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La Cgil lacerata sui «sei punti»

di Antonio Sciotto 


All'incontro di giovedì con il governo imprese e sindacati si sono presentati con una proposta comune per superare la crisi Malcontento tra le categorie e nella stessa maggioranza per il testo presentato al governo insieme alla Confindustria-Fronti opposti sulle privatizzazioni, la tassa patrimoniale, il pubblico impiego. «Tornare al Direttivo»

Si accende lo scontro dentro la Cgil sul documento in 6 punti presentato al governo, firmato due giorni fa dalla segretaria generale Susanna Camusso con la Confindustria, ma sgradito a una parte della confederazione. In particolare, vengono criticati i passaggi sulle privatizzazioni (che comunque la segretaria ha già ribadito di non condividere), sull'aumento della produttività della pubblica amministrazione (soprattutto a fronte di un governo che ha congelato salari e integrativi), e si contesta un deficit di democrazia, non essendo passata la decisione al vaglio del Direttivo. Dall'altro lato, chi sostiene la linea Camusso, spiega che «il momento è grave, l'Italia rischia il default, e si deve dimostrare senso di responsabilità».

«Il documento è inaccettabile - dice Gianni Rinaldini, dell'area di minoranza «La Cgil che vogliamo» - Così come è inaudito che la Marcegaglia possa presentare delle proposte anche a nome e per conto dei sindacati: un'umiliazione della Cgil». «Privatizzazioni, liberalizzazioni, modernizzazione del welfare, rendere strutturale la detassazione e la decontribuzione dei premi di risultato aziendali senza nulla dire sulla tassazione del lavoro dipendente e degli aumenti retributivi dei contratti nazionali, esprimono una idea, una esplicita volontà punitiva sui più deboli», prosegue Rinaldini, che chiede ora a Camusso di «sospendere gli incontri e convocare gli organismi dirigenti». «Bisogna smetterla di trattare la Cgil - conclude - come se fosse proprietà esclusiva di 2 o 3 dirigenti».

Dalla Fiom, dal suo leader Maurizio Landini, per ora non vengono dichiarazioni esplicite: ma si sa che i metalmeccanici Cgil sono parte integrante della minoranza (tre quarti di loro votò la mozione Rinaldini al Congresso), e non si fa fatica a immaginare che siano contrari al documento. Un netto «no» arriva da un'altra categoria, quella di scuola, ricerca e università, la Flc: lo declina il segretario Mimmo Pantaleo nell'intervista che pubblichiamo in queste pagine.

Molto articolate anche le critiche di Nicola Nicolosi, segretario confederale della Cgil e coordinatore di «Lavoro e società», che dopo aver sempre difeso, dal passato Congresso, le posizioni di Susanna Camusso, adesso si smarca: «Il documento non mi vede d'accordo - spiega in una lunga nota - Altro che bilancio pubblico: il problema dell'Italia è quello di una crescita che non permette il pagamento o la sostenibilità del debito. Se poi anticipassimo le misure fiscali previste in manovra, con l'assurda richiesta di "costituzionalizzare" il pareggio di bilancio pubblico, l'Italia cadrebbe dalla recessione alla depressione». «I contenuti delle proposte delle parti sociali sono l'esatto contrario di quello che servirebbe al paese - conclude Nicolosi - Il parlamento europeo ha proposto una tobin tax, la Cgil da parte sua la patrimoniale. Questo è il programma della Cgil, di cui non c'è traccia in quei 6 punti».

Intanto nei giorni scorsi si era espressa contro una nuova concertazione «tutta ai danni di lavoratori, giovani e pensionati», anche Carla Cantone, segretaria dello Spi Cgil, i pensionati: «È vero che nei momenti molto delicati ci vuole un grande senso di responsabilità, e la Cgil nella sua storia non si è mai sottratta - ha detto Cantone - Ora però basta: non si possono chiedere più sacrifici alle categorie che rappresentiamo senza parlare di equità. Neanche se a chiedercelo sono le opposizioni o la Confindustria».

Posizioni di contrarietà cominciano a emergere anche nei territori: Antonio Mattioli, segretario della Cgil dell'Emilia Romagna, è molto critico rispetto al documento delle parti sociali: «Ci infiliamo in un confronto diventato urgente per altri, per la Cgil lo era sin dallo sciopero generale del 6 maggio, senza sottolineare le nostre priorità: la patrimoniale, la restituzione del fiscal drag, una riforma del pubblico impiego che sblocchi la contrattazione, una riforma della scuola e della ricerca contro le politiche depressive del governo, una lotta alla piaga della precarietà. Si doveva convocare il Direttivo e assumere le nostre priorità a partire dalla piattaforma dello sciopero del 6 maggio e dal giudizio espresso il 5 luglio sulla manovra».

Ieri la segretaria Susanna Camusso ha difeso la sua firma al documento in una intervista a Repubblica, dove chiede le dimissioni del presidente del consiglio e dice no a un anticipo della manovra, «perché è sbagliata e iniqua». Inoltre, Camusso ribadisce la contrarietà alle privatizzazioni, nonostante esse siano contenute tra i 6 punti.

Sostiene questa posizione, tra i segretari di categoria, Stefania Crogi, leader della Flai (agroindustriali): «Io condivido in pieno quel documento - ci spiega - perché dobbiamo capire che l'Italia è in un momento delicatissimo, rischiamo il default, da poco si è espresso anche il presidente della Repubblica Napolitano: a chi chiedeva un Direttivo, dico di guardare all'urgenza del momento, a come sta messo il paese». «Sulle privatizzazioni - dice Crogi - mi pare che Camusso abbia chiarito, nell'intervista a Repubblica, che fanno male: d'altra parte tutti hanno visto il nostro impegno negli ultimi referendum. Anche sulla patrimoniale, dico che resta tra le nostre priorità, seppure non sia stato scritto esplicitamente nel documento: quando si parla di reperire risorse per un'equa tassazione del lavoro, per noi significa tassare i più ricchi. È importante in un momento come questo tenere l'unità sindacale e tra tutte le parti sociali, mentre al governo e al premier chiediamo di andarsene, per tornare a votare».


Mimmo Pantaleo/ Il segretario della FLc contesta la firma

intervistadi Loris Campetti



«Metodo e contenuti sbagliati. Il testo comune va in direzione opposta alla nostra linea» 
«Tutti insieme per fare che? La Cgil deve battersi in difesa dei beni comuni e del welfare, per la redistribuzione della ricchezza attraverso l'imposta patrimoniale»

Mimmo Pantaleo è segretario generale della Federazione lavoratori della conoscenza (Flc) della Cgil, prima mozione congressuale, quella maggioritaria che ha espresso Susanna Camusso. La sua appartenenza non gli impedisce di esprimersi liberamente sull'alleanza tra le «parti sociali»: Confindustria, confederazioni sindacali, rappresentanze del sistema bancario, agricolo, cooperativo, artigianale. Pantaleo non lesina critiche e mette a nudo i contenuti «inaccettabili» del documento presentato al governo Berlusconi e firmato anche da Susanna Camusso. E critica il metodo che ha portato a qesta decisione.

Pantaleo, è cambiata la linea della Cgil?

Io sto ai contenuti. Nel direttivo nazionale si è deciso di dare una battaglia dura contro la finanziaria Tremonti-Berlusconi che provoca un massacro sociale e si sono fissati i punti fondamentali della Cgil per dare una risposta alternativa alla crisi: patrimoniale per far pagare ai ricchi i costi della crisi; difesa dei beni comuni e del welfare; investimenti nella ricerca e nella conoscenza; difesa dei redditi da lavoro dipendente e da pensioni con un riequilibrio nella distribuzione della ricchezza; aumento della tassazione delle rendite finanziarie. Nel documento presentato dalla Marcegaglia leggo l'opposto, vedo una filosofia e delle scelte concrete che vanno in tutt'altra direzione. Lo sappiamo tutti che in una situazione d'emergenza, alle prese con un governo incapace e dannoso, vanno costruite proposte e iniziative, ma certo non sottoscrivendo impegni contrari alle posizioni della Cgil.

Come è maturata la scelta della Camusso?

Posso solo risponderti che io sono abituato alla scuola della Cgil che prevede grandi discussioni nei gruppi dirigenti per costruire le scelte importanti. Di questa cultura non ho visto traccia nel percorso che ha portato al patto tra le parti sociali e al documento comune. Alla ripresa di settembre il direttivo dovrà finalmente discuterne.

E nel merito del patto e del documento?

Non credo che esistano le condizioni per un patto sociale con Confindustria e banche, non c'è condivisione nelle strategie tra gli interlocutori. Coloro con cui abbiamo firmato il documento vogliono privatizzazioni, controriforme del mercato del lavoro e delle relazioni sindacali, liquidazione dello Statuto dei lavoratori. In quale dispositivo della Cgil sta scritto che noi siamo d'accordo? Non hanno certo il lavoro in mente i nostri cofirmatari. Noi, al contrario, dovremmo mettere in campo una forte mobilitazione per una nuova idea di crescita e sviluppo. Non serve adorare il totem della crescita, bisogna parlare di qualità e compatibilità della crescita. Vorrei aggiungere che quanto nel documento «comune» si esalta l'impegno di banche e imprese, noi dovremmo replicare che la drammaticità della crisi italiana è anche il prodotto delle scelte di banche e imprese.

All'inizio si era detto che l'accordo delle parti sociali era finalizzato a determinare una discontinuità di governo. Adesso sono rimasti in pochi a dire che Berlusconi se ne deve andare.

Che un presidente arrogante e un governo disastroso debbano andarsene per aprire la strada a nuove elezioni siamo tutti d'accordo in Cgil. Governi di transizione o governissimi sarebbero in continuità con Berlusconi. Per la Cgil l'alternativa, credo, è nei contenuti e il primo è far pagare la crisi e il risanamento ai ricchi. Con le operazioni politiciste non si va da nessuna parte. La gente chiede un cambiamento vero. Lo chiede a noi, e lo chiede soprattutto alla politica, all'opposizione.

La Cgil ha firmato un mese fa un accordo con Cisl, Uil e Confindustria che va nella stessa direzione del patto sociale...

Sinceramente non vedo questa continuità. Con tutti i suoi limiti, l'accordo sul sistema contrattuale e la rappresentanza, discutibile quanto vogliamo, ha una valenza sindacale. Io per esempio penso che i lavoratori debbano poter votare sempre sugli accordi che li riguardino. Ora, invece, vedo una valenza puramente politica, di cattiva politica nel patto e nel documento delle parti sociali. Tutti insieme per fare che? Ridurre lo stato sociale? Privatizzare i beni comuni? Parliamo di cose serie, e siccome siamo la Cgil parliamo di occupazione, lotta al precariato, diritti, salari, Mezzogiorno.

Sabato scorso, durante la manifestazione svoltasi a Gerusalemme, mi sono guardato intorno e ho visto nelle strade un fiume di gente. Migliaia di persone che da anni non facevano sentire la propria voce. Che, chiuse nei loro problemi e nella loro disperazione, avevano perso ogni speranza di un cambiamento.

Non è stato facile per loro unirsi alle urla ritmate dei giovani coi megafoni. Forse, non essendo abituate ad alzare la voce, si sono sentite imbarazzate, timorose di gridare. E in coro per di più. A tratti avevo l´impressione che ci guardassimo stupiti, perplessi e un po´ increduli di ciò che ci usciva di bocca: eravamo davvero una "folla" rabbiosa che agita i pugni come nelle manifestazioni in Tunisia, in Egitto, in Siria, in Grecia? Volevamo essere una folla come quella? Avevamo intenzioni serie quando gridavamo a ritmo cadenzato "ri-vo-lu-zio-ne!"? E che accadrà se avremo "troppo successo"? Se i cerchi che tengono insieme questo fragile Paese si spezzeranno? Se le contestazioni e l´impeto si trasformeranno in anarchia?

Ma dopo qualche passo è successo qualcosa, qualcosa che è entrato nel sangue. Il ritmo, lo slancio, l´essere insieme. Non un "insieme" minaccioso e senza volto ma un insieme multiforme, sfaccettato, confuso, famigliare, pervaso da un forte senso di "ecco, stiamo facendo la cosa giusta, finalmente stiamo facendo la cosa giusta". E a quel punto è affiorato lo stupore: dove siamo stati finora? Come abbiamo potuto lasciare che tutto questo accadesse? Accettare che i governi da noi eletti trasformassero la nostra salute e l´istruzione dei nostri figli in un lusso?

Non levare un grido quando i funzionari del ministero del Tesoro schiacciavano la protesta degli assistenti sociali e ancor prima quella dei disabili, dei sopravvissuti alla Shoah, degli anziani, dei pensionati? Come abbiamo potuto, per anni, condannare i bisognosi e gli affamati a una vita di umiliazione e delegare la loro assistenza alle mense dei poveri, agli enti di carità? Come abbiamo potuto abbandonare i lavoratori stranieri alle angherie di oppressori e persecutori, di mercanti di schiavi e di donne? Come abbiamo potuto rassegnarci a una prepotente politica di privatizzazione che ha sgretolato tutto ciò che avevamo caro: la solidarietà, la responsabilità e l´assistenza reciproca, la sensazione di appartenere a un solo popolo? I motivi di questa indifferenza sono molti, si sa, ma a mio parere ciò che ha sconvolto più di ogni altra cosa i sistemi di controllo e di allerta della società israeliana è stata la profonda spaccatura generata dall´occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Occupazione che ha fatto affiorare i lati negativi e malati della nostra società e noi, forse per paura di affrontare ad occhi aperti la realtà, ci siamo abbandonati con entusiasmo a ogni genere di narcotizzanti e di anestetizzanti. A volte guardavamo in faccia la realtà. A qualcuno piaceva molto, altri ne erano inorriditi e disgustati. Ma anche questi dicevano sospirando: le cose stanno così. Quasi questa fosse una situazione ineluttabile, un castigo divino. E oltretutto abbiamo permesso alle televisioni commerciali di riempire il vuoto della coscienza collettiva descrivendoci in termini di predatori in lotta per la sopravvivenza che si accaniscono gli uni contro gli altri disprezzando i deboli, i diversi, i "brutti", gli "stupidi", i "poveri". Da tanti anni ormai abbiamo smesso di dialogare, e sicuramente di ascoltare. Come sarebbe infatti possibile in questo clima di "arraffa più che puoi" non aggredirci a vicenda, razziare? In fin dei conti è quello che ci dicono di fare in tutti i modi possibili: ognuno per sé.

E più queste incessanti schermaglie ci indebolivano più era facile controllarci, manipolarci, stordirci, vittime di un occulto ed efficace "divide et impera". E così, per i detentori del capitale, del potere e degli organi di stampa, l´occuparsi di questioni cruciali si trasformava in uno scontro tra "chi ama il Paese e chi lo odia", "chi gli è fedele e chi lo tradisce", "chi è un buon ebreo e chi ha dimenticato di esserlo". Ogni dibattito razionale finiva immerso in uno sciroppo di sentimentalismo, di patriottismo e di nazionalismo kitsch, di ipocrita virtuosità e di vittimismo. Un poco alla volta ci è stata preclusa la possibilità di criticare lucidamente ciò che stava accadendo. Israele si è ritrovato a mantenere verso i propri cittadini un atteggiamento totalmente in contrasto con i suoi valori e ideali di un tempo.

Ma ecco che, improvvisamente e contrariamente a ogni previsione, è accaduto qualcosa. La gente si è svegliata, si è aperta a un´iniziativa che ancora non si sa dove ci porterà, che non è ancora del tutto comprensibile o descrivibile a parole ma che si chiarisce e prende forma leggendo gli slogan che, usciti d´un tratto dal guscio dei cliché, si trasformano in sentimenti vivi: "Il popolo vuole giustizia sociale, non carità!", e altre frasi e formule di epoche passate. A tratti, nell´aria, si avvertono i segnali di una possibile guarigione, di una rettifica, e torna qualcosa di dimenticato: il rispetto per noi stessi. Per il singolo e per tutto Israele.

