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Se badiamo ai fatti, la rivolta è stata causata dalla controversa uccisione di un uomo da parte della polizia nel quartiere di Tottenham. Ma ci sono ragioni più profonde. Da tempo le forze dell´ordine lanciavano allarmi su crescenti tensioni sociali in varie zone di Londra. Al cuore di queste tensioni e della violenza esplosa in questi giorni c´è la sensazione da parte di un´ampia fetta delle generazioni più giovani, nella capitale e in altre regioni del paese, che per loro non c´è un futuro, e nemmeno rispetto, e neppure interesse.

Ho partecipato recentemente a un programma televisivo in cui molti giovani dicevano che sarebbe successo qualcosa se il governo conservatore di David Cameron avesse portato avanti il suo programma di pesanti tagli alla spesa pubblica. Certo, il livello di violenza e le azioni puramente criminali a cui stiamo assistendo a Londra e in altre città sono andati al di là di quello chiunque si sarebbe aspettato. Ed è importante affermare che non ci sono scuse per disordini che violano la legge. Ma al tempo stesso è da stupidi non avere immaginato che questioni come la crescente disoccupazione, i tagli nei servizi sociali e la rabbia rimasta in molti per la crisi di due-tre anni fa non avrebbero avuto conseguenze. La crisi economica e finanziaria è stata provocata in buona parte dagli eccessi di banche e banchieri, che hanno pesato e pesano sulla vita della gente comune; ma mentre la gente comune sente di avere pagato un prezzo per la crisi e di continuare a pagarlo, la sensazione è che chi l´ha provocata, i banchieri e le banche, se l´è cavata senza alcuna punizione, che per loro la bella vita prosegue come prima e più di prima. Anche questo influisce sulla rivolta, così come l´impressione che il gap tra ricchi e poveri continui ad allargarsi, a dispetto della recessione e delle lezioni che bisognava trarne.

Dire tutto ciò non significa condonare i saccheggi e gli episodi di violenza indiscriminata nelle strade della capitale, significa riconoscere la realtà, una realtà in cui molti giovani si sentono completamente esclusi non solo da potere e ricchezza ma pure da ogni tipo di opportunità.

Il risultato è che ci troviamo a un anno esatto dalle Olimpiadi di Londra e in tutto il mondo si vedono in tivù delle immagini di Londra in fiamme, con la polizia in assetto di guerra e giovani incappucciati che saccheggiano negozi ed appiccano fuoco alle macchine. Non sono le immagini che uno assocerebbe con la città ospitante dei prossimi Giochi. Come cittadino britannico, ciò mi rattrista e mi deprime, perché so che il nostro paese è molto meglio di quello che traspare da simili immagini. Purtroppo, il governo Cameron - dopo aver visto fallire l´ambizioso progetto della "Big Society", il massiccio trasferimento di poteri dallo Stato agli individui - è finora sembrato in ritardo, incapace di riportare la situazione sotto controllo. La polizia non ne esce meglio, il capo di Scotland Yard è appena stato costretto a dimettersi per il tabloid-gate (lo scandalo delle intercettazioni illegali in cui i giornali del gruppo Murdoch erano in combutta con poliziotti corrotti, ndr), le stesse forze dell´ordine sono state colpite da riduzioni del persone e del budget per effetto dei tagli varati dal governo. E sullo sfondo di tutto c´è la crisi globale, l´incertezza nell´economia in Europa e in America. «Siamo tutti insieme in questa crisi» è stato lo slogan del premier Cameron, ma l´impressione di molti britannici è che non sia così, che i tagli colpiscano i poveri e non i privilegiati, e che per di più non siano riusciti a far ripartire in fretta l´economia, ossia non abbiano funzionato, non abbiano mantenuto le promesse che, grazie a un forte sacrificio subito, saremmo stati meglio in un secondo tempo, saremmo tornati rapidamente a un benessere diffuso.

Da questo micidiale cocktail è venuta fuori una rivolta urbana senza precedenti. Nel breve termine tocca alla polizia ristabilire l´ordine, e non sarà semplice, perché già Scotland Yard è stata accusata di usare forza eccessiva o di non sapere controllare manifestazioni di protesta nel recente passato: nessuno vuole certo vedere l´esercito nelle strade per riportare la calma. Ma nel medio e lungo termine saranno le autorità e il mondo politico a doversi interrogare sul perché così tanta gente, così tanti giovani, si sentono talmente disperati e arrabbiati dal volere danneggiare e distruggere le stesse strade in cui vivono, le comunità in cui sono cresciuti. Qualcuno dice che bisogna colpire i criminali che saccheggiano, e basta. Altri che occorre innanzi tutto rispondere alle cause più profonde della violenza. Credo che bisognerà fare entrambe le cose, se vogliamo che tra un anno, per le Olimpiadi, Londra trasmetta al mondo immagini diverse.

(testo raccolto da Enrico Franceschini)

In una nota del Rapporto annuale, che uscirà a settembre, si legge che il federalismo fiscale potrebbe mettere a dura prova la tenuta della società meridionale

La grande stampa accoglie la pubblicazione annuale del Rapporto sulla economia del Mezzogiorno della Svimez (Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno) in generale con attenzione solo ai dati o ai fatti più eclatanti e per contro con scarso interesse ai processi di fondo che sono alla base di quei dati e che i volumi analizzano in dettaglio. Così, qualche anno addietro tutti si resero conto con sorpresa - grazie alla documentazione e alle analisi della Svimez - della ripresa della emigrazione dalle regioni del Sud (circa ottocentomila partenze negli ultimi dieci anni). Per quel che riguarda il rapporto di quest'anno il dato eclatante ripreso dalla stampa è che nel Mezzogiorno due giovani su tre sono disoccupati.

La ripresa della emigrazione non è - né la Svimez pretendeva che lo fosse - una novità: i rapporti dei dieci anni precedenti avevano già documentato questa ripresa indicando un saldo migratorio di settanta o ottanta mila persone all'anno. Ma i rapporti Svimez, tranne casi eccezionali, non godono di grande attenzione, o perlomeno dell'attenzione che meritano. E questo perché le analisi e le relative implicazioni in termini di politica economica sono effettivamente un po' controcorrente.

La Svimez, fin dai tempi di Pasquale Saraceno, il suo presidente storico, non si è mai entusiasmata per i miti correnti sulla situazione del Mezzogiorno, i suoi problemi e le possibili soluzioni. E negli ultimi trent'anni di miti 'meridonalisti' ne abbiamo subiti tanti. Dalle cretinate sul piccolo imprenditore emergente, alle banalità sullo sviluppo a macchia di leopardo, ai distretti industriali trovati nel Mezzogiorno dappertutto (in particolare dove non c'erano) al grande ruolo della economia sommersa - con l'inutile, anzi dannoso, ruolo della Commissione per l'emersione (che non ha fatto emergere un bel nulla) - alla eliminazione dell'intervento pubblico per dare spazio al libero gioco del mercato, alle interpretazioni antropologiche e politologiche del mancato sviluppo e l'individuazione della causa principale nella classe dirigente locale - tesi quest'ultima sbandierata ai quattro venti in particolare dai rappresentanti della classe drigente medesima.

Così, di recente, l'Associazione non ha voluto ascoltare le sirene del federalismo ("federalsimo fiscale" nella dizione corrente) sottolineandone i rischi e indicando sempre interventi e prospettive di altra natura per lo sviluppo del Mezzogiorno e la riduzione del divario Nord-Sud (accresciutosi - come documentato - nell'ultimo decennio). Infatti, tornando ai disoccupati, nel rapporto è ben evidenziato come le cifre attuali non siano solo l'effetto della grande crisi finanziaria internazionale, bensì anche e soprattutto il risultato di scelte di politica economica che hanno penalizzato il Mezzogiorno negli ultimi anni. Ed è bene perciò tenere conto di entrambi gli aspetti - quello congiunturale e quello di più lungo periodo, nonché, ovviamente, dei loro intrecci.

Consideriamo gli effetti della crisi. La nota che anticipa le considerazioni generali del Rapporto di quest'anno (e che sarà distribuito a settembre) inizia come segue: «La grave recessione che ha colpito l'economia mondiale nel biennio 2008-2009 si è abbattuta pesantemente sull'intera economia nazionale, e ha mostrato i suoi effetti più pesanti, in termini di impatto sociale sui redditi delle famiglie e sull'occupazione, nelle regioni del Mezzogiorno. La lenta e difficile fuoriuscita dalla crisi dell'Italia ha interessato soprattutto le aree del Nord del Paese mentre il Sud, dopo la flessione del 2009, appare nel 2010 ancora in stagnazione». C'è dunque sia un effetto particolarmente grave della crisi, sia soprattutto la mancata ripresa. E non per caso: la ripresa si esprime con gli investimenti e questi nel Mezzogiorno sono stati particolarmente carenti. Infatti gli investimenti fissi lordi nel Centro Nord sono aumentati - segno indubbio di ripresa - del 3,5%, mentre l'aumento nel Mezzogiorno non ha raggiunto nemmeno l'1%.

Da notare che questa carenza non ha riguardato solo gli investimenti privati ma anche e soprattutto quelli pubblici: insomma su questo piano c'è stata discriminazione. In maniera molto asciutta la Svimez si esprime così: «Su tale risultato ha pesato sia la contrazione degli investimenti privati, conseguenza della crisi, sia soprattutto la forte contrazione degli investimenti pubblici, conseguenza delle manovre di finanza pubblica e della forte riduzione delle risorse in conto capitale dei fondi aggiuntivi per il Mezzogiorno (Fondo aree sottoutilizzate). Il risultato è ovvio: stagnazione o riduzione dei consumi e peggioramento delle condizioni di vita. La spesa delle famiglie (che esprime la ricchezza o la povertà della gente) è diminuita per effetto della crisi e della mancata politica di sviluppo attuale e precedente. Infatti le difficoltà delle famiglie «vanno al di là della congiuntura ma sembrano ulteriormente aggravarsi di recente in conseguenza delle consistenti perdite di posti di lavoro, che al Sud... spesso riguardano l'unico percettore di reddito all'interno del nucleo familiare». E ciò significa che nella disoccupazione meridionale di oggi bisogna contare non solo i «due giovani su tre», ma anche molti adulti capofamiglia.

A questo proposito giova ricordare che i dati eclatanti sulla disoccupazione nel Mezzogiorno e in particolare su quella giovanile sono tutt'altro che una novità dell'oggi. E, detto per inciso, a questi vanno aggiunti anche coloro, soprattutto donne, che escono dal mercato del lavoro per scoraggiamento. Se i dati di oggi si spiegano almeno parzialmente con la crisi degli anni precedenti, al 2008 meritano spiegazioni che riguardano la politica economica. Scartata ormai da tutti la tesi della rigidità dell'offerta di lavoro, per lo meno da quando sono riprese le emigrazioni, bisogna ricercare le cause nell'economia e soprattutto nella politica economica. Tra la fine degli anni '90 e la prima metà degli anni 2000 anche il Mezzogiorno aveva goduto in parte della crescita di occupazione legata al lavoro precario e in generale alla cattiva occupazione. Ora non c'è più neanche questo; i contratti precari di 5 o 6 anni addietro non si sono trasformati in occupazione stabile ma al contrario hanno dato adito a ulteriore disoccupazione.

Passiamo, per concludere, alle proposte sul tappeto e ai loro prevedibili effetti. «Se in un quadro di questo genere - si legge nel Rapporto - si inserisce anche la prospettiva di un avvio del federalismo fiscale che tende, per altri versi, a determinare effetti redistributivi parimenti sfavorevoli, la tenuta della società meridionale potrebbe rapidamente essere messa a dura prova». L'affermazione può apparire perentoria. Anzi, più precisamente, lo è. Ma essa è surrogata da tutta una vasta serie di studi condotti da studiosi meridionali da Domenicoantonio Fausto allo stesso Adriano Giannola (attualmente presidente della Svimez,) che mostrano - dati alla mano - i costi che il Mezzogiorno pagherebbe nel caso di realizzazione piena del paventato federalismo fiscale, così come cantato non solo dalla Lega e dal Pdl, ma anche da vasti settori del Partito democratico. E proprio una delle rivista della Svimez, la Rivista Giuridica del Mezzogiorno ha ospitato articoli con questo orientamento. Ciò che si mette in luce non è tanto la mancanza di senso di solidarietà nazionale che ha ispirato i provvedimenti in direzione del federalismo fiscale, quanto il carattere discriminatorio che essi assumono tendendo a concentrare la ricchezza nella parte del paese già ora più ricca. E già da ora meccanismi di finanza pubblica distribuiscono risorse a vantaggio nel Nord.

Che fare dunque? Secondo la Svimez «nella crisi il Sud ha pagato già un prezzo molto alto con tagli significativi alle risorse per investimenti; in generale è assolutamente prioritario arrestare la deriva ormai decennale di un Paese che sta consumando il proprio stock di dotazioni produttive. A questo fine va ripristinata la responsabilità attiva dell'operatore pubblico ... La ridefinizione di una politica di sviluppo deve essere una priorità nazionale complessiva che non può essere affidata alla spontanea allocazione del mercato ma rimanda ad interventi di politica industriale attiva volti a modificare nei prossimi anni la specializzazione produttiva del Paese». Insomma uguale, uguale l'opposto di quello che viene solitamente proposto.

Non solo i farmers market, i mercati degli agricoltori dove acquistare prodotti a chilometro zero direttamente da chi li produce (in Lombardia sono già un centinaio, di cui quarantacinque tra Milano e provincia) ma anche gli spacci nelle cascine sono molto apprezzati dai consumatori, sempre più convinti, con la spesa sul campo, di portare in tavola cibo buono e sano spendendo meno. La vendita diretta nelle aziende agricole ha avuto un vero e proprio boom, e gli spacci aziendali sono passati da 73 a 372 in poco più di un anno, fa sapere la Coldiretti Lombardia: un incremento del 500 per cento.

Che si inserisce dentro il progetto Campagna Amica, la struttura su cui Coldiretti sta costruendo la filiera agricola italiana con il sistema della vendita senza intermediari. E che si serve, per raggiungere lo scopo, della espansione dei mercati dei contadini, degli spacci all’interno dei luoghi di produzione e delle "botteghe di Campagna Amica" (per ora solo quattro in Lombardia, a Legnano, Parabiago, Cremona e Biassono), negozi in cui gruppi di produttori si mettono insieme in modo da offrire ai clienti più scelta e ottimizzare i tempi di acquisto.

Un successo dovuto anche «alla nostra sensibilizzazione per spingere i coltivatori a vendere in maniera diretta, in modo da arrivare più vicino al consumatore e tagliare la filiera - spiega Andrea Repossini, responsabile di Campagna Amica della Coldiretti di Milano e Lodi - . A chi compera si cerca di dare un prodotto di qualità al prezzo giusto, a chi vende di aumentare la redditività di ciò che produce, senza che questa venga decurtata da tutti i passaggi interni alla filiera, che lasciano nelle tasche dei coltivatori solo briciole. La forte espansione è iniziata due anni fa e oggi la rete, sia dei mercati che degli spacci, sta diventando sempre più capillare».

Carne, latte, formaggi, salumi, miele, vino, pollame, uova, marmellate, riso, frutta e verdura - fino a cose molto particolari come la birra cruda o le lumache - sono, per esempio, i prodotti offerti negli spacci di Milano e provincia, ora una quarantina (l’elenco sul sito lombardia.coldiretti.it). Ma centodieci spacci sono in attesa di essere accreditati. Per ottenere il logo Campagna Amica è necessario essere una vera azienda agricola, che coltiva e tratta ciò che poi vende e «accettare una serie di controlli da parte nostra - dice ancora Repossini - che accertino la provenienza locale e la corretta produzione del prodotto».

Ferdinando Cornalba, di Cascina Nesporedo a Locate Triulzi, è un veterano della vendita diretta, oggi così diffusa, e naturalmente è stato il primo ad entrare nella rete Campagna Amica. «Abbiamo cominciato nel 1985 con la carne e il riso, venticinque anni fa» racconta. E ci tiene a dire che «dalla fiala di fecondazione alla bistecca tutto viene rigorosamente fatto all’interno dell’azienda, compresa la macellazione, la trasformazione, la vendita. Siamo stati i primi a mettere il self service per il latte fresco, appena munto. Ma visto che i miei clienti mi chiedevano altri prodotti oltre a carne, riso, latte e miele, e che io certo non posso produrre tutto, ho organizzato un sistema di collaborazione infraziendale, un interscambio tra aziende. Io ti do la carne, tu mi dai la birra o il vino o l’olio. Vendo il prodotto di un’altra azienda che fa filiera corta come me, e loro vendono il mio».

La sua inventiva è andata anche oltre. Ha messo delle videocamere nelle stalle e ha pianificato l’adozione a distanza. «Con minimo 50 euro - spiega - si può avere il certificato di adozione. Su Internet il cliente può seguire ciò che accade nelle stalle, come vengono trattati gli animali. Un mese dopo può fare i suoi acquisti. L’importo viene scalato, ma con un 10 per cento in più».

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Naturalmente tutto è bene ciò che finisce bene, e dunque pare assai positiva qualunque mossa in direzione di un rapporto più diretto e consapevole fra territorio, consumi, società. In fondo è proprio questo il senso dello slogan chilometro zero, oltre il fattore essenziale del contenimento di consumi energetici da taglio delle distanze di trasporto derrate. Però pare proprio che il percorso iniziato coi mercati contadini, invece di evolversi in una direzione – diciamo così – di massa, si stia orientando invece a crearsi una specie di altra nicchia segregata. E val la pena chiedersi: è un obiettivo intelligente, la pura individuazione di nuovi segmenti specifici di mercato, o magari in questo modo non si va molto oltre il ghetto di lusso di alcuni privilegiati, vuoi sul versante economico che culturale?

Il rapporto positivo che si instaura fra territorio e società locale con la “riscoperta” delle attività agricole anche per il consumo diretto dovrebbe andare un po’ oltre, magari coinvolgere direttamente la grande distribuzione, ideare un “marchio” riconoscibile sul modello di quelli della denominazione di origine, entrare visibilmente nei servizi alimentari di scuole e altre istituzioni locali.

Altrimenti, con le cascine e le aziende agricole che le circondano ridotte al ruolo di boutique territoriale per signore eleganti in cerca di autenticità sottovuoto, si va al massimo verso una replica di quanto già avvenuto nella seconda metà del ‘900 coi centri storici: prima il declino della funzione residenziale e popolare con tutte le attività connesse, poi la riscoperta e valorizzazione a uso e consumo di chi può permetterselo. E non pare una gran scoperta progressista, per la società, l’ambiente, la metropoli, pensare a una greenbelt futura dove al sabato fanno shopping le sciùre del centro, mentre i poveracci le guardano da dietro i cancelli. Anche per la gestione intergrata del territorio insomma cerchiamo di fare qualcosa un pochino di sinistra, o almeno provarci (f.b.)

Studi che sembrano copia-incolla da Internet. Di più: relazioni stilate da dietro la scrivania, senza aver visto i luoghi. C’è chi si è dimenticato di un vulcano sommerso. Si presentano al ministero dell’Ambiente e permettono di piantare pozzi petroliferi a pochi passi da isole come Pantelleria, Favignana e Marettimo.

Lo dice in un comunicato anche la Northern Petroleum, una delle società interessate: “La legislazione italiana che vieta le trivellazioni off-shore entro le 12 miglia dalla costa avrà un effetto irrilevante...”. Come dire: le trivellazioni vanno avanti. Un mistero, gli abitanti sono contrari. Enti locali di entrambi gli schieramenti hanno votato “no”. Ma lungo le coste della sola Sicilia incombono 40 concessioni per ricerche ed estrazione petrolifera. Alcune con procedura in corso, altre già rilasciate. Insomma, si può cominciare. Da Pantelleria, per esempio. Proprio qui, domenica prossima, abitanti e frequentatori (tra cui gli attori Luca Zingaretti e Isabella Ferrari) si ritroveranno per protestare. “Vogliamo risposte e chiarimenti. Troppi punti sono oscuri”, chiede Alberto Zaccagni, uno degli organizzatori.

Il Fatto Quotidiano ne aveva parlato nel maggio 2010. Erano passati cinque giorni dal disastro della piattaforma della Louisiana quando l’allora ministro Claudio Scajola, con sfortunato tempismo, aveva varato un decreto “per semplificare le procedure per le attività di ricerca petrolifera svolte d’intesa con le Regioni”. Uno dei suoi ultimi atti prima delle dimissioni.

E dire che già l’Eni negli anni Ottanta aveva abbandonato i pozzi perché antieconomici. Stavolta, secondo l’associazione AltraSciacca, molti permessi sono già stati concessi in gran segreto, “senza la pubblicità prescritta”. I primi cinque arrivano nel novembre 2006 (governo di centrosinistra). “Ad aggiudicarseli sono stati la Shell e la Northern Petroleum (tra Marettimo e Favignana). Poi tocca alla Audax Energy e nel 2009 (era Berlusconi) alla San Leon Energy”, è la ricostruzione di Ignazio Passalacqua, consigliere provinciale di Trapani (centrosinistra), in prima fila contro le trivellazioni. Concessioni vecchie di anni, alcune forse scadute, ma ottengono una sospensione “sine die” pubblicata sul Bollettino Ufficiale degli Idrocarburi e delle Georisorse.

Tutti vogliono trivellare il mare siciliano. Colossi e società sconosciute: “La San Leon Energy è una srl con capitale di diecimila euro. La sede è in un paesino della Puglia. Anche il Fatto ha provato a contattarli, ma ai recapiti forniti rispondono altre società. Non solo: la ditta risulta inattiva ed è stata ceduta a una società madre in Irlanda”. Niente di irregolare, però elementi che, secondo le associazioni, suscitano allarme: “Come si fa a concedere a un soggetto di queste dimensioni sondaggi tanto delicati? In caso di disastro su chi rivalersi?”, si chiedono l’ingegner Mario Di Giovanna e l’associazione AltraSciacca. La Audax Energy, altra società che vanta diritti importanti, ha un capitale di 120mila euro e rientra nella galassia di imprese del geologo Luigi Albanesi. Un nome che ricorre in questa storia: come esperto, ha firmato studi per le società petrolifere. Anche le proprie. E qui Mario di Giovanna ha qualcosa da dire: “Niente di illecito, ma ci pare poco opportuno che lo stesso amministratore firmi le relazioni tecniche delle sue imprese”. Studi, come ha ammesso l’interessato, compiuti senza recarsi sul luogo, perché in Sicilia ci va, “ma al mare”.

Dopo le polemiche dell’anno scorso si era cercato di frenare le trivellazioni, ponendo limiti (da 5 a 12 miglia dalle coste e dalle zone protette) per le ricerche. Alcune domande erano state bocciate. La corsa, però, è ripresa indisturbata.

Ma perché così interessati alla Sicilia? No, non pare che sotto l’isola si nasconda un mare di oro nero. Le ragioni sono altre: le royalties che le compagnie pagano alla Sicilia sono tra le più basse d’Italia (l’Emilia Romagna con quantità inferiori di idrocarburi incassa 33 volte di più), che già vanta royalties tra le più basse del mondo. Lo dicono i produttori nei loro siti: “La struttura delle royalties in Italia è una delle migliori del mondo. Per i permessi offshore le tasse sono solo del 4 per cento, ma nulla è dovuto fino a 300.000 barili l’anno”. E pensare che in Libia si arriva all’85 per cento, in Norvegia e Russia all’80.

Così nel rapporto annuale di una delle società, la Cygam, il nostro Paese viene eletto “il migliore per l’estrazione di petrolio off-shore”, forse anche per “l’assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti”.

Par di capire: di petrolio ce n’è pochino, magari si provocano danni ambientali. Ma il profitto è garantito. Ai petrolieri.

LUCA ZINGARETTI

POZZI NEL MEDITERRANEO, UN GIALLO PER MONTALBANO

“Ci stiamo giocando alcuni tra i tesori del Mediterraneo, diamo il via libera a pozzi di petrolio che nasceranno ovunque. E tutto questo sta avvenendo nello stile aumma aumma, come i compagnucci della parrocchietta”. Luca Zingaretti, il commissario Montalbano, è tornato sul luogo del delitto, la Sicilia. Anzi, nella sua Pantelleria: “Quando sono sbarcato qui la prima volta, appena sceso dall’aereo ho capito che il mare per me sarebbe diventato questo, così scuro, difficile da raggiungere. Stupendo”. Ma stavolta sarà una vacanza di protesta: domenica 14 manifestazioni anti-trivellazioni petrolifere.

