora ministro dei Beni Culturali Rutelli commissaria la Domus affidandola alle cure di Marchetti: scelta forse non lungimirante, già direttore regionale in pensione, il commissario comparirà nella lista Anemone, dice di stimare Angelo Balducci, è lambito dallo scandalo della ristrutturazione con fondi Arcus del palazzo di Propaganda Fide a piazza di Spagna – in cui compare la compagna Francesca Nannelli –, e vive al centro storico di Roma in una casa presa in affitto proprio da Propaganda Fide.
Ma il compito di Marchetti appare in discesa: nel 2007 è pronto un progetto del Ministero, approvato da soprintendenze e comitati, che risponde agli obiettivi del commissariamento: «l’eliminazione di situazioni di pericolo per le cose e le persone». Costo 15 milioni di euro, che vengono anche stanziati.
Benché nel giugno 2009 con il solito trionfalismo Giro annunci il progetto appaltato, in un mese l’inizio dei lavori e in due anni l’apertura del sito, l’unica cosa evidente è il crollo nel 2010 di una parte del complesso, la galleria Traianea. Nel 2011 invece della riapertura Marchetti porta una troupe del Tg3 nella Domus e senza volerlo ammette il suo fallimento: dichiara che lì dentro piove ancora e le immagini mostrano lo scorrere dell’acqua sugli affreschi. Negli stessi giorni il direttore per le antichità del Ministero, Luigi Malnati, sottolinea che delle 150 stanze solo 2 sono state impermeabilizzate. Siamo a 5 anni dall’inizio del commissariamento: a questo ritmo vorticoso l’impermeabilizzazione durerà 370 anni.
La débâcle del commissario è funzionale a soddisfare appetiti e voglia di visibilità: ecco la nuova mirabilia, con 45 pali d’acciaio infilzati nella Domus per sorreggere una copertura, poi ben 3 ascensori, vecchia mania di Marchetti, che da direttore regionale ne ha piazzato uno al Vittoriano causando non poche polemiche poiché sbuca ben oltre il tetto del monumento. Giro già da tempo parla ed esalta il progetto e il 14 luglio assieme a Marchetti dichiara che è cosa fatta, aggiungendo un museo pensile, ma alla stampa non sono presentate planimetrie o simulazioni dell’impatto. Poco importa se tra i compiti del commissariamento non compaiano né coperture, né musei pensili, né ascensori, e dunque Marchetti non avrebbe mandato per realizzarli: il capolavoro siderurgico costerà tra i 35 e i 50 milioni di euro, con un incremento di spesa del 300%. Il tutto avviene prima che la soprintendenza e i comitati tecnico-scientifici del Ministero abbiano espresso il loro vincolante parere, in un chiaro tentativo di forzargli la mano.
Si è scatenata un’aspra polemica col Pd in prima linea: per il senatore Marcucci è «un progetto invasivo da apprendisti stregoni» e presentato un’interrogazione parlamentare, mentre per il coordinatore del settore cultura del Pd Matteo Orfini: «La Domus Aurea è l’ultimo di una serie di scempi perpetrati durante il governo Berlusconi. Per Pompei il ministero aveva garantito risultati inesistenti, è finita nel dramma e nel discredito internazionale».
Nei giorni scorsi con cautela la soprintendenza ha sottolineato come il nuovo progetto non abbia sufficienti consolidamenti e dà via libera solo ai lavori compresi nel primo progetto, rimandando ai pareri dei comitati tecnico scientifici, dove molti prevedono scontri gladiatori. Piuttosto che la salvezza della Domus Aurea, per ora ha prevalso la voglia di appalto – che in regime commissariale avviene senza bando, in stile Protezione civile. Stile che Marchetti conosce bene come vicecommissario per la ricostruzione di l’Aquila con deleghe ai Beni Culturali.
La regola d’oro? Più kolossal è l’appalto, meglio è
Vittorio Emiliani
Il Ministero per i Beni Culturali agonizza per mancanza di risorse, di tecnici, di custodi? Niente paura. Il sottosegretario Francesco Giro – che si è fatto una fama (pensate un po’) durante la latitanza di Sandro Bondi – sostiene a tutta forza il costosissimo progetto di risanamento della Domus Aurea del suo quinquennale commissario, sinora a secco di risultati, ingegner Luciano Marchetti (ben descritto, qui, da Luca Del Fra). Sono 35-50 milioni. Da pescare nel solito “tesoro” degli incassi del Colosseo. Che però, per una parte, alimentano il vastissimo bacino archeologico Roma-Ostia. Al quale - notizia di ieri - sono stati sottratti, con un colpo di mano, 5 milioni di euro per esso vitali e che rientrano in un bilancio da approvare, al massimo, entro marzo e che a fine luglio non lo è ancora. Andranno a coprire i debiti del Polo Museale di Napoli…
Quello dell’ingegner Marchetti, commissario senza risultati, dal 2006, è un progetto “pesante” (acciaio+cemento). Dall’esito certo? No. Si sa però che installerà nella Domus neroniana, o marchettiana, ben tre ascensori, speciale passione dell’”ingegnere”. Suo è quello che da tutta Roma si “ammira”, e si maledice, in cima al Vittoriano. Al suo costosissimo progetto se ne contrappone uno della Soprintendenza, più soft e meno costoso, ovviamente. Ma il sottosegretario Giro non ci sta, vuole “chello ca costa ‘e cchiù”, forse per passare alla storia. Una volta, nell’Italia dei beni culturali vigevano almeno criteri di dirittura morale e di efficienza tecnica (in Tangentopoli non ci fu un solo Soprintendente inquisito). Ora, da una parte il Ministero agonizza e dall’altra si varano appalti kolossal. Più kolossal è l’appalto, meglio è. Ecco la regola. Aurea, è il caso di dirlo.
Il grottesco è senza fine. Dal 2006 dunque la Domus Aurea è commissariata con Marchetti. Dal 2009 lo è pure l’intera area archeologica Roma-Ostia, prima con Guido Bertolaso e poi con Roberto Cecchi che è pure il segretario generale del MiBAC. Chi è che ora ha spostato 5 milioni di euro dall’archeologia di Roma-Ostia ai Musei di Napoli? Lo stesso Cecchi, immagino. Che, in veste di segretario generale, toglie quella cifra importantissima dalla matrioska Cecchi commissario per l’archeologia romana. Si sperava che il nuovo ministro, Giancarlo Galan, sciogliesse il groviglio, congedando chi aveva avuto – al Petruzzelli, all’Aquila o altrove – rapporti con Angelo Balducci leader della famigerata “cricca”. Nulla di tutto ciò. Ognuno resta dov’è. Semmai sono gli uomini di Galan a restare fuori.
Giorni fa, nel cuore di Roma, mi si è materializzato davanti, di colpo, il direttore generale che tanto criticammo anni fa, Francesco Sisinni (1). Mi ha chiesto secco: “Mi rimpiangete, eh?” E sorrideva, vendicativo e soddisfatto. Già, chi l’avrebbe mai immaginato?
1- L’incontro stradale con Franciscus Sisinnius non è una invenzione polemica, esso è realmente avvenuto poco tempo fa, davanti a Palazzo Madama. Del tutto inopinatamente.
Al V miglio dell’Appia Antica, dove l’archeologia affonda le radici nel mito, quando re era Tullio Ostilio e gli Orazi affrontarono in duello i Curiazi per conquistare la supremazia su Albalonga alla metà del VII secolo avanti Cristo, una squadra di ricercatori olandesi sta scoprendo la vera identità dei sepolcri che la tradizione attribuisce agli eroi romani. Per la prima volta dalle indagini di Luigi Canina (1850-59), i monumenti tra i più leggendari dell’antichità sono oggetto di una campagna di scavo. A guidarla, due professori dell’università di Nijmegen, Eric Moorman e Stephan Mols, che hanno ricevuto in concessione dalla Soprintendenza per otto anni l’area compresa tra V e VI miglio.
«È il primo scavo che affidiamo in concessione - racconta la direttrice dell’Appia, Rita Paris – L’istituto universitario è stato scelto per i suoi titoli e procederà con finanziamenti propri». Uno scavo sistematico dei sepolcri, infatti, non è stato mai possibile per mancanza di fondi. La scelta del V miglio è legata al progetto di restauro e valorizzazione messo in campo per l’Appia con il commissariamento, tra Villa dei Quintili e Santa Maria Nova.
L’importanza del sito è evidente: qui il rettifilo dell’Appia, che regala suggestioni di un agro romano incontaminato, disegna l’insolita curva, motivata, come raccontava già Livio, per rispettare i tumuli celebrativi della memoria della battaglia tra Orazi e Curiazi, eretti prima della costruzione della Regina Viarum. Le indagini sono iniziate due anni fa, tra ricerche d’archivio, panoramiche aeree e misurazioni col georadar su sepolcri che appaiono come colline erbose. «Il materiale acquisito è stato propedeutico per la prima campagna di scavo che si concluderà domani», racconta Mols. Protagonisti sono i due tumuli in coppia degli Orazi, legati secondo la tradizione ai due fratelli romani uccisi.
«Nella forma possono essere considerati oggi come piccoli mausolei di Augusto - annuncia Mols - Conservano una possente struttura cilindrica del diametro di circa quindici metri, con un nucleo interno di blocchetti di tufo e materiale vulcanico, e tracce di rivestimento di travertino». Il corpo è alto oltre otto metri e presenta un coronamento arrotondato. La datazione ufficiale colloca i sepolcri alla fine del I secolo a. C. La vera novità è il muro di recinzione, alto oltre un metro e mezzo. Obiettivo principale ora è indagare l’interno dei sepolcri con il sistema del georadar per verificare la presenza della cella funeraria. Lo scavo rientra in un progetto più vasto: «Vogliamo realizzare una carta archeologica tridimensionale del V miglio - dice Mols - Abbiamo fatto fotogrammetrie terrestri per ricostruire in 3D tutti i monumenti dell’area. Il prodotto sarà pronto già a ottobre con l’obiettivo di proporlo in visione al pubblico». Ne viene fuori la prima indagine completa del sito, che comprende anche il sepolcro dei Curiazi, legato, secondo la tradizione, ai tre fratelli albani sconfitti con l’astuzia dall’unico degli Orazi sopravvissuto, e il misterioso mausoleo a piramide alto oltre venti metri.
A Firenze non mancano le esperienze di trasformazioni urbanistiche o edilizie finite in tribunale. Anche se i processi devono ancora iniziare, la doverosa presunzione di innocenza per gli imputati nulla toglie al clamore suscitato, non soltanto in città, dai casi Castello e Quadra. Nel primo scandalo, relativo alla progettata "urbanizzazione" della maxiarea di Castello, in primavera sono stati rinviati a giudizio per corruzione Salvatore Ligresti, patròn di FonSai, due suoi stretti collaboratori come Fausto Rapisarda e Gualtiero Giombini, e l'ex assessore Pd all'urbanistica Gianni Biagi. Il secondo è invece legato alla società di progettazione Quadra, con l'ipotesi di accusa che parla della creazione di un autentico monopolio sull'edilizia privata fiorentina. Un monopolio durato dal 2007 al 2009, creato coinvolgendo politici, imprenditori e dipendenti tecnici di Palazzo Vecchio. Fra i primi spicca l'ex capogruppo democrat Alberto Formigli. Rinviato a giudizio lunedì scorso insieme ad altre 21 persone, fra cui l'ex presidente del locale Ordine degli architetti Riccardo Bartoloni, altri professionisti, alcuni costruttori edili, e gli ex responsabili dell'ufficio comunale edilizia privata Bruno Ciolli e Giovanni Benedetti. In questo caso i reati ipotizzati, a vario titolo, parlano di associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, truffa aggravata e falso ideologico.
