Il caso Ikea a La Loggia, nell’hinterland torinese, viene affrontato da alcuni giornali nazionali mettendo in ombra ciò che lo ha provocato e cioè la questione del consumo di territorio agricolo. Si commenta – e si protesta a fianco di Ikea – come se davvero l’Italia pigra, burocratica e clientelare avesse ostacolato un’occasione pulita e dinamica di nuovo sviluppo. Non è così. Qualunque cosa si pensi del territorio italiano, e innanzitutto padano, si deve prendere atto con rispetto che qui, forse per la prima volta, una Provincia intesa come governo di scala vasta, più forte e autorevole dei singoli comuni, ha detto no alla cementificazionedi un’area agricola, e lo ha fatto in coerenza con un Piano Generale. Sta diventando un caso pilota.
Dopo la decisione di Ikea di sospendere il progetto, il presidente della Provincia respinge al mittente le accuse mosse dalla multinazionale svedese. “Se proviamo a capire i motivi dell’ostinazione con cui Ikea Italia indica nel suo ultimatum quella di La Loggia come unica localizzazione possibileper un secondo punto vendita in Piemonte - ha affermato il presidente della Provincia, Antonio Saitta -ci rendiamo facilmente conto che l’area agricola prescelta con il cambio di destinazione urbanistica acquisterebbe un valore di almeno 20 milioni di euro e Ikea realizzerebbe immediatamente una plusvalenza enorme. In questo modo tutti possiamo essere abili a fare gli imprenditori”.
La decisione della Provincia di Torino ha ricevuto l’appoggio della Coldiretti e delle associazioni ambientalisteche si sono schierate a difesa del suolo agricolo. «Apprezziamo il parere negativo che la Giunta provinciale ha espresso rispetto all’ennesima trasformazione da agricola a commerciale – ha dichiarato la Coldiretti Torino -. Per i coltivatori, il giorno 22 luglio 2011 sarà una data da ricordare. Finalmente una istituzione come la Provincia ha il coraggio di fermare l’indiscriminata espansione commerciale e industriale a danno di terreni agricoli”.
“Grande dimostrazione di coerenza, sul consumo di suolo si è passati dalle parole ai fatti” è stato il commento di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta. In un comunicato, l’associazione ambientalista fornisce alcuni dati sul consumo di suolo nel territorio provinciale: “La provincia di Torino – scrive Legambiente - in questo ultimo ventennio ha subito un consumo di suolo che davvero lascia senza parole (7500 ettari dall’88 al 2006); tali dati dovrebbero frenarci e farci riflettere prima di divorare altri pezzi di verde. Bene quindi che alle buone intenzioni dichiarate nel Piano Territoriale di Coordinamento (Ptc) siano accompagnati fatti concreti e non dannose deroghe”. Non mancano le superfici già urbanizzate e abbandonate dove si potrebbe pensare di fare la sede nuova Ikea. Chiaro, farne su suolo agricolo è più semplice e molto meno costoso. Ma non è quello che ci aspettiamo… dall’Ikea .
Per fortuna in rete si stanno formando gruppi di discussione e appoggio, come su Facebooke Causes
Forse è il caso di sottolineare, un po' più di quanto non faccia l'articolo, che la vera rilevanza del caso è la dimensione provinciale assunta dal tentativo di governare l'insediamento dello scatolone multinazionale.
Sono diversi lustri che chiunque affronti con un minimo di sistematicità il problema della grande distribuzione sul territorio prima o poi si trova a confrontarsi col classico squilibrio fra le dimensioni dei bacini regionali di riferimento degli operatori, e lo spazio di decisione praticabile dalla pubblica amministrazione che vorrebbe almeno provare a metabolizzarne un po' l'invasione.
Di questi tempi si urla tanto all'abolizione delle Province per "tagliare i costi della politica", e spesso, quasi sempre ahimè, si sorvola allegramente sul fatto che se l'ente territoriale intermedio esiste, di solito ha qualche ragione per farlo, e abolirlo tout court (ovvero senza pensare un istante a chi e come debba assumerne le competenze) lascia come minimo un vuoto.
Ecco: confrontarsi più o meno alla pari con un bacino di utenza commerciale della grande distribuzione è uno di questi potenziali importanti ruoli della Provincia, o di qualunque entità operi a quella scala. Se poi invece non si vuole o non si può farlo (perché ad esempio limitati nelle competenze, ma di solito per carenze culturali o poca volontà) è un'altra storia.
Però se pensiamo a tutte le questioni ambientali, infrastrutturali, insediative, socioeconomiche e via dicendo, poste dall'intreccio col territorio locale di questi giganti. E le mettiamo a confronto con la realtà un po' misera del solito scontro nimby senza sbocco fra piccolo e grande commercio, o cittadino abitante e cittadino consumatore, allora il ruolo di un governo sovracomunale inizia ad emergere, e si può ragionare. Magari litigare, ma ragionare, il che non guasta (f.b.)
Ad oltre 100 giorni dal così detto decreto “salva cultura” (n.34, 31/3/2011) con il quale si sarebbero dovuti rimpolpare i magri bilanci del Mibac, sull’orlo del collasso dopo i tagli lineari delle precedenti finanziarie, la situazione appare non solo ancora gravissima, ma a dir poco contraddittoria.
Nonostante i reiterati annunci, così come Italia Nostra aveva denunciato con tempestività (comunicato del 12 aprile 2011), nessuna risorsa certa risulta stanziata per Pompei.
Non solo, ma il comma 8 del decreto prefigurava, al contrario di quanto ci si sarebbe attesi da un provvedimento dedicato a – letteralmente - “Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei”, un trasferimento di fondi tra Soprintendenze.
All’epoca, solo Italia Nostra aveva sottolineato come si trattasse in realtà di rendere possibile il passaggio di risorse non verso Pompei, ma da Pompei verso altre Soprintendenze in difficoltà gestionale.
Gli annunci di questi giorni sugli storni di fondi a salvataggio della disastrata situazione finanziaria del Polo Museale napoletano, svelano le vere finalità del decreto.
Italia Nostra ribadisce che operazioni di trasferimento da Soprintendenze “ricche” verso istituzioni economicamente svantaggiate, ma non certo meno importanti come Capodimonte (ma probabilmente da ripensare come autonomia), sono del tutto legittime, ma vanno compiute nella massima trasparenza e con una strategia complessiva che, al contrario, nel caso in questione appare del tutto assente.
Come giustificare, infatti, che il prelievo delle risorse finanziarie della Soprintendenza Archeologica speciale di Roma e Ostia (assieme a Napoli e Pompei, l’altra Soprintendenza interessata dallo storno a favore di Napoli), vada a decurtare pesantemente il fondo per gli interventi di estrema urgenza, ovvero sia quelle risorse necessarie per sopperire a situazioni di emergenza (crolli, ecc.), del tutto prevedibili in una Soprintendenza come quella di Roma, addirittura commissariata con provvedimento di Protezione Civile?
E ancora, come è possibile che si sia deciso di sottrarre fondi su progetti già deliberati dal Consiglio di Amministrazione, dopo che negli ultimi anni, ai più alti livelli politici del Ministero si era continuato a ripetere che le Soprintendenze non erano capaci di spendere e che il problema erano i residui passivi?
Se questa è la situazione per quanto riguarda Roma, su Pompei i problemi sono, se possibile, ancora più gravi.
Nulla è stato fatto ancora per l’assunzione di personale specializzato, così come stabilito dal decreto e come a più riprese richiesto nel mission report Unesco successivo ai crolli dello scorso novembre; neppure concepita risulta la procedura di utilizzo (criteri, ecc.) delle graduatorie di idonei di recenti concorsi Mibac: così un’occasione più unica che rara, ovvero sia la possibilità di assumere personale pluriqualificato, selezionato con procedure pubbliche e trasparenti, viene persa a causa di inerzia gestionale.
Italia Nostra rileva inoltre che molti dubbi gravano sull’effettiva disponibilità dei fondi (105 milioni) che dovrebbero essere stanziati per la maggior parte dalla Regione Campania (POIN, FAS?) per l’attuazione del piano di recupero del sito pompeiano. Tali fondi, infatti, non risultano nella disponibilità esclusiva della Campania, ma, secondo l’iter procedurale approvato dalla Commissione europea, dovrebbero essere deliberati di concerto con le altre regioni meridionali interessate. Nulla o poco di tutto questo è stato fatto sino a questo momento e l’utilizzo dei fondi in questione risulta quindi relegato ad un futuro dai contorni sfumati.
Infine, per tornare alla vicenda del prelievo di fondi a favore del Polo museale napoletano, Italia Nostra sottolinea il rischio che tali decurtazioni possano mettere in discussione progetti già avviati e funzionali alle operazioni di tutela dei siti gestiti dalla Soprintendenza napoletano-pompeiana, così come addirittura la prosecuzione del Conservation Herculaneum Project, il progetto finanziato dalla Fondazione Packard che lo stesso mission report Unesco riconosce come modello di eccellenza cui fare costante riferimento nel piano di recupero.
Italia Nostra esprime quindi, da un lato, la propria profonda preoccupazione sulla situazione del sito pompeiano, e richiama l’attenzione sulle 15 recommendations espresse nel mission report Unesco, frutto di un’accurata indagine di studiosi internazionali di acclarata competenza e fino a questo momento a dir poco trascurate dagli organismi ministeriali.
Sul piano complessivo gestionale, infine, Italia Nostra riafferma la necessità di elaborare una strategia unitaria di gestione finanziaria che permetta alle Soprintendenze di uscire dalle impasses evidenti in cui si trovano, pressoché tutte, e che ne compromettono il fondamentale ruolo di tutela del nostro patrimonio culturale. Anche questa recentissima vicenda dei trasferimenti di risorse fra Soprintendenze, gestita in modo affrettato ed opaco tanto da trasformarsi in una tristissima “guerra tra poveri”, denuncia il fallimento delle scorciatoie commissariali e di una gestione amministrativa estemporanea ed emergenziale e ripropone l’urgenza di un ripensamento complessivo dei meccanismi di gestione: il nostro patrimonio ne ha bisogno. Al più presto.
Che ci fanno insieme le associazioni dei padroni piccoli, medi, grandi, artigiani, agricoli, con i banchieri, i cooperatori e i sindacati? Si sono messe insieme tante sigle, quelle che contano, le «parti sociali», per lanciare un appello disperato al Paese: la finanza ci mazzola, l'economia si trova in stato preagonico, lo sviluppo non si vede all'orizzonte e questo governo non ha l'autorevolezza per raddrizzare il timone e portare la nave Italia fuori dalla scogliera, verso il mare aperto. Se si vuole far ripartire la locomotiva (meglio sarebbe dire la littorina) è necessaria una discontinuità: fuori dai piedi Silvio Berlusconi che sputtana l'Italia nel mondo e avanti con un governo tecnico capace di tagliare spese e salari e obbedire agli ordini delle istituzioni finanziarie internazionali. Un tal governo avrebbe un blocco sociale compatto al suo fianco, perché la condizione che la nave vada è che tutti remino nella stessa direzione - l'armatore e il comandante a dare ordini e battere il tempo dalla tolda e gli operai nella stiva a eseguire. Per questo dev'essere preventivamente abbandanata ogni ipotesi di conflitto. Ecco a cosa serve la firma dei sindacati in calce al «patto», più precisamente di Cisl e Cgil perché Angeletti non ha ancora capito se Berlusconi resisterà o sarà costretto a gettare la spugna e dunque sceglie la prudenza.
Il manifesto della «discontinuità» incontra il pensiero di un Sergio Marchionne particolarmente affezionato alla metafora della nave da guerra che combatte nel libero mercato contro le altre navi da guerra, in cui il nemico del rematore non è più l'armatore con cui dev'essere pappa e ciccia ma la nave nemica, e dunque i rematori e l'armatore nemici. Tutti uniti per salvare il paese, in pace come in guerra, sembra un appello lanciato dal presidente Giorgio Napolitano per essere fatto proprio da un arco di forze che va da Bersani a Fini, naturalmente aperto a un pdl postberlusconiano.
Prima che antipopolare è - sarebbe - un patto politicista, finalizzato per molti dei sottoscrittori a garantire un governo di unità nazionale, o di transizione che dir si voglia, senza Berlusconi ma impedendo il passaggio del timone nelle mani del centrosinistra come esito possibile e forse anche probabile di un ricorso anticipato alle urne. Questo vuol dire «discontinuità». Un patto vuoto di contenuti che immagina manovre economiche non dissimili da quelle di Tremonti. Non un patto per lo sviluppo ma un patto contro Berlusconi, blindato da tutti per evitare ipotetici cambiamenti di campo. Ammesso che il centrosinistra garantirebbe un cambiamento di paradigma e di interlocutori nella definizione di un piano anticrisi.
Come ha detto ieri al manifesto il segretario della Fiom Maurizio Landini e come ripete oggi Sergio Cofferati sul nostro giornale, le organizzazioni sindacali dovrebbero organizzare grandi mobilitazioni contro la manovra ingiusta e la politica economica del governo, invece di stringere patti contro natura e inefficaci ad affrontare la precipitazione della questione sociale in autunno. Scegliere invece la seconda strada, da parte della Cgil, segnala un'ulteriore, pericolosissima perdita di autonomia del sindacato.
Sui parchi in Lombardia il federalismo funziona al contrario: la Regione azzera i consorzi di gestione e si annette i poteri affidati ai Comuni. A meno di qualche ripensamento, una spudorata operazione di potere colpisce ancora una volta il verde, il territorio e l’integrità delle aree protette.
Non si può che rilanciare il grido d’allarme delle tante associazioni ambientaliste che in questi giorni hanno continuato a segnalare i dubbi e i pericoli di un’operazione considerata un salto nel vuoto: i precedenti di rapina del verde pubblico nei 24 parchi regionali, che costituiscono un terzo del territorio lombardo, dovrebbero mettere in guardia da una decisione che indebolisce la tutela di un sistema creato per garantire equilibrio, in una zona ad alta densità di traffico e industrie. È paradossale che il crollo di un argine difensivo per il verde passi proprio nella Regione che si prepara a ospitare l’Expo ambientalista e sostenibile del 2015. Ma che coerenza c’è tra i progetti di valorizzazione dell’agricoltura e delle cascine lombarde e la possibilità di espropriare fette di terreno da riservare al cemento, a interventi urbanistici che pesano su un habitat straordinario come il parco del Ticino o all’inutile terza pista dell’aeroporto di Malpensa? Troppe volte in passato l’eccesso di prudenza e l’indifferenza politica hanno avallato gli scempi sul territorio; troppe volte in nome di una discrezionalità di parte sono stati privilegiati gli interessi dei pochi beneficiati dalle concessioni edilizie. Negli ultimi vent’anni le grandi infrastrutture e il cemento si sono mangiati un pezzo di Regione grande quanto le città di Varese e Bergamo. E le previsioni parlano di altri 53 milioni di metri quadrati di aree agricole che rischiano di essere spazzate via. La nuova legge che la regione oggi si appresta a varare è un semaforo verde in questa direzione, una direzione sbagliata, affrettata, pericolosa. Per questo è naturale sollevare dubbi, proprio mentre le inchieste della Procura aprono interrogativi su altre procedure disinvolte adottate da alcune pubbliche amministrazioni, in nome di una presunta pubblica utilità. Anche qui, con la nuova legge si parla di doverosa necessità per salvare i parchi dalla sicura soppressione, dopo una norma maldestra approvata in Parlamento. Ma l’unica necessità è quella di rafforzare i controlli sul territorio. Non è sospetta una legge che va nella direzione contraria?
"Dopo i campi di sterminio, stiamo assistendo allo sterminio dei campi". Queste parole di un grande poeta, Andrea Zanzotto, descrivono bene quel che sta accadendo in questi anni in Italia. Prigionieri di un modello di sviluppo arcaico e senza futuro, politici di ogni colore si sono alleati di fatto con chi considera il territorio materia inerte per speculazioni d’ogni sorta, e non più, come è stato per secoli, preziosa fonte di salute, cibo, vita. In un Paese dall’economia notoriamente immobile, da vent’anni inseguiamo l’idea stolta e perdente secondo cui lo sviluppo economico coincide con l’edilizia, con il consumo di suolo, con la devastazione dei paesaggi storici.
Berlusconi è il corifeo di questo gigantesco spreco della nostra risorsa più preziosa; ma i suoi seguaci si contano nelle fila di ogni partito, come ben si vide quando la parola d’ordine del fallimentare “piano casa”, lanciata dal presidente del Consiglio però mai tradotta in legge dal governo, fu prontamente raccolta da tutte le regioni italiane (senza eccezione). Invano si ripete, a orecchie sorde a ogni discorso, che la crisi economica che attraversiamo nasce dalla “bolla immobiliare” americana, e che non si può combattere con una bolla immobiliare nostrana.
Pessime abitudini, sordità culturale, incapacità di pensare, intrecci di interessi privati, vischiosità di procedure amministrative, avidità di guadagno e mancanza di immaginazione congiurano nel consegnare il suolo della patria nelle mani sbagliate, nell’indirizzare sul “mattone” il risparmio senza tener conto dell’enorme invenduto (120.000 appartamenti fra quelli costruiti negli ultimi due anni). «La lotta contro la distruzione del suolo italiano sarà dura e lunga, forse secolare. Ma è il massimo compito di oggi se si vuol salvare il suolo in cui vivono gli italiani» (Luigi Einaudi).
Il caso del comune di San Vincenzo, che sta occupando in questi giorni molto spazio sul Tirreno e su altri giornali, è esemplare. A ogni festa popolare, a ogni occasione, si dispiegano sui muri le idilliche foto della San Vincenzo che fu, paesaggi e panorami che non ci sono più. La realtà è che, a fronte di un continuo calo dei residenti, il territorio comunale è stato spietatamente cementificato, con un consumo di suolo doppio di quello medio della provincia di Livorno e più che triplo della media toscana, fino all’obbrobrio di un “porto turistico” che ha letteralmente ricoperto di cemento centinaia di metri di spiaggia già pubblica, trasformandoli di fatto in un centro commerciale, invano ribattezzato “Itaca” (offendendo Ulisse e Omero), come invano le strade asfaltate del porto-shopping center sono state intitolate populisticamente a locali famiglie di pescatori. Il tentativo di recuperare coi nomi e con vecchie foto ingiallite quel che viene distrutto coi fatti denuncia la coda di paglia dell’amministrazione comunale, ma non attenua i suoi torti.
In un territorio martoriato dalla cecità di chi lo ha amministrato, non c’è che da sperare in chi lo amministra oggi. Cartina di tornasole delle intenzioni dell’amministrazione comunale è la tenuta di Rimigliano, 560 ettari di assoluta meraviglia, contro i quali intendeva accanirsi la speculazione edilizia, quando la proprietà (per intenderci, il Tanzi della Parmalat: un emblema dell’imprenditoria italiana) voleva lottizzare, costruire un enorme albergo, distruggere una straordinaria oasi flori- faunistica. Quando il sindaco Michele Biagi mi propose, qualche mese fa, di visitare la tenuta con lui e i suoi collaboratori, fui felice di sentirgli dire che il nuovo Regolamento urbanistico avrebbe previsto il pieno recupero delle bellissime case poderali, senza aumento di cubatura e rispettandone le caratteristiche architettoniche; che gli annessi agricoli sarebero stati solo in minima parte destinati a supporto delle funzioni residenziali; che la tenuta sarebbe diventata un parco da visitarsi, con pieno rilancio delle attività agricole; che non erano previste nuove costruzioni né nuove cubature.
Apprendo ora, da una lettera del sindaco al Corriere Fiorentino, che è invece previsto «un albergo più piccolo, al massimo di 6000 metri quadrati»; e apprendo dai giornali che a supporto delle attività agricole sarebbero destinati appena 650 metri quadri, men che insufficienti per 560 ettari. Queste ed altre gravi perplessità, almeno in parte presenti anche nelle osservazioni della Regione, dovrebbero indurre a riaprire un tavolo di discussione, ma è proprio quello che (sembra) il sindaco Biagi intende escludere, coinvolgendo per misteriose ragioni anche un cittadino come me (senza affiliazioni politiche) in una generale chiamata di correo: «Rimigliano, tutti sapevano: anche Settis», titola infatti il Corriere Fiorentino. Il sindaco sostiene che di discussione ce n’è stata anche troppa, del resto in linea con lo Statuto del suo Comune, che nel prevedere la possibilità di referendum consultivi di iniziativa popolare espressamente esclude fra le materie soggette a quesiti referendari «l’assetto del territorio» (art. 28, lettera h). Ma la discussione su questi temi non è mai troppa, perché i delitti consumati contro il territorio sono irreversibili.