Ma Zingaretti ci tiene a fare una premessa: “Non vogliamo difendere soltanto Pantelleria, perché qui viviamo o abbiamo la casa. No, protestiamo contro le trivellazioni che mettono in pericolo molti tratti delle coste italiane. Dalla Sicilia alla Riviera Romagnola”.

Montalbano riuscirà a risolvere il giallo delle trivellazioni a Pantelleria?

Non ci illudiamo di fermare la corsa al petrolio. Ma in Italia ci stiamo giocando il nostro mare senza che se ne parli, senza che nessuno se ne accorga. Non ci rendiamo conto di che cosa vuol dire mettere decine di pozzi di petrolio in un mare come il Mediterraneo.

Ce lo dica lei…

Avete visto che disastro terribile è successo in Louisiana perché si è guastato un pozzo petrolifero. Pensate se la stessa cosa succedesse nel Mediterraneo che è, appunto, un mare chiuso. Qui, se si rompe un impianto, la marea nera invade le coste di tutti i paesi. E poi nessuno parla di quelle vere e proprie bombe di profondità che vengono utilizzate per rilievi sottomarini con effetti devastanti sulla flora e la fauna.

Un rischio ambientale enorme…

Noi abitiamo in mezzo al mare, l’Italia è fatta di mare. È l’elemento centrale del nostro Paese, quasi la sua anima. Altrove è la campagna, sono i monti. Da noi credo davvero sia il mare. Dobbiamo trattarlo con maggiore cura. Ma non è soltanto una questione ambientale, è molto di più.

I sostenitori del petrolio dicono che porta denaro e autonomia energetica…

Ecco il punto. I pozzi a due passi da gioielli come Pantelleria, Favignana, Marettimo non convengono a nessuno, nemmeno da un punto di vista economico . La vera ricchezza del nostro Paese, che resta il più bello del mondo, non sarà mai il petrolio, ma semmai il turismo. E, in zone come queste, anche attività come la pesca. Ora immaginatevi concretamente l’impatto dei pozzi di petrolio sull’economia legata al mare: si rischiano migliaia di posti di lavoro.

Eppure qualcuno le deve aver date le concessioni a queste imprese...

Questo è il punto. Non si capisce chi abbia dato il via libera al petrolio. E come. Sembra impossibile: si parla di operazioni da decine di milioni di euro e a portarle avanti sono società con pochi euro di capitale. Non si riesce a sapere in base a quali criteri si affidino le concessioni. I politici, gli amministratori dovrebbero dare, a tutti noi, delle risposte. Invece niente, silenzio. Contano sul fatto che la gente si stufi di chiedere, che si arrenda. Ma stavolta non sarà così.

Ieri, alle 12, è suonata la campanella: il limite massimo per la presentazione delle osservazioni al progetto previsto in zona Roncoduro, tra Dolo e Pianiga. Ora i due Comuni, in accordo con la Regione, dovranno classificarle, raggrupparle per tema e valutarle. A inizio settembre è previsto il primo incontro tra comuni e Regione, coordinato dal segretario regionale per le infrastrutture, Silvano Vernizzi. Le osservazioni sono dunque tantissime, e presentate da soggetti diversi, ma bisognerà capire quali verranno realmente ritenute pertinenti.

Comitati. Il maggior numero delle osservazioni è stato presentato con il coordinamento dei Cat (Comitati ambiente e territorio) in collaborazione con Legambiente, Confersecenti, Cia e un Fiume di ville. E’ possibile individuare tre filoni principali: la carenza di interventi per prevenire il rischio idraulico, il traffico sottovalutato, e i criteri che sanciscono il beneficio pubblico dell’operazione immobiliare.

Quest’ultimo è forse il nodo più delicato. «Dove sono l’urgenza, la pubblica utilità e l’indifferibilità di questo progetto?», si chiede Adone Doni, dei comitati. Lo strumento urbanistico usato per Veneto City - chiamato accordo di programma - permette infatti di accelerare le procedure per l’apertura dei cantieri, a patto che l’intervento abbia un palese risvolto pubblico.

Comuni. Osservazioni al progetto sono arrivate anche dai comuni vicini. Mira, oltre a sottolineare alcuni aspetti specifici, come il mancato studio sulle ripercussioni di traffico sulla Brentana, se la prende soprattutto con il metodo. «Che due Comuni decidano di sottoscrivere un accordo - dice il sindaco Michele Carpinetti - non sentendo le indicazioni o i semplici pareri dai “vicini di casa” mi sembra un modo di concepire la concertazione abbastanza singolare». Anche Mirano, con il commissario Vittorio Capocelli che ha consultato partiti e associazioni, ha presentato otto pagine di osservazioni sottolineando il rischio di perdere la stazione di Ballò (in favore di quella di Albarea, funzionale a Veneto City) e i tanti problemi della viabilità d’accesso (a Scaltenigo, Vetrego e Ballò) al mega centro direzionale.

Gottardo e Calzavara. I sindaci di Dolo (Maddalena Gottardo) e Pianiga (Massimo Calzavara) si preparano a fare, con consiglieri comunali e tecnici, gli straordinari. «Anche perché - spiega Calzavara - voglio che tutte le osservazioni, prima dell’incontro con la Regione, siano esaminate anche dalla commissione consiliare urbanistica. C’è la mia parola che le guarderemo tutte 5.300». E’ la stessa garanzia della Gottardo. «Dobbiamo ancora finire di protocollare tutte le osservazioni - dice - per fine agosto vogliamo esaminarle, così da incontrarci a inizio settembre con la Regione. Sono tante? C’era da aspettarselo, ma il nostro lavoro è anche quello di esaminarle».

I proponenti. Gli imprenditori di Veneto City Spa intanto stanno ad aspettare, con la convinzione che tutt’al più saranno chiamati ad apportare qualche piccola modifica, ma difficilmente verrà messo in discussione l’impianto urbanistico del progetto. «Aspettiamo che i comuni valutino le osservazioni - dice Rinaldo Panzarini, amministratore delegato di Veneto City -, per ciò che ci riguarda non ha senso dire se sono tante o poche, perché bisognerà capire quali sono pertinenti e quali no. Aspettiamo che Comuni e Regione facciano il loro lavoro e ci diano indicazioni».

Qui altre informazioni su Veneto City, nel sito del CAT

MANTOVA — La bandiera dei pirati sventola in riva al Po: da Cremona fino al confine tra Lombardia e Veneto e ancora più a valle, questa è terra senza legge e bottino di guerra per troppe persone. L'ultima guerra che le comunità rivierasche hanno dovuto ingaggiare con scarsi mezzi e scarsi risultati è quella contro un fenomeno sorprendente: i predatori del pesce siluro.

Rifiutato dalle tavole italiane, dove anzi è stato a lungo considerato una specie infestante, il siluro è considerato una prelibatezza nell'Est Europa. Il risultato è che bande, prevalentemente ungheresi, calano in riva al Po, riempiono camion frigo di pesce catturato con metodi illegali e se ne tornano da dove sono venuti. Tutto approfittando dell'oscurità.

«Qualche sera fa stavo rientrando con la mia barca a riva, per poco non sperono un natante che procedeva a fari spenti; quelli dell'altra barca mi hanno pure inveito contro, in una lingua incomprensibile e uno mi ha fatto il segno di tagliarmi la gola...»: Vitaliano Daolio è uno che sul Po ci vive e ci lavora, accompagnando appassionati e turisti in battute di pesca (autorizzate). E' tra i tanti che hanno già denunciato la presenza di queste bande di predatori. «In Ungheria la pesca è molto regolamentata, qui trovano campo libero anche per l'assoluta mancanza di controlli — racconta Daolio — agiscono di notte usando anche reti ed elettrostorditori, strumenti assolutamente proibiti da noi: in poche uscite raccolgono anche 20, 30 quintali di pesce che in Ungheria vendono a 5 euro al chilo».

I segni dei bivacchi sono visibili in molti punti delle vegetazione tra Cremona e Viadana, ma anche sulla sponda emiliana a Luzzara e a Boretto. «Troviamo le carcasse dei siluri in riva al fiume — denuncia Maurizio Castelli, assessore alla caccia e alla pesca della Provincia di Mantova —, segno che il pesce viene ripulito e sfilettato sul posto per poi essere caricato sui camion frigo già in attesa».

Del business del siluro non approfittano solo gli ungheresi: numerosi siti tedeschi pubblicizzano i «wallercamp», pacchetti turistici tutto compreso: 1.600 euro la settimana con campeggio selvaggio sulla sponda lombarda (in Emilia è vietato), dove l'attrazione è proprio la pesca al siluro; una vacanza molto spartana, che in Italia nessuno apprezzerebbe. Non così in Germania, almeno a giudicare dalle foto pubblicate su questi siti e che ritraggono i partecipanti alle battute con le loro prede. «Mi piacerebbe che venissero controllate le imbarcazioni usate da questi signori, per vedere se è tutto in regola...» butta lì sibillino Vitaliano Daolio.

La frase introduce in qualche modo l'altra attività piratesca di cui il Po è diventato teatro negli ultimi mesi: i furti di motori nautici. A Boretto, qualche settimana fa, le telecamere sulla sponda hanno ripreso l'arrivo di un'imbarcazione dalla quale scendono uomini incappucciati; questi cominciano a prendere a martellate le barche ormeggiate e se ne vanno con i motori, senza tanti complimenti. Ma i furti si sono susseguiti nel porto di Cremona (sette natanti spogliati), a Revere (addirittura undici), a Motta Baluffi.

Il problema, come detto, sono i controlli: le polizie provinciali lungo la sponda pattugliano di giorno (non di notte, quando i predatori entrano in azione), ma sono composte da agenti disarmati. Anche i carabinieri disponevano fino a tre anni fa di una pilotina, ma il servizio è stato inspiegabilmente revocato. Insomma, col calare della notte il tratto lombardo del grande fiume diventa Far West. E i pescatori di frodo, i ladri di motori si aggiungono ai cavatori abusivi di sabbia, fenomeno meno recente ma sempre duro a morire. «L'ideale sarebbe un sistema di videosorveglianza — propone l'assessore Castelli — che terrebbe sotto controllo l'intero fiume».

Possibile? In ogni caso occorre fare presto perché persino il siluro comincia a scarseggiare. «Sono stato fuori sette ore — raccontava ieri Daolio — e ho percorso 30 chilometri di fiume senza catturare nulla».

Lui non ha catturato nulla, altri hanno riempito i camion.

IL GIOCO SI FA DURO

di Mario Pianta


Iniziamo da due (piccole) buone notizie. Una viene da Bruxelles: Olli Rehn, Commissario europeo all'economia, si è convinto che emettere eurobonds - titoli europei garantiti dal bilancio dell'Unione - sia una buona idea. Li vuole usare per stabilizzare il debito dei paesi fragili, mentre andrebbero destinati all'economia reale, a finanziare la riconversione dell'Europa a un'economia sostenibile; è comunque un passo avanti, resta da convincere la cancelliera tedesca Angela Merkel. L'altra notizia viene da Roma: il Pd di Bersani si dichiara contrario a inserire nella Costituzione l'obbligo del pareggio di bilancio. È una norma che azzererebbe le possibilità di politiche economiche proprio quando sono indispensabili, nel mezzo di crisi e depressione; un'imposizione tutta ideologica, venuta da Berlino e subito sostenuta, in un delirio quasi unanime sui media, da un arco che da destra arriva a Montezemolo e Veltroni.

In Europa c'è qualche apertura a contromisure che cambino alcune regole del gioco - aspettiamo ancora la tassa sulle transazioni finanziarie - e ieri gli acquisti della Bce di titoli di stato italiani e spagnoli hanno fatto scendere molto i tassi che dobbiamo pagare. In Italia, invece, il gioco si fa duro. Il vertice del Pd prova a smarcarsi da un pressing che potrebbe stritolarlo, quello del «governo tecnico (sopranazionale) che c'è già», annunciato dall'ex Commissario europeo Mario Monti sul Corriere della Sera. Il suo programma - ultraliberista - è stato scritto da Trichet e Draghi, l'attuale e il prossimo presidente della Banca centrale europea: liberalizzazioni, svendita delle proprietà e delle imprese pubbliche, meno protezioni sul mercato del lavoro e licenziamenti facili per tutti.

È questo «passaggio di sovranità» il prezzo che si chiede all'Italia di pagare per «tranquillizzare i mercati» - e risparmiare (forse) 50 miliardi di euro in tre anni di costi aggiuntivi per gli interessi sul debito dovuti agli alti spread rispetto ai tassi pagati dalla Germania.

Sotto la pressione dell'Europa, il governo Berlusconi (quello che crede di esserci ancora) prepara tagli senza precedenti a spesa pubblica e pensioni per arrivare al pareggio di bilancio nel 2013. Le "parti sociali" - industriali, banchieri, sindacati - chiedono discontinuità politica, ma presentano un piano che per metà ricalca quello di Trichet e Draghi. Tutti dimenticano che in questi decenni le liberalizzazioni non hanno portato a crescita e occupazione, ma solo a disuguaglianze e precarietà. Tutti dimenticano che appena due mesi fa gli italiani hanno scelto in quattro referendum di rifiutare la privatizzazione dell'acqua, il nucleare e la giustizia "fai da te"; ora si parla di liquidare come saldi estivi beni e servizi pubblici. Dalla crisi l'Europa e l'Italia possono uscire in un altro modo, ridimensionando la finanza, rilanciando produzioni sostenibili, redistribuendo la ricchezza. L'opposizione in parlamento, il sindacato, i movimenti possono definire quest'agenda diversa, disegnare un futuro comune, dare questi contenuti allo scontro delle prossime elezioni.

In gioco ormai c'è molto di più di qualche taglio al bilancio. Governi annunciati a mezzo stampa, programmi in lettere riservate, Costituzione da cambiare subito, risultati di referendum ignorati. Sembra un golpe di agosto contro la democrazia. Quella - fragile - italiana, ma anche quella - possibile - europea. La discussione sulla "rotta d'Europa" aperta da Rossana Rossanda sul manifesto e sbilanciamoci.info è più urgente che mai.



LE «PARTI SOCIALI»

DOMANI DA TREMONTI.

SENZA LA CGIL

di Roberto Tesi 


Giulio Tremonti ha spedito alle parti sociali una breve nota. In una paginetta c'è scritto quello che occorre fare per ridurre il deficit per il prossimo anno all'1,6 e poi tentare di azzerarlo nel 2013. Insomma, sono delineate alcune idee per la manovra aggiuntiva, che per il 2012 sarà di circa 20 miliardi. Si tratta di ipotesi sulle quali stanno lavorando i tecnici del ministero dell'Economia e della Ragioneria generale dello stato. Forse Confindustria, Cisl e Uil ne sapranno di più in anticipo visto che domani mattina Tremonti dovrebbe incontrarli, facendo fuori la Cgil.

Giulio Tremonti ha spedito alle parti sociali una breve nota. In una paginetta scarsa c'è scritto quello che occorre fare per ridurre il deficit per il prossimo anno all'1,6 e poi tentare di azzerarlo nel 2013. Insomma, sono delineate alcune idee per il varo della manovra aggiuntiva. che per il 2012 sarà di circa 20 miliardi. Si tratta di alcune ipotesi sulle quali stanno lavorando i tecnici del ministero dell'Economia e quelli della Ragioneria generale dello stato. In quel foglietto, ovviamente, solo ipotesi e nulla di definitivo. Forse se ne saprà di più domani alle 15 nell'incontro tra governo e parti sociali. Forse Confindustria, Cisl e Uil ne sapranno di più in anticipo visto che domani mattina Tremonti dovrebbe incontrarli, facendo fuori la Cgil.

Il grosso della manovra (che sarebbe varata con decreto legge) riguarda un taglio di 10 miliardi alle agevolazioni fiscali, cioè alle deduzioni e detrazioni di spese che annualmente vengono inserite nel 730. La manovra originale varata circa un mese fa prevedeva, in realtà, la riforma (cioè tagli all'assistenza ( in particolare pensioni di invalidità e assegni per maternità) che costa all'Inps oltre 90 miliardi l'anno. Ma si tratta di una manovra complicata e delicata che richiede tempi lunghi (e lunghi studi) per essere approvata. E allora Tremonti ha deciso di far scattare subito una tranche della «clausola di salvaguardia» varata dal parlamento a metà luglio. La clausola consiste, per appunto, in tagli alle agevolazioni fiscali. Complessivamente queste agevolazioni costano al fisco (la cifra è stata determinata recentemente da una commissione mista) circa 160 miliardi di euro. I tagli sarebbero lineari, cioè in percentuale uguale per tutte le detrazioni o deduzioni. E altri 10 miliardi di agevolazioni fiscali verrebbero eliminate il prossimo anno se nel frattempo non venisse approvata la norma con i tagli all'assistenza. Si tratta di tagli brutali che potrebbero anche essere sopportabili se ci fosse una riforma complessiva del sistema del welfare. Così, invece, si fa solo cassa. Nota curiosa: i tagli delle agevolazioni per i contribuenti si risolvono nel pagamento di 10 miliardi di tasse in più e in un aumento della pressione fiscale. Tremonti non può sostenere di non metter le mani nelle tasche degli italiani.

Un intervento che potrebbe cambiare la vita di molte persone è quello previdenziale: sparirebbero già da 2012 le pensioni di anzianità. Per il 2010 (la riforma fu varata da Prodi con Damiano ministro del lavoro) è prevista la possibilità di andare in pensione a «quota 96». Ovvero con 60 anni di età e 36 di contributi, oppure con 61 anni e 35 di contributi. Dal 2013 la quota doveva essere innalzata a 97 invece, ma con la nuova proposta, in pensione si potrà andare (gli uomini) solo a 65 anni, oppure con meno anni, ma con 40 anni di contributi. Per le donne (gestione Inps), nulla cambierebbe. O meglio, si sta studiando un meccanismo di innalzamento dell'età pensionabile un po' più celere di quello previsto dal precedente decreto (i 65 anni a regime scatterebbero dal 2030) che porterebbe ai 65 anni nel 2020.

Nella nota di Tremonti non è previsto esplicitamente l'innalzamento di un punto dell'Iva che (evasione a parte) porterebbe un maggior gettito di 9 miliardi. La paura - espressa in primo luogo dalla Confindustria - è che possa dare una spinta all'inflazione. Tuttavia se - come sembra - nel terzo trimestre il Pil dovesse segnare una variazione negativa (e i prezzi smettessero di crescere per il rallentamento globale dell'economia, come sta accadendo per il petrolio) l'aumento dell'Iva potrebbe essere varato. Non in forma lineare, ma tenendo ferma l'Imposta sul valore aggiunto di alcuni beni primari e aumentando di due punti l'Iva per altri beni; quelli di lusso (ma il gettito è scarso) ma anche quelli nei quali l'Italia subisce la concorrenza dei prodotti dei paesi industrializzati che l'Iva la pagano direttamente all'importazione con molte difficoltà di evasione. Il piano Tremonti prevede anche una - molto piccola - riforma dell'imposta di successione: verrebbero ridotti gli attuali massimali di esenzione che attualmente sono fissati in un milione per ciascuno degli eredi diretti. Con una riduzione di un 30-40 per cento del massimale dell'esenzione, l'erario potrebbe incassare nel 2012 circa 3 miliardi in più.

Altra novità: si sta studiando anche la possibilità di una patrimoniale. Ma si tratterebbe di una micro patrimoniale, e non di una patrimoniale generale sugli immobili e la ricchezza mobiliare che anche con una piccola aliquota frutterebbe almeno 15 miliardi. La micro patrimoniale allo studio colpirebbe solo le seconde case. In pratica si tratterebbe solo una super Ici (il cui gettito andrebbe all'erario e non ai comuni) attuata elevando le rendite catastali e questo produrrebbe anche un maggior gettito Irpef.

Circola anche una idea un po' bizzarra: una specie di tassazione sulle transazioni finanziarie. Dovrebbe essere dello 0,5 per mille (50 centesimi ogni mille euro) e colpirebbe le transazioni realizzate non con i contanti (per i quali c'è un limite nei pagamenti fissato in 3.500 euro) ma quelle realizzate con bonifici, assegni, bancomat. Insomma, Tremonti sembra disposto a chiedere aiuto all'informatica che lascia sempre una tracciabilità.

PATRIMONIALE PRIMA DI TUTTO

E TAGLIAMO SUBITO DOPO I TORNADO 


di “Sbilanciamoci” 


In parallelo con la manovra di Tremonti, anche Sbilanciamoci.org ha presentato la sua. Se Tremonti e gli altri ministri del Tesoro ogni anno riempiono una stagione politica e parlamentare con quella che un tempo si chiamava finanziaria e ora più semplicemente manovra, da una decina di anni Sbilanciamoci ne propone un'altra, diversa in tutto tranne che nella cifra complessiva. Tremonti in luglio parlava di 50 miliardi da suddividere su tre anni, lasciando «furbescamente» agli ultimi due il peso di gran lunga maggiore.

La controfinanziaria, come è stata chiamata per tanti anni, la contro manovra come la chiamiamo adesso ha invece una distribuzione dei tempi e dei pesi del tutto diversa. Il primo anno, 2012, riceve più della metà del peso. In questo - solo in questo - la contro manovra potrebbe ricevere il plauso della Bce e dei suoi capi presenti e futuri, Trichet e Draghi.

Il manifesto ha pubblicato una pagina dossier dedicata al tema («E' tempo di sbilanci», 1 luglio 2011) e riporta così un passo del testo che racconta le misure previste: «In questa crisi i ricchi non stanno pagando alcun prezzo...Il prezzo della crisi ricade sulle fasce più povere della popolazione. Proponiamo perciò una tassa patrimoniale...» La tassa patrimoniale prevista arriva allo 0, 5% per i patrimoni superiori ai 3 milioni di euro. Le entrate sarebbero di 10,5 miliardi, tutti nel 2012.

Intorno a questa misura una tantum altre permanenti e capaci di rendere un po' più progressiva o meno iniqua la distribuzione dei carichi fiscali nel paese; ritocchi sopportabili per i redditi maggiori e però tali da migliorare la fiducia della grande maggioranza della popolazione nelle istituzioni comuni. E chi si fida sarà meno tentato dall'idea di salvarsi individualmente, «come fanno tutti».

Di fronte all'aumento del prelievo, per i redditi maggiori e per le rendite finanziarie che dovrebbero quasi raddoppiare, raggiungendo il livello europeo del 23%, dal 12,5% attuale, vi sarebbe un largo spazio ai tagli: spese militari, Tornado, Ponte sullo stretto e altre grandi opere; e così via.

Tremonti ha lasciato alla parte finale del triennio il carico maggiore, impegnando anche la legislatura che non gli compete, dopo le elezioni che si prevede e si spera, perderà. E lo ha fatto «furbescamente», come ha scritto nel suo testo Giulio Marcon, ispiratore della contro manovra. Lasciamogli la parola: «La reintroduzione dei ticket, l'inserimento dei costi standard nella sanità, la riduzione dei trasferimenti agli enti locali, il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione, l'intervento sulle pensioni stanno lì a dimostrare quanto ancora una volta il prezzo della crisi è pagato dalle fasce sociali più deboli...».

Invece di questo tipo di tagli che colpiscono la parte della popolazione più esposta alla crisi, vi sarebbe un altro genere di tagli e di misure in positivo e Marcon ne ricorda alcuni: «E' necessario ridurre del 20% la spesa militare e cancellare il programma di 131 cacciabombardieri F35 (che ci costano più di 16 miliardi di euro. Questi sono passi obbligati in tempo di crisi: in Germania e in Gran Bretagna sono state ridotte le spese militari, in Italia, ancora no. E servono misure per rilanciare l'economia attraverso un programma di "piccole opere" (cancellando Ponte sullo Stretto e Tav), di sostegno alla green economy (energie rinnovabili, mobilità sostenibile, agricoltura biologica, ecc.) di incentivo e difesa dei redditi, unica garanzia perché possa riattivarsi una domanda interna. In questo senso la lotta al precariato, il sostegno alle pensioni più basse, il recupero del fiscal drag e il reddito di cittadinanza sono misure assolutamente necessarie in questa fase».

Mentre la manovra di Tremonti è spazzata via dalla Bce, come tempistica e contenuti , la contro manovra Sbilanciamoci regge. Se ne accorgeranno alla Bce?