Per Castello, ultimo grande spazio (quasi) libero dell'intero territorio comunale, ereditato da Ligresti quando la sua Sai incorporò Fondiaria, c'era in cantiere una grande traformazione urbanistica che prevedeva la realizzazione di 1.500 appartamenti; un centro commerciale; un campus scolastico (dove l'allora presidente provinciale Matteo Renzi voleva far traslocare numerosi istituti secondari); una sede direzionale pubblica, e un parco da 80 ettari. Dal momento in cui la procura fiorentina guidata da Giuseppe Quattrocchi sequestrò l'area, il 26 novembre 2008, Ligresti non ha mai chiesto il dissequestro. Né ha riavviato trattative con l'amministrazione fiorentina. Ben diverso il clima nel 2005, quando Ligresti aveva stipulato la convenzione su Castello con l'allora sindaco Leonardo Domenici. A seguire l'ok del consiglio comunale - a sinistra contrari solo Rifondazione e Ornella De Zordo di Unaltracittà e Comitati cittadini - infine il passaggio della pratica nelle mani di Gianni Biagi. Al quale la magistratura contesta «di aver adottato iniziative e provvedimenti in contrasto con gli interessi pubblici», rilasciando fra l'altro nell'agosto 2008 i permessi per le edificazioni private senza che fossero stati avviati i lavori per il parco. Lavori considerati come prioritari dall'assemblea di Palazzo Vecchio, nel momento in cui aveva dato l'assenso alla trasformazione urbanistica dell'area. Lavori che invece stavano slittando, e che probabilmente sarebbero stati abbandonati del tutto. In favore del nuovo progetto della "cittadella viola", avanzato dai fratelli Della Valle e già giudicato verbalmente dal sindaco Domenici come ben più interessante.
Su Castello, i pm Monferini, Mione e Tei che hanno indagato insieme al Ros dei carabinieri ritengono che non ci sia stata una corruzione "classica" - favore in cambio di mazzetta - ma una corruzione "liquida" fatta di scambi, consulenze, favori nella carriera anche grazie all'entrata in giri che contano. Quanto al caso Quadra, la società di progettazione edilizia di cui Bartoloni era socio e Formigli (all'epoca anche presidente della commissione urbanistica) "socio occulto", la pubblica accusa ritiene che godesse di una corsia preferenziale per l'approvazione di progetti di nuove edificazioni e ristrutturazioni, anche di notevole entità. Il tutto in cambio di favori o regali, e potendo contare sul ruolo di Formigli come intermediario politico. Insomma una sorta di cavallo di Troia negli uffici tecnici comunali.
Caos turisti, pressing di Italia Nostra
Orsoni infuriato per il «danno di immagine»,
l'associazione replica a muso duro (a.v.)
II sindaco Orsoni infuriato con Italia Nostra. «Ci chiamano da tutto il mondo», raccontano dal suo staff, «con quella iniziativa ci stanno provocando un danno di immagine notevole». L'appello lanciato nei giorni scorsi all'Unesco dall'associazione ha avuto il suo effetto. Un'immagine di Riva degli Schiavoni. Ogni anno arrivano in città 20 milioni di turisti Il direttore generale del World Heritage centre dell'associazione Krishore Rao si è impegnato in prima persona a «monitorare» tutti i grandi progetti che rischiano di essere distruttivi per la città e la sua delicata laguna. Infrastruture e grandi opere, cementificazioni e nuovi progetti di insediamenti turistici Un tono apocalittico che non è piaciuto al sindaco Giorgio Orsoni, che ha usato parole molto dure contro Italia Nostra e i suoi atteggiamenti, definiti «retrogradi». Ma l'associazione rincara la dose. «Ricercatori del Coses, società di ricerca del Comune e della Provincia», denuncia la sezione veneziana di Italia Nostra, «hanno dichiarato che la città potrebbe soportare centomila visitatori al giorno se questi la smettessero di concentrarsi nei siti più famosi come piazza San Marco». «Un passo avanti verso la morte dell'anima di questa città», scrive Italia Nostra, «nel 1988 uno studio dell'Università, quando rettore era Paolo Costa, sosteneva che il limite massimo di persone che la città poteva sostenere senza sofferenza era di 30 mila al giorno [più precisamente, 22000 - ndr]. Vent'anni dopo i turisti sono arrivati a 22 milioni (59 mila di media al giorno), oggi qualcuno parla di centomila. Nel frattempo sono arrivate le grandi navi da crociera, i nuovi alberghi in gronda lagunare, il Quadrante di Tessera, il progetto di metropolitana sublagunare». Italia Nostra respinge le critiche sul fatto di attaccare i turisti che dormono in albergo e visitano i musei «Il direttore dell'Ava Claudio Scarpa e quello della Fondazione musei Walter Hartsarich forse non ci leggono con attenzione», conclude la nota dell'associazione veneziana, «perché noi non ce l'abbiamo certo con quel tipo di turismo. Ma con le masse divenute troppo numerose che arrivano in città la mattina, si fermano in centro per poche ore e poi ripartono nel pomeriggio». «Continueremo nella nostra campagna civile di denuncia», fa sapere Italia Nostra, «per far capire alle istituzioni che in questo modo tra pochi anni la città d'arte non esisterà più, vuota di abitanti e consumata da milioni di turisti». (a. v.)
il Gazzettino
Pat, la Provincia a sorpresa promuove il piano comunale
IL WATERFRONT Una delle aree più importanti per la riqualificazione del territorio veneziano Zaccariotto e Dalla Tor soddisfatti: «Buon lavoro»
Tanto tuonò, ma alla fine non piovve. Anzi, ieri Comune e Provincia se non si sono abbracciati poco ci mancava. Invitati dalla presidente Francesca Zaccariotto e dal suo vice, Mario Dalla Tor (che è anche assessore all'Urbanistica), il sindaco Giorgio Orsoni e l'assessore Ezio Micelli hanno illustrato il Piano di assetto del territorio, il Pat, che la Provincia dovrà approvare prima che venga adottato dal Consiglio comunale. Dopo le polemiche seguite, la scorsa settimana, all'uscita di Dalla Tor che accusava il Comune di non aver accolto le osservazioni della Provincia, ieri tutto sembrava appianato.
I tempi, dunque, dovrebbero essere più o meno rispettati: il Comune si aspetta che per settembre la giunta provinciale deliberi il suo parere favorevole, e quindi conta di adottare il Pat in Consiglio entro la fine del mese. Poi ci saranno 60 giorni di tempo per le osservazioni, e di seguito le contro osservazioni. «Dovremmo riuscire ad avere lo strumento operativo per i primi mesi del 2012, sforando di qualche mese le nostre previsioni per la fine 2011» ha commentato Micelli. «Il Piano sarà operativo entro i primi mesi del 2012» Soddisfatta la presidente Zaccariotto: «Considero l'incontro un passaggio importante della collaborazione tra Comune e Provincia. Il nostro obiettivo è che il territorio veneziano diventi e sia riconosciuto come "provincia verde d'Europa"». Soddisfatto anche il vicepresidente Dalla Tor: «Il Comune di Venezia, che è il capoluogo della regione e ha un peso notevole ed esemplare rispetto a tutto il territorio provinciale, ha recepito molte delle indicazioni della Provincia» espresse nel "Manifesto delle azioni" presentato lo scorso gennaio ai sindaci di Spinea, Marcon, Martellago, Mira, Quarto d'Altino e, naturalmente, Venezia, per omogeneizzare tutti i loro Pat e porre le basi per una vera area metropolitana. Anche l'assessore Micelli, infine, che la scorsa settimana aveva risposto fermamente alle critiche di Dalla Tor, ha parlato di clima costruttivo. Viabilità da coordinare con gli altri comuni limitrofi, corridoi ecologici, sistema della gronda lagunare, situazioni di criticità delle aree industriali tra Dese e Marcon, waterfront a Porto Marghera... ieri si è parlato di tutto, e su tutto il Comune ha dato la sua risposta nel Pat.
In particolare hanno parlato del Quadrante Tessera «il cui piano, ricordo, è coerente sia con il Ptrc della Regione sia col Ptcp della Provincia» spiega Micelli che, inoltre, sui destini di Marghera ha voluto precisare: «Stiamo promuovendo l'idea di quell'area come sede dell'industria, ma abbiamo ben specificato che si tratta di processi che aprono alla riconversione industriale, per un'industria pulita e compatibile, e quindi non sono affatto la carta della conservazione». (e.t.)
il Gazzettino
Tav e Tessera City, gli ambientalisti scendono in piazza
Più di trenta associazioni si sono riunite ieri a Venezia per protestare contro l'approvazione del nuovo Pat, in discussione a Cà Farsetti. «Più che di un piano di assetto - ha sottolineato ironicamente Michele Boato, di Amico Albero - ci sembra un piano di assassinio territoriale, dato l'impatto devastante e irreversibile che, avrà sulle aree investite dalla follia dei progetti che prevede». Nel mirino delle associazioni le grandi opere in programma, dalla sublagunare alla Tav «che spostando il centro del trasporto a Tessera con l'unica fermata prevista all'aeroporto - ha spiegato Boato - di fatto taglierà fuori dai giochi Mestre isolandola completamente»; al progetto di Tessera City che si svilupperà in una delle aree a maggior rischio idrogeologico del territorio veneziano: «La nuova città a Tessera, oltre a cementificare 372 ettari di terreni agricoli, sarebbe già allagabile in partenza e implicherebbe di riflesso l'abbandono al degrado di Porto Marghera, area già infrastrutturalizzata, la cui bonifica verrebbe accantonata». Le associazioni chiedono dunque al Comune di non votare questo tipo di Pat e di aprire una consultazione in cui possano trovare spazio le contestazioni e le proposte alternative studiate dai comitati e dalle associazioni. Venerdì pomeriggio è stata indetta una manifestazione di protesta sotto Cà Farsetti, ed è in programma una grande manifestazione a Mestre per il prossimo 1 settembre in Piazza Ferretto. (V.Tur.)
la Nuova Venezia
Lido, faccia a faccia. comitati-sindaco
Il Comune: «Dalla firma dei progetti dipende il bilancio del Comune» Domani la conferenza dei servizi sull'ospedale al Mare e la darsena Vincenzo Spaziante LIDO. Un faccia a faccia durato un'ora. Da una parte il sindaco Giorgio Orsoni, dall'altra i comitati del Lido, ricevuti ieri mattina in municipio nello studio del primo cittadino. Alla fine una piccola tregua, che sarà verificata domani dopo la conferenza dei servizi presieduta dal commissario straordinario Vincenzo Spaziante. «Avete le vostre ragioni, ma dalla firma di quel progetto ormai dipende il bilancio del Comune», ha esordito il sindaco, «un progetto che mi sono trovato, e che sicuramente sarà adeguato e sistemato in corso d'opera. Ma adesso non c'è altra strada che firmare».
Dal via libera di domani dipendono i circa 40 milioni di euro che Asl, Demanio e la società Real Venice 2 (Mantovani, Condotte e Fincosit al-1'80 per cento, Est Capital al 20 per cento) dovranno versare per la compravendita del-lex ospedale nelle casse del Comune. Il Patto di stabilità prevede l'obbligo per Ca' farsetti di introitare soldi superiori a quelli spesi Sul piatto ci sono i contestati progetti per l'Ospedale al Mare che diventerà centro turistico e commerciale con alberghi, appartamenti, la nuova spiaggia, e poi la darsena da mille posti barca con i parcheggi a San Nicolb per 500 auto, la nuova strada.
Infine le nuove strutture sanitarie in sostituzione del Monoblocco, che dovrà essere abbattuto per far posto a strutture turistiche. Anche su questo punto i comitati hanno espresso il loro disaccordo sull'ipotesi di dividere in due i servizi, trasferendo la riabilitazione e la piscina al Carlo Stebb degli Alberoni, il resto nell'ex edificio che ospitava Ginecologia a San Nicolò. «Costa 18 milioni e Est Capital è disposta a metterne solo 8», dice Salvatore Lihard, portavoce dei comitati, «noi abbiamo un progeto alternativo che costa la metà. La sanità dell'isola non pub essere chiusa o peggio privatizzata e sacrificata ai grandi progetti. Ricordiamo che in piena stagione turistica non abbiamo né l'elisoccorso né l'idroambulanza». Intanto un gruppo di consiglieri comunali ha chiesto al sindaco di vedere prima i progetti del nuovo Palacinema. Per finanziarlo era partita la grande operazione, ma adesso si è deciso di cambiare. (a.v.)