San Vincenzo non è certo l’unico Comune in Italia (e nemmeno in Toscana) in cui miopie amministrative e avidità di privati hanno largamente esagerato nel consumare il suolo.
Ma altri Comuni, altri sindaci hanno capito quando è tempo di smettere con la droga dell’edificazione illimitata (questo è spesso il senso dello “stop al consumo di territorio” deciso dai “Comuni virtuosi” o reclamato dai cittadini).
A San Vincenzo, lo stesso quadro conoscitivo annesso al nuovo piano strutturale del Comune offre un dato agghiacciante: a fronte di un consumo di territorio del 10,6% nel 1999, nel 2009 si è raggiunto il 17,6%, con un incremento del 70% in dieci anni. A tanta overdose è tempo di dire “basta!”.
Nelle preziose memorie del primo sindaco di San Vincenzo, Lido Giomi («Io c’ero. Storie e memorie di una vita vissuta»), si trovano foto e notazioni commoventi: il porto costruito negli anni Settanta e allora gestito dal Comune, con la spiaggia ora profanata dal cemento, è messo a confronto col porto di oggi, dove a causa della «diga foranea talmente vasta, considerando le riflessioni fatte dai tecnici già nel 1970, è probabile che l’arenile scompiata definitivamente. Insomma, ciò che ha rappresentato la carta d’identità del nostro Comune fin dalla sua nascita un giorno non ci sarà più. Chi beneficerà di un lavoro così ampio a mare aperto? Non certo gli stabilimenti balneari, che dovranno portare la sabbia con mezzi meccanici, con danni economici e ambientali. Valeva la pena di spendere tanti miliardi per un aumento di circa cento posti barca? Chi ci guadagna da questa operazione? Cittadini e villeggianti per andare al mare dovranno spostarsi in macchina verso Donoratico o Rimigliano».
D’altronde, prosegue Lido Giomi, «in questi ultimi anni il peso urbanistico sul territorio si è fatto molto pesante. Sono state costruite centinaia e centinaia di case, anche troppe e qualche volta nei posti sbagliati. Il costo della casa è uno dei più alti in tutta la provincia e per questo motivo i giovani si trasferiscono spesso in altri Comuni. Intanto i cittadini residenti sono diminuiti di quasi 1000 unità rispetto al 1970. Questo tipo di sviluppo non ha risolto il problema della casa per i residenti, ha prodotto tante doppie case senza risolvere il problema della disoccupazione per i giovani.
Se solo vedessi, in qualche modo, un’inversione di tendenza rispetto al presente sarei più fiducioso; invece no, da trent’anni a questa parte si continua a mentire anche a noi stessi, si continua a costruire a macchia di leopardo, disseminando case dovunque senza una programmazione urbanistica, con costi enormi per la collettività. Il fatto è che il valore e la preservazione del patrimonio ambientale non si possono in alcun modo monetizzare. Invece, sono sempre i soldi a “farla da padrone”».
Nella postfazione al libro di Lido Giomi, il sindaco Michele Biagi dice che Giomi è una figura esemplare. «che nel tempo ha mantenuto, se non accresciuto, la sua autorevolezza, ben al di là del suo ruolo politico». Ben detto, sindaco Biagi: ma allora segua i consigli del suo autorevole predecessore. Il gravissimo errore del porto è ormai compiuto: ma ora stop al consumo di territorio a San Vincenzo, per favore!
Coltivare i campi o trasformarli in centrali eoliche e fotovoltaiche? Seminare per produrre cibo o per generare biomasse e quindi elettricità? È la nuova battaglia della terra. Tra chi teme la scomparsa definitiva degli agricoltori e chi sostiene che alle energie rinnovabili non si può più rinunciare.
Il boom delle energie rinnovabili spinge molti agricoltori a cambiare mestiere. E i campi diventano centrali per fotovoltaico e biogas
di Carlo Petrini
Agricoltura industriale. Riflettiamo sull´ossimoro. In suo nome, l´uomo ha pensato di poter produrre il cibo senza contadini, finendo con l´estrometterli dalle campagne. Oggi siamo addirittura arrivati all´idea che possano esserci campi coltivati senza produrre alimenti: agricoltura senza cibo. Agricoltura che, se si basa soltanto sul profitto e sulle speculazioni, riesce a rendere cattivo tutto ciò che può essere buono: il cibo, i terreni fertili (che sono sempre meno), ma anche l´energia pulita e rinnovabile. Come il fotovoltaico, come il biogas.
S´è già parlato di come l´energia fotovoltaica possa diventare una macchina mangia-terreni e mangia-cibo. Se i pannelli fotovoltaici sono posati direttamente a terra e per grandi estensioni essi tolgono spazi alla produzione alimentare e desertificano i suoli fino a renderli inservibili. Allora bisogna dirlo chiaro: sì al fotovoltaico, ma sui tetti, nelle cave dismesse, lungo le strade. No a quello sul terreno libero.
Adesso poi è il momento delle centrali a biogas che sfruttano le biomasse, vale a dire liquami zootecnici, sfalci e altri vegetali. Questi materiali si mettono in un digestore, qui si genera gas che serve a produrre energia elettrica e ciò che avanza – il "digestato" - adeguatamente trattato poi può essere utilizzato come ammendante per i terreni. Questi impianti sarebbero ideali per smaltire liquami (problema annoso di chi fa allevamento) e altri rifiuti biologici, integrando il reddito con una produzione di energia che può essere utilizzata in azienda o venduta. Se sono piccoli o ben calibrati rispetto al sistema chiuso dell´azienda agricola funzionano e sono una benedizione - esattamente come può fare il fotovoltaico sul tetto di un capannone o di una stalla. Ma se c´è di mezzo il business, se si fanno sotto gli investitori che fiutano affari e a cui non importa che l´agricoltura produca cibo e che lo faccia bene, allora il biogas può diventare una maledizione. Sta già succedendo in molte zone della Pianura Padana, soprattutto laddove ci sono forti concentrazioni di allevamenti intensivi. È una cosa che stanno denunciando alcune associazioni ambientaliste a livello locale e per esempio da Slow Food Cremona mi segnalano che nella loro provincia ormai la situazione è sfuggita al controllo. Tant´è vero che hanno chiesto alla Provincia una moratoria sull´installazione e autorizzazione di nuove centrali a biogas.
Che succede? Molti agricoltori, stremati dalla crisi generalizzata del settore, si trasformano in produttori di energia, smettendo di fare cibo. In pratica, si limitano a coltivare mais in maniera intensiva per farlo "digerire" dagli impianti a biogas. C´è anche chi lo fa solo in parte, ma sta di fatto che tutto quel mais non sarà mangiato dagli animali e quindi indirettamente neanche dagli umani. Gli investitori li aiutano, a volte li sfruttano. Esistono soccide in cui gli agricoltori sono pagati da chi ha costruito l´impianto per coltivare mais: sono diventati degli operai del settore energia, altro che contadini. Tutto è cominciato nel 2008 con la finanziaria che prevedeva un nuovo certificato verde "agricolo" per la produzione di energia elettrica con impianti di biogas alimentati da biomasse. Impianti "piccoli", di potenza elettrica non superiore a 1 Megawatt. Ma 1 Mw è tanto: ciò ha incentivato il business, perché a chi produce viene riconosciuta una tariffa di 28 cent/kWh, circa tre volte quanto si paga per l´energia prodotta "normalmente".
Ecco allora che il sistema degli incentivi, cui si uniscono quelli europei per la produzione di mais, ha fatto sì che convenga costruire impianti grandi e costosi (anche 4 milioni di Euro), che possono essere ammortizzati in pochi anni. Soltanto nel cremonese nel 2007 c´erano 5 impianti autorizzati, oggi sono 130. E lì oggi si stima che il 25% delle terre coltivate sia a mais per biogas. In tutta la Lombardia si prevede che entro il 2013 dovrebbero esserci 500 impianti. Ci sarebbe da riflettere su quante volte un cittadino che versa anche le tasse arrivi a pagare quest´energia "pulita", ma l´emergenza è di altro tipo: così si minacciano l´ambiente e l´agricoltura stessa.
Primo e lapalissiano: si smette di produrre cibo per produrre energia. Secondo: la monocoltura intensiva del mais è deleteria per i terreni perché deve fare largo uso di concimi chimici e consuma tantissima acqua, prelevata da falde acquifere sempre più povere e inquinate. Senza rotazioni sui terreni si compromette la loro fertilità e si favorisce la diffusione di parassiti come la diabrotica, da eliminare con un´ulteriore aggiunta di antiparassitari. Se il mais non è per uso alimentare, poi, sarà più facile mettere due dosi di tutto invece di una, senza farsi tanti scrupoli. Terzo: chi produce energia coltivando mais può permettersi di pagare affitti dei terreni molto più alti, anche fino a 1500 euro per ettaro, il che crea una concorrenza sleale nei confronti di chi invece ne ha bisogno per l´allevamento. È lo stesso fenomeno che si è creato con i parchi fotovoltaici, dunque sta piovendo sul bagnato. A chi alleva servono terreni soprattutto per rientrare nella "direttiva nitrati", che dovrebbe regolare lo smaltimento dei liquami in maniera sostenibile. Chiedete ai contadini e agli allevatori: i terreni non sono mai stati così costosi come oggi, e per un´azienda che già subisce i danni di un mercato drogato da speculazioni e imposizioni di prezzi bassi da parte del sistema distributivo può voler dire soltanto una cosa, la chiusura.
Ma andiamo avanti. Quarto: gli impianti stessi, quelli da 1 Mw, sono grandi strutture e per costruirle si consuma terreno agricolo sacrificandolo per sempre. Quinto: ci sono già le prime voci sulla nascita di un mercato nero di rifiuti biologici, come gli scarti dei macelli, venduti illegalmente per fare biogas. Non andrebbero mai utilizzati come biomasse, perché ciò che avanza dalla "digestione" poi viene sparso per i campi come ammendante e in questi casi oltre a inquinare potrebbe anche diffondere malattie.
Il problema è la scala. Diciamo chiaramente che in sé il biogas da biomasse non avrebbe nessun difetto. Ma se è realizzato a fini speculativi ed è sovradimensionato, se fa produrre mais al solo scopo di metterlo nell´impianto, se fa alzare i prezzi del terreno, lo consuma e lo inquina, allora bisogna dire no, forte e chiaro. Da questo punto di vista sarà bene che le amministrazioni (comunali per impianti piccoli, provinciali per quelli più grandi) comincino a valutare i fini reali degli impianti prima di concedere autorizzazioni, e sicuramente questi problemi andranno affrontati e debellati con la nuova PAC, la politica agricola comune, che si è iniziata a discutere a Bruxelles.
Da un punto di vista umano capisco gli agricoltori che hanno intravisto con il biogas un modo per risalire la china di un´agricoltura industriale sempre più in crisi. Ma sono sicuro che ci sono altri modi di fare agricoltura, più puliti, diversificati, che puntano alla vera qualità. Questa agricoltura può essere molto remunerativa e dare futuro ai giovani, mentre è soprattutto quella di stampo industriale che sta collassando. Inoltre, prima o poi gli incentivi finiranno. Il biogas con grandi impianti è una pezza sporca che alcuni stanno mettendo alla nostra agricoltura malata, ottenendo l´effetto di darle così il colpo di grazia. Sarà molto difficile tornare indietro: i terreni fertili non si recuperano, le falde s´inquinano, la salubrità sparisce, chi fa buona agricoltura è costretto a smettere a causa di una concorrenza spietata e insostenibile. Agricoltura industriale, che ossimoro.
Ma la conversione alle rinnovabili resta l´unica strada
di Giovanni Valentini
La consumiamo e la sprechiamo. Possiamo già produrne più di quanta ce ne serve. Eppure, continuiamo a importare energia dall´estero per circa il 14 per cento del nostro fabbisogno, più di qualsiasi altro Paese europeo. Come si spiega? Che cosa c´è dietro? E soprattutto, qual è l´alternativa?
All´inizio della stagione più calda dell´anno, e perciò anche più critica per i consumi di elettricità, il paradosso energetico italiano rivela una trama di interessi e di grandi affari che potrebbe ispirare un film di James Bond in lotta contro la Spectre, sullo sfondo di un traffico intercontinentale di petrolio, gas e uranio. Tanto più che, come attestano diverse analisi di enti o istituti internazionali, entro qualche decennio il mondo – e quindi anche il Belpaese – potrebbe essere alimentato soltanto da fonti rinnovabili: cioè sole, vento, biomasse e quant´altro.
Dietro la cortina fumogena del terrorismo mediatico che imperversa dopo il referendum e lo stop al nucleare, la verità è racchiusa in poche cifre. Secondo gli ultimi dati ufficiali diffusi da Terna, la società che è il principale proprietario della rete di trasmissione nazionale dell´energia elettrica, gli impianti installati in Italia hanno una capacità di produzione potenziale di oltre 106 gigawatt (l´unità di misura pari a un miliardo di watt): contro una richiesta che ha toccato il picco storico di 56,8 GW nell´estate 2007 e una potenza media disponibile stimata in 67 GW. Per di più, negli ultimi due anni, la crisi economica ha ridotto ulteriormente la domanda (51,8 GW nel 2009).
In altre parole, come sostengono gli esperti del Wwf, la potenza di cui disponiamo corrisponde al doppio di quella che occorre. E perciò, dice Gaetano Benedetto, direttore delle Politiche ambientali dell´associazione, «non abbiamo bisogno di nuova energia, ma di un´energia diversa, capace di diminuire la nostra dipendenza dalle risorse fossili e di inquinare di meno».
La maggior parte di questa energia (intorno all´86%) è "made in Italy". Per il resto, pur disponendo di impianti in grado di soddisfare l´intera richiesta, la importiamo dall´estero per un motivo di convenienza economica: l´acquisto del surplus non utilizzato che viene prodotto soprattutto in Francia, ma non solo, attraverso le centrali nucleari. I reattori, infatti, non possono essere mai spenti e perciò di notte, quando i consumi sono al minimo, l´energia viene fornita e "svenduta" sotto costo.
Al momento, la nostra produzione deriva dalle centrali termoelettriche per circa la metà ed è garantita dal gas naturale. Ma intanto la quota di carbone (11,9%) cresce in misura preoccupante sia per le emissioni nocive sia per le conseguenze sui cambiamenti climatici. Sta di fatto che ormai in campo energetico abbiamo sostituito la nostra dipendenza dal petrolio con quella dal gas: su circa 80 miliardi di metri cubi utilizzati all´anno, solo un decimo viene prodotto in Italia, oltre il 50% è importato dalla Russia dell´"amico Putin" (23 miliardi) e dall´Algeria (22 miliardi).
Se tutto ciò servisse a fare dell´Italia un hub nella distribuzione del gas, cioè un terminale nel bacino del Mediterraneo, potrebbe anche avere un senso. Ma è evidente che - per interesse o convenienza - molti hanno cavalcato una presunta crisi energetica per favorire la realizzazione di servizi e strutture con una finalità ben diversa dall´approvvigionamento nazionale.
In linea con un trend mondiale e con le stesse direttive dell´Unione europea che entro il 2020 intende ridurre del 20% le emissioni di gas serra, abbassare del 20% i consumi energetici e raggiungere il 20% di produzione da fonti rinnovabili, l´alternativa è proprio lo sviluppo dell´energia verde, naturale, pulita. Finora, però, in Italia questa s´è aggiunta all´energia fossile e non l´ha effettivamente sostituita, fino a rappresentare una quota complessiva di circa 30 GW con un mix di potenza idrica (17,8 gigawatt), termica a biocombustibili (2,4), geotermica (0,7), eolica (5,8) e fotovoltaica (2,9).
«È chiaro – riconosce lo stesso Benedetto – che, in una fase di transizione, per noi il gas resta essenziale». Ma, per arrivare in prospettiva al 100% di energia rinnovabile, occorre avviare subito una svolta radicale, a cominciare dalla riduzione dei consumi inutili e da una maggiore efficienza. In questa ottica, le fonti alternative diventano perciò il perno di un nuovo modello di sviluppo. È perciò che il Wwf ha costituito recentemente "Officinae Verdi", la prima società in Europa che integra la cultura di un´associazione ambientalista, un partner finanziario come Unicredit e uno tecnologico come Solon, leader continentale nelle tecnologie fotovoltaiche, con una partecipazione di 1/3 per ciascuno dei tre soggetti. Spiega il presidente Benedetto: «Abbiamo costruito un modello innovativo, capace di incidere realmente sullo sviluppo della green economy e sulla lotta ai cambiamenti climatici, non solo in perfetta sintonia con gli obiettivi e le politiche comunitarie, ma anche come alternativa possibile alla dipendenza dall´energia fossile e dalle mega centrali».
Accantonata dunque la pericolosa illusione del nucleare, adesso l´Italia ha l´opportunità di marciare verso la "nuova frontiera" dell´energia, all´insegna della sostenibilità e della compatibilità ambientale. Ormai non è più un problema di soluzioni tecnologiche, ma solo di investimenti e di scelte politiche.
Due riflessioni
1.- Valentini (come la maggioranza di quanti si occupano di energia) non si pone una domanda: quanta energia effettivamente serve per produrre le merci che sono necessarie al benessere dell’uomo? Una grandissima parte delle merci sono prodotte oggi per aumentare la produzione. É la questione della “società opulenta”, in cui tutta l’attenzione di chi detiene il potere è convincere le persone (naturalmente quelle dotate di capacità di spesa) a consumare di più. Su questo argomento esiste una vastissima letteratura, poco frequentata dai commentatori di oggi.
2.- Le aberrazioni e l’uso distorto delle innovazioni possibili, denunciato da Petrini, non sono altro che la conseguenza dei criteri di selezione delle opportunità proprie al sistema capitalistico, il cui obiettivo non è il maggior benessere del genere umano, ma il massimo guadagno ottenibile dai gestori dei mezzi di produzione. Se chi comanda sono questi (l’economia data), è evidente che si punterà ai grandi impianti e non agli impianti diffusi, e così via.
Titolo originale: Afghanistan’s Last Locavores - Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini
Molti americani che vivono in città tendono a idealizzare le culture di una vita a basso impatto o dello “slow food”. Sono molto in pochi però a capire che fra i modelli più importanti di sostenibilità non ci siano tanto le loro colture biologiche degli Stati Uniti, ma l’Afghanistan. Dove una gran maggioranza dei 30 milioni di abitanti a tutt’oggi si coltiva e lavora da sé ciò che consuma. Sono i migliori localovori.
Nei dodici mesi che ho trascorso nella zona settentrionale del paese come consigliera del Dipartimento di Stato, ero esterrefatta nel vedere come, invece di sfruttare la tradizione afghana di agricoltura e edilizia a forte impiego di manodopera, gli Stati Uniti spendano invece gran parte delle risorse per trasformare questa fragile società agricola in una economia dei consumi, meccanizzata e dipendente dai combustibili di origine fossile.
Nel 2004, sull’Afghanistan ha condotto uno studio il Dipartimento dell’Energia. Ed è emerso come esistano in abbondanza fonti energetiche rinnovabili che si potrebbero usare, per piccole centrali a sole o vento a produrre elettricità, al solare termico per riscaldare l’acqua e cucinare.
Ma invece di concentrarsi su queste risorse il governo degli Stati Uniti ha speso centinaia di milioni di dollari in grossi generatori diesel, per sfruttare le riserve di petrolio e gas del paese. Magari nuovi pozzi di estrazione possono dare un po’ di lavoro a personale non qualificato, ma il grosso dei profitti se ne va all’estero, o finisce nelle tasche di qualche signore della guerra o funzionario governativo.
Si usano i soldi del contribuente americano anche per progetti di opera energeticamente inefficienti. Durante il mio anno in Afghanistan, spesso sono stata per ore in riunione con rappresentanti locali in montagna o nel deserto, sudando o battendo i denti – a seconda della stagione – dentro a scuole o posti di polizia in blocchi di cemento di bassa qualità, costruiti coi contributi americani. Progetti che devono corrispondere a criteri tecnici internazionali, dove non sono consentite strutture tradizionali in terra.