Una città con il turismo può vivere, ma anche morire. Molti veneziani la pensano così in questi giorni, con Venezia invasa da un gran numero di visitatori. La pensa così anche Italia Nostra che recentemente ha pubblicato alcuni dossier sul rischio di un "turismo" fuori controllo che metterebbe a rischio la sopravvivenza della città stessa. l'associazione si è appellata addirittura all'Unesco facendo arrabbiare il Sindaco Giorgio Orsoni. Il problema del turismo di massa a Venezia è noto da molto tempo, e forse non è mai stato affrontato seriamente. Nel 1988, mentre infuriava la polemica sulla possibilità di poter ospitare l'Expo del 2000 nella città lagunare, polemiche legate ai numeri dei visitatori potenziali in laguna che un evento del genere comportava, l'ex ministro poi Sindaco di Venezia e attuale Presidente dell'Autorità portuale veneziana Paolo Costa aveva elaborato con l'Università di Venezia uno studio sul turismo che evidenziava alcuni dati. Lo studio forniva una precisa indicazione riguardo la soglia limite di presenze media giornaliere che la città, a causa della sua struttura socio-economica, non poteva superare pena lo stravolgimento completo di tutte le attività non legate direttamente al fenomeno turistico: ventidue-milasettecento presenze giornaliere di media, mentre la soglia limite della capacità fisica di accoglienza della città era fissata in centomila presenze giornaliere. Rispetto ad allora in città ci sono più alberghi, in isola e in gronda lagunare, e soprattutto le grandi navi da crociera: il turismo è aumentato non certo diminuito.

Secondo l'analisi sui flussi turistici del 2010 del Centro studi di Banca Popolare di Vicenza, che ha attinto a dati Istat e della Banca d'Italia, il Veneto si conferma prima regione italiana sia per gli arrivi turistici (14,6%) sia per le presenze (16,3%) seguono Lombardia, Toscana, Trentino, Emilia Romagna e Lazio. La componente straniera rappresenta il 61,5% degli arrivi e il 60,4% delle presenze. Nel 2010 sono stati 10 milioni i visitatori stranieri in aumento del 7,1% rispetto il 2009. Lo studio non ha dubbi, le città d'arte hanno beneficiato di questi numeri vacanzieri: la metà degli stranieri le ha scelte per visite o soggiorni. La componente tedesca rimane la principale mentre aumentano le presenze russe e australiane e dell'America centro-meridionale.

Nuovi turisti, nuovi numeri, nuovi problemi per Venezia ? Pare proprio di si. Nei giorni scorsi la città ha vissuto uno stato d'assedio degno delle giornate di carnevale: picchi di quasi 100 mila arrivi al giorno per la concomitanza del maltempo che ha portato molti vacanzieri delle spiagge in città, l'arrivo delle grandi navi da crociera e il fine settimana. Più in generale, l'incremento medio per giugno e luglio è stato valutato in un 10%. Le categorie legate al turismo gongolano : "più gente, più soldi" ma rimane sempre il dubbio che queste entrate rimangano davvero alla città e ai suoi servizi, soprattutto pubblici, che devono affrontare spesso tali invasioni.

Anna Sandri sulla Stampa ha dato un quadro fosco ma forse veritiero del turismo a Venezia: «A seconda di come la si guardi, l'immagine che Venezia in questi giorni offre è quella di una città ingorda, che prende tutto quel che c'è da prendere, e più gente arriva meglio è, così è più facile vendere le bottiglie d'acqua minerale a 4 euro; oppure, è quella della città divorata da un turismo non “mal gestito” ma abbandonato a se stesso, senza programmazione e senza lungimiranza». La sensazione è proprio questa, il turismo di massa che invade la città non è mai stato affrontato radicalmente, mai la politica ha preso in mano la situazione e creato progetti concreti per guidare un processo che può divenire pericoloso per il tessuto urbano e sociale della città. Una situazione che va affrontata con calma, monitorata attentamente per trovare moderne contromisure che non devono essere figlie dell'emergenza.

Ma oggi non è così. Il Sindaco Orsoni non è proprio convinto delle cifre girate in questi giorni sulle presenze turistiche "allarmanti", contrarissimo a qualsiasi ipotesi di numero chiuso, ha chiesto al Governo lo sblocco delle assunzioni per aumentare l'organico dei vigili urbani e ha introdotto a Rialto sperimentalmente flussi separati ai pontili dei battelli per favorire i residenti, ma gli ingorghi e le resse permangono. L'assessore comunale al turismo Roberto Pancera spinge per gli imbarcaderi con accessi differenziati e intende intervenire in qualche modo sul turismo crocieristico in grande espansione e che ha portato i passeggeri dagli 873mi1a del 2000 ai 2 milioni 260mila del 2010. Pancera vuole equiparare gli "hotel galleggianti" agli alberghi veri e propri tassando quindi gli ospiti delle navi e dei traghetti. La risposta comunale al problema è che dal 24 agosto sarà introdotta la "tassa di soggiorno" per i turisti che pernotteranno negli alberghi del territorio comunale. Tassa che sarà determinata per persona e pernottamento fino a un massimo di cinque notti consecutive. L’imposta dunque non sarà pagata a partire dal sesto giorno di permanenza in città e le aliquote saranno diverse a secondo dell'alta o bassa stagione, all'ubicazione geografica della struttura alberghiera e alla sua categoria o tipologia. Si pagherà fino a 5 euro, gratis per i bimbi.

Potrà bastare? Per l'Udc veneziana che esprime l'assessore al turismo, bisognerebbe creare addirittura una linea di navigazione nel Canal Grande solo per turisti, per il Presidente della Provincia di Venezia Francesca Zaccariotto, leghista, bisognerebbe esportare un Piano Urbano del Traffico veicolare in città storica quindi istituire sensi unici nelle calli con divieti di svolta per i pedoni. Provocazioni a parte, in verità vengono messe sul tappeto tante ricette diverse fra loro e poco integrate mentre il problema da affrontare è serio e meriterebbe interventi coordinati e sistemici. Bisognerebbe integrare e coordinare tutti i servizi offerti e spostare i turisti dalla sola area marciana in altri luoghi della città, offrire possibilità di turismo diverso e di qualità facendo conoscere altri incantevoli luoghi di Venezia e della sua laguna, aiutando lo stesso "turista" a fare un salto di qualità culturale.

Oppure gestire meglio i flussi turistici, intervenendo sui viaggi organizzati e introducendo, come ha suggerito il Vicepresidente della sezione veneziana di Italia Nostra, Paolo Lanapoppi, un meccanismo rigido di prenotazioni. Di fatto manca uno studio davvero serio sui benefici e sui costi del turismo, l'impressione è che tuttora il turismo stia generando molti benefici soprattutto in specifici settori ma anche costi sociali e ambientali, si pensi alle statistiche sui rifiuti nel centro storico di Venezia che sono un multiplo di quelli di Mestre proprio grazie alle attività turistiche. Un problema vero che dovrebbe essere affrontato tempestivamente anche dalla politica è che la differenza positiva che c'è tra benefici e costi (ambientali e sociali) non viene destinata che in minima parte a coprire i costi cittadini che il mercato non rileva e che sono appunto quelli sociali, ambientali e di intasamento. Uno studio serio sul controllo dei flussi turistici, sfruttando le potenzialità delle nuove tecnologie e una redistribuzione verso la città “viva” del surplus generato dal turismo dovrebbero essere delle priorità di intervento.

La natura, il Vesuvio, furono crudeli nel 79 dopo Cristo ma a modo loro più pietosi: in un paio di giorni Pompei venne sommersa da una colata piroclastica e per secoli giacque addormentata. In questi ultimi anni assistiamo invece alla progressiva agonia del sito archeologico, da ascriversi alle geometriche incompetenze certificate da un rapporto dell’Unesco; alla sottrazione di risorse preziose per la sua conservazione, grottescamente distolte in forza del decreto cosiddetto «Salva Pompei»; mentre una feroce speculazione minaccia di mortificare ulteriormente l’area strangolandola nel cemento. Brillante, presenzialista, gran dichiaratore, Giancarlo Galan aveva scelto proprio Pompei, epicentro della “débacle” del suo predecessore Sandro Bondi, per la sua prima conferenza stampa da Ministro dei Beni e delle Attività Culturali: era il 12aprile scorso e per il disastrato sito promise una nuova cura, nuovi fondi statali ed europei e, che noia!, il salvifico arrivo dei privati.

Il tutto facendosi forte di un decreto legge, il n. 34, approvato il 31 marzo: senonché proprio quel provvedimento sancisce de iure la futura agonia del sito. All’articolo 2, pomposamente intitolato «Potenziamento delle funzioni di tutela dell’area archeologica di Pompei», c’è la norma che permette al ministero di «disporre trasferimenti di risorse tra le disponibilità delle Soprintendenze».

E quindi, per potenziare la soprintendenza di Pompei, grazie a questo comma gli hanno subito sottratto 5 milioni di euro, destinati a ripianare i debiti del Polo Museale della città di Napoli, un carrozzone creato nel2003 dall’allora ministro Giuliano Urbani, a quanto si dice per poltronificare Nicola Spinosa da risarcire per la mancata nomina a Direttore regionale. Costo: una voragine di 12 milioni di euro in pochi anni. Per ripianare questo buco, oltre a Pompei, altri 5 milioni di euro sono stati sottratti alla soprintendenza di Roma, con lavori già pianificati e ora rinviati: a quando?

A Pompei la situazione è drammatica: l’anno scorso, dopo i crolli reiterati, mentre l’allora ministro Bondi incolpava la sinistra dei disastri, una commissione dell’Unesco era piombata nell’area archeologica per capire cosa davvero stesse succedendo. La relazione Unesco boccia l’opera di Marcello Fiori, commissario straordinario voluto da Bondi e preso dalla Protezione civile: in generale per la mancanza di manutenzione e di conservazione, e in particolare individuando le cause dei crolli nella mancata irreggimentazione della acqua piovana; giudica inutili e avventati i lavori promossi da Fiori per valorizzare il sito, come l’orribile rifacimento del teatro nuovo.

Tra gli ispettori Unesco c’è Alix Barbet, l’insigne archeologa esperta in pitture dell’età romana: non le sfugge la mancanza di alcuni affreschi smontati dalle collocazioni originali, ne chiede conto ma nessuno sa rispondere. Si reca in questura, fa un esposto: gli affreschi sono rintracciati in un magazzino, dove erano stati «dimenticati».

La relazione dell’Unesco si conclude con 19 raccomandazioni di fuoco allo Stato italiano: più di tutte brucia l’accusa di non aver capito l’importanza universale di Pompei. L’Unesco infatti non protegge siti belli o di per sé importanti e suggestivi, ma ciò che ha valore per tutta l’umanità e il cui significato deve essere conservato e non disperso. Torneranno nel 2013 gli ispettori dell’Unesco, nel frattempo segnalano una situazione di progressivo degrado e una decina di domus in immediato pericolo. Ma prima che arrivi l’inverno, come correre ai ripari se le risorse sono state tagliate? Il Ministro aveva promesso nuovo personale – ma fino a oggi nulla è stato fatto – e 100 milioni di euro europei prima dai fondi Fas, poi dai Poin.

In entrambi i casi si tratta di procedure lunghe e complicate, sulle quali a Bruxelles l’Italia si è guadagnata una triste fama. Arriveranno? E quando arriveranno? Impressionati dalla situazione di Pompei, gli ispettori dell’Unesco hanno contattato le fondazioni internazionali dedite al mecenatismo: si è interessata la Fondazione Défense, una cordata di imprenditori che può godere di agevolazioni fiscali per gli investimenti in cultura non solo in Francia ma in tutta la Ue. Si parla di 200 milioni di euro e, improvvisa, scende subito in campo un'altra cordata, di imprenditori napoletani questa volta: soldi zero, ma disposti a realizzare a pagamento – con i soldi dei loro colleghi francesi, che faranno bene a stare molto attenti – una serie di opere intorno al sito: alberghi, ristoranti, centri commerciali, info-point e vai così.

Il rischio di cementificazione intorno al sito è reale: sempre il decreto «Salva Pompei» prevede infatti che interventi cosiddetti urgenti «all'esterno del perimetro delle aree archeologiche (di Pompei) possono essere realizzati in deroga alla pianificazione urbanistica». A insorgere contro questo comma,quando il decreto venne trasformato in legge, è stata solo Italia Nostra, «vox clamantis in deserto». Pompei anno 2016: un anello di cemento, fatto di alberghi, centri commerciali e benessere con altisonanti nomi tipo Hotel Polibio, Epicurus Lounge, Resort Casti Amanti, circonda una area ex archeologica oramai ridotta a discarica del passato. Internet gratis per tutti.

«Seguitemi»: una guida fa cenno al suo gruppo perché si metta in coda. C´è anche un ragazzo disabile, in fila con la sua sedia a rotelle, Francesco. Migliaia di turisti, provenienti da ogni dove, affollano il piazzale. C’è un gran brusio, sono le quattro del pomeriggio, 30 gradi all’ombra. Al Colosseo è sempre caos, d’inverno ma soprattutto d’estate. Il ragazzo passa il primo blocco di tornelli, ma non va oltre. Torna indietro e ha stampata sulla faccia la delusione: «E dire che sono venuto da Napoli per fare questa visita. Non mi hanno fatto salire neanche al primo piano. Gli ascensori sono fermi. Non so se potrò ritornare...».

Francesco è solo uno fra i tanti disabili che da oltre due mesi non possono accedere al primo piano del monumento, quindi non ne possono "assaporare" la bellezza dell’insieme. I due ascensori che portano ai piani superiori sono guasti. «Già 3 o 4 mesi fa ogni volta che venivano utilizzati, si bloccavano e puntualmente qualcuno rimaneva dentro. A quel punto dovevamo chiamare il tecnico - dice un custode - perciò sono stati chiusi. Hanno 10 anni e le corde sono usurate. Devono essere sostituiti». Una giustificazione che non regge per i diversamente abili che scoprono questo problema dopo aver fatto il biglietto e la fila. I responsabili della sovrintendenza, che gestisce l’area monumentale, sentono però di avere la coscienza a posto: hanno esposto una serie di piccoli cartelli lungo il percorso che porta alle biglietterie "Si comunica a tutti i visitatori che gli ascensori per i diversamente abili sono attualmente in manutenzione".

Ma perché non si risolve il problema? Non si capisce di chi sia la responsabilità. Alla fine però la direttrice del Colosseo, Rossella Rea, annuncia la buona notizia: «I lavori inizieranno il 12 agosto e finiranno per fine ottobre». E poi accusa: «La colpa è dei custodi e delle guide che ne hanno fatto un uso improprio. Intanto l’ascensore può essere utilizzato con l’ausilio di un tecnico». Ma la presenza del tecnico è un problema nel problema: lo dovrebbero chiamare di volta in volta i custodi ma, secondo le persone diversamente abili, non lo fanno. La deputata Ileana Argentin, che è incappata in questo disagio al Colosseo, è stupefatta: «I custodi mi hanno detto che se volevo spiegazioni dovevo andare dalla direzione in Piazza dei Cinquecento. C’è un rimpallo di responsabilità. Non voglio farne una battaglia di opposizione, vorrei solo che tutti i disabili potessero visitare il Colosseo».

Inseriamo di seguito la prima parte, “Valutazione d’insieme”, del documento che fornisce il quadro generale alle migliaia di osservazioni al Piano territoriale regionale di coordinamento del Veneto, che decine di comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva hanno raccolto in numerose e affollate assemblee.

Il documento è stato composto nel corso di numerose riunioni di un “tavolo di lavoro”, promosso da Cantieri sociali Carta, Cgil Veneto ed eddyburg.it, al quale hanno partecipato i rappresentanti di comitati e associazioni e un gruppo di esperti, tra i quali: Stefano Boato, Walter Bonan, Lorenzo Bonometto, Paolo Cacciari, Luisa Calimani, Eliana Caramelli, Carlo Costantini, Andrea Dapporto, Cristiano Gasparetto, Carlo Giacomini, Salvatore Lihard, Sergio Lironi, Oscar Mancini, Roberta Manzi, Edoardo Salzano, Gianni Tamino, Mariarosa Vittadini. Il coordinamento dei contributi e la redazione del testo sono di Edoardo Salzano.

La seconda parte del testo (“Approfondimenti specifici”) raccoglie i contributi su una serie di aspetti: Gli aspetti naturalistici (Lorenzo Bonometto), L’agricoltura e il territorio agricolo (Gianni Tamino), Le aree produttive (Oscar Mancini), Dinamiche demografiche, politiche abitative e trasformazioni urbane (Sergio Lironi), Gli strumenti tecnico-giuridici (Carlo Costantini), Mobilità e infrastrutture per il trasporto (Carlo Giacomini), Verona: Un’anticipazione dello scempio veneto (gruppo eddyburg di Verona).

L’intero documento è scaricabile in .pdf qui sotto. Le osservazioni redatte a norma di disposizioni regionali, su cui si sono raccolte le firme dei cittadini, sono scaricabili dal sito www.estnord.it, insieme a numerosi altri materiali e documenti. In calce anche l'elenco delle associaizoni, comitati e gruppi che hanno sottoscritto il documento.

Tutto ciò nel silenzio della stampa locale e delle televisioni. Un altro insegnamento sulla realtà dei nostri tempi.

PARTE PRIMA:

VALUTAZIONE GENERALE

PREMESSA

Un piano atteso

Il Ptrc della Regione Veneto era un prodotto atteso, per molte ragioni. Dalla data del precedente piano molti anni sono passati e molti eventi accaduti. Basti pensare alle novità introdotte nel campo della tutela del paesaggio e dei beni culturali con il recepimento della direttiva europea e con il Codice dei beni culturali e del paesaggio. Basti pensare alla critica che in ogni paese d’Europa e in tante città e regioni italiane denuncia il crescente consumo di suolo. Basta pensare alle drammatiche conseguenze della mutazione del clima. Basti pensare alle difficoltà, poste da tempo e accentuate con la crisi economica in atto, alla riconversione dell’apparato produttivo e al consolidamento delle attività lavorative nei settori innovativi..

La lettura della legge urbanistica regionale 11/2004 induceva a formulare, al tempo stesso, speranze e preoccupazioni. Essa infatti, se elenca puntualmente i campi e i settori cui il Ptrc deve riferirsi, non precisa che genere di indicazione la regione dovrà fornire per ciascuno di essi: se solo auspici e raccomandazioni, o se indicazioni più penetranti, capaci di indurre davvero le azioni che vengono nei fatti definite.

L’articolo 24 della legge infatti recita:

“Il piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc), in coerenza con il programma regionale di sviluppo (PRS) di cui alla legge regionale 29 novembre 2001, n. 35 "Nuove norme sulla programmazione", indica gli obiettivi e le linee principali di organizzazione e di assetto del territorio regionale, nonché le strategie e le azioni volte alla loro realizzazione. In particolare:

- acquisisce i dati e le informazioni necessari alla costituzione del quadro conoscitivo territoriale regionale;

- indica le zone e i beni da destinare a particolare tutela delle risorse naturali, della salvaguardia e dell’eventuale ripristino degli ambienti fisici, storici e monumentali nonché recepisce i siti interessati da habitat naturali e da specie floristiche e faunistiche di interesse comunitario e le relative tutele;

- indica i criteri per la conservazione dei beni culturali, architettonici e archeologici, nonché per la tutela delle identità storico-culturali dei luoghi, disciplinando le forme di tutela, valorizzazione e riqualificazione del territorio in funzione del livello di integrità e rilevanza dei valori paesistici;

- indica il sistema delle aree naturali protette di interesse regionale;

definisce lo schema delle reti infrastrutturali e il sistema delle attrezzature e servizi di rilevanza nazionale e regionale;

- individua le opere e le iniziative o i programmi di intervento di particolare rilevanza per parti significative del territorio, da definire mediante la redazione di progetti strategici di cui all'articolo 26;

- formula i criteri per la individuazione delle aree per insediamenti industriali e artigianali, delle grandi strutture di vendita e degli insediamenti turistico-ricettivi;

- individua gli eventuali ambiti per la pianificazione coordinata tra comuni che interessano il territorio di più province ai sensi dell'articolo 16.

Il punto delicato dei contenuti sopra elencati sta nel verbo che inizia ciascun alinea: “indica”, “individua”, “definisce”, “formula”. In che modo? Con raccomandazioni, indirizzi, suggerimenti, direttive, oppure anche con specifiche prescrizioni? Nel primo caso il messaggio trasmesso dalla Regione con il suo piano sarà futile, e potrà essere seguito o non seguito dalle province, dai comuni e dagli altri soggetti che operano sul territorio. Nel secondo caso esso sarà efficace, cioè indirizzerà davvero le trasformazioni nella direzione desiderata.

È necessario ricordare che comunque, nel merito delle azioni da compiere, a tutti i contenuti del Ptrc le decisioni relative alle trasformazioni (ai progetti, agli interventi, ai finanziamenti, alle autorizzazioni) spettano di fatto alla Regione. Se questa non avrà definito le scelte con precise regole chiaramente espresse, potrà agire in modo estremamente discrezionale: consentire a un comune ciò che nega a un altro, e così via. Meno il piano è preciso, più è discrezionale l’azione dell’autorità che pianifica e che in ultima istanza ha il potere decisionale.

La maggiore o minore efficacia di un piano va quindi cercata nell’analisi delle sue componenti che hanno efficacia precettiva: le norme tecniche d’attuazione, e le tavole cui esse esplicitamente e formalmente si riferiscono. Gli altri elaborati sono utili per comprendere la realtà cui il piano si riferisce e per argomentarne le scelte se tra essi e i precetti c’è coerenza e consequenzialità. Possono poi servire a comprendere la strategia che si intende seguire: il gioco di potere che si nasconde dietro al piano e a cui il piano serve.

I documenti di analisi, gli obiettivi dichiarati, le intenzioni espresse

Il lavoro preparatorio del Ptrc è stato ampio sia nel senso della ricchezza del materiale informativo e valutativo raccolto sia in quello della quantità e della qualità delle competenze, interne ed esterne all’amministrazione regionale, che sono state impiegate.

Ci si limita in questo paragrafo ad accennare ad alcuni elementi, che verranno poi ripresi e sviluppati nella parte successiva del documento.

Ricche e complete appaiono in primo luogo le analisi relative agli aspetti ambientali e naturalistici riassunte in vari capitoli della Relazione generale, esposte nella Relazione ambientale e raccolte in apposite componenti del Quadro conoscitivo. Ciò che ancor più interessante è il fatto che da tali analisi si ricavino, nel testo stesso delle relazioni fatte proprie dall’amministrazione regionale, indicazioni operative che spesso, più che volte a indirizzare, guidare, suggerire, sottolineano l’urgenza di prescrivere tutele e salvaguardie di immediata operatività. Così come interessante e positivo appare il fatto che vi si sottolinea la necessità di appositi istituti e provvedimenti, come ad esempio l’Osservatorio regionale del paesaggio e la Rete ecologica.

Molto positivo appare ancora l’insieme delle schede contenute nell’Atlantedegli ambiti di paesaggio. Se si prescinde da qualche valutazione critica e qualche proposta correttiva che si può formulare sull’una o sull’altra scheda, il lavoro avrebbe potuto costituire una delle due componenti (l’altra deve consistere nella individuazione dei beni appartenenti a ciascuna delle “categorie di beni” tutelati dalla legislazione nazionale e implementabili dalla pianificazione regionale) di un vero e proprio piano paesaggistico.

Del tutto condivisibili appaiono poi le valutazioni che si formulano, in più capitoli della Relazione generale, sull’entità dei danni provocati dall’abnorme consumo di suolo già avvenuto, in corso e programmato dalle previsioni degli strumenti urbanistici vigenti. Lo sprawl (la disordinata espansione a bassissima densità dei centri urbani, la disseminazione di costruzioni d’ogni tipo e la proliferazione di strade di tutte le dimensioni) appare correttamente indicato come una delle principali cause del degrado progressivo dei paesaggi e dell’ambiente dal Veneto. I dati raccolti e la capacità di analisi precisamente territorializzata del fenomeno che essi rivelano appare come una base sufficiente a definire politiche mirate, immediatamente agibili e suscettibili di arrestare senza indugio il progresso della distruzione del territorio.

L’insieme delle analisi specifiche (di cui abbiamo qui sottolineato solo alcuni degli aspetti positivi) trovano una buona sintesi pre-operativa nel Quadro sinottico del sistema degli obiettivi. Tuttavia questo documento, più che indicare i traguardi raggiungibili con il Ptrc, potrebbe costituire l’utile sommario di una critica distruttiva.