Affaritaliani.it
Un immobiliarista accusa Penati. Da Risanamento a Sesto Immobiliare, ecco come nasce l'inchiesta
All’origine dell’inchiesta che vede Filippo Penati indagato assieme ad altre 15 persone per corruzione e concussione, ci sono le dichiarazioni di Giuseppe Pasini, costruttore sestese, proprietario delle aree Falck dal 2000 al 2005, come rivela Il Fatto Quotidiano. Circa un anno fa, Pasini si è presentato spontaneamente alla Procura di Milano, denunciando di essere “vittima di soprusi da parte di alcune amministrazioni locali”, racconta il suo legale Carlo Enrico Paliero. Il costruttore - che è anche un consigliere di area centrodestra del Comune di Sesto ed ex sfidante dell'attuale sindaco Oldrini alle ultime amministrative - si dichiara concusso e fa il nome di Penati, quindi gli atti sono trasmessi alla Procura di Monza, competente su Sesto. Nell’inchiesta sarebbero finite anche altre vicende, e lo stesso Pasini potrebbe essere indagato.
L’area finita sotto la lente degli investigatori riguarda buona parte delle zone ancora occupata dai padiglioni industriali. I lotti di proprietà della Falck a fine anni Novanta vengono acquistati da Giuseppe Pasini, il cui gruppo però fallisce. Nel marzo 2005 La Risanamento, società del gruppo Zunino, si impegna ad acquisire, per 88 milioni di euro, il 100% di Immobiliare Cascina Rubina, azienda del Gruppo Pasini e proprietaria dell’area ex Falck.
L’operazione, secondo la società (poi coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica di Santa Giulia) dovrebbe permette alla società immobiliare di inserire nel proprio portafoglio un’area industriale dismessa dall’estensione di 1.300.000 metri quadrati sita nel comune di Sesto San Giovanni dove sorgevano, un tempo, le Acciaierie Falck.
Nel 2010 l’area passa ufficialmente di mano. Dopo un mese di rinvii tecnici, Risanamento chiude l’operazione, vendendo l’asset di Sesto San Giovanni (Milano) alla cordata Sesto Immobiliare, capitanata dal costruttore Davide Bizzi. E all’orizzonte si intravede l’apertura, entro il 2013, del più grande cantiere d’Europa.
A sbloccare la vendita da 405 milioni di euro. In quell’anno la cordata di Bizzi versa l’85% del prezzo complessivo, vale a dire 345 milioni: di cui circa 274 milioni attraverso l’accollo del debito di Cascina Rubina nei confronti di Intesa Sanpaolo (circa 274 mln) e la restante parte in ‘cash’ (71 milioni). Gli altri 60 milioni verrano pagati dopo aver ottenuto le approvazioni, rispettivamente, al programma di intervento da parte del Comune di Sesto San Giovanni e al progetto definitivo di bonifica dal Ministero dell’Ambiente.
La Repubblica ed. Milano
Quindici anni di piani e fallimenti
di Luca Pagni
DAGLI anni d’oro della siderurgia al declino della grande industria. Dalla bolla immobiliare che ha garantito per qualche stagione ricche plusvalenze, alla polvere che da quindici anni si accumula in attesa del via ai lavori del più grande cantiere d’Europa. C’è poco da dire: il progetto che dovrebbe trasformate le aree ex Falck, oltre un milione e mezzo di metri quadrati, nei nuovi quartieri di Sesto San Giovanni non è proprio nato sotto una buona stella. Nonostante tre diversi proprietari e un’archistar come Renzo Piano.
Più che con la coda della parabola, però, l’inchiesta aperta dalla magistratura sulle ex aree Falck ha a che fare con il classico peccato originale. I magistrati, infatti, si stanno concentrando sui rapporti tra i vertici dell’amministrazione comunale di Sesto e Giuseppe Pasini, l’imprenditore che per primo si era cimentato nel "sogno" di ridare un volto e un disegno urbanistico alle aree industriali dismesse tra le più famose d’Italia.
Un progetto che ha rivelato, fin da subito, tutte le sue difficoltà. Per l’enormità dell’impresa, innanzi tutto. Basti ricordare che la Pirelli - più o meno negli stessi anni - è quasi fallita nel tentativo di trasformare l’ex città del pneumatico alla Bicocca. Salvata poi dal trasferimento della nuova sede della Statale, in un primo tempo pensata al quartiere Porta Vittoria.
Ma le aree Falck sono grandi una volta e mezza l’ex Pirelli. Una parete di sesto grado da scalare, e Pasini non riesce a trovare la quadra. Ci ha provato per quasi nove anni: nel 1996 si ferma l’ultimo altoforno e i cancelli si chiudono per l’ultima volta alle spalle dei 970 dipendenti superstiti dei 16mila degli anni Sessanta, massima espansione della siderurgia italiana, quando gli impianti Falck sono arrivati a produrre fino all’8 per cento della produzione di acciaio in Italia.
Pasini - che ha comprato le aree dai Falck per 367 miliardi di vecchie lire - prima si scontra con le regole dell’urbanistica comunale. Poi, dopo nove anni, quando le banche cominciano a temere di non rientrare dai debiti contratti per l’acquisto delle aree per un cantiere che non parte mai, si trova costretto a passare la mano. Sono sempre le banche - in testa Intesa Sanpaolo, la più esposta - a individuare il successore. E lo trovano, corre l’anno 2005, in Luigi Zunino, astro emergente degli "sviluppatori urbanistici", uno che pensa in grande come ha dimostrato nel progetto per certi versi gemello a Rogoredo.
Per le ex aree della Montedison a Rogoredo, oltre un milione di metri quadrati, ha scelto l’architetto Norman Foster per disegnare il quartiere, ribattezzato Santa Giulia, e i nuovi palazzi da diecimila euro al metro quadrato. Sono gli ultimi fuochi della bolla immobiliare che ha causato la grande crisi scoppiata nel 2007: Zunino compra per 218 milioni di euro i terreni, fa abbattere un po’ di muri diroccati, lasciando gli scheletri delle fabbriche di maggior pregio per la storia dell’architettura industriale e chiama Renzo Piano a disegnare il nuovo masterplan.
Ma la crisi lo travolge: si scopre che la maggior parte delle proprietà immobiliari controllate dalla sua Risanamento sono in pegno alle banche e i debiti sono stati garantiti solo da un vorticoso scambio di immobili con altri immobiliaristi, sfruttando plusvalenze e la salita dei prezzi che per qualche stagione è sembrata non avere mai fine. Quando il giochino si esaurisce arriva la bancarotta, e Risanamento rischia di diventare il peggior dissesto italiano dopo Parmalat. Per scongiurare il pericolo di un fallimento - come richiesto dai magistrati - alle banche non rimane che cercare un nuovo soggetto cui affidare il progetto. Lo trovano in Davide Bizzi, uno di quei classici imprenditori che è cresciuto lontano dai riflettori e che si è fatto le ossa nel turismo (ha costruito, tra gli altri complessi, un albergo a Cuba). Il cui progetto più grande è un grattacielo di 60 piani a New York, e che ha come socio un fondo pensionistico coreano.
Bizzi compra nell’ottobre del 2010 per 405 milioni (ma 300 sono di crediti delle banche) e conferma Renzo Piano, il quale rivede il progetto riducendo il numero di nuovi appartamenti e ridisegnando la viabilità. I cantieri non sono ancora partiti. Ma con questo la magistratura non c’entra.
Corriere della Sera
´ I milioni bruciati nel grande affare dell’ex Stalingrado
di Sergio Bocconi
Progetti faraonici, futuribili, sostenibili: l’area da circa 1,4 milioni di metri quadrati dell’ex Falck di Sesto San Giovanni è dal Duemila oggetto di compravendite e piani di investimento. Il giro di soldi è impressionante: dai 341 miliardi di lire pagati per il terreno dal costruttore Giuseppe Pasini undici anni fa e i 3 miliardi di euro ipotizzati allora per lo sviluppo, ai 400 milioni di euro per l’area e i 2,6 miliardi per i progetti urbani pianificati dalla cordata guidata da Davide Bizzi.
Un pool eterogeneo, al quale partecipano investitori coreani, americani, gli alleati di Bizzi Paolo Dini (Paul&Shark) e Mario Bandiera (Les Copains) e il Consorzio cooperative costruzioni, che l’anno scorso ha rilevato gli asset dalla Risanamento che prima era stata di Luigi Zunino e, dopo un fallimento chiesto dalla Procura e sventato in extremis, è passata alle banche creditrici. Milioni, miliardi, montagne di idee ma soprattutto montagne di debiti. In pratica «passati di mano» con rendering e terreni.
Per un caso, proprio ieri l’ultimo compratore, la Sesto immobiliare di Bizzi, immobiliarista diventato famoso per un grattacielo a New York e che ha «fatto la scuola» presso il raider Ernesto Preatoni, ha nominato presidente Piero Gnudi, professionista che ha seguito fin dall’inizio l’acquisto di Bizzi ed è stato fino ad aprile presidente dell’Enel, e vicepresidente Mario Resca che, dopo aver guidato fra l’altro la McDonald’s Italia, è stato dirigente del ministero dei Beni Culturali e oggi commissario straordinario dell’Accademia di Brera.
Nomi che danno conto delle ambizioni di una riqualificazione e valorizzazione dell’area che una volta era la capitale delle acciaierie italiane e che ora è di nuovo affidata per disegni, progetti e sogni allo studio del super architetto Renzo Piano. Il giro di miliardi, passaggi e debiti comincia dunque verso la fine del Duemila quando Pasini rileva (con finanziamenti bancari forniti in particolare da Intesa) l’area da Alberto Falck, che ormai ha abbandonato colate e altoforni. Filippo Penati, allora sindaco della ex Stalingrado d’Italia, accoglie in modo favorevole il passaggio di mano: «La vendita delle aree è un segnale positivo per accelerare lo sviluppo della città» .
Un applauso ovvio, anche perché più che accelerare lo sviluppo si trattava di fermare il declino di un ex polo industriale, ormai dismesso. Pasini si muove su più fronti. Per una delle aree acquistate, la ex Ercole Marelli, confida nel trasferimento della sede centrale di Banca Intesa. Progetto che però muore in fretta nei fatti ma il cui tramonto è ufficializzato dall’amministratore delegato Corrado Passera qualche tempo dopo. Il costruttore costituisce poi una commissione scientifica per l’ex area Falck che viene presentata a fine 2001 quando sindaco è ancora Penati: ci sono l’architetto Mario Botta, autore del primo grande progetto di riqualificazione, e altre personalità di spicco fra cui il rettore del Politecnico Adriano De Maio e il docente Alessandro Balducci, lo storico Giulio Sapelli e l’economista Marco Vitale.
Che subito si convince di almeno due cose: il costruttore non ha le spalle adeguate alle ambizioni; per personalità e professionalità non è adatto a «fare corridoio» in Comune: lo invita perciò a non andarci e a cercare al più presto un partner adeguato ai progetti come un fondo immobiliare internazionale. Consigli che Pasini non segue finché, dopo aver presentato nel maggio 2002 (pochi giorni prima dell’elezione di Giorgio Oldrini a sindaco di Sesto) il superprogetto firmato Botta, nel marzo 2005 vende tutto alla Risanamento di Zunino, che compra l’area per 88 milioni finanziato ancora una volta da un pool di banche guidato da Intesa.
Altro megaprogetto, affidato a Renzo Piano e presentato anche in consiglio comunale introdotto da Ermanno Olmi e da un suo filmato sulla vita delle accierie. Questa volta però il destino di Sesto viene segnato dalla fine della «bolla» degli immobiliaristi. Il «maggior investimento mai fatto in un’area dismessa» , come l’aveva definito Pasini (che nel 2007 sfida con il centrodestra Oldrini per la poltrona di sindaco e perde) ancora una volta non va in porto. Zunino è travolto dai debiti e Risanamento viene salvata in extremis dalle banche che, Intesa Sanpaolo capofila, diventano poi gli azionisti della società oggi guidata da Claudio Calabi. L’area ex Falck passa alla cordata Bizzi. Che di nuovo mette in campo tre miliardi per ridare a Sesto la «missione» perduta.