Strutture che si realizzano in cob: fango, sabbia, argilla e paglia modellati in forme eleganti, durature, ultra-isolate e resistenti ai terremoti. Con le loro spese pareti, le piccolo finestre e la ventilazione naturale, le abitazioni tradizionali afghane magari non rispondono ai requisiti costruttivi internazionali, ma sono molto più fresche d’estate e calde d’inverno delle scatole di prefabbricato. Durano anche molto tempo. Alcune delle più antiche, come le mura difensive vecchie di 2.000 anni attorno a Balkh, città sulla via della Seta, di cui restano in piedi alcuni tratti, sono di cob e terra compressa. In Gran Bretagna la gente abita ancora in case fatte con materiale di questo tipo, e realizzate prima ancora ce nascesse Shakespeare.
Energie rinnovabili e sostenibilità non sono solo temi che riguardano lo sviluppo. Interessano anche la sicurezza. Il 70% del bilancio energetico del Dipartimento della Difesa in Afghanistan se ne va in carburanti diesel per i convogli corazzati. In un assai opportuno tentativo di ridurre questa pericolosa e costosa dipendenza dai combustibili fossili, recentemente il Corpo dei Marines in due basi in Afghanistan lavora esclusivamente su energie rinnovabili.
Purtroppo è un po’ poco, e fatto troppo tardi. Se si fosse iniziato dieci anni fa con un programma di energie rinnovabili, quando gli Stati Uniti sono arrivati nel paese per rovesciare i Talebani, Washington poteva risparmiare miliardi di dollari in carburanti e, cosa più importante, risparmiare centinaia di vite perse nel trasporto e vigilanza alle scorte di benzina.
Oltre a sostenere la realizzazione di una condotta per il gas naturale dall’Asia Centrale, attraverso l’Afghanistan e fino al Pakistan, gli Usa contribuiscono a finanziare una rete di distribuzione elettrica che obbligherà poi gli afghani a comprare per decenni energia dalle vicine repubbliche ex sovietiche. Anche se la rete riuscisse a sopravvivere a instabilità e sabotaggi, fili e piloni scavalcheranno del tutto le zone rurali per convergere verso i grandi centri, nonostante si sia ufficialmente individuato proprio nell’arretratezza energetica delle campagne il principale ostacolo nella lotta contro gli insorti.
In Afghanistan lo sviluppo sostenibile è passato in seconda fila rispetto agli “obiettivi facili” che possono essere presentati al Congresso come segnali di successo: macchinari agricoli che in contadini non sono in grado di riparare, e che necessitano di carburante diesel troppo costoso; scuole costruite male; strade asfaltate con uno strato troppo sottile, che non sopporteranno mai il clima rigido dell’Afghanistan senza interventi costosi di manutenzione tutti gli anni.
Se le nazioni impegnate non iniziano a riconoscere l’accumulo di secoli di esperienza in termini di sostenibilità, continuando invece a sfruttare carburanti fossili e non energie rinnovabili, le generazioni future delle campagne potranno solo assistere in silenzio e impotenti alla devastazione della loro magnifica terra per farci oleodotti e linee dell’alta tensione, senza che le loro esistenze migliorino.
Dopo che gli americani se ne saranno andati, toccherà invece proprio a questi abitanti delle zone rurali, non certo alla minuscola popolazione delle città afghane, decidere se sostenere o meno rivoluzioni future.
Pier Luigi Bersani ha una passione: le autostrade. Una in particolare, la Nuova Romea, tanto da essere sponsor del progetto che proprio oggi potrebbe ricevere il via libera del Cipe (Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica). Nuova Romea è soltanto il primo tratto di una delle più faraoniche maxi opere italiane, la Mestre-Civitavecchia: 5 regioni attraversate, circa 400 chilometri di percorso (di cui 139 su ponti e viadotti), 147 sovrappassi, 268 sottovie, 17 nuovi svincoli e l’adeguamento di altri 55. Costo: 9,8 miliardi, di cui 1,4 a carico dello Stato (senza contare la concessione garantita ai privati per 49 anni). Un’opera che per alcuni è un sogno, ma che per decine di comitati sparsi in mezza Italia somiglia a un incubo: “Corre alle porte della Laguna di Venezia, poi taglia il Delta del Po e le Valli di Comacchio, poi la Romagna, quindi passa a pochi chilometri da un tesoro come la Val Marecchia cantata da Tonino Guerra. Quindi eccola nell’alta Toscana ancora incontaminata, nel cuore dell’Umbria, fino a Orte. Forse Civitavecchia”, raccontano i Cat, Comitati Ambiente e Territorio del Veneto.
Ma Bersani non ha dubbi, tanto da esser stato presidente dell’associazione che spinge per la realizzazione dell’autostrada. Di più: nel 2008 ha presentato un’interrogazione parlamentare che in alcuni passi sembra presa con il taglia-incolla dal dossier della Fondazione Nord Est di Confindustria, intere frasi sono uguali, perfino le virgole: “Considerati gli impegni assunti, visti i ritardi oggettivi rispetto alla fase esecutiva dell'opera in oggetto, considerati i crescenti eventi luttuosi che costellano la percorrenza su quest'importante asse stradale, chiediamo se il governo non intenda adottare ogni iniziativa utile a reperire le risorse necessarie per il finanziamento della Nuova Romea”, chiede il segretario Pd.
Ma perché è tanto favorevole al progetto? “La vecchia Romea detiene il primato in materia di incidenti mortali. Il tasso di mortalità è di 97,22 morti ogni mille incidenti, l'indice di gravità è pari a 52,51 morti ogni mille infortunati. Negli ultimi cinque anni si contano 5.950 feriti e 37 persone che hanno perso la vita. È la strada più pericolosa d'Italia”.
Vero. MA tra i comitati veneti contrari all’autostrada più d’uno storce il naso: “Non si capisce se si tratti di una spiegazione o di un alibi. È vero, l’attuale percorso della Romea è pericoloso, troppo, vanno adottate soluzioni definitive. Ma spendendo 10 miliardi il problema della sicurezza stradale potrebbe essere risolto in tutta Italia, non soltanto sul percorso della Romea. Perché invece si vuole costruire un’autostrada che attraversa sei regioni?”. Intanto il progetto della Mestre-Civitavecchia corre, anche perché nessuno si oppone. Tutti scendono in campo, fino ai massimi livelli. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante una sua visita a Venezia aveva chiaramente appoggiato la Nuova Romea: “Pare anche a me incontestabile l'importanza – in una visione unitaria responsabile delle priorità da osservare e delle scelte da compiere sul piano nazionale, in materia di grandi opere e di trasporti – del corridoio autostradale Civitavecchia-Venezia come naturale integrazione del corridoio europeo numero 5 da Lisbona a Kiev. Il progetto, anche come project financing, che è stato apprestato, merita una tempestiva valutazione di impatto ambientale, cui consegua senza indugio un avvio dei lavori”.
Come ricorda Il Sole 24 Ore, il progetto è firmato Vito Bonsignore, alla guida di una cordata (in testa ci sono Gefip Holding, Mec Srl, Ili Spa). Bonsignore è eurodeputato Pdl, noto per la sua fortuna imprenditoriale, ma anche per una condanna a due anni (per gli appalti dell’ospedale di Asti). Il suo nome poi ricorreva nelle intercettazioni Antonveneta, una in particolare tra Massimo D’Alema e Giovanni Consorte (numero uno di Unipol, travolto dallo scandalo). Consorte confida a D’Alema la speranza di attirare Bonsignore dalla sua parte. D’Alema: “Ho parlato con Bonsignore… Evidentemente è interessato a latere in un tavolo politico”. Consorte: “Chiaro, nessuno fa niente per niente”. Ma questa è un’altra storia.
Le denunce dei comitati locali (Giù le mani da Baratti, Comitato per Campiglia), di Legambiente, delle liste civiche della Val di Cornia e soprattutto del Forum per San Vincenzo (lista civica guidata dal giovane Nicola Bertini), ripropongono all’attenzione dell’opinione pubblica toscana e nazionale la vicenda del Parco di Rimigliano, nel Comune di San Vincenzo.
Un piccolo Comune lungo la costa dell’alta maremma con più case che abitanti (7856 abitazioni per 7002 abitanti censiti nel 2009) e un consumo di suolo cresciuto del 70% negli ultimi dieci anni. Un paese sul mare cresciuto a dismisura, trasformato radicalmente in ogni suo angolo e deprivato della propria memoria; irriconoscibile per chi ricorda com’era solo 40 anni fa. Una costa urbana con spiagge snaturate dalle costruzioni fin sugli arenili e, in ultimo, massacrate da un orrendo porto che negli ultimi anni ha obliterato per centinaia di metri anche la vista del mare. Le colline sopra il paese aggredite già negli anni 70-80 da un edilizia selvaggia e disarmonica, proseguita poi lungo gli stupendi viali di campagna che da San Vincenzo risalivano sulle colline fino a San Carlo, piccolo e ben conservato nucleo di abitazioni per i dipendenti della Solvay. Lungo quei viali sono sorti fabbricati di ogni genere, con vecchi edifici rurali deformati e lievitati volumetricamente a dismisura fino a diventare anonimi condomini. La bellissima campagna che degradava dalle colline verso il mare è oggi irriconoscibile, disseminata di seconde case costruite intorno ai vecchi poderi e massacrate da vere e proprie “micro lottizzazioni”, non si capisce come autorizzate nel territorio rurale. Questo è oggi San Vincenzo.
Qui, da 13 anni, è in corso un dibattito sulle sorti del parco di Rimigliano, dopo che nel 1998, con l’approvazione del primo piano strutturale, l’amministrazione comunale decise sciaguratamente di concedere, all’allora proprietario Callisto Tanzi, la possibilità di costruire un grande albergo di 15.000 mq. all’interno della tenuta agricola che da il nome al parco: 560 ettari di campi e pinete lungo la costa a sud del paese di San Vincenzo, con decine di fabbricati rurali storici sapientemente inseriti in uno straordinario paesaggio rurale. Quella stessa tenuta che, alla metà degli anni 60, aveva suggerito ad altre amministrazioni di sinistra la sua classificazione a parco naturale, insieme agli otto chilometri di litorale coperti da ottanta ettari di macchia mediterranea e da pinete.
Contro quella decisione intervennero associazioni ambientaliste e l’architetto Italo Insolera, ideatore e progettista del parco di Rimigliano, la cui storia è raccontata nel bellissimo libro “Parchi Naturali. L’esperienza di Rimigliano” di Luigi Gazzola e Italo Insolera. (Edizione delle Autonomie. Roma, 1982). Rimigliano fu il primo parco della costa livornese da cui trasse spunto il più vasto progetto del sistema dei parchi della Val di Cornia, delineato alla fine degli anni 70 con i piani regolatori coordinati dei comuni di Campiglia. Piombino, San Vincenzo e Suvereto.
Contro quella decisione intervenni pubblicamente anch’io (allora presidente della società “Parchi Val di Cornia” che i Comuni avevano costituito proprio per attuare il sistema dei parchi previsti dai piani regolatori coordinati) perché avvertivo che quella decisione rappresentava una ferita insanabile per Rimigliano, totalmente incoerente con le finalità del parco e foriera di ulteriori e peggiorativi sviluppi urbanistici. Sviluppi che, purtroppo, si sono poi configurati con la successiva variante del 2008 al piano strutturale, fino alla variante del 2010 al Regolamento urbanistico che riduce l’albergo da 15.000 a 6.000 mq. (spostandolo però nel centro della tenuta agricola) e apre la porta a circa 180 seconde case che saranno realizzate demolendo e ricostruendo, in luoghi diversi, circa due terzi dei 17.000 mq. di poderi e annessi agricoli d’interesse storico. Il cosiddetto piano di miglioramento agricolo ambientale, già approvato dalla provincia di Livorno e dallo stesso Comune di San Vincenzo, prevede solo il mantenimento di 650 mq. di annessi agricoli e nessuna abitazione rurale per una azienda di 560 ettari: uno scandalo che merita di essere indagato perché quelle scelte portano diritto alla dismissione della funzione agricola e non certo al suo miglioramento, in netto contrasto con gli indirizzi delle leggi regionali.
Sulla variante, con le osservazioni, hanno espresso giudizi fortemente negativi il Forum per San Vincenzo, il Comitato per Campiglia e la stessa Regione Toscana che ha avanzato precise richieste di chiarimento sugli effetti che saranno prodotti sui poderi storici, sul paesaggio rurale e sull’ambiente, a partire dai consumi idrici dell’albergo, delle seconde case e delle piscine previste nella tenuta, in una zona con gravi problemi di salinizzazione delle falde.
L’assessore all’urbanistica della Regione Toscana, Anna Marson, sollecitata da cittadini e comitati, ha manifestato la propria disponibilità a sostenere un percorso partecipativo qualora l’amministrazione comunale di San Vincenzo lo richieda. Per questo è stata redarguita dai dirigenti locali e regionali del PD.
Il professore Salvatore Settis, a più riprese, è intervenuto sulla stampa per denunciare lo scempio che si sta per consumare. Le occasioni sono state offerte da recenti dibattiti pubblici per la presentazione del suo ultimo libro “Paesaggio, Costituzione, Cemento” (Giulio Einaudi Editore. Torino. 2010) nel corso dei quali il caso di Rimigliano è stato sollevato per denunciare quanto sia arduo in Italia preservare il paesaggio, inteso come bene comune vitale per l’identità, il benessere dei cittadini e l’economia del paese. Tanto più in un Comune come San Vincenzo che ha dilapidato il patrimonio identitario del suo territorio per approdare ad una anonima conurbazione affogata nel cemento.
Tutto questo accade mentre il Comune di San Vincenzo ha deciso, nel 2009, di rivedere il vecchio piano strutturale, dichiarando, con atti amministrativi, di volersi allineare alla pianificazione degli altri Comuni (che, al contrario di San Vincenzo, hanno classificato tutti i parchi come “aree naturali protette” ai sensi della legge quadro 394/1991), di voler proteggere il residuo ecosistema comunale, di voler garantire che nelle campagne si faccia solo agricoltura. Tutti buoni propositi clamorosamente contraddetti, però, dalle decisioni che il Comune sta per assumere in via definitiva in questi giorni.
Per restituire un minimo di credibilità alla politica, occorre dunque sospendere le decisioni su Rimigliano. Occorre mettere mano con urgenza al nuovo Piano Strutturale di San Vincenzo, bloccare le scelte non ancora attuate che possono compromettere i beni comuni (e Rimigliano lo è), confrontare le strategie di governo del territorio con quelle degli altri Comuni e con i nuovi indirizzi del governo regionale e, infine, sarà necessario assumere decisioni coraggiose coerenti con la tutela dell’agricoltura e del paesaggio.
Decidere di far costruire un albergo e seconde case nella tenuta agricola di Rimigliano era un gravissimo errore già nel 1998, ma di fronte al consumo di suolo degli ultimi 10 anni, alla disgregazione del territorio rurale, alla crescita smisurata e patologica di seconde case, insistere ancora su questa posizione è semplicemente un attentato al bene comune e all’interesse generale, di San Vincenzo e della Toscana.
L’Autore è stato presidente della società Parchi Val di Cornia dal 1998 al 2007. Dal 2009 capogruppo della lista civica “Comune dei Cittadini” nel Comune di Campiglia Marittima.
Dobbiamo purtroppo continuare a subire le prepotenze di una maggioranza parlamentare lontana dalla percezione stessa di che cosa significhi rispetto per i diritti civili. È passato appena un giorno dalla severa lezione impartita dalla Corte Costituzionale, che ha dichiarato illegittimo il divieto di sposarsi per gli immigrati senza permesso di soggiorno, perché così veniva negato un diritto fondamentale della persona.
Ed ecco che la Camera dei deputati ha subito voluto smentire questo segnale di civiltà che, per un momento, ci aveva fatto sentire vicini ai Paesi che praticano il buon diritto, quello che ha la sua bussola nel rispetto dell´altro, nell´accettazione della diversità come fondamento dell´eguaglianza. Nell´aula di Montecitorio si è bloccata la possibilità di approvare una norma contro l´omofobia, usando addirittura, in maniera del tutto distorta l´argomento di una sua incostituzionalità. Il mondo capovolto. È il trionfo degli spiriti beceri, dell´alata parola dei ministri che indicano al pubblico disprezzo i "culattoni" e poi trovano alleati in chi continua a praticare un fanatismo ideologico in nome della morale e della "natura". Una volta di più, miseramente, la politica del disgusto ha vinto sulla politica dell´umanità, per usare le parole di Martha Nussbaum, sui cui scritti mi ero permesso di richiamare l´attenzione pochissimi giorni fa. Parole al vento.
Conosciamo le ragioni che avevano indotto a proporre una norma contro l´omofobia. Bisognava reagire a un clima omofobico, non più strisciante, ma dichiarato, grazie al quale alle parole si sono aggiunte le aggressioni fisiche. La regressione culturale che ci circonda, il cui linguaggio ci dà quotidiane testimonianze, è stato l´ottimo terreno di coltura di questi atteggiamenti. In questi casi la norma giuridica, al di là dei suoi aspetti punitivi, ha un elevato valore simbolico. È il segno di una società che non dà cittadinanza a specifici comportamenti, che rifiuta istituzionalmente ogni loro legittimazione.
Nessuno degli argomenti portati a sostegno della pregiudiziale di incostituzionalità è convincente. Alcuni, anzi, sono davvero segno di un´imbarazzante modestia giuridica, per non dire una malafede che si traduce nel peggior cavillare. Proprio per evitare alcune obiezioni, dopo il voto contrario del 2009, si era rinunciato ad introdurre un vero e proprio reato di omofobia, limitandosi a prevedere una semplice aggravante. Neppure questo è bastato. Si è detto che il riferimento all´"orientamento sessuale" è troppo generico, sicché la norma mancava della necessaria chiarezza e tassatività, lasciando troppo spazio alla discrezionalità dei giudici. Ma dell´orientamento sessuale parlava già il Trattato di Maastricht, su di esso è tornato il Trattato di Lisbona e la Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea ne parla all´articolo 21 tra i casi di illegittima discriminazione (tutti documenti a suo tempo votati dal Parlamento italiano). Si tratta di un concetto tutt´altro che inafferrabile, i cui contorni sono stati definiti non solo culturalmente, ma attraverso un´ampia casistica giurisprudenziale. Nessun rischio di incertezza o di arbitrio, dunque. Per quanto riguarda, poi, la tesi secondo la quale si tratterebbe di un trattamento di favore per gli omosessuali che avrebbe creato una disparità di trattamento in altri casi o per altri soggetti, siamo di fronte ad un´altra sgrammaticatura giuridica.
Dovremmo sapere che l´eguaglianza consiste certo nel trattare in modo eguale situazioni simili, ma anche nel trattare in modo differenziato situazioni tra loro sostanzialmente diverse, come più volte ha detto la Corte costituzionale. E questo è proprio il caso dei comportamenti omofobici. Questa brutta giornata parlamentare è stata comunque segnata da qualche divisione all´interno della maggioranza.
Diciotto deputati del Pdl si sono astenuti (tra questi i ministri Carfagna e Romani) e uno, Versace, ha votato contro le pregiudiziali di costituzionalità. Qualcosa comincia a muoversi, e questo induce ad insistere perché si possa giungere ad una legge civile. Ma questa vergognosa vicenda impone due considerazioni politiche. Quale ragionevole dialogo sulle riforme in materia di giustizia e diritti può essere avviato con una maggioranza che al Senato cerca di imporre l´ennesima legge ad personam ed alla Camera sbarra sempre la via all´incivilimento del sistema giuridico? Quale alleanza politica è possibile tra le forze di centrosinistra e una Udc che appoggia la legge contro il testamento biologico, affossa la norma sull´omofobia, continua ad inveire contro il risultato dei referendum sull´acqua?
Paola Concia, relatrice alla Camera, ha proposto di avviare l´iter per una legge di iniziativa popolare. Bisogna farlo subito, utilizzando anche la spinta civile che viene dai movimenti attivi nella società. Le persone vive contro le anime morte del Parlamento. Su questo bisognerà tornare, perché la vicenda di ieri ha confermato l´esistenza di un gravissimo problema di rappresentanza. Le istituzioni non possono reggere quando ogni giorno i cittadini sono costretti a registrare incapacità di cogliere le dinamiche sociali, disprezzo per le minoranze, sacrifici di diritti civili e sociali.