Quattro elementi critici

Analizzando il Ptrc nella sua struttura complessiva emergono quattro versanti di critica:

critica all’efficacia del piano, nel senso della mancata coerenza tra le analisi e gli obiettivi positivi espressi nella parte illustrativa del piano e le scelte formulate nella parte precettiva;

critica, in particolare, al modo in cui la Giunta regionale tenta con il Ptrc di eludere le responsabilità che l’articolo 9 della Costituzione e i conseguenti provvedimenti normativi pongono a tutte le istituzioni della Repubblica (e in primis alle regioni) in ordine alla tutela del paesaggio;

critica allo forte riduzione dei poteri degli enti locali nell’esercizio delle loro competenze in merito al governo del territorio e alle conseguenti scelte territoriali;

critica alla strategia sottesa al Ptrc, dichiarata esplicitamente in alcuni documenti e convalidata dai contenuti precettivi del Ptrc.

In sintesi, mentre il piano afferma di voler tutelare l’ambiente e il paesaggio, contrastare il consumo di suolo, migliorare la vivibilità, rafforzare l’identità dei luoghi, migliorare la vivibilità, nella sostanza la giunta regionale attribuisce a se stesso il potere di decidere i grandi interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e lascia mano libera ai piccoli, medi e grandi poteri immobiliari di trasformare a loro piacimento il resto del territorio, con una sostanziale finalizzazione al mero sviluppo immobiliare.

L’INEFFICACIA

Nessun vincolo

Il prologo delle norme tecniche d’attuazione rivela una cosa interessante. Si parla dei “vincoli giuridici gravanti sul territorio veneto”. A questo proposito va detto innanzitutto che quando si parla di “vincoli” sembra che si parli unicamente di utilizzazioni del suolo che non comprendono l’edificabilità. Dal linguaggio adoperato dai pianificatori regionali sembra che destinare un’area a un bosco, a un alveo fluviale o a un’attività agricola, alla fruizione di un’area archeologica o alla difesa dalle frane o delle falde idriche, significa porre un “vincoli”: meno si “vincola”, cioè meno si sottrae all’ urbanizzazione del territorio, meglio è.

Nei documenti del piano si afferma del resto esplicitamente l’inefficacia del piano. Sempre nel Prologo alle norme, quando si definisce “Il Ptrc di seconda generazione”, si dichiara che è un piano “di idee e scelte, piuttosto che di regole, un piano di strategie e progetti, piuttosto che di prescrizioni”. Si precisa che “il Ptrc persegue gli obiettivi non mediante prescrizioni imposte ai cittadini e limitative dei loro diritti”. Di quali diritti si preoccupa il piano appare evidente dal contesto: i “cittadini” cui ci si rivolge sono i proprietari immobiliari, interessati a uno “sviluppo del territorio”, senza fastidiosi “vincoli”.

Che c’è dietro l’inefficacia:

alcuni esempi

La rinuncia all’efficacia nasconde la possibilità dell’attività edilizia di procedere indisturbata su tutte le aree, anche in quelle per le quali a parole si esprime una intenzione di più adeguata utilizzazione. Facciamo alcuni esempi.

Le zone agricole

La valorizzazione del territorio agricolo e dei paesaggi rurali sono obiettivi più volte dichiarati. Nel merito, tutto il territorio rurale è suddiviso in quattro tipi di aree: “agricoltura periurbana”, “agropolitane in pianura”, “ad elevata utilizzazione agricola”, “ad agricoltura mista a naturalità diffusa”. Questa aree sono definite su di una cartografia a piccolissima scala e sono del tutto indeterminate nei loro confini.

Ragionevolmente, per contrastare il consumo di suolo e difendere naturalità e agricoltura, da tali aree dovrebbe comunque essere esclusa l’urbanizzazione. Ma non è così.

Nelle aree ad “agricoltura periurbana”, e in quelle “agropolitane in pianura” bisogna “localizzare prioritariamente lo sviluppo insediativo”. Inoltre, in quelle ad “agricoltura periurbana” bisogna “garantire l’esercizio non conflittuale delle attività agricole rispetto alla residenzialità”, e in quelle “agropolitane” bisogna addirittura “garantire lo sviluppo urbanistico attraverso l’esercizio non conflittuale delle attività agricole”.

Nelle stesse aree ad “elevata utilizzazione agricola” bisogna “limitare”, non vietare, “la penetrazione in tali aree di attività in contrasto con l’obiettivo della conservazione delle attività agricole e del paesaggio rurale”

Le norme, insomma, non solo non forniscono cartografie definite, criteri certi, limiti, indici, parametri oggettivi, metodi per salvaguardare le risorse naturali, ma addirittura sollecitano a non creare conflitti alla tranquilla crescita dell’edilizia nelle residue zone rurali del Veneto.

La continua preoccupazione di tutelare la possibilità dei proprietari di edificare sul loro terreno traspare in ogni norma. Perfino nel definire la “rete ecologica”, per la quale il piano non dà nessuna prescrizione tassativa, l’unica preoccupazione è nella direzione dell’edificabilità: bisogna ispirarsi “al principio dell’equilibrio tra la finalità ambientale e lo sviluppo economico” e bisogna evitare “per quanto possibile la compressione del diritto di iniziativa privata”!

Il sistema produttivo

Per il sistema produttivo il piano definisce numerose tipologie territoriali. Vi sono i “territori urbani complessi”, i “territori geograficamente strutturati”, quelli che sono invece “strutturalmente conformati”, e poi le “piattaforme produttive complesse regionali”, le “aree produttive con tipologia prevalentemente commerciali”, nonché le “strade mercato”.

Accanto a queste, che sembrano occupare, nell’indeterminatezza della cartografia, quasi tutto il territorio di pianura e di collina, il piano individua le “eccellenze produttive”, definite in termini settoriali e non territoriali,che attraversano orizzontalmente tutte le aree predette e che “la Regione valorizza mediante appositi interventi e progetti che ne assicurino lo sviluppo”.

In tutte queste aree (che non sono né perimetrate nelle cartografie né caratterizzate da regole definite) bisogna “contrastare il fenomeno della dispersione insediativa” individuando “linee di espansione delle aree produttive”, definendo “modalità di densificazione edificatoria sia in altezza che in accorpamento”. Meri suggerimenti, che peraltro invitano ad aumentare l’estensione e la quantità dei volumi destinati alle attività produttive.

Aree urbane

Molto simili sono le indicazioni del piano per le aree urbane. Dietro il titolo accattivante “Città, motore del futuro” si rivela il medesimo criterio. Nessun vincolo allo sprawl, al consumo di suolo, alla continua espansione disordinata e frammentata della città sul territorio rurale: guai a porre “vincoli”! In aggiunta alla prosecuzione e all’intensificazione dello “svillettamento” (del resto ulteriormente stimolato dalla recentissima legge per lo sviluppo dell’edilizia, impropriamente chiamato “piano casa”), si sospingono comuni, province, costruttori, proprietari a densificare le aree urbane esistenti, compattare, riempire, annaffiare il terreno di mattoni, cemento e asfalto per far crescere grattacieli.

Nelle relazioni si fornisce la giustificazione: c’è un drammatico problema della casa, un grande fabbisogno insoddisfatto di abitazioni. Ma si trascura il fatto che chi ha bisogno di un alloggio è il giovane o l’immigrato, il quale non ha le risorse per accedere a un mercato caratterizzato da prezzi sempre più alti: un mercato nel quale, come spiegano seri studi di economia, l’accrescimento delle costruzioni non porta a una riduzione e dei costi, ma anzi ad un loro aumento.

L’ELUSIONE DELLA RESPONSABILITÀ DI CONTRIBUIRE

ALLA TUTELA DEL PAESAGGIO

Premessa

Come è noto, la Regione Veneto dispone di un pano paesaggistico ai sensi delle leggi vigenti a partire dal 1992. Esso è costituito dal Ptrc adottato nel 1986 e approvato il 13.12.1991, cui è stata conferita la caratteristica di “piano urbanistico-territoriale con specifica considerazione dei valori paesaggistici e ambientali” ai sensi della legge 431/1985 (legge Galasso). Si tratta di un’analisi e una disciplina del paesaggio che risale a vent’anni fa, e che quindi meriterebbe certamente di essere aggiornata, specificata, integrata, sia per tener conto di elementi significativi che in quelli anni potevano non sembrare rilevanti e oggi invece lo sono, sia delle estese situazioni di degrado sopravvenute nel frattempo e che meriterebbero di essere segnalate e cui si dovrebbero attribuire specifiche azioni di restauro ambientale e paesaggistico, sia infine della sopravvenuta disciplina, ben più matura e incisiva, definita con le successive versioni del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs 42/2002 e successive modifiche).

Del resto, nella formazione del Ptrc ora in corso di discussione la Regione ha svolto una serie ampia e significativa di analisi sul paesaggio e l’ambiente, di qualità complessivamente notevole. I suoi risultati sono ulteriormente elaborati e rappresentati in alcuni dei documenti che compongono l’ampio pacco del Ptrc, e in particolare nell’Atlante ricognitivo degli ambiti del paesaggio, il quale definisce almeno alcuni degli elementi di tutela richiesti dal citato Codice.

Va considerata quindi una prima grave carenza del Ptrc, a proposito della tutela del paesaggio, la rinuncia ad aver costruito il nuovo piano conferendogli la qualità di “piano paesaggistico”, e quindi di non aver proceduto – per quanto riguarda la tutela – all’intesa con gli organi del Mibac (Ministero per i beni e le attività culturali), come la legge dispone. Una carenza indubbiamente d’ordine culturale, politico e sociale, se è vero che il paesaggio è un rilevantissimo patrimonio della collettività, cui è affidato il benessere attuale e futuro dell’intera popolazione.

É quindi molto grave l’affermazione che si formula nel “preambolo” dove, disattendendo sia la Convenzione europea sul paesaggio sia il Codice dei beni culturali e del paesaggio, la Giunta dichiara che provvederà solo successivamente (senza neppure precisare la data) a redigere il piano paesaggistico, e quindi a integrare il paesaggio nella pianificazione territoriale e urbanistica” – come richiede la Convenzione europea . Con questa decisione la regione rinuncia ad applicare l’unico strumento legislativo che richieda di porre vincoli di tutela del paesaggio, l’ambiente, i beni culturali. Rinuncia cioè all’unico strumento che avrebbe la forza di dare efficacia al piano e a tradurre le intenzioni proclamate in fatti. Ciò è particolarmente grave in una situazione nella quale, per effetto della legge regionale sull’edilizia, minaccia di scatenarsi l’edificazione senza remore né ostacoli. La tutela del paesaggio, seppure arriverà, lo farà troppo tardi.

Il tentativo di eludere la vigente tutela del paesaggio

La legge dispone che le previsioni dei piani paesaggistici “sono cogenti per gli strumenti urbanistici dei comuni, delle città metropolitane e delle provincie, sono immediatamente prevalenti sulle disposizioni difformi eventualmente contenute negli strumenti urbanistici, stabiliscono norme di salvaguardia applicabili in attesa dell’adeguamento degli strumenti urbanistici e sono altresì vincolanti per gli interventi settoriali. Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle diposizioni contenute negli atti di pianificazione” (Codice dei beni culturali e del paesaggio, articolo 145, comma 3).

La medesima legge dispone altresì che, per le regioni, come il Veneto, già dotate di un piano paesaggistico, questo venga adeguato alle nuove disposizioni entro una data, che è stata portata con successive proroghe al 31 dicembre 2009. Ovviamente, fino all’entrata in vigore della nuove disposizioni vigono le precedenti tutele, quindi la disciplina di cui al Ptrc1986/1991.

Viceversa la Giunta regionale tenta una pericolosissima violazione della legge. Si vorrebbe infatti disporre che le aree e gli ambiti di particolare tutela del Ptrc1986/1991 sopra citati, ancora sotto la tutela di competenza statale definita da quel piano, “possono essere disciplinati, fatto salvo il Piano Faunistico Venatorio regionale di cui alla legge regionale 5 gennaio 2007, n. 1, mediante i Piani di Area dell’art. 48 della legge regionale 23 aprile 2004 n. 11, oppure attraverso PAT o PATI” (articolo 72, comma 1, lettera b).

In altri termini un singolo comune, o un gruppo di comuni, è lasciato arbitro di una tutela che la Costituzione mette in capo alla Repubblica e che la stessa Costituzione, per quanto riguarda la tutela, attribuisce alla competenza esclusiva della legislazione statale. La tutela diviene “possibile” e non cogente, ed è comunque lasciata alla buona volontà di questo o quel comune, disomogenea e a pelle di leopardo.

Questo tentativo è particolarmente grave anche perché ingenera nel fruitore del Ptrc la convinzione che le disposizioni di tutela dei beni paesaggistici del Ptrc1986/1991 siano decadute. Si potrebbe pensare che esse vengano disattese dalla stessa Regione, per esempio nell’’attivazione di “progetti strategici” di cui all’articolo 5 delle Norme. Molti di tali progetti ricadono su aree opportunamente tutelate dal previgente Ptrc e dai suoi strumenti attuativi.

Una specifica osservazione presentata propone di conseguenza di eliminare, dall’articolo 72, l’intera lettera b), e di precisare con un apposito comma aggiunto che le tutele del Ptrc previgente esplicano ancora tutta la loro efficacia.

LA RIDUZIONE DEL POTERE DEGLI ENTI LOCALI

La tendenza generale

In Italia è già in corso da anni un trasferimento di poteri dal basso verso l’alto e dall’ampio al ristretto. Mentre da un lato si predica la partecipazione, dall’altro lato, e nei fatti, si trasferiscono competenze (e perfino conoscenze) dagli organi collegiali a quelli ristretti, da quelli che rappresentano la pluralità delle posizioni e l’insieme degli elettori a quelli che esprimono “chi ha vinto”: dai consigli ai sindaci e ai presidenti. In nome della governabilità si minano le radici della democrazia.

Alcune delle scelte più rilevanti del Ptrc si inseriscono perfettamente in questa linea. Ci riferiamo soprattutto a due elementi: il ricorso ai “progetti strategici” e il ruolo della rete infrastrutturale e delle sue connessioni col territorio. Ma si potrebbe aggiungere che la stessa genericità delle norme consente alla Regione il massimo di discrezionalità nelle procedure di approvazione degli atti degli enti locali, e quindi il massimo di potere nelle mani del Presidente e della Giunta regionale.

Ciò vale per i piani comunali come per quelli provinciali; l’approvazione di questi ultimi, del resto, è stata sempre rinviata dalla giunta regionale, in modo da ritardare il trasferimento delle competenze di approvazione dei PAT comunali.

Progetti strategici

Secondo la legge regionale 11/2004, articolo 26, “per l’attuazione dei progetti strategici l’amministrazione, che ha la competenza primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi o sui programmi di intervento, promuove la conclusione di un accordo di programma, ai sensi dell'articolo 7, che assicuri il coordinamento delle azioni e determini i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”.

L’accordo di programma è uno strumento che consente di accordarsi tra i capi delle amministrazioni interessate, di tagliar via tutte le fasi di conoscenza allargata delle decisioni che si stanno assumendo anche in variante agli strumenti urbanistici, senza seguire la procedura di consultazione democratica che le procedure urbanistiche normali consentono. Il Consiglio comunale o provinciale, cioè l’organo collegiale eletto da tutti i cittadini e nel quale sono presenti le rappresentanze di tutte le posizioni politiche, culturali, sociali, viene informato solo all’ultimo momento, ed è competente per la mera ratifica di decisioni già prese.

L’accordo di programma è quindi lo strumento ideale per chi vuole decidere in fretta senza che nessuna sappia che cosa, a favore di chi e con quali conseguenze. É lo strumento adoperato con larghezza negli ultimi anni proprio per scardinare quel tanto di procedure democratiche e di decisioni sistemiche che la pianificazione urbanistica e territoriale consente.

La parte del leone nell’accordo di programma lo fa chi promuove l’azione e ne controlla materiali e tempi; nel caso specifico dei “progetti strategici” e delle grandi infrastrutture è la Giunta regionale che propone e, in ultima istanza, decide.

Guardiamo gli argomenti di alcuni dei “progetti strategici” (ma la Regione si autorizza a inserirne altri): l’attività diportistica (se vuole, di darsene e porti turistici ne progetta quanti ne vuole e li pianifica in barba ai comuni); l’ambito portuale veneziano; le neonate “cittadelle aeroportuali” (accanto agli aeroporti può autorizzare i comuni a “introdurre forme di valorizzazione delle aree sottoposte a vincolo […] attraverso misure di perequazione e compensazione che interessano aree contigue”, cioè regali di cubature); le aree circostanti le stazioni ferroviarie della rete metropolitana regionale e i caselli autostradali; quelli che il piano definisce “hub principali della logistica” (Verona Quadrante Europa, un analogo sistema policentrico tra Padova, Venezia e Treviso), e una serie di altri “terminal intermodali”. Ciascuno, ovviamente, col suo contorno di cemento, mattoni, asfalto, e soprattutto affari.

I caselli autostradali (e le stazioni del sistema ferroviario)

Il disegno complessivo della Giunta regionale per il territorio diventa chiaro via via che si procede alla sua lettura. È un sistema centrato sulla rete autostradale e sulla utilizzazione intensiva delle aree circostanti i caselli. Là devono addensarsi le attività direzionali nuove da promuovere, la ricettività alberghiera, i centri commerciali, tutti i centri d’interesse. Poco importa che non esista alcuna seria dimostrazione dell’esigenza di aumentare le sedi per tali attività senza verificare la possibilità di ospitarle nelle strutture edilizie esistenti o nelle aree dismesse. Poco importa che con questa operazione si svuotino le città e si condannino al deperimento i centri storici.

Ciò che conta è che le decisioni relative a questi nodi li assuma tutti la Giunta regionale. Le norme infatti stabiliscono (articolo 38) che “le aree afferenti ai caselli autostradali, agli accessi alla rete primaria ed al Sfmr per un raggio di 2 Km dalla barriera stradale sono da ritenersi aree strategiche di rilevante interesse pubblico ai fini della mobilità regionale. Dette aree sono da pianificare sulla base di appositi progetti strategici regionali”.

Le aree dove si prevede di concentrare lo sviluppo immobiliare e finanziario, e insieme con esse i cuori delle aree urbane (poiché tali sono spesso le stazioni ferroviarie) sono sottratte al potere dei poteri locali: sono affidati alla Giunta regionale.

I grandi assi infrastrutturali

Un’attenzione particolare il Ptrc pone agli assi infrastrutturali, e in particolare quello costituito dal Corridoio intermodale europeo V. Il piano definisce “territori strutturalmente conformati le aree e le macroaree produttive connesse” a tale corridoio, “nel tratto compreso tra Verona e Portogruaro, per una profondità non inferiore a km. 2,00 dalle infrastrutture”. Le province “determinano i criteri per il funzionale posizionamento degli ambiti produttivi rispetto al fascio infrastrutturale” articolo 43), “favoriscono la razionalizzazione della rete distributiva esistente attraverso la localizzazione di macroaree prioritariamente collocate in prossimità delle grandi vie di comunicazione”.

Benchè l’apparato grafico del Ptrc sia costituito da disegni ideogrammatici, del tutto indeterminati nell’individuazione delle aree specificamente interessate dai diversi tipi di insediamento, è facile comprendere che il Ptrc fornisce la base per rilanciare i grandi progetti di trasformazione del territorio avanzati da gruppi d’interesse cha assumono come obiettivo della loro azione la valorizzazione economica (cioè la speculazione immobiliare) delle aree di cui sono venuti in possesso. Si tratta in particolare delle iniziative denominate in altra sede Veneto City e Città della Moda lungo la direttrice tra Padova e Venezia, e Marco Polo City sul bordo Nord-Est della Laguna di Venezia, in corrispondenza all’aeroporto di Tessera, ribattezzato “cittadella aeroportuale”, e per ciò stesso dotato di cubature da perequare (articolo 40).

LA STRATEGIA

Una “seconda modernità” preoccupante

La strategia della Giunta del Veneto emerge con chiarezza dall’esame dei documenti che abbiamo riassunto nei precedenti paragrafi. Ma essa è ben descritta in un documento preliminare al piano: quello scritto da Paolo Feltrin, esperto di politiche amministrative, dedicato a “La seconda modernità veneta e il territorio”. Esso trova preciso riscontro nelle scelte contenute nella normativa, mentre vengono del tutto ignorati i contributi di altri esperti, tra cui i compianti Eugenio Turri e Mario Rigoni Stern.

In quello scritto l’analisi della situazione territoriale del Veneto è precisa, nella sua efficace sinteticità. Tutti i fenomeni più rilevanti vi sono descritti: dalla prevalenza dei modelli abitativi unifamiliari e sparpagliati (lo “svillettamento”, lo sprawl), l’inefficienza del sistema della mobilità (addebitato all’insufficienza della rete stradale), il ruolo assunto dai caselli autostradali (sempre più caratterizzati dalla presenza di strutture del terziario) la desertificazione della rete dei centri storici (addebitata all’alto livello dei canoni di locazione e alla concorrenza delle nuove strutture commerciali). Il fatto è che questi elementi, che vanno letti tutti come elementi di crisi da correggere o rimuovere, vengono visti come dati ineliminabili, segni di vitalità di un sistema che deve essere assecondato (e razionalizzato) nel suo trend.

Su questa linea si arriva ad affermazioni francamente aberranti.

Come quando si afferma (p. 36) che c’è ancora tanta campagna nel Veneto sicché il consumo di suolo non è un problema reale, poiché la percentuale di terreno rurale è di molto superiore a quella delle terre coltivate: come se l’attività economica del settore primario fosse l’unica ragione della salvaguardia del suolo dall’urbanizzazione, se l’obiettivo non dovesse essere quello della difesa del territorio rurale nel suo complesso, e se non fosse già gigantesca l’area laterizzata e sottratta al ciclo della natura.

O quando si assume come “una prima spinta per il futuro” il fatto che la domanda abitativa “continuerà a essere rivolta prevalentemente verso una casa individuale, una bifamiliare o una villetta a schiera”, senza domandarsi da quali ceti sociali questa domanda proviene, che cosa comporti in termini economici e territoriali soddisfarla e quali ne siano le ricadute sul prezzo che la collettività presente e futura deve pagare per un simile lusso.

Oppure quando si afferma che si devono assumere decisamente i caselli autostradali come le nuove polarità da incentivare. Anche qui, si assume come guida il comportamento spontaneo di un sistema sregolato, quale quello attuale, o regolato da un sistema di deroghe e “accordi di programma” a loro volta derogatori, e si individua come modello dell’auspicato futuro ciò che è accaduto attorno al casello di Padova est.

Si ribadisce così, per un verso (la prosecuzione dello svillettamento) e per l’altro (l’enfatizzazione delle autostrade), il cancro della tendenziale esclusività della motorizzazione individuale.

Aumentare, intensificare, estendere l’urbanizzato

É abbastanza singolare, e a suo modo rivelatore, il rapporto che si stabilisce tra la spinta verso la realizzazione di nuovi volumi per ospitare attività produttive, commerciali, ricettive, ricreative e sportive e la contemporanea tutela della vitalità dei centri urbani, e in particolare dei centri storici.

Si raccoglie in anticipo l’obiezione che prevedere nuovi insediamenti omnibus in corrispondenza dei caselli autostradali, ove tali operazioni avessero successo non solo in termini di valorizzazione patrimoniale ma i volumi realizzati si riempissero effettivamente di funzioni, queste verrebbero sottratte ai centri urbani esistenti. Ciò è avvenuto dovunque centri commerciali, direzionali e altri simili “non luoghi” hanno sottratto attività, in particolare al commercio e ai servizi urbani.

Si corre subito al riparo raddoppiando. Feltrin suggerisce di incentivare “uno sviluppo edilizio verticalizzato, in modo da trasferire all’interno del centro urbano il centro commerciale tout-court” (p. 41). E le Norme raccolgono il suggerimento: si invitano i comuni a individuare anche nei centri urbani e in quelli storici “aree ed edifici che consentano l’insediamento di grandi strutture di vendita” (articolo 47).

Nella stessa direzione spingono le scelte che la Giunta regionale compie per quanto riguarda la residenza. Si afferma categoricamente che l’incremento demografico registrato negli ultimi anni, che si prevede possa continuare, “rende inevitabile un ulteriore aumento dell’edificato. Inevitabile, non c’è scelta” (Relazione dei proto, p. 94). Si trascura del tutto la presenza di una enorme quantità di volumi inutilizzati, e una quantità ancora maggiore di volumi previsti dagli strumenti urbanistici vigenti. Si trascura del tutto di domandarsi per quali ceti, in quali luoghi, in relazione a quali redditi esiste un problema di accesso all’alloggio. E, nel concreto, non si fornisce alcuna indicazione, alcun programma, alcuna ipotesi di finanziamento, se non la sollecitazione a costruire, intensificare, proseguire e “governare” l’espansione delle villettopoli.