Corriere della Sera ed. Milano
Il tesoro dell’urbanistica
di Edoardo Segantini
L a vicenda che vede indagato per concussione e corruzione l'ex sindaco di Sesto San Giovanni e alto esponente pd Filippo Penati suggerisce alcune riflessioni generali sul modo in cui vengono gestiti i grandi progetti di trasformazione urbanistica in Italia. Riflessioni che vanno al di là del «caso Sesto» — dove è stato da poco presentato un bellissimo progetto di Renzo Piano per l'ex area Falck— e prescindono dal merito giudiziario dei fatti, su cui si pronuncerà la magistratura. Lasciamo da parte per una volta il basso livello della classe politica. La prima riflessione è che l'equilibrio tra amministrazioni locali e immobiliaristi è troppo sbilanciato a favore di questi ultimi.
Roberto Camagni, economista urbano del Politecnico di Milano, ha messo a confronto il beneficio che le operazioni urbanistiche trasferiscono al pubblico in Europa, in termini di oneri di urbanizzazione e contributi di costruzione. I risultati sono impressionanti. A Milano e in altre città italiane questo beneficio arriva, al massimo, all'8 per cento del valore del costruito. A Monaco di Baviera raggiunge il 30. Che, tradotto, significa migliori trasporti, parchi, strutture di svago. Grazie a queste risorse, i bavaresi vedono realizzarsi buona edilizia pubblica e social housing per i ceti meno abbienti.
È vero, si obietterà, sono tempi duri anche per il mattone. Ma i costi della crisi devono essere ripartiti più equamente fra i privati e la comunità. Oggi la filiera degli immobiliaristi incamera una quota troppo grande: in questo modo — è un ragionamento del tutto teorico — aumenta proporzionalmente anche la sua capacità corruttiva potenziale. Un'altra considerazione riguarda le tecnostrutture che presiedono alla realizzazione delle opere.
Dal confronto internazionale emerge che le città più dotate— da Monaco a Barcellona (in passato si sarebbe potuto aggiungere anche Milano) hanno apparati di primissima qualità. Ovvio che la tecnostruttura non è un antidoto alla corruzione. Tuttavia un buon ufficio tecnico, orgoglioso della sua reputazione, può portare, se non proprio deterrenza, maggiori capacità di controllo. E qualità. In urbanistica si è passati dai piani regolatori alla trattativa con le forze del mercato. Un passaggio che troppo spesso avviene senza trasparenza. Aprendo nuovi spazi alla corruzione. Serve perciò un meccanismo che fissi l'obbligo di una più alta ricaduta per la comunità e imponga trattative alla luce del sole. Come in Germania, dove le operazioni vanno su Internet. O come in Spagna, dove l'obbligo che una quota consistente delle plusvalías urbanistiche vada a beneficio della Comunidad è scritto addirittura in un articolo della Costituzione.
L'austerità finanziaria votata dal Parlamento venerdì 15 luglio sancisce l'impoverimento assoluto, non relativo, cui viene soggetta la grande maggioranza della popolazione italiana almeno da quando il passaggio all'euro ha comportato una massiccia redistribuzione del reddito a favore degli strati più ricchi. L'Italia si situa ormai in una dimensione che va oltre la crisi in corso. Solo un utopistico boom europeo, da anni Sessanta per intenderci, può arrestare l'immiserimento in corso.
Infatti la deindicizzazione totale e parziale delle pensioni non verrà certamente abolita, anche in caso di ripresa; così come non saranno annullati i ticket, né gli slittamenti salariali. Né verrà sospesa la moltiplicazione dei tagli a livello regionale e comunale, aggravati dal famigerato federalismo fiscale. L'ipotesi più concreta è che, come in Grecia, i tagli contribuiranno a perpetrare l'indebitamento rendendolo ancor più pesante.
A partire dalla manovra di Giuliano Amato nel 1992, la politica economica dei vari governi in carica si è caratterizzata per l'austerità di bilancio. Stando ai dati armonizzati prodotti dall'Ocse, dal 1993 al 2007 il deficit pubblico italiano proveniva interamente dal pagamento degli interessi sul debito. Il bilancio primario, cioè senza il computo degli interessi, è stato sempre attivo. Ciò ha comportato, fino al 2007, una marcata riduzione del deficit in rapporto al prodotto interno lordo. Il processo fu facilitato dal calo del tasso di interesse e dalla notevole performance dell'export italiano, grazie alla fase della lira debole, al boom consumistico delle tecnologicie negli Usa, in Brasile o nell'Argentina.
Dopo il 2000 - e col crollo delle dotcom statunitensi, di Brasile, Argentina e Russia - il deficit pubblico riprese a salire, rimanendo però sui livelli fissati dai criteri di Maastricht. Tra il 2001 ed il 2008 la media annua italiana è stata del 3,1%, contro il 2,2% dell'eurozona. Si noti però che, nel 1993, il deficit di bilancio italiano oltrepassava il 10% del Pil ed era quasi il doppio della media dei paesi che oggi fanno parte dell'unione monetaria. Tra i paesi dell'eurozona, l'Italia ha quindi subito la maggiore riduzione del deficit pubblico senza ottenere alcun beneficio. Le politiche di distruzione del bilancio hanno quindi contribuito alle disfunzioni infrastrutturali del paese, al crollo del meridione, all'arroccamento sulle rendite finanziarie e all'incapacità di affrontare la rivalutazione del tasso di cambio (connessa all'adozione dell'euro), se non attraverso la deflazione salariale.
Ma la moneta unica ha condotto tutti i paesi membri ad usare la deflazione salariale come criterio di competitività capitalistica. L'euro ha cementato l'unità del capitale nei confronti del lavoro e dei pensionati, permettendogli di dividersi su altre questioni, secondarie però ai rapporti di classe. L'impatto sulla domanda (deflazione salariale e gara europea sui tagli di bilancio) ha comportato, dal 2001 in poi, una forte riduzione nel tasso di crescita dell'eurozona. Il calo italiano è stato però ben maggiore, acuendo il divario con la media della zona. La stagnazione europea e la connessa crisi italiana hanno fatto risalire il deficit pubblico, anche perché le esportazioni non hanno contribuito a rilanciare l'economia. In passato, le esportazioni avevano sempre aiutato a «riacciuffare» la dinamica capitalistica per via della persistente aporia tra sviluppo interno e domanda estera. Dall'entrata in vigore dell'euro, però, la domanda reale interna è stata ulteriormente compressa dal surplus primario di bilancio e dalla deflazione salariale, mentre i conti esteri sono diventati ancora più negativi.
Malgrado la loro dinamica, le esportazioni italiane sono state neutralizzate da almeno tre fattori: deflazione salariale (soprattutto in Germania, che ha compresso la domanda interna con l'obiettivo programmato di massimizzare l'export), l'aumento dei prezzi energetici dal 2004, lo spostamento di una fetta notevole della domanda europea verso beni di consumo made in China. Il tutto coronato dalla scomparsa di settori avanzati, come impeccabilmente documentato da Luciano Gallino.
L'Italia era quindi un vaso di coccio pieno di crepe, non di ghiaccio come la torrida Grecia, già prima della crisi del 2008. È in quest'ottica che bisogna capire perché l'obiettivo di pareggiare il bilancio per il 2014 - anticipando la stessa Germania che entrerà in anoressia solo nel 2016 - significa l'impoverimento assoluto del popolo senza la possibilità di uscire dalla crisi.
Venezia chiama l’Unesco. E l’Unesco risponde. Ma stavolta dalla laguna non si chiede di ottenere la protezione di qualche monumento. Al contrario. Si chiede se non sia il caso di escludere la città di San Marco dalla World Heritage List, l’elenco dei siti culturali di importanza mondiale. Il motivo? La lunga serie di manomissioni attuate o in programma nell’area lagunare.
È Italia Nostra che si è rivolta all’organismo incaricato dall’Onu per cultura, patrimonio storico-artistico e naturale. La lettera è firmata da Lidia Fersuoch, che guida la sezione veneziana dell’associazione, e dalla presidente nazionale Alessandra Mottola Molfino. «La laguna è in serio pericolo di veder distrutte le sue forme caratteristiche», si legge. La risposta dell’Unesco è stata rapida: faremo indagini e decideremo. Ma intanto contro l’iniziativa di Italia Nostra si è scagliato il sindaco Giorgio Orsoni che se l’è presa con chi «va in giro per il mondo a lanciare appelli inutili e dannosi».
I pericoli che gravano su Venezia sono di due tipi, sostiene Lidia Fersuoch. In primo luogo un turismo massacrante, alimentato negli ultimi tempi da gigantesche navi da crociera che attraversano il bacino di San Marco e il Canale della Giudecca. In secondo luogo, una serie di progetti, avviati o in cantiere. Il Mose, per esempio, il sistema di paratie contro l’acqua alta, le cui opere sono in costruzione (l’isola artificiale alla bocca del Lido grande 13 ettari). Oppure «il centro portuale a Dogaletto-Giare, all’interno della laguna, circa tre milioni di container in una regione dove esistono già tre interporti, tutti sottoutilizzati», aggiunge Fersuoch. «Quella è una zona dal fondale bassissimo, in cui sopravvivono diverse barene, le terre sommerse dalle maree». Lidia Fersuoch cita anche le cementificazioni al Lido, nell’area dell’ex Ospedale a Mare, dove sorgerà un complesso residenziale, commerciale e alberghiero. Di fronte all’insediamento è previsto un porto turistico grande 50 ettari, quanto l’isola della Giudecca. L’area è stata venduta dal Comune per realizzare il nuovo Palazzo del Cinema. Che però non si farà più.
Venezia e la laguna hanno un destino inscindibile, sottolinea Alessandra Mottola Molfino: «Questo è un concetto molto chiaro all’Unesco, che ha incluso la laguna nel patrimonio da proteggere tanto quanto le chiese e i palazzi della città».
La critica di Italia nostra alla situazione veneziana è stata ripresa dalla rivista Newsweek international, nell'articolo Italy's Ancient Monuments and Cultural Heritage Crumbling
Il campanello d’allarme è suonato scrutando quella norma nel Decreto sviluppo. Un piccolo comma che fa slittare da cinquanta a settant’anni l’età che deve avere un edificio per essere meritevole di tutela. Vent’anni di più. Che lasciano senza protezione molto di ciò che l’architettura italiana ha realizzato fra il 1941 e il 1961: Pier Luigi Nervi, Franco Albini, Ignazio Gardella, Carlo Scarpa, Lodovico Belgiojoso, Enrico Peressutti, Ernesto Nathan Rogers, Piero Bottoni, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi e altri ancora. L’allarme ha destato più profonde preoccupazioni: è a rischio tanta parte dell’architettura di tutto il Novecento. «Secolo fragile», concordano gli storici dell’architettura Carlo Olmo e Piero Ostilio Rossi. Dominato da un materiale friabile come il cemento armato, insiste Franco Purini, professore a Roma e progettista. Un secolo, ricorda Purini, inaugurato dalla profezia del futurista Edoardo Sant’Elia: ogni generazione costruirà la propria casa.
Un Novecento oggetto di consumo, dunque, affetto da una forma di minorità che deriva per paradosso dall’essere molto familiare. Sembra che su di esso non si sia depositata una sufficiente quantità di storia e di attenzioni culturali che rendono invece automatica la salvaguardia di un edificio del Trecento e del Quattrocento. Eppure, spiega Olmo, professore a Torino e direttore de Il giornale dell’architettura, «se si lasciano deperire i quartieri di edilizia pubblica sorti dopo la guerra, gli stabilimenti industriali ora dismessi, gli insediamenti organizzati intorno al lavoro, è in discussione una parte essenziale delle nostre città».