Il richiamo del presidente Napolitano al premier sul decentramento dei ministeri segnala con opportuna gravità che le farse possono aprire la via a crisi gravi. Non sono mai ammissibili se coinvolgono le istituzioni e sono ancor più intollerabili nei momenti di difficoltà di un Paese. Sono assolutamente illecite se chiamano in causa questioni generali e costituzionali. Dalla meditata iniziativa del presidente Napolitano viene anche un monito a non sottovalutare le conseguenze del concitato e sempre più dissennato dibattersi di una maggioranza in agonia. Concitato e convulso anche in quella Lega che fino a un anno fa sembrava ancora in ottima salute: le elezioni regionali del 2010 la avevano fortemente irrobustita, proiettandola oltre i suoi tradizionali confini. Proprio quel successo le avrebbe imposto di riesaminare radicalmente una politica di cortissimo respiro e priva di prospettive reali (in primo luogo europee) per gli stessi "interessi del Nord", oggi ridotti alla mascherata dei finti ministeri di Monza (patetico approdo, in realtà, dei parlamenti padani di quasi vent´anni fa). Così non è stato.
Il confuso e pericoloso dibattersi della maggioranza costringe a riflettere a fondo sulla fase che attarversiamo, e molti interventi hanno evocato la crisi di Tangentopoli e il crollo del sistema dei partiti che essa innescò. A spingere in questa direzione non è solo il crescere della corruzione e il discredito del ceto politico ma la sensazione che siano crollati progressivamente gli architravi di una lunga stagione. L´ultimo atto, una manovra finanziaria pesantissima e socialmente iniqua, ha smentito un´intera politica basata sulle menzogne e sulla irresponsabilità economica. Ed è stata resa ancor più iniqua dall´immunità garantita agli sprechi e agli sperperi della politica: in questo scenario è apparsa ancor più intollerabile l´impunità penale dei singoli. È solo l´ultimo atto, come s´è detto: la fiducia nel "nuovo miracolo italiano" è un ricordo lontanissimo e il fallimento della "politica del fare" ha la sua conferma più drammatica nelle perduranti sofferenze e nella dolorosa incertezza di futuro dell´Aquila. E il premier che aveva più volte garantito la fine dell´emergenza a Napoli non è in grado di imporre alla Lega neppure misure elementari e doverose di provvisorio ripiego. Per questa via, come ha scritto Aldo Schiavone, la leadership di Berlusconi è diventata ormai «un grumo di macerie e potere, un impasto denso di seduzione finita e di ostinazione che resiste», mentre si intravede sempre più chiaramente sullo sfondo quell´infittirsi di reti illegittime di cui la P3 e la P4 sono state espressione. Il crescere degli scandali privati e pubblici, dunque, ha fatto solo risaltare meglio la fine annunciata di una fascinazione politica.
Volge dunque al termine su tutti i versanti un rapporto del centrodestra con il Paese che si è consunto da tempo. Qui vi è certo qualche significativa somiglianza, ma anche qualche differenza, con lo scenario dei primi anni Novanta. La corruzione aveva superato da tempo, allora, i livelli di guardia ma a far esplodere l´indignazione contribuì in modo decisivo la fine di quel "patto di tolleranza" fra governanti e governati che negli anni Ottanta aveva progressivamente sostituito il consenso. Era basato, in buona sostanza, sul prevalere degli interessi degli uni e degli altri (leciti o illeciti che fossero) sul bene comune. Tolleranza dell´evasione fiscale, condoni, e uso sempre più innaturale della spesa (non solo al Sud) ne erano stati gli strumenti, ed era proceduta di pari passo l´occupazione e la spartizione dello Stato da parte dei partiti di governo. Quella politica portava inevitabilmente al disastro ma la sua fine fu accelerata da una crisi economica profonda e dal processo di unificazione europea, che ci imponeva di invertire quella spirale. Ci impediva di ampliare ulteriormente un debito pubblico giunto al 120% del prodotto interno lordo. Ci "costringeva" ad essere virtuosi. La rivolta antifiscale di chi temeva più seri controlli fu la prima reazione degli interessi colpiti (e di più generali illegalismi), il Mezzogiorno divenne il simbolo negativo dell´abuso della spesa pubblica e la corruzione politica apparve sempre più intollerabile: la Lega cavalcò tutti questi umori e prosperò su di essi, costruendo il primo pilastro di un nuovo inganno.
Oggi come allora, e sia pure in forme diverse, una fase più lunga è al termine e la sua fine coinvolge culture, o inculture, profonde. Giuseppe De Rita ha osservato che, assieme al "governare facile" del berlusconismo, sono oggi in crisi tutti i miti della "seconda repubblica", incentrati su «improbabili e taroccate innovazioni delle istituzioni e delle classi dirigenti», e volge al termine anche «il primato dell´individualismo e del soggettivismo etico». Già in precedenza, negli straordinari risultati elettorali recenti e nello spirito collettivo che essi hanno fatto emergere molti avevano visto la vera fine della stagione iniziata negli anni ottanta, basata appunto sul dispregio delle norme e delle regole collettive, e su un "rampantismo" sempre più avido di puntelli e sussidi (spesso illegittimi).
Andrebbe compreso meglio, però, perché le culture, o inculture, degli anni ottanta hanno potuto durare così a lungo. Perché hanno potuto sopravvivere a quello stesso crollo che avevano provocato vent´anni fa, e riproporsi poi in altre forme. Le ragioni sono indubbiamente molte, e rimandano anche al Paese, ma un dato non va rimosso: nella bufera di Tangentopoli e nel crollo di un sistema politico ormai screditato la sinistra non seppe avanzare fino in fondo, in alternativa, proposte e modelli di buona politica. Più ancora, non seppe proporre una nuova idea di Italia, e sperperò anche le potenzialità che era riuscita a metter in campo con il primo governo Prodi. Al termine di esso prevalse il ritorno a una politica vecchia e destinata alla sconfitta (lo ha ricordato benissimo, di recente, Umberto Eco). C´è da sperare che la storia non si ripeta, ma i segnali non sono confortanti: e non solo sul versante della corruzione, che vede esponenti del Partito democratico sul banco degli accusati per episodi di rilievo e che impone una riflessione non episodica. Più in generale, il Pd non ha dimostrato sin qui di essere all´altezza della ventata di speranza alimentata dai recenti pronunciamenti elettorali. Non ha ancora dimostrato di essere capace di rinnovarsi profondamente, come essa richiedeva: di qui una sostanziale immobilità e la permanente assenza di una visione lucidamente alternativa. Con molte, infelici conseguenze quotidiane.
C´è da sperare con forza che il centrosinistra sia in grado di invertire una stanca e logora consuetudine mettendo in campo con urgenza energie e progetti nuovi, adeguati al momento. Programmi e figure di altissimo profilo e di grandissima credibilità, in grado di contrastare il gravissimo deterioramento della situazione. E di permettere agli elettori di sperare ancora. È una condizione assolutamente necessaria per chiudere definitivamente una fase e aprirne con fiducia una nuova. Ma sembra ancora tutta da costruire.
La sensazione che qualcosa di irreparabile fosse accaduto si è fatta sentire, come un brivido, alle 15.26 di un normale lunedì di luglio, l’altro ieri, quando la polizia municipale di Venezia ha diffuso un comunicato: arrivare in città in auto, da Piazzale Roma, non era più possibile.
Tutto ingolfato, tutto intasato, parcheggi esauriti e code lunghissime sul Ponte della Libertà; se proprio ci si doveva andare, era opportuno usare il treno. Il che, naturalmente, si portava dietro un’ironia grottesca visto che erano del giorno prima le immagini dei bivacchi di centinaia di turisti sugli scalini della stazione di Santa Lucia, bloccati per l’onda lunga del disastro della Tiburtina.
Quando gira male, gira male: e sarà anche vero che Piazzale Roma sparge sale sulle ferite perché ci sono imponenti lavori in corso e il caos è continuo (si obietterà che non è un gran momento per aprire cantieri, ma a Venezia non c’è un momento migliore di un altro), ma la sensazione, quella che mette i brividi, è che si sia arrivati al punto di rottura. Venezia non ha vie di fuga né ammortizzatori, comincia da una parte e dall’altra finisce; oltre (da una parte e dall’altra) puoi solo buttarti in canale. Tutti, troppi, non ci si sta.
A seconda di come la si guardi, l’immagine che Venezia in questi giorni offre è quella di una città ingorda, che prende tutto quel che c’è da prendere, e più gente arriva meglio è così è più facile vendere le bottiglie d’acqua minerale a 4 euro; oppure, è quella della città divorata da un turismo non «mal gestito» ma abbandonato a se stesso, senza programmazione e senza lungimiranza.
Se mai il turismo qui è stata voce in perdita, cosa è accaduto per peggiorare in modo tanto evidente una situazione già al limite? I veneziani hanno la loro risposta: costretti a convivere, fiato su fiato e sudore su sudore, con le masse che vagano da Rialto a San Marco e da San Marco a Rialto, ascoltano i nuovi idiomi dei nuovi turisti: a tutti quelli che già c’erano (sottratti solo un po’ di giapponesi che hanno i loro problemi e diradano le visite e di americani che non se la passano benissimo, e aspettando i turchi, che si annunciano tra una o due stagioni) si sono aggiunti i brasiliani e i russi, i nuovi ricchi del pianeta che arrivano pieni di soldi e totalmente impreparati a quello che troveranno: come cinesi e indiani, la grande novità delle ultime stagioni, ignorano ad esempio che un ponte non è un belvedere sul quale sostare e dal quale scattare foto. È, semplicemente, il modo più asciutto per passare un canale e dunque camminare per la città. Ingorghi, nervosismo, insulti sono ormai all’ordine del giorno: chi vive, o tenta di sopravvivere, a Venezia e non è direttamente interessato alla vendita di paccottiglia, kebab e acqua minerale, non ce la fa più.
E non ce la fa più Venezia: il Ponte di Rialto perde i pezzi. Nell’ultimo fine settimana è stato transennato due volte. Sabato perché un po’ di pioggia aveva trasformato i gradini di marmo ormai consumati in una trappola scivolosa e i turisti volavano come trapezisti maldestri; domenica perché - passa che ti ripassa un masegno del ponte ha ceduto e si è aperto un buco.
Le prime transenne le hanno spostare gli stessi turisti: i gradini gli servivano per mettersi comodi a farsi il panino. Probabilmente c’era il tutto esaurito sugli altri gradini, quelli delle Procuratie a San Marco, Basilica mortificata tra maxi pubblicità, turisti che danno da mangiare ai piccioni sotto i cartelli che vietano di dare da mangiare ai piccioni, e il megapalco per i concerti. Il sindaco Giorgio Orsoni aveva detto: non più di uno; infatti saranno cinque, e il palco troneggia offendendo una delle piazze più belle al mondo.
Questa è Venezia, dove la soluzione all’invivibile sono - da ieri - gli accessi separati ai vaporetti per turisti e residenti, ma solo su una linea e sul solo pontile di Rialto, e per un orario limitato. Serve a placare i nervi dei residenti, quotidianamente contusi dagli zaini di viaggiatori svagati. Visti gli accessi limitati, magari i turisti sceglieranno di andare a piedi. Causa prezzi esorbitanti dei biglietti, in tanti lo fanno già, trascinando milioni di trolley sui delicati masegni, intasando ancora di più le calli. E se si stancano, la soluzione è sotto gli occhi di tutti: piedi in canale, in fondo è solo Venezia, che sarà mai.
Altri articoli
Molti articoli sull'argomento in eddyburg. Ne segnaliamo alcuni, a partire dai più antichi: Erbani, Se la laguna si trasforma in un club Mediterranée; Cristinelli, Il turismo deve essere governato; Luigi Scano, Prg di Venezia e proliferazione di alberghi e affittacamere; Pivato, Un'alluvione chiamata turismo; Van der Borg, Tassa turistica ma mirata; Salzano, Presepio vuoto per il turismo; Anna Toscano, Disneyland di lusso; Tantucci, Boom di case turistiche; Vitucci, Venezia e l'onda alta del turismo; Pivato, Venezia muore di turismo; autori vari, Procede, tra contrasti e intese, la grande trasformazione.
Venezia si salva con la tradizione
di Alberto Vitucci
Diceva l’ex doge Gianni De Michelis: «Nel nome di Venezia anche le idee più stupide hanno successo». Aveva ragione, e la storia lo dimostra. Alle idee stupide si sommano spesso luoghi comuni e banalità, che insieme al «libero mercato» rischiano di travolgere Venezia molto più delle acque alte. Venezia è una città speciale. Speciale perché costruita sull’acqua, perché i suoi tempi sono diversi dal resto del mondo, perché i costi dei restauri e delle case sono più alti che altrove.
Una «banalità» che però nessuno comprende quando si tratta di legiferare. O di applicare norme fatte per tutte le altre città anche alla città d’acqua. Da qui bisogna partire, senza invocare ad ogni problema e ad ogni crisi l’omologazione di questa città a tutte le altre. Grandi dighe e banchine portuali per eliminare l’acqua alta e il moto ondoso, la sublagunare per arrivare prima, i restauri fatti con il cemento al posto della pietra d’Istria.
La Venezia del novembre 2006 mostra grandi problemi irrisolti. Il calo degli abitanti, il proliferare di motoscafi, bancarelle, alberghi e appartamenti per turisti al posto delle case, una classe dirigente arroccata sull’economia «garantita», il turismo o i contributi dello Stato. Attività economiche che se ne vanno, artigiani che chiudono e lasciano il posto alla paccottiglia made in Taiwan.
Di chi la colpa? Del Comune, che ha allargato le maglie del Piano regolatore consentendo i cambi d’uso. Della Regione, che ha votato nel 1993 una legge sulle licenze taxi che sembra fatta apposta per incoraggiare ricorsi e non regolamentare nulla. E un’altra che consente di aprire Bed and breakfast e pensioncine senza vincoli. E del governo centrale, che ha applicato la legge sul commercio anche al centro storico. Niente più merceologìe, tutti possono vendere mascherine e vetro di Murano. Secondo voi cosa conviene in una città con 15 milioni di turisti l’anno? Poi ci sono le colpe dei veneziani. Che parlano, discutono, ma poi non agiscono di conseguenza. Così sono proprio quelli che protestano perché lo Stato ha buttato via troppi soldi per i contributi ai privati che affittano le loro case risanate con la Legge speciale ai turisti.
Ma Venezia non è soltanto questo. E’ anche una «città ideale» dai ritmi antichi e dal fascino mondiale, dove si vive ancora bene. Con realtà economiche compatibili che si fanno largo rischiando in proprio. Come il Consorzio della cantieristica alla Giudecca, il centro velico alla Certosa, la ricerca e le nuove attività ai più sconosciute (chi lo sa che alla Giudecca si producono sci di altissimo livello?) e tanti altri.
La scommessa vera è proprio questa: valorizzare e incoraggiare le attività tradizionali, legate all’acqua e alla ricerca. Ad esempio pensando ad affitti agevolati per i negozi tradizionali, al riuso del patrimonio pubblico (non solo del Comune, ma delle Fondazioni, della Curia patriarcale, delle Ipab, della Regione) mirato alla rinascita economica. E poi la cultura. Far fruttare i gioielli di famiglia senza svenderli o modificarne l’uso. Giorni fa un giornalista della Cbs mi ha chiesto come mai un luogo monumentale unico al mondo come l’Arsenale non sia già stato utilizzato per farne un museo del Mare - progetto che la Marina ha fermo da anni - come hanno fatto con enorme successo a Genova senza avere nulla di simile. O per ospitare attività economiche legate all’acqua nel segno della tradizione. Questa è la strada. Senza perdere energìe e risorse nelle trite polemiche sulle grandi opere. Venezia può rinascere anche senza Mose e sublagunare. Ma occorre fermare (o far tornare) le aziende che se ne vanno in terraferma. Trovare casa e lavoro ai giovani che non hanno alcuna possibilità di comprarla o affittarla vista l’enorme possibilità speculativa offerta dal turismo.
Infine, il numero chiuso. Non basta il ticket né la Ztl. Le orde dei turisti mordi e fuggi vanno scoraggiate, i servizi e i trasporti per i veneziani garantiti. Venezia è città finita, non può sopportare pressioni all’infinito. Su questo le istituzioni devono fare proposte concrete. Il sindaco Cacciari fa bene a rispedire al mittente le critiche pretestuose. Fa male a non ascoltare i suggerimenti che lo invitano a usare la sua autorevolezza per dare un colpo d’ala. Per salvare Venezia senza ridurla a una copia di Las Vegas. E’ questo che i veneziani chiedono, senza divisioni ideologiche. E su questo, forse, sono disposti a risvegliarsi dal lungo sonno.
L’intervento di Marco Michielli
presidente di Federalberghi Veneto
Forte come la pietra d’Istria sotto il peso della storia, fragile come il cristallo sotto quello delle invasioni turistiche. Ma così come perfino la resistenza della pietra d’Istria ha un limite, dimostrando di soffrire più i passi dei «viandanti» che i capricci della marea, anche Venezia finirà schiacciata dal peso delle orde mordi-e-fuggi prima ancora che invasa dalle acque... se l’atteggiamento sarà ancora quello della rassegnazione. «Diamola in pasto alla Disney», provoca il settimanale inglese Observer; «Mose sì, Mose no» ripete l’eco infinita della polemica sulle dighe mobili; «Non un soldo per questa Venezia», rincara l’economista Francesco Giavazzi. Che, malgrado le apparenze e nonostante la levata di scudi del sindaco Massimo Cacciari e di altri veneziani più o meno noti, dimostra interesse per le sorti della città lagunare e, come si fa con un malato che non vuole reagire, tenta l’arma dello scossone: senza un progetto che faccia rivivere la città, dice Giavazzi, non vale più la pena stanziare fondi per la sua salvaguardia. E’ vero: Venezia non deve essere solo vetrina, non può diventare una Disneyland, non può guardare solo ai turisti, intesi come numeri da record, ma deve progettare schiere di futuri residenti. E un turismo di qualità. Ogni anno stiamo a suonare la grancassa sui record di visitatori entrati in città, e ogni anno il record è battuto.
E’ vero, noi albergatori con il turismo ci viviamo, ma dalle finestre dei nostri alberghi vediamo il presente e guardiamo al futuro con preoccupazione. E il sorriso per la conquista di nuovi record ci muore sulle labbra quando ci accorgiamo che per attraversare un ponte o una fondamenta dobbiamo essere pronti, come minimo, a farci pestare i piedi, e che i gradini di quel ponte, consumati dal passaggio di trilioni di persone, non riusciamo neanche più a vederli. Allora, ci chiediamo: che senso ha, tutto questo? Che razza di turismo ha generato la nostra epoca? Un turismo che va di fretta e divora quel che riesce con gli occhi, consuma toccando e poi scappa verso un’altra destinazione. E’ questo, il turismo dei numeri, quello che vogliamo? E’ chiaro, come dice Giavazzi, che se Venezia non vuole diventare Disneyland deve uscire dal proprio immobilismo, deve smetterla di essere preda, soprattutto deve ritrovare i propri abitanti, creare le condizioni per tornare a essere anche una città di residenti. E perché no, aggiungiamo noi, deve avere il coraggio di scegliere un turismo con meno numeri e più qualità, scelta impopolare ma necessaria.
Basta con la demagogia, al diavolo il populismo: selezioniamo gli ingressi. Cominciamo a pensare a contingentare il numero di persone che arrivano in città. Diciamo: se vuoi entrare a Venezia da turista devi metterti in fila e prenotare. La devi desiderare, questa città, e saperla attendere anche per mesi, se necessario per anni. Devi sapertela meritare, così come devi saperti meritare tutto il Veneto. Sono convinto che, se a livello regionale siamo a circa 57 milioni di presenze, anziché puntare ai 60 milioni low cost potrebbe essere meglio tornare ai 55 milioni, ma a più alto valore aggiunto. Perché il turismo di massa che «divora» non riguarda solo il capoluogo lagunare, ma anche altre città d’arte, anche la montagna.
Mi auguro che, di fronte alla provocazione dell’Observer e alla durezza dei toni di Giavazzi, i veneziani (e non solo) abbiano un moto d’orgoglio, che non subiscano con rassegnazione lo spirito usa-e-getta di sfruttamento delle risorse che spinge sempre più foresti non solo a invadere Venezia per poche ore, ma anche a gettarsi come avvoltoi sui resti di una città appesa al filo di vita dei suoi pochi abitanti per fare di ogni appartamento un bed and breakfast.