Questa spinta all’espansione dell’urbanizzazione si sposa, da un lato, al disegno delle grandi infrastrutture, dall’altro, al proliferare delle iniziative di bricolage immobiliare.

Sul primo versante la citata Relazione dei proto suggerisce immagini significative: “Il passante di Mestre e il GRA di Padova lasciano prefigurare diversi possibili scenari di sviluppo per le due città. Se guardiamo a Mestre, il Passante potrebbe essere interpretato come una nuova, più ampia cinta muraria, il nuovo confine di una diversa città con ambizioni di capitale regionale. In questa prospettiva, la convergenza delle strategie di densificazione con la capacità di dare soddisfazione alla domanda di capitale andrebbero nella direzione di processi di densificazione degli spazi compresi tra il nuo­vo passante e la vecchia tangenziale di Mestre. Secondo i criteri prima proposti: incrementare l’offerta abitativa e realizzare zone produttive e direzionali di dimensioni e caratteristiche tali da indirizzare qui la domanda”. Non è necessario lanciare una sfida ai politici, come il “proto” fa. L’hanno già raccolta in anticipo: si tratta dei progetti Veneto City e Marco Polo City, componenti della Città del Passante che ha già i suoi robusti sponsor, i suoi politici di supporto, e le sue proprietà immobiliari.

Sull’altro versante, quello del bricolage immobiliare, ecco la legge “veneta” che segue e raddoppia il “decreto casa” di Berlusconi , sbugiardando l’accordo stato-regioni che, grazie all’intervento moderatore delle regioni più responsabili, sembra prevedere misure molto più contenute e meno devastanti di quelle inizialmente prospettate. Una legge regionale, in attesa di approvazione all’indomani delle elezioni, che consente la moltiplicazione di tutte le cubature esistenti, residenziali e non residenziali, in deroga a qualsiasi strumento di pianificazione , perfino senza adeguare le aree a standards destinate ai Servizi.

La saldatura delle componenti del blocco edilizio

Appare ormai chiaro che dagli atti di politica del territorio dell’amministrazione regionale emerge una strategia che vede l’abile confluenza di due linee complementari.

Da un lato si programma l’ulteriore intensificazione della rete autostradale, in alcuni casi sostituendo strade statali e regionali oggi gratuite, l’utilizzazione dei caselli (e delle stazioni ferroviarie), dei passanti e dei raccordi autostradali, come sedi di nuove concentrazioni immobiliari e la sottrazione ai poteri comunali delle grandi trasformazioni del territorio.

Dall’altro lato, una normativa che lascia briglia sciolta a livello locale a tutti i piccoli (e meno piccoli) interessi immobiliari, rafforzata da una legge per l’edilizia che incentiva l’aumento indiscriminato di tutte le volumetrie disponibili sul martoriato territorio veneto. Le affermazioni virtuose di tutela della natura e dell’ambiente, dell’agricoltura e della montagna, sono vanificate da una normativa che proclama il buono senza negare il cattivo, utilizza termini accattivanti ma privilegia la libertà della proprietà di costruire senza vincoli; e premia con ulteriori volumi chi vuole continuare ad allargare la già gigantesca impronta ecologica del Veneto.

PREAMBOLO

La terra

Chiamiamo terra il territorio vergine, dominato dalla natura. Abbiamo consapevolezza del valore della terra non urbanizzata, non coperta da cemento e asfalto, lasciata libera allo svolgimento del ciclo naturale. La terra, come componente naturale del pianeta, è un bene. La sua struttura fisica è una risorsa essenziale, ed essenziali sono le azioni che su di essa compiono le forme elementari della fauna e della flora. Occorre conoscere, amare, rispettare la terra in quanto tale. A partire dall’oscuro lavorìo che compiono i lombrichi e gli organismi primordiali che la lavorano, digeriscono, rendendola porosa, permeabile, suscettibile di ospitare e nutrire i germi della vita vegetale.

Le esigenze della società possono richiedere che qualche ulteriore pezzo di terra venga occupato dalla città: ma occorre dimostrare inoppugnabilmente che quella esigenza non può essere soddisfatta altrimenti. E bisogna sentire comunque questa scelta come una perdita, che è stato necessario subire ma che ci si deve proporre di risarcire, restituendo alla natura qualche altro frammento di suolo che non è più necessario all’urbanizzazione.

Il territorio

Il territorio è qualcosa di più che la terra. Il territorio è il prodotto della storia (del lavoro e della cultura degli uomini) e della natura Le civiltà umane hanno aggiunto qualità alla natura, ma non sempre, e non tutte. A volte, per accrescere la qualità nuova, hanno distrutto qualità preesistenti. Spesso le perdite sono irreversibili: non possiamo ripristinare quello che c’era e oggi non c’è più, ma possiamo imparare a comportarci in modo diverso da quei nostri avi (e dai quei contemporanei) che hanno distrutto invece di proseguire il lavoro dei loro predecessori.

Anche le qualità prodotte dalla storia dobbiamo conoscerle, amarle, rispettarle. Non solo ci rivelano spesso bellezza e saggezza, ma ci raccontano la storia, la nostra storia, la storia della civiltà che è parte di noi. Senza conoscenza della storia può esistere il presente, ma non può esistere un futuro migliore

Dobbiamo conoscere, amare e rispettare tutte le qualità presenti nel territorio. Nelle loro parti, e nel sistema che costituiscono nel loro insieme.

Sistema

Il territorio non è un semplice magazzino, un supporto o un giacimento di materiale inerte. Gli elementi che lo costituiscono hanno ordine tra loro, sono connessi in modo che una modifica in un punto, un’azione su uno di essi, modifica tutte gli altri.

Estrarre ghiaia e sabbia dall’alveo di un fiume riduce la quantità di materia inerte che arriva al mare, quindi favorisce l’erosione dei litorali. Irrorare con prodotti velenosi un’area permeabile rende pericolosa l’acqua in tutto il bacino alimentato dalla sottostante falda acquifera. Rendere artificiali le sponde di un tratto di fiume ne aumenta la velocità e la portata, e può provocare inondazioni e distruzioni a valle.

Non parliamo poi delle trasformazioni provocate dalla cattiva urbanistica. Aprire un supermercato alla periferia della città provoca un grande aumento del traffico, quindi richiede la formazione di nuove strade, parcheggi ecc; al tempo stesso, stimola l’apertura di altri negozi, servizi e funzioni che guadagnano dalla presenza di numerosi passanti. Allargare una strada e rendere più fluido il traffico in una parte della città provoca un afflusso di automobili generalmente maggiore dell’aumento della capacità della rete stradale che si è manifestato, e quindi richiede nuovi interventi che a loro volta generano maggior traffico.

La pianificazione

Se il territorio è un sistema, anche le azioni che lo trasformano devono essere viste in modo sistemico. L’uso del territorio e le sue trasformazioni devono essere governate nel loro insieme. Il metodo che è stato inventato quando si è compreso che il territorio doveva essere governato è la pianificazione (territoriale e urbana). Essa è quel metodo, e quell’insieme di strumenti, capaci di garantire - in funzione di determinati obiettivi - coerenza, nello spazio e nel tempo, alle trasformazioni territoriali, ragionevole flessibilità alle scelte che tali trasformazioni determinano o condizionano, trasparenza del processo di formazione delle scelte e delle loro motivazioni.

L’oggetto della pianificazione è costituito dalle trasformazioni, sia fisiche che funzionali, che sono suscettibili, singolarmente o nel loro insieme, di provocare o indurre modificazioni significative nell'assetto dell'ambito territoriale considerato, e di essere promosse, condizionate o controllate dai soggetti titolari della pianificazione. Dove per trasformazioni fisiche si intendono quelle che comunque modifichino la struttura o la forma del territorio o di parti significative di esso, e per trasformazioni funzionali quelle che modifichino gli usi cui le singole porzioni del territorio sono adibite e le relazioni che le connettono.

I conflitti

Il territorio è un patrimonio; è un insieme di risorse; è un sistema. Esso è anche l’ambiente nel quale si svolge la vita dell’uomo. Man mano che l’umanità si è sviluppata (in tutti i sensi in cui questo termine può essere adoperato) è diventata sempre più complessa la rete delle relazioni che legano gli uomini tra loro, che costituiscono la società. Il territorio non è più l’habitat del singolo uomo, ma è divenuto l’habitat della società.

Le trasformazioni indotte da ogni singolo individuo umano si sommano tra loro e modificano l’intero sistema. Le esigenze di ciascuno non possono essere soddisfatte se non affrontando (e soddisfacendo) le esigenze di tutti. Il territorio è un patrimonio che deve essere utilizzato nell’interesse di tutti.

Ma il territorio, e le risorse che in esso sono depositate, possono essere utilizzati in modi diversi, possono servire interessi diversi. Il territorio è perciò anche il luogo dei conflitti tra diversi gruppi sociali.

La pianificazione è anche il metodo attraverso i quali i conflitti possono venire regolati in modo non distruttivo. Di conseguenza la pianificazione non può essere governata da individui o gruppi che esprimano interessi di una parte sola della società: deve essere governate dalle istituzioni e dalle procedure mediante le quali si manifesta la sovranità della società nel suo insieme. La pianificazione deve essere lo strumento di un potere pubblico democratico, basato sulla partecipazione dei cittadini consapevoli.

Le regole

Poichè il territorio è soggetto alle azioni di una pluralità di attori, la pianificazione deve esprimersi mediante un insieme di regole, che costituiscono al tempo stesso i limiti e le opportunità per le azioni che ciascuno ha la capacità e il potere di esercitare.

Le regole devono valere per tutti: in tal senso devono essere eque. Ma esse non sono nè oggettive nè neutrali. Nella situazione presente (ma in qualche misura in tutte le situazioni) esse premiano alcuni interessi, ne penalizzano altri. È essenziale che sia chiaro a tutti (che sia trasparente) chi dalle regole della pianificazione urbanistica è premiato e chi è colpito.

Nella concreta situazione italiana il conflitto dominante è tra due gruppi di soggetti: (1) quelli interessati alla valorizzazione economica della propria proprietà, cioè quelli che utilizzano il territorio come una macchina per accrescere la loro ricchezza personale; (2) quelli interessati a veder soddisfatte le loro esigenze di cittadini: tutela dei beni comuni territoriali (paesaggio, risorse, energia) per sÈ e per i posteri; accesso a un’abitazione a prezzo ragionevole in una città equa; disponibilità di spazi e servizi pubblici efficaci e comodi; assenza di rischi e di bruttezze; possibilità di godere delle diverse qualità del patrimonio comune.

In una società come quella italiana il primo gruppo di interessi è indubbiamente il più forte. Di esso non fanno parte solo quelli che dispongono di ingenti ricchezze, ma anche gran parte dei piccolo proprietari che non vedono la contraddizione tra i due interessi. È comunque il primo gruppo d’interessi quello che domina il processo delle decisioni, che conosce gli strumenti mediante i quali si formano e trasformano le regole. È perciò necessaria una funzione politica e didattica: chi sappia rendere partecipi tutti dei modi in cui le scelte sul territorio modificano le condizioni di vita di tutti, degli interessi in gioco, delle alternative possibili, degli strumenti impiegabili per raggiungere gli obiettivi desiderati.

1 - IL TERRITORIO

1.2 - Tutela dell’integrità fisica del territorio

Si deve attribuire priorità alla tutela dell’integrità fisica del territorio, intesa come preservazione da fenomeni di degrado e di alterazione irreversibile dei connotati materiali del sottosuolo, suolo, soprassuolo naturale, corpi idrici, atmosfera, considerati singolarmente e nel complesso, con particolare riferimento alle trasformazioni indotte dalle forme di insediamento dell’uomo. In funzione di tale priorità ogni trasformazione fisica e funzionale del territorio prevista dagli atti di governo del territorio deve essere sottoposta a specifiche condizioni ed esplicita gli elementi da considerare per la valutazione degli effetti ambientali delle trasformazioni previste o prevedibili.

1.2 - Tutela del patrimonio storico e culturale e dell’identità del territorio

Uguale priorità si deve attribuire al patrimonio storico e culturale del territorio. I diversi luoghi che compongono il territorio possiedono ciascuno una specifica identità, rappresentata dal paesaggio, che è derivata dal modo in cui, nel tempo, gli abitanti e il territorio hanno interagito. Il riconoscimento di questa identità e la valutazione degli elementi di qualità da conservare e degli elementi di degrado da correggere deve essere compiuta in relazione stretta, ma non esclusiva, con la società che abita quel luogo. Il paesaggio, il patrimonio culturale, le risorse del territorio sono beni che appartengono all’intera umanità, e come tali deve essere tutelati anche in relazione agli interessi delle comunità più vaste.

1.3 - Fabbisogno e consumo di suolo

Le scelte di trasformazione del territorio devono essere basate su un’accurata valutazione dei fabbisogni di residenze, sedi per le attività produttive, commerciali basati su stime attendibili e su risorse certe relative a un arco di tempo definito. Esse devono essere sottoposte a pubblico dibattito. Da esse devono essere sottratte le disponibilità di immobili (aree ed edifici) attualmente urbanizzati ma non utilizzati. La localizzazione delle quote eventualmente residue, e quindi l’individuazione di ulteriori aree urbanizzabili, deve essere computa nel rispetto delle priorità di cui ai precedenti articoli.

1.4 - Il territorio oggi: invece…

Oggi, invece, il territorio è considerato come un contenitore neutrale a disposizione di chiunque, avendone il potere e potendone acquisire la proprietà, voglia utilizzarlo come fonte di arricchimento personale, come luogo nel quale depositare i rifiuti e gli ingombri d’ogni genere, come miniera dalla quale estrarre risorse privatizzabili e commerciabili, dai metalli pregiati alle fonti energetiche, dai materiali lapidei per il ciclo edilizio all’acqua, dalle cavità da usare come discariche di materiali inquinanti alle superfici da sottrarre al ciclo naturale per “valorizzarle” nell’interesse esclusivo dei proprietari per usi socialmente inutili.

2. - LA CITTÀ

2.1 - La città è un bene comune

La città è un bene comune e deve essere considerata, organizzata e vissuta in quanto tale. L’ecosistema urbano è l’habitat dell’uomo. La città è il risultato della plurimillenaria invenzione e ricerca di un luogo che potesse soddisfare le esigenze legate alla vita associata degli uomini. La città è la casa della società: è stata costruita dalla società, con la cultura, il lavoro, gli investimenti della collettività nel suo insieme. Sebbene la vita contemporanea abbia allargato la prospettiva della vita sociale e abbia esteso le funzioni urbane a spazi più ampi (dalla città racchiusa nei suoi confini si è passati al territorio urbanizzato) le città costruite nei millenni della nostra storia sono rimaste la testimonianza più alta della vita civile, e tali devono essere in maniera sempre più piena.

2.2 - Il governo della città

La città e le sue trasformazioni devono essere governate in ragione della sua funzione sociale. Devono essere governate in ragione delle esigenze, degli interessi, delle aspettative e delle speranze della società che la adopera o vuole adoperarla: per abitarvi, per lavorare, per incontrarsi, e per trovare il necessario equilibrio tra le esigenze della vita personale e privata e la esigenze della vita collettiva e pubblica. Di conseguenza la città deve essere governata garantendo:

- un sistema di regole di uso del territorio che garantiscano a ogni suo abitante la massima diffusione dei diritti di cittadinanza quali la salute, la mobilità, la libertà di cultura e di istruzione pubblica, la casa, la sicurezza sociale, la disponibilità di spazi per la ricreazione, lo sport, la via attiva nella natura;

- una specifica attenzione agli spazi pubblici affinchè siano resi attrattivi, sicuri e utilizzabili da tutti, aperti alla partecipazione attiva (alla libera espressione delle proprie opinioni) di tutti i gruppi sociali quale che sia la loro cultura, stato sociale, età, provenienza, lingua, mestiere;

- la definizione di un assetto della mobilità che temperi l’esigenza di spostarsi con quella di garantire la salute e la sicurezza dei cittadini, e che perciò riduca la necessità degli spostamenti mediante un’adeguata localizzazione delle funzioni, privilegi il trasporto non inquinante e accessibile a tutti (al pedone e al ciclista), e il trasporto collettivo su quello individuale;

- una pianificazione, progettazione, organizzazione, costruzione e gestione del territorio, della città e delle sue parti tali da consentire il massimo risparmio di energia.

2.3 - La città oggi: invece…

Anche la città, come il territorio, è invece soggetta oggi a un processo di appropriazione privata di tutti i suoi elementi. È un processo che nasce da alcuni secoli ma che, vincendo ogni tentativo di contrasto, sta raggiungendo oggi livelli raramente raggiunti in passato. Il processo è iniziato con l’appropriazione privata dei terreni originariamente pubblici, o comunque sottoposti a stringenti regole pubbliche per la loro utilizzazione edilizia. E stato contrastato soprattutto nel secolo scorso, con il varo di politiche pubbliche volte a garantire l’accesso alla casa ai ceti meno abbienti e soprattutto a dotare la città di spazi, attrezzature e servizi necessario per le cresciute esigenze della popolazione (welfare urbano). È proseguito negli ultimi decenni con la privatizzazione e mercificazione degli spazi pubblici, con l’attribuzione al libero mercato (cioè al gioco degli interessi economici) di funzioni che erano geloso appannaggio del potere pubblico (dalla salute all’apprendimento, dai servizi pubblici essenziali allo smaltimento dei rifiuti, dall’approvvigionamento energetico alla distribuzione dell’acqua).

3. - LA SOCIETÀ

3.1 – Città e società

Città e società sono legate da un rapporto inscindibile: sono l’una lo specchio dell’altra. Se la città è la casa della società, la società è l’anima della città. Chi vuole agire per una città migliore, più vivibile per tutti, più equa e più amichevole, deve agire contemporaneamente perchÈ questi requisiti vivano nella società.

3.2 – La società che vogliamo

La società che noi vogliamo è una società equa, aperta, accogliente e solidale. Una società nella quale ciascuno sia diverso dagli altri ma nessuno sia più o meno importante di nessun altro; una società in cui le differenze (tra generi, età, condizioni fisiche, ceti sociali, mestieri, lingue e culture, nazionalità ed etnie) non siano solo tollerate nÈ tanto meno siano ragione di esclusione o discriminazione, ma siano vissute come ricchezza comune. Una società in cui lo straniero sia accolto, il debole sia difeso. Una società nella quale il lavoro, l’abitazione, l’accesso ai servizi, la mobilità sul territorio siano garantiti a tutti.

3.3 – La società e la politica

Essere politico significa avere il dovere e il potere di occuparsi responsabilmente del governo della cosa pubblica. In questo senso ciascun cittadino è politico ed è chiamato dalla società ad agire politicamente. La società deve essere organizzata in modo da facilitare l’espressione politica del cittadino, ossia la sua partecipazione critica alle scelte sul governo della città e delle comunità cui appartiene (il quartiere, la città, la provincia e la regione, la nazione, l’Europa, il mondo).

3.3 – Una società da cambiare

La società nella quale viviamo è ben diversa da quella che vogliamo. Siamo consapevoli della distanza che le separa e dello sforzo collettivo che è necessario per avvicinare la società che esiste a quella che vogliamo. Nei limiti delle nostre risorse vogliamo partecipare a questo sforzo.

3.4 – La società oggi nel mondo

Ciò che soprattutto ci ferisce nella società di oggi è:

L’assunzione del successo economico e della ricchezza personale come valore universale e dominante,

la scelta della quantità della produzione di merci (indipendentemente dalla loro utilità sociale e umana) come parametro riassuntivo del livello di sviluppo della società,

la conseguente sollecitazione al consumo di merci indipendentemente dal loro reale valore per gli uomini, la trasformazione dei cittadini in clienti,

li riduzione alla competizione economica ogni rapporto tra persone, città, nazioni.

3.5 – In Italia ci proponiamo di contrastare…

In questo quadro, in Italia ci proponiamo di contrastare particolarmente:

il consolidamento e la crescita delle disuguaglianze tra ricchi e poveri, forti e deboli, privilegiati e sfavoriti;

l’aumento delle chiusure egoistiche, delle esclusioni, ghettizzazioni, recinzioni visibili (nella città) e invisibili (nella società);

la continua riduzione del peso degli spazi per la discussione, il dibattito, la manifestazione del dissenso e delle alternative alle scelte dei più forti;

il crescente trasferimento di funzioni pubbliche (nel campo dell’apprendimento, della salute, della sicurezza sociale, …) a operatori privati e comunque a strutture interessate innanzitutto al vantaggio economico delle azioni svolte,

gli sprechi di risorse derivanti dai modi in cui è finalizzata la produzione (la crescita indefinita dei consumi di merci spesso inutili, a volte dannose) e sono organizzI il confezionamento e la commercializzazione delle merci prodotte e la gestione dei rifiuti.

3.6 - …e ci proponiamo di promuovere

Non vogliamo limitarci alla protesta e al contrasto delle azioni che consideriamo negative. Ci proponiamo di promuovere, anche diffondendone la conoscenza, le pratiche nelle quali si manifesta un modo di organizzare la città e le sue parti, il territorio, l’economia, la vita sociale in modi coerenti con i principi che abbiamo enunciato.

4. - LA RESISTENZA

4.1 – Preoccupazioni e proposte alternative

In tutto il mondo si manifestano iniziative volte a criticare la situazione esistente e a proporre di modificare le prospettive preoccupanti che il suo proseguimento solleva, soprattutto in riferimento a due ordini di questioni:

da un lato le conseguenze che lo sfruttamento rapace delle risorse del pianeta, il carattere esponenziale della produzione di merci, il crescente consumo di energia, la privatizzazione e mercificazione di beni comuni essenziali (l’acqua, la terra e le sue capacità naturali, …) provoca sul futuro del pianeta;

dall’altro lato, le crescenti ingiustizia nella distribuzione delle risorse e del potere tra le diverse parti del mondo: la disparità tra Nord e Sud del mondo non avviene solo a scala dell’intero pianeta, ma analoghe differenze e disuguaglianze si manifestano anche all’interno dei singoli stati, regioni, città.

4.2 – I movimenti: differenze

I gruppi di cittadini, i comitati e i movimenti, le associazioni e organizzazioni che hanno avviato processi di resistenza alle tendenze in atto, alle ingiustizie e ai rischi che queste che comportano, sono spinti da esigenze diverse. Spesso si tratta di resistenze e opposizioni a scelte che colpiscono localmente interessi comuni di gruppi di cittadini, altre volte si tratta di proteste e proposte che vogliono contrastare azioni e prospettive che colpiscono gruppi più vasti, o l’intera umanità. A volte si tratta di azioni racchiuse nell’orizzonte limitato della protesta, altre volte di pratiche capaci di proporre alternative concretamente raggiungibili. A volte si tratta di iniziative che non riescono ad andare oltre l’ambito locale, altre volte di azioni capaci di collegarsi a rivendicazioni, proteste, proposte riferite ad ambiti più vasti.

4.3 – Difficoltà e fragilità

Molte sono le difficoltà che i movimenti (raggruppiamo sotto questa dizione i diversi raggruppamenti di cittadini cui ci riferiamo) devono incontrare e i motivi della loro fragilità. Ma ancora maggiori sono le potenzialità, e soprattutto la necessità, della loro azione. Sono fragili perchÈ sono nati e sopravvivono sulla base del volontariato, investendo risorse (di tempo, di attrezzature, di finanze) molto limitate. Sono fragili perchÈ raramente hanno accesso alle stesse informazioni e alle stesse capacità di elaborazione di cui dispongono i poteri che vogliono contrastare. Sono fragili perchÈ raramente hanno la possibilità di durare nei tempi lunghi che i problemi affrontati richiederebbero.

4.4 – Necessità e potenzialità

La loro necessità nasce dal fatto che sono l’unica forze capace di criticare le tendenze in atto, visto il declino (particolarmente in Italia) della politica dei partiti, la crisi delle istituzioni democratiche, l’incapacità dei governi (in Italia, in Europa e nel mondo) di affrontare le grandi spinte ambientali e sociali che la realtà impone. Le loro potenzialità stanno tutte nella loro capacità di aggregarsi, di collaborare, di mettersi in rete condividendo risorse, moltiplicando la loro visibilità e capacità di mobilitazione, conoscenze e informazioni, saperi diffusi e saperi esperti. I forum sociali europei e mondiali, le iniziative delle reti italiane sono segni e strumenti di queste potenzialità.