La buona architettura del Novecento rischia di essere inghiottita nella massa di costruzioni che ingombrano la scena delle nostre città, dove si stima che i nove decimi dell’edificato risalgano al dopoguerra (Roma era costruita su sei ettari fino al 1951, ora si espande su cinquanta e oltre) e la cui qualità è giudicata pessima. Ma quali sono i morbi che affliggono quelle architetture? Alessandra Vittorini, che al ministero per i Beni culturali cura un catalogo dei migliori prodotti novecenteschi (circa duemila edifici dal 1945 in poi, trecento dei quali eccellenti), indica soprattutto il loro cattivo uso: «Non si distingue fra un palazzo di speculazione e una palazzina di pregio: gli interventi su infissi e intonaci, gli adeguamenti per sicurezza o isolamento termico possono essere compiuti con uguale trasandatezza, badando a risparmiare più che a mantenere leggibili i tratti architettonici».
D’altronde un manufatto, anche prezioso, che ha cinquanta o settant’anni, è vissuto, abitato, calpestato - ed è nell’essere usato e non musealizzato la sua ragion d’essere.
A Roma destarono impressione, anni fa, gli interventi sulla palazzina Furmanik di Mario De Renzi, il cui intonaco è stato stravolto e dalle cui balconate sono sparite le persiane scorrevoli. Ma si è arrivati anche alle demolizioni: il Velodromo, delicato impianto realizzato per le Olimpiadi del 1960 da Cesare Ligini, è stato abbattuto e rase al suolo finiranno anche le torri di Ligini all’Eur di Roma: operazioni "ingiustificabili", dice Purini: «l’Eur è un riferimento per l’architettura di tutto il mondo, non può finire preda di speculazione». Altri emblemi del Novecento romano sono in pericolo: lo stadio Flaminio e il Palazzetto dello Sport, entrambi opera di Nervi ed entrambi oggetto di piani di ampliamento che, denunciano in molti, li snaturerebbero (ma per lo stadio, grazie all’intervento di Renzo Piano, si fa avanti l’idea di una struttura smontabile).
A Pozzuoli, vicino a Napoli, la fabbrica Olivetti realizzata da Luigi Cosenza, Marcello Nizzoli e Pietro Porcinai e raccontata da Ottiero Ottieri in Donnarumma all’assalto, è stata venduta e i molti proprietari hanno diviso gli interni, abbassato le altezze e costruito soppalchi. Manomissioni vengono denunciate a Ivrea, dove il settanta per cento di tutto il costruito si deve alle idee comunitarie di Adriano Olivetti, ma dove almeno vigila, sensibilizzando gli utenti, la Fondazione intitolata al grande imprenditore-intellettuale. «L’enorme spazio delle Officine di Luigi Figini e Gino Pollini è stato diviso per ricavarne piccoli box», racconta Patrizia Bonifazio, che per conto della Fondazione segue il patrimonio di Ivrea. «La mensa di Gardella è diventata un call center e sono stati smantellati gli impianti di areazione che avevano un grande impatto formale».
In un appello promosso da Gino Famiglietti, direttore regionale dei Beni culturali in Molise, e firmato da migliaia di persone, viene allegato un elenco di opere di proprietà pubblica o ecclesiastica che, con la tutela spostata da cinquanta a settant’anni, potrebbero essere vendute o alterate: il Salone per le Esposizioni e il Palazzo del lavoro di Nervi a Torino; la chiesa della Sacra Famiglia di Quaroni a Genova; il Padiglione d’arte contemporanea di Gardella a Milano.
Ma nella lista figurano anche quartieri di edilizia popolare, il QT8 di Milano (Piero Bottoni, Vico Magistretti, Giancarlo De Carlo, Marco Zanuso), la Falchera di Torino (Giovanni Astengo), il Borgo La Martella di Matera, voluto da Olivetti e progettato da Quaroni.
Italia Nostra si è mobilitata. La conoscenza, si sente dire, può valere persino più dei vincoli, perché sensibilizza chi quelle architetture le vive. L’associazione Docomomo scheda con cura le opere per le Olimpiadi del 1960 e segnala gli edifici meritevoli di protezione a L’Aquila. «Può bastare una piccola targa accanto al portone, come si fa in Francia», ricorda Alessandra Vittorini, «per sapere di abitare in un palazzo che ha qualità architettonica». Marco Dezzi Bardeschi, architetto e professore al Politecnico di Milano, ha raccolto nella mostra "Salvaguardare l’architettura contemporanea a rischio" casi emblematici di abbandono: il Foro Boario di Giuseppe Davanzo a Padova (1965), l’Istituto Marchiondi di Baggio (Vittoriano Vigano, 1957), la Villa Saracena progettata da Luigi Moretti a Santa Marinella.
«L’architettura del Novecento dura programmaticamente poco», dice Purini. «Questo vale per Ville Savoy di Le Corbusier, che è costantemente in restauro, e per i Grand Ensemble, i giganteschi complessi francesi o dell’ex Urss, per i quali è stato necessario intervenire per dare solidità a posteriori». Ma come agire correttamente? Tanti citano un caso virtuoso, il restauro del grattacielo Pirelli di Gio Ponti a Milano, dopo l’incidente provocato nel 2002 da un aereo. A Roma esiste una Carta per la qualità curata da un gruppo guidato da Piero Ostilio Rossi, storico dell’architettura alla Sapienza (milletrecento edifici dall’inizio del secolo indicati come meritevoli di tutela). Il documento fa parte del Piano regolatore, fissa criteri per intervenire, ma resta lettera morta. «Per il passato basta una data a segnalare come pregiata un’architettura», spiega Rossi, «ma per il Novecento non si riesce a dar vita a giudizi di valore condivisi».
Più ci si avvicina alla contemporaneità, più la percezione estetica si fa debole. Ma oltre le questioni propriamente culturali, le malversazioni si moltiplicano. Quella subìta dal Memoriale per gli italiani caduti nei lager nazisti, per esempio, un’opera che nel 1980 vide la collaborazione dell’architetto Belgiojoso, del pittore Mario Samonà, dello scrittore Primo Levi e del musicista Luigi Nono. La struttura, voluta dall’Associazione ex deportati e allestita nella baracca 21 di Auschwitz, consiste in un percorso a spirale, rivestito all’interno da una serie di illustrazioni. È un’opera d’architettura e d’arte, la cui visita era accompagnata dal brano di Nono, Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz. Il memoriale è in condizioni precarie, avrebbe bisogno di restauri: ma su di esso incombe addirittura la minaccia di demolizione.
Anche nell’articolo, fortemente improntato ad una logica conservazionista, si cita la necessità di “non musealizzare” le opere degli architetti del ‘900. Ecco: basta essere coerenti con questo assunto per fare il passo successivo, ovvero che da tutelare, e in modo attivo, c’è l’idea di città alle spalle delle singole opere. Un percorso che del resto è già stato compiuto ad esempio nella tutela dei centri storici o degli edifici di interesse monumentale in area non urbana, almeno in teoria. E che proprio dai lavori di almeno due generazioni di progettisti emerge evidente, ovvero la capacità di immaginare e suggerire contesti spaziali assai più ampi di quelli direttamente interessati dalle realizzazioni.
Non a caso si parla di esperienze a cavallo fra l’emergere della cosiddetta figura di architetto integrale (che comprende sia l’urbanista, che il progettista, che il designer e il critico) e la transizione verso la successiva riorganizzazione, secondo molti in negativo, e l’emergere delle figure attuali, archistar o comunque più fortemente improntate a un approccio individualista.
Il che non significa ovviamente musealizzare intere aree metropolitane: la “morte dell’architettura moderna” in questo senso è stata ufficialmente sancita a livello internazionale già negli anni ’70. Ma sicuramente recuperare il meglio delle suggestioni urbane di queste generazioni di architetti, andando se non altro oltre la pura logica del restauro e/o del “diradamento edilizio” di buona memoria (f.b.)
La Sardegna e quinta nella classifica di Legambiente sull' abusivismo edilizio. Vuol dire che se non è al primo posto poco ci manca. Il conto è presto fatto, dato che Campania e Sicilia hanno tre quattro volte tanto gli abitanti di Sardegna e pure il flusso turistico e più intenso in quelle Regioni.
Non siamo messi bene ed è meglio non minimizzare. La Sardegna brutta c'è, e tra insediamenti illegali e legittimi è proprio una bella gara. E ferma restando la condanna degli abusi, è bene dire che troppo spesso leggi e regole urbanistiche servono per convalidare scelte inammissibili.
Si legge spesso di interventi della Magistratura contro un'ondata di aggressioni al territorio, favorita dal clima che da anni mette il bene comune al margine. Gli espedienti per eludere vincoli e scansare autorizzazioni non si contano, la posta in gioco è rilevante e, come vediamo dalle cronache recenti, ci sono spesso complicità autorevoli. Colpiscono i casi di Arzachena e Olbia, ma non sorprendono. Spiegano il clima afferra-afferra. Il piatto è ricco. Con i paesaggi che ci ritroviamo si va sicuri, metti uno e prendi sei, se va male, ma molto di più se ci sai fare. A basso investimento (il costo di costruzione più di tanto non cresce anche con l'impiego di pregiati materiali) corrisponde un utile inimmaginabile con altre imprese.
Il valore – è bene ricordarlo – è dato da quel quid che mettiamo noi, il paesaggio non de-localizzabile. Eppure verso la manomissione dei luoghi – del paesaggio di tutti – c'è tolleranza da parte dell'opinione pubblica, come verso gli evasori fiscali.
Preoccupa oggi la forma assunta dall'abusivismo, il numero di “lottizzazioni scoperte per caso” nelle coste. Case che passano per attrezzature agricole ma con vistamare, piscina e prato verde, denominatore comune di casi in costa ogliastrina, in quella gallurese, in quella algherese, in quella di Quartu. Nei baluardi del turismo ti aspetteresti un'alta vigilanza a presidio della risorsa su cui si fonda il futuro. D'altra parte il trucco è lo stesso, come nel gioco delle tre carte nella rambla di Barcellona o nei vicoli di Napoli. Numerose sentenze spiegano il reato, evidente prima di materializzarsi già nella fase del frazionamento del suolo (la lottizzazione “cartolare”).
Ecco, se gli azzardi sono tanti e così scoperti vuol dire che l'idea di farla franca si è diffusa.
Per questo è urgente dare segnali di grande fermezza nelle amministrazioni locali, per mettere fine a questi intrecci di disorganizzazione, indifferenza, connivenza (a proposito del responsabile dell'edilizia privata di Arzachena che concorre a un abuso). E' un compito della politica che spesso è stata in grado di reagire. Inammissibile, ad esempio, che le città ad alta tensione edilizia, come Olbia e Alghero, abbiano vecchissimi piani urbanistici aggiustati nel tempo, mai adeguati alle disposizioni degli ultimi decenni. Su questo prima di tutto e la sfida: lasciare l'idea che il territorio sia privo di un governo e di un progetto è un danno per tutta la comunità sarda.
La prima battaglia di Tornavento venne combattuta dagli Spagnoli contro i Francesi, per il controllo di Milano, il 22 giugno del 1636; la seconda è cominciata ieri negli uffici del ministero dell’Ambiente: qui sono state depositate le motivazioni con le quali nove piccoli Comuni lombardi si oppongono al nuovo super ampliamento dell’aeroporto di Malpensa; progetto che comporterebbe la costruzione della terza pista, una maxi area cargo, il sacrificio di 600 ettari di bosco e anche quello, appunto, del paesino di Tornavento: 500 abitanti che vivono in riva al Ticino ma che dovrebbero sloggiare qualora il progetto andasse in porto. I sindaci dei nove Comuni hanno illustrato ieri mattina le loro ragioni, supportati nella loro battaglia dall’ente Parco del Ticino (in cui Malpensa è compresa) e da un pool di associazioni ambientaliste tra cui Italia Nostra, Wwf e Fai.