Venezia è un merletto delicato, mal sopporta numeri e invasioni barbariche, chiede rispetto e restituisce cultura. Mi auguro che si cominci subito a pensare, lavorare, inventare qualcosa perché nessuno più possa dire «Non un soldo per questa Venezia».
C’è chi predica da vent’anni anni (prima ancora della grandi discussione su l’Expo a Venezia) sull’esigenza di salvare i luoghi famosi dall’ondata devastatrice del turismo sregolato, praticando le forme civili del “razionamento programmato dell’offerta”. Oggi la questione si ripropone, in condizioni peggiori: perché l’altezza dell’onda è aumentata, e perché sono stati abbandonati gli argini.
A Venezia, colpevoli dell’abbandono certo anche la Regione e lo Stato, per le ragioni cui accenna Vitucci. Ma in primo luogo il Comune. Non fu forse la prima Giunta Cacciari a cancellare la delibera di applicazione delle norme nazionali che avrebbero consentito di contenere l’invasione dei fastfood e di simili iniziative omologatrici? E non fu una giunta comunale (politicamente orientata nello stesso modo) a cancellare le norme troppo “vincolistiche e ingessatrici” del piano regolatore, che avrebbero consentito il controllo delle destinazioni d’uso, la difesa della residenza e la resistenza vittoriosa al proliferare degli affittacamere?
Un colpo di piccone, una porticina, una scala interna, un pertugio che diventa finestra per meglio godere del canale, un bagno, l’angolo cottura, i mobili Ikea. Se nessuno li ferma, Venezia compirà un altro passo, quello forse decisivo per trasformarsi dalla città che è sempre stata, città fragile e bellissima, in un parco turistico. Una Yellowstone con il Palazzo Ducale, il Guggenheim, la chiesa dei Frari e di San Zaccaria, pochissime case dove si confineranno alcuni cocciuti veneziani, e il resto, la gran parte, alberghi e affittacamere.
Che Venezia fosse assediata da 12 milioni di turisti ogni anno, i quali d’estate, spinti da uno scirocco che appiccica le mani, arrivano anche a 100 mila al giorno, e a Carnevale sono 120 mila, era vicenda nota. Ora è la città della laguna che muta la sua essenza, finendo per assomigliare fisicamente a un Club Méditerranée. Stanno trasformandosi in albergo il settecentesco palazzo Ruzzini in Campo Santa Maria Formosa, palazzo Barocci, l’antico palazzo da Mosto sul Canal Grande (con un portico del Duecento), palazzo Sagredo, palazzo Giovannelli e palazzo Genovese alla Salute. Già è un albergo palazzo Sant’Angelo sul Canal Grande. Il lussuoso Hotel Monaco ha inglobato il teatro Ridotto e il cinema San Marco, e come il Monaco molti altri alberghi acquistano l’edificio confinante e si allargano. Un albergo sorgerà all’Arsenale, un altro dentro il Molino Stucky e nelle isole di San Clemente, Poveglia e Sacca Sessola.
Ma non sono solo i palazzi di grande pregio architettonico a essere investiti dal ciclone alberghiero (peraltro alcuni di essi si sfarinerebbero se non risanati dalle holding vacanziere). Vengono ristrutturati e frazionati anche centinaia e centinaia di normali appartamenti: diventeranno residence da affittare per una settimana o anche per un week-end. Il fenomeno è concentrato negli ultimi due, tre anni. Grosso modo dal Giubileo e dall’entrata in vigore di un piano particolareggiato per il centro storico che prevede norme urbanistiche molto meno severe di un tempo nel cambio di destinazione di un edificio (ma anche di negozi e botteghe). Secondo l’Azienda provinciale per il turismo, i residence, bed & breakfast o affittacamere sono 455. Erano 59 tre anni prima. Un numero imponente, sotto il quale si nasconde una massa di sommerso che ammonterebbe a più del doppio.
Le storie si rincorrono fra le calli. Ogni veneziano ne conosce una. Quella del macellaio di Cannaregio, per esempio, che ha chiuso la bottega, ha comprato tre palazzetti, ne ha ricavato dieci miniappartamenti, li ha piazzati su un sito Internet e ora incassa dai mille ai milleduecento euro a settimana per ognuno di essi.
Ma dove sta il problema? Uno dei problemi lo segnala Mario Piana, professore di restauro allo Iuav, l’Istituto universitario di architettura. L’edilizia veneziana non è come l’edilizia delle altre città del mondo, esordisce Piana. «A Venezia si è costruito in legno fino a tutto il XII secolo. Da quel momento al legno si è affiancata la muratura, ma un precetto è rimasto saldo: la ricerca della massima leggerezza, per caricare il meno possibile il suolo lagunare». In particolare, spiega Piana, le pareti di un edificio sono sempre state sottilissime, dai 25 ai 40 centimetri, al massimo 60 nell’edilizia civile. La stabilità del manufatto era garantita dai solai, concepiti per assorbire ogni deformazione. Sopra i solai si stendeva il pavimento detto, appunto, alla veneziana, un blocco unico, senza giunture.
Piana si accalora: «Manomettere queste strutture è pericolosissimo». In che senso? «Ogni stanza d’albergo, ogni piccolo appartamento ha bisogno di bagni. Lei ha presente cosa significa far passare altre tubature dentro pareti così sottili e in solai che non possono essere disinvoltamente intaccati? L’equilibrio statico degli edifici, a lungo andare, ne risentirà». Uno scenario che toglie il sonno. Conclude Piana: «E passi per gli alberghi, che si espandono nei palazzi confinanti. Lavorano alla luce del sole e sotto il controllo della Soprintendenza. Anche se solo per gli interventi di alto livello si rispetta la struttura tipica dell’appartamento signorile veneziano, con il salone passante al centro che va dal fronte al retro dell’edificio e sul quale si affacciano le stanze. Ma mi domando: chi vigila su quei proprietari che da un appartamento ne tirano fuori tre?»
La trasformazione di Venezia avviene sottotraccia, senza i sussulti polemici che accompagnano il Mose (la posa della prima pietra delle dighe mobili alle bocche di porto avverrà a metà maggio) e la metropolitana sublagunare. Gli occhi di tutti a Venezia sono rivolti alle gru che sormontano i cantieri del ponte disegnato da Santiago Calatrava e del nuovo teatro La Fenice, opera di Aldo Rossi, mentre sono imminenti i lavori per il Terminal firmato da Frank O. Gehry e per i nuovi spazi del Guggenheim progettati da Vittorio Gregotti a Punta della Dogana. Ma intanto il destino di Venezia va iscrivendosi in una costellazione dove l’unica stella che brilli è quella del turismo.
I residenti nel centro storico sono scesi a 64 mila (sono 300 mila in tutto il Comune, compresa la terraferma) e fra dieci anni potrebbero essere poco più di 55 mila. La diminuzione non si arresta in una città che invecchia vistosamente (un veneziano su quattro ha più di 65 anni): 700 in meno nel solo 2001, 600 nel 2002, 140 fra il dicembre 2002 e il gennaio 2003. Gli abitanti erano 164 mila nel 1951. Forse erano troppi, ma adesso sono troppo pochi e molti temono che si stia scendendo sotto la soglia minima oltre la quale scarseggiano ospedali e scuole. Per non deperire (recita una prescrizione cara ad architetti e urbanisti di tutto il mondo) un centro storico deve ospitare molte funzioni (la residenza, gli uffici, i servizi, il lavoro, la cultura, il divertimento): Venezia le sta perdendo. Oltre ai residenti, se ne vanno gli uffici direttivi di banche, assicurazioni ed enti pubblici. Per trovare un alimentari, una farmacia o un fabbro, un veneziano deve scansare pizzerie a taglio, botteghe di ventaglietti, di vetro spacciato per Murano, di maschere e di merletti ricamati a Taiwan. E i prezzi sono di rapina. Il turismo è ormai la monocultura dei veneziani, il quaranta per cento dei quali già lavora in bar, ristoranti, alberghi, agenzie. E adesso è come se la città non avesse più la forza di resistere, lasciando agli ospiti occasionali anche le proprie case.
Giuliano Zanon è il direttore del Coses, il centro studi più attento alle vicende della società veneziana. I dati che snocciola, elaborati su indagini di Nomisma, impressionano. In città una casa, non certo sul Canal Grande, può raggiungere i 5.500 euro per metro quadrato. In quattro anni i prezzi sono cresciuti del 40 per cento, il ritmo più alto di tutta Italia. Un negozio può valere dai 10 ai 14 mila euro al metro quadrato. «Ormai le attività legate al turismo hanno spiazzato economicamente sia la residenza che ogni altra attività del centro storico», conclude Zanon.
L’ondata di bed & breakfast, conferma Zanon, si riversa su Venezia non appena cambia il piano regolatore del centro storico, nel 1996. Fino ad allora vigevano limiti molto stretti. Per modificare la destinazione di un appartamento da residenziale ad altro uso era necessario che questo fosse di almeno 200 metri quadri per piano: così avevano stabilito gli autori del documento, Edgarda Feletti e Luigi Scano (assessore all’urbanistica di quella giunta rosso-verde era Edoardo Salzano). Solo pochi edifici vennero trasformati. Nel '96 quel limite è stato portato a 120 metri quadrati: troppo vincolistico il precedente regime, dissero l’assessore della giunta Cacciari, Roberto D’Agostino, e il consulente Leonardo Benevolo. E non solo. E’ mutato anche un criterio interpretativo. Invece che su un piano, i 120 metri quadrati potevano essere calcolati anche su più piani. Di fatto si consentiva a tutti gli appartamenti di Venezia di diventare camere d’affitto.
Ora si cerca di contenere. La giunta di Paolo Costa ha preparato una delibera, che però trasloca da una scrivania all’altra senza approdare al voto. Che il fenomeno sia preoccupante ne è convinto anche il sindaco, il quale però ammette: «Contro l’esodo di abitanti possiamo fare ben poco. E poi non è questo il problema principale del centro storico». E qual è? «Mancano le occasioni di lavoro che possano contenere l’esodo». Qualcuno sostiene che Venezia potrebbe vivere anche con la manutenzione di se stessa... «E’ un’attività che svolgiamo. Vada in giro. Stiamo scavando i rii per abbassare il fondale e consentire all’acqua di incanalarsi, evitando di sommergere la città. Al tempo stesso innalziamo il livello della pavimentazione, sempre per scongiurare l’acqua alta. Risaniamo i muri di sponda e il sistema fognario. Un lavoro che non dovrebbe mai terminare. Ma non basta perché Venezia sopravviva». Cosa manca? «Dobbiamo convincere imprese italiane e straniere a venire a Venezia, imprese produttrici di beni immateriali, come ricerca e comunicazione. Ecco la destinazione ideale per molti dei nostri edifici storici. A cominciare dall’Arsenale».
Intanto Venezia si prepara alla piena di Pasqua (prezzo medio 1000-1500 euro per cinque giorni in un appartamento dai 40 ai 50 metri quadrati). A San Stae era tutto pronto per l’apertura di un asilo nido. In zona ce n’è uno solo ed è stracolmo. «Avevamo i soldi, avevamo trovato il luogo adatto e il personale. Avevamo stilato il progetto e avviato i lavori. L’assessorato alla pubblica istruzione ci ha appoggiati, ma gli uffici dell’edilizia privata non ci hanno concesso il cambio di destinazione d’uso di un appartamento di 180 metri quadri», denuncia la promotrice, Roberta Lazzari, della cooperativa Macramè. «Se avessimo chiesto di aprire una locanda non avremmo avuto problemi».
Postilla
1) L'ho iniziato io, e vi ho collaborato fino alla fine, ma il PRG del centro storico è stato concluso e presentato in Consiglio dall'assessore Stefano Boato, e adottato quando era assessore Vittorio Salvagno.
2) Il primo atto che ha consentito di "liberalizzare" è stato la revoca, da parte della giunta Cacciari, della delibera comunale che, applicando una legge nazionale (15/1987), consentiva al Comune di evitare l'invasione dei fast food e dei negozi di junk in modo ancora più efficace del PRG.
3) In coerenza con questo primo gesto, il PRG è stato sostanzialmente modificato nella normativa, consentendo con il più ampio permissivismo i cambiamenti di destinazione d’uso (sindaco Cacciari, assessore D’Agostino).
4) Erbani accenna soltanto all'altro gravissimo rischio che grava sulla città: gli interventi alle Bocche di porto (il MoSE). Ma questo è un altro argomento, ampiamente trattato in questa stessa cartella.
5) Il sindaco Costa, intervistato da Erbani, attribuisce i mali di Venezia all'assenza di posti di lavoro. Eppure egli sa benissimo che per ogni persona che esce per lavorare dieci entrano a Venezia, dove i posti di lavoro sono da decenni più abbondanati delle forze di lavoro. Lo ha ricordato il 15 aprile Mario Infelise in una lettera a la Repubblica .
L'incendio del Mulino Stucky, trasformato in colossale albergo, ripropone in termini drammatici il problema di Venezia, ben descritto nell'articolo di Francesco Erbani di domenica. La città è ormai abbandonata ad una espansione turistica piratesca. La trasformazione di normali abitazioni in locande e camere da affitto - che spesso lavorano in nero - ha effetti devastanti sul tessuto urbano. E' falso sostenere che lo spopolamento sia determinato dalla mancanza di opportunità di lavoro. Oltre 20.000 persone raggiungono quotidianamente Venezia per lavorare o studiare e molti vi trasferirebbero volentieri.
Il pericolo più incombente di Venezia non è solo l'acqua alta, ma anche questo turismo che espelle all'esterno gli abitanti e ogni altra attività civile.
E non illudiamoci sia solo un problema di Venezia. Firenze sta forse meglio? Pochi anni di questo sviluppo sono bastati a compromettere la nostra civiltà urbana.
Quante manovre ancora e per giungere dove? Qual è la direzione delle politiche economiche delle democrazie occidentali più o meno consolidate? I livelli di riflessione che queste domande suggeriscono sono due, uno relativo ai caratteri delle specifiche scelte nazionali e uno relativo alla dimensione globale o, se si vuole, sovrannazionale. A proposito del primo livello, osserviamo che le manovre si ripetono a scansione regolare perdendo il carattere di eccezionalità con il quale sono proposte, giustificate e approvate. Inoltre, si assomigliano un po’ tutte. Se si va a rileggere quanto scrivevano quotidiani e riviste specialistiche nel giugno 2010 a commento della manovra economica del governo per i successivi due anni e mezzo, ci si accorge che anche allora si usava l’espressione "lacrime e sangue".
Come allora, anche in questi giorni in occasione della nuova manovra "lacrime e sangue", si è assistito a un dualismo altrettanto e forse più radicale con un "gioco" che ha certamente agevolato la velocità della decisione. Come allora, anche questa volta, la manovra ha dosato sacrifici in proporzione alla forza politica dei settori sociali interessati: colpire genericamente tutti significa colpire chi è già più debole e, inoltre, senza lobby protettive. Come allora, anche in questa occasione la manovra è depressiva e non tonica rispetto alle potenzialità di crescita della società, le quali sono affidate alla speranza in una provvidenziale congiuntura favorevole dell’economia internazionale e alle libere forze del mercato – si "spera" che queste ultime non scaglino la loro maledizione inappellabile come divinità dell’Olimpo. Oggetto di una fede che rassomiglia più a un talismano psicologico che a una previsione ragionevolmente realistica.
In sostanza i governi, il nostro tra questi, si stanno da diversi anni allenando a fare manovre economiche e a mettere in campo le strategie giustificative più sicure con lo scopo di scongiurare l’ira funesta di potenze senza volto. La differenza consiste essenzialmente nella decisione di chi far più pagare, quanto e come. I governi italiani di questi ultimi anni si sono specializzati a sacrificare il futuro, forse perché non ha lobby o forse perché sperano che la proverbiale capacità degli italiani di farcela in qualche modo farà il miracolo. Ecco allora che i tagli sulla scuola e l’umiliazione di chi è portatore forzatamente inattivo di forza lavoro sono i due pilastri consolidati sui quali si costruiscono le manovre economiche.
Se è difficile riconoscere l’identità di una manovra rispetto all’altra poiché tutte si assomigliano nei caratteri essenziali ancora più difficile cercare di comprendere quale sia il corso degli eventi che con queste manovre si intende proporre o evitare, suggerire o scongiurare. Il livello di riflessione si dovrebbe spostare a questo punto oltre gli stati nazionali. Fino a quando ancora il nostro come gli altri Paesi dovranno fare "manovre lacrime e sangue"? Qual è l’obiettivo e a che cosa esattamente si aspira? La manovra, questa come le altre che l’hanno preceduta, non si limita solo a togliere e tagliare ma anche a promettere privatizzazioni nella proprietà e nella gestione di servizi pubblici: dall’elettricità ai trasporti, ma non solo. Servizi e beni che fino ad ora erano stati con più o meno successo tenuti al riparo dal mercato si chiede prepotentemente che siano dati in toto al mercato. Sembra che i mercati non sopportino la concorrenza del pubblico su beni che possono essere generatori di ricchezza e profitto. Tutto ciò che è economico è per ciò stesso oggetto del mercato libero. Si tratta di decidere, ovviamente, che cosa mettere nel paniere "economico".
Fino a qualche decennio fa sarebbe per esempio risultata una bestemmia, in Europa almeno, che la salute fosse trattata come bene economico. Oggi la maggioranza degli Stati europei sembra meno convinta che questa distinzione valga ancora (del resto la tecnologia e la farmaceutica, settori che afferiscono a multinazionali potentissime, impongono al governo della sanità pubblica limiti notevoli). Lo stesso vale per altri settori. Negli Stati Uniti perfino la repressione e le carceri sono diventati beni economici gestibili dalla "società civile" e fonte di guadagno (le multinazionali fanno grandi profitti con il lavoro asservito dei detenuti mentre le congregazioni religiose si alimentano gestendo parte dei servizi carcerari).
La lotta tra mercato libero e bene pubblico sembra sia la vera protagonista di questo permanente stato di default contro cui le democrazie di tutto il mondo stanno combattendo. Con uno svantaggio nemmeno troppo implicito: non possono, se è vero che sono bastioni di libertà, sconfessare o anche solo limitare la libertà di mercato. Soprattutto non possono più definire che cosa debba restare fuori del mercato – un potere che la politica si era arrogata nei decenni della ricostruzione postbellica e che andava sotto il nome di "stato sociale". La democrazia è ora invitata senza nemmeno troppa gentilezza a ritirarsi dalla società; il potere della scelta politica deve autocircoscriversi in quei settori che tradizionalmente sono dello Stato: la sicurezza individuale (della vita e della proprietà) e la sicurezza delle frontiere. Le ambizioni di usare lo Stato per creare una società democratica devono fermarsi qui. E le manovre che di anno in anno vengono imposte (preferibilmente in estate quando tutti siamo un po’ più distratti e smobilitati) sono come tasselli di questo mosaico in formazione di ridescrizione dell’identità delle società democratiche. La critica giusta sul carattere della manovra per l’ineguale e quindi iniqua distribuzione dei sacrifici e dei costi dovrebbe fare uno sforzo ulteriore ed estendere l’obiettivo oltre i confini dei singoli Paesi e delle singole manovre per farci vedere, se possibile, la mutazione epocale in corso.
La mutazione epocale che è avvenuta ha assoggettato ogni cosa alle leggi non genericamente “dell’economia”, ma dell’economia capitalistica. Questo sistema economico non è l’unico che è esistiito e non è l’unico possibile. Se vogliamo conservare la speranza dobbiamo continuare a credere che un’altra economia è possibile, e che si può cominciare a costruirla oggi, nella fatica e nell’incertezza delle sperimentazioni guidate da una volontà ma non ancora da una lucida teoria. Occorre tener viva la fiammella della possibilità di una nuova “mutazione epocale”
La riva consolidata, una miriade di negozi, salette vip, una biglietteria degna di questo nome e un piazzale dotato di aiuole, panchine e lampioni. Una stazione vera, insomma, che vedrà la luce alla fine del 2012 quando, dopo tre anni lavori e un investimento complessivo di 23 milioni di euro, Santa Lucia si guarderà allo specchio e non si riconoscerà più. Più grande, più luminosa e più moderna, potrà rivaleggiare con Milano e offrire agli 82 mila passeggeri che ogni giorno salgono e scendono dai 450 treni in partenza o in arrivo prestazioni da grande città in una struttura che però ha conservato la facciata in marmo, i soffitti di mosaico, le colonne di ottone e po’ di odore della storia.