5. - IL VENETO

5.1 – La politica della giunta regionale e dei poteri forti

La situazione drammatica del territorio veneto è chiaramente denunciata negli stessi documenti ufficiali della Regione. La documentazione di base del recente Piano territoriale regionale di coordinamento lo illustra in numerosi suoi aspetti, come documenta le grandi potenzialità che i suoi paesaggi e le sue città ancora costituiscono per il futuro di questa regione.

Nonostante la denuncia degli errori commessi nel passato, e contraddicendo alcune buone pratiche attivate in attuazione della legge Galasso (431/1985), l’attuale Giunta regionale persegue un disegno di cementificazione del territorio, mediante la mobilitazione di tutte le risorse della speculazione immobiliare grande e piccola, che è stata denunciata in tutti i suoi aspetti nell’azione compita dai 125 comitati, associazioni e gruppi di cittadinanza attiva del Veneto mobilitati in occasione della contestazione di quel piano.

La realizzazione di grandi i infrastrutture inutili, spesso dannose, progettata senza razionalità inseguendo le peggiori tendenze di sviluppo della mobilità su gomma è uno dei punti di forza di questo disegno. La realizzazione di nuovi insediamenti, utili solo agli interessi patrimoniali dei grandi gruppi finanziari, strettamente collegata alle prospettive di rilancio della politica autostradale è un ulteriore tassello di questo disegno, la cui regia è sottratta al controllo delle istituzioni locali e dei cittadini mediante il sempre più frequente ricorso alla tecnica dell’attribuzione di poteri a commissari straordinari scelti dall’esecutivo regionale.

Il disegno della giunta regionale e dei poteri forti che essa aggrega e controlla, è completato da norme permissive che incentivano il consumo di suolo, la piccola speculazione immobiliare, e pratiche di perequazione finalizzate solo all’aumento dei valori immobiliari. Le ricchezze del paesaggio e dell’ambiente sono evocate retoricamente, ma costituiscono la variabile dipendente del modello di sviluppo prescelto. La legge per l’incentivazione sregolata dell’attività edilizia, benché corretta in consiglio regionale dall’azione di consiglieri sensibili alle critiche dei comitati e delle associazioni, è un ulteriore strumento in questa direzione.

5.2 – Nei comuni del Veneto

Contemporaneamente si sviluppa, in moltissimi dei comuni della regione, un’azione volta a privatizzare gli spazi pubblici, a privilegiare le opere e le iniziative di prestigio scenografico rispetto agli investimenti socialmente utili, a reagire alla strozzatura delle finanze locali con l’estensione immotivata delle aree edificabili, allo storno degli oneri di finalizzati dalla legge alla realizzazione di spazi pubblici.

Molte aree e città del Veneto sono inoltre all’avanguardia nelle pratiche di discriminazione razzista, di fomentazione dell’odio verso il forestiero, il diverso, il povero, di riduzione degli spazi di dibattito, di confronto, di manifestazione del dissenso.

5.3 – Per la costruzione di un altro Veneto

Questa situazione è stata denunciata e contrastata dalla grande campagna di promozione e raccolta di critiche e contestazioni al piano regionale, i cui documenti e le cui azioni sono alla base della decisione di costituire la Rete. Ci proponiamo adesso di passare dalla critica e dalla protesta (che rimarranno tra i nostri impegni prioritari) alla formulazione di proposte per l’avvio della costruzione di un nuovo Veneto.

Ci proponiamo in particolare:

di costruire una mappatura delle aree e dei beni comuni a rischio, delle azioni popolari poste in essere per la loro difesa e per la conquista di nuovi spazi pubblici e nuove aree di tutela delle qualità del paesaggio, dei beni culturali, del paesaggio, e dei gruppi di cittadini che si battono in questa direzione;

di promuovere la formazione di un piano paesaggistico regionale, sulla base delle disposizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio e del materiale ddi analisi e di proposta contenuto nei documenti allegati al Ptrc ma da esso ignorati e contraddetti;

promuovere la formazione di una nuova legge urbanistica che ristabilisca in pieno il carattere pubblico della pianificazione, la priorità delle scelte finalizzate alla tutela dei patrimoni e dei beni comuni, la preminenza degli interessi dei cittadini (in termini di equità, vivibilità, sostenibilità) rispetto a quelli della proprietà immobiliare.

La Carta è stata approvata nel corso dell’Assemblea costitutiva della Rete (23 gennaio 2010), con l’intesa che essa sarà integrata con ulteriori argomenti man mano che l’elaborazione dei contenuti, nel corso dell’attività dei Tavoli di lavoro, ne porterà altri a condivisa maturazione.

Incominciamo dalla fine. Sabato 30 gennaio a Mestre si è formalmente costituita una associazione regionale che ha lo scopo di mettere in rete comitati, associazioni, gruppi di cittadinanza attiva sorti a difesa del territorio e dell’ambiente. Per ora sono trentatré. Tra di essi vi fanno parte, a loro volta, dei coordinamenti territoriali (come il forte Cat che raggruppa una decina di comitati del Veneto centrale tra Venezia e Padova dove insistono enormi interventi speculativi e il Coordinamento del basso Polesine dove si concentrano tutte le possibili e immaginabili infrastrutture energetiche, dal rigasificatore off-shore alla centrale nucleare), il comitato Acqua bene comune che fa da capofila regionale della mobilitazione contro la privatizzazione, la assemblea permanente No-Mose, la rete dei comitati NO Autostrada Romea, la onlus Zone che edita Eddyburg, il dipartimento ambiente e territorio della Cgil regionale, una sezione della Lipu, il centro politico e culturale Carotti di Bassano, un circolo della Decrescita Felice e , soprattutto, tanti comitati locali che funzionano da “nodi territoriali” della rete (l’elenco completo lo si può trovare nel sito Estnord dei Cantieri Sociali che hanno fatto da “levatrice” alla nuova rete).

L’obiettivo dei promotori è di allargare il cerchio delle solidarietà, estendere la rete della mutualità, condividere informazioni, esperienze, saperi. Esigenze che appaiono ovvie di fronte alla sistematicità con cui procede la devastazione del territorio, ma per niente facili da concretizzare. Non è la prima volta che si sono tentati coordinamenti e reti tra le associazioni ambientaliste. Alcuni anni fa, sulla spinta delle perorazioni di Andrea Zanzotto (ricordo lo splendido: “In questo progresso scorsoio, conversazione con Marzio Breda, Garzanti, 2009) e degli studi di Francesco Vallerani e Mauro Varotto (Il grigio oltre la siepe. Geografie smarrite e racconti del disagio in Veneto, Nuovadimensione, 2005) Italia Nostra aveva tentato una sosta di sacra alleanza, ma è finita con qualche importante convegno. Prima ancora, già a fine degli anni novanta, quando era ormai evidente dove portava la deregolamentazione urbanistica con il capannonificio e lo svillettamento, nella città diffusa, infinita, “senza forma e senza anima” (Eugenio Turri), l’Osservatorio Veneto aveva avviato una mappatura dei conflitti e dei comitati (Difendere l’ambiente nel Veneto: conflitti e comitati locali, a cura di Antony Zamparutti, quaderno n.3 Osservatorio Veneto, 2000).

Ora si riparte sulla scorta di una straordinaria mobilitazione durata più di un anno contro il Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, un “meta piano” che secondo il governatore Galan e la folta schiera di prestigiosi consulenti arruolati per l’occasione avrebbe dovuto rappresentare un nuovo Veneto, il “Terzo”, dopo quelli della pellagra e del miracolo economico, quello della qualità, dell’eccellenza, persino della bellezza. Miserrime mistificazioni. Odiose prese in giro. Persino trucchi e bugie da piazzisti, tra cui il tentativo di spacciare il Ptrc come nuovo Piano paesaggistico, senza avere ottenuto, però il consenso dei Beni ambientali. In realtà, come è stato possibile dimostrare durante una lunga serie di tavoli di lavoro avviati dai comitati e dalle associazioni ambientaliste, ospitati dall’Istituto Universiatrio di Architettura di Venezia, dall’Università Iuav di Venezia, l’operazione Ptrc non era altro che un lasciapassare a tutti i progetti di trasformazione territoriale presenti e futuri voluti dagli immobiliaristi: un delirio di autostrade, una costellazione di new-city (Veneto City, Marco Polo City, Città della Moda, Motor City… per alcune decine di milioni di metricubi), a cui si sono aggiunti il Piano case e l’Olimpiade. Un vasto lavoro di approfondimento dei contenuti del Ptrc e di controinformazione ha fatto capire a molti comitati locali e gruppi di cittadinanza attiva che i loro problemi non sono dovuti a particolari sfortune, a malsane mire di qualche costruttore e amministratore colluso, ma obbediscono ad una logica generale: la speculazione immobiliare/finanziaria e la subordinazione dei poteri pubblici.

Fare fronte comune, quindi è condizione indispensabile per tentare di contrastare la distruzione del territorio. Ad alcuni comitati nacque così l’idea di approfittare dello stretto pertugio lasciato dalla legislazione urbanistica tramite le “osservazioni” ai piani e di provare, con esse, a sommergere la Regione. Alla fine, dopo decine di incontri e assemblee, un “corso di urbanistica a cielo aperto” durato tre mesi, nel giorno pattuito della raccolta, il quattro luglio, intorno ad un pozzo di campo di Venezia, sotto la sede della Rai, sono arrivate 14.021 (quattordicimilaventuno) diverse osservazioni firmate in duplice copia da miglia di cittadini, raccolte in scatoloni, borse, faldoni, carretti e carrettini provenienti da tutte le parti del Veneto. Tanta la confusione e la festa per il successo dell’iniziativa che solerti poliziotti della Digos hanno ben pensato di denunciare gli organizzatori per “manifestazione non autorizzata” (procedimento giudiziario in corso). Straordinari garantiti per l’ufficio protocollo della Regione e ferie saltate per i consulenti degli uffici urbanistica. Ma ormai il velo era stato strappato e le controdeduzioni alle osservazioni preparate un tanto al chilo dagli uffici non sono riuscite a convincere nessuno. Nemmeno i consiglieri regionali della maggioranza di centro destra. Una serie di affollate audizioni richieste alla commissione urbanistica del Consiglio e un accordo tra il coordinamento dei comitati e i partiti di opposizione hanno spinto il Ptrc in un binario morto. Quello che doveva essere il fiore all’occhiello dell’ultimo governatorato di Galan si è appassito prima del tempo. Le ultime parole pronunciate dal suo assessore all’urbanistica Marangon

sono di quelle destinate a rimanere nella storia: “Le osservazioni al Ptrc non lo fermeranno” (Corriere del Veneto, 25 luglio 2009). Ed invece il megapiano non è stato approvato e rimane quindi solo un’eredità carica di ipoteche per la giunta che verrà.

Nel frattempo i comitati e le associazioni (centoventi, circa) che avevano dato vita all’opposizione al Ptrc hanno continuato a tenersi in contatto e hanno maturato l’idea della rete. Un meeting nello splendido scenario di Forte Marghera (un complesso militare austriaco ai bordi della laguna, sdemanializzato e già nelle mire della Impregilo) nell’ottobre dello scorso anno ha dato vita a nuovi tavoli di lavoro, questa volta su “Il Veneto che vogliamo”, tentando di passare dalla protesta alla proposta, per uscire dall’angolo della resistenza e tentare di anticipare i temi dell’agenda politica. Un ponderoso documento collettivo è disponibile in rete (sia nel sito di Estnord che in quello di Eddyburg), mentre una supersistesi in chiave elettorale è stata inviata ai candidati alle regionali. Tracce di buongoverno che difficilmente verranno seguite, ma che costituiranno comunque i punti di riferimento delle prossime mobilitazioni.

Il problema è che questa moltitudine di comitati e movimenti locali stenta a riconoscersi come una galassia legata da un disegno comune. A volte a causa di un localismo miope, altre volte a causa del doppio gioco della Lega Nord (e, in genere degli amministratori locali) che irretisce e illude. Altre volte ancora a causa di un malinteso senso di autonomia che condanna all’isolamento i singoli comitati e le singole associazioni. Per diversi motivi, insomma, le molte “comunità resistenti” e “insorgenti” (“minoranze organizzate”, le ha apostrofate con disprezzo il governatore Galan) non riescono ad autorappresentarsi e a interloquire direttamente con le controparti private e pubbliche che depredano, inquinano, svalorizzano il territorio. Superare diffidenze e preconcetti non è facile. Anche nel Veneto e nonostante la buona prova fornita con la lotta al Ptrc si scontrano scuole di pensiero diverse: le associazioni ambientaliste storiche che preferiscono muoversi senza troppe contaminazioni; i comitati e i presidi più combattivi che non tollerano limiti alla propria autonomia; i partiti che temono la formazione di liste civiche; altri gruppi che all’opposto sono attratti dalle competizioni elettorali.

L’associazione della Rete dei comitati del Veneto nasce esplicitamente con il temerario obiettivo di coniugare autonomia e auto-rappresentanza. Leggendo il suo statuto si capisce bene che la centralità è nella comunità di lotta che si forma attorno al comitato, al presidio, al circolo locale dell’organizzazione ambientalista, al gruppo spontaneo di cittadinanza attiva. E’ qui che si forma il soggetto sociale collettivo che prende in carico il problema, se lo studia, si dà le strategie d’azione. E’ solo a questo punto e nel momento in cui la “comunità insorgente” coglie la necessità di collegarsi ad altri per saperne di più, per comunicare al mondo esterno, per trovare solidarietà e alleanze che si fa trovare la Rete. Un sistema di relazioni e di comunanze; di saperi che si socializzano e di rapporti umani caldi.

La Rete veneta ha scelto quindi di essere una organizzazione di secondo grado, niente iscrizioni individuali, ma con un largo comitato scientifico cui sono chiamati a far parte tutti coloro che sanno qualcosa che può essere utile se messo a disposizione della rete. Una rete orizzontale, flessibile, non identitaria, priva di gerarchie, ma organizzata. Permanenza e stabilità per non disperdere in tanti fuochi di paglia le mille, faticose esperienze che gli abitanti sono costretti a sostenere a difesa della qualità del territorio, per sedimentare conoscenze, per moltiplicare la potenza comunicativa, per riuscire ad aprire interlocuzioni con le controparti più distanti e impermeabili. Una organizzazione necessaria per riuscire ad aprire vertenze le cui problematiche hanno scala territoriale regionale; pensiamo solo alle opere che la regione autorizza “in deroga” agli strumenti urbanistici locali, agli inceneritori decisi in assenza di piani regionali, alla privatizzazione delle reti idriche, alle cave, alle polveri sottili inalabili, alla pianificazione delle centrali elettriche, alle reti ecologiche e alle aree protette…

Ma le buone intenzioni non bastano ancora a fugare i dubbi: chi dice organizzazione evoca infatti immediatamente deleghe, oligarchie, separatezze. Ed è qui che ai veneti sono venuti in aiuto Gandhi, Aristotele e anche il Gran consiglio della Repubblica serenissima! Mentre l’assemblea della Rete è composta semplicemente dai delegati di ciascun comitato o associazione aderente (due per comitato, con la calda raccomandazione del rispetto dei generi), il “gruppo di coordinamento”, che deve rimane in carica sei mesi ed è l’organismo che di fatto guida la Rete, è stato nominato per sorteggio. Così, come da statuto, i delegati, riunitasi nella sede dell’Altra Economia di Mestre, hanno scritto il loro nome su tanti post-it, li hanno ripiegati e racchiusi in un’urna (in realtà era una caraffa di vetro) , quindi sono stati estratti i dodici nomi del comitato di coordinamento che lavorerà per sei mesi. Unica complicazione la accortezza di procedere alla estrazione di almeno un delegato per ognuna delle sette provincie del Veneto, per garantire la rappresentanza territoriale. Per la prima volta – a mia memoria – una “elezione” si conclude senza tensioni, con tanti sorrisi; un bel gioco di società.

Non c’è stato nemmeno bisogno di sorteggio per individuare il presidente, invocato a gran voce, in Edoardo Salzano. Mentre i portavoce sono stati scelti tra quelli sorteggiati: Valter Bonan, già presidente dell’ente parco delle Dolomiti bellunesi e Mirco Corato, giovane attivista del gruppo Partecipazione di Monteviale di Vicenza. Auguri a tutti.

Si è svolta ieri a Vicenza, nell'ambito di Festambiente, un'assemblea dei gruppi, associazioni e comitati del veneto, cui hanno partecipato oltre un centinaio di persone e da decine di comitati di tutto il Veneto. Già raccolte alcune migliaia di firme in calce alle 55 osservazioni di critica puntuale al Piano territoriale regionale di coordinamento (Ptrc, «soprannominato» Piano di cementificazione) licenziato dalla giunta regionale del Veneto. Venerdì 3 luglio verranno consegnati gli scatoloni con le osservazioni firmate verranno consegnate alla Giunta Regionale. In programma non solo contestazioni, ma la decisione di formulare un programma alternativo per la costruzione di un Veneto più vivibile e giusto.

Decine i comitati che dal Polesine alla riviera del Brenta, dal basso veronese al Garda, dal bellunese al vicentino hanno affollato, ieri pomeriggio, il tendone dei dibattiti di Festambiente per l'assemblea, promossa dai Cantieri sociali dell'Estnord, di critica e mobilitazione contro il Ptrc. L'assemblea è stata presieduta dall'urbanista Edoardo Salzano e da Roberta Manzi del coordinamento dei comitati della riviera del Brenta.

«Il piano afferma di voler tutelare l’ambiente e il paesaggio – ha affermato Salzano nel suo intervento introduttivo -, contrastare il consumo di suolo, migliorare la vivibilità, ma nella sostanza attribuisce a se stesso il potere di eseguire i grandi interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio e lascia mano libera ai piccoli, medi e grandi poteri immobiliari di trasformare a loro piacimento il resto del territorio».

Un allarme che è rimbalzato tra le decine d'interventi dei diversi comitati che hanno sottolineato come sia oggi già in corso un nuovo devastante «saccheggio del territorio e dei beni comuni».

Dal Moto City nel veronese a Veneto city nel veneziano, alla camionabile che attraverserà la riviera del Brenta al prolungamento dell'A27 che irromperà nel paesaggio dolomitico, sono innumerevoli gli scempi che si stanno per abbattere su un territorio già martoriato.

Un'assemblea partecipata da comitati, circoli di Legambiente, esponenti della Cgil, intellettuali ed esperti (il geografo Francesco Vallerani, gli urbanisti Sergio Lironi, Andrea Draghi, Cristiano Gasparetto e Carlo Costantini) che non solo ha confermato l'intenzione di contrastare il Ptrc della Regione, ma anche di «proporre alternative praticabili e convincenti per costruire una convivenza migliore tra le persone, l'ambiente e la qualità complessiva della vita». Si è deciso di avviare la costituzione di una Rete dei comitati per la difesa del territorio nel Veneto, e di dedicare successivi incontri (nel prossimo autunno), per affrontare i temi della costituzione della Rete, di una carta dei principi e di una proposta per un Veneto sostenibile e giusto, a partire dal lavoro già fatto per la critoica delle proposte della Regione.

IVedi anche il documento che inquadra le osservazioni ed esprime una valutazione complessiva del Ptrc, Verso un altro Veneto. Gli alatri materiali sono disponibili sul sito dei cantieri sociali, Estnord.it

Temo che il piano del governo per rispondere alla bufera dei mercati non produrrà gli effetti sperati. Non solo per i limiti relativi alle politiche annunciate, né per le turbolenze globali. Oltre a tutto ciò, c’è un altro problema: noi. Gli italiani. E lui. Berlusconi. Insieme al governo "eletto dal popolo". In definitiva: il rapporto fra gli italiani e chi li governa. In parte, si tratta di una novità.

Gli italiani, infatti, nel dopoguerra, hanno sempre reagito alle emergenze, interne ed esterne. Basti pensare alla Ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta. Quando l’Italia divenne uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Gli italiani conquistarono il benessere, l’accesso all’istruzione di massa e ai diritti di cittadinanza sociale. Anche in seguito il Paese continuò a crescere. Soprattutto negli anni Novanta, grazie alle aree e ai settori in precedenza considerati "periferici". Le piccole imprese, il lavoro autonomo, le province del Nord, il Nordest. In quegli stessi anni, gli italiani reagirono alla crisi - economica e politica - affidandosi ai governi guidati da Amato e Ciampi, all’intesa tra il governo e le parti sociali. Gli italiani, allora, affrontarono manovre finanziarie il cui costo complessivo superò largamente i centomila miliardi di lire. E pagarono molto anche tra il 1996 e il 1998, quando al governo erano Prodi e (ancora) Ciampi. Per entrare nell’Europa dell’Euro. Per non restare esclusi dall’Unione - peraltro ancora incompiuta. Pagarono caro, tra molte proteste, comprensibili. Ma pagarono. Perché compresero che non c’era alternativa, se volevano mantenere il benessere e lo sviluppo conquistati con tanti sacrifici. Oggi - lo ripeto - dubito seriamente che riusciremmo nella stessa impresa. Che saremmo - saremo - in grado di affrontare gli stessi costi e gli stessi sacrifici. Con gli stessi risultati.

Ci ostacola, anzitutto, la nostra identità sociale. Il nostro "costume nazionale". Gli italiani, infatti, si sentono uniti dalle differenze, locali e sociali. Sono - siamo - un Paese di paesi: città, villaggi, regioni. L’Italia è, al tempo stesso, un collage, una "casa comune", dove coabitano molte famiglie. Appunto. Perché gli italiani si vedono diversi e distinti da ogni altro popolo proprio dall’attaccamento alla famiglia. E ancora, dall’arte di arrangiarsi. Cioè, dalla capacità di adattarsi ai cambiamenti e di rispondere alle difficoltà. E, ancora, dalla creatività e dall’innovazione. Un popolo di creativi, flessibili, attaccati alla propria famiglia, al proprio contesto locale. E, puntualmente, lontano dallo Stato, dalle istituzioni, dalla politica, dal governo. Una società familista, in grado di affrontare le difficoltà "esterne" di ogni genere. In grado di crescere "nonostante" lo Stato e la Politica.

Si tratta di una cornice condivisa, come ha dimostrato il consenso ottenuto dalle celebrazioni del 150enario. Ma è ancora in grado di "funzionare" come in passato? Penso di no. Il localismo, la struttura familiare e quasi "clanica" della nostra società: sono limiti alla costruzione di una società aperta, equa, fondata sul merito. Ostacoli a ogni tentativo di liberalizzare. Gran parte degli italiani, d’altronde, sono d’accordo sulle liberalizzazioni. Ma tutti, o quasi, pensano di trasmettere ai figli non solo la casa e il patrimonio, ma anche la professione, l’impresa e la bottega. E molti (soprattutto quelli che non hanno un lavoro dipendente) vedono nell’elusione e nell’evasione fiscale una legittima difesa dallo Stato inefficiente, esoso e iniquo. Il quale, da parte sua, non fa molto per allontanare da sé questo ri-sentimento.

Difficile, in queste condizioni, rilanciare la crescita, abbassare il debito pubblico, imporre il pareggio di bilancio. Anche se venisse imposto per legge. Anzi: con norma costituzionale.

Eppure - si potrebbe eccepire, legittimamente - in passato questo modello ha funzionato. Già: in passato. Quando eravamo (più) poveri. Quando dovevamo conquistare il benessere e un posto di riguardo, nella società. Per noi e i nostri figli. Quando la nostra economia e il nostro Paese dovevano guadagnare peso e credibilità, sui mercati e nelle relazioni internazionali. A dispetto dei sospetti e dei pregiudizi nei nostri confronti. Ma oggi non è più così. Non abbiamo più la rabbia di un tempo. Semmai: la esprimiamo nei confronti dello Stato e degli altri. Gli stranieri. E in generale: verso gli altri italiani. Sempre più stranieri ai nostri occhi.

Poi, soprattutto, è da vent’anni che il localismo, il familismo e il bricolage sono andati al potere. Interpretati dal partito delle piccole patrie locali: Nord, Nordest, regioni, città e quant’altro. E dal Partito Personale dell’Imprenditore-che-si è-fatto-da-sé. È da 10 anni almeno che lo Stato è stato conquistato da chi considera lo Stato un potere da neutralizzare. Da chi ritiene le Tasse e le Leggi degli abusi. È da 10 anni almeno che il pessimismo economico è considerato un atteggiamento antinazionale, un sentimento esecrabile che produce crisi. È da 10 anni almeno che "tutto va bene", l’economia nazionale funziona, la disoccupazione è più bassa che altrove (non importa se è sommersa nell’informalità). E se oggi la nostra borsa e la nostra economia arrancano affannosamente - certo, insieme alle altre, ma molto, molto più di ogni altra - la colpa non è nostra, figurarsi. Ma degli altri: i mercati e gli speculatori - cioè, lo stesso. Perché non ci capiscono. Non tengono conto dei nostri "fondamentali", solidi e forti.