L’avversario ha le spalle grosse, perché a volere la terza pista è la Sea, la società di gestione degli aeroporti di Malpensa e Linate di cui il principale azionista è il Comune di Milano. Sea, tanto per dare un’idea degli interessi in gioco, ha annunciato di voler investire nell’aeroporto fino a un miliardo di euro e di portare il traffico dello scalo, entro il 2030, a 50 milioni di passeggeri l’anno. «Ma ditemi voi come si può voler ampliare un aeroporto che già oggi ha una capacità di 30 milioni di passeggeri ma che nell’ultimo anno ne ha movimentati appena 18; noi non siamo certo per la chiusura di Malpensa ma il fatto che Alitalia prima e Lufthansa poi abbiano deciso di non scommettere su questo scalo qualcosa dovrebbe insegnare...» : Piergiulio Gelosa, sindaco di Lonate Pozzolo, sintetizza con efficacia il senso della battaglia intrapresa. Ieri, come detto, ha depositato al ministero dell’Ambiente 40 osservazioni contro il masterplan depositato da Sea per la «super Malpensa» ma dietro Gelosa c’è una nutrita e composita compagine: lui è del Pdl, così come i suoi colleghi di Ferno e Somma Lombardo, mentre leghista è il primo cittadino di Samarate, del Pd quello di Cardano al Campo e espressione di liste civiche quelli di Vizzola Ticino, Casorate Sempione, Arsago Seprio e Golasecca, tutti i centri interessati al progetto.
Milena Bertani presidente del Parco del Ticino, viene invece dall’Udc ma è sulla stessa linea dei sindaci: «Ci sono atti amministrativi e di indirizzo che dicono che la terza pista non può essere fatta senza una valutazione di impatto strategico sull’intera zona. Il progetto così come è stato presentato distruggerebbe una delle poche aree protette della Lombardia, ad altissimo valore faunistico e naturale» . Ma se gli svassi e le farfalle dei boschi attorno a Malpensa dovessero apparire un argomento troppo debole, ci pensa di nuovo Piergiulio Gelosa a scoprire le carte e a chiarire il vero nodo della questione: «I 50 milioni di passeggeri e i 2 milioni di tonnellate di merci ipotizzati, per noi sono un’utopia; in compenso il piano prevede insediamenti per 200 mila metri quadrati dentro la nuova area dell’aeroporto. Immobili che farebbero molto bene ai bilanci del Comune di Milano e della Sea che sta per quotarsi in Borsa» .
Introdursi nel cantiere più importante e delicato di Torino, quello del grattacielo Intesa San Paolo, in un piccolo gruppo misto eterogeneo e un po' improvvisato e occupare la gru più alta non è cosa facilissima. Soprattutto se non ci si arriva come emanazione di un corteo più ampio. La cosa più difficile, comunque, è stata quella di restare tante ore sulla gru, incalzati da polizia, vigili del fuoco e responsabili del cantiere che volevano, minacciavano, imploravano di farci scendere il prima possibile ma sapevano di non poter salire a tirarci giù fisicamente.
L'idea di occupare la gru era circolata nell'ala più militante del nostro compassato e timido Comitato «Non grattiamo il cielo» di Torino, era un'idea che emulava proteste di gru e tetti di operai, immigrati, precari e studenti ma in questo caso con un taglio più ideologico che sociale. Salire in alto, mettersi a repentaglio, rendersi visibili non per reclamare i propri diritti sociali ma per difendere il paesaggio e una concezione da"beni comuni" della urbanistica. L'idea giaceva in un cassetto, ed è tornata attuale dopo l'osservazione casuale - dagli adiacenti uffici della Provincia - di come è fatto il cantiere, e soprattutto dopo che la recente acutizzazione del conflitto No Tav ha un po' risvegliato il movimentismo torinese.
Alla vigilia dell'entrata in vigore della manovra economica, è sembrato ad alcuni di noi che la battaglia contro il grattacielo - difficile e dimenticata dopo che il cantiere è iniziato - potesse validamente legarsi al tema No Tav, ed entrambi al No Ticket.
La preparazione
Ma praticamente, preparare l'occupazione di questa super-gru è stato al tempo stesso faticoso e divertente. Avete presente un film che racconta come si mette insieme un gruppo e un piano per una rapina? Avete presente quello che ti dice che l'idea lo entusiasma ma non sa come funzionerà il suo ginocchio tra due giorni, o come starà la mamma, o che dirà la moglie, o qualunque altra variabile? Senza contare quelli che erano andati bellamente a sfidare i lacrimogeni a Chiomonte ma in questo fine settimana dovevano proprio andare al mare oppure non erano convinti di qualcosa.
Avessimo potuto spargere la voce tra centinaia di persone, forse ne avremmo raccolte almeno una trentina. Ma non era prudente. E da certi telefoni parlavamo in codice, come se davvero ci intercettassero in tempo reale per motivi di ordine pubblico. Con un paio di avvocati avevamo capito che il nostro eventuale problema legale si chiama articolo 633 del codice penale. Limitato però a eventuale querela di parte se il gruppo che invade la proprietà privata è composto da meno di dieci persone. Non bisognava però sovraccaricare il modesto rischio della querela penale con il rischio civile, economico, dei danni dovuti alla interruzione dei lavori.
Con alcuni sopralluoghi avevamo capito che il cantiere lavora il sabato fino all'ora di pranzo. Quindi abbiamo deciso l'azione per le 14. I due più tecnici di noi si erano procurati quattro leggerissime scalette di alluminio portatili, per scavalcare il recinto di due metri. Avevamo già da tempo uno striscione verticale «Non grattiamo il cielo di Torino», esposto un giorno (ovvero 10 minuti) dalla Mole. Dalla terrazza della Mole lo fanno subito tirar via. In questo caso sulla gru - ovvero sulla scala della gru - saremmo stati padroni del campo. Negli ultimi giorni le riunioni sono state piccole ma quotidiane. A una ditta amica abbiamo ordinato due striscioni verticali - No Tav e No Grattacielo - e uno orizzontale - No ticket - stampati su materiale molto leggero per portarli su facilmente negli zaini sulla ripida scala a pioli della gru.
Ai partecipanti - agli aspiranti o aspirati tali - si chiedeva di portare acqua, k-way per il fresco e possibile pioggia, qualche cibo, e cellulari ben carichi. Eravamo una quindicina, di cui metà decisa a salire, gli altri a collaborare all'avvio della invasione alle 14 di sabato. Tutto pronto ma imprevedibilmente ci sono tre gruisti operativi sulla gru, che avrebbe dovuto esser libera e vuota già da un'ora . Riunione un po' concitata, c'è anche ci si offende perché non lo avevamo previsto, e se ne va. C'è chi sospetta che abbiano deciso di lavorare il sabato pomeriggio proprio perché ci aspettavano. Ma non c'è polizia.
L'azione
Decidiamo di ritrovarci alle 18. Due dei "salitori" non si presentano, uno per improvviso piccolo incidente del figlio bambino. Per fortuna si decide invece a salire anche uno studente non previsto. I gruisti continuano a manovrare ancora un po' dopo le 18, poi finalmente li vediamo scendere e dopo qualche minuto ci facciamo sotto. Qualcuno poggia le scalette. Io salgo e scendo quei due metri goffo e un po' affannato. Avevo immaginato (decine di volte, ormai) di correre verso la scala della gru mentre qualcuno mi avrebbe gridato «che fate, fermatevi». Invece non succede. Inizio a salire la più lunga scala a pioli mai salita in vita mia. Ci sono rampe, e piccoli pianerottoli, e non si pencola nel cielo ma in mezzo a sbarre dritte o curve a mo' di cerchio protettivo. La spinta e l'entusiasmo di salire sono più forti della inquietudine a guardarsi in giù.
L'orizzonte si allarga e giù a terra è ancora tutto quieto. Persino dopo che viene calato il primo striscione nessuno nel cantiere si è ancora accorto di noi. Tanto che - previo un breve colloquio telefonico con uno di noi già all'altezza del (futuro) decimo piano - un altro studente si aggiunge. Tenero e fantastico, scavalca da solo senza scaletta portatile e ci raggiunge in alto. Intanto ho cominciato ad avvisare i giornali, ma solo dal Tg 3 c'è risposta e viene mandata una troupe. Il caporedattore di turno della Stampa mi dice che siamo i soliti quattro gatti che dicono la solita cosa. Sotto, in corso Inghilterra, è rimasto un gruppetto dei nostri. Quando finalmente viene dato l'allarme, arrivano volanti della polizia e alcuni di loro vengono identificati. Poi arrivano a sirene spiegate i pompieri. I cancelli del cantiere vengono aperti e da un'auto della polizia ci parlano con un megafono: è pericoloso, dovete scendere, questa è un'intimazione.
La resistenza
Telefono al dirigente Ferrara della Digos per informarlo di chi siamo e delle nostre pacifiche intenzioni, solo dimostrative. Otteniamo un po' di pace, per goderci l'imbrunire e lo sbucare della luna piena. Così: quasi sospesi nel vuoto, stretti nelle piccole piattaforme tra le rampe della scala a pioli. È più emozionante che da quello che sarà un ufficio alto blindato dai vetri. Riunione a 55 metri dal suolo, confermiamo di voler continuare l'occupazione della gru almeno fino alla fine del mattino di domenica, ora per la quale convochiamo un incontro-conferenza. Digos, pompieri e soprattutto responsabili del cantiere ci rimangono malissimo, speravano scendessimo a fine serata. A quel punto cominciano una serie di pressioni - attraverso telefonate della Digos e missioni di uno-due pompieri che salgono fin da noi a parlare - con argomenti che si accavallano. E talvolta si contraddicono, come quando la polizia dice che se qualcuno di noi si fa male il cantiere potrebbe essere chiuso per accertamenti e che se non scendete potrebbero ordinarci di salir su a prendervi a forza. Dal punto di vista tecnico apprendiamo cose che all'inizio ci sembrano incredibili ma che nelle varie puntate successive coi pompieri si rivelano non del tutto infondate.
La presenza di non addetti ( cioè noi) su una gru come quella - la più alta gru con braccio mobile operante in Italia - viene considerata così pericolosa da mobilitare più di venti pompieri. La metà della forza di turno in quel momento in città, per cui rischiamo di mandare in crisi altre situazioni. Sempre a causa della nostra presenza alla gru è stata tolta l'elettricità - anche se abbiamo giurato di non salire nella cabina dei comandi. Di conseguenza non è attiva la luce di sicurezza in alto, obbligatoria per sicurezza del traffico aereo e di elicotteri. Fino a questo punto comunque non ci smuoviamo. Neanche quando il passaggio delle pizze comprate da nostri sostenitori, passaggio preso in considerazione dai pompieri, viene stoppato dalla Digos. Prima motivazione: se non ci bloccano i viveri finisce che non scendiamo più. Più tardi un pompiere dirà invece che non si possono prendere la responsabilità che «il cibo sia abbastanza salubre» per la nostra delicata posizione lassù.
Ore una: tre dei nostri ragazzi - i tre ventenni - vogliono scendere. Si sentono solidali, promettono addirittura di tentare di risalire alla chetichella in mattinata, ma è meglio che passino da casa. Mentre controlliamo dall'alto che vengano solo identificati e non trattenuti, l'ennesima salita del pompiere porta la novità a cui inizialmente non crediamo. Operai specializzati devono salire sulla gru per metterla in sicurezza tra poche ore, la mattina di domenica. Sono gli stessi che hanno lavorato il sabato pomeriggio! Se non scendiamo non salgono e ci possono dare la responsabilità di aver fermato il cantiere. Mi sfogo al telefono col consigliere comunale Michele Curto, che si è tenuto informato da quando è iniziata l'azione: possibile che non ci lascino concludere la manifestazione alle 12? Michele parla con la Digos, decide di venire e dopo vari dialoghi a distanza si capisce che la faccenda della messa in sicurezza straordinaria domenicale è vera. Non sono stati capaci di spiegarcela subito, non se la sono inventata. Il pompiere ipotizza che ci possano lasciare gli striscioni appesi. Mi invitano a scendere per parlamentare direttamente. Tra responsabili della sicurezza dell'impresa e della banca, Digos, pompieri e consigliere comunale: un bello squadrone mi attende alle due di notte. Com'è delicata una gru, soprattutto del più alto grattacielo della più grande banca. Prende corpo una mediazione eccezionale. Noi scendiamo quasi all'alba per lasciare libera la gru ai manutentori. Loro ci lasciano stare nel cantiere per accogliere dalla base della gru i nostri sostenitori alle 11 e ci lasciano stare appesi gli striscioni fino alla fine degli interventi. Quando questo avviene, alcune ore più tardi, saranno addirittura due guardie del cantiere a portarci il megafono prestato da Paolo Vinci del movimento 5 stelle.