Iniziati due anni fa e arrivati ormai a metà strada, i lavori interni saranno affiancati giovedì anche dall’inizio di quelli esterni, che riguarderanno il rifacimento della riva S. Lucia ormai ridotta a un colabrodo. Nell’arco dei prossimi dodici mesi, e con un spesa complessiva di 4 milioni di euro, la fondamenta sarà rifatta da cima a fondo seguendo quattro fasi: il prosciugamento di una parte di Canal Grande per consentire lo svolgimento delle opere, la bonifica degli ordigni bellici, la rimozione delle parti degradate e la riscostruzione delle strutture.
«Ricomincia la riqualificazione di una delle porte d’accesso della città - ha detto l’assessore ai Lavori pubblici, Alessandro Maggioni, presentando ieri i lavori insieme all’amministratore delagato di Grandi Stazioni Fabio Battaggia - Siano potuti partire grazie a una deroga ottenuta in conferenza dei servizi del 19 luglio in attesa della nuova delibera del Cipe che speriamo arrivi nell’arco di qualche settimana per dare il via anche all’intero progetto di recupero dell’area esterna della stazione. Si tratta di piazzale, aree verdi e banchine. Una nuova approvazione del Cipe che, come ha spiegato Battaggia, si è resa necessaria per l’incremento dei prezzi, determinato dal trascorrere del tempo e passato dai 700 mila euro originari ai quattro milioni attuali.
I disagi, ovvio, non mancheranno ma proprio per agevolare l’ingresso alla stazione anche dalla fondamenta Santa Lucia saranno aperti tre varchi nell’ex Palazzo Compartimentale che porteranno direttamente all’interno del terminal. Nel frattempo proseguono i lavori interni che interessano una superficie di oltre 15 mila metri quadrati di cui 7 mila riservati alle attività commerciali (40 i negozi previsti), una biglietteria di 730 metri quadrati con un aumento del 22 per cento delle postazioni e un Club freccia di 160 metri quadrati. Il tutto dovrebbe essere ultimato per l’autunno dell’anno prossimo. Sono intanto terminate le lavorazioni strutturali, con il potenziamento delle strutture attraverso l’utilizzo di fibre di carbonio e la demolizione e la ricostruzione dei solai. Quasi completati anche i lavori per la riqualifica del piano terra dell’ex Palazzo Compartimentale, con gli annessi magazzini di servizio, dove troveranno spazio nuove aree commerciali.
Postilla
Abbiamo chiesto un commento a Paola Somma, autrice del recente libretto Benettown , Corte del Fòntego, Venezia 2011. Eccolo:
La sistemazione della fondamenta ai piedi del ponte di Calatrava non è un normale intervento di manutenzione urbana. E’ uno dei tasselli della ristrutturazione e privatizzazione della stazione ferroviaria e degli edifici e delle aree contermini. La gigantesca e complessa operazione è iniziata nel 1999, quando la società Grandi Stazioni, il cui principale azionista è il gruppo Benetton, ha acquistato il palazzo della direzione dipartimentale delle ferrovie e, contestualmente, il comune ha intrapreso la realizzazione del ponte. Successivamente, Grandi Stazioni ha rivenduto l’edificio alla regione lucrando un sostanzioso aumento di valore, ha accatastato come proprietà privata la fondamenta e l’intero piazzale antistante la stazione, ha ottenuto ulteriori concessioni per aumentare la superficie da destinare alle sue attività di ristorazione e shopping e per consolidare la sua conquista della città intervenendo nelle aree adiacenti.
Stupisce che, assieme al consolidamento della fondamenta, non si sia ancora pensato di costruire ai piedi della rampa di Calatrava un casello con la scritta: prossima uscita Benettown.
1. Nel corso della Giunta del 13 luglio scorso ho votato a favore dell'Accordo di programma Expo 2015 siglato dal Sindaco Pisapia, pur avendo espresso da tempo dissensi profondi e motivati sul suo contenuto. Come ho più volte detto, in un momento molto difficile per i bilanci pubblici, le amministrazioni locali coinvolte nell'ADP dovranno pagare ai privati proprietari dei terreni del sito EXPO valori ben superiori al loro attuale prezzo di mercato come terreni agricoli. Inoltre, gli indici edificatori consentiti dall'ADP rischiano di condizionare pesantemente la possibilità di rispettare l'esito referendario del 12-13 giugno; quel voto di 454.995 milanesi che ha chiesto di mantenere sull'area Expo dopo il 2015 un parco agroalimentare utile, attrattivo e finanziato da soldi pubblici; certo non le 40 torri di 100 metri di altezza che questo accordo permetterebbe di costruire al posto del Parco.
La mia scelta di approvare, nonostante il dissenso, l'ADP sulle aree EXPO si basa sulla volontà di riconfermare, anche in questo difficile passaggio, la mia grande fiducia nel Sindaco e nella Giunta. Una Giunta che fin dai primi giorni di attività ha dovuto misurarsi con le scelte spesso irresponsabili della precedente amministrazione comunale: i ritardi accumulati in tre anni di inconcludente gestione politica della vicenda EXPO hanno infatti determinato la mancata acquisizione delle aree e il verificarsi di una fortissima urgenza nell’avvio delle opere e nella soluzione dei nodi ancora aperti. Ma non c’è solo questo: la mia decisione di votare a favore dell’ADP è legata anche alla convinzione che sia ancora possibile ridurre i danni ambientali e politici prodotti dall’ADP, attraverso un Documento di indirizzo del Piano Integrato di Intervento sulle aree EXPO che il consiglio comunale dovrà approvare nei prossimi mesi. Con l'approvazione in consiglio comunale dell'ADP, si aprirà infatti una nuova fase di gestione - difficile e delicata - del progetto Expo. Si tratterà infatti di salvaguardare i contenuti originali del progetto, di rafforzare il ruolo del Comune nell'indirizzo delle società Expo e Arexpo, di promuovere finalmente una grande partecipazione della città all'evento e di difendere il Parco Agroalimentare dall'eccessiva cementificazione dell'area che l’ADP rende possibile.
2. Voglio ancora ricordare che il Parco Agroalimentare, confermato come scelta dal referendum popolare del 13 giugno scorso, non è una serie di orticelli di melanzane e frutti esotici, come a qualcuno piace dire. Chi in queste settimane, come il Presidente della Regione Lombardia e l’AD di Società Expo, ha cercato di ridicolizzare e svilire un progetto approfondito e sviluppato da un gruppo internazionale di studiosi di botanica, agronomia, alimentazione e urbanistica – un progetto che è stato approvato a novembre dai 157 Paesi del BIE – dovrebbe assumersi fino in fondo la responsabilità delle sue parole e dirci a quale EXPO davvero pensa. Il Parco Agroalimentare di EXPO 2015 è l’idea innovativa di un’infrastruttura ad alta tecnologia, alimentata da energie rinnovabili e dotata di costruzioni leggere e riciclabili, dove sarà possibile mettere in scene l’intera filiera agroalimentare di tutti i Paesi del mondo e – dopo l’EXPO – delle regioni italiane.
Un sistema di terreni e serre per la coltivazione e la rappresentazione delle tradizioni agricole e delle biodiversità dell’intero pianeta: padiglioni per esporre le tecnologie più avanzate per la trasformazione dei prodotti agricoli in cibo; aree per la commercializzazione dei prodotti agricoli e alimentari; centri per ricerca sulle sementi e l’alimentazione. Il parco agroalimentare è dunque un luogo di sperimentazione, ricerca, sviluppo produttivo, divulgazione scientifica e intrattenimento, che deve restare in eredità dopo il 2015 a Milano, alla Lombardia a tutto il Paese. Un’infrastruttura finanziata quasi totalmente da soldi pubblici (1 miliardo e 300 milioni), che sarebbe uno spreco imperdonabile dismettere dopo l’EXPO per dare spazio all’ennesimo quartiere di residenze ed uffici destinati con tutta probabilità a restare vuoti.
3. Per queste ragioni, e per rispettare il mandato del referendum consultivo sul parco agroalimentare, in questi giorni e su mandato della Giunta ho collaborato con i capigruppo dei partiti di maggioranza per elaborare un ordine del giorno che impegna il Consiglio comunale a redigere un Documento di indirizzo per il Piano Integrato di Intervento dell’area EXPO. Un documento di indirizzo che potrà essere confermato nelle sue scelte dal futuro Piano di Governo del Territorio e che stabilisce alcuni punti fermi. Ne segnalo qui tre: Punto primo. Per evitare ulteriori ingiustificabili spese per le amministrazioni pubbliche, il documento pretende che il costo delle eventuali bonifiche sul sito Expo venga addebitato agli attuali proprietari e non ai soci, in prevalenza pubblici, della nuova società acquirente.
Punto secondo.
Per contenere al massimo ogni futura edificazione, il documento chiede di inglobare nell’indice di edificazione per il dopo Expo (circa 400mila mq) tutti i volumi già realizzati per l’evento (più di 200 mila mq) e di sottomettere ogni nuova costruzione alle regole del regolamento edilizio e di igiene del Comune di Milano, oltre che alle norme sulle fasce di rispetto dalle infrastrutture.
Punto terzo. Per salvaguardare l’unitarietà e la permanenza dopo l’EXPO del Parco Agroalimentare il documento di indirizzi chiede di considerare la sua futura dimensione in rapporto all’intera superficie dell’insediamento e non al netto delle sue infrastrutture (canali, strade, svincoli) com’è oggi prevista dall’ADP. Questi vincoli sono indispensabili per assicurare il rispetto della volontà dei milanesi e per applicare concretamente le indicazioni e lo spirito del Masterplan di Expo 2015 approvato dal BIE. È bene precisare che questi vincoli non incidono al ribasso sul valore delle aree calcolato dall’Agenzia delle Entrate e confermato nell’ADP. Il loro prezzo, infatti, non è stato calcolato considerando su tutta la zona interessata un indice di edificabilità dello 0,52, che costituisce in realtà solo un valore soglia che non è possibile superare.
4. Ma la vera grande sfida dei prossimi anni riguarda l’intera società urbana e rurale milanese. Riguarda la possibilità che Milano diventi davvero una delle capitali mondiali di un nuovo rapporto, fertile e avanzato, di scambio reciproco di beni e saperi tra campagna coltivata e territori urbani. Per questo, da domani, dovremo tornare a concentrare l’attenzione della politica, della cultura, del mondo dell’impresa e del lavoro sul grande tema della nutrizione. Da domani dovremo far diventare questo tema uno dei caratteri identitari della nostra Milano. Il che significa, tra le altre cose: - attivare le 60 cascine comunali come epicentri di scambio di prodotti e saperi tra città e agricoltura; - costruire un nuovo rapporto tra Milano e il Parco Sud che ne valorizzi il ruolo di grande polmone alimentare per il sistema delle mense pubbliche e i mercati milanesi; - promuovere un evento annuale sul cibo che anticipi e prepari l’EXPO del 2015 coinvolgendo le filiere dell’agricoltura di prossimità, della ristorazione, del commercio enogastronomico; - sviluppare con le università milanesi riflessioni e ricerche sui temi dall’alimentazione, della protezione della natura, delle biotecnologie; - attivare, in rapporto con i Consolati e le Ambasciate, la rete delle comunità straniere di Milano per promuovere iniziative che rendano da subito Milano una capitale planetaria dell’agroalimentare; - studiare forme di complementarietà con le altre regioni italiane e in particolare con le vicine città del Nord Italia.
5. Per lanciare questa grande sfida culturale, economica, politica, l'Amministrazione Comunale di Milano dovrà avere un ruolo di guida e orientamento nelle scelte delle due società (Expo e Arexpo) che gestiranno le prossime scelte. E oggi, alla luce del parere della Corte dei Conti, le mie perplessità rispetto all’opportunità e alle modalità di adesione alla newco appaiono ancor più fondate. Per questo è ancora più importante, oltre che avere conferma del ruolo del Sindaco come Commissario Straordinario per EXPO, chiarendo a priori quali poteri verranno attribuiti alla società Expo, che la presidenza di Arexpo sia espressa dalla nostra amministrazione comunale. Chi nella Giunta sarà chiamato a gestire i prossimi passi della vicenda EXPO dovrà dunque avere un ruolo chiaro e poteri ampi di coordinamento, all'altezza della sfida che ci aspetta. Ma soprattutto, il Comune dovrà attivare un'ampia partecipazione dei cittadini e ottenere il consenso necessario per tornare ad incidere positivamente sulla realizzazione di un’EXPO che porti vantaggio a tutta la città e non solo a pochi e circoscritti interessi.
Vita da archeologo. Marco Martignoni, bolognese, quarant’anni, due figli, laurea, specializzazione in archeologia cristiana e dottorato in età tardoantica e altomedievale, lunghe esperienze di scavo in cantieri universitari, poi una trafila di contratti a progetto, ha deciso di smettere. Niente più piccone e scalpello, bàsoli e capitelli. Farà il promotore finanziario. L’ultima esperienza da archeologo la rammenta come un incubo. A Modena si costruiva un grande parcheggio nel parco Novi Sad. Dovendo scavare in profondità si affidarono le ricognizioni archeologiche a due imprese. «Tutte le mattine il capocantiere ci accoglieva con un cronometro e segnava i minuti di ritardo. Poi a fine mese tirava le somme e ci toglieva i soldi dal compenso». Occorreva far presto. Incombevano le penali. Ma lei aveva un contratto a progetto, non era tenuto a rispettare orari. E poi il suo era un lavoro specializzato, di lunga tradizione disciplinare, uno dei vanti della cultura italiana... «Sì, ma nessuno, neanche io, ha protestato. Siamo pagati a ore - sette, otto euro lorde. A poche settimane dalla scadenza del contratto mi sono ammalato di otite. Lavoravamo sotto la neve, mattina e sera. Il medico mi ha imposto di restare a casa dieci giorni. Ho mandato il certificato. Ma dopo due giorni mi ha chiamato il capocantiere: il mio contratto era annullato».
La storia di Martignoni svela uno spaccato di come si pratica l´archeologia in Italia. A Modena sono emersi rilevanti reperti (una strada romana utile per capire i collegamenti nord-sud, un pozzo e una sequenza di sepolture medievali...). I pezzi vengono asportati e rimontati sopra il parcheggio, si allestisce una piccola mostra. Italia Nostra, Legambiente e Wwf presentano denuncia alla Procura. Protestano contro la distruzione di un patrimonio. Il magistrato chiede che sia archiviata, ma il Gip impone nuove indagini. Nel frattempo il parcheggio è quasi completato.
A Modena, comunque vada, l’archeologia è l’effetto secondario prodotto dai lavori per un parcheggio. Non il risultato di un’iniziativa culturale e di tutela. È stata chiamata "archeologia preventiva". Qualcun altro preferisce la formula "archeologia selvaggia". Lo Stato non ha un soldo per gli scavi e si accorda con imprese piccole e grandi, pubbliche e private che devono a loro volta scavare per le linee ad alta velocità o per piazzare cavi elettrici, fondazioni, tubature. Sono queste che pagano gli archeologi. Ma per loro l’archeologia, la tutela e la conoscenza, non sono il fine ultimo. Il fine ultimo è far presto e risparmiare.
Che questa sia la norma dell’archeologia in Italia lo ammette Luigi Malnati, direttore generale per le Antichità del Ministero per i Beni culturali: «Il 90 per cento degli scavi archeologici si fanno così». Nel 2006 fu approvata una norma che stabilisce siano le imprese ad avviare sondaggi archeologici preventivi e ad inviare una documentazione alla soprintendenza che decide se approfondire gli accertamenti. Queste attività sono svolte da archeologi (o da cooperative o da piccole imprese) a carico delle ditte, ma sottoposti spesso a condizioni di lavoro che dire precarie è un eufemismo. E dunque ricattabili. «Questi giovani sono fra l’incudine dell’impresa che li paga e il martello della soprintendenza alla quale devono riferire», aggiunge Malnati. Con un’aggravante, che è sempre il direttore generale a raccontare: «Le soprintendenze devono vigilare e dirigere l’attività di scavo. Ma con poco personale e sempre più anziano questo è un compito del tutto aleatorio». E il risultato qual è? «Il materiale rinvenuto, quando va bene, viene depositato in magazzini della soprintendenza, dove forse è al sicuro, ma dove nessuno lo studia, lo cataloga, lo porta a conoscenza della comunità scientifica, lo rende visibile al pubblico. Raramente l’impresa paga un’indagine successiva, una pubblicazione, una mostra. Uno scavo così è come non farlo».
Questo quando va bene. Quando va male, se si trova qualcosa di importante, ma di intralcio al cantiere, si chiude un occhio e poi anche l’altro. «A Modena noi archeologi abbiamo lavorato bene, pure nelle condizioni che ho raccontato. Ma in genere gli archeologi hanno meno diritti dell’ultimo operaio. E sono soggetti a ogni forma di pressione», racconta Martignoni, uno dei pochi che compaia con nome e cognome, mentre innumerevoli sono le storie anonime di vessazioni e di tutela che va a ramengo (alcune vicende sono raccontate sul blog archeologiainrovina. wordpress. com).
In sé l’archeologia preventiva non sarebbe il male assoluto. «In Francia questa attività è coordinata da un’istituzione statale, l’Inrap, che è finanziato con il 5 per cento del fatturato di tutte le imprese edili francesi», spiegano all’Ana, l’Associazione nazionale archeologi, che con la Cia, Confederazione italiana archeologi, organizza la gran parte dei professionisti. «L’Inrap interviene in ogni lavoro che comporti scavo. Ha un suo personale (archeologi, operai), un suo tariffario, garantisce tempi certi». In Grecia la situazione è simile a quella italiana, «ma i funzionari pubblici sono molti di più e molto più giovani», spiegano all’Ana. Esperienze considerate positive non mancano in Italia. A Napoli, in occasione dei lavori per la metropolitana, la soprintendenza (Daniela Giampaolo e altri) ha scavato ottenendo risultati eccellenti. Sono state allestite mostre e pubblicazioni. E i reperti sono in gran parte visibili. A piazza Municipio, piazza della Borsa, piazza Nicola Amore sono stati rinvenuti strati profondi risalenti a un bacino portuale fra IV e III secolo a. C. e di lì fino agli sventramenti ottocenteschi, passando per angioini, aragonesi e viceré spagnoli: l’intera storia napoletana.
Per mettere ordine nella giungla dell’archeologia preventiva, l’ex direttore generale, Stefano De Caro, aveva approntato un documento che fissava le linee guida di intervento. Le norme si sarebbero applicate a tutti i lavori pubblici o di interesse pubblico e anche a quelli privati di pubblica utilità. La filosofia era esplicita: «Una villa romana ovvero un villaggio preistorico conservato nei buchi di palo delle capanne possono, anzi debbono condizionare il progetto di una ferrovia o di un ospedale, ma affinché la cittadinanza che patirà il disagio del ritardo, comprenda la necessità di tale sacrificio collettivo è necessario che la stessa villa sia al più presto portata a conoscenza del pubblico non meno che degli specialisti». Ma, andato in pensione De Caro a fine 2010, di quel testo non c’è più notizia. Nel frattempo è stato sottoscritto un accordo che garantisce alla società Terna, proprietaria delle reti di trasmissione dell’energia elettrica, che per i loro lavori si applica l’archeologia preventiva solo per gli scavi superiori ai 5 chilometri lineari.
L’archeologia resta dunque una terra di nessuno, dove si sprecano saperi ed energie di cui l’Italia menava vanto. Dicono all’Ana: «Anche in Turchia hanno fatto passi da gigante, investimenti, assunzioni: in Italia invece lavorano nelle soprintendenze appena 350 archeologi e all’ultimo concorso per 30 posti si sono presentati 5.500 candidati, destinati a rimanere l’esercito dei precari sfruttati e privati anche del diritto di pubblicare i risultati di ciò che scavano». L’Ana elabora periodicamente un censimento degli archeologi. Sono molto giovani (oltre il 75 per cento hanno meno di 40 anni), specializzati (il 40 per cento), prevalentemente donne (70 per cento), ma solo il 3 per cento lavora in strutture pubbliche (soprintendenze, musei...) e appena il 15 è impegnato in scavi «programmati, finalizzati alla ricerca scientifica». Nel 2006 le partite Iva erano il 14 per cento, quest’anno sono il 27. Ultimo dato, forse il più inquietante: solo il 3,98 per cento ha un’anzianità di servizio di 10 anni. Vuol dire che la gran parte degli archeologi, laureati, specializzati, dottorati, dopo un po’ abbandona. Come Marco Martignoni.