Così dubito che gli italiani siano davvero in grado di affrontare la sfida di questo momento critico. Al di là delle colpe altrui, anche per propri limiti. Perché non hanno - non abbiamo - più il fisico e lo spirito di una volta. Perché oggi essere familisti, localisti, individualisti - e furbi - non costituisce una risorsa, ma un limite. Perché la sfiducia nello Stato e nelle istituzioni, oltre che nella politica e nei partiti: è un limite. (E non basta la fiducia nel Presidente della Repubblica a compensarlo.) Perché l’abbondanza di senso cinico e la povertà di senso civico: è un limite. Perché se a chiederti di cambiare è un governo fatto di partiti personali e di persone che riproducono i tuoi vizi antichi: come fai a credergli?

Perché, in fondo, questo Presidente Imprenditore - e viceversa - in campagna elettorale permanente, quando chiede sacrifici, rigore, equità, non ci crede neppure lui. Strizza l’occhio, come a dire: sacrifici sì, ma domani… Basta che paghino gli altri.

Peccato che domani - anzi: oggi - sia già troppo tardi. E gli altri siamo noi.

L’arte di arrangiarsi stavolta non ci salverà. Tanto meno Berlusconi.

Siamo abituati a pensare che ad ogni problema corrisponda una soluzione. Ma ci sono anche rebus che non hanno soluzioni: ad esempio la quadratura del cerchio, o l'equazione di quinto grado. Fra i rebus senza soluzione, a mio parere, c'è anche il problema politico italiano, almeno per ora.

Possiamo prendercela fin che vogliamo con la speculazione, l'irrazionalità dei mercati finanziari, la perfidia delle agenzie di rating (è di ieri la notizia che, per la prima volta, il debito statunitense ha perso la tripla A, almeno nel giudizio di Standard & Poor's). Ma la realtà è che, anche se i mercati si dessero una calmata (cosa che prima o poi succederà), né il mondo, né l'Europa, né l'Italia avrebbero per ciò stesso risolto i loro problemi. Le malattie che la febbre dei mercati mette in evidenza sussistono indipendentemente dal nervosismo dei mercati stessi. E si tratta di malattie molto gravi.

Il mondo è malato perché, dopo aver goduto dei benefici della globalizzazione, non ha trovato - né forse ha veramente cercato - il modo di contenerne alcuni drammatici effetti collaterali, come l'amplificazione degli squilibri economici fra Paesi e l'ipertrofia dei mercati finanziari.

Mercati che sono arrivati a pesare 8 volte il Pil mondiale e quindi (come notava sabato Morya Longo su Il Sole 24 Ore) ormai in grado di incidere sui fondamentali delle economie, anziché limitarsi a misurarne più o meno accuratamente lo stato di salute. E non va certo ad onore della classe dirigente mondiale il fatto che, a quattro anni dallo scoppio della crisi, così poco sia stato fatto per riportare un po' di ordine e di trasparenza nelle transazioni finanziarie.

L'Europa è malata perché è come l'Italia. L'edificio dell'euro non funziona per gli stessi motivi per cui non ha funzionato l'unità d'Italia. Quando si impone un mercato e una moneta unica a territori che hanno enormi divari di produttività, di modernizzazione, di cultura civica, solo un processo di convergenza economica e sociale accelerata può evitare la formazione di squilibri drammatici. L'unificazione monetaria, infatti, sopprime l'unico meccanismo di riequilibrio incisivo, ossia la svalutazione della moneta nazionale. Private della possibilità di svalutare, le economie deboli tendono a importare più di quanto esportino, ed accumulano deficit e debiti pubblici sempre più grandi per potersi permettere un tenore di vita che va al di là di ciò che il Paese effettivamente produce.

In queste condizioni, per contenere gli squilibri c'è solo la via della modernizzazione del territorio più debole, ma questa via - in Europa - è stata percorsa pienamente solo da alcuni Paesi dell'Est, e segnatamente dalla Germania orientale nell'ambito della riunificazione tedesca. Le economie deboli del Mediterraneo - Italia, Spagna, Grecia, Portogallo - sono entrate tutte nell'euro, ma ben poco hanno fatto per meritarsi l'appartenenza all'eurozona. Un processo molto simile a quello che, nell'Italia repubblicana, ha fatto fallire tutti i tentativi di annullare il divario fra Nord e Sud del Paese. Con una differenza importante: che non esistendo un mercato dei titoli di Stato delle Regioni, le nostre nove regioni in deficit (Lazio più tutto il Sud) hanno potuto mascherare il loro status di territori-cicala molto più a lungo di quanto siano riuscite a fare Grecia, Portogallo, Spagna e Italia.

Quanto all'Italia, la sua malattia è simile a quella delle altre economie deboli, ma presenta almeno due complicazioni importanti. La prima è che una parte del Paese, ovvero tutto il Nord inclusa l'Emilia Romagna (ma esclusa la Liguria), ha istituzioni di livello europeo, e tassi di crescita più bassi del resto d'Europa solo perché - attraverso il massiccio prelievo fiscale cui è soggetta - è costretta a sostenere i consumi delle regioni meno produttive.

La seconda complicazione è la nostra classe dirigente, che - a mio parere - ha cessato di essere tale intorno al 1998, appena perfezionato il nostro ingresso in Europa. La stagione che va da Mani pulite e dal tracollo della lira (1992) alla caduta del primo governo Prodi (1998) fu ancora, nonostante vari limiti ed incertezze, una stagione di riforme, di cambiamenti, di tentativi di modernizzazione. E lo fu indipendentemente dal colore politico dei governi, e con il contributo sofferto, ma tutto sommato costruttivo, delle principali forze sociali, a partire dai sindacati. Non così il dodicennio che va dal 1999 ad oggi, in cui la nostra classe dirigente ha progressivamente abbassato le ambizioni riformiste, fino allo stallo degli ultimi due esecutivi (Prodi e Berlusconi), capaci di competere fra loro solo nell'arte del non governo.

Ed eccoci arrivati al perché il rebus politico italiano non ha alcuna soluzione. Il governo Berlusconi ha negato sistematicamente la gravità della situazione, e proprio sulla base di questa diagnosi errata ha ritenuto di potersi permettere una manovra risibile, in cui l'85% dell'aggiustamento necessario per azzerare il deficit veniva scaricato sulle spalle dei governi futuri. Sarebbe stato stupefacente che i mercati non si accorgessero del bluff. Ed è un bene (o meglio è il male minore) che l'Europa, imponendo l'anticipo al 2013 del pareggio di bilancio, abbia di fatto commissariato l'Italia, sostituendosi a un governo paralizzato. Dunque è vero, questo governo è diventato un problema, se non il problema.

Il nostro guaio, sfortunatamente, è che questa opposizione - anzi queste opposizioni - non sono la soluzione, ma una parte del medesimo problema. E' almeno due anni che l'opposizione è convinta dell'inadeguatezza di questo governo, ma neppure in un tempo così lungo è stata in grado di approntare una diagnosi condivisa e una terapia credibile. E' scoraggiante, in questi giorni, leggere sui giornali la cacofonia di valutazioni e di proposte che arrivano da ogni angolo del cantiere delle opposizioni. E ancora più scoraggiante è la genericità, per non dire il vuoto spinto, dei documenti delle cosiddette parti sociali.

La realtà è che nessuno, oggi, è in grado di dire se le attuali opposizioni sarebbero capaci di formare un governo, e tantomeno che cosa un tale governo ci riserverebbe, al di là delle solite chiacchiere su costi della politica, lotta agli sprechi, contrasto all'evasione fiscale. Eppure il rebus è chiaro: se non vogliamo essere in balia dei mercati bisogna trovare 50 miliardi di euro (più tasse e meno spese), e inoltre bisogna trovarli senza provocare né una recessione né una rivolta sociale.

Ecco perché penso che il rebus sia insolubile. Un'impresa come quella oggi richiesta all' Italia potrebbe tentarla solo una classe dirigente credibile. Dove per credibile non intendo solo un po' meno corrotta e squassata dagli scandali, ma soprattutto più lucida, più unita, più coraggiosa, meno ossessionata dalla ricerca del consenso a breve termine. L'immobilismo e l'impotenza di Berlusconi sono diventati il problema dell'Italia, ma la tragedia del Paese è che le opposizioni non hanno usato il lungo tempo del crepuscolo berlusconiano per diventare, esse, la soluzione che il Paese attende.

Kiruna, Svezia, 150 chilometri a nord del circolo polare artico, sede di una delle più grandi miniere di ferro del mondo, il cui sfruttamento intensivo cominciò già nell’Ottocento. Le 22 mila persone che vivono a Kiruna ora si trovano di fronte a un dilemma: spostare la città verso la collina oppure trasferirsi tutti nella vallata? E le renne? E già le renne dei lapponi, che da quelle parti preferiscono essere chiamati con il nome di Sami, che ne sarà delle renne e dei loro tradizionali percorsi migratori?

SPOSTAMENTO- Il problema diKiruna– se così si può chiamarlo, per altri invece è una benedizione – si chiama Cina. Con l’esplosione industriale del gigante asiatico, in perenne ricerca di materie prime per alimentare i suoi altoforni, Kiruna al debutto del nuovo millennio ha conosciuto una nuova rinascita dopo decenni di lento ma inesorabile declino, seguendo le sorti di molte città minerarie che, con la fine delle attività estrattive, sono a poco a poco diventate città fantasma divorate dalla ruggine e dall’oblio. A Kiruna questo destino è stato risparmiato: laLuossavaara-Kiirunavaara (Lkab), la società statale proprietaria della miniera, nel 2004 iniziò a sondare le autorità cittadine in merito a un progetto di spostamento della città. Passi per la demolizione di alcune abitazioni per questioni di sicurezza per promuovere lo scavo di nuove gallerie della miniera, come già avvenuto in passato, ma spostare l’intera città… Le commesse che vengono dall’altra parte del mondo ci sono, risposero i dirigenti della Lkab, se la miniera, e con lei Kiruna, vuole sopravvivere si deve allargare. E il giacimento passa proprio sotto la città. Non preoccupatevi: paghiamo tutto noi, come chiede la legge svedese.

«NON AVEVAMO SCELTA» - «Sapevamo di non avere scelta», ammette alWall Street Journal, che si è occupato della vicenda, Ann Catrin Fredriksson, assessore all’Urbanistica e all’ambiente di Kiruna. «La nostra città è legata a doppio filo alla Lkab, quindi non c’è stata opposizione. Abbiamo lavorato insieme per trovare le soluzioni migliori, per esempio la compagnia ha accettato di smontare e ricostruire una dozzina di edifici storici». Tra questi il municipio, realizzato in stile modernista agli inizi del Novecento. La società ha investito 460 milioni di dollari (325 milioni di euro) per acquistare terreni, demolire e ricostruire le abitazioni, traslocare le persone e i loro beni. Il programma di trasferimento non avverrà in un colpo solo, ma seguirà l’avanzamento della miniera. Nei prossimi vent’anni si sposteranno circa 3 mila persone. «Per completare l’opera ci vorranno forse cento anni», spiega Johanna Fogman, portavoce della Lkab. Intanto Patrick Stalnache, 45 anni, che nelle gallerie della miniera ci lavora, in aprile ha dovuto lasciare insieme ad altre trenta famiglie la sua abitazione nel centro della città e trasferirsi in periferia. «Senza la miniera, prima o poi Kiruna sarebbe morta», ammette.

LE RENNE - La demolizione degli edifici storici, di alcune case e la costruzione dei nuovi quartieri inizierà il prossimo anno. Il problema maggiore al momento sono le renne. I binari delle ferrovia che trasporta il minerale sono già stati spostati da una parte all’altra della miniera, ma ora tagliano in due i sentieri che le renne dei Sami percorrono da tempi immemorabili per la transumanza, che in primavera avviene verso i pascoli delle colline e, con la caduta delle prime nevi, all’inverso verso i recinti dove ricevono il foraggio dagli allevatori. La Lkab, insieme al municipio e al ministero dei Trasporti, lo scorso ottobre ha costruito un ponte ricoperto di terra ed erba per consentire alle renne di oltrepassare i binari. Ma l’inverno scorso iniziò in anticipo (a Kiruna d’inverno la temperatura può scendere a 40 gradi sottozero), il terreno gelò e le renne non erano in grado di passare sul ponte. I Sami dovettero andare sulle colline con camion e furgoni per salvare le loro renne dall’inverno artico.

A VALLE- A parte le renne dei Sami, il dibattito in città ora è concentrato su dove spostare la chiesa luterana, realizzata tutta in legno nel 1912, che nel 2001 fu votata edificio più popolare di tutta la Svezia. Il municipio ha indicato un terreno vicino all’aeroporto, ma non tutti sono d’accordo. Su una cosa invece si è arrivati a una decisione definitiva: niente colline, Kiruna si sposterà nella vallata a est, vicino al villaggio di Tuolluvaara. Il terreno da quelle parti offre condizioni migliori.

Noi dobbiamo combattere con tutte le nostre forze contro la smania di far correre di più la gente, che ci assilla nella politica dei trasporti terrestri, e che si manifesta, ad esempio, con la tendenza assolutamente antieconomica delle ferrovie a prediligere treni sempre più rapidi. Spesso per far guadagnare ai convogli una mezz’ora di tempo su una percorrenza di otto ore, si spendono somme che non hanno alcun rendimento adeguato, quando si pensi che, con la congestione del traffico cittadino, il guadagno ottenuto con la maggiore velocità dei treni, viene perduto con la lentezza del traffico per andare alla stazione, e viceversa.

Lo stesso si può dire per le autostrade, dove si stanno immobilizzando decine, a volte centinaia di miliardi, in opere che poi costano moltissimo per la manutenzione, che sono adoperate con coefficienti molto al di sotto della loro portata normale, e che in qualche settore potrebbero essere anche rimandate, se si fosse proceduto ad un riassetto delle vecchie strade nazionali parallele, con qualche anello di circonvallazione, per evitare l’attraversamento di grossi centri abitati.

Io ritengo che, per invogliare il turismo, sarebbe stato meglio spostare alcune decine di miliardi di spese della costruzione di autostrade, inutili doppioni di ottime strade nazionali, alla conservazione del nostro patrimonio artistico, alla valorizzazione delle opere d’arte e di archeologia, che restano ignorate per mancanza di adeguata esposizione, o che vanno deteriorandosi per mancanza di personale e di mezzi adeguati. Sono di ieri le discussioni sulla mancanza di controllo nei musei, sulla impossibilità di mettere in mostra centinaia di opere d’arte nascoste nelle cantine dei musei, e sono dovunque note le difficoltà che si incontrano per effettuare scavi o ricerche in zone che potrebbero mettere in luce ricchezze archeologiche di enorme valore, che invoglierebbero i turisti assai di più di qualche cinquantina di chilometri di autostrada, che nei giorni festivi si percorrerebbero più rapidamente a piedi che in macchina.

Oggi, con il titolo "Trasporti e turismo" anche in: E.Corbino, Cronache economiche e politiche, III, Napoli, 1965, pp. 780-83) .

Postilla

Mi chiedo che cosa direbbe oggi il Corbino, e qualunque liberale vero, a proposito delle ultimissime esternazioni - per restare nella sua terra - di Raffaele Lombardo sull’alta velocità in Sicilia o anche, proprio a due passi dalla sua Augusta, a proposito di un’autostrada, la Siracusa-Catania, il cui tracciato fa guadagnare, secondo stime autorevoli, non più di un minuto di tempo rispetto a quello della strada statale esistente, se riadattato secondo l’iniziale progetto dell’Anas! (g. p.)

Al Sindaco di Milano

Noi cittadini milanesi, italiani e del mondo ci rivolgiamo a Lei, signor Sindaco, nel rinnovato tentativo di fermare lo scempio del parcheggio di piazza Sant'Ambrogio.

Sarebbe, infatti, un danno irreversibile trasformare nel tetto di un silos sotterraneo di cinque piani una piazza storica, che di Milano è fulcro simbolico, paragonabile in dignità e significato, pur con le sue eccezionali peculiarità, a piazza del Duomo e a piazza San Pietro. Questo luogo, infatti, custodisce nelle sue fondazioni millenarie le memorie di quei martiri, in onore di cui Ambrogio eresse la prima basilica, in seguito a lui dedicata. E qui è ancora evocata la sacralità dei riti religiosi che nella basilica si svolgevano e trovavano in questo spazio, vissuto dai fedeli di ogni tempo come sacro e pubblico, una loro naturale continuazione di liturgia e devozione. Per questo, ben più recentemente, proprio qui, in questa piazza, è stato edificato il Sacrario dei Caduti, perché, considerandoli nuovi martiri, venisse data continuità a quella memoria sacra, da cui trae origine la più profonda identità cittadina.

E’ la stessa Costituzione italiana (art. 9) e il Codice dei beni culturali (art. 10 e 20) a vietare di per sé la distruzione di una piazza di questa importanza.

Basterebbero, signor Sindaco, per fermare l’obbrobrio, anche semplici considerazioni urbanistiche e viabilistiche: concepito nel 1985, oggi tale parcheggio non ha più senso, perché si troverebbe inserito in modo incongruo in un centro storico che si vuole sempre più chiudere al traffico privato. La zona è inoltre ottimamente servita dai mezzi pubblici e posti-macchina liberi nelle vicinanze non mancano, come nel parcheggio da poco messo in funzione (come da anni si chiedeva) in via Olona.

Che bisogno c'è allora per l’utilità pubblica di costruire un altro parcheggio? Sarebbe solo l'ennesimo esempio di privatizzazione dello spazio pubblico a beneficio di pochi.

In campagna elettorale abbiamo accolto come una promessa la Sua affermazione che avrebbe sospeso i parcheggi delle piazze Lavater e Sant'Ambrogio.

Sappiamo che le titubanze della nuova Amministrazione sono di ordine economico, motivate dagli svariati milioni di euro di penali -hanno riportato i quotidiani- che il Comune di Milano dovrebbe pagare all’impresa costruttrice in caso di cancellazione dell'opera. La cifra, dovuta dal Comune a titolo di rimborso delle spese ad oggi sostenute dall’impresa (danno emergente), merita, a nostro avviso, una seria verifica pubblica e l’esame di forme alternative di risarcimento, che valgano di compensazione. Vorremmo, infatti, che sull'altro piatto della bilancia venisse considerato in tutto il suo peso il danno risultante dalla profonda e definitiva modificazione e banalizzazione della piazza, conseguente alla realizzazione di un parcheggio sotterraneo (con pensiline, griglie di aerazione, scivoli di entrata e uscita e stenti alberelli a cosmesi del tutto): questa sì una penale di cui pagare perennemente il prezzo per quanti, nel mondo intero, riconoscono in piazza S. Ambrogio una risorsa impareggiabile di ricchezza storica e artistica.

Qualcuno ha cercato di dimostrare che il parcheggio, lungi dallo snaturare la piazza, migliorerebbe quello che appariva oggi come spazio informe, snaturato dalla sosta selvaggia, profondamente alterato e ricostruito nei secoli, soprattutto dopo i devastanti bombardamenti che colpirono Milano nel 1943. Ma far dipendere la tutela di un bene storico dalla sua integrità “originaria” farebbe escludere da ogni protezione qualunque testimonianza del passato, anche il Duomo di Milano (la cui facciata attuale risale al XIX secolo) o la stessa Scala (bombardata nel 1943), solo per citare degli esempi. La piazza si può ben migliorare, liberandola dalle auto in superficie, anche senza il parcheggio!

Ripetiamo che, se anche l'opera ha tutti i nullaosta necessari, a partire dalle Soprintendenze, la conversione a tetto di pubblica autorimessa di un bene culturale è destinazione distruttiva e incompatibile con il vincolo di tutela: l'autorizzazione della Soprintendenza, concessa con molte incertezze e piegata, a detta degli stessi responsabili, a decisioni politiche, non vale certo a legittimare l'intervento vietato dal Codice dei beni culturali.

Per questo, signor Sindaco, ricorriamo alla Sua autorità perché quanto è stato compiuto di sbagliato nel passato venga ora corretto, riaffermando quei principi di tutela che con vigore si devono far valere. Per un ripensamento, sospenda i lavori in corso.

Per aderire all’appello

Giorgio Ruffolo ha scritto un libro dal titolo un po' provocatorio, Il capitalismo ha i secoli contati, e presiede il Centro Europa ricerche (Cer). Di fronte a questa crisi che dici?

Dico che la conta si è accelerata. Continuo a non parlare di crollo, ma è certo che la crisi, la più grave dagli anni trenta del secolo scorso, segna un momento di profonda trasformazione.

Ma qualcosa è cambiato nel nostro capitalismo?

A tre quarti del secolo scorso c'è stata una vera e propria mutazione. Siamo passati dal capitalismo manageriale al capitalismo finanziario. Il primo aveva accettato di subordinare le prospettive di profitto a una politica dei redditi che sanciva un compromesso storico tra democrazia e capitalismo, con il passaggio dalla massimizzazione alla normalizzazione del profitto. Oggi siamo tornati a un regime di esasperata massimizzazione del profitto e nel più breve periodo, con la conseguenza di una mostruosa esplosione delle diseguaglianze. Le conseguenze devastanti di quelle diseguaglianze sulla compressione della domanda sono state evitate ricorrendo massicciamente all'indebitamento, come dire ai posteri. Con la conseguenza di uno sfrenato aumento della liquidità. Alla vigilia della crisi, nel 2007, la liquidità mondiale aveva raggiunto un livello dodici volte superiore al prodotto reale mondiale, di qui la crisi che ha coronato la controffensiva capitalistica. La controffensiva capitalistica è iniziata negli anni '70 con il distacco del dollaro dall'oro ed è esplosa negli anni '80 con la liberalizzazione del movimento mondiale dei capitali, liquidando gli accordi di Bretton Woods, che garantivano, con le limitazioni al movimento dei capitali, le politiche macroeconomiche dei governi. Con la controrivoluzione tatcheriana e reaganiana sono stati ribaltati sia i rapporti di forza tra capitalismo e stati nazionali, sia quelli tra capitale e lavoro. E' finita quella che un grande storico marxista come Hobsbawn aveva definito l'età dell'oro.

Ma c'è qualche differenza tra questa crisi e quella del '29?

Certamente. A fronteggiare quella crisi ci fu l'intervento pubblico: il new deal rooseveltiano e a destra la crescita dello stato in Germania e in Italia, pensa solo all'Iri e alla nazionalizzazione delle banche. Non dimentichiamo il catastrofico ma risolutivo peso della seconda guerra mondiale. Oggi la situazione è molto diversa: dappertutto cresce il debito pubblico. Il peso di un gigantesco salvataggio è stato tutto posto sugli Stati, senza toccare minimamente i redditi e il potere della nuova plutocrazia finanziaria. E al danno si aggiunge anche la beffa: banchieri e finanzieri rimproverano duramente gli stati per un indebitamento che è in gran parte dovuto al loro salvataggio. Non solo: come ci avverte De Cecco, ci sono banche che si sono messe a speculare sul default dello Stato.

In questa crisi generale c'è uno specifico italiano?

Sì, l'incertezza e il teatrale e repentino cambio di marcia sulla manovra, messo in scena dal presidente del Consiglio e dal ministro dell'Economia, tradisce l'incertezza esistenziale di questo governo, ma non altera l'impostazione della manovra. Il suo punto critico non stava nell'entità e nei tempi (secondo i calcoli del Cer, 105 e non 80 miliardi di euro come si è detto, e non tutti concentrati alla fine, ma equamente distribuiti negli anni) e non si risolve con anticipazioni. I suoi punti critici stanno anzitutto nella credibilità di un governo, il cui presidente ha negato per anni la crisi, minimizzandone poi l'importanza fino all'altroieri e, soprattutto nell'impostazione iniqua e recessiva della manovra. Il fatto grave è appunto che la manovra è recessiva, non stimola ma frena la crescita. E ciò essenzialmente per effetto delle restrizioni fiscali, che costituiscono poco meno dei due terzi delle correzioni previste. Una grande manovra avrebbe richiesto (vedi la proposta di Giuliano Amato) un'imposta patrimoniale straordinaria accompagnata dal vincolo immediato del pareggio di bilancio e dalla utilizzazione del prelievo in un forte programma di investimenti e ricerca. Questo dovrebbe proporre la sinistra, che trema al solo pensarci.