C´è una forza enorme, un po´ illusoria e inebriante, in questo risveglio. Sarebbe allettante farsi trascinare dall´euforia (e da una sensazione di rinnovata gioventù). Sarebbe facile cadere nell´illusione che stiamo di nuovo distruggendo il vecchio mondo. Ma le cose non stanno esattamente così. Il vecchio mondo non è del tutto da buttar via. Ha ottenuto anche dei buoni risultati, soprattutto nel mantenere la stabilità economica mentre altre nazioni collassavano. Risultati che, peraltro, permettono ora al movimento di protesta di manifestare liberamente le proprie aspirazioni nonché di realizzarne qualcuna. Per questo l´attuale lotta deve esprimersi in un linguaggio totalmente diverso da quello delle precedenti. Più di ogni altra cosa deve basarsi sul dialogo, accomunare e non dividere, incentrarsi sui princîpi, non su opportunismi e consorterie. Solo così l´attuale iniziativa potrà mantenere il grande sostegno pubblico che ha avuto finora. Proprio la genericità del movimento di protesta permette a ogni gruppo che ne fa parte di mantenere le proprie idee politiche e convinzioni, contrarie le une alle altre, eppure – per la prima volta in decenni – di promuovere anche una piattaforma comune, civile e umana, e persino provare orgoglio di appartenere a questa comunità. Chi in Israele potrebbe permettersi di rinunciare a risorse enormi come queste?

L´attuale movimento di protesta e la sua onda d´urto propongono un possibile dialogo tra chi, da decenni, non si parla più. Tra classi sociali diverse e distanti, tra religiosi e laici, tra arabi ed ebrei. In questo processo di possibile identificazione comune potrebbe svilupparsi un dialogo più realista ed empatico tra la destra e la sinistra, per esempio riguardo all´indifferenza della sinistra verso gli evacuati dalla striscia di Gaza. Un dialogo che potrebbe anche salvare qualcosa del senso di solidarietà reciproca al quale un paese come il nostro non può permettersi di rinunciare.

È facile criticare e dubitare di un movimento giovane. In genere è sempre più facile trovare ragioni per non agire in maniera ferma e coraggiosa. Ma chiunque presti ascolto alle aspirazioni recondite dei manifestanti, capirà che forse si sta aprendo una finestra su un futuro diverso. Forse a questo si riferiva una ragazza che durante il corteo di Gerusalemme mi ha detto: «Guardi, la dirigenza è ancora vuota di contenuto, come lei ha detto nel suo discorso in Piazza Rabin nel 2006, ma il popolo non lo è».

Traduzione di Alessandra Shomroni

La politica oggi è fatta di immagine, dichiarazioni, slogan, e va bene così.

Infatti quando si è scarsini su quel fronte, nonostante risultati molto tangibili e concreti, il consenso latita, i voti se ne vanno altrove, la gente mormora anche se non ne avrebbe alcun motivo. Giusto. Partecipazione e trasparenza vuol dire poter capire al volo cosa succede anche senza essere esperti, e uno slogan, una immagine, funzionano. Però anche, non invece.

Prendiamo una piccola, piccolissima cosa, che poi non è affatto piccolissima a guardarla bene, ovvero la faccenda delle biciclette.

La giunta comunale milanese uscente e (per fortuna) uscita, durante la campagna elettorale aveva puntato anche su una propria strategia (se vogliamo chiamarla così) sulla mobilità ciclabile. Non solo il modaiolo bike-sharing, ma anche le nuove piste, inserite in quello che sindaco Moratti e garrulo assessore Masseroli declinavano come nuovo modello di spazio urbano condiviso: tutte le strade alle auto, e pedoni e ciclisti a farsi la guerra tra poveri nelle striscioline residue. Si facevano anche fotografare mentre pitturavano sinistre sagome gialle per terra. Beh: sappiamo come è andata a finire, ovvero che i cittadini badano all'immagine, ma pure alla sostanza, e li hanno bocciati.

Adesso comanda il socialismo, ogni mattina sorge il sole dell’avvenire dalle guglie del Duomo, e coi primi cento duecento e qualcosa giorni si capisce che davvero tutto è cambiato. Ad esempio col gesto drastico di sollevare dall’incarico ai vertici dell'Azienda Trasporti il potente Elio Catania, troppo esoso e troppo partigiano. Appunto la politica è fatta anche di dichiarazioni e di immagini: ma il prossimo signor o signora X che si siederà sulla poltrona ex Catania, che ci starà a fare oltre a prendere meno stipendio e non fare propaganda per l’opposizione? Forse c’è una piccolissima cosa che – fra le migliaia di altre – potrebbe fare. Ed è lasciare che qualcuno dei suoi sottoposti di prima, seconda, terza fila, porti avanti l’idea di far salire le bici sui mezzi pubblici. Suona poco strategico? Marginale? O peggio lobbistico, cose che riguardano una esigua minoranza che pretende troppo?

Non è affatto così. Si verifica in tutte le città del mondo come qualunque intervento, per quanto minuscolo, a migliorare infrastrutture e organizzazione della mobilità dolce, porti a una crescita sproporzionata degli utenti, segno che esiste una forte, fortissima domanda latente. E del resto il solo fatto che a Milano qualcuno si sposti in bicicletta per studio e lavoro è un chiarissimo segno di questa potenzialità. C’è però – lo sottolineano prima o poi tutti – il guaio della enorme discontinuità di percorsi, che non deriva semplicemente dall’assenza di piste dedicate, ma da altri ostacoli, di attraversamento, dislivelli, interferenza anche pericolosa con altro traffico ecc. Naturalmente si tratta di difficoltà gestibili con un po’ di impegno su percorsi relativamente brevi, ma che si moltiplicano all’infinito con l’allungarsi del tragitto. Ma se si potesse salire sul tram? Pagando quei cinquanta centesimi in più che fra mille polemiche sulla mazzata ai ceti deboli sono stati comunque imposti?

Sicuramente esiste un motivo “tecnico” per cui se cerco di portarmi sul tram, o sulla metropolitana, la bici, un gentile funzionario mi sbatte fuori, manco fossi Rosa Parks negli Usa segregazionisti anni ’50. Ma un ostacolo tecnico è per sua natura risolvibile, e questo magari neanche tanto difficile, per i dirigenti e responsabili che sostituiranno la gestione Catania. Nella sua lettera al manifesto (la riporto sotto) del 31 luglio spiega correttamente che l’aumento del prezzo del biglietto è una scelta resa obbligata dagli strascichi dell’amministrazione precedente e dal contesto economico nazionale. Fin qui nulla da eccepire. Poi aggiunge anche che in termini di mobilità ciclabile si lavorerà su bike-sharing e piste. Anche qui, scelte giuste, e però. Però da un lato sembrano una specie di scelta business as usual, e dall’altro paiono pure settoriali. A Parigi col Velib si effettuano il 2-3% degli spostamenti, a Copenhagen in bici si muove il 40%, una bella differenza, no? Che deriva anche dall’affrontare la questione in termini di sistema: si integra DAVVERO tutto ciò che non è mobilità automobilistica.

A partire esattamente dalla correzione dell’errore, del peccato originale di cultura segregazionista spaziale: qui i vasi non comunicanti della ferrovia veloce, qui quelli delle corsie automobilistiche, qui i sottopassi pedonali, lì le passerelle ciclabili … una enorme serie di infiniti insostenibili investimenti in opere che alla fine producono apartheid, insicurezza, costi di manutenzione, sacche di estraneità relativa e rispetto al tessuto dei quartieri. E invece, oltre a subire i danni dell’amministrazione Moratti, ci si potrebbe appropriare di una sua eredità, ovvero l’idea degli spazi condivisi, certo stavolta non declinata a scopi ideologici ed elettorali. Sindaco e garrulo assessore invitavano pedoni e ciclisti a adattarsi alle strisce residue ai margini della carreggiata dedicata alle onnipresenti automobili. Oggi si potrebbe iniziare a concepire una rete viva di mobilità integrata che si autoalimenta attraverso gli utenti, e via via in parallelo restringe gli spazi fisici e di legittimità del veicolo privato. A partire dall’accesso dei ciclisti ai mezzi pubblici anche nei giorni lavorativi. Anche questa a modo suo è una forma di rivendicazione di diritti di cittadinanza. In altre parole, attacchiamoci al tram, visto che ce l’hanno lasciato!

Il manifesto, 31 luglio 2011

L’aumento del tram è targato Moratti

di Giuliano Pisapia

A proposito dell’articolo «Pisapia azzera i vertici dell’Atm ma aumenta il biglietto del tram», sono costretto a fare alcune precisazioni. Credo non vi possano essere dubbi sul fatto che la giunta di Milano avrebbe ben volentieri fatto a meno di aumentare il prezzo del biglietto del tram e di introdurre l’addizionale Irpef. Purtroppo, però, l’aumento del biglietto era già previsto nel bilancio della giunta Moratti ed era imposto da una legge regionale. Inoltre l’introduzione dell’addizionale Irpef era di fatto obbligatoria per far fronte a una voragine nei conti ereditata dalla giunta Moratti e dalla manovra di governo.

Se non fossimo intervenuti su un bilancio disastrato, saremmo stati costretti a un drastico taglio dei servizi e a fine anno, non rispettando il patto di stabilità, sarebbero scattati gli ulteriori tagli previsti anche dall’ultima manovra del governo Berlusconi (circa 500 milioni di Euro in meno Milano). L’addizionale introdotta aMilano è comunque la più bassa d’Italia e il numero degli esenti è il più alto (circa 2/3 dei milanesi, quelli con minor reddito, non pagheranno). Inoltre nel provvedimento che sarà approvato dal Consiglio comunale la prossima settimana sono previste specifiche agevolazioni fiscali per anziani e disabili.

Per quanto concerne il costo del biglietto, anche al fine di incentivare l’uso dei mezzi pubblici, abbiamo escluso da ogni aumento gli abbonamenti (utilizzati per lo più dai lavoratori e dagli studenti); abbiamo previsto tariffe privilegiate per i giovani sotto i 26 anni e reso gratuito l’utilizzo dei mezzi agli over 65 anni sotto un determinato reddito. E’ stato previsto anche uno stanziamento per l’uso gratuito dei mezzi pubblici a disoccupati e cassintegrati. Contemporaneamente abbiamo iniziato il contrasto all’evasione e all’elusione fiscale e stiamo operando per un miglioramento del servizio pubblico e per un rafforzamento delle piste ciclabili e del bike-sharing.

Sono questi alcuni dei motivi per cui non comprendo il senso di quanto dichiarato dal segretario della Camera del Lavoro e cioè che altre erano le scelte da fare, quale quella «di introdurre una tassa sui grandi patrimoni» e di far pagare di più chi ha un reddito più alto. Parole del tutto condivisibili e per le quali mi sono battuto anche in Parlamento, ma che dovevano essere rivolte al Governo e non certo al Comune di Milano, visto che solo il Governo può imporre la cosiddetta «patrimoniale» o modificare gli attuali scaglioni dell’Irpef. Ecco perché sarebbe più utile per tutti, se si vuol dare una contributo «di sinistra» - soprattutto in presenza di una giunta che governa da meno di due mesi dopo 18 anni di sindaci della Lega o del Pdl - che le critiche, del tutto legittime, fossero accompagnate da indicazioni alternative realizzabili e non da «proposte» la cui realizzazione o è impossibile o dipende da altri.

Per invertire rotta l'Ue dovrebbe "sterilizzare" buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia potrebbero essere travolte, come nel bowling, dalla caduta del birillo greco

Il "contagio greco" non esiste. La Grecia non è che il primo di molti birilli presi di mira nel gioco del bowling che tiene impegnata la finanza internazionale. Che le finanze greche possano salvarsi ormai non lo crede più quasi nessuno. Il gioco è solo quello di tirare per le lunghe perché non si intravvedono misure in grado di raddrizzare la situazione. Portogallo, Spagna, Irlanda o Italia potrebbero essere travolte, proprio come nel gioco del bowling, dalla caduta del birillo greco; ma ciascuno di questi paesi potrebbero anche essere il primo a cadere; ed essere lui, poi, a travolgere tutti gli altri. È l'intera costruzione dell'Unione Europea che rischia il collasso. E al centro di questa evenienza c'è l'euro. L'idea che si possa espellere dall'euro, uno a uno, i corpi infetti non sta in piedi. Intanto, anche da un punto di vista materiale, è un'operazione assai difficile; senza procedure; e tanto più rischiosa se attuata non secondo un piano cadenzato, ma sotto l'incalzare della speculazione. L'euro ha privato i governi degli Stati membri di due degli strumenti tradizionali delle politiche economiche: la svalutazione e l'inflazione controllata (attraverso l'emissione di nuova moneta). Il terzo, la fissazione del tasso di interesse, non la fanno più né gli Stati membri né la Bce. Chi la accusa di immobilismo non tiene conto che nel contesto attuale tassi di sconto più bassi fornirebbero denaro più facile non all'investimento produttivo, ma alla speculazione. Ma il fatto è che da tempo l'indebitamento degli Stati membri ha consegnato la fissazione dei tassi di interesse - vedere per credere - ai cosiddetti "mercati", a cui i governi di tutto il mondo si sono assoggettati. Una condizione di subalternità che per alcuni decenni è stata "prerogativa" dei paesi del cosiddetto "Terzo mondo", strangolati dal Fondo monetario internazionale; ma che la globalizzazione sta ora estendendo a tutti i paesi del pianeta. Per invertire rotta l'Unione europea dovrebbe probabilmente assumere - e "sterilizzare" - buona parte dei debiti degli Stati membri: un default continentale, che certo sarebbe preferibile alla caduta in ordine sparso dei singoli Stati. In entrambi i casi, con i tempi che corrono, a rimetterci saranno tutti: economie "forti" comprese.

Ma che cosa ha ridotto governi e partiti a competere tra loro facendo a gara a chi è più adatto o capace di soddisfare o tacitare i "mercati"? E che cosa sono mai questi "mercati", ai quali è stata trasferita quella "sovranità", cioè il governo della vita di milioni di persone, che le Costituzioni di tutti gli Stati democratici assegnano al popolo? Sono la finanza internazionale, la forma più compiuta, astratta e "delocalizzata" del capitale. Dietro il quale ci sono però grandi patrimoni privati - si chiamino hedge fund, private equity o fondi di investimento - che sono cresciuti grazie a un gigantesco trasferimento di ricchezze (mediamente, il 10 per cento del Pil di quasi tutti i paesi; il che, per un salario, può però voler dire il 30-40 o anche il 50 per cento del potere d'acquisto) dai redditi da lavoro a quelli da capitale. Poi ci sono le grandi banche, a cui la deregolamentazione degli ultimi venti anni ha permesso di investire, ma anche di speculare, con il denaro dei depositanti. Al terzo posto vengono le grandi multinazionali (petrolio, grande distribuzione, costruzioni, alimentare, farmaceutica, ecc.) che "integrano" i profitti delle attività estrattive o manifatturiere operando in borsa con le proprie tesorerie.

Ma i soggetti più forti dei cosiddetti "mercati" sono assicurazioni e fondi pensione - in Italia, questi ultimi, alle prime armi; ma all'estero da tempo padroni di immense risorse - che per garantire alti rendimenti ai loro investimenti non esitano a strangolare imprese e gettare sul lastrico quei lavoratori che hanno affidato loro il denaro con cui affrontare la propria vecchiaia. Tanto che in borsa le quotazioni di un'impresa spesso salgono quando aumentano i cosiddetti "esuberi". È il capitalismo diffuso - o "popolare" - bellezza!

Ma se l'euro - così come è stato fatto, perché l'idea non era male - sta travolgendo l'Unione Europea, a mettere alle corde l'intero pianeta, Europa compresa, è stata la diffusione pressoché universale del "pensiero unico", cioè del liberismo: l'idea che il mercato, o i mercati, debbano governare il mondo e siano la soluzione migliore per rispondere alle esigenze di chiunque. Si tratta di una rappresentazione talmente lontana e diversa dalla realtà della vita quotidiana della gente da renderne impraticabili tanto la comprensione che il governo. Per tutti; anche per coloro - molti o pochi - che se ne avvantaggiano; o per coloro - pochi o molti - che sanno benissimo trattarsi di una favola per allocchi. Per queste sue caratteristiche il liberismo rappresenta oggi la forma più compiuta e diffusa di travisamento della realtà e la presa che da tempo esercita sul pensiero e gli orientamenti di governanti e governati di tutto il mondo è rappresentabile solo come una vera e propria "dittatura dell'ignoranza". Da questo punto di vista il berlusconismo e le sue propaggini ormai estese a tutti gli anfratti del mondo politico e culturale italiano non sono che un caso particolare - più evidente e pronunciato in Italia - di un fenomeno che caratterizza a livello mondiale l'intera epoca in cui viviamo. Con effetti tragici e paradossali, ma proprio per questo rivelatori. Prendete per esempio il capofila di quel circo Barnum che sono i corsivisti del Corriere della Sera (Massimo Mucchetti escluso): dopo averci assicurato che il fallimento della banca Lehman Brothers era un evento salutare, e poi che la crisi mondiale era agli sgoccioli, o che la Gelmini aveva fatto una grande riforma, e infine che la manovra di Tremonti aveva messo al sicuro il bilancio dello Stato, ora - 2 luglio 2011 - Francesco Giavazzi affida all'"intuizione" del Berlusconi imprenditore (avete letto bene: "intuizione": e dopo vent'anni di regime tutti sanno di che cosa si parla: truffe e panzane) il compito di risollevare le sorti del paese. Come approdo finale della dottrina economica liberista, di cui Giavazzi è un alfiere, non c'è male.