Il giorno dopo
Attorno alle 12 una piccola folla - tra cui finalmente cronista e fotografo della Stampa - ci accoglie. Almeno per i presenti il legame tra i tre temi No Ticket, No Tav, No grattacielo è chiaro e sensato. La Digos cataloga ma ci restituisce gli striscioni. Che sarà della identificazione di noi scalatori? Confermate le nostre valutazioni: prendono i nomi ma non ci denunciano d'ufficio, eventualmente è la proprietà che querela. La Banca ha già detto che non ci querela (stavolta...) l'impresa edile molto probabilmente neanche. Qualche ora dopo l'impresa della gru sento i muscoli un po' provati e riguardo le foto dall'alto e dal basso. Difficilmente impediremo lo stravolgimento del paesaggio di Torino. La sproporzione di mezzi e risorse tra noi e loro - i potenti della gru - è plateale. Ma questo corpo a corpo, questo presidio del cielo, sono pratiche di intervento sulla città. Oltre che prove di lotta tanto pacifica e testimoniale quanto radicale.
Le manifestazioni in Val di Susa hanno provocato molti mal di pancia e qualche ripensamento, ma in compenso hanno dato fiato all’esercito dei benpensanti. "Benpensanti" sono quelli che non pensano, convinti come sono che qualcuno deve pur averlo fatto per loro, e perciò sposano all’istante qualsiasi banalità, purché abbia l’aria "rispettabile" e "condivisa", e sia comunque ready made, per non perder tempo e passare ad altro.
In Val di Susa c’è chi vuole a ogni prezzo la Tav, c’è chi non la vuole a nessun costo, e c’è chi vuol capire meglio, chiede informazioni e garanzie, contesta dati e analisi con altri dati e altre analisi. C’è chi si chiede come mai il sito archeologico della Maddalena di Chiomonte sia recintato e danneggiato dalle ruspe, mentre intanto Arcus (una Spa "di Stato" controllata dal ministero dei Beni Culturali) ha concesso al comune di Chiomonte ben 800.000 euro per un sito che la Tav potrebbe distruggere.
Alcune decine di migliaia di persone hanno manifestato pacificamente intorno a un’area presidiata militarmente; pochissimi hanno ingaggiato scontri con la polizia. Il coro dei benpensanti, al grido di "no alla violenza!" ne ha dedotto che chi vuole la Tav ha sempre e comunque ragione. Un solo esempio, Bersani : «Non possiamo accettare l’idea che il processo decisionale venga bloccato da frange violente. Quello che è successo in Val di Susa è spiacevolissimo ma non si possono fermare i cantieri».
Proviamo ad applicare lo stesso modello a un altro caso.
Poniamo che si svolga a Roma una manifestazione contro i conflitti d’interesse e le bugie di Berlusconi; e che, su centomila manifestanti, venti o cinquanta rovescino una camionetta della polizia e tirino sulle vetrine qualche sanpietrino. Se ne dovrà dedurre che il conflitto d’interessi di Berlusconi è santo e giusto, l’essenza stessa della democrazia? Dovremo aspettarci dichiarazioni del tipo «Non possiamo accettare l’idea che il conflitto d’interesse venga bloccato da frange violente», con quel che segue? Le "frange violente" autorizzano a non pensare, spostano l’attenzione dal cuore del problema (il conflitto d’interesse, la Tav) al margine: la frangia, appunto, anzi la violenza. Di riflesso, si discute animatamente su quanti fossero davvero i manifestanti, su quanti davvero abbiano commesso una qualche violenza, e quale; se vi fossero davvero dei feriti, e quanti, e come. Su tutto, insomma, meno che sulle ragioni civili della protesta. Che restano identiche (se e quando ci sono) anche quando qualcuno le rappresenti in modo improprio, violento (o anche stupido e disinformato: anche questo può succedere).
Lasceremo in mano ai "benpensanti" le regole del gioco? Quanto si può alzare la voce in un corteo, che cosa si può scrivere negli striscioni, quanto ci si può avvicinare a una recinzione? Perché, invece, non riportare sulla scena le virtù civili dell’indignazione? Dobbiamo sperare solo nello sguardo profetico dei vecchi, José Saramago che pretende la parola "indignato" sulla propria pietra tombale, Stéphane Hessel che col suo grido Indignez-vous! scuote la Francia? I giovani italiani, indignati perché condannati dalla "macelleria sociale" in atto a scegliere fra disoccupazione e emigrazione, hanno diritto a un po’ di rabbia, almeno quanto gli indignados di Spagna? O la loro protesta sarà accettabile solo se edulcorata e mediata da un qualche partito? E perché i partiti non riescono (più) a farsene interpreti, e sanno solo esortare alla calma? Non sarà stata, invece, l’indignazione dei cittadini a vincere il referendum del 12 giugno?
Quel che è in ballo non è la Val di Susa, ma l’Italia. Non la Tav, ma la democrazia. Si scontrano, in questo come in altri casi, due culture: da un lato, quella di chi difende sempre e comunque i "processi decisionali", cioè gli addetti ai lavori, cioè i politici di mestiere, che non vogliono esser disturbati nelle loro manovre. Dall’altro, la cultura dei cittadini che non si rassegnano al ruolo di spettatori passivi, che vogliono capire in prima persona, che reclamano il diritto di dire la propria: insomma, la cultura delle associazioni spontanee che, ormai a migliaia, sorgono in tutta Italia, spesso per reazione a violenze estreme contro il territorio (come le 3000 pale eoliche che si vorrebbero imporre sui 4000 chilometri quadrati del Molise). Questa sfiducia nella politica dei politici ha un forte argomento in una legge elettorale iniqua (sperimentata "a sinistra" dalla Regione Toscana, e poi adottata "a destra" dal governo nazionale), che vieta all’elettore di scegliere per nome i propri rappresentanti, e irregimenta gli eletti al servizio di capi e partiti a cui devono tutto. Ma il movimento spontaneo dei cittadini può essere una grande occasione per la democrazia, innescando una più alta dimensione della politica non come mestiere ma come diritto di cittadinanza, dignità della polis, rivendicazione di eguaglianza. Non ripudiando i partiti, ma invitandoli a pensare, a ri-pensarsi.
La reazione difensiva dei politici (da destra a sinistra) non sorprende. "Lasciateci lavorare", essi dicono in sostanza: con l’implicazione perversa che i cittadini non possono e non devono interloquire nei "processi decisionali" se non ponendo disciplinatamente nell’urna schede predeterminate dagli apparati di partito. E quando dai cittadini vengono proteste e proposte (non sempre ingenue), anziché discuterle nel merito, il politico di mestiere tende a dichiarare con sufficienza che "ci vuol ben altro". Benpensantismo e benaltrismo sono fratelli siamesi: due modi di espropriare il cittadino dei propri diritti, di chiudersi nella stanza dei bottoni (e dei bottini) al grido di "Non parlate al manovratore". Perciò le "frange violente" fanno comodo: come si è visto lo scorso dicembre, quando le proteste degli studenti contro la riforma dell’università si infransero non per mancanza di ragioni e di energie, non per incapacità di argomentare, ma perché di fronte ad alcune violenze si compattò sull’istante un solido fronte di benpensanti, che (giustamente) ripudiavano la violenza e (sbagliando) accantonavano senza discuterle le ragioni civili della protesta. Quei moti studenteschi, i primi di un qualche rilievo dopo decenni, coincisero (lo abbiamo già dimenticato?) con un momento di grande difficoltà di Berlusconi, si incrociarono con la sua campagna acquisti per conquistare il voto di fiducia svendendo la residua dignità del Parlamento. Potevano, senza le violenze e senza la retorica dell’antiviolenza che seppellisce le ragioni di chi protesta, contribuire a una caduta che non ci fu. E siamo proprio sicuri, sette mesi dopo, che sia stato meglio così?
È un coro quello che si leva sul costo della politica. Effettivamente in Italia quel costo è particolarmente elevato a causa dell´invasione della società politica nella società civile, che dà luogo a una rendita contaminata da inquinamenti mafiosi. Si parla della politica come di una corporazione. Magari! Le corporazioni avvertono i pericoli che le minacciano e sono pronte, quando quelli diventano imminenti, a pagare il costo di un ripiegamento: come sarebbe da noi la riduzione del numero dei deputati (promessa da secoli) o l´abolizione delle province. La politica italiana sembra invece priva anche dell´istinto di conservazione. Non è una corporazione. È una consorteria.
Ciò detto è incredibile e anche vergognoso che si punti il dito sulla invasione senza dire una parola sulla evasione. Sul fatto che un terzo del reddito reale, quello dei più ricchi, si sottrae ai propri doveri fiscali.
Pochi numeri rendono l´idea. Stime dell´Istat collocano il tasso di evasione medio nazionale al 13,5 del reddito dichiarato. Medio, significa benefici praticamente nulli per i dipendenti e i pensionati, stratosferici per gli autonomi e i rentiers che presentano un tasso di evasione rispettivamente del 56 e dell´84 per cento del reddito. In parte cospicua anche se non accertabile quelle ricchezze evasive affluiscono nei paradisi fiscali.
Secondo un calcolo dell´Ocse, che dovrebbe sorvegliarli e contrastarli, a fine 2008 i capitali accolti in paradiso ammonterebbero globalmente a circa 7 mila miliardi di dollari. Lo Scudo fiscale eretto dal nostro governo apre ai capitali italiani peccatori le porte del paradiso: una provvidenziale via di redenzione. Chiudere i paradisi? Anche per Nostro Signore sarebbe difficile: non ci si può sottrarre al ricatto capitalistico della migrazione dei capitali "altrove". Verrebbe voglia di dire: è il capitalismo, stupido. Ma c´è modo di non subire interamente il ricatto.
Primo, denunciandolo, come si fa con la mafia. Ora, l´Italia è il solo paese al mondo in cui un presidente del Consiglio dichiara invece pubblicamente di comprendere le ragioni degli evasori.
Secondo: il rapporto tra Stato e capitalismo, che può essere declinato in modi assai diversi. Si va dalle repubbliche di banane dei Caraibi al compromesso socialdemocratico o cattolico democratico tra democrazia e capitalismo.
Il livello del confronto dipende in primo luogo, ovviamente, dal rapporto di forze. Per i "mercati" altro è avere a che fare con l´Italia o con l´Europa: e qui si misura il costo della fiacchezza europea. Dipende poi dalla competenza e dalla qualità dei governi nazionali.
Ci sono due aspetti che possono aumentare il grado di autonomia della politica dal ricatto capitalistico per i governi nazionali: i conti in ordine e l´autorevolezza. In Italia purtroppo non disponiamo né degli uni né dell´altra. I conti sono pessimi. Quanto all´autorevolezza siamo piuttosto lontani da quella del generale de Gaulle (proprio in tema di paradisi fiscali non dimentichiamo che il generale minacciò di intervenire militarmente a Montecarlo. Solo Bossi potrebbe farlo con le sue baionette padane) e più vicini a una repubblica di banane.
Un soprassalto di dignità è quello che il presidente della Repubblica, il solo vero garante della dignità del Paese, ha ottenuto dal senso di responsabilità delle opposizioni con il via libera all´approvazione di una manovra disapprovata. Ma non basta certo. Affidare una manovra economicamente sconnessa e socialmente iniqua alla gestione di un governo rissoso? È questo che ci aspetta nei prossimi due anni?
La manovra in parlamento sarà immediata; questo è il momento delle decisioni irrevocabili, come si diceva una volta. Sotto le bombe - Moody's e compagni che tirano alle banche italiane mentre è Giulio Tremonti, alle spalle dell'onorevole Milanese, l'anatra zoppa - si è formata da noi un'Unione sacra che solo la misurata retorica del presidente chiama «coesione». L'opposizione si è liquefatta, affidandosi a una di quelle parole dal suono magico: tregua.