La Repubblica
Malpensa non decolla, battaglia sulla terza pista
di Ettore Livini
MILANO - Decolla nella bufera il sogno della terza pista a Malpensa. I 2.400 metri d´asfalto più "caldi" di Lombardia sono per ora solo un disegno su una mappa topografica, parcheggiato al Ministero dell´Ambiente per l’ok alla valutazione di impatto ambientale. Ma il fronte del no al progetto («partirà solo se e quando ci saranno le condizioni per giustificarlo» mettono le mani avanti alla Sea) si sta rivelando ben più ampio e agguerrito del previsto. Ci sono gli ambientalisti, in trincea per proteggere 400 ettari di bosco nel Parco del Ticino, Succiacapre e Averla minore; molti sindaci - uno schieramento che va da Pdl e Lega fino al Pd - in difesa di un territorio che all’espansione (e poi alla crisi) dello scalo ha già pagato un pedaggio salatissimo. E ora persino le compagnie aeree convinte che l’opera da 300 milioni sia - per dirla con il direttore generale di Assaereo Aldo Francesco Bevilacqua - «di dubbia utilità».
IL NODO DELLA DOMANDA
È il quesito di tutti, come confermano le migliaia di pagine di obiezioni piovute sul tavolo di Stefania Prestigiacomo. Perché fare una nuova pista a Malpensa quando le due attuali sono sotto utilizzate e l’aeroporto, orfano di Alitalia, è una cattedrale nel deserto? La risposta della Sea, la società di gestione, è semplice: «Nel 2025 nell’aeroporto transiteranno 42,4 milioni di passeggeri contro i 18,9 di oggi». Lo confermano i dati della Bocconi - dicono - assieme alle stime di Iata, Airbus e Boeing. È vero? La storia, sostiene il fronte del no, dice il contrario: Malpensa aveva 23,8 milioni di passeggeri nel 2007, il 23% in più del 2010 e dopo l’uscita di scena di Alitalia e Lufthansa Italia il sogno di un hub a Milano è svanito. Qualche dubbio, come testimonia il verbale di una riunione all’Enac, ce l’ha persino Easyjet, la compagnia leader a Malpensa: «La Iata ha rivisto al ribasso le sue stime - ha detto Enzo Zangrilli, numero uno in Italia del vettore - e per questo va ripensata l’opportunità della terza pista».
IL REBUS DELL’OFFERTA
Quanti aerei possono atterrare nell’aeroporto bustocco? Perché Heathrow con due piste muove 60 milioni di passeggeri l’anno (il triplo di Milano), Monaco 34 e Londra Gatwick con una e mezza ne gestisce 31,3? Malpensa è nata male, spiega Sea. Le due piste sono troppo vicine (808 metri) e non si possono gestire atterraggi paralleli come a Londra e in Baviera. Allontanarle è impossibile. Ergo, quando il traffico crescerà sarà necessaria la terza pista. «Storie - dice Bevilacqua a nome delle compagnie iscritte a Confindustria - . Le strutture attuali bastano per gestire i volumi in aumento previsti. Servono solo pochi miglioramenti tecnologici e procedure più efficienti».
«I numeri sono chiari», dicono i sette sindaci dell’area che si sono messi di traverso alla "Grande Malpensa": l’aeroporto ha un limite normativo di 70 movimenti (decolli e atterraggi) l’ora, pari a 840 al giorno e 300mila l’anno. Ma in realtà non riesce a farne più di 55-60 («per problemi d’inquinamento acustico», dicono in Sea). Nel 2007, l’anno dei record, è arrivata a gestirne oltre 800 al dì mentre nel 2011 la media è poco sopra i 512. Come dire che c’è spazio per aumentare del 56% la capacità senza gettare nuovo asfalto.
Non solo: su ogni volo che atterra nello scalo bustocco ci sono in media 120 passeggeri contro i 170 di Parigi e i 180 di Londra. Certo, non si può costringere le compagnie a far volare mega-jet su uno scalo "regionale". Ma la matematica, calcola il Consorzio del Parco del Ticino, non è un’opinione: 300mila movimenti possibili l’anno per 120 passeggeri l’uno significano una capienza di 36 milioni, quasi il doppio di oggi. E se si riuscisse a salire a 150 «Milano potrebbe gestirne 45 milioni» senza interventi strutturali.
L’INCOGNITA AMBIENTALE
La terza pista andrà a cancellare un pezzo di brughiera e un insediamento abitativo in zona Tornavento. Ma la valutazione di impatto ambientale - dice la Sea - serve proprio per stabilire le compensazioni. Ai 500 cittadini che dovranno traslocare e al bosco da ripiantare. Ma l’operazione, per gli ambientalisti, non è indolore. «La perdita dell’esempio più esteso di brughiera italiana non è risarcibile», dicono, perché non si può riprodurlo in nessun’altra zona della Regione.
Qualcuno timidamente suggerisce di ripensare la gestione di tutti gli aeroporti del Nord. In fondo il governo Cameron ha appena bloccato la costruzione di nuove piste a Londra (dove gli scali sono saturi) per redistribuire i voli sulle altre infrastrutture inglesi, potenziando i collegamenti ad alta velocità. Milano è a due passi da Linate, Bergamo, Brescia, Parma, Verona e Torino. Ma la pianificazione è un’arte sconosciuta in Italia dove ogni aeroporto è un campanile.
La partita comunque è aperta. La valutazione d’impatto ambientale è solo il primo passo. Alla prova dei fatti i difensori del brugo, l’erica lombarda che dovrà lasciar spazio alle ruote degli aerei, si sono rivelati una pattuglia meno brancaleonesca delle attese. E la strada della terza pista dell’aeroporto milanese, oltre che lunga 2.400 metri, pare più in salita del previsto.
La Repubblica ed. Milano
Le associazioni: vogliamo un ruolo nella gestione dei parchi lombardi
di Franco Vanni
Coinvolgere le associazioni ambientaliste nella gestione dei parchi lombardi. È la richiesta che Wwf, Fai e Legambiente avanzano alla Regione, che si appresta a varare la legge di revisione della governance delle aree protette. «Serve una vera riforma - dice Paola Brambilla, presidente di Wwf Lombardia - si faccia per ogni area quel "consorzio di gestione nazionale" previsto dalla legge sui parchi del 1991, con il coinvolgimento delle associazioni e di un rappresentante del ministero dell’Ambiente al fianco di Comuni, Province e Regione». Oggi i parchi sono gestiti da Comuni e Province del territorio, che eleggono un cda. Il testo licenziato della commissione Ambiente del Pirellone, che giovedì andrà al voto del consiglio, prevede nel cda (massimo 5 membri, presidente compreso) anche un uomo nominato dalla Regione. Le associazioni sarebbero invitate solo a un "tavolo sull’ambiente" senza poteri.
La partita sulla governance dei parchi, che interessa 21 aree verdi in Lombardia, è terreno di scontro fra maggioranza e opposizione, ma anche nello stesso centrodestra, con la Lega che un mese fa bocciò in aula la proposta di legge del Pdl. A due giorni dal nuovo voto, le associazioni tentano di bloccare l’approvazione. Giulia Maria Mozzoni Crespi, presidente onorario del Fai, in una lettera al governatore Formigoni e al consiglio, scrive: «Lo scopo della legge è accentrare nel governo regionale il sistema delle aree protette». Dopo avere definito la bozza «punitiva per gli enti locali», a cui resterebbe l’ordinaria amministrazione, ma non le scelte strategiche, la Crespi fa un appello: «Queste norme sono destinate a creare un progressivo degrado delle aree protette, si chiede pertanto di non approvarle». A spaventare è in particolare la norma che prevede la possibilità per i Comuni di rivedere i confini dei parchi, con il rischio che le aree vicine all’abitato possano essere edificate.
Un’altra questione sollevata dagli ambientalisti è quella dei finanziamenti: «Se la Regione conterà di più nelle decisioni - si legge nel documento unitario di Fai, Wwf e Legambiente - garantisca le risorse per il funzionamento dei parchi, che oggi gravano sui bilanci di Comuni e Province, o avremo enti privi di mezzi. La Regione spende ogni anno per i parchi l’equivalente del costo di costruzione di 200 metri dell’autostrada Brebemi». Un ultimo fronte aperto è quello della necessità stessa del varo della legge. La Regione sostiene che la norma sia un adeguamento al decreto Milleproroghe, che prevede il riordino degli "enti inutili". Una visione a cui si oppone il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, che definisce il decreto «un ingenuo espediente per sostenere la necessità delle innovazioni, trascurando invece quanto previsto dai principi della legge quadro sulle aree protette». Cioè quella stessa legge del 1991 che prevederebbe un ruolo nella gestione dei parchi per le associazioni ambientaliste.
La Repubblica ed. Milano
"La Brebemi diventa inutile se il governo non sblocca la Tem"
di Andrea Montanari
A due anni dall’apertura del cantiere della Brebemi è di nuovo allarme sulla nuova autostrada direttissima Milano-Brescia. A mettere a rischio la prima infrastruttura stradale interamente finanziata dai privati, questa volta, non sarebbero i costi quasi raddoppiati pari a oltre 1,6 miliardi di euro, le associazioni ambientaliste o i comitati di cittadini contro l’asfalto, ma addirittura il governo. Lo hanno detto a chiare lettere ieri il governatore Roberto Formigoni e il presidente di Brebemi spa Francesco Bettoni durante un sopralluogo organizzato a Calcio, in provincia di Bergamo, per fare il punto sullo stato dell’arte. quasi metà del tracciato è già stato realizzato. Assenti, anche se annunciati, sia il premier Silvio Berlusconi che il ministro alle Infrastrutture Altero Matteoli, quest’ultimo colpito da un grave lutto familiare.
Se il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) non darà il via libera entro pochi giorni al progetto definitivo della Tem, la nuova tangenziale esterna che collegherà la Milano-Brescia alla metropoli, slitterà l’apertura della Brebemi. «Non apriremo se non avremo la Tem - ha annunciato Bettoni - . Il rischio è reale. La nuova tangenziale esterna è essenziale. Non possiamo pensare di portare un flusso di traffico di 60/70mila veicoli in uscita dalla nuova autostrada nei campi di Melzo. Fosse per noi potremmo addirittura anticipare l’inaugurazione al dicembre 2012. Non capiamo perché il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, mentre noi siamo qui a soffrire, non dà il via libera a un’opera che non costa nulla allo stato. Francamente questo ritardo non si giustifica. È incredibile quello che sta succedendo».
Proprio ieri è stato raggiunto l’accordo tra il pool di banche, oltre al gruppo Banca Intesa, che coprirà l’intero costo dell’opera.
Anche Formigoni ha attaccato sia il governo che l’Unione europea. «Se finalmente il ministero competente convocherà il Cipe - ha sentenziato dal palco il governatore - potremmo accelerare i tempi. L’Unione europea, che delle volte è un mostro di burocrazia, ci ha già fatto perdere due anni». Il presidente della Regione non cita il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, ma è a lei che si riferiva quando ha aggiunto: «C’è stato un ministero che ci ha fatto perdere un altro anno perché ha voluto effettuare dei controlli ambientali che, come sempre, avrebbero potuto essere realizzati più rapidamente dalla Regione».
Al viceministro alle Infrastrutture Roberto Castelli, che non ha chiarito se il Cipe si riunirà questa settimana, non è rimasto che ammettere che «la Lombardia e la Brebemi viste da Roma sono molto lontane. Vedremo cosa fare. Il Cipe risponde a logiche vaste. Spesso si assiste a episodi incomprensibili. Non si capisce perché ci sia indifferenza verso quest’opera che crea posti di lavoro e sviluppo».
Lunga 61,1 chilometri, la nuova autostrada avrà sei caselli, quattro viadotti, due gallerie artificiali, quattro aree di servizio e sei chilometri in trincea.
Corriere della Sera ed. Lombardia
Brebemi al bivio burocrazia Il rischio? Finire in un prato
Di Claudio Del Frate
La Brebemi è un’autostrada, ma a suo modo è anche una strettoia: il nuovo nastro d’asfalto che unità Brescia a Milano è atteso a un passaggio sul quale incombono i tempi lunghi della burocrazia e i tempi stretti imposti dalla finanza. E il combinato tra i due fattori rischia di far lievitare i costi della prima infrastruttura d’Italia costruita interamente con capitali privati. Ieri mattina a Calcio, dove è ben visibile uno dei viadotti della nuova Brebemi, il presidente della società Francesco Bettoni ha fatto il punto della situazione che può essere sintetizzata in pochi numeri: il costo finale dell’opera comprensivo di Iva e oneri finanziari sarà di 2 miliardi e 400 milioni di euro; l’entrata in esercizio è prevista per il 2013 dopo di che i finanziatori avranno 19 anni e 6 mesi di tempo per ripagare l’investimento. A conti fatti, percorrere i 62 chilometri della Brebemi costerà per l’automobilista un pedaggio di circa 6 euro e 25.
«La cifra può essere perfezionata — ha puntualizzato Bettoni — ma più o meno è quella» . Qualcosa in più dei 5 euro e 60 che oggi si pagano per fare lo stesso percorso lungo la A4 «ma lì il viaggio è più lungo e più trafficato» dicono quelli di Brebemi. Comunque sia, il tempo gioca contro gli investitori della nuova infrastruttura: «Ci sono ritardi inaccettabili — ha denunciato ieri Bettoni — da parte della burocrazia; primo fra tutti il nuovo via libera alla tangenziale esterna di Milano: se quei 7 chilometri di strada non verranno realizzati per tempo, la Brebemi sbucherà in mezzo ai prati di Melzo» .
Il numero uno della società avrebbe voluto dire di persona queste cose al premier Berlusconi, invitato ieri mattina a Calcio, ma il capo del governo ha dovuto declinare l’invito. In rappresentanza del governo c’era il viceministro delle infrastrutture Roberto Castelli: «Di fronte alle banche che si sono esposte per questo investimento gli enti romani restano indifferenti — si è rammaricano l’esponente leghista — ma la Lombardia è diversa dal resto del paese e sono certo che quest’opera verrà conclusa nei tempi previsti» .
Sulla «diversità» lombarda ha insistito anche il presidente della giunta regionale Roberto Formigoni: «Qui i soldi investiti in infrastrutture aumentano mentre nel resto d’Italia calano. Peccato che l’Unione Europea ci abbia fatto perdere due anni per rilievi rivelatisi infondati e un anno un ministero (indovinate quale) che da Roma pretendeva di valutare l’impatto ambientale della Brebemi» . Ostacoli che non fanno perdere l’ottimismo a Bettoni che ieri si è addirittura sbilanciato: «Se la burocrazia non metterà ostacoli noi siamo pronti ad aprire l’autostrada il 31 dicembre del 2012. L’opera è ormai completamente finanziata» .
La società ha infatti raggiunto un accordo con le banche per la copertura di 1 miliardo e 900 milioni mentre gli altri 500 milioni del capitale sociale permettono di raggiungere i 2 miliardi e 400 milioni di costo. «Certo, se i tempi di allungassero il piano finanziario dovrebbe essere rivisto» ha avvertito Bettoni. Ed è questo in definitiva ciò che assilla di più. La Brebemi era partita con un costo ipotizzato di 800 milioni euro; ma poi i cosiddetti costi di compensazione (le opere aggiuntive richieste per acquisire il consenso dei 45 comuni attraversati dalla strada) hanno fatto raddoppiare il saldo, ulteriormente dilatatosi per effetto degli interessi bancari. Ed è chiaro che ogni ritardo farebbe lievitare nuovamente la cifra finale costringendo poi la società di gestione ad aumentare il pedaggio da far pagare agli utenti.
Venerdì pomeriggio, la notizia dell’esplosione nel centro di Oslo ha provocato in molti un immediato riflesso condizionato. Si trattava con tutta probabilità di un’autobomba e quindi di terrorismo di origine islamica. Niente di più classico. Esasperante, tragica routine.
Poi, col passare delle ore, sono arrivati i dettagli della strage sull’isolotto di Utoya ed è emerso quel giovane biondo, con lo sguardo azzurrino. Alla certezza iniziale sulla natura jihadista dell’attentato è succeduto un momento di incredulità. Il terrorista era un puro scandinavo. Un norvegese aveva ammazzato decine di ragazzi norvegesi a sangue freddo. L’assassino era di incontestata origine europea, era un cristiano e fiero di esserlo. Se il pensiero che si trattasse di un arabo, di un musulmano, era stato un riflesso condizionato, la scoperta che il criminale era "uno dei nostri" ha suscitato sgomento. Il terrorismo può dunque essere europeo. La sorpresa ha stordito non solo i norvegesi.
I primi sospettati, supposti jihadisti nostalgici di Bin Laden, sono via via scomparsi dai telegiornali e dalle prime pagine dei quotidiani (e speriamo che non vi ritornino) ed è affiorata la tesi dell’attentato neo nazista, poiché il giovane biondo, identificato come Anders Behring Breivik, 32 anni, di professione agricoltore, è subito risultato "anti marxista, anti Islam, anti multiculturale".
La polemica delle attribuzioni contrapposte, tra chi sosteneva la natura islamica dell’attentato e chi sosteneva quella di un’azione concertata di estrema destra, non ha avuto il tempo di svilupparsi, perché (con la riserva che nel corso delle indagini emergano complici e con loro una qualche organizzazione), il giovane biondo con gli occhi azzurrini appare sempre più un assassino solitario, un uomo psichicamente anormale, un individuo affetto da paranoia.
Ma anche se questa diagnosi venisse confermata, essa non ridurrebbe comunque la strage norvegese a un’azione compiuta da un pazzo, quindi a un affare di competenza dei soli psichiatri. Anders Behring Breivik è un tumore annidatosi e sviluppatosi nella nostra società europea, dove la crescita dei gruppi di estrema destra ha creato un’atmosfera che può spingere persone psichicamente disturbate a gesti di illimitata violenza. Lo sostiene Hajo Funke, professore alla Libera Università di Berlino e studioso dei fenomeni di estrema destra. E con lui sono d´accordo non pochi altri esperti nella materia.
Non c’è del resto bisogno di ricorrere agli specialisti per rendersi conto che l’opposizione all’immigrazione, in particolare a quella musulmana, alla globalizzazione, al multiculturalismo, e a tutto quello che lo favorisce, Unione Europea inclusa, rafforza i movimenti populisti solerti nel presentarsi come difensori dell’identita nazionale o dei particolarismi regionali. Ed anche se quei partiti non predicano la violenza, essi creano un clima di odio che la favorisce, anche a livello individuale. Una violenza non riservata alla Norvegia, giudicata una contrada, a torto o a ragione, tradizionalmente tollerante, ma anche possibile in tanti altri paesi, con tradizioni meno virtuose.
La lotta al terrorismo di origine islamica è stata e resta giusta, indispensabile, e dopo l’11 settembre non poteva che mobilitare la quasi totalità delle varie intelligences occidentali. Ma si può sostenere, come il New York Times, che probabilmente si è sottovalutato il pericolo del terrorismo di estrema destra. L’attentato alle Torri Gemelle ha fatto ad esempio dimenticare, lo ricorda sempre il Nyt, quello avvenuto sei anni prima, nel 1995, a Oklahoma City, dove un estremista di destra uccise 168 persone con un ordigno a base di fertilizzanti, come quello piazzato nel centro di Oslo da Anders Behring Breivik.
È stato dato, ad esempio, scarso rilievo a quel che è accaduto lo scorso novembre nella città svedese di Malmo, dove un uomo è stato arrestato con l’accusa di avere aggredito una dozzina di immigrati. In un caso con esito mortale. Sempre in Svezia un partito di estrema destra, quello dei Democratici svedesi, ha ottenuto il 5,7 % dei voti ed è entrato per la prima volta in Parlamento. In Danimarca il Partito del Popolo danese ha venticinque seggi su 179 e in Olanda il partito di Geert Wilders, il Partito della Libertà, ha ottenuto il 15,5 per cento alle ultime votazioni. Sono nuovi e vistosi coefficienti elettorali che provano la crescita dell´estrema destra nell´Europa del Nord, le cui società sono ritenute aperte, accoglienti con gli immigrati.