Il fatto è che, vista la situazione di impotenza in cui il pensiero unico e le "intuizioni" di Berlusconi ci hanno cacciato, le ricette per tirarsene fuori scarseggiano. Anzi, sono una sola, e si chiama "crescita"; che, scendendo alla sua declinazione pratica, vuol dire privatizzazioni (in barba ai risultati del referendum), liberalizzazioni (come se l'Italia non fosse il paese che offre - alle imprese - le maggiori libertà del mondo: vedi l'imprenditoria di mafia e camorra o, per scendere sul "legale", i metodi di Sergio Marchionne), taglio della spesa pubblica (come se l'Italia non avesse le spese per scuola, ricerca, sanità, famiglia e disoccupazione più basse d'Europa); e poi, lavorare di più (copyright di Giuliano Amato: non lavorare tutti, ma fare lavorare di più chi già lavora); per finire con le Grandi opere (Tav, Ponte, autostrade, gassificatori ed expò: investimenti inutili, devastanti, costosi e senza prospettive di "rientro"). Così la nostalgia di una crescita che non c'è e non tornerà più si consuma nell'invidia per la Germania, come se i successi dell'economia tedesca non fossero indissolubilmente legati ai disastri dei paesi dell'Unione più deboli: quelli verso cui si dirige, senza reciprocità, metà delle sue esportazioni (l'altra metà va in Usa e in Cina: due paesi che non godono più, ma che soprattutto non godranno più nei prossimi anni, dei successi che li hanno resi potenti e arroganti).

Purtroppo la dittatura dell'ignoranza e del pensiero unico - l'idea che a governare il mondo siano e debbano essere i "mercati" - non si arresta sulla soglia del Corriere né su quella dei partiti di maggioranza e di opposizione. Ha pervaso, e da tempo, tutta la società e, in qualche misura, ciascuno di noi. Persino per difendere una bella trasmissione come Vieni via con me, non ci si è appellati alla qualità intrinseca dei suoi contenuti, e nemmeno agli ascolti - che pure in qualche modo sono legati, e viziati, dal mezzo su cui transitano - ma alla pubblicità che il programma poteva raccogliere e far incassare alla Rai. Come dire: è il mercato - della pubblicità - che decide del valore di un'opera. Di fatto la delega al mercato - l'idea che spetti ai mercati il governo del mondo e della nostra vita quotidiana - ci ha resi tutti in qualche misura impotenti e imbelli: incapaci, e a volte anche restii, ad autogovernarci e a rivendicare il potere e il diritto di farlo.

Una grande battaglia è stata vinta con i referendum, soprattutto se pensiamo alla scarsità - e all'oscuramento - delle forze che lo hanno promosso. Ma adesso, per raccoglierne i frutti, bisogna mettersi in grado di "governare dal basso", con la forza dell'iniziativa, dei saperi diffusi e della solidarietà, i "beni comuni" che i Sì hanno sottratto all'obbligo della privatizzazione: non solo il servizio idrico integrato, ma tutti i servizi pubblici locali disciplinati dall'art. 23 bis ora abrogato: trasporto e mobilità urbana, gestione dei rifiuti, distribuzione e generazione di energia, mercato ortofrutticolo, mense e molte altre cose ancora. Per farlo bisogna attrezzarsi; e non è una cosa facile. Ma è solo in una crescita di una cittadinanza attiva impegnata nella costruzione di queste nuove forme di gestione, né privata né "pubblica" - nel senso di statale - che si possono formare e costituire un nuovo orientamento culturale, nuovi saperi tecnici e gestionali, e una nuova "classe dirigente" in grado di esautorare e sostituire quella inetta e corrotta - politica e imprenditoriale - da cui siamo governati. Gli embrioni di questo ricambio già ci sono, si tratta di riconoscerli, rafforzarli, farli crescere: domani potranno attrarre e inglobare anche le componenti meno compromesse di chi è oggi alle leve di comando.

(guidoviale.blogspot.com)

La crisi che il paese sta attraversando è davvero grave, sotto ogni profilo, nel quadro della crisi che investe la Ue. Rilanciare la crescita è una strada necessaria ma ardua da trovare e da percorrere. Che in tale situazione il presidente Silvio Berlusconi si permetta prima battute quali l´invito a investire nelle sue aziende «che continuano a fare utili», poi assicuri che la situazione non può peggiorare, e spiattelli sul momento un piano anti-crisi in otto punti, vuoto di qualsiasi sostanza, offende l´intelligenza di tutti i cittadini italiani. Come uno può pensare sul serio di rilanciare la crescita mediante un ampliamento della libertà economica da inscrivere nella Costituzione, quasi che tale libertà non esistesse quando negli anni 60 il paese cresceva al tasso del 5-6 per cento l'anno? O di modernizzare il mercato del lavoro, quando alcuni milioni di lavoratori giovani e meno giovani hanno già sperimentato di persona che cosa ciò significa nell'età berlusconiana, se non precarietà, retribuzioni stagnanti da quindici anni, sindacati in difficoltà, diritti dei lavoratori in declino?

Quando non siano battute offensive oppure trovate inimmaginabili, come modificare la Costituzione per rilanciare subito la crescita, gli otto punti del piano anti-crisi indicati dal presidente del Consiglio sembrano ripresi tal quali dalle vecchie ricette del Fondo monetario internazionale. Bisogna ridurre a ogni costo la spesa pubblica. Avviare un grande piano di privatizzazioni dei servizi pubblici. Modernizzare il sistema di welfare e le relazioni sindacali (cioè tagliare le prestazioni del primo e ridurre al minimo il potere dei sindacati). Sono ricette di destra, che la crisi iniziata nel 2007 ha contraddetto in ogni possibile modo, ma che il governo italiano e la maggior parte dei governi Ue, combinando ottusità, incompetenza e un tot di malafede, hanno ora ripreso come rimedi alla crisi, trasmessa dalle banche ai bilanci pubblici.

Prima di indicare perché dette ricette sono suicide, sotto il profilo economico, politico e sociale, non si può far a meno di notare, con qualche preoccupazione, che le proposte avanzate dalle parti sociali contengono ricette del tutto analoghe. Il loro «drastico programma per rilanciare la crescita» chiede a sua volta di tagliare la spesa pubblica, lanciare un piano di privatizzazioni, modernizzare (rieccolo, il più minaccioso dei termini quando si parla di riforme) le relazioni sindacali e il mercato del lavoro. Che un tale piano sia stato redatto e sottoscritto da Confindustria è comprensibile. Che sia stato sottoscritto anche dalle confederazioni sindacali, tra cui nientemeno che la Cgil (anche se la segretaria Susanna Camusso ha detto di non essere del tutto d´accordo in tema di privatizzazioni), sta forse a indicare che la situazione è percepita di tale gravità da costringere tutti a non badare più all´identità del vicino nella scialuppa di salvataggio. Ma forse anche - e questo vale per tutta la Ue - che «gli dei fanno uscire di testa coloro che vogliono condurre a perdizione».

Sia nel piano anti-crisi buttato lì dal presidente Berlusconi, sia nelle proposte delle parti sociali a lui presentate per rilanciare la ripresa, si avverte nel fondo un´idea scriteriata: che la spesa pubblica sia una passività che bisogna assolutamente ridurre allo scopo di far crescere l´economia. È un´idea che le due parti paiono condividere con la destra repubblicana in Usa, quella che ha appena voluto tagliare l´assistenza ai poveri ma non le tasse ai super-ricchi, perché così, osa sostenere, si crea occupazione. Che l´idea non stia in piedi lo dice perfino l´Onu, in un recente rapporto sulla situazione economica mondiale: «Molti governi, in specie nei paesi sviluppati, stanno orientandosi verso l´austerità di bilancio. Ciò inciderà negativamente sulla crescita economica globale durante il 2011 e il 2012».

Ma nei due documenti in parola, oltre alle idee sballate, spiccano quelle che mancano. Non c´è in essi, ad esempio, una parola sul fatto che l´Italia non cresce perché i suoi investimenti in ricerca e sviluppo sono al fondo delle classifiche Ocse. E qui le imprese non possono puntare il dito contro lo stato, perché se è vero che questo ha contribuito alla povertà della R&S, sono esse che hanno chiuso o malamente ridimensionato i grandi centri di ricerca che l´industria italiana vantava negli anni 60 e 70, nel settore della chimica, della metallurgia, delle telcomunicazioni. Per tacere infine di un´assenza macroscopica, nei due documenti, del problema alla base della bassa crescita: la redistribuzione del reddito dal basso verso l´alto avvenuta negli ultimi decenni. Almeno 8-10 punti di Pil sono migrati in Italia (ma anche in altri paesi Ue) dai salari ai profitti e alle rendite. Se non si interviene su questo snodo fondamentale, cominciando almeno con il discuterne, di ripresa se ne riparlerà nel 22mo secolo.

E’ incredibile. Provate ad inserire su Google news le parole “rivoluzione islanda”. Il risultato della ricerca è che molti blog ne parlano oltre ad alcune testate di informazione online alternative ai broadcaster, mentre risultano “non pervenute” le testate dell’establishment, se così si può dire.

Ora, se non ci fosse Internet, se non avessi letto un link postato da un mio amico ieri su Facebook, io oggi non saprei che in Islanda si è svolta una vera e propria rivoluzione che partiva da una situazione analoga a quella attuale italiana e di molti altri Paesi in uno stato di crisi politica, economica e finanziaria e che si è risolta con una serie di passaggi, come dire, da “manuale del buon senso civico”. La sintetizzo qui di seguito, sperando di essere fra le poche persone nell’ignoranza in cui sarei rimasta se non avessi letto l’articolo pubblicato su Informare per resistere e altri blog d’informazione che sono andata a cercare attraverso Google.

In Islanda, a seguito di una disastrosa crisi finanziaria, i cittadini sono riusciti a far dapprima dimettere il governo in carica al completo, mentre le principali banche responsabili venivano nazionalizzate, si sono rifiutati di pagare i debiti che queste avevano contratto con la Gran Bretagna e l’Olanda a causa della loro ignobile politica finanziaria (con tanto di arresti dei principali finanzieri e top manager responsabili della bancarotta del Paese) e in conclusione sono passati alla creazione di un’assemblea popolare per riscrivere la propria Costituzione. Tutto questo è accaduto attraverso una vera e propria rivoluzione, senza spargimenti di sangue, con le proteste e le urla in piazza, una rivoluzione contro il potere politico-finanziario neoliberista che aveva condotto il Paese nella grave crisi finanziaria.

L’altro strumento “rivoluzionario” sul quale ora sta lavorando la società islandese è l’”Icelandic Modern Media Initiative”, un progetto finalizzato alla costruzione di una cornice legale per la protezione della libertà di informazione e dell’espressione con l’obiettivo di creare un ambiente sicuro per il giornalismo investigativo, un “paradiso legale” per le fonti, i giornalisti e gli internet provider che divulgano informazioni giornalistiche.

Concludo dicendo che, come a tutte le persone normali, certamente mi interessano le notizie di cronaca, come ad esempio quelle relative all’omicidio passionale di Ascoli Piceno o il delitto di Avetrana, a patto che non se ne parli tutte le sere per cinque minuti di telegiornale, o quelle politiche relative al missile libico contro la nave italiana, e mi può stare anche bene leggere che Berlusconi sostenga che il Paese è solido, anche se nutro molti dubbi e forti preoccupazioni in merito. Ma subire l’ennesima censura informativa, come quella di cui mi sono resa conto ieri, quando poi mi tocca sentire o leggere servizi giornalistici che mettono sull’avviso le persone sulla pericolosità di Internet, no, non lo posso più accettare.

Vivo in una Paese che si proclama libero, che amo, anche se ogni tanto mi verrebbe voglia di scappare all’estero, e voglio continuare a pensare che l’Italia sia una nazione democratica, dove vige il principio della libera informazione. Quindi pretendo di conoscere notizie sull’Islanda, come credo tutti, anzitutto attraverso i mezzi di informazione tradizionali, molti di questi tra l’altro sovvenzionati dallo Stato, che rivendicano la loro autorevolezza, la neutralità e la libertà dalle ingerenze politiche, e che però, chissà perché, spesso accusano di poca professionalità e credibilità il giornalismo che nasce dal basso, dalla rete. Quel giornalismo per cui oggi io sono più consapevole di ieri ma anche decisamente più indignata.

A guardarla sulle mappe, la Tem (la nuova Tangenziale esterna di Milano) sembra solo una linea curva che collega Melegnano ad Agrate. Ma quando verrà costruita sarà molto di più: un ampio nastro d’asfalto, pieno di auto e camion che per 32 chilometri di lunghezza passerà in mezzo ai campi coltivati, vicino ai paesi, accanto a rogge e canali, ramificandosi poi con altri 38 chilometri di altre strade che nel linguaggio dei tecnici vengono chiamate "viabilità accessoria" ma che in pratica vogliono dire ancora asfalto e cemento.

Non so se la Tem risolverà, come molti dicono, i problemi del traffico di Milano. Qualche dubbio ammetto di averlo. Ma se il progetto resterà quello che ci hanno prospettato prima dell’approvazione dell’altro giorno al Cipe, credo che l’impatto sul territorio sarà molto pesante per tutto e per tutti: per gli abitanti che verranno stretti nella morsa dello smog dove adesso c’è il verde, per le piste ciclabili che inevitabilmente confineranno con una vera autostrada piena di auto e camion, per le rogge che dovranno essere coperte o superate o inglobate in sarcofaghi di cemento, per i campi coltivati che saranno tagliati in due da questa specie di "muro di Berlino orizzontale".

L’impatto sarà molto pesante anche per le duecento famiglie di agricoltori che verranno danneggiate dall’opera e si troveranno i cantieri al fianco di stalle e mais. Le strade sono importanti, ma bisogna mettere ordine, con regole che tutelino il territorio. Perché la terra non è un bene che puoi riprodurre a piacimento. Una volta che l’hai consumata, è finita per sempre. E senza la terra non finisce solo l’agricoltura, ma anche l’ambiente, lo sviluppo economico, la produzione di cibo, i servizi.

Tanto per fare un altro esempio, con la futura Toem (la gemella della Tem che dovrebbe svilupparsi in futuro sulla fascia ovest di Milano) saranno cancellate produzioni pari a 4 milioni all’anno di piatti di riso. E dopo che cosa ci resta? Solo l’asfalto.

Per questo prima di pensare a muove grandi opere sarebbe meglio potenziare e riqualificare la viabilità già esistente. Perché le valutazioni sull’impatto delle infrastrutture non basta farle sulle carte, a tavolino, nel chiuso di qualche ufficio, ma bisogna andare sul posto, nei paesi, nelle aziende agricole, guardare in faccia le persone, parlare con loro, trovare soluzioni alternative se possibili e soprattutto capire che dietro i numeri di un progetto, per quanto grande e importante che sia, ci sono sempre le vite delle persone, delle loro famiglie e il loro futuro.

(presidente Coldiretti Milano e Lodi)

Viene da dire che siamo proprio messi male. Silvio Berlusconi, che sciocco non è, ha fatto un discorso di ordinaria amministrazione. Come ha detto, già nel corso della trasmissione, Guido Gentili del Sole 24 ore, è un discorso che avrebbe potuto fare tre mesi fa. Talvolta far finta di niente - come ha fatto Berlusconi - è un modo accorto di fronteggiare problemi che non si è in grado di risolvere. Nessuna proposta, nessuna iniziativa nel discorso del Cavaliere, quasi un tutto va bene madama la marchesa. In ogni modo io resto dove sono.