«Ecco come arrivare al pareggio subito». Il Sole 24Ore». (Roberto Perotti e Luigi Zingales) ha titolato così un editoriale dal soave occhiello: «Decalogo draconiano». Confindustria e governo vi hanno attinto largamente, o forse lo hanno largamente ispirato. Se al primo punto del decalogo sono indicate le privatizzazioni delle imprese pubbliche rimaste, o per meglio dire la vendita dei pacchetti azionari detenuti in nome del Tesoro dalla Cassa dei depositi e prestiti; se al secondo compare l'eliminazione delle Fondazioni bancarie, è il terzo che conta davvero. Vi è intimata la privatizzazione delle municipalizzate, le imprese che gestiscono nelle città i trasporti, l'acqua, l'elettricità, i rifiuti. Tremonti lo ribadisce ai banchieri riuniti in assemblea, escludendo il caso dell'acqua, ormai protetta dal risultato referendario del mese scorso. Sostiene Tremonti: gli enti locali saranno spinti a vendere «attraverso un sistema di incentivi e disincentivi». Detto altrimenti, chi si adegua e vende i beni comunali riceverà i contributi dello stato, che mancheranno invece ai sindaci riottosi.
E' facile notare che un simile comando è tipico di uno stato centralista che vuole eliminare ogni forma di autonomia locale. La misura riporta l'intero quadro politico indietro di decine di anni, agli albori della prima repubblica, con buona pace del federalismo proclamato ogni due giorni. Un secondo aspetto è che lo stato centrale - il governo di concerto con l'opposizione - in questo modo di fatto s'impadronisce di beni e attività che non sono suoi, privandone i comuni e gli abitanti. Sono beni comuni che lo stato, con il ricatto, costringe a vendere, per contenere i propri debiti, impietosire la finanza internazionale e mostrare la propria modernità.
Inoltre la cessione di attività decisive come i trasporti urbani mette le città alla mercé dei fondi e delle banche che hanno anticipato i mutui necessari agli investimenti. Infine, chi garantirà il servizio già pubblico? Se il fondo straniero, nuovo proprietario della rete tranviaria, dovrà scegliere tra maggiori profitti e migliori vetture, come si comporterà? Siamo sicuri della continuazione del servizio notturno? Chi avrà davvero la forza di imporre regole al nuovo proprietario, potente, di nazionalità indefinita, che opporrà sempre i diritti superiori del capitale?
I giorni dell'attacco finanziario all'Italia sono ormai alle spalle. Qualcuno è convinto che il paese abbia retto, tanto che l'attacco è stato respinto. A ben vedere la finanza internazionale ha inferto un colpo alla straordinaria Italia dei referendum. Primo paese del capitalismo avanzato, l'Italia si era mostrata capace di ribellarsi e di scegliere la via dei beni comuni, della democrazia partecipata, del rifiuto al nucleare. Era un colpo intollerabile per coloro che si considerano i padroni del mondo: andava subito cancellato. Occorreva un segnale forte, valido per tutti, in Europa e fuori: nessuna libertà a chi si oppone. Il segnale è arrivato: i beni comuni delle città italiane sono in vendita.
La nota Istat su «La povertà in Italia», relativa al 2010, ci restituisce l'immagine di un'Italia povera. Di un paese socialmente fragile, con un esercito di 8.272.000 individui (462.000 in più rispetto al 2009) in condizione di povertà relativa (costretti cioè a una spesa mensile inferiore a una soglia che per una famiglia di due membri è pari a 992 euro). E con 1.156.000 famiglie in condizione di povertà assoluta, per le quali cioè risulta impossibile procurarsi un pacchetto di beni e servizi considerati il minimo indispensabile per condurre una vita decente. Era così prima della crisi. Continua ad esserlo durante la tempesta.
Soprattutto però i dati Istat confermano la persistenza, anzi l'aggravamento, di tutte le caratteristiche che sono state indicate come tipiche del "modello di povertà" italiano. Un modello patologico, senza confronti in Europa. Esse sono tre. In primo luogo lo squilibrio nord-sud, con un differenziale territoriale che per la povertà relativa raggiunge le 5 volte: il 67% della povertà italiana continua a concentrarsi nel Mezzogiorno, nonostante vi risieda appena il 31% della popolazione. In secondo luogo l'altissima incidenza della povertà tra le famiglie numerose, in particolare quelle con figli minori a carico, che fa dell'Italia la maglia nera in Europa per quanto riguarda la più scandalosa delle povertà, quella dei minori, che qui raggiunge la percentuale record del 25% (secondo l'agenzia statistica europea Eurostat). Infine l'alto livello di povertà, sia relativa che assoluta, tra i lavoratori. La presenza, imbarazzante, dei working poor, dei "poveri al lavoro". O, se si preferisce, di coloro che sono poveri sebbene lavorino (più del 6% sono in condizione di povertà assoluta!).
Ebbene, tutti e tre questi aspetti risultano - in alcuni casi drammaticamente - peggiorati nell'ultimo anno. È sconvolgente che la povertà relativa sia aumentata, in un solo anno, tra le famiglie numerose, di ben 5 punti percentuali (dal 24,9% al 29,9%). E che nel Meridione, tra le famiglie con tre e più figli minori, il balzo sia stato addirittura di 11 punti (dal 36,7% al 47,3%). Significa che lì, un minore su due vive in una famiglia povera. E che una famiglia numerosa su tre è povera. Nel Meridione, d'altra parte, è peggiorata verticalmente anche la posizione dei lavoratori autonomi (dal 14% al 19,2%) e quella delle persone con titolo di studio medio alto (dal 10,7% al 13,9%), a dimostrazione di quanto la crisi sia arrivata a mordere nel vivo anche tra le classi medie (è un segnale nefasto che «tra le famiglie con persona di riferimento diplomata o laureata aumenti anche la povertà assoluta, (dall'1,7% al 2,1%)».
Possiamo immaginare quale possa essere l'effetto degli interventi lineari della manovra or ora approvata a tempo di record, su questa ampia parte dolente del Paese. Che cosa comporti il taglio delle detrazioni fiscali per figli minori e asili nido o per cure pediatriche; la soppressione di servizi essenziali in campo educativo e sanitario; la reintroduzione dei ticket, accompagnati agli effetti sperequativi del cosiddetto "federalismo fiscale". Sale sulle ferite. Come di chi preme sulla nuca di un uomo che affoga.
La politica più screditata degli ultimi decenni ha imposto agli italiani i sacrifici più duri. Una riedizione del biennio 1992-1993, probabilmente aggravata e peggiorata. Che la manovra economica sia – in queste circostanze – inevitabile, non toglie che essa sia legittimata più dallo stato di necessità e dall´autorità di Napolitano che non dalla supremazia della politica, dalla sua lungimiranza, o almeno dal consenso popolare. La rapidità con cui i due rami del parlamento hanno approvato i sacrifici presenti e futuri, con la responsabile copertura politica anche di chi ha votato No, vuole trasmettere l´idea dell´urgenza e della compattezza ai mercati finanziari.
Ma non convince il fronte interno. Ossia i cittadini, che vedono, certo, l´unità della classe politica ma che al tempo stesso constatano lo scollamento impressionante fra questa e la società.
La società non è, in sé, il ricettacolo del Bene – è un crogiolo instabile di paure e di egoismi, oltre che di speranze. E la politica non è in sé il Male: anche se oggi è in crisi strutturale e morale, minacciata com´è dalla disastrosa autonomia dell´Economico (e della Finanza) e dalla penosa inadeguatezza di troppi suoi esponenti, è pur sempre la funzione direttiva della Cosa pubblica, un´attività nobile e difficile che deve avere le caratteristiche tanto dell´esercizio intellettuale quanto della saggezza pratica quanto della competenza tecnica. Ebbene, oggi la politica non mostra questo volto: e si presenta invece come una Casta – percorsa da troppa corruzione e collusa con troppi poteri opachi – che non riesce a comunicare alla società, né a leggerne i segni.
Non comunica. E infatti non sa cogliere l´occasione che questa doppia crisi – economica e politico-morale – le offre per rilegittimarsi agli occhi dei cittadini. Mentre interviene per decreto sulla vita delle famiglie, mentre si accanisce sui bilanci del ceto medio e basso, mentre alza i ticket e taglia servizi ai deboli, mentre colpisce i risparmiatori e il pubblico impiego, mentre alza le tasse (o abbassa le detrazioni) a chi le paga nel contesto d´evasione a tutti noto, non trova invece la forza e l´intelligenza per un gesto simbolico – non però demagogico né inefficace – che riavvicini i politici ai cittadini, i potenti a coloro che devono subire. Qualcosa come un provvedimento che dimezzi, fino dalle prossime elezioni il numero dei parlamentari, norme organiche e severe contro la corruzione, la riforma immediata dell´infame legge elettorale. Per iniziare, basterebbe la capacità di trovare un atteggiamento unitario verso l´arresto dei parlamentari per i quali la magistratura lo chiede; o che i ministri sospettati di mafia abbiano un soprassalto di decoro e si dimettano. Messaggi di questo tipo non vengono oggi dalla politica – capace, al contrario, di votare una legge talebana sul "fine-vita", pur consapevole che tre quarti degli italiani la aborrisce, e che è, oltre che barbara, anticostituzionale.
Non sa, poi, leggere i segni dei tempi. Le elezioni amministrative e i referendum, ma anche la protesta delle donne, sembrano passare come acqua fresca sui Palazzi del potere. Una società civile che si mostra non fatta solo di chiusure e di rancori, un messaggio non qualunquistico di protesta e di fiducia nel futuro, una scommessa sul valore di ciò che è pubblico e comune, un´ansia di dignità individuale e collettiva, una ricerca di spazi di cultura e di comunicazione, la voglia – urlata, senza rabbia – di partecipare alla ricostruzione di un Paese umiliato; tutto ciò chiede ascolto e risposta, vuole attenzione, esige una parola che lo decifri, che offra un senso, che immagini una nuova democrazia. Un´idea che ripensi il ruolo dei partiti e li apra alla società, invece che farne delle arene di carrierismi e dei serragli di complotti; che ne attenui la presa sulle infinite "spoglie" di cui la politica si impadronisce, e che spartisce fra i propri adepti, suscitando nella società rabbia, risentimento e feroce spirito d´imitazione.
Tutto ciò resta invece senza riscontro. Prima di tutto a sinistra, dove la parola d´ordine è ancora "educare le masse", e dove, in nome di una superiorità della politica che oggi in Italia non può proprio essere invocata, ci si prepara a far digerire, nel prossimo futuro, una politica moderata a un elettorato che è ben più radicale dei suoi rappresentanti – ai quali, per fare un esempio, non è ancora venuto in mente di fornire un elenco delle leggi berlusconiane che, senza alcun costo per le casse dello Stato, sarebbero abrogate nel caso di vittoria. Ma perfino a destra ci si sta già accorgendo che quella del "partito degli onesti" era o un´illusione o una boutade, e che la strada verso la riscoperta della politica e verso l´autonomia del partito (e del segretario politico) dal suo declinante padrone è ancora molto lunga.
Il potere logora chi non ce l´ha, d´accordo. Ma un potere che non capisce neppure quando deve riformarsi, che non coglie le occasioni per rigenerarsi, si logora da sé. Si potrebbe scrollare le spalle e ricordare che quos vult perdere deus amentat, che dio rende stolti quelli che vuol rovinare. Ma la rovina non sarà solo dei politici: se aumenterà la scollatura fra questa politica e la società che si risveglia, l´attuale crisi perderà, verosimilmente, le proprie potenzialità morfogenetiche e democratiche. Priva di sponde politiche la società lascia presto cadere le proprie speranze, soprattutto in tempi difficili, e dà il peggio di sé. Anziché una nuova politica libera e moderna in una società viva, c´è così il rischio – e l´Europa ne offre già esempi – che sulle rovine della democrazia trionfino egoismi selvaggi e populismi inquietanti.