Nell’Europa del Sud gli esperti dedicano ovviamente particolare attenzione al Front National francese, del quale Nicolas Sarkozy cerca di contenere la crescita, a un anno dalle elezioni presidenziali, sottraendo non poche idee al limite della xenofobia, a Marina Le Pen, nuovo leader e pericoloso concorrente. La Lega di Umberto Bossi, con una schietta tendenza anti immigrati, è addirittura al governo a Roma.
In molti scritti l’assassino norvegese si dichiara difensore della "cultura nordica" e condanna il multiculturalismo, in particolare la contaminazione araba. Con un altro stile, ben inteso, tre grandi leader europei hanno sostenuto tesi identiche. Il primo ministro del paese europeo più rispettoso dei diritti degli immigrati, l’inglese David Cameron, ha condanato il multiculturalismo. E lo stesso ha fatto a chiare lettere Angela Merkel, anche se la cancelliera tedesca non si è poi risparmiata nell´enfatizzare la necessità dell´immigrazione. In quanto al presidente francese ha promosso una campagna sull’identità nazionale, rivelatasi sfortunata. E comunque per Parigi l’assimilazione resta un dogma, e si guarda dall´ammettere il comunitarismo, e quindi il multiculturalismo.
Sarebbe troppo sbrigativo, anzi assurdo, affermare che l’assassino di Oslo e Utoya ha espresso con la bomba e il mitra i propositi di eminenti dirigenti europei. Non mi permetto di dirlo. Né lo penso. Ma l’atmosfera europea risente di quelle idee. Anders Behring Breivik era, a quel che sembra, un cane sciolto negli ultimi tempi. L’estrema destra norvegese non ha un vero leader, è un mosaico di tanti gruppi, sempre più numerosi, i quali traducono in discorsi fanatici, i normali propositi della società politica democratica. E Breivik si abbeverava a quelle fonti.
Salvare il salvabile. È la missione delle associazioni di cittadini che spingono i Comuni di Milano, Pero, Rho, Cornaredo e Settimo Milanese a creare un parco nei propri territori: 180 ettari con piste ciclabili, alberi e panchine, per avvicinare i cittadini al poco che resta del passato agricolo dell’Ovest milanese, guastato dall’inceneritore, dalla Tav, dall’autostrada e dalla tangenziale. «Salviamo ciò che resta - dice Salvatore Crapanzano, del Coordinamento dei comitati - i vincoli del Parco Sud non hanno fermato il cemento». Il progetto, presentato ai sindaci, costa tre milioni.
Salvare il salvabile. È la missione delle associazioni di cittadini che spingono perché i Comuni di Milano, Pero, Rho, Cornaredo e Settimo Milanese creino un parco attrezzato al confine dei propri territori. Dopo decine di riunioni e workshop di progettazione, quello che c’è è un nome, "Parco dei cinque Comuni", un’area individuata di 180 ettari e una relazione di 17 pagine che indica dove dovrebbero posizionati piste ciclabili, filari di alberi, bacheche di informazione e panchine. Una rete di infrastrutture leggere, quasi invisibili, per fare conoscere ai cittadini quel che resta del passato agricolo di un’area dell’Ovest milanese che più di tutte ha subito l’invasione delle grandi opere pubbliche. Costo totale del progetto, circa tre milioni di euro.
Sul terreno che si vorrebbe valorizzare, fra cascine e fontanili superstiti, si trovano l’inceneritore Silla Due, un depuratore fognario, la Tav, l’autostrada Milano-Torino e la tangenziale Ovest. «L’unico modo per salvare quel che resta è farlo conoscere ai cittadini - dice Salvatore Crapanzano, presidente del Coordinamento dei comitati milanesi, attivo nel progetto - visto che nemmeno i vincoli paesaggistici sono riusciti a fermare il cemento». Sembra incredibile, ma l’area si trova infatti nel Parco agricolo Sud Milano. Nonostante questo, è stata fatta a pezzi a suon di deroghe ed eccezioni. «La speranza di chi crede nel progetto è che tutti i Comuni dimostrino interesse al parco, e sembrano esserci segnali positivi», dice Gianluigi Forloni, oggi assessore all’ambiente a Rho, e già presidente del coordinamento di associazioni che spinge per salvare ciò che resta del verde: Comitato del quartiere Figino (Milano), Gruppo Salute (Pero), Italia Nostra Nord Ovest (Cornaredo), La Risorgiva (Settimo Milanese) e la sezione di Legambiente a Rho.
L’unica area già riqualificata, nei 180 ettari che si vogliono recuperare, è il piccolo parco dei Fontanili di Rho. Ora si tratta di tutelare e collegare fra loro anche le risorgive, la Cascina Ghisolfa, l’area che lambisce la cava Bossi a Pero. Il sogno è fare del "Parco dei cinque Comuni" un corridoio verde, per quanto possibile, che colleghi il parco del Ticino a Bosco in Città. «Il progetto è interessante, ha il nostro appoggio, e in tutte le sedi possibili ci spenderemo per sostenerlo», dice Rosario Pantaleo, uno dei vicepresidenti del Parco Sud. In passato, l’unica amministrazione che non ha dimostrato di appoggiare il progetto è stata quella di Milano, ma la speranza delle associazioni è che con il cambio di giunta le cose cambino. Per questo i cittadini dei comitati due settimane fa hanno presentato il progetto al sindaco Giuliano Pisapia, intervenuto a un incontro con i residenti del quartiere Figino, alla presenza dei sindaci degli altri Comuni coinvolti. «Quello che manca, come sempre, sono i soldi - dice Forloni - la speranza è che il piano possa essere finanziato anche con le opere compensative di Expo».
È dagli anni ’20-’30, ovvero da quando con la prima timida diffusione del trasporto motorizzato si accelerano le spinte a un confuso decentramento insediativo, che nell’area milanese (come del resto in tutte le regioni urbane simili d’Europa e del mondo) si pone il problema dell’ intercomunalità. Da subito chi vuol capire capisce che esistono due percorsi, non necessariamente alternativi, per governare i processi: quello discendente dell’organo di governo metropolitano, e quello ascendente dell’associazione di Comuni. Mentre per decenni il primo provoca al massimo qualche dibattito politico e parlamentare (dal coordinamento urbanistico territoriale, ai comprensori, ai piani provinciali di altalenante efficacia) il secondo fa sentire molto di più gli effetti di un’alleanza via via commisurata all’estensione dei problemi.
Si comincia da alcuni consorzi promossi dagli organismi del PNF, attraverso un vero e proprio piano intercomunale per l’area Groane immediatamente successivo all’introduzione dello strumento nella legge del 1942, fino al noto PIM nell’epoca più fertile di sperimentazioni e risultati. Non va dimenticato che anche il Parco del Ticino nasce a cavallo degli anni ’60-’70 da una spinta dal basso, e non per una decisione propulsiva di organi superiori.
È quindi un ottimo segnale quello del gruppo di Comuni che si alleano per quello che dovrebbe essere un cosiddetto Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS) a tutela della qualità del territorio e dell’abitabilità di un’area dove ormai le grandi trasformazioni a casaccio stanno letteralmente affettando gi ultimi brandelli di spazio aperto lasciati dallo sprawl produttivo e residenziale degli ultimi decenni.
Meglio ancora sarebbe, se a queste iniziative “di reazione” ad aggressioni dall’esterno se ne aggiungessero altre di carattere più propulsivo, di coordinamento dello sviluppo e non solo di resistenza. È auspicabile che il solo accenno da parte della nuova giunta Pisapia di farsi promotrice di politiche di cooperazione metropolitana (indipendentemente da quelle che sono forse solo le ennesime chiacchiere di partiti e istituzioni sull’Ente sovraordinato) possa, magari col traino dell’Expo e delle sue complesse tematiche intrecciate al territorio, essere la scintilla in grado di innescare qualcosa di simile allo storico PIM (f.b.)
Un recente rapporto stima il fatturato della cultura, nella Ue, sui 650 miliardi di euro, contro i 250 dell’industria dell’auto. E però, da noi, la cultura è sotto lo zero rispetto alla Fiat. Secondo lo stesso rapporto, la cultura produce il 2,6% del Pil europeo, contro il 2,1 delle attività immobiliari. E però – grazie all’immobiliarista Berlusconi – da noi la politica edilizia pesa tanto e la cultura niente. Nonostante 3500 musei, 500.000 complessi storici (il dato è del segretario generale del MiBAC, Roberto Cecchi), 95.000 fra chiese e cappelle, 2.100 aree archeologiche, ecc. Che muovono un terzo di tutto il turismo il quale, da solo, contribuisce al Pil quasi come la tanto esaltata edilizia. Nella crisi in atto, Francia e Germania hanno accresciuto gli investimenti nella cultura considerata motore di creatività e di sviluppo. Da noi il governo li ha assurdamente tagliati: dal 2004 a oggi la spesa del MiBAC è scesa dallo 0,34 (ed era già poco) allo 0,21% del bilancio statale, ultimo posto nella Ue. Al non-governo generale si è sommata la latitanza, anche fisica e quindi decisionale, del ministro Sandro Bondi, tardivamente sostituito. Con una serie di commissariamenti straordinari, egli ha però espropriato le Soprintendenze (dall’Aquila a Pompei, alla Domus Aurea), con crolli, manomissioni e/o paralisi. La dissennata politica di esodi di dirigenti di alta professionalità ha disossato la tutela. Ben 31 Soprintendenze sono gestite “ad interim” da titolari di altre aree. Aggiungeteci la drastica diminuzione di risorse già misere, e avrete un Belpaese ferito e allo stremo. Tornano i turisti stranieri e non ci sono i custodi. C’è un (costoso) direttore generale alla Valorizzazione…
Gli “interim” riguardano otto Soprintendenze ai Beni architettonici. Come volete che possano contrastare abusi edilizi, irregolarità di ogni sorta, quanto erode, ogni giorno, un pezzo del nostro ammirato Paese? Bondi aveva giurato di dar corso ai piani paesaggistici Stato-Regioni. Non ha fatto nulla: con grande sollazzo per gli speculatori e con danno enorme per tutti noi. Poi c’è il grande capitolo dello spettacolo dal vivo, anche questo svenato dal taglio feroce di risorse (dallo Stato ai Comuni costretti a loro volta a ridurre) e dal non-governo. Qui, malgrado un modesto recupero del Fondo Unico per lo Spettacolo, la scure è calata sui teatri lirici più efficienti e più dotati di fondi propri come su quelli immersi in un clientelismo disperante. Senza vero rispetto per i meriti. Il teatro di prosa – che negli ultimi anni aveva incrementato biglietti e spettatori – sta prendendo una autentica mazzata.
E che dire della multimedialità contagiata dalla crisi produttiva, creativa della Rai sempre meno competitiva, avvilita da spartizioni partitiche sempre più al ribasso? Nella sola Roma, anni fa, c’erano oltre 100mila addetti al multimediale. Col non-governo, anche qui la crisi morde, sacrifica nuove professionalità. Una mattanza.
Un abisso di diseguaglianze si è spalancato davanti alla società italiana, negli stessi giorni in cui veniva certificato un drammatico ritorno della povertà, di cui ha scritto su queste pagine, con i toni giusti, Adriano Sofri. La povertà è certo la condizione che più rende visibile la diseguaglianza. Ma quel che sta avvenendo, soprattutto dopo la manovra finanziaria, è una vera e propria costruzione istituzionale della diseguaglianza che investe un´area sempre più vasta di persone, ben al di là di vecchi e nuovi poveri.
La distribuzione dei "sacrifici" è rivelatrice. Uno stillicidio di balzelli che incide su chi può essere più facilmente colpito, che lima i già ristretti margini dei bilanci familiari. Si è calcolato il peso che avranno gli aumenti di imposte, tariffe, prezzi. Peso insostenibile per taluni, quasi non influente per altri. L´effetto complessivo della manovra peserà per il 13,3% sui redditi bassi e per il 5% su quelli più alti. La rappresentazione della spinta istituzionale verso la diseguaglianza non potrebbe essere più netta.
È così tornata, in ambienti insospettabili, la vecchia espressione "macelleria sociale". Ma è una macelleria ben selettiva, vista la cura con la quale si è voluto tenere lontano da alcuni ceti anche un contributo poco più che simbolico al risanamento dei conti pubblici. Rivelatrice è la cinica dichiarazione di un ministro della Repubblica che, di fronte alla proposta di un significativo aumento della tassa per le automobili di maggiore cilindrata, ha esclamato: «Ma quelli votano per noi!». Il suo grido di dolore è stato prontamente raccolto, e la platea dei colpiti da quella misura è stata drasticamente ridotta. Mentre troppi diritti vengono messi in discussione, sembra che il solo al quale si deve continuare a dare piena legittimazione sia quel "diritto al lusso", che fa bella mostra di sé nella pubblicità di alcuni prodotti. Demagogia? O registrazione di una situazione di fatto nella quale si manifestano segni inquietanti di un ritorno della "democrazia censitaria", dove l´accesso anche a diritti fondamentali è sempre più condizionato dalle risorse di cui ciascuno dispone?
Il caso che illustra più direttamente lo stato delle cose è quello dei ticket sanitari, che rivela una doppia diseguaglianza. La prima nasce dal fatto che il ticket di 10 euro per le prestazioni specialistiche, sommato all´eliminazione della franchigia di 36,15 euro, colpisce pesantemente i redditi più bassi, riguarda impiegati, lavoratori, cassintegrati e, malgrado alcune esenzioni, introduce un pesante filtro selettivo che, ovviamente, produce discriminazione. La seconda diseguaglianza nasce dall´appartenenza regionale. Alcune regioni hanno già deciso di non applicare il ticket, scelta possibile solo nelle regioni più ricche. Si dirà che questo è l´effetto della cattiva amministrazione in materia sanitaria di molte regioni. Ma tutto questo produce una distorsione gravissima. Si trasforma l´accesso al diritto alla salute, il "più fondamentale" tra i diritti fondamentali, in una variabile che lo subordina al reddito e all´appartenenza regionale. A una prova così impegnativa, il federalismo "all´italiana" conferma una delle più serie critiche che erano state avanzate, la costruzione di un paese a velocità variabili in materia di diritti, dunque proprio sul terreno dove l´eguaglianza deve essere massima.
Questa progressiva cacciata dei più deboli dall´area dei diritti non consente la considerazione, consolatoria, che così sempre accade per i provvedimenti generali, che hanno effetti diversi a seconda del reddito delle persone. L´ultima manovra, infatti, avviene in una fase in cui la tutela dei diritti è stata già pesantemente ridotta dalla crisi economica, come mostra uno studio dell´Agenzia europea per i diritti fondamentali del dicembre 2010. Il congiungersi di questi diversi fattori sta creando una situazione in cui si mette in discussione "il diritto all´esistenza", e si ricacciano le persone in una condizione che le obbliga alla quotidiana ricerca di una precaria sopravvivenza. Non più "l´esistenza libera e dignitosa", di cui parla l´articolo 36 della Costituzione, ma una esistenza subordinata a una contribuzione diseguale imposta dallo Stato, alle pretese di imprese che svuotano il lavoro di umanità e diritti.
I nostri, infatti, sono i tempi della vita precaria, della sopravvivenza difficile, del lavoro introvabile, delle rinnovate forme di esclusione legate alla condizione d´immigrato, all´etnia. In questo clima, dove massimo dovrebbe essere lo sforzo per produrre quella coesione sociale di cui tanto si parla, si moltiplicano invece i meccanismi di esclusione e di divisione. Poveri e diseguali: questo il nostro destino? La pura logica dei tagli offusca la capacità di progettare, di riflettere ad esempio sulla possibilità di riordinare l´intera materia dei sostegni legati alla disoccupazione per trasformarle in un reddito di base di cittadinanza, come sta accadendo in diversi paesi, mettendo al centro dell´attenzione proprio il diritto all´esistenza come diritto fondamentale della persona (lo ha fatto la Corte costituzionale tedesca).
Tornare a prendere in considerazione l´eguaglianza, la dignità, i diritti fondamentali. Non è un lusso, è la via della saggezza politica in un tempo in cui, altrimenti, i conflitti sociali si trasformano in rifiuto, rivolta. È quel che sta accadendo con la denuncia quotidiana della inaccettabilità dei privilegi di ceti, non solo quello politico, che hanno sempre più legato il loro modo d´essere a una vantaggiosa diseguaglianza. La costruzione oligarchica della società ha trovato la sua base materiale in retribuzioni sproporzionate, in franchigie per concludere qualsiasi affare, in vertiginose crescite della distanza tra i salari dei dipendenti e quelli dei dirigenti (nel caso Fiat è di 1 a 423: non è demagogia, ma informazione, ricordarlo). La questione è al centro delle discussioni di questi giorni, e la ricordo perché, muovendosi con inconsapevolezza, si può dare origine ad un´altra diseguaglianza. Penso, in particolare, a quel particolare costo della politica rappresentato dal finanziamento dei partiti. Innumerevoli vergogne lo hanno accompagnato in questi anni. Ma si torna sulla via maestra cancellandolo? John Rawls, tra i tanti, sottolinea come le risorse pubbliche siano indispensabili per evitare che la politica diventi prigioniera degli interessi privati. Riformiamo profondamente questo strumento, ma evitiamo che l´accesso alla politica sia riservato agli abbienti, per non ricadere nella radicale diseguaglianza della "cittadinanza censitaria".
Appaiono davvero notevoli le dichiarazioni del governatore della Liguria Claudio Burlando (ex ministro dei Trasporti) che ha sostenuto sui media che l’Alta Velocità Torino-Lione non serve a niente e costa carissima, mentre è essenziale la linea Genova-Milano. In realtà, questa è nota come “terzo valico”, per ricordare che ce ne sono già due su quell’asse, assai poco utilizzati, e pubblicamente dichiarato inutile dall’ad delle Ferrovie Mauro Moretti solo pochi anni fa. Come ha fatto a diventare essenziale tutt’a un tratto? L’ex governatrice del Piemonte Bresso e il governatore attuale Cota, insieme all’ex sindaco di Torino Chiamparino e all’attuale Fassino han sempre assicurato che è vero il contrario e che l’AV Torino-Lione è l’opera più utile che si possa fare. Son tutte persone d’onore, ma chi ha ragione?
La disputa ha anche precedenti illustri: sul “Riformista” due anni fa ci fu un vivacissimo dibattito tra il governatore del Veneto e l’assessore campano ai trasporti Cascetta (professore assai noto nel settore dei trasporti) sui meriti relativi dell’AV veneta e di quella Napoli-Bari. E a proposito della linea AV veneta ancora recentemente (Boitani, Il Sole 24 Ore) alcuni “capitani coraggiosi” di quella regione si offrirono di costruirla a loro spese, certo purché fosse garantito un adeguato ritorno ai loro investimenti (senza precisare da chi ma, chissà perché, sospettiamo che pensassero allo Stato).
Come spiegare questa imbarazzante e “bipartisan” perdita del senso del ridicolo? La motivazione potrebbe essere semplice: si tratta di opere di dubbia utilità, tanto che se gli utenti dovessero pagare con le tariffe una parte non simbolica dei costi di investimento, si scioglierebbero come neve al sole ben prima di essere cementate. Allora devono essere interamente finanziate dalle casse pubbliche, e si tratta di cifre rilevantissime: accaparrarsi una bella fetta dei pochi soldi pubblici in palio fa gola a tutti. Dulcis in fundo, la concorrenza funziona pochissimo in questo settore, per cui una quota consistente dei sub appalti finisce ad imprese locali, che spesso poi manifestano gratitudine ai decisori politici di riferimento (anche in modo lecito, si intende). La funzionalità dell’opera non è davvero in cima all’agenda dei decisori, che nella più parte dei casi inaugureranno i cantieri, ma non ne vedranno la conclusione, essendo i tempi di realizzazione mediamente nell’ordine dei dieci anni. Queste opere tuttavia potranno collegarci ad Alta Velocità ad un importante paese europeo: la Grecia, dove le spese infrastrutturali per le Olimpiadi hanno contribuito non poco allo sfascio dei conti pubblici.