Francamente deludente in questa situazione di crisi italiana e mondiale la replica del Partito democratico, per bocca di Bersani. Critiche, denunce, ma zero proposte. Nulla su cosa il maggiore partito di opposizione propone in alternativa allo scorrere dei fatti, alla resistenza di Berlusconi, ai rischi del disastro per l'economia (e non solo) del nostro paese. Berlusconi è messo assai male e l'elusività del suo discorso lo conferma, ma rebus sic stantibus continuerà a occupare Palazzo Chigi. E addirittura si permette attraverso la voce del neosegretario del suo partito Angelino Alfano di accusare l'opposizione di essere partito dei mercati e non dei cittadini.

«Da tutto ciò che accade - scriveva Alfredo Reichlin sull'Unità di ieri - emerge l'estrema debolezza della politica». E - sempre Reichlin - si domanda se «è abbastanza chiara la nostra diversità politica». Domanda non da poco.

Il discorso di Berlusconi è stato assolutamente elusivo, ma egualmente elusiva è stata la replica di Bersani. Non basta accusare Berlusconi dei fallimenti che sono sotto gli occhi di tutti, se non si ha l'intelligenza e la forza di proporre un'alternativa che non sia solo la richiesta di elezioni anticipate. Il Pd deve (dovrebbe) avere la forza e l'intelligenza di proporre un'alternativa di governo. Gli esiti dei referendum e delle recenti elezioni amministrative dovrebbero incoraggiarlo. C'è una società che di Berlusconi ha cominciato a stancarsi, ma a questa società bisogna offrire serie proposte per uscire dalla crisi e dai fallimenti bancari, per combattere l'attuale decrescita e la crescita dei disoccupati.

Dire che Berlusconi è cattivo, se non si propone nulla di buono, serve solo a far continuare, e sempre in peggio, la crisi del paese. Insomma, c'è una seria crisi della politica e, aggiungerei, della sinistra. Ma Berlusconi - lo conferma il suo discorso di ieri - è proprio messo male, solo che il suo star male mette al peggio l'Italia e questo, paradossalmente, lo rafforza.

Corriere della Sera

Da ottobre i cantieri della Tem

di Luigi Corvi

Partiranno in ottobre i cantieri per la costruzione della Tangenziale esterna milanese (Tem), un’opera attesa da molti anni e che entro il 2015, assieme a Pedemontana e Brebemi, dovrebbe garantire il decongestionamento dell’area milanese giusto in tempo per l’apertura dell’Expo. Ieri il Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica) ha dato il via libera alla realizzazione della nuova autostrada, il cui progetto definitivo era stato ultimato più di un anno fa e approvato da Cal, l’ente concedente, nel novembre scorso. La Tem costerà 1,7 miliardi di euro e sarà realizzata in project financing da una spa i cui azionisti principali sono Autostrade per l’Italia e Milano-Serravalle. Permetterà di aggirare a Est l’area metropolitana milanese, oggi vicina al collasso soprattutto nelle ore di punta, collegando l’autostrada del Sole con la A4 Torino Milano-Venezia, dalle porte di Melegnano (Cerro al Lambro), ad Agrate Brianza.

Un tracciato di 32 chilometri a tre corsie per ogni senso di marcia (più la corsia di emergenza) che farà risparmiare 9 milioni di ore annuali di viaggio, assorbendo 75mila veicoli al giorno di cui 35mila di traffico locale. Attraverserà tre province (Lodi, Milano, Monza Brianza) e avrà interconnessioni con le principali arterie dell’est Milanese, come Paullese, Cassanese e Rivoltana, attraverso sei svincoli (a Pessano con Bornago, Gessate, Pozzuolo Martesana Liscate, Paullo, Vizzolo Predabissi) e tre collegamenti con autostrade (A1, A4 e Brebemi).

La costruzione della nuova arteria, che con un accordo di programma ha visto la partecipazione degli enti locali interessati (tra cui venti comuni della provincia di Milano e 7 della provincia di Lodi), renderà necessario adeguare la viabilità ordinaria per rendere scorrevoli le interconnessioni, per ridurre il traffico di attraversamento di alcuni centri abitati e per risolvere situazioni che già oggi sono critiche. Il tutto si tradurrà in 38 chilometri di nuove strade e nella riqualificazione di tratti per un totale di 15.

Lungo il tracciato troveranno spazio 2,2 milioni di mq di verde che dovrebbero consentire di abbattere il 20%di inquinamento. «E’ la più grande operazione europea in project financing in questo momento» , ha sottolineato ieri il viceministro delle infrastrutture Roberto Castelli. Sull’autofinanziamento dell’opera, che sarà pagata con i pedaggi degli automobilisti, si è soffermato anche il presidente della Regione Roberto Formigoni. «Il sistema regionale — ha detto — ha dimostrato ancora una volta di essere capace di fare da sé» .

Soddisfatto anche l’assessore Raffaele Cattaneo: «Dopo Brebemi e Pedemontana abbiamo raggiunto un altro risultato importante. Ora ci batteremo per ottenere dal Cipe i finanziamenti necessari al prolungamento della M2 e della M3» . Critiche invece dal presidente della Commissione urbanistica del Comune di Milano, Roberto Biscardini: «La Tem non è una priorità, con la crisi che stiamo attraversando il progetto dovrebbe essere rivisto e ridimensionato» . La realizzazione della Tem vedrà entro il 2015 il completamento del sistema autostradale formato dalla Pedemontana, a Nord, e della Brebemi sull’asse est-ovest.

Non solo, alle tre nuove autostrade si aggiungerà, entro la stessa fatidica data, l’interconnessione tra Pedemontana e Brebemi, secondo un tracciato che da Treviglio raggiungerà Bergamo, con una bretella di collegamento alla Pedemontana, tra Brembate e Osio Sotto. Un tracciato di 18 chilometri il cui progetto, su incarico di Infrastrutture Lombarde, sarà realizzato da Autostrade Bergamasche, una spa di cui la Provincia di Bergamo ha il 24,71%e di cui fanno parte banche e costruttori della zona attraverso il consorzio Gol, di cui è capofila la Vitali di Cisano Bergamasco. Saranno nove i Comuni attraversati da questa interconnessione: Casirate, Pontirolo Nuovo, Fara Gerda d’Adda, Ciserano, Boltiere, Osio Sotto, Levate, dalmine e Stezzano. Oltre a Treviglio, che verrà a trovarsi in una posizione strategica avendo finalmente collegamenti rapidi con Bergamo e con Milano.

la Repubblica

Via libera finale alla Tem ma sindaci e agricoltori daranno ancora battaglia

di Andrea Montanari



Il sospirato sì del Comitato interministeriale per la programmazione economica al progetto definitivo e al piano finanziario della Tem è arrivato, ma il mondo politico si divide di nuovo sulla nuova tangenziale esterna. Trentadue chilometri che collegheranno l´autostrada del Sole con la Milano-Torino e soprattutto con la Brebemi, la nuova direttissima Milano Brescia. Costo complessivo dell´opera, poco meno di 1,6 miliardi di euro. Interamente in project financing. I sindaci della periferia est, gli agricoltori, gli ambientalisti e la sinistra radicale annunciano battaglia.

«Il Cipe ha approvato l´infrastruttura sbagliata - attacca Damiano Di Simine di Legambiente - . Cancellerà almeno mille ettari si superfici oggi agricole. Qualcuno ha informato il sindaco di Milano che deve attrezzarsi per accogliere in città 70mila auto al giorno in più?». Immediata anche la reazione del socialista Roberto Biscardini, presidente della commissione urbanistica di Palazzo Marino: «La Tem non è una priorità per Milano - spiega - con la crisi che stiamo attraversando questo progetto dovrebbe essere rivisto e ridimensionato». Massimo Gatti della Federazione della Sinistra aggiunge: «Vergogna, milioni di euro buttati, mentre il trasporto pubblico va a pezzi».

Di diverso avviso il Pd Matteo Mauri che però aggiunge: «Finalmente il Cipe ha autorizzato il progetto definitivo. Ora la priorità è la riqualificazione della viabilità ordinaria». Sulle barricate il sindaco di Paullo Claudio Mazzola: «Abbiamo chiesto precise garanzie, non ci faremo prendere in giro». E il direttore della Coldiretti di Milano, Carlo Greco: «Il tracciato divide in due duecento proprietà provocando danni enormi». Il dipietrista Roberto Biolchini parla di «ottimo risultato», ma chiede anche di «tutelare i pioltellesi».

Visibilmente soddisfatto il presidente di Brebemi Spa Francesco Bettoni («è un via libera fondamentale»). L´amministratore delegato di Tem Fabio Terragni annuncia: «Apriremo i cantieri entro fine anno».

Il governatore Roberto Formigoni canta vittoria: «Il sistema regionale ha dimostrato una volta di più di essere capace di fare da sé. Un metodo di cui possiamo essere tutti orgogliosi». Il vice ministro alle Infrastrutture Roberto Castelli precisa che con il via libera alla nuova tangenziale esterna «si completa l´iter burocratico di tutte le opere connesse all´Expo 2015». Il presidente della Provincia Guido Podestà segnala che la Tem ha «un problema di risorse. Adesso bisogna trovare la disponibilità di nuovi soci». Ma l´assessore regionale ai Trasporti Raffaele Cattaneo non ha dubbi: «Senza questo passaggio ci sarebbero stati grossi ostacoli all´avvio dei lavori, che in questo modo si concluderanno all´inizio del 2015, in tempo per l´Expo».

La nuova tangenziale permetterà di assorbire oltre 75mila veicoli giornalieri, di cui 35mila del traffico locale e risparmiare nove milioni di ore annuali di viaggio. Il progetto prevede la collocazione lungo tutto il percorso di 2,2 milioni di metri quadrati di verde. Cosa che secondo i progettisti assicurerà l´abbattimento del venti per cento dell´inquinamento.

Adesso ci si mette anche il Governo italiano. Come se, in piena crisi economica, i parlamentari non avessero altro da fare che dare via libera a una proposta di legge che vieta nei luoghi pubblici burqa e niqab. Come se l´esempio della Francia e del Belgio dovesse in questo caso essere necessariamente seguito, laddove in altre circostanze ci si inalbera non appena qualcuno osi fare un paragone tra quello che succede in casa propria e quello che invece accade all´estero…

Certo, la giustificazione della legge è intrisa di buoni propositi. Si parla della liberazione delle donne segregate e senza diritti. Si invoca l´umiliazione di tutte coloro che non possono riappropriarsi del proprio destino. Ci si scaglia contro questa forma di "aberrante imposizione". Burqa e niqab sarebbero un mezzo di oppressione per le donne, un modo per metterle al margine della società rendendole anonime e trasparenti. Si può tuttavia veramente vietare l´utilizzo per strada del velo integrale, punendo coloro che lo portano? Non è sempre pericoloso quando, nel nome della libertà, si decide di legiferare sul modo in cui ci si possa o debba vestire in pubblico?

Molte donne musulmane sono ostili al velo integrale e mettono chiaramente in rilievo come il Corano non lo preveda: il fatto stesso di indossarlo significherebbe accettare la possibilità di restare fuori dalla società. Tante altre però, come hanno spiegato alcune francesi davanti alla Commissione parlamentare (la Commission Gérin), sostengono che portare un niqab è oggi un modo per proteggersi dallo sguardo maschile, una maniera per esprimere la fierezza di essere musulmane in un mondo occidentale considerato decadente e corrotto. Nascondendo ciò che copre, il velo, per definizione, riesce contemporaneamente a mostrare e a distogliere lo sguardo. Da questo punto di vista, è in genere utilizzato per proteggersi dalla vista degli altri, per sottrarsi alla logica della vergogna. Per mostrarsi e farsi vedere, bisogna volerlo: permettere allo sguardo altrui di posarsi su di noi senza ferirci. Il velo può allora essere un riparo per colei che lo porta, a patto, però, di non chiudersi mai completamente. Se serve a proteggere il mistero del corpo, deve anche lasciar intravedere qualcosa - gli occhi, una caviglia, una ciocca di capelli. Il rischio, altrimenti, è quello di diventare un "sudario". A seconda del contesto, del luogo e dell´identità di colei che lo porta, indossare un velo può essere un gesto religioso come un atto di conformità a un costume; può essere il frutto della sottomissione a minacce o intimidazioni, oppure un atto provocatorio e di sfida identitaria. Se alcuni veli sono in grado di dar forma al corpo femminile, il velo integrale, però, non lascia intravedere proprio nulla. E trasforma il corpo della donna in una "macchia cieca". Al punto da rendere incomprensibile il fatto che alcune donne accettino di portarlo. Si può tuttavia anche solo immaginare di risolvere un problema di questo genere a colpi di legge, soprattutto quando si sa che di donne col niqab ce ne sono veramente poche? Non è del tutto assurdo pretendere di liberare qualcuno attraverso un divieto? Non sarebbe meglio ascoltare ciò che dicono le donne velate - invece di affermare perentoriamente che non sono mai libere - e offrire loro degli strumenti critici per valutare meglio il peso e le conseguenze delle proprie scelte?

La strada per l´emancipazione è lunga e difficile. Non si può sottovalutare l´impatto della ghettizzazione sociale in cui vivono molte donne. È per questo che si dovrebbe fare attenzione a non passare troppo velocemente dalla logica della "repressione" a quella della "gentile indifferenza". Come se portare un velo integrale fosse sempre il risultato di una decisione libera e matura. Talvolta è una scelta. Altre volte, come è stato mostrato da recenti casi giudiziari in Francia, è il frutto di un´imposizione. La realtà è sempre piena di sfumature e si dovrebbe evitare non solo di strumentalizzare i valori delle lotte femministe, ma anche di banalizzare le difficoltà dell´integrazione.

In un´epoca come la nostra, in cui la questione della laicità va di pari passo con l´aumento non solo degli integralismi religiosi, ma anche dell´intolleranza e del razzismo, forse bisognerebbe interrogarsi di nuovo sul significato dell´espressione "integrazione" e cercare di capire come il rispetto delle differenze non implichi necessariamente una rinuncia ai valori in cui si crede, come l´uguaglianza, la libertà e la pari dignità. Ogni Paese ha certamente un proprio patrimonio culturale specifico, che va di pari passo con la storia della propria unità, con le contraddizioni e le difficoltà che si sono di volta in volta incontrate per imparare a vivere insieme. Ma erigere barriere o promulgare leggi che, nel nome della libertà e della dignità, interferiscono con le scelte dei singoli individui non serve a pacificare una società. Questo tipo di strategie non fa altro che spingere alla radicalità. Invece di contribuire a organizzare le condizioni reali che possono permettere alla libertà femminile di non restare solo un valore astratto.

L’ultimo numero del settimanale del Sole 24 Ore dedicato al territorio (n.29 del 30 luglio) denuncia il fallimento dell’ulteriore allentamento delle regole portato avanti dal governo Berlusconi. I numeri confermano che aver reso pressoché automatico i permessi di costruzione senza controllo da parte delle amministrazioni pubbliche, non ha fatto aumentare per nulla il numero delle iniziative edilizie in tutte le regioni. Segno evidente che il mercato è saturo e necessiterebbe di ragionamenti e politiche di ampio respiro.

La giunta regionale del Lazio guidata da Renata Polverini non è tra i lettori dell’autorevole rivista e guidata dal cieco furore contro le funzioni pubbliche, ha approvato il peggior piano casa tra le regioni italiane. Non c’è infatti il minimo disegno strategico nel distribuire a piene mani la rendita parassitaria fondiaria. Sono soltanto due i risultati ottenuti: il primo è quello di aver cancellato forse per sempre l’urbanistica dal panorama legislativo: dall’urbanistica al piano casa, come sostiene Italo Insolera. Il secondo è quello di aver colpito duramente le poche forme di controllo pubblico su quanto avviene nelle città che diventeranno così più invivibili.

Nelle zone a bassa densità, le uniche spesso che conservano un po’ di qualità, chi avrà le possibilità potrà aumentare altezza e volumetrie del proprio edificio. Gli altri, i vicini che non hanno le stesse possibilità economiche vedranno sparire spazi verdi, alberi, panorami. Avranno più traffico automobilistico e ne riceveranno un danno economico. I selvaggi che scrivono le leggi regionali saranno soddisfatti.