Ma in tutto questo non c'è anche una crisi della politica e della cultura?

Quel che oggi rimane della sinistra appare piuttosto inquinato da una cattiva imitazione dai «valori» e dalle pratiche del mercato. Nessuna traccia di un progetto umano ideale alla Marx. Nessuna traccia di un riformismo pratico alla Keynes che fissi le regole di un'economia ecologicamente, socialmente e moralmente giusta.

A tanti anni di distanza che dici della caduta del Muro di Berlino?

Fatte tutte le considerazioni del caso mi verrebbe da dire che il socialismo reale (cosiddetto) che c'era prima era un disastro e che un altro disastro lo ha sostituito. Finito il socialismo reale c'è stato lo scatenamento, in economia, delle pulsioni speculative. Non c'era più il nemico e si poteva fare di tutto. E quel che è stato fatto ci ha portato alla condizione attuale.

Hobsbawm, che tu hai citato, dice che bisogna tornare a Marx. Condividi?

Non certo al suo programma, fallimentare, ma alla sua ispirazione ideale e al suo metodo di analisi storica certamente sì. Magari ci fosse. E magari ci fosse un Keynes che traducesse quella ispirazione in buon riformismo liberale e socialdemocratico. Io voterei per loro.

Politico e economista, Giorgio Ruffolo è presidente del Centro Europa ricerche, che realizza studi e analisi di economia applicata e fornisce ad autorità nazionali e internazionali valutazioni e commenti su prospettive economiche e tendenze della finanza pubblica. Il Cer svolge inoltre attività di ricerca, formazione e consulenza per istituzioni e amministrazioni pubbliche, aziende bancarie e assicurative, industrie, associazioni di categoria.

Nella città proibita la natura si riprende i suoi spazi. Avanza l’edera, la Bora semina fiori di campo che crescono fra le crepe dei balconi, sui muri, sui tetti. Le erbacce si moltiplicano lungo i binari che non portano più da nessuna parte. Strano, però. Non c’è nulla di cupo in tutto questo. Nessun senso di desolazione. Piuttosto una sensazione di quiete come quella che assale quando si entra in una chiesa. Silenzio e contemplazione. Eccolo, il Porto vecchio di Trieste, un luogo a parte. Unico, decadente eppure magnifico. Una città nascosta e vietata da sempre, con i suoi settecentomila metri quadrati di archeologia industriale, ruggine e storia, con le sue mille e mille finestre che sembrano occhi pronti a seguirti.

«Che posto fantastico» si dicono l’un l’altra due vecchie signore che camminano lente in direzione del Magazzino 26. E non hanno visto niente... Chissà che direbbero davanti all’incanto della vecchia locanda dal tetto ormai d’erba, chissà che facce estasiate di fronte all’hangar numero 6, fra il blu del cielo e del mare che si confondono e la gigantesca gru idraulica corrosa dal tempo ma ugualmente bella. Facile immaginare il loro stupore se potessero passeggiare lungo il boulevard principale di questa città latente, nata, cresciuta e abbandonata fra le braccia di una Trieste che l’ha sempre custodita senza conoscerla. Il boulevard e, in fondo, colle San Giusto. Ma non accadrà niente di tutto ciò. Non a breve, quantomeno. Le due vecchie signore dovranno accontentarsi di aver visto il maestoso Magazzino 26, ristrutturato e aperto al pubblico in via del tutto eccezionale per la Biennale diffusa.

Se proprio volessero potrebbero sbirciare un po’ fra le fessure dei container che delimitano la parte accessibile da quella no. Un’occhiata attraverso la rete, ecco: quella sì. Ma vuoi mettere? Entrare nella zona off-limits, osservare da vicino i vecchi edifici, arrivare fino ai moli, fermarsi sui dettagli delle colonne in ghisa, costeggiare gli abbeveratoi degli animali che un tempo partivano da queste banchine per paesi lontani... Non si può. Proibito. Perché siamo in un territorio di porto franco e le regole che valgono al di là del muro, cioè nella città di tutti, nel Porto vecchio diventano carta straccia. Entrano soltanto gli addetti ai lavori, in pratica. E da quando c’è il nuovo scalo sono sempre meno gli spedizionieri che si servono di quello vecchio. O meglio: della minima parte che ancora funziona.

«La maggioranza dei triestini non è mai entrata qui dentro» conferma Corrado De Francisco, direttore sviluppo di Portocittà, la società che ha ottenuto la concessione per rinnovare 45 ettari su 70. A dire il vero, qualche visita è stata possibile nel 2001 quando, con uno strappo alle regole, per poche occasioni fu aperto al pubblico e raggiungibile con le locomotive. «Ma è arrivato il momento di restituire questo posto bellissimo a Trieste e al mondo» , annuncia ora De Francisco. Facile a dirsi, complicatissimo a farsi. Soprattutto per le difficoltà giuridiche legate, appunto, al regime di porto franco. C’è voluta la famosa pazienza di Giobbe, prima ancora che i finanziamenti e i lavori, per far rinascere il Magazzino 26 e consegnarlo a triestini e turisti. Una sospensione delle regole possibile finché la mostra resterà aperta. E dopo?

L’intenzione è «resistere, resistere, resistere» , come direbbe l’ex procuratore capo di Milano Francesco Saverio Borrelli. Resistere con i cancelli aperti e nuovi eventi anche dopo la Biennale diffusa. Resistere perché la processione incessante di gente che arriva anche solo per dare un’occhiata ai Magazzini da lontano dimostra un interesse che nemmeno i più ottimisti avevano messo in conto. Resistere per fare di quest’apertura straordinaria un punto di partenza, non d’arrivo. E poi «perché è un peccato mortale avere edifici unici al mondo e tenerli nascosti e inutilizzati» , considera l’architetto Antonella Caroli, ex presidente di Italia Nostra di Trieste e da trent’anni a questa parte cresciuta a pane e Porto vecchio. Lei e questa città sconosciuta sono più o meno la stessa cosa e non c’è nulla che le sfugga: particolari, aneddoti, progetti, macchinari, planimetrie, riferimenti storici e architettonici.

«Qui si scaricavano cotone, noccioline, botti di vino, uva, qui il legname» descrive passando davanti a questo o quel fabbricato. «Le merci più leggere ai piani superiori, le altre e gli animali al piano terra» . Al Magazzino 26 c’erano sacchi e sacchi di caffè in transito, per esempio. La dottoressa Caroli dice che «i vecchi triestini che hanno lavorato qui raccontano che su quei sacchi si faceva anche all’amore, qualche volta» . La storia della città proibita è legata all’imperatore Carlo VI che nell’anno 1719 dichiarò la citta di Trieste porto franco. Nel 1891, mentre il Porto vecchio era in fase avanzata di costruzione, il territorio del porto franco venne ridotto: da quel punto in poi sarebbe stato delimitato da un muro di cinta e da varchi doganali. Ed ecco: la superficie coincise esattamente con l’area portuale vietata di oggi. All’inizio del Novecento il Porto vecchio era affollato di merci e gente.

E a passare davanti a questi edifici dove il tempo è rimasto immobile, quasi sembra di vederli, i portuali al lavoro. Quasi si sentono le voci, il rumore della centrale idrodinamica, delle gru, i treni e i carri che affiancano i «perron» , marciapiedi alti al punto giusto per facilitare le operazioni di carico-scarico. Si può immaginare la vita scorrere in queste strade ora deserte. Basta dare un’occhiata al Giornale edile, diario di bordo, diciamo così, di imprese e squadre di lavoro: sono annotati attività, particolari tecnici e condizioni del tempo. Prendi il 1901, per esempio. Dice la nota del 14 gennaio: «stato dell’atmosfera sfavorevole, causa mare agitato e alta marea non si può lavorare...» .

E l’immagine di quel giorno prende forma. Nel 1926, quando si chiudono le relazioni con i porti del Nord Europa (in particolare con Amburgo) comincia il declino. Nel 1929 la crisi mondiale e la riduzione degli scambi commerciali aggravano la situazione, bisognerà aspettare il dopoguerra per rivedere miglioramenti ma anche un’insidia: il nuovo porto, studiato per movimentare i container che invece nel vecchio scalo sono difficili da gestire. Il risultato è che negli anni Settanta gran parte del traffico portuale finisce sulla struttura nuova e la vecchia città proibita viene quasi del tutto abbandonata. Nei Magazzini 24 e 25 hanno resistito gli animali fino al 2007: mucche, capre, pecore, qualche maiale. Aspettavano l’imbarco nei locali-stalla del pian terreno e ancora adesso c’è del fieno stipato negli stanzoni del primo piano. Nel fabbricato 19 c’è un museo involontario: sono mobili, vettovaglie, soprammobili, oggetti di vita quotidiana appartenuti a istriani e dalmati che alla fine della guerra furono costretti ad abbandonare le loro terre per andare chissà dove.

Il Porto vecchio doveva essere un deposito temporaneo, «invece nessuno è più tornato a riprendere armadi, sedie, pentole... E su ogni cosa c’è ancora il cartoncino con nomi, cognomi e provenienza» spiega l’architetto Rossella Gerbini, progettista di Portocittà. Dentro, i fabbricati abbandonati sono uno spettacolo: gli occhi planano su archi e colonne in fila, sui colori delicati di pietre e mattoni, sulle nervature metalliche che dividono un piano dall’altro, sui raggi di sole che disegnano simmetrie di luce. Un po’ di tutto questo si può vedere nei film C’era una volta in America di Sergio Leone e Il Padrino, di Francis Ford Coppola, che per girare alcune scene hanno scelto come location proprio l’interno dei Magazzini del Porto vecchio. Chissà se lo sanno, le due vecchie signore...

Realizzare nuovi porti turistici riconvertendo quelli commerciali dismessi. Una soluzione semplice, economica, sostenibile per combattere la cementificazione delle coste italiane rispondendo, allo stesso tempo, alla continua richiesta di nuovi posti barca. Va in questa direzione il protocollo sulla nautica sostenibile sottoscritto da ministero dell'Ambiente, operatori del settore ed enti gestori delle aree protette.

''I porti in disuso - spiega Stefano Donati, della direzione Protezione Natura e Mare del Minambiente - sono un centinaio. La loro conversione può consentire la creazione di circa 30.000 nuovi posti barca, senza aumentare le superfici cementificate sulle coste''. Anche secondo Legambiente, le infrastrutture dedicate alla nautica da diporto sarebbero tra i principali responsabili dell'impatto ambientale, in un settore generalmente sano e poco incidente sull'inquinamento marino.

Colpa, secondo Sebastiano Venneri, vicepresidente di Legambiente, di un ''malcostume dilagante per cui la realizzazione di queste strutture spesso non ha niente a che fare con le esigenze della nautica''. Le richieste dei diportisti mirano soprattutto all'aumento dei 140mila posti barca presenti oggi in Italia. ''Richieste legittime - commenta Venneri - alle quali si potrebbe rispondere senza aumentare il volume commerciale a terra, riutilizzando le strutture già esistenti".

"Oggi, invece, la costruzione di porti turistici - aggiunge Venneri - nasconde speculazioni commerciali, con tutto l'impatto sull'ambiente che ne deriva: erosione della costa e artificializzazione del litorale con ricadute sull'ecosistema e sull'economia locale''. Il problema di fondo sta, secondo il vicepresidente di Legambiente, nella pianificazione dei porti turistici, ''sottratta al controllo nazionale e affidata alle autonomie locali, comuni e regioni".

"Naturalmente - spiega Venneri - ogni comune vuole il suo porto turistico ed è così che ci troviamo di fronte a situazioni come quella del Porto di Villasimius che si è mangiato la Spiaggia del Riso e altri esempi di cattive realizzazioni''. Ma non mancano i buoni esempi, come il Porto di Acciaroli voluto dal ''sindaco pescatore'', Angelo Vassallo, ''realizzato con grande garbo e delicatezza e senza nulla togliere all'atmosfera propria del borgo marinaro della località, a dimostrazione che volendo tutto si può fare, nel rispetto dell'ambiente'', sottolinea Venneri.

A favore della cultura e dello sviluppo di una nautica sostenibile, il protocollo sottoscritto dal ministero dell'Ambiente prevede anche la realizzazione di campi boa a basso impatto. Anche in questo caso, si tratta di realizzare posti barca attraverso l'ancoraggio di cavitelli al fondale, evitando così il ricorso al cemento o a strutture che potrebbero impattare in maniera significativa sull'ecosistema.

Sul versante inquinamento, ogni barca ha la possibilità di raccogliere le acque nere e grigie, ma il problema di fondo è di nuovo nei porti, non sempre attrezzati per lo smaltimento, e nella normativa: è infatti obbligatorio per i costruttori predisporre la barca alle casse di raccolta delle acque nere, ma l'acquirente può scegliere se acquistare le casse oppure no.

E mentre il mare è in grado di smaltire perfettamente i reflui, un problema più grave è rappresentato dall'inquinamento chimico causato dagli oli esausti e dalle vernici, sebbene il loro impatto rappresenti sempre una percentuale relativamente contenuta (per farsi un'idea, basta pensare che il lavaggio di una cisterna causa, da solo, un danno ambientale pari a quello derivato da tutti i turisti da diporto).

Per migliorare la sensibilità dei diportisti in materia di difesa dell'ambiente marino, ''sarebbe utile -spiega Stefano Donati, della direzione Protezione natura e mare del Minambiente- prevedere un corpus di norme ambientali per il rilascio della patente nautica. In genere, il diportista tende a non essere ben informato. Al massimo si informa quando ha già commesso delle infrazioni''.

Tre giorni da "sogno" con la Riviera del Brenta in festa per i beni comuni. Dal 14 al 16 agosto al ristorante cooperativo La Ragnatela (a Scaltenigo di Mirano) ci sarà una tavolata per tutti, buona musica e come sempre grande attenzione al territorio. Quest'angolo di Veneto - fra ville palladiane e scampoli di natura - rischia di essere letteralmente sommerso da una colata di cemento. I Comitati Ambiente e Territorio dall'agosto 2007 sono impegnati a manifestare contro la "città delle gru" che mina il futuro di un'area a cavallo fra padovano e veneziano. «I nuovi progetti autostradali come la camionabile al posto dell' abbandonata Idrovia, il nuovo elettrodotto Terna da 380.000 Volt; la cosiddetta Romea commerciale con una bretella di collegamento al Passante di Mestre che attraverserebbe Sambruson di Dolo tagliando l'asse storico del Naviglio con le sue ville. E poi i nuovi progetti insediativi di milioni di metri cubi della cosiddetta Veneto City fra Dolo, Pianiga e Mirano, ma anche la Città della Moda a Fiesso d'Artico. Tutte ferite, forse mortali, per questo territorio e per il suo paesaggio» spiegano gli attivisti del Cat. Se ne riparlerà alla tradizionale festa estiva, promossa dalla coop La Ragnatela che ha ormai conquistato chiunque sia affezionato allo Slow Food e alla buona cucina con prodotti a chilometro zero.

"WeHave a Dream" recita lo slogan dell'edizione 2011 con tanto di Hyde Park a Scaltenigo per indignarsi e ritrovarsi nello spirito vincente dei referendum. Si comincia domenica 14 agosto alle ore 18 con Carlotta Mancuso che svela i sogni di Emergency e Libera, mentre alle 21 è annunciato Francesco Baldini con i suoi stravaganti ospiti incogniti in concerto.

A Ferragosto il programma prevede alle 12 cittadini comuni e ospiti "illustri" intorno alla stessa tavolata. Nel pomeriggio, Manjari e sapori dal Madagascar con la performance di Alessandro Ferrotti. Alle ore 18, “mi no digo gnente ma gnanca taso” (tipica espressione veneta: non dico nulla, me nemmeno taccio) con protagonisti proprio i comitati che si sono messi in testa di salvare la Riviera del Brenta dalle Grandi Speculazioni dei padroni del "ciclo del mattone". Intervengono Mattia Donadel e Roberta Manzi del Cat. In serata, blues e rock per tutti. Il bollettino InCATzati è più che esplicito: «Una decina d'anni dopo la costituzione della società Veneto City spa, il sogno dell'ingegner Luigi Endrizzi (che a Padova Est è stato l'artefice dell'operazione Ikea) comincia a concretizzarsi. Con la firma della bozza di accordo di programma tra Regione, Provincia, amministrazioni di Dolo e Pianiga e la società Veneto City spa (di cui Endrizzi è presidente, mentre Rinaldo Panzarini, già direttore della Cassa di Risparmio del Veneto, è l'amministratore delegato).

Progetto diviso in due fasi. La prima, che copre i prossimi dieci anni, prevede la realizzazione di 500mila metri cubi di superficie suddivisi secondo varie funzioni su di un'area di 715.000 metri quadri. Valore stimato dell'operazione, circa 2 miliardi di euro; alle amministrazioni interessate andranno i contributi di costruzione - stima sui 50 milioni - e i futuri proventi dell'Ici ripartiti all'80% per il comune di Dolo e il 20 % per quello di Pianiga». Ecco, in piena estate c'è ancora chi si prende la libertà di sognare ad occhi aperti un altro "sviluppo". Alternativo, finalmente, alla Veneto Connection di politica & affari. Un futuro di libertà, almeno dall'urbanistica formato cemento.

Il vecchio Ovidio Marras guarda il grande resort della Sitas, sferzato dal vento di mare che solleva la polvere dei cantieri. Si trova proprio là, pochi metri dal suo antico furriadroxiu dove vive da una vita. I lavori di costruzione sono quasi finiti, c'è uno sfregio profondo nella natura magica di Tuerredda. Ma forse non per sempre, forse non è ancora finita.

Perchè Ovidio sorride, i suoi occhi brillano e lo sguardo si apre alimentato da un orgoglio che non si perde in facili trionfi: «Sì ho vinto io, me l'hanno detto. Adesso i padovani devono demolire...». Gliel'hanno detto ma non sa ancora tutto. Non sa che sulle pagine di Facebook è una specie di eroe dell'indipendenza sarda: quasi cinquemila link conducono alla notizia del pastore Davide che ha sconfitto in tribunale l'impresa Golia, l'alleanza fra costruttori, banchieri e finanzieri che vuole trasformare l'incanto naturale di Malfatano, sulla costa teuladina, in un paradiso per miliardari. Sul social network e sul sito della Nuova Sardegna i commenti sono segnati da grandi esclamativi di gioia: «Ovidio, sei un mito». Poi «Ovidio sei tutti noi» e «grazie Ovidio, la Sardegna è con te».

Fra opinioni in lotta e voci sparse che difendono comunque «i posti di lavoro» offerti dall'ultima grande speculazione turistico-edilizia della costa sarda, c'è chi ha postato l'immagine del pastore, quel corpo ossuto, la pelle bruciata dal tempo e dal sole, come fosse il simbolo vivente di un riscatto storico. Batman avrebbe un costume metallico e l'icona di un pipistrello sul torace, Che Guevara scruterebbe l'orizzonte dell'Avana con gli occhi tenebrosi del rivoluzionario. Ma lui è solo Ovidio di Malfatano, ha il nome di un poeta ma è nato e cresciuto a trecento metri dalle onde di Tuerredda. Un uomo di campagna che vorrebbe vivere quanto gli resta nel silenzio e tra i profumi del solo luogo compatibile con se stesso. Così l'estate la passa a torso nudo, i pantaloni appesi ai resti d'un cinto che sembra tenersi insieme grazie a un'ignota perizia artigiana: «Feis... feis.. itta esti...? No no lassaus perdiri». Allora lasciamo perdere Facebook e parliamo dell'ordinanza firmata dal tribunale di Cagliari, quella che ha disposto la demolizione dell'hotel messo in piedi dai costruttori nordisti, i nemici storici di Ovidio.

Mentre dal cantiere arrivano gli echi degli operai che mangiano e festeggiano chissà che cosa: «Quella è la strada mia - indica, in un dialetto stretto, accovacciato comodamente su una delle seggiole lillipuziane della sua dimora antica - gliel'avevo detto a novembre del 2009 che non dovevano toccarla. Il terreno è dei padovani, ma la strada è anche la mia. Allora? Ragione ho avuto?». Per i giudici sì, ha avuto ragione. Ed ora l'esecuzione dell'ordine dipende soltanto da Ovidio. E' lui che deve accendere il motore del bulldozer con una telefonata all'avvocato Andrea Pogliani, chiamato a mettere in esecuzione un provvedimento inappellabile: «Per me si demolisce - taglia corto e fa un gesto secco - solo che andava fatto prima, a novembre... E' allora che bisognava fermarli». Ed è qui, su questo ritardo sospetto e anomalo, che affiora dai ricordi dell'anziano pastore una vicenda da approfondire: quando la squadra di operai della Sitas ha piazzato il cancello sulla stradina, quella di cui Marras detiene il compossesso, la cosa non è passata liscia. Consulto familiare e subito una visita alla caserma dei carabinieri: «Abbiamo fatto la denuncia, la denuncia scritta...» ricorda Ovidio facendosi serissimo.

Poi però la denuncia è stata ritirata e in caserma è rimasta solo una fotocopia. Il perchè è confuso tra i tanti piccoli misteri che circondano questa vicenda di ordinaria speculazione, dove protagonisti e comprimari sembrano confondere i propri ruoli in base a interessi da verificare: «S'abogau - scuote la testa il vecchio pastore di Malfatano - è stato l'avvocato Paolo Francesco Calmetta di Milano a dirci che la denuncia andava ritirata». Ovidio scandisce i nomi e il cognome del legale lombardo, quasi volesse scolpirne i caratteri nella mente di chi l'ascolta: «Ce l'aveva consigliato un amico tedesco, quell'avvocato... bravo, diceva... s'è visto. Ci ha detto che non conveniva denunciare, che bisognava aspettare. Ecco qua, hanno costruito tutto e adesso va a buttare giù...».

Domanda inevitabile: perchè quell'attesa? Un ricorso d'urgenza al tribunale civile, com'è avvenuto solo un anno più tardi attraverso lo studio dell'avvocato Alberto Luminoso, avrebbe bloccato i lavori sul nascere. Poi, senza un'assenso scritto della famiglia Marras, la Sitas sarebbe stata costretta a rivoluzionare il progetto: spostare l'hotel e di conseguenza gli edifici di servizio che s'irradiano dal corpo centrale del resort. Varianti, nuove autorizzazioni, ricorsi e controricorsi: «Mai più avrebbero costruito» scuote la testa Ovidio, stringendo un po' di più la cinta sui pantaloni, più grandi di due taglie. C'è del vero nella sua riflessione semplice, che rispecchia una volontà espressa ossessivamente: «Vendere? No, io non vendo. Non vendo e basta... demoliscano, non demoliscano, io comunque resto qui». Con le sue poche pecore, un cagnetto («attenti, mussiara») nascosto sotto un vecchio attrezzo di legno e quattro gattini che volano agilissimi da un muretto all'altro alle spalle del furriadroxiu, dove c'è solo vegetazione intatta e il resort dei padovani non si vede. Da qui, da dietro la piccola casa arredata con le cose utili al lavoro, s'innalza una piccola collina da cui è possibile ammirare un panorama strabiliante: da Tuerredda fino a Malfatano dove attraccavano millenni fa le navi dei Fenici e dei Romani. Il porto della speranza che nel 2011 è minacciato da progetti di urbanizzazione, ville di lusso, edifici da offrire ai russi per fare cassa sull'ambiente.

I mattoni e il cemento, investimenti sulla morte dei luoghi e del paesaggio, pochi ricchi impegnati a cacciare dalle proprie terre chi le abita da secoli. E' contro questa minaccia, ormai realtà visibile, che il popolo di Facebook si è mobilitato e ha fatto del pastore di Malfatano il proprio eroe inconsapevole ma fiero. Il sole di mezzogiorno picchia duro su Tuerredda, dal piccolo orto del furriadroxiu si distinguono le voci dei bambini che giocano sulla spiaggia. Ovidio attraversa la porta e guarda da quella parte, dalla parte del mare. Poi va incontro agli operai del cantiere Sitas, al servizio dei padovani. Li saluta e sorride: gente che lavora, non è con loro che ce l'ha.

Su eddyburg vedi anche la denuncia di Maria Paola Morittu (Italia Nostra) che ha aperto la vertenza Malfatano, i pomodori di Ovidio e i mattoni dei padovani, e gli articoli Malfatano resort, 5 stelle di cemento e Malfatano, ultimo scempio

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