Gli effetti su quanto resta del tessuto industriale regionale saranno devastanti. E’ previsto infatti l’aumento delle cubature dei capannoni industriali e la possibilità di riconvertirli in abitazioni. Al difficile percorso dell’innovazione tecnologica, alla ricerca di nuovi prodotti e nuovi mercati, al rischio d’impresa viene contrapposta una gigantesca autostrada per dismettere tutto, lucrare rendita e portare i soldi nei paradisi fiscali. Ci penserà Tremonti o chi per lui a farli tornare con generosissime aliquote.

C’è poi l’aspetto più grave -forse quello per cui si sono battuti con maggior determinazione i pasdaran della Regione-: aggredire le aree vincolate, cancellare i vincoli paesaggistici, minare la stessa sopravvivenza dei pochi e asfittici parchi regionali. Con la nuova legge si possono aumentare le cubature anche nelle zone sottoposte a vincolo di legge, costruendo addirittura decine di nuovi porti; si possono agevolmente superare i vincoli dei piani paesaggistici che infatti non si approveranno mai; si può costruire anche nelle aree pregiate dei parchi regionali.

E infine, la ciliegina che ha fatto inorridire perfino l’ex presidente della regione Veneto Galan, che pure dovrebbe avere uno stomaco di ferro per aver digerito l’alluvione di capannoni che funesta la regione che ha governato per tanti anni. Galan ha tuonato contro l’ennesimo condono edilizio mascherato presente nella legge. Ecco dunque il piano casa peggiore d’Italia: un miscuglio di incultura, deroghe e condoni.

Il Partito democratico si è distinto per un emendamento vergognoso, a ulteriore conferma che dalla cultura del mattone e della speculazione non si sposta ed è identico alla destra liberista. Ma una novità si coglie nell’atteggiamento della sinistra. I verdi di Angelo Bonelli e Sel hanno svolto con coerenza il proprio ruolo di disegnare un’alternativa. Di una nuova cultura che ambisce a diventare maggioritaria basata su un concetto semplice: città e territori sono beni comuni.

La corte d'appello di Perugia ribalta il giudizio di primo grado. L'edificio di cinque piani è sorto nel centro storico grazie al piano parcheggi del Comune. Ora rischia di crearsi un precedente per tutte le città d'arte dell'Umbria

Un palazzo di cinque piani proprio a ridosso delle mura antiche. Un edificio nuovo di zecca in una zona sottoposta al massimo vincolo paesaggistico. Un “ecomostro” nel centro storico di Spoleto, città d’arte della civilissima Umbria, famosa per il Festival dei due mondi. Si può fare. Anche se governa una giunta rossa con Pd, Rifondazione comunista e Idv. Anzi, può diventare un precedente per le tante cittadine gioiello della regione.

E’ la sentenza a sorpresa della corte d’appello di Perugia, che ha cancellato le condanne inflitte in primo grado dal Tribunale di Spoleto a sei persone: costruttori, direttori dei lavori e funzionari comunali. L’(ingombrante) oggetto del contendere sorge in via Interna delle Mura, in una zona nota coma la Posterna. Alto 16 metri, su una superficie 80 metri per 20, per 14 mila metri cubi di volume destinato a edilizia privata in virtù di un permesso di costruire rilasciato dal Comune nel 2006. Ma naturalmente un manufatto del genere, e in quella collocazione, non passa inosservato. I lavori avanzano, molti appartamenti sono acquistati da famiglie che ci andranno ad abitare, fino a che la Procura spoletina apre un’inchiesta. In città, intanto, il palazzo si guadagna il soprannome di “Mostro delle mura”.

Quel permesso di costruire, argomenta l’accusa retta dalla pm Federica Albano, è illegale. Ha concesso indici di edificabilità troppo alti, 7,50 metri cubi per ogni metro quadro di superficie, di gran lunga superiore a quella consentita del centro storico di Spoleto, grazie a un contestato scambio di volumetrie nel progetto. L’iter, infatti, era partito nella seconda metà degli anni Novanta, quando la Findem, di proprietà del geometra Rodolfo Valentini, aveva presentato al sindaco della cittadina umbra un progetto per riconvertire un vecchio magazzino in un “edificio polifunzionale” comprendente un’autorimessa da 478 posti auto. Il piano comprendeva anche un’area di proprietà del Comune, che comunque ci avrebbe guadagnato in termini di posti auto.

Partiva in quegli anni il progetto “Spoleto città senz’auto” per la mobilità alternativa, e tutti quei parcheggi all’ingresso del centro storico sarebbero stati utili. Ma le cose prendono una piega tutta diversa. Dopo una serie di passaggi e ridefinizioni del piano di intervento presentato dai costruttori, e una serie di annullamenti da parte della Sovrintendenza di Perugia dovuti all’incompatibiltà con il vincolo paesaggistico, nel 2006 arriva finalmente l’agognato permesso, intestato alla società Madonna delle Grazie, subentrata alla Findem. Il parcheggio pubblico, che era il solo obiettivo di “Spoleto città senz’auto” diventa secondario, sovrastato dall’edificio di edilizia privata, dove è concentrata la volumetria disponibile.

In base a queste contestazioni, l’8 luglio 2010 il tribunale di Spoleto chiude il processo di primo grado con sei condanne per reati urbanistici, in quanto la costruzione lungo le mura interne avrebbe “distrutto e alterato le bellezze naturali del centro storico della città di Spoleto”. Ne fanno le spese Valentini, il patron dell’operazione, l’amministratore della Findem Francesco Demegni, gli architetti Giuliano Macchia e Alberto Zanmatti, direttori dei lavori, il dirigente dell’Urbanistica comunale Giuliano Maria Mastroforti, il funzionario comunale Paolo Gentili. La sorte del “Mostro delle mura” sembra segnata. Sui costruttori avanza l’ombra di una prossima demolizione.

Il 13 luglio di quest’anno, invece, arriva il colpo di scena. La sentenza della corte d’appello di Perugia assolve tutti: il cantiere della Posterna è regolare. Le motivazioni, attese in autunno, spiegheranno la scelta dei giudici, che potrebbe avere effetti pesanti sulla tutela dei magnifici centri storici della regione: “Questa è una sentenza pilota”, hanno commentato gli avvocati della difesa. ”In Umbria non vi sono, né vi sono mai stati, a partire dall’anno 2000, casi analoghi a quello in causa”, aveva sottolineato nella sua requisitoria il sostituto procuratore generale Roberta Barberini. “La domanda che in questo processo ci si pone”, ha continuato, “in fondo è: si possono costruire grattacieli in centro storico, effettuando un’apparente cessione di cubatura da un’area destinata alla realizzazione di un’opera pubblica (i parcheggi di “Spoleto senz’auto”, ndr)?

La risposta, evidentemente, è sì.

La storia di successo dell'ingegner Del Vecchio e Luxottica, l'idea di giustizia e la crisi italiana. Ovvero perché tassare i patrimoni e le successioni (e meno i redditi) è giusto, efficiente e necessario

Secondo la rivista americana Forbes (2011), Leonardo Del Vecchio è il secondo uomo più ricco d'Italia, dopo Michele Ferrero, con un patrimonio netto di 11 miliardi di dollari e 71º nella classifica mondiale. A differenza di quest'ultimo, l'intera ricchezza accumulata è esclusivamente riferibile al suo operato non avendo ereditato alcuna attività di qualche valore. Il patrimonio è ascrivibile in primo luogo al possesso della società di diritto lussemburghese Delfin S.à.r.l. che controlla il 68,5% di Luxottica Group Spa, multinazionale attiva nella produzione di occhiali e quotata sulla Borsa di Milano e detiene, tra le altre, partecipazioni in Unicredit e Assicurazioni Generali. Secondo la stessa rivista, la retribuzione percepita nel 2009 come Presidente di Luxottica assomma a "soli" 1,2 milioni di euro.

L'ingegner Del Vecchio è arrivato al centro degli equilibri del potere economico e finanziario italiano e gode di buona reputazione; è stato oggetto di cronaca non favorevole soltanto in occasione di alcune contestazioni da parte dell'amministrazione finanziaria dello stato per irregolarità fiscali. Anche per tale ragione, la sua vita è emblematica di molti aspetti del capitalismo contemporaneo, non solo italiano.

Dalla biografia riportata in Wikipedia si legge che, orfano, trascorse i primi anni di vita nel collegio dei Martinitt a Milano e iniziò presto a lavorare come apprendista incisore in una fabbrica di stampi per ricambi automobilistici e montature per occhiali. Nel 1958, a 23 anni, si mette in proprio aprendo una bottega di occhiali in provincia di Belluno; dopo alcuni anni fonda la società Luxottica. A partire dal 1995 gli vengono conferiti numerosi titoli accademici honoris causa, tra i quali, nel 2006, la laurea in Ingegneria dei materiali dal Politecnico di Milano.

Nei suoi 60 anni di lavoro, che includono i primi come apprendista incisore, ha accumulato in media ogni giorno, oltre 500.000 euro. I dati relativi alle imposte versate al fisco nello stesso periodo come persona fisica non sono noti, ma è ragionevole ipotizzare che, se si esclude una transazione di 300 milioni di euro effettuata nel 2009 con l'erario per sanare operazioni di esterovestizione di redditi provenienti da attività italiane, l'aliquota media sia del tutto marginale (probabilmente il totale delle tasse pagate in 60 anni è inferiore a 80 milioni di euro, pari all'1% della ricchezza accumulata).

Il risparmio medio giornaliero dell'ing. Del Vecchio è pari al reddito da lavoro di 25 anni di molti dipendenti italiani. Il confronto non è tra grandezze omogenee, perché in un caso si parla di accumulo di ricchezza, cioè al netto delle spese di mantenimento (non irrisorie atteso che Del Vecchio è proprietario, tra l'altro, di uno yacht di 62 metri), nell'altro di reddito prodotto per il sostentamento del dipendente e della sua famiglia. L'aliquota minima d'imposta sul reddito delle persone fisiche è pari al 23% ed è più elevata per i percettori di un reddito annuo di 25.000 euro.

Il confronto sollecita una serie di domande, morali ed economiche che vanno oltre il caso dell'ing. Del Vecchio, le cui qualità imprenditoriali sono fuori discussione; esso è qui riportato esclusivamente come esemplificazione estrema della distribuzione della ricchezza presente nel nostro Paese.

1. È eticamente accettabile un sistema economico e sociale come l'attuale che consente enormi disparità nel livello di ricchezza dei propri cittadini? La questione che va affrontata è se nel sistema capitalistico la scala di ordinamento delle persone in base ai meriti riconosciuti dal mercato risponda a requisiti di valutazione oggettivi ed equi, intendendosi con quest'ultimo attributo la sintesi di valori socialmente condivisi (ad esempio competenza, onestà, professionalità, correttezza, impegno).

2. È eticamente accettabile un sistema fiscale che consente, a fronte di un enorme accumulo di ricchezza, di versarne all'erario soltanto una quota molto ridotta? Per la maggior parte delle persone ricche, l'accumulo patrimoniale proviene da attività imprenditoriali e si manifesta soltanto in minima parte sotto forma di reddito, che costituisce la base imponibile su cui si calcolano le imposte dirette nel nostro Paese; viceversa il reddito è l'unica o la principale fonte di ricchezza per la maggior parte dei lavoratori. Tale disparità di trattamento rende il sistema fiscale fortemente regressivo all'aumento della capacità contributiva, tra l'altro in contrasto con il dettato della Costituzione repubblicana.

3. È eticamente accettabile un sistema fiscale che non prevede tasse sulla successione ereditaria? Anche accettando l'ordinamento dei redditi dato dal mercato, non si capisce perché la scelta dei propri genitori possa costituire un fattore premiante, talvolta gigantesco. Quando l'asse ereditario dell'ing. Del Vecchio sarà suddiviso fra i suoi sette figli, ciascuno di essi entrerà in possesso di oltre un miliardo di euro, pari al reddito di 50.000 anni di lavoro di un lavoratore dipendente di medio livello.

4. È economicamente razionale favorire una distribuzione del reddito fortemente concentrata? È statisticamente assodato che la propensione al consumo delle persone diminuisce al crescere della ricchezza e in situazioni di non pieno utilizzo dei fattori produttivi, un aumenti dei consumi può favorire la crescita. Si tratta di una ben nota teoria economica, di tratto keynesiano (cioè del principale economista del secolo scorso) per cui nelle fasi di crisi, le politiche redistributive del reddito e della ricchezza favoriscono la ripresa produttiva.

5. È economicamente razionale accrescere l'indebitamento dello stato per consentire alla fascia di popolazione più benestante di essere sostanzialmente esente dal finanziamento della spesa pubblica? Il debito pubblico italiano ha raggiunto il 120% del Pil, la quota più elevata dei paesi europei, ad eccezione della Grecia, e nelle ultime settimane lo stato paga un premio al rischio sui propri titoli superiore di circa 3 punti percentuali a quello degli analoghi titoli tedeschi, con una maggiore spesa per interessi dell'ordine di 50 miliardi di euro. Tale situazione finanziaria costringe lo stato a tagliare le spese relative ai servizi pubblici, impoverendo l'intera collettività nazionale.

Le risposte ai suddetti quesiti segnalano l'importanza di introdurre un'imposta diretta annuale sul patrimonio e sulle successioni che in prospettiva vada a sostituire una parte consistente del gettito proveniente dall'imposta sul reddito.

Secondo l'ultima indagine sulla ricchezza del nostro Paese pubblicata dalla Banca d'Italia nel dicembre del 2010, la ricchezza netta media delle famiglie italiane è pari a circa 350.000 euro (140.000 euro quella pro capite) e «la distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione»: il 10% delle famiglie più ricche detiene il 45% della ricchezza complessiva mentre la metà più povera detiene solo il 10% della ricchezza totale. In valore assoluto ciò significa che in media circa 2,5 milioni di famiglie hanno un patrimonio dell'ordine di 1,5 milioni, 10 milioni di nuclei dispongono di una ricchezza lievemente superiore a quella media italiana, mentre è molto bassa la ricchezza di metà della popolazione.

A partire da questi dati si può ipotizzare l'introduzione di un'imposta patrimoniale annuale che colpisca in modo progressivo la ricchezza superiore a una determinata soglia. Ipotizzando un valore di 500.000 euro, la base imponibile complessiva sarebbe dell'ordine di 3.000 miliardi di euro.

Un sistema a quattro aliquote potrebbe avere la seguente struttura: 5 per mille per la quota compresa tra 500.000 e 1 milione di euro; 10 per mille per la quota compresa tra 1 e 3 milioni di euro; 15 per mille per la quota compresa tra 3 e 10 milioni di euro; 20 per mille per la quota eccedente.

Tale sistema porterebbe ad un maggior gettito per l'erario dell'ordine di 40 miliardi di euro l'anno. Ove si consentisse di dedurre dall'imposta sul reddito la patrimoniale versata all'erario, il gettito netto sarebbe inferiore. Si tratta di sacrifici complessivamente limitati per la parte più benestante della popolazione: ad esempio la patrimoniale per una famiglia con una ricchezza netta di 1 milione di euro sarebbe pari ad appena 2.500 euro

L'imposta sulle successioni potrebbe seguire la medesima scala con aliquote molto più elevate.

L'introduzione di queste misure - e un insieme di altre operazioni sul bilancio pubblico - porterebbe al risanamento finanziario, a una riduzione consistente della spesa per interessi e renderebbe possibile una significativa riduzione dell'imposizione sul reddito, che ha raggiunto livelli eccessivi per il ceto medio produttivo che paga le tasse.

Sono trascorsi trentuno anni dalla strage di Bologna. Per ricordare le vittime è stato inaugurato ieri, nel parco di Villa Toschi, un monumento dedicato ai sette bambini morti nell´attentato, il più grave della storia repubblicana: Angela Fresu (3 anni), Luca Mauri (6), Sonia Burri (7), Manuela Gallon (11), Kai Mader (8), Eckhardt Mader (14) e Cesare Francesco Diomede Fresa (14). Tante storie piccole e anonime polverizzate da una mano assassina; un insieme di traiettorie possibili divenute all´improvviso un futuro negato. Non per una tragica fatalità, come sarebbe più comodo pensare, ma perché in Italia nel 1980 c´era chi faceva politica mettendo le bombe allo scopo di uccidere dei cittadini inermi. La stazione di Bologna è uno snodo ferroviario tra i più importanti in Italia e tanti viaggiatori in questi anni hanno sostato, almeno una volta, davanti a uno squarcio nel muro, una ferita di marmo, che ricorda il luogo in cui fu lasciata la bomba. Una lapide riporta l´elenco degli 85 morti e il nome di Angela Fresu, la più piccola delle vittime, con accanto gli anni scolpiti a una sola cifra, si distingue dagli altri, obbligando inevitabilmente il passeggero frettoloso a interrogarsi sul senso del nostro viaggio, come un´ombra che passa improvvisa tra un treno e l´altro.

Per l´attentato sono stati condannati i tre terroristi neofascisti Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, che continuano a professarsi innocenti. Se i mandanti restano ancora oscuri, sono stati però individuati i responsabili di alcuni depistaggi: il piduista Licio Gelli, il faccendiere Francesco Pazienza e i membri dei servizi segreti Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Per questa ragione l´attentato di Bologna costituisce un´anomalia nella storia dello stragismo italiano: l´unico caso in cui la magistratura è riuscita a stabilire una verità giudiziaria non limitata alla manovalanza. L´azione di depistaggio aveva l´obiettivo di accreditare una pista internazionale che distogliesse gli inquirenti dalla realtà italiana e di affermare l´idea presso la pubblica opinione che quella sentenza fosse il prodotto di una cospirazione delle cosiddette «Toghe rosse».

Continuare a ricordare la strage di Bologna non significa solo omaggiare quelle vittime innocenti, ma anche non dimenticare tali azioni di depistaggio ordite da quanti hanno avvelenato la fragile democrazia italiana per favorire una stabilizzazione conservatrice del quadro politico. Per questo motivo è molto grave che, per il secondo anno consecutivo, alla cerimonia non parteciperà alcun ministro della Repubblica. Il governo non c´è per indifferenza civile e per imbarazzo politico: il 2 agosto è una giornata dedicata al ricordo, ma questo governo preferisce l´oblio. Si tratta di uno sgradevole atto di insensibilità istituzionale che, secondo il presidente della Associazione familiari Paolo Bolognesi, avrebbe un significato ritorsivo: i ministri eviterebbero la cerimonia non per paura dei fischi, che dovrebbero comunque avere il coraggio e la dignità di affrontare nel caso ci fossero, o, come hanno sostenuto, per evitare strumentalizzazioni politiche, ma perché «i familiari delle vittime hanno parlato molto di mandanti e di P2», la loggia segreta coinvolta nei depistaggi alla quale anche il presidente del Consiglio era iscritto.

Oggi Angela Fresu avrebbe 34 anni, sarebbe potuta essere mille cose e invece non ha fatto in tempo a diventare nulla se non un´innocenza caduta in una voragine mostruosa. Non è morta per il valore delle sue idee e per i propri atti responsabili e dunque non ha neppure l´esile privilegio di questa consolazione. Ci ricorda, però, le infinite possibilità contenute in ogni vita, la speranza che le è stata negata. Di sua madre Maria non è rimasto nulla, il corpo incenerito dalla bomba: nulla se non una poesia di Andrea Zanzotto che ancora aiuta a non dimenticare quel corpo e lo trasforma nel simbolo di un´altra Italia che lotta contro la smemoratezza e l´inciviltà: «E il nome di Maria Fresu/ continua a scoppiare/ all´ora dei pranzi/in ogni casseruola/ in ogni pentola/in ogni boccone/ in ogni/rutto – scoppiato e disseminato –/in milioni di/dimenticanze, di comi, bburp». (vedi qui)

L´assessore Bruno Tabacci venerdì scorso, prima che il sindaco Pisapia annunciasse l´azzeramento del consiglio di amministrazione di Atm e quasi a creare un clima adatto, aveva informato i giornalisti: «Il governo a proposito del finanziamento della MM4 ci ha detto che il contributo dello Stato, ancorché stanziato e ripartito su più anni, ci sarà solo se le casse saranno in grado di erogarlo concretamente, trasferendo le somme al destinatario». Come dire: se ce li ho te li do. Tanto per capirci, sono una parte modesta dei 1.486 milioni di euro per i quali il governo si era impegnato a finanziare l´Expo. Giustamente l´assessore si domandava se fosse legittimo fare gare d´appalto senza sapere se ci saranno i soldi per pagare le imprese. Verrebbe da dire, quasi fossimo al tavolo da gioco: «Soldi sul tavolo». Non solo dirlo al governo ma a tutti i soggetti che nel dossier di presentazione al Bie sono indicati come finanziatori e cioè: governo per 1.486 milioni, Regione, Provincia e Comune per 851 milioni e per finire i privati per 891 milioni. Se il governo ha dato una risposta di questo genere cosa diranno gli altri partner? Chi sono questi privati? Il loro interesse a entrare nel gioco è rimasto immutato anche se i chiari di luna dell´economia e delle aziende sono notevolmente cambiati?

Tempo fa da queste colonne, prima dell´insediamento della nuova giunta, osservavo che era arrivato il momento che qualcuno desse autorevolmente un quadro complessivo dell´operazione Expo a oggi. Ripropongo la stessa questione perché ritengo necessaria una sorta di sportello unico del Comune che risponda alle domande dei cittadini e degli operatori su Expo. In base alle deleghe assessorili non saprei a chi rivolgermi, visto che la delega di Stefano Boeri, principalmente alla cultura ma l´unica in cui compaia la parola Expo, recita: «Promozione, valorizzazione e diffusione dei risultati della manifestazione del 2015». E dunque sembra escludere ogni attinenza al finanziamento e alla realizzazione. Si direbbe che solo al sindaco competano le attività delle quali ci stiamo occupando, perché tra le sue attribuzioni leggiamo: «Definizione degli indirizzi e coordinamento della realizzazione di grandi eventi di rilevanza nazionale e internazionale promossi da singoli assessori o d´interesse del Comune di Milano». Un lungo giro di parole per dire essenzialmente Expo. Allora, per via istituzionale, è da lui che dobbiamo aspettarci qualcosa sullo stato "realistico" dell´arte sull´evento e forse l´indicazione di un suo delegato speciale alla bisogna, visti i gravosi impegni che lo aspettano in futuro per dare attuazione al suo programma. Se poi, per dannata ipotesi, non si ottenesse dal governo una reale garanzia sui finanziamenti, cosa si dovrà fare? Per MM4 si possono limitare i lavori a un solo tratto, ma di Expo non se ne potrà fare un terzo o metà! Allora tanto ne abbiamo a lasciar perdere o, almeno prudentemente mettere allo studio un piano B che individui subito le opere "minime" necessarie a tagliare il nastro nel maggio 2015.

Sono la Nuova Romea, l'autostrada Cispadana, il collegamento autostradale Campogalliano-Sassuolo, il Ti-Bre, il famigerato Passante Nord e il bolognese People Mover. Opere superflue, se non inutili. Frattini, presidente regionale Legambiente: "ancora il solito, troppo trasporto su gomma e il pochissimo su rotaia"

Ogni giorno in Emilia Romagna vengono mangiati da cemento e asfalto 8 ettari di terreno. Dal 1975 a oggi il conto è di oltre 100 mila ettari, circa il 5% del territorio regionale. Ma non solo. Questa sarebbe anche una delle regioni più inquinate d’Europa e a più alta densità di strade che la attraversano. È Legambiente a lanciare l’allarme con un dossier sulla colata di asfalto e cemento che si potrebbe abbattere lungo la via Emilia nei prossimi anni: “Si punta ancora molto sulle opere per l’automobile e poco su quelle ferroviarie”, spiega Lorenzo Frattini, presidente regionale di Legambiente.

Le strade contestate in Emilia Romagna. Sono 6 le mega-opere che preoccupano gli ambientalisti. Opere secondo loro superflue, se non inutili. La prima è l’autostrada Orte-Mestre, anche chiamata Nuova Romea, i cui lavori per 10 miliardi di euro dovrebbero partire nel giro di qualche anno. L’opera, nel tratto che va dal Po a Ravenna, potrebbe avere un impatto ambientale su zone come il parco del delta del Po, le valli di Comacchio e quelle dell’Appennino centrale. Legambiente propone un’alternativa: sistemare la “vecchia” Romea, una delle strade più pericolose d’Italia, e metterla in sicurezza assieme alla E 45, che da Cesena porta a Terni.

Poi c’è l’autostrada cispadana, la prima regionale d’Italia, che la giunta Errani ha messo nel piano per unire le province di Reggio e Ferrara tagliando la pianura al di sotto del Po. L’opera, secondo Legambiente, danneggerebbe un territorio già martoriato da strade e dall’inquinamento.

A preoccupare gli ambientalisti c’è poi il collegamento autostradale Campogalliano-Sassuolo, che, “vista la presenza di una strada a scorrimento veloce molto vicino farebbe risparmiare appena dieci minuti senza aiutare il distretto della ceramica”.

Poi c’è il cosiddetto Ti-Bre, 85 chilometri tra la Parma-La Spezia e la A22 del Brennero. L’opera, sostiene Legambiente, che rischia di rimanere a metà, visto che per ora i fondi si sono trovati solo per un primo lotto. Per quanto riguarda il terzo ponte sul Po a Piacenza, l’idea viene considerata superabile togliendo per esempio il pedaggio tra i caselli di Castelvetro e Cremona e spostando in quel tratto il traffico dei tir.

Infine Legambiente si scaglia contro l’idea del Passante Nord, un’opera da 2 mila milioni di euro che dovrebbe decongestionare il bolognese. Si tratta di 40 chilometri che da Ozzano a Anzola circonderebbero a semi-anello la città, impattando – sostengono gli ambientalisti – sulla pianura. Molti comuni, come Castel Maggiore, Granarolo e Castenaso rischierebbero di trovarsi circondati tra l’attuale nodo autostradale e il futuro anello del passante.

E sulle opere i tentativi sono stati “rabberciati e incoerenti”. Presentando il suo dossier l’associazione ecologista ha sottolineato la scarsa lungimiranza delle ultime amministrazioni. “Ci sono stati in questi 15 anni tentativi rabberciati e incoerenti”, spiega Claudio Dellucca, responsabile bolognese di Legambiente. Dellucca elenca i casi dei fallimenti della metropolitana, mai partita, del Civis, il tram su gomma i cui lavori vanno avanti da anni, ma che forse non funzionerà mai.

Dellucca fa infine appello al Comune perché fermi il People Mover, la navetta che dovrebbe collegare in 7 minuti e mezzo la stazione ferroviaria all’aeroporto Marconi. Il People mover è da qualche giorno sotto la lente di Palazzo d’Accursio che dovrà valutarlo e dargli il definitivo via libera. “È un’opera che può essere sostituita potenziando le linee ferroviarie con una stazione in via Bencivenni da raggiungere con una navetta o un tapis roulant”, spiega Dellucca.

Oltre Bologna, gli interventi contestati in Regione. Ma non ci sarebbe solo Bologna tra le città con una scarsa visione d’insieme del sistema dei trasporti. Il caso della metropolitana di Parma è per gli ambientalisti l’esempio di una mega-opera sovradimensionata per una città che necessitava di interventi più ridotti e meno rischiosi finanziariamente.

Infine l’ultimo affondo nei confronti di viale Aldo Moro, accusata di essere tentennante: “Nonostante nello stesso rapporto per il Piano dei trasporti regionale si leggano osservazioni critiche sull’eccessivo investimento per il trasporto su gomma, la Regione ha comunque deciso confermare le mega-opere stradali”, spiega Kim Bishop di Legambiente. “Nel vecchio piano regionale gli investimenti su strade e ferrovie sono uguali, al 50% per ognuno”, cioè pochi per gli ambientalisti. “Ma tra i finanziamenti al trasporto su ferro il 70% sarà dedicato all’alta velocità, mettendo ancora una volta all’angolo i pendolari”.

La notizia apparsa sabato sul vostro quotidiano a firma di Vittorio Emiliani è totalmente falsa e fantasiosa. Le considerazioni di carattere personale e le insinuazioni che mi vengono rivolte, le rispedisco al mittente, concentrandomi su cose più serie. Sulla vicenda invece del Polo Museale di Napoli voglio precisare che, il meccanismo perequativo secondo il quale le soprintendenze «più ricche» possono ripianare il rosso delle più «povere», è un fatto ordinario. La malevolenza con cui si insinua che, in quanto napoletano e sottosegretario ai Beni Culturali, avrei esercitato pressioni per attuare questo meccanismo a favore del Polo Museale di Napoli è falsa e priva di ogni fondamento, in quanto non me ne sono mai personalmente occupato. I 10 milioni di euro di passivo del Polo Museale, saranno ripianati secondo il citato meccanismo di perequazione, stornando 5 milioni rispettivamente dalle Soprintendenze Speciali Archeologiche di Roma e di Pompei, con il consenso delle stesse e senza alcuna pressione da parte di nessuno. In un momento in cui si parla tanto di stravolgimenti del Federalismo, sono certo di aver dimostrato di avere a cuore l'intero patrimonio artistico italiano e di aver, anzi, combattuto contro ogni forma distorta di campanilismo. Sono meridionale ed amo la mia terra, ma ho sempre lavorato per il paese e credo che, se anziché cercare fantasmi, ci si impegnasse nella ricerca delle vere storture del sistema, avremmo sicuramente un Patrimonio culturale ed artistico migliore.

Riccardo Villari

Il sottosegretario Villari omette due dati di fondo: 1) le Soprintendenze speciali devono essere autosufficienti, se quella del Polo Museale di Napoli non lo è, pur amando anche noi molto il Sud, va ridotta a Soprintendenza «normale» (meno spendereccia); 2) all'archeologia di Roma e Ostia i 5 milioni di euro sono stati sottratti «col consenso» dell'architetto Cecchi commissario straordinario all’ “emergenza»: se si lascia sfilare quei denari, l'emergenza-crolli e altro non c'è più, e dunque deve dimettersi. Il resto? Parole in libertà, transumanti come il senatore Villari.

Vittorio Emiliani

Postilla

Chi legge eddyburg ha imparato a diffidare del termine “perequazione”, perché in genere nasconde operazioni di scambio quasi sempre a danno del nostro territorio. Il caso in questione conferma la regola.

Se è vero che sia legittimo andare in soccorso delle Soprintendenze economicamente male in arnese, questo meccanismo dovrebbe essere improntato a principi di trasparenza e razionalità: senza intaccare, cioè, i fondi per le somme urgenze (per di più di una Soprintendenza commissariata come è quella archeologica di Roma e Ostia, e quindi in emergenza) o per progetti in corso di ultimazione (al Sottosegretario sono noti i costi di arresto di un cantiere per oltre un anno?).

Al di là dell’incredibile ipocrisia con cui si è cercato di far passare questo scippo, inserendolo nel decreto “salva Pompei” quasi si trattasse di attribuire nuovi fondi al sito, mentre si stava progettando di sottrarne, questa vicenda sottolinea in maniera impietosa l’incapacità gestionale dei vertici del Ministero dei Beni Culturali.

Quanto alla visione federalista del Sottosegretario Villari, che si è fatto allestire, a poche ore dalla nomina, acconcio ufficio a Castel dell’Ovo, la sua attenzione esclusiva a tutto ciò che succede con vista Vesuvio si appaia perfettamente a quella, altrettanto a senso unico, del suo collega Giro per quanto riguarda ciò che accade all’interno delle mura Aureliane (o poco oltre).

Sarà un caso che le deleghe del Ministero, attribuite non certo per ambito culturale o tipologia di attività, come ci si sarebbe aspettato, coincidano esattamente con i bacini elettorali dei due Sottosegretari? (m.p.g.)

Sulla vicenda, in eddyburg

Si è tenuta oggi ai piedi dello storico monumento la conferenza stampa indetta dall’Italia dei valori contro l’accordo che affida a Della Valle la sponsorizzazione dei lavori di restauro. I dubbi del partito sulla legittimità del patto e sulle conseguenze per l’erario. Donadi: “In atto un magna magna a spregio del pubblico interesse”

“Un’operazione di pura svendita e dismissione di competenze che consegna nelle mani dei privati un immenso patrimonio artistico e culturale”. È la denuncia dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, che sulla sponsorizzazione dei lavori di restauro del Colosseo, affidata alla Tod’s di Diego Della Valle, vuole vederci chiaro. Questa mattina, una delegazione dell’Idv si è riunita ai piedi del “gigante buono” per annunciare il ricorso all’Autorità di Vigilanza dei Contratti Pubblici in vista della valutazione di legittimità dell’accordo con l’imprenditore marchigiano. Per i dipietristi, quella in atto, è “un’operazione condotta esclusivamente a fini commerciali, che in barba alla normativa vigente e a scapito dell’interesse pubblico, farà fare grossi profitti al privato”.

Il patto firmato, in data 21 gennaio 2011, fra la Tod’s spa, la Soprintendenza Archeologica di Roma e il Commissario Straordinario per gli interventi sulle aree archeologiche di Roma e Ostia, consente allo sponsor di costituire un’associazione che potrà registrare e utilizzare, in esclusiva mondiale e a tempo indeterminato, un logo con l’immagine del Colosseo “in maniera – denunciano i dipietristi - del tutto svincolata dall’iniziativa di restauro”. Un particolare che l’articolo 120 comma 2 del Codice Beni Culturali non prevede e che a fronte di un contributo iniziale da parte della società, di soli 25 milioni di euro (tasse incluse), permetterebbe allo sponsor di incassare ingenti somme di denaro. Se a questo poi si aggiunge la possibilità di dare vita a un centro per i servizi di accoglienza con area ristoro e attività commerciale, “la posta in gioco diventa ancora più alta”, ha chiosato la consigliera alla Regione Lazio, Giulia Rodano. “In questo modo – precisa – non solo si svende l’immagine di un gran pezzo del nostro patrimonio artistico e culturale, che andrebbe tutelato secondo Costituzione, ma anche la sua stessa gestione”.

Da un lato, dunque, l’incapacità di valorizzare beni culturali di inestimabile valore per il paese e dall’altro la poca trasparenza nelle procedure amministrative. “Governo e Comune – ha denunciato il capogruppo dell’Idv alla Camera dei Deputati, Massimo Donadi - si sono mossi con un’ingiustificabile opacità nel fare questa convenzione”. “Della Valle – spiega – ha bypassato la gara pubblica facendo la propria offerta in una trattativa privata che non chiarisce il ruolo degli enti pubblici”. Per esempio, non si dice se Comune, Provincia, Regione e Stato dovranno versare a Della Valle un corrispettivo monetario per tutte le volte che useranno l’immagine del Colosseo, come nel caso del logo che apparirà sui biglietti d’ingresso, stimati in oltre cinque milioni. “Altro che magnate”, affermano riferendosi all’imprenditore, patron tra l’altro della Fiorentina. “Se lo fosse veramente – incalza Donadi - avrebbe fatto come la Hewlett-Packard, la grande azienda informatica che oggi sta finanziando con 200 milioni di euro propri la ricostruzione delle rovine di Ercolano, senza nessuna contropartita, senza nessuna pubblicità e soprattutto senza nessuna connivenza poco chiara con questo governo e questa amministrazione cittadina”. Per il capogruppo Idv alla Camera dei Deputati, “qui c’è solo un magna magna a spregio del pubblico interesse”. Ma nessuno, a parte pochi, sembra volersene accorgere. “Stupisce – ha ammiccato il segretario romano dell’Idv, Roberto Soldà – che Comune e Regione siano rimasti silenti di fronte a questa situazione inaccettabile”. Eppure c’è poco da fare: i beni culturali, al pari di acqua e ambiente, sono costituzionalmente tutelati e considerati beni comuni. “Proprio per questo motivo – hanno affermato in chiusura – noi, come Italia dei Valori, ci impegniamo fin da ora a contrastare qualsiasi tentativo di privatizzazione dei beni culturali. Lo abbiamo fatto per l’acqua e continueremo a farlo anche per il Colosseo, come per il resto del patrimonio monumentale italiano”.

Immaginate di vivere in un Paese scandinavo. Uno di quelli dove l’amministrazione della cosa pubblica funziona, dove non si hanno notizie di scandali politici di un qualche peso. E pensate che una legge come quella approvata in Parlamento un paio di settimane fa, a seguito della manovra economica, fosse stata fatta, ad esempio, in Danimarca o in Finlandia. La nuova norma dice che le amministrazioni pubbliche potranno affidare, senza obbligo di gara, appalti che non eccedano la cifra di un milione di euro. Vale a dire che se una amministrazione pubblica (scandinava) dovesse ristrutturare una scuola, costruire una piccola strada, asfaltare una piazza e la spesa stimata fosse sotto il milione di euro, potrà chiamare direttamente la ditta (scandinava) e affidarle l’appalto.

Ecco, adesso spostiamoci nel nostro Paese. E immaginiamo che questa legge, parte della manovra economica approvata in fretta e furia da Camera e Senato nelle scorse settimane, sia invece diventata realtà nell’Italia delle cricche, degli orologi preziosi e delle escort portati in dono a politici e funzionari per ingraziarsene i favori.

Con un tratto di penna i nostri legislatori hanno raddoppiato il limite entro cui si era obbligati a indire una gara pubblica. Questo limite, 500 mila euro, era stato fissato appena un paio d’anni fa. Quanti sono gli appalti sopra un milione di euro nel nostro Paese? Pochissimi.

Walter Schiavella, che è segretario generale della Fillea, gli edili della Cgil, tra i primi si è battuto perché la norma non entrasse nella manovra. Ma la semplificazione del dibattito politico sul testo, con la corsa all’approvazione con il fiato sul collo della speculazione finanziaria, ha fatto perdere peso anche alle critiche più motivate.

Il dato resta però impressionante: “L’80% degli appalti pubblici – afferma Schiavella carte alla mano (in parte le pubblichiamo in questa pagina ndr) – è per cifre inferiori al milione di euro”. La norma, quindi, ha un effetto pratico immediato che è quello per cui la politica, da sola, vale a dire senza valutare il progetto o il prezzo migliore, può decidere chi lavora e chi non lavora in Italia. Diventa una scelta autonoma, legale, dei governi di città, province, regioni, asl. Una scelta con ogni evidenza soggetta ai “corteggiamenti” delle imprese che devono lavorare per continuare a sopravvivere.

Questo, però, segnala Schiavella, è solo il primo effetto negativo per un settore, quello edile, che nella crisi “ha perso il 20% rispetto al Pil”. Una cifra enorme anche se paragonata al periodo del dopo-tangentopoli “in cui – ricorda il segretario Fillea – si perse il 9,6%”. Questo, dunque, è il quadro da cui si parte: aziende in sofferenza, grandi appalti pubblici al lumicino (“il fondo unico per le infrastrutture segna 250 milioni per il 2012, 500 per il 213 e 800 per il 2014”), regole difficili da far rispettare. L’unico mercato ancora ricco resta quello delle cosiddette “emergenze”, che agisce, ricorda Schiavella, sempre con leggi in deroga (le inchieste sulla cricca attengono proprio al rapporto tra questi pubblici ufficiali e gli imprenditori aggiudicatari delle opere pubbliche).

Per il resto, si assiste a un mercato per cui il 10% dei costruttori ottiene oggi in Italia il 28% degli appalti pubblici e ad una preoccupazione che è apparsa evidente a tutti gli addetti ai lavori ma non ai legislatori. La preoccupazione riguarda il tessuto produttivo degli edili nel nostro Paese: “Se non vanno avanti le imprese che meglio possono reggere il confronto con il mercato, ma quelle che hanno legami più o meno leciti con la politica – attacca Schiavella – non sarà un bene per l’economia. Soprattutto se queste imprese ‘scorrette’ abbiano legami con i gruppi della malavita organizzata”. Pensiamo al movimento terra o all’intero ciclo del cemento. Ultima preoccupazione: se l’unico discrimine per ottenere un appalto pubblico è avere un buon rapporto con il politico di turno, a chi importerà più della qualità del prodotto finale?

É stato presentato il 28 luglio a Bologna il Rapporto di Legambiente Emilia Romagna sulle infrastrutture. Il documento ha voluto mettere in fila le principali infrastrutture stradali previste in regione, mostrandone i limiti e gli impatti che porteranno.Nella Regione Emilia Romagna, i livelli di inquinamento sono quelli comuni a tutto il bacino padano (tra le regioni più inquinate del mondo)e il numero di auto per abitante è superiore alla media nazionale; l’Osservatorio Nazionale per il Consumo di Suolo (ONCS) ha stimato che in Emilia Romagna dal 1975 ad oggi si è costruito con un ritmo di 8 ettari al giorno. Pur in questa situazione, le principali opere in programma a scala regionale e provinciale sono nuove autostrade, tangenziali, strade provinciali.

Il comune denominatore di buona parte delle infrastrutture analizzate è quello di incentivare ulteriormente il traffico su gomma, secondo una logica vecchia, e di non prendere in considerazione alternative valide.

TERZO PONTE SUL PO: LE VALUTAZIONI DI LEGAMBIENTE

L'intervento consiste in un nuovo collegamento autostradale tra il casello di Castelvetro Piacentino e la SS 10 Padana inferiore, con attraversamento del fiume Po e collegamento con il porto interno di Cremona, ed opere connesse. In territorio emiliano le opere prevedono la realizzazione di un nuovo casello a Castelvetro, un raccordo autostradale con la SS 10 e la SS 234, con un nuovo ponte sul Po.

Così si legge nel rapporto sulle infrastrutture in Emilia Romagna: «Da uno studio interdisciplinare realizzato da autorevoli docenti ed esperti (in ecologia, botanica, pianificazione del territorio, urbanistica, architettura, estetica, conservazione della natura, tecnica e pianificazione urbanistica, scienze della terra e tossicologia degli inquinanti ambientali), si evince che il progetto del Terzo Ponte è in contraddizione con le scelte di sostenibilità ambientale, sociale ed economica che devono caratterizzare un futuro sostenibile».

«Il progetto ha ottenuto il via alla Valutazione di Impatto Ambientale ed è stato ripubblicato il 31/03/2010. Ma lo stesso (così come il Decreto VIA) ha recepito ben poco del parere della Regione Emilia Romagna, ovvero un documento di 53 pagine fitto di osservazioni. Tra i suoi punti deboli il progetto definitivo non ha preso in considerazione diverse alternative progettuali molto meno costose ed impattanti e non prende in considerazione il calo di flussi di traffico pesante del 7,5% nel biennio 2008-2009 e conseguentemente l’effettiva necessità dell’opera.

Per quanto riguarda il contesto ambientale e gli impatti si riscontra: sottrazione di suolo (quasi 300 ettari di aree golenali, zone agricole di pregio ed aziende agricole), con frazionamento ed inutilizzabilità delle aree agricole; forte impatto su tre aree Natura 2000 (SIC e ZPS), frammentazione di 1000 ettari di habitat di riproduzione, possibile impatto su numerosi animali tutelati; attraversamento di una zona di industrie a rischio di incidente rilevante; aumento dell’inquinamento dell'aria di Castelvetro poiché cinturato completamente dall'autostrada.

Esistono diverse possibili ipotesi alternative al terzo ponte, meno costose ed impattanti, fondate su premesse fondamentali quali l'intangibilità del comprensorio golenale a cavallo del Po, l'uso urbano del ponte in ferro esclusivamente per il traffico automobilistico leggero e il trasferimento di tutto il traffico pesante sulle circonvallazioni e sull’autostrada:

1. Chiusura del casello autostradale di Castelvetro piacentino, che ha dimostrato nei suoi oltre trent'anni una bassa utilità per il territorio emiliano (nessun insediamento produttivo sul territorio in funzione della sua presenza) a fronte di un esclusivo interesse per l'area lombarda. Mentre aree come quelle di Piacenza e dei Comuni di Caorso e Monticelli d'Ongina, hanno evidenziato lo sviluppo esponenziale, per quanto discutibile, di insediamenti a vocazione logistica a fronte di nessun simile insediamento in Castelvetro.

2. Liberalizzazione completa del tratto tra i caselli autostradali di Castelvetro e Cremona in entrambi i sensi in modo che diventi una superstrada senza pedaggio e praticabile come viabilità ordinaria, da rendere comunque in ogni modo obbligatoria per i mezzi pesanti che attraversano il Po. Il difetto di tale proposta è quello di presentare un percorso più lungo per i mezzi che devono raggiungere da sud la zona industriale, ma di certo è la soluzione più rapida, meno costosa e meno impattante per le aree ecologicamente pregiate presenti lungo il grande fiume.

3. Realizzazione della “Gronda nord”. L'accettazione del ruolo di questa direttrice dipende, oltre che da motivazioni derivabili dalla lettura dell'assetto infrastrutturale del comprensorio di Cremona, da giustificazioni sull'opportunità di raccogliere in questa posizione tutti i principali flussi est-ovest che attraversano l'area cremonese. Il tracciato dovrà svilupparsi in modo da assolvere a funzioni di scorrimento del traffico a livello comprensoriale e regionale, collegando le principali funzioni integrative della città

4. Sfruttamento della viabilità esistente e ponti sul Po già in uso. Si tratta di un itinerario raggiungibile dalla A21 attraverso il posizionamento di un nuovo casello o utilizzando quello di Caorso. Per la funzionalità piena di questo nuovo percorso sono necessari interventi meno impegnativi e meno costosi della realizzazione del terzo ponte e comunque molto meno impattanti sul territorio.

postilla

Questo sito ha già ricevuto a proposito del "terzo ponte" di Cremona memorie tecniche dettagliate in cui si spiega, sia in una prospettiva di mobilità a scala sovraregionale, che di area urbana, e ovviamente di tutela ambientale, quanto sia schematica, autoreferenziale, sostanzialmente arbitraria, la soluzione.

L'articolo che proponiamo ora riassume in breve più o meno le stesse motivazioni, ovvero che è possibile ottenere i medesimi risultati in termini di risposta alle esigenze di mobilità, accessibilità, e anche sviluppo, con una soluzione "sistematica" anziché puntando alla solita grande opera.

Possiamo sicuramente aggiungere almeno due considerazioni, la prima oggettiva e la seconda assai soggettiva, ma di una "soggettività" che crediamo coinvolga parecchie persone, abitanti e utenti della città e del fiume.

La prima è che il classico modello ad anello di tangenziali, caro ad un certo approccio meccanicistico allo sviluppo urbano, ha storicamente e puntualmente generato, più prima che poi, la crescita informe di insediamenti nota come sprawl, che in un territorio agricolo e naturale come quello cremonese e di Castelvetro a cavallo del fiume pare davvero del tutto incongruo. Questo anche se non fosse conclamato l'elevato valore naturalistico delle sponde interessate.

La seconda vorrei proporla semplicemente con due foto, e invitando i lettori a immaginarsi il resto. Quella "prima della cura" è uno scatto della sponda meridionale, in comune di Castelvetro, più o meno dove si propone l'attraversamento del terzo ponte. Quella "dopo la cura" è l'attuale scavalcamento della A21, un chilometro circa più a valle, vista dal parco urbano cremonese di sponda. Premetto che non ho alcun rapporto diretto e quotidiano con quei posti, abito a Milano e nessuno mi ha mai incaricato di studiare alcunché da quelle parti. Gli scatti sono del tutto casuali, uno del 2011, uno del 2008. Grazie per l'attenzione (f.b.)


foto di f. bottini - estate 2011

foto di f. bottini - estate 2008

per ulteriori informazioni e altre immagini vedi QUESTOsito - il citato Rapporto Legambiente con le critiche alle altre opere inutili in Emilia Romagna è scaricabile direttamente qui di seguito

La politica della Gelmini ha messo in pratica il principio espresso da Roger Abravanel: “Si premiano i migliori indipendentemente dal reddito” (intervista al Corriere della Sera del 11-7-2010). La retorica sulla meritocrazia è stata usata come pretesto per creare un altro carrozzone pubblico – la Fondazione per il merito, con relativo presidente e consiglio di amministrazione – e soprattutto per demolire il diritto allo studio che, secondo lor signori, servirebbe solo a studenti mediocri e figli di evasori.

Stiamo ai fatti. Il sistema attuale assegna le borse ai meritevoli anche se privi di mezzi. La misura del merito per avere la borsa è accertata dagli esami sostenuti fin dal primo anno, con un criterio più severo rispetto ai sistemi di Germania e Francia che verificano solo al secondo anno. Applicare esclusivamente, come propone Abravanel, la valutazione del merito con un test standardizzato di ingresso, cosa molto diversa dalle prove di orientamento, sarebbe un'ingiustizia sociale e nessuno in Europa si è sognato di farlo, neppure i governi di destra. Il figlio della famiglia povera che arriva all’università ha già superato ostacoli difficili per l’assenza di borse di studio nelle medie superiori e non può essere inchiodato ai risultati della precedente formazione scolastica, anzi va aiutato con un sussidio proprio per avvicinarlo alle stesse opportunità del figlio di papà. Poi manterrà quell'aiuto solo meritandoselo con buoni risultati negli studi. Ne si puó pensare di scaricare i costi degli studi sui prestiti da restituire in età da lavoro. Con uno stipendio medio di ingresso di circa mille euro il giovane laureato dovrebbe pagare l'affitto della casa, la pensione integrativa, la restituzione del prestito per gli studi… e poi dovrebbe anche campare.

Oggi in Italia la soglia di reddito per ottenere la borsa è più restrittiva che in Europa e ciò nonostante neppure tutti gli aventi diritto la ottengono effettivamente. Il diritto allo studio è garantito solo al 9% della popolazione studentesca - ben lontano dal 25% della Francia e della Germania – e lascia scoperti non solo i ceti poveri ma anche quote significative del ceto medio. Il fondo statale è di 100 milioni, circa la metà di quanto contribuiscono gli stessi studenti col la tassa regionale del diritto allo studio, e nei prossimi anni tenderà a scomparire con 26 milioni nel 2012 e 13 milioni nel 2013.

In questa drammatica penuria di risorse la ministra, raccogliendo il suggerimento del suo ispiratore, vuole estendere il sussidio anche ai figli di papà, diminuendoli di conseguenza agli studenti privi di mezzi. A quel punto anche gli esecrati evasori fiscali non avranno più il problema di presentare dichiarazioni mendaci, rischiando un controllo della Guardia di Finanza, alla quale oggi molti enti per il diritto allo studio inoltrano le domande ricevute. Comunque, che siano evasori o no, i figli di papà non hanno certo bisogno del sussidio statale per sostenersi negli studi. Semmai a loro e a tutti i meritevoli, in questo caso davvero a prescindere dal reddito, andrebbero offerte opportunità di alta formazione, ad esempio serie scuole di specializzazione, buoni dottorati e, quando vi sono le motivazioni, anche attività di ricerca. Il sussidio pubblico, soprattutto se le risorse sono scarse, andrebbe invece concentrato sui meritevoli che non ce la fanno a sostenere i costi degli studi. Almeno questo dice la nostra Costituzione. E anche il buon senso. Solo la destra italiana pensa il contrario.

Le belle parole sul merito servono a coprire la vecchia politica di togliere ai poveri per dare ai ricchi.

Ci sono 150 miliardi di euro sui conti clandestini che tuttora gli italiani detengono illegalmente all´estero, al riparo dagli occhi del fisco. Un centinaio è investito in azioni, fondi, obbligazioni e titoli pubblici. Il resto in depositi e conti bancari. Lo scudo Tremonti, insomma, è servito a poco: nel 2009 sono rientrati, nonostante i termini favorevoli offerti, solo fra metà e un terzo dei soldi fuori legge investiti in titoli. E´ la stima contenuta in uno studio appena pubblicato da due ricercatori della Banca d´Italia, che hanno messo a confronto una lunga serie di dati statistici. I due ricercatori - Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti - si sono concentrati, in particolare, sugli investimenti di portafoglio, cioè in titoli, perché qui era possibile mettere a confronto i dati dei paesi che hanno emesso i titoli e sui loro acquirenti, con i dati all´altro capo della catena, cioè in Italia. Il divario che ne risulta equivale ai capitali non dichiarati. A fine 2008, prima cioè che Tremonti varasse la normativa per il rimpatrio autorizzato dei capitali, corrispondevano ad un ammontare fra 124 e 194 miliardi di euro.

I capitali illegali all´estero non sono un fenomeno solo italiano. A livello globale, dice lo studio, il divario fra attività e passività dichiarate è pari ad un po´ più del 7 per cento del Pil mondiale. L´Italia, però, va oltre: i titoli non dichiarati, nel 2008, equivalevano ad una quota fra il 7,9 e il 12,4 per cento del Pil nazionale, appunto fra 124 e 194 miliardi di euro. Negli anni, gli italiani hanno portato questi soldi all´estero con metodi ben noti. Gonfiando le spese per importare e dimagrendo gli incassi delle esportazioni, se sono imprese. Con i contanti portati dagli spalloni, se sono privati. Oppure, servendosi di un buon commercialista e di qualche finanziaria svizzera, con sistemi più raffinati: un investimento dichiarato e legale, all´inizio, in paesi al di sopra di ogni sospetto. Da qui, l´investimento in paesi con legislazioni meno stringenti, in società fittizie che poi falliscono o false transazioni. I soldi così disponibili vengono poi investiti in obbligazioni di paesi sicuri o, soprattutto, in fondi in Lussemburgo o nei centri off shore come le isole Cayman o Bermuda.

Lo scudo ha limato quelle percentuali. Nei dati ufficiali, il grosso dei rientri origina da conti e depositi bancari, ma i due ricercatori ritengono che si sia trattato del passaggio finale, dopo aver liquidato gli investimenti in titoli. Perciò ricalcolano i dati ufficiali dello scudo, attribuendo al disinvestimento di titoli circa 60 dei 97 miliardi di euro rientrati. Se, dunque, i capitali in titoli, inizialmente non dichiarati, erano pari a 140 miliardi di euro - la cifra intermedia fra 124 e 194 miliardi che lo studio della Banca d´Italia assume come riferimento - mancano all´appello, oggi, 80 miliardi di euro che gli italiani continuano a detenere clandestinamente all´estero: un ammontare pari al 5,5 per cento del Pil nazionale. Il dato si riferisce al 2009. I due ricercatori calcolano che, nel 2010, questa quota sia ulteriormente salita al 6,8 per cento, cioè a poco meno di 100 miliardi di euro.

Accanto agli investimenti illegali di portafoglio - in azioni, fondi, obbligazioni, titoli pubblici - ci sono gli altrettanto illegali conti correnti nelle banche estere. Basandosi sulle statistiche della Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti calcolano che i depositi all´estero non dichiarati ammontassero, a fine 2009, ad una cifra fra i 45 e i 50 miliardi di euro.

Il caso Ikea a La Loggia, nell’hinterland torinese, viene affrontato da alcuni giornali nazionali mettendo in ombra ciò che lo ha provocato e cioè la questione del consumo di territorio agricolo. Si commenta – e si protesta a fianco di Ikea – come se davvero l’Italia pigra, burocratica e clientelare avesse ostacolato un’occasione pulita e dinamica di nuovo sviluppo. Non è così. Qualunque cosa si pensi del territorio italiano, e innanzitutto padano, si deve prendere atto con rispetto che qui, forse per la prima volta, una Provincia intesa come governo di scala vasta, più forte e autorevole dei singoli comuni, ha detto no alla cementificazionedi un’area agricola, e lo ha fatto in coerenza con un Piano Generale. Sta diventando un caso pilota.

Dopo la decisione di Ikea di sospendere il progetto, il presidente della Provincia respinge al mittente le accuse mosse dalla multinazionale svedese. “Se proviamo a capire i motivi dell’ostinazione con cui Ikea Italia indica nel suo ultimatum quella di La Loggia come unica localizzazione possibileper un secondo punto vendita in Piemonte - ha affermato il presidente della Provincia, Antonio Saitta -ci rendiamo facilmente conto che l’area agricola prescelta con il cambio di destinazione urbanistica acquisterebbe un valore di almeno 20 milioni di euro e Ikea realizzerebbe immediatamente una plusvalenza enorme. In questo modo tutti possiamo essere abili a fare gli imprenditori”.

La decisione della Provincia di Torino ha ricevuto l’appoggio della Coldiretti e delle associazioni ambientalisteche si sono schierate a difesa del suolo agricolo. «Apprezziamo il parere negativo che la Giunta provinciale ha espresso rispetto all’ennesima trasformazione da agricola a commerciale – ha dichiarato la Coldiretti Torino -. Per i coltivatori, il giorno 22 luglio 2011 sarà una data da ricordare. Finalmente una istituzione come la Provincia ha il coraggio di fermare l’indiscriminata espansione commerciale e industriale a danno di terreni agricoli”.

“Grande dimostrazione di coerenza, sul consumo di suolo si è passati dalle parole ai fatti” è stato il commento di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta. In un comunicato, l’associazione ambientalista fornisce alcuni dati sul consumo di suolo nel territorio provinciale: “La provincia di Torino – scrive Legambiente - in questo ultimo ventennio ha subito un consumo di suolo che davvero lascia senza parole (7500 ettari dall’88 al 2006); tali dati dovrebbero frenarci e farci riflettere prima di divorare altri pezzi di verde. Bene quindi che alle buone intenzioni dichiarate nel Piano Territoriale di Coordinamento (Ptc) siano accompagnati fatti concreti e non dannose deroghe”. Non mancano le superfici già urbanizzate e abbandonate dove si potrebbe pensare di fare la sede nuova Ikea. Chiaro, farne su suolo agricolo è più semplice e molto meno costoso. Ma non è quello che ci aspettiamo… dall’Ikea .

Per fortuna in rete si stanno formando gruppi di discussione e appoggio, come su Facebooke Causes

postilla

Forse è il caso di sottolineare, un po' più di quanto non faccia l'articolo, che la vera rilevanza del caso è la dimensione provinciale assunta dal tentativo di governare l'insediamento dello scatolone multinazionale.

Sono diversi lustri che chiunque affronti con un minimo di sistematicità il problema della grande distribuzione sul territorio prima o poi si trova a confrontarsi col classico squilibrio fra le dimensioni dei bacini regionali di riferimento degli operatori, e lo spazio di decisione praticabile dalla pubblica amministrazione che vorrebbe almeno provare a metabolizzarne un po' l'invasione.

Di questi tempi si urla tanto all'abolizione delle Province per "tagliare i costi della politica", e spesso, quasi sempre ahimè, si sorvola allegramente sul fatto che se l'ente territoriale intermedio esiste, di solito ha qualche ragione per farlo, e abolirlo tout court (ovvero senza pensare un istante a chi e come debba assumerne le competenze) lascia come minimo un vuoto.

Ecco: confrontarsi più o meno alla pari con un bacino di utenza commerciale della grande distribuzione è uno di questi potenziali importanti ruoli della Provincia, o di qualunque entità operi a quella scala. Se poi invece non si vuole o non si può farlo (perché ad esempio limitati nelle competenze, ma di solito per carenze culturali o poca volontà) è un'altra storia.

Però se pensiamo a tutte le questioni ambientali, infrastrutturali, insediative, socioeconomiche e via dicendo, poste dall'intreccio col territorio locale di questi giganti. E le mettiamo a confronto con la realtà un po' misera del solito scontro nimby senza sbocco fra piccolo e grande commercio, o cittadino abitante e cittadino consumatore, allora il ruolo di un governo sovracomunale inizia ad emergere, e si può ragionare. Magari litigare, ma ragionare, il che non guasta (f.b.)

Ad oltre 100 giorni dal così detto decreto “salva cultura” (n.34, 31/3/2011) con il quale si sarebbero dovuti rimpolpare i magri bilanci del Mibac, sull’orlo del collasso dopo i tagli lineari delle precedenti finanziarie, la situazione appare non solo ancora gravissima, ma a dir poco contraddittoria.

Nonostante i reiterati annunci, così come Italia Nostra aveva denunciato con tempestività (comunicato del 12 aprile 2011), nessuna risorsa certa risulta stanziata per Pompei.

Non solo, ma il comma 8 del decreto prefigurava, al contrario di quanto ci si sarebbe attesi da un provvedimento dedicato a – letteralmente - “Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei”, un trasferimento di fondi tra Soprintendenze.

All’epoca, solo Italia Nostra aveva sottolineato come si trattasse in realtà di rendere possibile il passaggio di risorse non verso Pompei, ma da Pompei verso altre Soprintendenze in difficoltà gestionale.

Gli annunci di questi giorni sugli storni di fondi a salvataggio della disastrata situazione finanziaria del Polo Museale napoletano, svelano le vere finalità del decreto.

Italia Nostra ribadisce che operazioni di trasferimento da Soprintendenze “ricche” verso istituzioni economicamente svantaggiate, ma non certo meno importanti come Capodimonte (ma probabilmente da ripensare come autonomia), sono del tutto legittime, ma vanno compiute nella massima trasparenza e con una strategia complessiva che, al contrario, nel caso in questione appare del tutto assente.

Come giustificare, infatti, che il prelievo delle risorse finanziarie della Soprintendenza Archeologica speciale di Roma e Ostia (assieme a Napoli e Pompei, l’altra Soprintendenza interessata dallo storno a favore di Napoli), vada a decurtare pesantemente il fondo per gli interventi di estrema urgenza, ovvero sia quelle risorse necessarie per sopperire a situazioni di emergenza (crolli, ecc.), del tutto prevedibili in una Soprintendenza come quella di Roma, addirittura commissariata con provvedimento di Protezione Civile?

E ancora, come è possibile che si sia deciso di sottrarre fondi su progetti già deliberati dal Consiglio di Amministrazione, dopo che negli ultimi anni, ai più alti livelli politici del Ministero si era continuato a ripetere che le Soprintendenze non erano capaci di spendere e che il problema erano i residui passivi?

Se questa è la situazione per quanto riguarda Roma, su Pompei i problemi sono, se possibile, ancora più gravi.

Nulla è stato fatto ancora per l’assunzione di personale specializzato, così come stabilito dal decreto e come a più riprese richiesto nel mission report Unesco successivo ai crolli dello scorso novembre; neppure concepita risulta la procedura di utilizzo (criteri, ecc.) delle graduatorie di idonei di recenti concorsi Mibac: così un’occasione più unica che rara, ovvero sia la possibilità di assumere personale pluriqualificato, selezionato con procedure pubbliche e trasparenti, viene persa a causa di inerzia gestionale.

Italia Nostra rileva inoltre che molti dubbi gravano sull’effettiva disponibilità dei fondi (105 milioni) che dovrebbero essere stanziati per la maggior parte dalla Regione Campania (POIN, FAS?) per l’attuazione del piano di recupero del sito pompeiano. Tali fondi, infatti, non risultano nella disponibilità esclusiva della Campania, ma, secondo l’iter procedurale approvato dalla Commissione europea, dovrebbero essere deliberati di concerto con le altre regioni meridionali interessate. Nulla o poco di tutto questo è stato fatto sino a questo momento e l’utilizzo dei fondi in questione risulta quindi relegato ad un futuro dai contorni sfumati.

Infine, per tornare alla vicenda del prelievo di fondi a favore del Polo museale napoletano, Italia Nostra sottolinea il rischio che tali decurtazioni possano mettere in discussione progetti già avviati e funzionali alle operazioni di tutela dei siti gestiti dalla Soprintendenza napoletano-pompeiana, così come addirittura la prosecuzione del Conservation Herculaneum Project, il progetto finanziato dalla Fondazione Packard che lo stesso mission report Unesco riconosce come modello di eccellenza cui fare costante riferimento nel piano di recupero.

Italia Nostra esprime quindi, da un lato, la propria profonda preoccupazione sulla situazione del sito pompeiano, e richiama l’attenzione sulle 15 recommendations espresse nel mission report Unesco, frutto di un’accurata indagine di studiosi internazionali di acclarata competenza e fino a questo momento a dir poco trascurate dagli organismi ministeriali.

Sul piano complessivo gestionale, infine, Italia Nostra riafferma la necessità di elaborare una strategia unitaria di gestione finanziaria che permetta alle Soprintendenze di uscire dalle impasses evidenti in cui si trovano, pressoché tutte, e che ne compromettono il fondamentale ruolo di tutela del nostro patrimonio culturale. Anche questa recentissima vicenda dei trasferimenti di risorse fra Soprintendenze, gestita in modo affrettato ed opaco tanto da trasformarsi in una tristissima “guerra tra poveri”, denuncia il fallimento delle scorciatoie commissariali e di una gestione amministrativa estemporanea ed emergenziale e ripropone l’urgenza di un ripensamento complessivo dei meccanismi di gestione: il nostro patrimonio ne ha bisogno. Al più presto.

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